Pares Vires

di Charlize_Rei
(/viewuser.php?uid=314)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Pares Vires ***
Capitolo 2: *** Silentium Vivorum - parte I ***
Capitolo 3: *** Silentium Vivorum - parte II ***
Capitolo 4: *** Silentium Vivorum - parte III ***
Capitolo 5: *** Contumacia - parte I ***
Capitolo 6: *** Contumacia - parte II ***
Capitolo 7: *** Stella Atra ***
Capitolo 8: *** Geenna et Regnum Caeli ***
Capitolo 9: *** Geenna et Regnum Caeli ,parte seconda ***
Capitolo 10: *** Geenna et Regnum Caeli - parte terza - ***
Capitolo 11: *** Ara Pacis ***
Capitolo 12: *** Sanguinis Revocatio ***
Capitolo 13: *** Sanguinis Revocatio - parte seconda - ***
Capitolo 14: *** Cines et germines - parte I ***
Capitolo 15: *** Cinis et Germines - parte II ***
Capitolo 16: *** Alea iacta est ***
Capitolo 17: *** Ex nihilo te creavi ***
Capitolo 18: *** Silentii Vestigia ***
Capitolo 19: *** Inter Digitos ***
Capitolo 20: *** Ab imis fundamentis ***



Capitolo 1
*** Pares Vires ***


Morsmordre

Disclaimer: Bellatrix Lestrange e gli altri personaggi che compaiono in questa fanfiction sono proprietà di J.K. Rowling e di editori come Bloomsbury, Bros, Salani. Nessuna violazione del copyright si ritiene pertanto intesa.

 

“ Bisogna essere sempre ubriachi.

E’ tutto lì il problema.

Per non sentire l’orribile fardello del Tempo che vi spezza le spalle e vi piega verso la terra, dovete ubriacarvi senza sosta.

Ma di cosa?

Di vino, di poesia o di virtù, a vostra scelta.

Ma ubriacatevi.

E se qualche volta, sui gradini di un palazzo, sull’erba verde di un fossato, nella tetra solitudine della vostra camera, voi vi risvegliate con l’ubriachezza già diminuita o scomparsa, domandate al vento, all’onda, alla stella, all’uccello, all’orologio, a tutto ciò che fugge, a tutto ciò che geme, a tutto ciò che gira, a tutto ciò che canta, a tutto ciò che parla, domandate che ora è; ed il vento, l’onda, la stella, l’uccello, l’orologio vi risponderanno: - E’ l’ora di ubriacarsi!

Per non essere gli schiavi martirizzati del Tempo, ubriacatevi, ubriacatevi senza sosta!

Di vino, di poesia o di virtù, a vostra scelta”

 

Charles Baudelaire,  ˝Enivrez-vous˝; Le Spleen de Paris - Petits Poëmes en prose

 

 

Pares Vires

- Forze in equilibrio -

 

 

- Alzati, Bella -

La sua voce era poco più che un sussurro, un sussurro che sapeva di ghiaccio e di fuoco. La voce in cui si dissolvevano gli antipodi.

Bellatrix Lestrange alzò il mento sottile ed i suoi occhi ardenti si posarono con muta adorazione su quella figura ammantata di nero che stava avanzando verso di lei, quasi scivolasse nell’aria. Rimase in ginocchio ancora per qualche istante, fissando gli occhi di rubino del suo Signore… sarebbe stata disposta ad ardere nelle fiamme perenni pur di poter continuare ad adorare quelle polle di sangue, rosse, infinite, abissali.

E poi si alzò, lentamente, riabbassando lo sguardo verso il pavimento di pietra nuda.

Lord Voldemort era lì di fronte a lei, la sua aura potente avvolgeva entrambi, come se continuamente emanata da una fonte inesauribile.

Un’aura dolorosa.

Un’aura irresistibile.

Morte, potere, immortalità, amore, sofferenza, piacere… Era tutto con Lui, tutto in Lui, e tutto scaturiva da Lui. La donna non osò muoversi, mentre quel potere la pervadeva, la inebriava, inchiodandosi in ogni centimetro della sua pelle, insinuandosi in ogni anfratto del suo spirito che bramava di ubriacarsi di Lui, della sua forza, della sua trascendenza.

- Mio Signore – rispose lei, e le parole vibrarono in accordo con il suo animo incandescente, forgiato da quelle pupille feline, plasmato dalla Sua volontà, infiammato d’amore insano per Lui, il suo principio e il suo eskathos, lo scopo ultimo di un’esistenza.

- Voglio che tu faccia qualcosa per me, Bella –  sussurrò Voldemort, muovendo appena le bianche cicatrici sottilissime che sostituivano le sue labbra – ma spetta a te decidere se accettare. Sarai sola, stavolta. Ti senti pronta? – concluse, mentre una strana espressione gli sfiorava i lineamenti sottili, soffermandosi sul suo volto d’alabastro solo un istante, gli occhi scarlatti che riflettevano le fiamme guizzanti delle torce ai lati dei muri.

Bellatrix fremette. Stava riferendosi a Rodolphus… a lui, che non c’era più. A lui, che l’aveva lasciata, spirando tra le sue braccia; a lui, i cui ultimi pensieri erano stati per lei, ancor prima che per il suo Signore, che più adorava sopra ogni altra cosa.

Rodolphus aveva lasciato una voragine slabbrata, ed il suo ricordo bruciò come una ferita sanguinante toccata da una mano ruvida. Una voragine che s’inabissava, sempre di più, sempre più giù, inarrestabile, incalcolabile, ai limiti della sopportazione umana, e che squarciava violentemente anche la protezione della follia.

Ma le parole del suo Signore erano miele, erano balsamo refrigerante, erano rigenerazione: le aveva chiesto se si sentiva pronta.

Conosceva fino a che punto il suo animo fosse dilaniato. Un punto di non-ritorno, se non ci fosse stato Lui.

Il solo che riusciva a vedere nella follia provocata dai lunghi anni di prigionia in Azkaban una mente sorprendentemente lucida.

Il solo che non aveva timore ( e perché avrebbe dovuto averne!) di fissare a lungo quei suoi occhi neri e immensi e roventi di pazzia, di amore, di insania, due finestre spalancate su di un animo torbido, che diventava trasparente come diamante ogni qual volta gli occhi sanguigni del Lord Oscuro lo scrutavano fino a toccarne il fondo.

- Sono pronta, mio Signore – e la sua voce si mantenne salda e corposa. Si sentiva forte, potente, inarrestabile… perché la Sua mano e la Sua mente l’avrebbero guidata, sempre.

- Voglio che tu vada ad Azkaban. E’ giunto il momento di chiamare i Dissennatori -

Bellatrix udì qualcuno sussultare. Peter Pettigrew si era involontariamente portato la mano metallica davanti alle labbra, mentre i suoi occhietti acquosi si colmavano di terrore.

- Si, mio Signore – rispose la donna, inginocchiandosi a baciargli le vesti. Poi si voltò, tirandosi il nero cappuccio sulla testa, mentre rivolgeva un’occhiata a Pettigrew.

I suoi occhi famelici erano traboccanti di disprezzo.

 

Bellatrix si materializzò con un fruscio davanti ai cancelli di Azkaban, mentre un vento impietoso sferzava l’isola ululando di rabbia e le onde marine frustavano fragorosamente le ripide pareti rocciose, nell’inutile tentativo di consumarle. Il posto, come aveva previsto, era deserto.

La donna si calò il cappuccio con un movimento fluido, lasciando che i suoi lunghi capelli color notte si librassero sfrontatamente nell’aria. Il ricordo di quei luoghi era marchiato a fuoco nella sua mente e non si sarebbe mai cancellato, fino a quando lei avrebbe esalato l’ultimo respiro e il suo spirito si sarebbe ricongiunto a quello di Rodolphus.

Un giorno forse non lontano.

Improvvisamente freddo e gelo parvero abbracciarla, come un sudario di morte, mentre mani invisibili si stringevano attorno alla sua gola, smorzandole il respiro, e un sudore freddo cominciò a imperlarle la fronte.

Erano loro e si stavano avvicinando.

Quante volte aveva sentito quel ghiaccio colloso che la aggrediva, paralizzandole il corpo e la mente, quante volte aveva avvertito la sensazione di essere condannata all’infelicità permanente, intrappolata in un limbo doloroso, condannata a vivere un’esistenza scissa dal suo corpo, ridotto a puro involucro cavo e rimbombante.

Presto Bellatrix li vide avanzare verso di lei…

Erano tre figure alte e lattiginose, come se fatte di nebbia condensata, avvolte in lunghi manti logori, drappeggiati più volte intorno a corpi che mai nessuno aveva visto. Portavano con loro un odore pungente, un lezzo indefinibile di legno marcio e acqua putrida, mentre un rantolo basso e prolungato saturava l’ambiente… il loro respiro, il loro alito immondo che tutti i prigionieri di Azkaban avevano imparato ad odiare con furore.

I tre Dissennatori si fermarono a pochi metri dalla Mangiamorte, che continuava a spostare il suo sguardo incandescente da uno all’altro, mentre quello che le aveva detto il Signore Oscuro prima che lei partisse le ritornava alla mente.

“Sentiranno la mia presenza con te e non ti toccheranno… dì loro quello che devi e aspetta il loro segnale d’assenso. Poi smaterializzati.”

- Sapete perché sono qui. – esordì lei, cercando di sovrastare il rombo del vento che aumentava sempre più di intensità.

I Dissennatori rimasero immobili, statue di pietra sospese a mezz’aria, le sculture della morte e dell’annientamento.

- E’ per chiedervi di unirvi a Lord Oscuro, il solo che può donarvi la libertà che bramate da secoli e il nutrimento di cui siete ghiotti. Se accettate, datemi il segno della vostra alleanza-

La donna attese, bella e terribile come un esercito schierato in battaglia.(*)

Improvvisamente il Dissennatore centrale estrasse da sotto il mantello quello che sembrava essere un arto, con una lentezza esasperante. Bellatrix strinse gli occhi.

Sembrava una mano, anche se di essa conservava soltanto la forma. La pelle incartapecorita che ricopriva quell’arto scheletrico era del colore della melma, una pelle traslucida, che lasciava scorgere al di sotto di essa vene di sangue nero che si avviluppavano intorno alle ossa, al pari di serpenti che stritolano la preda avvolgendola nelle proprie spire. Quella mano putrescente stringeva una pesante catena aggredita dalla ruggine.

Era quello il segnale. La catena simboleggiava il legame, il legame indissolubile che i Dissennatori stavano consacrando con il Signore Oscuro.

Bellatrix si avvicinò, tendendo avanti a sé entrambe le mani, e delicatamente prese la catena che l’essere le stava offrendo – Reductio – mormorò.

Il Patto era stipulato.

- Tenetevi pronti – disse alle figure dinanzi a sé e fece per smaterializzarsi…

- Expelliarmus! – ruggì all’improvviso una voce, e quasi senza accorgersene la donna si ritrovò scaraventata a diversi metri di distanza.

- Accio! -

Sbatté violentemente la testa contro qualcosa e gli occhi le si riempirono di lampi, mentre un liquido caldo e denso prese a scorrerle da una tempia. Bellatrix cercò di aprire gli occhi, frastornata, mentre la fronte le pulsava dolorosamente…e vide tutto come se stesse guardando attraverso un vetro rosso. Per un istante fu invasa da un terrore folle, poi capì che probabilmente si era tagliata sulla fronte e che adesso il sangue le stava colando negli occhi, scorrendo lungo le guance e morendo nei suoi capelli.

Gli occhi rossi…

come quelli di Lui…

Un furore cieco sembrò sommergerla a più ondate. Chi stava osando interferire?

Cercò di pulirsi il volto sulla manica della tunica, rialzandosi lentamente.

- Expecto Patronum! – esclamò una seconda voce, mentre una forma argentata metteva in fuga i tre Dissennatori.

- Ma guarda chi abbiamo qui… la vedovella Lestrange… - gracchiò qualcuno alle sue spalle. Bellatrix si voltò, il cuore che batteva di rabbia nel suo petto. Si trovò davanti la faccia deturpata dell’Auror Alastor Moody.

Eccolo, il principale responsabile della morte di Rodolphus.

Il vecchio stringeva tra le dita, oltre che la propria, la sua bacchetta. Gli occhi della donna si fecero di fuoco.

- Tu… - sibilò, la voce arrochita da una collera insana – me la pagherai… -

- Non sei nella posizione più adatta per minacciare, Bellatrix Lestrange. Sei circondata, e lo sai benissimo -

La donna lo fissò un lungo istante, prima di scoppiare in una lunga, cattiva risata, gettando la testa all’indietro e poi risollevandola di scatto.

Si zittì di colpo.

- Mi avevano detto che eri pazza… ed ora sto vedendo personalmente fino a che punto.-

La donna sorrise in modo terribile: - Sei tu il pazzo, vecchio Mad-Eye! Pazzo! Non hai ancora capito che il Signore Oscuro sta vincendo? l’alleanza dei Dissennatori ormai gli appartiene! -

L’Auror sembrò per un istante sconcertato, ma poi un’espressione d’indifferenza prese il posto sul suo volto sfregiato:

- I Dissennatori si possono mettere in fuga con i Patronus, ma se fossi in te comincerei a preoccuparmi… Voldemort oggi perde una sua fedelissima schiava. Sei in trappola. -

La donna strinse le mani a pugno con sempre più forza, permettendo al dolore di invaderla e di mescolarsi con l’odio in un micidiale sentimento. L’avrebbe ucciso, l’avrebbe ucciso persino a mani nude.

- Come osi nominare Lui, tu, immondo! - la donna faticava parlare, la rabbia le faceva digrignare i denti.

Moody le lanciò una rovente occhiata di disgusto, e poi – Stupeficium! – esclamò, puntando la bacchetta dritto al cuore della donna. Ma Bellatrix riuscì ad evitare il lampo rosso, che si limitò soltanto a bruciacchiarle il lato destro del mantello insieme a qualche ciocca di capelli. Repentina, estrasse dalle pieghe dell’abito una piccola boccetta contenente un liquido trasparente e la bevve d’un fiato. Scomparve.

- Ha bevuto una pozione per l’invisibilità! – sentì gridare Moody agli altri maghi che erano con lui – Tenetevi pronti, l’effetto è passeggero! -

 

Bellatrix sapeva che doveva sbrigarsi, o poteva considerarsi morta. Per un attimo l’idea la sfiorò… rivedere Rodolphus…

Di nuovo insieme, per sempre

Poi due fiamme gemelle si fecero strada nella sua mente, due fuochi rossi che sembravano lambire l’orlo della sua anima, procurandole qualcosa simile alla gioia trapunta di dolce sofferenza. Mylord…

Voldemort

Tornerai da me, Bella, tornerai da me…”

E la donna fu di nuovo visibile.

Era riuscita a nascondersi in una delle grotte che ogni tanto si aprivano sui fianchi dell’isola di Azkaban, come nere piaghe purulente di muschio fradicio. L’odore salmastro era molto intenso. Doveva pensare a come riappropriarsi della sua bacchetta, o non avrebbe avuto scampo…

- Bellatrix -

Una voce maschile, bassa, pacata.

Il cuore mancò un battito. C’era qualcuno lì con lei.

- Vieni allo scoperto, maledetto! – si ritrovò a dire, odiandosi per il panico che era riuscito a trapelare dalle sue parole. Lo sentì avanzare, mentre il frusciare delle sue vesti le riportarono alla mente qualcosa di molto familiare – Sapevo che ti saresti rifugiata qui. D’altronde le grotte ti sono sempre piaciute – continuò l’uomo, portandosi sotto la fioca luce che proveniva dall’ingresso della caverna. E Bellatrix lo riconobbe.

- Severus -

Un sottile sorriso gli piegò le labbra: - Felice che tu mi abbia riconosciuto –

La donna lo fissò, affondando lo sguardo febbricitante negli occhi neri e profondi di lui, che parevano capaci di scandagliare un’anima con incredibile facilità, accentuati maggiormente dall’estremo pallore del volto magro, un viso non bello, né fascinoso, ma attraente nella sua spigolosità, nell’essenzialità delle linee. Incrociò le mani bianche, lunghe e affusolate e si appoggiò ad una parete, continuando a guardarla con interesse.

- Riconosco un traditore a prima vista, Snape – ringhiò la donna – anche dopo molto tempo -

Snape piegò la testa da un lato, mentre il suo corpo sottile si staccava dalla parete:

- Traditore? E’ una parola con troppi significati reconditi per essere usata con una tale leggerezza – sussurrò l’uomo, guardandola con quegli occhi che sembravano appartenere ad altri tempi… tempi remoti, distanti, indecifrabili.

- E’ quello che sei, Snape. Tu L’hai tradito -

Lui sospirò: - Il tuo Signore mi ha offerto una vita, ed io non l’ho abbracciata, come invece hai fatto tu. Ho preferito rinunciarvi –

- Ciò non toglie che collabori con gli sporchi Mezzosangue e gli abominevoli babbanofili per la sua sconfitta! - sibilò Bellatrix, a denti stretti.

Snape tacque, fissandola ancora, ma nei suoi occhi non c’era odio, né rancore.

- Sei ferita – disse invece lui, osservando il suo vistoso taglio alla fronte. Ancora con quel mezzo sorriso enigmatico. Snape frugò un attimo tra i suoi abiti ed estrasse un piccolo lembo di panno bianco. – Engorgio – sussurrò, e le dimensioni del panno si moltiplicarono. Si avvicinò alla donna, e senza preavviso, le poggiò il panno su una tempia, delicatamente e con pochi movimenti esperti. Bellatrix lo guardò a lungo, col volto atteggiato a maschera indecifrabile.

- Tienilo sopra la ferita – sussurrò Snape – è imbevuto di una pozione cicatrizzante e disinfettante -

 Le dita della donna si accostarono alla tempia, e per un attimo sfiorarono la mano dell’uomo. Quel lieve contatto le procurò una scossa che la lasciò totalmente sorpresa. Poi Snape si allontanò di nuovo.

- Lord Voldemort non cadrà mai – disse l’uomo dopo alcuni istanti di profondo silenzio.

- Che vorresti dire… - e la voce di Bellatrix era arrochita.

- Non esiste l’ombra senza la luce, cosi come è impossibile che la luce non generi l’ombra. Bene e male coesisteranno sempre, Bellatrix. Certo, la bilancia penderà a volte dalla parte dell’uno, altre volte da quella dell’altro, ma nessuno dei due potrà mai essere annientato. O l’equilibrio del mondo si spezzerà, e sarà il principio della fine di ogni cosa. -

La donna lo guardò ancora, in silenzio. Le sembrò inutile pronunciare anche una sola sillaba.

E poi Severus fece una cosa che la spiazzò completamente: le porse la sua bacchetta. Gli occhi della donna si dilatarono dalla sorpresa.

- Conoscevo Rodolphus – sussurrò Snape, osservando Bellatrix che non aveva ancora mosso un muscolo per riappropriarsi della sua bacchetta – lo conoscevo bene. Se dev’essere una guerra, che almeno sia ad armi pari. Moody penserà che sia stata direttamente tu a sottrargliela. Da quando ha perso l’occhio magico, non è più abile come una volta. -

- Perché – riuscì finalmente a sillabare la donna, prendendo cautamente la sottile asticella di legno che Snape le porgeva.

- Perché tu possa lottare per quello in cui credi, giusto o sbagliato che sia. Torna da lui, Bella. Ci rivedremo molto presto, immagino. E chissà, forse per l’ultima volta… siamo uomini, dopotutto, soltanto deboli esseri umani in balia del fato, condannati a non sapere per quanto ancora soggiorneremo su questa Terra – E sorrise ancora, un sorriso intessuto di saggezza, dolore, cinismo, disillusione, consapevolezza.

Di umanità, semplice e gloriosa umanità.

E Snape svanì, senza fare il più piccolo rumore.

Bellatrix rimase a guardare ancora a lungo il posto in cui pochi istanti prima si trovava il corpo snello e pallido di Severus, poi si voltò e alzò gli occhi al cielo, basso e coperto di pesanti nubi color fuliggine. Le sue dita stringevano ancora il panno che le aveva dato Snape, ora intriso del suo sangue…ma la ferita si era davvero rimarginata.

La donna lo fissò: - Forse un giorno, Severus, un giorno – sussurrò, prima di smaterializzarsi con il solito lieve fruscio.

Due occhi scarlatti, di cui lei non poteva fare a meno, la stavano aspettando.

 

Continua…

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Silentium Vivorum - parte I ***


Disclaimer: Bellatrix Lestrange e gli altri personaggi che compaiono in questa fanfiction sono proprietà di J

Disclaimer: Bellatrix Lestrange e gli altri personaggi che compaiono in questa fanfiction sono proprietà di J.K. Rowling e di editori come Bloomsbury, Bros, Salani. Nessuna violazione del copyright si ritiene pertanto intesa. 

 

“Quando il cielo basso pesa come un coperchio

sullo spirito che geme, preda d’un tedio ininterrotto,

quando dell’orizzonte abbracciando tutto il cerchio

dispensa un giorno nero più triste della notte;

 

quando la terra si muta in un’umida cella,

e la Speranza, come un pipistrello maldestro,

va urtando i muri con la sua ala timida

e ai soffitti marciti cozzando con la testa;

 

quando la pioggia svolgendo le strisce sterminate

imita le sbarre di una prigione immensa,

e accorre un popolo muto di ragni infami

che appende le sue reti dentro i nostri cervelli;

 

campane all’improvviso saltano su con furia

e scagliano verso il cielo un atroce lamento,

come spiriti erranti inquieti e senza patria

che si mettano a gemere ostinatamente.

 

– E carri funebri, senza tamburi né musica,

mi sfilano nell’anima in lungo e lento corteo;

la Speranza, vinta, piange, e l’Angoscia, dispotica,

mi pianta sul cranio reclino il suo vessillo nero.”

 

Charles Baudelaire, Spleen, da “I Fiori del Male

 

 

 

Silentium Vivorum

- Il Silenzio dei Vivi -

prima parte

 

Un vento gelido imperversava tra le fronde spoglie degli alberi che si stagliavano neri e scheletrici sullo sfondo infiammato del crepuscolo come lunghe zampe di ragni, mentre la neve che ricopriva il lungo altopiano rifletteva i brillanti colori del cielo e una polvere sanguigna sembrava aleggiare sulla terra.

Bellatrix Lestrange si rialzò, stringendo nella mano un altro compatto pugno di neve. Con un movimento accurato se lo passò sulle labbra, poi ne inghiottì una piccola parte, sentendo immediatamente il refrigerio del ghiaccio contro il suo palato acido e riarso.

Nel biancore immacolato che la circondava sembrava quasi sovrannaturale, con il viso abbagliante, gli occhi neri e profondissimi che per un istante brillarono come se fossero finestre spalancate sui fuochi dell’inferno. Osservò il suo respiro ansimante condensarsi davanti al volto in tante nuvole sottili, mentre un falco solitario a poche centinaia di metri più in là scendeva velocissimo in picchiata, gli artigli aperti e mantenuti vicino al ventre, fino a sfiorare la terra con le lunghe penne remiganti. Lo vide protendere le mortali zampe in avanti, di scatto, e piombare sulla preda, micidiale come l’ascia di un boia, mentre le ali poderose sferzavano violentemente l’aria, cercando di riguadagnare i cieli. L’animale lanciò uno strillo acuto che squarciò il silenzio immoto al pari di un boato, mentre si elevava oltre le cime degli alberi, gravido della piccola lepre che si contorceva sempre più debolmente tra le sue zampe uncinate, in una lunga, atroce agonia.

La donna piegò leggermente le labbra in un sottile sorriso terribile: poteva immaginare molto bene cosa provasse il piccolo mammifero mentre gli artigli acuminati del volatile penetravano sempre più in profondità, e il dolore si faceva lancinante, insopportabile, folle. Poteva sentire i tonfi terrorizzati di quel cuore farsi man mano più lenti, mentre le membra si intorpidivano e il sangue inondava i polmoni, gorgogliando in un lento soffocamento…

 

…lei sapeva cosa significasse sentire l’alito della Morte sulla nuca, ma conosceva altrettanto bene la gioia furiosa che inebriava il predatore, un tripudio che sfiorava l’estasi quando si avvertiva che la vita della preda si stava spegnendo, stava scivolando via tra le dita come un piccolo ruscello limpido… in un’intimità mostruosa e bellissima.

 

Un soffio di vento gelido le liberò la fronte dai capelli. Lei si guardò intorno, respirando man mano più lentamente, mentre la morsa incandescente che sembrava attanagliarle il cuore si allentava, raffreddandosi.

Era a meno di cinquanta chilometri dal Polo Artico.

 

Non sapeva esattamente per quale motivo si era materializzata proprio in quel posto, dove la natura selvaggia troneggiava indisturbata su un’interminabile distesa di bianco e alberi spogli. Ma aveva sentito il bisogno urgente di essere circondata dal ghiaccio, dalla calma, dall’immobilità naturale di un paesaggio coperto di neve. Dal silenzio. Di quello che galleggiava sulla superficie della tenebra in cui stava affogando.

Tutto a causa della cosa che aveva visto in quella maledetta cella.

 

 

Era successo pochi giorni dopo il suo ritorno dalla missione ad Azkaban.

Stava percorrendo uno degli umidi corridoi dei sotterranei, quando aveva incrociato l’alta figura nerovestita di Antonin Dolohov. L’uomo camminava frettolosamente, come se stesse allontanandosi da qualcosa di sgradevole, di raccapricciante. Aveva guardato verso di lei quasi senza vederla sul serio, il volto pallido e lungo solcato da poche rughe stranamente approfondite, gli occhi castano scuro che l’avevano osservata indugiando sul suo viso come se non la riconoscessero. Gli ci era voluto qualche istante per rendersi pienamente conto che lei l’aveva salutato. Tutto di lui faceva pensare che stesse fuggendo da qualcosa.

Qualcosa che somigliava alla paura.

Lei aveva ricambiato il suo sguardo, mentre un sottile turbamento si agitava sul fondo degli occhi  d’ossidiana, così neri da non esserci quasi distinzione tra l’iride e la pupilla. Non aveva mai visto una simile espressione sulla faccia tagliente e decisa di Dolohov e tutto ciò le aveva provocato un consistente senso di nausea che aveva tentato inutilmente di ricacciare indietro. Aveva aggrottato le sopracciglia in una muta domanda.

- Dovresti… dovresti vedere anche tu – le aveva detto lui, mentre gli occhi fuggivano intenzionalmente quelli della donna. La sua voce era stata esitante, leggermente più acuta, tanto da avvicinarsi quasi a quella di Peter Pettigrew. Soltanto al pensiero del goffo Animagus il volto di Bellatrix si era indurito per il disgusto.

- Dovrei vedere cosa, Dolohov? – gli aveva risposto, senza curarsi che la sua voce appariva sprezzante. Il Mangiamorte non aveva risposto, ma si era avvicinato lentamente, chinandosi tanto da portare il proprio volto a pochi centimetri dal suo. Un odore aveva colpito allora le narici della donna, un odore nauseabondo, un lezzo di putrefazione e d’acqua melmosa e stagnante… l’odore dei Dissennatori.

Aveva sbarrato gli occhi dalla sorpresa.

- Vedo che hai già indovinato con chi sono stato a contatto nelle ultime ore… Non è stato affatto piacevole. Ma necessario. -

Il senso di nausea era raddoppiato. C’era qualcosa nello sguardo di Dolohov che la stava assillando e che lei non riusciva ad identificare e a contrastare…

eppure le era sembrato così familiare…

E poi aveva capito: Dolohov aveva tentato disperatamente di vincere ciò che non comprendeva e ne era uscito quasi per miracolo. Aveva rischiato di perdere il senno, già duramente provato dalla lunga prigionia in Azkaban.

Il pensiero era stato un lampo che aveva squarciato le tenebre.

Oh, l’aveva percepito chiaramente. La mente del Mangiamorte gli si era rivelata in un istante con la chiarezza di uno specchio, un coacervo di sensazioni, pensieri, azioni, balbettii che per assurdo erano apparsi ai suoi occhi in un nitore straordinario, così incredibilmente preciso in ogni suo più pazzo dettaglio. Proprio a lei, che si trovava dall’altra parte della parete sfumata che separa la ragione dalla follia.

- Mostrami cosa devo vedere – aveva ripetuto, con voce bassa, quasi provocante, alzando il mento verso di lui, la sfida inestinguibile che ardeva sul volto. 

Lui non aveva risposto, ma si era allontanato da lei. Era alto, possente e la superava di tutta la testa, eppure Bellatrix aveva la sensazione che Dolohov avesse timore di lei. Un sentimento sottile, appena accennato, eppure avvertibile… d’istinto, forse, come il predatore capace di fiutare la paura inconsapevole della propria vittima.

 

Ah, la paura altrui. Il sinonimo della propria forza.

 

Sembrava quasi improbabile, dato che Dolohov non era affatto un debole.

- Seguimi, Lestrange – aveva detto poi, voltandosi verso la direzione da dove era venuto. Lei l’aveva visto alzarsi il cappuccio e calarlo sul capo, tanto da lasciare scoperta solo la parte inferiore del viso. L’aveva seguito, scendendo al livello inferiore del sotterraneo, e presto l’identico odore che aveva avvertito addosso all’uomo era tornato ad aleggiare nei corridoi, impregnandosi anche nelle sue vesti, tanto che aveva fatto violenza sui propri polmoni per costringersi a respirare quell’aria immonda. La mano putrida del Dissennatore che aveva visto quel giorno le era tornata alla mente in tutta la sua disgustosa anatomia. Aveva cercato di ricacciarla indietro, mentre un sudore malsano aveva cominciato a percorrerle la schiena. Non aveva sentito però quel freddo acuminato, segno che gli ex-custodi di Azkaban erano stati lì fino a pochi attimi prima.

- Siamo quasi arrivati. – aveva sussurrato Dolohov, mentre la voce sembrava aver riacquistato il tremolio di prima – Il Signore Oscuro è appena stato informato del suo arrivo. Tra breve lo vedrà Lui stesso. -

- Vedrà chi? – aveva sibilato la donna, mentre dentro di lei qualcosa le urlava di smaterializzarsi, di scappare, tutto fuorché vedere quello che sembrava stare dietro la porta di legno fradicio che Dolohov stava aprendo.

- Lui – aveva risposto l’uomo, spalancando l’uscio di una piccola cella.

 

 

Bellatrix tornò a guardare il pugno di neve stretto tra le sue dita intorpidite. Si stava rapidamente sciogliendo. Lo scagliò lontano, poi si chinò nuovamente a terra, affondando entrambe le mani nella coltre bianca e spessa. Il freddo le penetrò immediatamente nella carne, e un brivido delizioso le corse per la schiena. Aveva bisogno di freddo, freddo e ancora freddo.

In un attimo si liberò delle sue vesti di Mangiamorte e si sdraiò a terra. Il gelo morse la sua pelle straordinariamente candida e lei si sentì nuovamente potente. Si girò su un fianco, poggiando la fronte sul suolo e la sua mente snebbiata dal terreno gelido tornò nuovamente nei sotterranei umidi della dimora del suo Signore.

 

 

Era stato sufficiente solo un istante per abituarsi all’oscurità, mentre avanzava cautamente nell’ambiente stretto.

Sul fondo della cella, appoggiata alla parete come l’orrida imitazione di un crocifisso, c’era un’esile figura ritta e immobile, avvolta in logori cenci dal colore indefinito che puzzavano di muffa e rapido deperimento organico. Le braccia eccessivamente magre, di un pallore  inumano, erano spalancate con i palmi rivolti verso l’alto e il petto glabro dalle costole sporgenti, che si intravedeva tra le luride stoffe strappate, sembrava non respirare. Con crescente sgomento gli occhi della donna si erano spostati sul volto, un teschio spaventoso dalla rada capigliatura giallo spento, dagli occhi azzurri diventati sporgenti per l’eccessiva magrezza di quel viso che lei ricordava ovale e ornato da un lieve sorriso. Ora niente animava le labbra pallide e secche e le guance incavate, ridotte a lembi di pelle tesa sulle ossa, che sembrava in procinto di lacerarsi da un momento all’altro.

Ma gli occhi, quegli occhi di un pallido azzurro che non si erano mossi di un millimetro, quegli occhi perennemente spalancati che guardavano il nulla e dietro i quali non c’era nulla, e quella bocca, che se si fosse aperta ne sarebbe uscita una tenebra simile alla pece per avvolgere il mondo, le erano penetrati sin nel più minuscolo atomo del suo essere.

Lei era abituata all’orrore, dopotutto.

Non aveva neanche vent’anni quando l’avevano sbattuta ad Azkaban.

Si era vista impazzire, senza poter fare niente per impedirlo.

Le avevano assassinato Rodolphus.

Avevano costretto il suo Signore ad una non-vita per tredici anni.

Ma non era abituata a questo…Non avrebbe mai potuto esserlo.

- Barthy… - aveva mormorato, e le era sembrato di aver chiamato la morte con il suo vero nome.

Quello che una volta era stato un uomo non aveva avuto nessuna reazione, ma aveva continuato a fissare il vuoto davanti a sé, un corpo ridotto a involucro cavo e sterile, che irradiava una disperazione al di là della comprensione umana, condannato a vegetare fino all’esaurirsi delle forze, condannato a diventare polvere senza la consolazione che un’anima, forse, poteva trovarsi altrove.

Ma l’anima di Barthy Crouch era stata divorata, stritolata urlante in un buco nero.

Era bastato il solo pensiero a farle salire il primo violento conato di vomito alle labbra.

Si era asciugata la bocca con un lembo della tunica, con lentezza.

- I Dissennatori lo hanno portato qui poche ore fa – aveva sentito dire a Dolohov, che era rimasto sulla soglia della cella, il disgusto nettamente percepibile in ogni singola parola – Il Signore Oscuro ha preteso come primo segno dell’Alleanza stipulata il suo rilascio. –

- Pensavo fosse morto… - aveva sussurrato Bellatrix, ancora incapace di staccare gli occhi da quelli immobili di Crouch.

- Lo è… ma solo a metà. Il Ministero l’aveva confinato in Islanda, sotto la sorveglianza di dieci Dissennatori. Non hanno voluto finirlo, dopo che Fudge ha dato l’ordine di somministrare il Bacio -

- Fudge pagherà tutto questo… con la stessa moneta… e dopo l’anima gli farò divorare anche il corpo…  – aveva detto lei in una calma agghiacciante. Le parole erano uscite sibilando dalla sua bocca come rostri incandescenti. La collera nel suo sangue sembrava ghiaccio rovente.

- Bellatrix… - aveva sussurrato Dolohov, improvvisamente conscio della pericolosità della donna. Era come toccare qualcosa di gelido o di incandescente, con lo stesso effetto: si rimaneva per un istante incollati, e il dolore era terribile.

Il volto di Barthemius Crouch continuava a restare immobile, ma allora sembrava guardarla, fissarla con un’intensità corrosiva… forse era stata solo la sua immaginazione, forse era stato solo uno scherzo della sua mente instabile infiammata dalla rabbia, eppure aveva avvertito un dolore che proveniva dall’interno e che stava diventando sempre più forte e intenso, devastante… Si era sentita paralizzata, come avvolta in un bozzolo rovente che la stava ustionando, che le stava strappando l’anima… era una tortura, una tortura… peggio di una Cruciatus, molto peggio… quando aveva avvertito il rivolo di sangue colarle giù per il naso aveva saputo con certezza che si sarebbe trasformata in una torcia umana se non si fosse allontanata da lì.

Fu così che si era smaterializzata, fuggendo dagli occhi orrendi di Crouch.

 

Aveva vomitato ancora tre volte sulla neve soffice del Canada.

 

 

Avvertì la sua silenziosa presenza così chiaramente da sapere che fosse lì prima di averlo visto.

Bellatrix sollevò la testa e guardò dinanzi a sé. Seduto sulle zampe posteriori, a pochi metri da lei, un magnifico esemplare di lupo grigio la stava osservando, gli occhi dorati ornati di nero dietro i quali si distendeva un’intelligenza versatile e al tempo stesso primitiva, accompagnata da un istinto vecchio di secoli. Il pensiero che lei, nuda e indifesa, potesse essere una facile preda per un lupo a caccia nella stagione invernale, le sfiorò subito la mente, ma fu accantonato in un angolo, mentre contemplava la meravigliosa lucentezza del pelo d’argento, che sembrava catturare il colore indaco del cielo insieme agli ultimi sprazzi rosseggianti.

Le labbra dell’animale erano scure e arricciate in uno strambo sorriso, che le riportò alla mente un’espressione così simile a quella da lasciarla senza fiato. Il volto di un uomo, atteggiato nel tipico sorriso asimmetrico di chi vuole nascondere i propri sentimenti dietro l’ironia, si insinuò dolcemente nella sua testa.

Rodolphus.

Un mese e mezzo esatti dalla sua morte.

E fu allora, davanti a quel lupo magnifico che continuava ad osservarla quasi provasse timore e reverenza per lei, nel cuore di una distesa gelata, che Bellatrix pianse per lui per la prima volta.

 

Lasciò andare le lacrime così, senza muovere un solo muscolo, come una statua… la stessa imperturbabilità esteriore, il dolore straziante che rimaneva chiuso nella prigione dell’anima, lo stillicidio lento di gocce salate, non un singhiozzo, non un gemito.

Il pianto di una Mangiamorte.

 

Fine prima parte.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Silentium Vivorum - parte II ***


Disclaimer: Bellatrix Lestrange e gli altri personaggi che compaiono in questa fanfiction sono proprietà di J

Disclaimer: Bellatrix Lestrange e gli altri personaggi che compaiono in questa fanfiction sono proprietà di J.K. Rowling e di editori come Bloomsbury, Bros, Salani. Nessuna violazione del copyright si ritiene pertanto intesa.

 

 

Silentium Vivorum

- Il Silenzio dei vivi -

seconda parte

 

 

E Bellatrix sprofondò nuovamente nei ricordi…

 

 

Una settimana, una settimana appena e la sconfitta le bruciava ancora addosso come sabbia bollente. Il loro fallimento nel Dipartimento dei Misteri, né previsto, né lontanamente concepito, l’aveva gettata in un tremendo, cupo furore. Tutto quello che voleva era avere il moccioso Potter tra le mani.

E fargliela pagare…

…oh, molto, molto amaramente.

E con estrema lentezza.

 

La sua rabbia era solo paragonabile a quella del suo Signore. Il volto niveo del Lord Oscuro era rimasto impassibile, una maschera di marmo priva di qualsiasi espressione, almeno apparentemente. Ma a Bellatrix non era sfuggito quello che si nascondeva dietro ai suoi occhi color sangue…quelle fiamme gemelle celavano una collera che un semplice essere umano non avrebbe mai potuto provare. Una rabbia trattenuta sulla soglia dell’esplosione, uno sguardo dai poteri terrificanti.

- Non potevamo sapere che il ragazzo avrebbe distrutto la profezia, Bellatrix – mormorò una voce nota alle sue spalle.

Rodolphus le si era avvicinato nel suo solito modo silenzioso e la stava osservando con il sorriso sghembo che le riservava quando lei era di umore tetro. Bellatrix si voltò verso di lui, la collera bruciante che divampava ancora nei suoi occhi, pronta a vomitagli addosso la sua enorme frustrazione, ma il volto calmo di Rodolphus le spense improvvisamente tutta la rabbia. Abbassò lo sguardo verso il nudo pavimento di basalto, poi li rialzò nuovamente ad osservare lui, le cui iridi violette contemplavano il suo viso, riuscendo a leggere quello che nemmeno lei stessa sapeva di poter provare.

-  Avrei dovuto agire quando lo avevamo in pugno… e invece l’ho sottovalutato. Ho sottovalutato quel moccioso e la missione è fallita. E’ stata colpa mia. Il Signore Oscuro avrebbe dovuto punirmi… - disse la donna con voce gelida e sottile, il viso ancora teso e pallido di collera.

- Il fatto che Mylord non ti abbia punita è significativo, Bella. Non ti ritiene responsabile di quello che è accaduto al Ministero – replicò lui, passandole un indice lungo la linea curva della mandibola. I suoi movimenti erano fluidi, pervasi di una grazia felina. Sorrise lievemente, guardandola con la stessa espressione con cui l’aveva vista il primo settembre di tanti anni fa, quando lei, appena undicenne, era scesa dal treno che l’aveva portata ad Hogwarts mano nella mano con la sua bionda sorella, Narcissa, di qualche anno più grande. La ricordava straordinariamente bene, una bambina delicata ed esile, quasi insignificante ad un’osservazione superficiale, dalla pelle alabastrina, le mani affusolate e i lunghi capelli d’ossidiana che alla luce delle lampade della stazione di Hogsmeade sembravano quasi blu notte.

Poi aveva visto i suoi occhi… e non era più riuscito a togliersela dalla testa. La sua Bellatrix… la sua bambina dagli occhi eterni.

- Vorrei credere alle tue parole, Rodolphus e vorrei fare qualcosa per Lui… qualcosa per cui possa essere fiero di me. - disse lei, prendendogli una mano tra le sue e guardandolo, trasmettendogli così tutta l’enorme intensità del suo desiderio. Lui sorrise ancora, circondando con un braccio le sue spalle sottili e attirandola a sé:

- E’ per questo che sono qui – sussurrò, con voce arrochita – C’è una missione da compiere al più presto… Lucius… bisogna sottrarre Lucius agli artigli dei Mezzosangue. Partiremo domani, io e te, soli. -

La donna lo guardò, mentre sorpresa e gratitudine illuminavano le sue iridi magnifiche. Annuì e lui le sollevò delicatamente il mento, i suoi occhi dal colore del cielo di sera scrutarono ogni più piccola espressione sul volto perfetto di lei. Posò le labbra su quelle vellutate di sua moglie, e lava incandescente sembrò riempirgli l’anima, come ogni volta, come tutte le volte dal loro primo bacio, entrambi ancora adolescenti, nei sotterranei della casa di Serpeverde, ancora inesperti e mai sazi l’uno dell’altra.

Oh, come bramava i baci di sua moglie e il tocco delle dita di lei, poco più che lieve, eppure così intimamente penetrante che sentiva il forte spirito di Bellatrix infiammargli i nervi e la mente, mentre ogni piccola parvenza di razionalità si inceneriva, lasciando il posto ad un piacere frenetico e convulso che avrebbe fatto delirare anche il più santo degli uomini… perdizione sublime, questa era Bellatrix, questo era il fuoco perenne che custodiva come un simulacro intramontabile e che la rendeva irresistibile e potente, tanto da piegare e ammansire qualsiasi volontà, qualsiasi… tranne quella di Voldemort in persona. 

Si smaterializzarono con un lieve fruscìo e riapparvero in un’ampia camera dagli spessi muri di pietra e dall’arredamento spartano, ma molto pulita e dall’aria fresca.

Un letto dalle lenzuola bianche giaceva al centro della stanza.

Avevano tenuto entrambi in celle separate ad Azkaban, pensò Rodolphus mentre si chinava a baciare ancora una volta la pelle nuda dell’unica donna che avesse amato in vita sua. Aveva creduto di impazzire senza di lei, e forse era anche diventato un folle irrecuperabile, ma ora avrebbe fatto qualsiasi cosa per rivivere tutto quel tempo perso, il numero infinito di giorni trascorsi con la mente agonizzante e il corpo troppo debole per tentare di sottrarsi ad una realtà insopportabile per qualunque essere umano, la dimensione piatta e congestionante in cui era stato intrappolato per tredici anni.

Guardò sua moglie, i cui occhi ardenti lo scrutavano a loro volta.

Le avevano sottratto il fiore degli anni, ma lei era rimasta come la ricordava, bellissima e solitaria, una rara rosa notturna cosparsa di spine, con spesse pareti erette intorno all’essenza primigenia di sé che persino lui faceva fatica a superare… ma quando ciò accadeva, allora lui riusciva a scorgere la sua anima, splendente come nessun diamante sulla Terra avrebbe mai potuto essere. Si era accorto presto che quella bambina silenziosa, che alla tavola della sua Casa non parlava quasi mai con nessuno, celava ai più quello che i suoi occhi da adulta non riuscivano del tutto a nascondere. L’aveva osservata di nascosto milioni di volte, studiando il fine profilo avvolto in quel manto tenebroso che i suoi capelli creavano intorno al viso, la figura sottile, minuta, che ingannevolmente sembrava gridare al mondo la propria debolezza…e invece… Bellatrix si era dimostrata forte, incredibilmente potente, tanto da farlo dubitare su chi tra i due fosse in realtà il più bisognoso di protezione. Sicuramente la debole non era lei, non lo era mai stata e non lo sarebbe mai diventata.

La notte trascorse lentamente, scandita dal fluido e continuo scorrere dei granelli di sabbia bianca che in una clessidra di vetro trasparente scivolavano inesorabilmente via. Il lieve respiro di Bellatrix gli accarezzava il petto, mentre i suoi capelli lucenti erano sparsi sul torace e una guancia fresca poggiava poco sotto il suo mento. Era sveglia, ma restava in silenzio, come era solita fare quando le parole le sembravano inutili. Si assopì, cullato dal ritmo del respiro di lei, perché Bellatrix riusciva anche a farlo sprofondare nel più dolce degli oblii, dove tutto perdeva improvvisamente senso o importanza e non restava che lei e il suo amore per lui che sarebbe durato anche oltre i confini del tempo, lacerando il muro dei secoli che sarebbero sopraggiunti. I loro corpi non sarebbero stati eterni, presto i loro cuori avrebbero cessato per sempre di battere, il loro sangue si sarebbe fermato… ma ciò che li univa era qualcosa che si elevava al di là della semplice dimensione materiale, un legame eterno e sfuggente a qualsiasi logica e razionalità. Quella donna era tutta la sua vita e lui sentiva chiaramente che non avrebbe mai desiderato che fosse altrimenti… eppure un pensiero bizzarro l’aveva colpito qualche tempo prima… il fatto cioè, di non essere stato l’unico a capire che in lei c’era qualcosa di così speciale da essere invisibile agli occhi della moltitudine.

 

… Snape…

 

Erano anni che non lo vedeva. Esattamente, non l’aveva più visto dal giorno del suo tradimento.

Ricordava però in modo perfetto il Severus Snape ventenne, un giovane dall’espressione indecifrabile e i cui atteggiamenti erano assolutamente impossibili da interpretare… erano andati nella stessa classe, provenivano ambedue dalla medesima Casa e avevano odiato entrambi la combriccola di Potter, Black, Lupin e Pettigrew. Severus si era sempre tenuto a debita distanza da chiunque avesse accennato ad invadere il suo spazio vitale, ma a lui non era sfuggita l’incredibile acume e la mente sottile che Snape possedeva e che raramente ostentava più del necessario… un’intelligenza prismatica che l’aveva portato a comprendere che Bellatrix non era la ragazzina insignificante che sembrava essere. Snape l’aveva capito da quel giorno e sapeva altrettanto bene che lui, Rodolphus, aveva cominciato a tenerlo d’occhio da allora…

 

…Era successo tutto a causa di quello scherzo idiota che Sirius Black aveva architettato ai danni di Snape e che per poco non gli era costata la vita: darlo praticamente in pasto ad un Lupo mannaro senza controllo… allora non sapevano quale pericolo avesse realmente corso, ma Bellatrix aveva intuito che c’entrava suo cugino insieme agli altri tre compari. Rammentava che per i due giorni successivi lei non aveva aperto praticamente bocca, era stata silenziosa come se fosse improvvisamente diventata un cadavere deambulante, ma la mattina del terzo giorno, in Sala Grande, durante la colazione, si era improvvisamente alzata dalla tavola dei Serpeverde e si era diretta verso quella dei Grifondoro, camminando inesorabile, con gli occhi fissi sulla nuca di suo cugino, le braccia rigide lungo i fianchi, i pugni serrati, le labbra strette, pallide e sottili e gli occhi immensi che mandavano lampi. In un silenzio quasi irreale l’aveva chiamato e gli aveva rivolto poche parole, ma talmente taglienti e glaciali che, al sentirle, Black e compagnia erano trasecolati neanche avessero udito uno spettro maledirli dalle fauci dell’inferno.

Lei aveva compiuto tredici anni una settimana prima.

Da quel giorno Severus si era accorto di chi realmente fosse Bellatrix Black, anche se tutto in lui faceva pensare che invece avesse un qualche debole per Lily Evans, la ragazza dalla folta capigliatura ramata che poi aveva finito per sposare Potter. E Rodolphus non l’aveva più perso di vista.

 

 

Avvertì la luce sul suo volto all’improvviso, svegliandosi completamente. Bellatrix schiuse le palpebre, riabituando gli occhi al chiarore che si stava diffondendo gradualmente nella stanza, portando con sé anche la fragranza agrodolce tipica dell’alba. Si sollevò, facendo attenzione a non svegliare Rodolphus, ancora addormentato. Osservò i lineamenti non comuni di suo marito, intensificati dai folti capelli neri che gli spiovevano sugli occhi e gli lambivano le guance, conferendogli un’aria ancora più orientaleggiante, esotica, quasi.

Si accostò, avvolta in un lenzuolo, all’ampia finestra sul lato meridionale della stanza, aprendola e aspirando quanta più aria fresca poteva. Il sole non era ancora sorto, ma già il cielo ad oriente era cosparso di polvere aranciata, segno che non sarebbe passato molto tempo dal nascere di un nuovo giorno.

Poi sentì una carezza sulla nuca e un braccio che le cingeva la vita: si appoggiò contro l’uomo alle sue spalle quasi con placida stanchezza. Chiuse gli occhi, mentre un formicolio sempre più forte le percorreva il braccio sinistro e il suo Marchio Nero sembrava aver acquistato nuova brillantezza. Il Signore Oscuro la stava chiamando e, a giudicare dal Marchio nero splendente che ornava il braccio di Rodolphus, non si sarebbe presentata da sola.

 

 

- Mio Signore -  disse la donna, ancora inginocchiata davanti all’orlo della veste nera di Lord Voldemort che aveva appena baciato. Rodolphus era chino a pochi passi da lei, nello stesso atteggiamento di devozione e sottomissione assoluta.

Il Signore Oscuro, il cui volto era parzialmente nascosto dalle ampie falde del cappuccio, posò gli occhi vermigli su di lei, e Bellatrix avvertì quello sguardo bruciarle la nuca con lo stesso nitore di una mano troppo vicina al fuoco. Strinse i denti, ma rimase immobile, comprendendo nel medesimo istante che la collera del suo Signore doveva essere ancora molto potente e difficilmente placabile.

- Puoi alzarti, Bella – disse poi lui in un sottile mormorio, mentre con un cenno del capo accordava lo stesso permesso a Rodolphus. - Ho da darvi alcune istruzioni riguardo al luogo dove si trova Lucius Malfoy in questo momento. Abbiamo già perso troppo tempo. -

La donna si irrigidì, osservando il Signore Oscuro allontanarsi di qualche passo da lei ed estrarre la bacchetta dalle pieghe della sua tunica. Rodolphus le si avvicinò, guardando con la stessa espressione seria e tesa i lenti movimenti della mano bianca e artigliata di Lord Voldemort, che accompagnava ogni piccolo e misurato gesto con un continuo e cantilenante mormorio. Presto la donna si accorse che il suo Signore stava disegnando qualcosa nell’aria, una forma che andava pian piano assumendo una ben precisa struttura tridimensionale. E dopo qualche attimo di indecisione, capì con un brivido intriso di panico gelido che l’ologramma che si stava formando davanti ai suoi occhi, galleggiando sospeso nell’aria, era l’isola di Azkaban con la sua tetra prigione.

Sentì Rodolphus irrigidirsi con un moto di disgusto misto a terrore. Dopotutto avrebbe dovuto immaginare che i Mezzosangue avrebbero confinato Lucius tra quelle umide mura ammuffite in compagnia degli abomini del mondo magico, creature che, tuttavia, erano necessarie per la loro causa, per la causa del Suo Signore.

- Dovreste conoscere molto bene questo posto – sentì sussurrare al Lord Oscuro – e lo conoscete soprattutto a causa mia… Lord Voldemort non dimentica la fedeltà dei suoi servi… e non la dimenticherà mai -

- Ti saremo fedeli sempre, Mylord – disse allora lei, inchinando la testa – sempre, fin quando non esaleremo l’ultimo respiro –

- Sai bene, Bellatrix, che mi fido di te e di Rodolphus più di chiunque altro. L’hai sempre saputo. E’ per questo che mando unicamente voi due, mentre Dolohov e gli altri sono impegnati a depistare gli Auror dalle nostre vere intenzioni. Lucius è importante, lo sapete quanto me. Rivoglio il mio servitore indietro, a qualsiasi costo. -

La donna rimase immobile per un istante, poi annui.

- Lucius è tenuto prigioniero in una delle celle dei sotterranei, livello D – continuò Voldemort, mentre ad ogni sua parola l’immagine di Azkaban diventava più grande e più nitida, fino a che agli occhi dei due Mangiamorte non apparve una ricostruzione integrale dell’ultimo livello dei sotterranei di cui il Lord Oscuro stava parlando. – E’ sorvegliato a vista da alcuni Auror alle strette dipendenze di Alastor Moody:  probabilmente quella vecchia volpe sfregiata deve aver capito che i Dissennatori l’avrebbero lasciato andare dopo una notte. E’ una cella isolata dalle altre, di forma cubica, con tre Auror che sorvegliano il lato principale dove è posizionata la porta e altri sei disposti lungo i due lati liberi rimanenti. Al piano di sopra ci sono altre celle altrettanto ben sorvegliate. L’unico modo per portarlo via da lì è dal pavimento. -

- Dal pavimento? – chiese Rodolphus con una certa ansia, ma dal tono di voce l’uomo lasciò trapelare solo semplice curiosità.

- C’è una grotta sottomarina che si apre sotto il versante nord dell’isola. Poche persone sono a conoscenza della sua esistenza, purtroppo quel pazzo di Dumbledore è tra queste. Tuttavia, nessuno sa che la grotta, dopo un lungo tratto subacqueo, comincia a salire, fino a raggiungere i sotterranei di Azkaban. Esiste un punto in cui lo spessore del pavimento è così sottile da poter essere perforato anche da un semplice Babbano munito di strumenti adatti. E quel punto si trova sotto la cella di Lucius, precisamente a venti centimetri dal centro esatto della stanza. -

- Notevole. Ed anche abbastanza accessibile – commentò la donna, mentre nella sua testa andava già formandosi un piano per tirare Malfoy fuori dalla melma in cui si era andato ad invischiare.

- Sapevo che avresti capito immediatamente la situazione, Bellatrix Lestrange – disse poi la voce fredda di Lord Voldemort, anche se alla donna sembrò di percepire un velato tono di ammirazione.

- Partiamo immediatamente, mio Signore – continuò lei, inginocchiandosi ancora una volta, mentre il suo sguardo d’ossidiana rimaneva saldamente puntato sul mento sottile di Voldemort, l’unica parte non nascosta dal cappuccio che celava tutto il resto del volto – e riporteremo Lucius Malfoy al Suo cospetto. -

- Non mi deludere… Bella – sibilò il Signore Oscuro, mentre il disegno tridimensionale di Azkaban sbiadiva lentamente, disperdendosi come foschia riscaldata dal sole. La donna annuì a denti stretti, attendendo che Voldemort si smaterializzasse. Appena il Lord Oscuro se ne fu andato, Bellatix prese la sua bacchetta, mormorando:

- Accio Algabranchia -

Immediatamente alcune piccole pallottole di un verde grigiastro comparvero sul palmo della mano. Rodolphus la guardò ammirato.

- Per respirare sott’acqua – spiegò lei con un mezzo sorriso,mentre era intenta a ricavare un sacchetto di stoffa da un lembo della sua tunica. Con un altro incantesimo lo rese impermeabile e infilò dentro le palline di Algabranchia insieme ad un piccolo oggetto di forma discoidale non chiaramente identificato.

- Possiamo andare – disse, e con un gesto deciso della mano trasfigurò la sua lunga tunica, trasformandola in una tuta nera e aderente che non l’avrebbe impacciata nei movimenti sott’acqua. Attese che Rodolphus facesse lo stesso, poi gli prese una mano e lo guardò a lungo nei suoi occhi magnetici.

Lui sorrise, incoraggiante.

Si smaterializzarono entrambi con un tenue rumore.

 

 

Un vento di considerevole violenza si scagliava contro le scoscese e frastagliate pareti dell’isola di Azkaban, quando i due Mangiamorte si materializzarono sopra uno degli scogli più grandi che fiancheggiavano una piccola insenatura. La grotta sottomarina si apriva una decina di metri sotto il livello dell’acqua ed era praticamente invisibile, coperta dal mare spumeggiante, vorticoso e dai bagliori metallici; una distesa d’acqua irrequieta che rifletteva il colore fosco del cielo plumbeo che sembrava sempre aleggiare intorno alle altissime torri di Azkaban. Bellatrix si accucciò sullo scoglio, sfilandosi le scarpe e riducendone le dimensioni con un semplice incantesimo. Prese dal sacchetto che portava legato in vita due palline di Algabranchia e ne porse una a suo marito.

- Appena saremo là sotto userò la mia bacchetta per farci contemporaneamente da luce e da guida – disse, mentre l’uomo che era con lei scrutava con un’espressione serissima la superficie increspata del mare – Ho fatto un incantesimo a questa vecchia bussola che ci permetterà di conoscere esattamente dove ci troviamo in qualsiasi momento – continuò estraendo il piccolo disco metallico che stava comodamente nel palmo della sua mano e fissandolo alla bacchetta con una sottile cinghia – E’ regolata anche per analizzare lo spessore del terreno. La grotta non dovrebbe essere completamente ricolma d’acqua, se arriva fino ai sotterranei del livello D, che più o meno si trovano a quell’altezza – disse, indicando un punto imprecisato a metà della parete rocciosa dell’isola.

- Credo che tu abbia ragione, Bella – le rispose lui. Poi si chinò ancora e le posò un leggero bacio sulle labbra, prima di infilarsi in bocca l’Algabranchia. Lei sorrise e l’imitò, masticando velocemente la massa viscida e gommosa che le avrebbe permesso di nuotare a suo agio. Presto avvertì una forte sensazione di soffocamento, come se le stessero tappando contemporaneamente sia il naso che la bocca, mentre due tagli sbatacchianti le si erano aperti dietro le orecchie: erano comparse le branchie. Vide Rodolphus tuffarsi in acqua e sparire sotto la superficie specchiata del mare. Lo seguì a sua volta, sentendo immediatamente i polmoni riempirsi nuovamente d’ossigeno. I suoi piedi si erano allungati e tra le dita sia delle mani che degli arti inferiori erano comparse sottili membrane di un verde quasi fosforescente che le consentirono di aumentare la velocità. Si accorse di poter vedere nitidamente e poco avanti a sé scorse Rodolphus che sembrava essere decisamente a suo agio come qualsiasi pesce. Lo raggiunse e gli indicò l’entrata della grotta pochi metri sotto di loro.

Si inabissarono ancora di più, mentre Bellatrix estraeva la bacchetta sulla quale poco prima aveva montato la bussola. L’estremità della bacchetta si accese di un modesto bagliore, una fluorescenza che non disturbava, ma sufficiente per poter illuminare almeno a un paio di metri di distanza.

Entrarono nella spelonca sottomarina, lasciandosi condurre da quel curioso strumento di navigazione subacquea che la donna aveva costruito poc’anzi. La grotta era piuttosto stretta e la corrente sembrava essere abbastanza forte, tanto che per contrastarla entrambi continuavano a nuotare energicamente. Si inoltrarono per parecchi metri ancora, fino a che il percorso virò bruscamente, cominciando a salire verso la superficie. L’effetto dell’Algabranchia stava ormai quasi terminando quando entrambi riemersero in un piccolo antro circolare cosparso di stalattiti , sulle cui pareti lisce ed umide si aprivano un paio di cunicoli che continuavano ad inerpicarsi per diversi metri, larghi a stento per poterci passare camminando gattoni. Bellatrix e Rodolphus attesero che le branchie scomparissero del tutto e che i loro arti tornassero normali. Si sedettero su di una sottile striscia di terra che sembrava essersi accumulata nel corso dei millenni proprio sotto i due cunicoli, e che sprofondava improvvisamente dopo mezzo metro, tanto che i due furono costretti a lasciar penzolare le gambe nell’acqua.

- Abbastanza faticoso… - mormorò la donna con un lieve sorriso, respirando velocemente e cercando di recuperare al più presto le forze.

- Già – fece eco Rodolphus, scostandosi con una mano i lunghi capelli bagnati che gli ricadevano incollandosi sulla fronte – Dove siamo esattamente? -

Bellatrix prese la bacchetta con la bussola, sfilò il piccolo disco di metallo e lo rigirò attentamente tra le mani.

- Trentasette metri sotto il livello D, sul versante nord-ovest dell’Isola… la cella di Lucius dev’essere proprio qua sopra, da qualche parte. Il terreno si assottiglia andando verso ovest, credo che il cunicolo che si apre a sinistra dovrebbe condurci proprio nella zona sotto la cella. Una volta lì dovremmo riuscire a tirarlo fuori. -

L’uomo annuì, poi si voltò appena, osservando attentamente la piccola galleria di sinistra che avrebbero dovuto attraversare. Non sarebbe stato semplice, ma la determinazione che lesse sul viso di sua moglie gli cancellò con un colpo di spugna ogni seppur minimo dubbio.

 

Fine seconda parte

 

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Silentium Vivorum - parte III ***


<center><i>Silentium Vivorum</i>

Disclaimer: Bellatrix Lestrange e gli altri personaggi che compaiono in questa fanfiction sono proprietà di J.K. Rowling e di editori come Bloomsbury, Bros, Salani. Nessuna violazione del copyright si ritiene pertanto intesa.

 

Silentium Vivorum

- Il Silenzio dei Vivi -

terza parte

 

 

Erano ormai parecchie ore che il lento stillicidio di piccole gocce d’umidità condensata gli teneva compagnia, nel silenzio immoto della sua angusta cella di pietra grigia coperta di un velo verdastro di muffa maleodorante. Lucius Malfoy si girò sul fianco, cercando ostinatamente una posizione se non confortevole, almeno il meno scomoda possibile. Non avrebbe mai immaginato che il letto morbido e spazioso della sua stanza al Malfoy Manor gli sarebbe mancato così tanto, ma dopo ore di notti insonni disteso su una tavola di legno marcio che i suoi carcerieri si ostinavano a chiamare “letto”, anche un mucchietto di paglia umida adesso gli sarebbe parso irresistibile e tremendamente invitante.

Spazientito, si mise seduto, sollevando le ginocchia e cingendole con le braccia nel tentativo di disperdere meno calore possibile, poiché la temperatura nei sotterranei si manteneva costantemente intorno ai tredici, quattordici gradi, nelle giornate in cui non pioveva, s’intende.

Appoggiò il mento sulle ginocchia e si mise a pensare, a costruire leziosamente congetture su congetture seguite da continue supposizioni che molte volte non avevano né capo né coda, ma che gli erano essenziali al fine di tenere la mente impegnata in qualcosa, qualsiasi cosa che gli avrebbe evitato di piombare nello stato di inedia comatosa tipico di tutti i prigionieri di Azkaban.

La sua mente corse subito a Narcissa e a suo figlio, Draco.

Non aveva dubbi sul fatto che la donna dalla bellezza nordica che aveva sposato sarebbe riuscita a padroneggiare eccellentemente la situazione al Malfoy Manor anche in sua assenza. Narcissa era convinta che sarebbe uscito presto da quella latrina di cella perché il Lord Oscuro “aveva estremo bisogno di lui”, gli aveva confidato durante la sua ultima visita, risalente ormai a diversi giorni prima. L’aveva vista attraverso la piccola grata inserita nella porta della sua prigione, con i lunghi capelli biondi raccolti sulla nuca, gli occhi azzurro ghiaccio che trapassavano gli Auror addetti alla sua sorveglianza, maestosa come una regina, sicura di sé al punto che nessuno era riuscito a negarle il permesso di vedere suo marito. Sposarla era stata una delle scelte della sua vita di cui non si era mai pentito e mai l’avrebbe fatto.

Scostò una ciocca di capelli chiari dal volto smagrito, mentre il suo pensiero si spostava su Draco. Quel ragazzo sembrava l’immagine speculare del Lucius sedicenne, la somiglianza era così marcata che persino lui se n’era meravigliato. Tuttavia le cose che lui e suo figlio avevano in comune finivano lì. Draco era diverso, in qualche modo molto diverso… non era mai riuscito a decifrare il suo carattere e il ragazzo continuava a rimanere un mistero. C’era qualcosa in fondo ai suoi occhi grigio-azzurri che gli era sempre rimasto celato, custodito gelosamente come qualcosa di prezioso, e che mai sarebbe riuscito a scorgere. Aveva la sensazione sgradevole che suo figlio cercasse di scoprirsi il meno possibile quando si trovava in sua presenza, quasi volesse essere ignorato, assimilato allo sfondo, scomparire mimetizzandosi con l’ambiente, in modo tale che nessuno avrebbe fatto caso a lui. Presto il Signore Oscuro avrebbe fatto del ragazzo un vero Mangiamorte e nonostante sembrava che suo figlio desiderasse intensamente diventarlo il più presto possibile, Lucius era sicuro che quello che Draco esternava era soltanto una faccia – e forse anche insincera – della sua complessa, inestricabile personalità.

Nonostante avesse tentato non conosceva affatto suo figlio e questo, anche se lui non l’avrebbe mai ammesso, gli procurava un fastidioso senso di perdita, un obiettivo che lui aveva mancato, un fallimento da parte del Lucius Malfoy padre. Gli occhi dalle pagliuzze argentee dell’adolescente che aveva cercato di guidare lungo la strada da lui percorsa, senza alcuna possibilità di tornare indietro, gli avevano comunicato una sola, semplice verità: era rimasto fuori.

Fuori dal mondo di Draco.

 

Cominciò a chiedersi dove avesse sbagliato.

Era sempre stato severo ed esigente con il giovane Malfoy… verissimo, ma solo per incitarlo a spingersi al limite delle sue capacità, a superare se stesso, perché il ragazzo ne aveva di stoffa, eccome. L’aveva invogliato ad abbracciare sua fede, la sua causa, perché suo figlio capisse che l’Oscuro Signore stava spianando la strada ai maghi del futuro, ai veri Maghi dal sangue puro e non mischiato in alcun modo con quello dei semplici Babbani. A Maghi come lui.

L’aveva spinto a vedere le cose dalla sua prospettiva, in modo tale da invogliare il ragazzo a pensarla alla stessa maniera dei sostenitori del Lord Oscuro, e sembrava esserci riuscito. Tuttavia solo adesso, per la prima volta, si accorgeva che suo figlio aveva accettato tutto passivamente, come un essere privato di volontà: mai aveva cercato di contraddirlo, o solo di mettere in discussione una delle sue parole, mai aveva desiderato discutere con lui dei suoi dubbi e delle sue incertezze, mai si era confidato con lui, se non a proposito di quello che combinavano “San Potter” e la sua compagnia di Mezzosangue e Babbanofili.

Non avrebbe saputo immaginare invece come avesse reagito suo figlio alla sua cattura e al successivo carcere. Come aveva accolto la notizia, come?

Aveva pianto, bestemmiato, riso… cosa?

Non sapeva figurarsi quello che poteva essere passato per la mente del giovane. Più ci rifletteva, più si accorgeva dell’abisso che si era spalancato tra lui e suo figlio nel corso di sedici anni. Non poteva dire neanche se Draco l’amasse o se lo rispettasse come un figlio amorevole rispetta il proprio padre. Ciò che invece saltava subito agli occhi era il timore, se non la paura, che il giovane Malfoy nutriva nei suoi confronti. Una paura che non era reverenziale, ma superava quella che un figlio insicuro può provare per un padre severo, un timore che lo spingeva ad eseguire alla lettera tutto ciò che lui gli “suggeriva”.

Draco sembrava un burattino tra le sue mani perché aveva paura di lui.

 

Questo pensiero lo colpì come una frustata.

 

Aveva sbagliato, lo vedeva chiaramente, adesso. Scorgeva nitidamente che la superiorità sprezzante che suo figlio ostentava nei confronti degli altri alunni di Hogwarts non era nient’altro che una maschera, un tentativo di nascondere la propria debolezza, una corazza eretta intorno a sé per evitare di essere feriti, l’ultima difesa contro la propria insicurezza.

Come aveva potuto essere così miope… come aveva potuto pretendere che suo figlio ragionasse secondo i suoi stessi schemi…

Avrebbe voluto prendersi a schiaffi, quando i suoi pensieri furono interrotti da un rumore sordo proveniente dal pavimento della sua prigione. Si allarmò immediatamente, portando per istinto la mano sotto le pieghe del rozzo abito di stoffa nera che indossava, solo per ricordarsi che non possedeva più la sua bacchetta da almeno qualche settimana, da quando cioè l’avevano sbattuto dentro. Con crescente preoccupazione vide che un punto del pavimento al centro della cella stava gradualmente cambiando colore, passando dal verde muffa al giallo e poi al bianco, e il chiarore si stava espandendo a macchia d’olio, come un pezzo di metallo che si arroventa stando a lungo a contatto con il fuoco. Balzò in piedi, rintanandosi in un angolo della stanza, non riuscendo a capire cosa diavolo stesse succedendo. La luminescenza che si era creata sul pavimento era ormai diventata un cerchio di quasi un metro di diametro, e la superficie di un bianco latteo sembrava quasi ondulare come una piccola pozza colma d’acqua. Lucius trasalì quando un braccio sporco di terra emerse dalla pozza di luce, seguito immediatamente dalle spalle e da una testa ornata da un manto di capelli neri tra i quali si intravedevano granelli di sabbia grigia ed altri frammenti di terriccio.

- Non ci posso credere… - sussurrò Malfoy, mentre la donna emergeva completamente, scrollandosi la terra rimasta attaccata alla tuta nera che indossava. Alzò gli occhi verso di lui, poi si guardò intorno, come per valutare con un’occhiata la sua situazione e tornò nuovamente a fissare l’uomo:

- Che lerciume, Malfoy – mormorò a voce bassissima, con una scrollata di spalle. Poi infilò una mano nella pozza di luce bianca e dopo un istante tirò verso l’alto, portandosi dietro il braccio, poi la testa e infine l’intero corpo di Rodolphus Lestrange. L’uomo bruno si guardò intorno un po’ spaesato, poi il suo sguardo si posò su di lui, ancora mezzo scosso:

- Oh, ciao Lucius! Siamo venuti per darti un… passaggio fino a casa. Sempre se non ti dispiace… – sussurrò con un accattivante sorriso asimmetrico.

- Rodolphus… Bellatrix… io… - mormorò, ancora incapace di credere ai propri occhi.

Narcissa aveva avuto ragione. Erano venuti per lui…

- Non abbiamo tutto il tempo del mondo, Lucius – tagliò corto la donna, mantenendo un tono di voce estremamente basso, per paura che qualcuno potesse accorgersi della loro presenza – e dobbiamo uscire fuori di qui se vogliamo Smaterializzarci. Il varco durerà ancora per qualche minuto, dobbiamo affrettarci -

- Il varco? – chiese piano l’uomo, guardando prima lei, poi Rodolphus, che gli indicò la pozza bianca la cui luminescenza sembrava ancora piuttosto intensa:

- E’ stata una sua idea - gli disse, inclinando la testa verso la moglie – quella di cambiare temporaneamente lo stato della materia da solido a liquido. Però quel settore di pavimento rimarrà uno stagno ancora per poco -

Lucius Malfoy sorrise lievemente, gli occhi grigi resi ancora più brillanti dal chiarore che si era diffuso nella cella.

- Hai sempre avuto molta immaginazione, Bella – le bisbigliò, mentre il sorriso si faceva più aperto. Bellatrix sembrò un attimo riflettere sulle sue parole, ma poi anche il suo volto cesellato si addolcì in un sorriso: - E’ bello rivederti, Lucius – disse, prendendogli una mano tra le sue – Lui ti sta aspettando. Ed anche Draco e mia sorella -

L’uomo biondo sembrò leggermente sorpreso, poi annuì e si accinse ad attraversare il cerchio bianco che aveva già cominciato ad estinguersi.

 

 

Certo era stato molto più facile scendere che salire. Bellatrix si lasciò scivolare nella pozza di luce che aveva creato, trattenendo il respiro per cinque, sei secondi, fino a quando i suoi piedi non toccarono la dura roccia dello stretto cunicolo che li aveva condotti fin sotto la cella di Malfoy. Si lasciò cadere sulle ginocchia, stando attenta a non sbattere la testa contro la volta bassa del cunicolo, e spostandosi un po’ più avanti, camminando gattoni, per non intralciare la discesa di Rodolphus e di Lucius. Estrasse la bacchetta, pensò mentalmente l’incantesimo per farla diventare luminosa e attese che i due uomini uscissero dal livello D della fortezza di Azkaban.

- Mettiti a quattro zampe, Lucius, o non riuscirai ad entrare qui dentro – disse appena intravide sbucare dal soffitto biancastro e ondulato le gambe e le braccia di Malfoy, che atterrò sulle ginocchia e sui gomiti un istante dopo.

- Dove siamo esattamente? – chiese l’uomo, guardando le strette pareti di roccia e terriccio intorno a lui. Avanzò gattoni verso Bellatrix, che si era rannicchiata in attesa che scendesse anche Rodolphus. Anche se esile, la donna occupava più della metà del diametro della strettissima galleria.

- In un cunicolo scavato da chissà chi… o cosa… - gli rispose, sorridendo immediatamente quando Lucius, non ancora abituato a muoversi in un così ridotto spazio, diede una testata abbastanza decisa contro la volta del minuscolo passaggio.

Rodolphus li raggiunse un attimo più tardi, quando ormai la chiazza bianca sul soffitto era decisamente molto meno visibile.

I tre Mangiamorte percorsero il cunicolo avanzando gattoni, guidati dalla luce della bacchetta di Bellatrix, attenti a non scivolare in avanti, man mano che la pendenza della galleria aumentava. Sbucarono nello stesso antro che comunicava con la grotta sottomarina, stando attenti a non cadere in acqua, cosa alquanto difficile dato che tutti e tre avrebbero dovuto appoggiarsi al ridottissimo fazzoletto di sabbia su cui precedentemente lei e Rodolphus si erano riposati.

- Lucius, Rodolphus, prendete una di queste – disse la donna, slacciando il sacchetto con le ultime tre palline di Algabranchia che portava legato in vita. Sistemò nuovamente la minuscola bussola sulla bacchetta, anche se ora il cammino verso l’uscita sembrava decisamente molto più semplice. Poi guardò con occhio critico la tunica dell’uomo biondo ormai ridotta ad un cencio sporco e con un altro gesto deciso trasfigurò l’abito di Malfoy in una tuta adatta per nuotare senza inciampare continuamente nella stoffa.

- Ora va molto meglio, Bella – la ringraziò l’uomo, guardando il piccolo ammasso viscido e grigiastro che avrebbe dovuto ingoiare a momenti. Senza stare a pensarci troppo se lo cacciò in bocca, costringendosi a masticare velocemente e a mandare giù quella poltiglia dal gusto indecifrabile. Subito le branchie cominciarono a sbatacchiargli dietro le orecchie e senza perdere tempo si tuffò in acqua, seguito dai due Lestrange.

La bacchetta di Bellatrix illuminava discretamente il cammino che stavano percorrendo e la donna stette ben attenta a non perdere mai di vista i due uomini che la stavano seguendo. La missione stava filando in maniera incredibilmente liscia, e se fossero stati attenti a non commettere errori come avevano fatto fino a quel momento, sarebbe passato diverso tempo prima che qualcuno scoprisse la fuga di Lucius Malfoy dal livello più puzzolente della prigione di Azkaban. Finalmente lei sarebbe stata degna della Sua fiducia… Il Lord Oscuro avrebbe capito di avere un’alleata più che valida che l’avrebbe seguito sempre e dovunque, qualunque cosa fosse successa. Non avrebbe commesso un altro errore, questa volta nessuno le avrebbe messo i bastoni tra le ruote. Aveva pianificato tutto e stava muovendosi con prudenza, adesso. Certo, doveva ammettere che al Dipartimento dei Misteri si era lasciata prendere dall’entusiasmo, meglio, dall’ebbrezza che aveva provato a sentirsi di nuovo libera e in grado di combattere per Lui e contro coloro che cercavano di ostacolarli, mettendo da parte la lucidità e la freddezza che l’avevano sempre contraddistinta… era stato un errore. Ora, invece, la razionalità e il sangue freddo stavano contribuendo in pieno alla completa riuscita del suo compito. Improvvisamente intravide l’uscita e accelerò leggermente l’andatura, assicurandosi che Rodolphus e Lucius la imitassero. Dopo qualche minuto riemerse dalle acque irrequiete che circondavano l’isola inospitale, ora martellate da una pioggia gelida e incessante che proveniva dalle basse e plumbee nuvole temporalesche.

I due uomini emersero qualche istante più tardi, e lei fece segno di dirigersi verso uno dei più ampi scogli nelle vicinanze, dove avrebbero potuto attendere che l’effetto dell’Algabranchia svanisse completamente.

Bellatrix alzò gli occhi verso il cielo, mentre si aggrappava con le mani palmate alla roccia viscida. Si sarebbe scatenata presto una tempesta violenta che avrebbe imperversato sull’isola per diverse ore, se non per giorni interi… tuttavia la distanza che aveva messo tra loro e la prigione non era ancora sufficiente per potersi Smaterializzare senza che nessuno avvertisse la loro presenza. Individuò un altro scoglio a una ventina di metri che poteva fare al caso loro, e insieme nuotarono verso la piccola isola di roccia nuda con le ultime energie rimanenti. Le dita palmate e le branchie scomparvero a pochi metri dalla meta. Ansimando per lo sforzo, la donna raggiunse lo scoglio sferzato dalle onde marine che stavano facendosi sempre più grandi e insistenti, e si lasciò cadere esausta sulla roccia bagnata, mentre Rodolphus aiutava Lucius ad issarsi su quello stretto lembo di terra che significava ormai la salvezza.

- Come… come farò a Smaterializzarmi, senza la bacchetta? – chiese l’uomo biondo, mentre cercava di riprendere fiato e di scaldare i muscoli indolenziti per la bassa temperatura dell’acqua.

- Dovrò portarti con me, temo  – rispose la donna, mentre recuperava le forze per compiere l’incantesimo che aveva appena citato.

- Ci riusciresti? – chiese Lucius, senza nascondere la sua titubanza.

- Non temere, è molto brava in queste cose, molto più di me! – replicò Rodolphus, mentre i suoi occhi viola osservavano quasi in contemplazione il volto concentrato di sua moglie. Lei si voltò verso di lui:

- Saresti in grado anche tu, lo sai benissimo – gli disse, ma il suo tono non era accusatorio, anzi… un amore immenso era intrecciato in ognuna delle sue parole, un sentimento che non l’avrebbe mai abbandonata. Vide il viso splendido di Rodolphus illuminarsi ancora una volta di un sorriso calmo e bellissimo, che si espandeva anche agli occhi color del crepuscolo.

 

 

L’avrebbe ricordato così per sempre.

 

 

Un tuono fragoroso scosse l’aria circostante all’improvviso, ma, come Bellatrix si accorse con orrore, non dipendeva dal temporale imminente.

Quello era il rumore di una Smaterializzazione riuscita male.

Un uomo piombò in acqua a pochi metri dallo scoglio su cui si trovavano e cominciò immediatamente a sbracciarsi e a chiedere aiuto con una voce da eunuco. La donna riconobbe all’istante il Mangiamorte chiamato Codaliscia.

- Pezzo di idiota! Cosa ci fai qui! Ci farai scoprire tutti con il boato che hai provocato! – urlò, mentre finalmente l’ometto aveva capito che per spostarsi in acqua doveva muovere le gambe e le braccia. Rodolphus e Lucius intanto lo stavano guardando allibiti. Codaliscia non fece neanche a tempo a rispondere che una voce sgradevolmente nota lo precedette:

- Ma guarda cosa c’è nella rete oggi…non sapevo che quell’ incapace di Pettigrew potesse servirmi a qualcosa! Sapete, ci ha portati direttamente da voi! -

Bellatrix si voltò, molto lentamente.

Davanti a lei Alastor Moody, con un ghigno dipinto sulla sua faccia che sembrava tagliata da un’accetta, stava sospeso a mezz’aria a cavallo di una Nimbus in compagnia di cinque Auror, tutti in sella a manici di scopa. Sia l’occhio normale che quello blu elettrico erano fissati su di lei con un’intensità che rasentava quasi la bramosia. Mad Eye la voleva morta, a tutti i costi. Glielo leggeva sulla faccia deturpata, abbruttita ancora di più dal pezzetto mancante di naso che Evan Rosier gli aveva sottratto anni addietro.

Erano nei guai, fino al collo. Se avesse potuto, avrebbe scuoiato vivo quel rifiuto di Pettigrew, fosse stata l’ultima cosa che avrebbe fatto.

- E’ sempre un dispiacere rivederti, vecchio pazzo – l’apostrofò la donna, sollevando la bacchetta. Rodolphus estrasse immediatamente la sua, mentre Lucius, spietatamente consapevole di essere disarmato e dunque un facilissimo bersaglio, aveva cominciato ad indietreggiare. Pettigrew intanto aveva raggiunto lo scoglio, la faccia flaccida quasi bluastra per l’acqua fredda, gli occhietti sporgenti ricolmi d’orrore per le conseguenze della suo essere così paurosamente maldestro.

- Cosa volete fare, due contro sei? Siete spacciati, signori Lestrange. Deponete le bacchette, e vi lasceremo in vita – tuonò ancora Moody, mentre gli altri Auror si disponevano in modo tale da accerchiarli senza concedere loro nessuna via di scampo, se non il mare.

- Dammi la tua bacchetta, Pettigrew! – urlò Lucius, tendendo imperiosamente la mano allo spaurito Codaliscia. Questi non se lo fece ripetere due volte, e con il braccio tremolante estrasse un tozzo pezzo di legno dalle pieghe della sua veste nera. Ma non fu abbastanza rapido.

- Accio bacchetta!- ruggì Moody, e Bellatrix non poté fare niente per impedire che la tozza bacchetta di Pettigrew finisse tra le mani di Mad Eye.

- Vedo pure che siete scesi abbastanza in basso, adesso. Niente più Materializzazioni, Lestrange? Voldemort vi costringe a intrufolarvi come ratti? Che caduta di stile… -

Gli occhi d’ossidiana della donna diventarono tizzoni ardenti: - Arriverà l’ora in cui urlerai al cielo come un maiale portato al macello, pazzo! -

- E chi mi ci condurrà? Tu, Lestrange? Vedo che tredici anni di Azkaban non sono stati abbastanza. Sei rimasta la stessa mela marcia -

- Meglio essere marcia e putrefatta, che assomigliare a te o a quell’idiota di mio cugino. Non vedo l’ora di farti fare la stessa fine, Mad Eye. La fine che meriti. -

- Tu non sei degna neanche del fango incollato alla suola delle scarpe di Sirius! – sbraitò Moody, le vene del collo ingrossate dall’ira. Bellatrix stava per replicare, quando, con uno scatto fulmineo, Rodolphus si scagliò sul vecchio Auror spiccando un salto altissimo, probabilmente frutto di un incantesimo. Atterrò su Moody e lo disarcionò con abbastanza facilità grazie anche al forte vento che si stava alzando, ma la vecchia volpe fece in tempo a trascinarlo con sé ed ambedue piombarono nell’acqua ormai gelida al largo della costa scozzese.

- Stupefy! -

- Impedimenta! -

Bellatrix e Lucius saltarono in acqua, mentre lo scoglio veniva bersagliato dagli Auror in crescente difficoltà nel tentativo di mantenersi in equilibrio sui manici di scopa investiti dal vento che spazzava violentemente la superficie del mare. La donna eresse velocemente uno scudo intorno a sé e a Malfoy, mentre cercava di colpire qualche Auror con la Cruciatus, e gli incantesimi si intensificarono. Anche Codaliscia si era ributtato in mare, ma per un motivo ben preciso: aveva visto la propria bacchetta galleggiare poco lontano, probabilmente scivolata a Moody quando era caduto in acqua. Con uno sforzo inumano raggiunse il pezzo di legno, scampando miracolosamente a tutti gli schiantesimi che alcuni Auror stavano riversando su di lui e che, per sua fortuna, non erano abbastanza precisi da centrare la sua testa quasi calva che emergeva dai flutti. Stava per Smaterializzarsi quando Lucius lo raggiunse con poche bracciate, gli strappò la bacchetta dalle mani e la puntò contro un Auror lanciandogli una potente Cruciatus. L’uomo urlò e si contorse, mentre la sua bacchetta cadeva in mare. Lucius l’afferrò senza perdere tempo e finalmente riuscì a Smaterializzarsi, prontamente imitato da Codaliscia, rientrato in possesso della sua tozza arma.

Bellatrix era nel panico. Rodolphus, né Moody erano ancora riemersi. Aveva appena visto Malfoy sparire con la bacchetta sottratta ad un Auror e contava di smaterializzarsi non appena avesse intravisto Rodolphus; tuttavia, un attimo prima che decidesse di immergersi a sua volta, li vide sbucare dall’acqua, entrambi ansimanti nel difficile tentativo di tenersi a galla nel mare agitato. Un ghigno le piegò le labbra quando si accorse che l’occhio magico di Mad Eye non era più al suo posto, ma probabilmente da qualche parte sul fondo dell’oceano Atlantico.

Forse fu proprio questo pensiero a farla distrarre, o forse era semplicemente stremata. Un incantesimo mirato riuscì ad infrangere il suo scudo e a colpirla in pieno. Lo riconobbe all’istante come incantesimo della Pastoia Totale, poiché i muscoli del suo corpo si immobilizzarono immediatamente, impedendole di nuotare e di rimanere a galla. Il contro-incantesimo le era già salito alle labbra quando anche i muscoli della sua bocca si rifiutarono di muoversi. Lo pensò allora con tutte le sue forze, ma non accadde nulla. Vide Rodolphus urlare il suo nome e dirigersi verso di lei prima di sparire tra le onde: presto l’ossigeno sarebbe venuto a mancarle. Cercò disperatamente una soluzione, ma non le venne in mente niente, mentre continuava a scendere terrorizzata verso il fondo del mare. L’ossigeno rimasto nei suoi polmoni era diventato insufficiente… aveva male dappertutto, si sentiva letteralmente morire e si augurò che finisse presto, che la morte sopraggiungesse subito, evitandole di soffrire così. Stava per perdere conoscenza quando, con uno slancio, riemerse dai flutti, ancora completamente immobile, ma libera di inspirare nuovamente quanta più aria poteva. Poi la comprensione si fece strada nel suo cervello.

Rodolphus la teneva sospesa a mezz’aria grazie al Wingardium Leviosa e stava faticosamente spostandola verso lo scoglio che ancora sporgeva in mezzo alle acque agitate, dove aveva intenzione di liberare di nuovo il suo corpo. Aveva la fronte corrugata dall’intenso sforzo ed un taglio sanguinante gli solcava orizzontalmente la guancia destra.

 

 

Non poté urlare, non poté gridargli di fare attenzione alle sue spalle, non poté digli niente, poiché successe tutto in un attimo. Poté soltanto guardare e disperarsi per il resto dei suoi giorni.

Moody gli si era avvicinato silenziosamente alle spalle e con un gesto deciso gli aveva piantato un lungo stiletto d’acciaio alla base del collo.

Bellatrix vide tutto come se al rallentatore. Vide Rodolphus che spalancava gli occhi ametista dalla sorpresa e immediatamente dopo dall’orrore per l’inevitabile conseguenza che il gesto dell’Auror sfregiato comportava, mentre un rivolo di sangue gli sgorgava dalle labbra socchiuse… negli occhi color della sera dell’unico uomo che avesse mai amato in vita sua Bellatrix vide comparire la rassegnazione, subito però spodestata da qualcosa di più potente, di più sconvolgente che annullava la paura che la morte fa a qualsiasi essere umano… l’amore immenso che nutriva per lei, solo per lei, gli stavano dando la forza per liberarla dalla Pastoia. Quasi gorgogliando l’uomo pronunciò la formula del contro-incantesimo e Bellatrix fu di nuovo libera di muoversi.

E di urlare.

Scagliò su Malocchio Moody l’Avada Kedavra con tutta la sua ira e, anche se lo mancò per un soffio, fu finalmente in grado di raggiungere Rodolphus e Smaterializzarsi insieme a lui.

 

Riapparvero da qualche parte in mezzo alla campagna inglese inondata dagli ultimi raggi del sole morente, grondanti d’acqua e tremanti di freddo. Rodolphus si era accasciato interamente contro di lei che, incapace di mantenerne il peso ancora a lungo, si inginocchiò e poi si sedette sull’umida erba, tenendo in grembo il capo dell’uomo e tamponandogli inutilmente lo squarcio che si apriva orribilmente sotto il mento.

- Bel… la… - mormorò lui, con voce appena percettibile, la lingua impastata di sangue, gli occhi socchiusi e la coscienza che si stava lentamente distaccando dalla realtà.

- Non ti stancare, ti prego, non parlare… - lo supplicò lei, gli occhi sbarrati dal terrore, il viso teso, pallido dallo sforzo e dalla paura tremenda che le stava crocifiggendo l’anima.

Rodolphus la guardò ancora una volta… la sua bambina dagli occhi eterni, la sua Bellatrix che aveva amato dal primo momento in cui aveva posato quasi distrattamente gli occhi su di lei… la donna che aveva colmato il vuoto della sua vita, l’essere che aveva dato un senso meraviglioso alla sua esistenza anche quando aveva dovuto affrontare l’inumana realtà di Azkaban…

… il suo appiglio…

…. il suo rifugio, la sua unica… ragione di vita…

….prima di tutto… prima di tutti…

….prima di Voldemort … c’era stata lei…

C’era…  stata… solo… 

…lei.

 

 

……………………………………………………

 

Il lupo la stava ancora osservando con i suoi grandi occhi dorati, ma era rimasti immobile al suo posto.

Bellatrix si riscosse dai suoi ricordi, rabbrividendo per il freddo che ora si era fatto insopportabile. Con movimenti misurati indossò nuovamente la sua tunica nera, rialzandosi in piedi e facendo sempre molta attenzione a non allarmare lo splendido animale che continuava a fissarla.

Il senso di nausea si era leggermente attenuato, ma non era scomparso del tutto. Si chiese se dipendesse ancora dalla visione di Crouch jr, ma ne dubitava. Forse era giunto il momento di tornare in Inghilterra.

Poi, in un lampo di comprensione, capì la vera causa del suo malessere.

Bellatrix si portò una mano al ventre, mentre il volto si illuminava dalla sorpresa.

 

Continua…

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Contumacia - parte I ***


Disclaimer: Bellatrix Lestrange e gli altri personaggi che compaiono in questa fanfiction sono proprietà di J

Disclaimer: Bellatrix Lestrange e gli altri personaggi che compaiono in questa fanfiction sono proprietà di J.K. Rowling e di editori come Bloomsbury, Bros, Salani. Nessuna violazione del copyright si ritiene pertanto intesa.

 

Ti colpirò senza collera,

senz’odio, come un beccaio,

o come Mosè la roccia!

Farò della tua palpebra,

 

per dissetare il mio Sahara,

sgorgare l’acqua della sofferenza.

La mia brama, gonfia di speranza,

filerà sulle tue lacrime salate

 

come una nave che prende il largo

e nel mio cuore, che ne sarà inebriato,

i tuoi cari singhiozzi echeggeranno

come un tamburo che batte la carica!

 

Non sono forse un accordo

stonato, nella divina sinfonia,

grazie alla vorace Ironia

che mi squassa e che mi morde?

 

E’ dentro la mia voce, come stride!

È il mio sangue, questo veleno nero!

Sono lo specchio sinistro

in cui si guarda la megera.

 

Io sono la piaga e il coltello!

Io sono lo schiaffo e la gota!

Sono le membra e la ruota

e la vittima e il carnefice!

 

Sono del mio cuore il vampiro,

-         uno di quei grandi derelitti

condannati all’eterno riso

e che non possono più sorridere!

 

Charles Baudelaire,

L’ Eautontimorumenos” (ovvero Colui che punisce se stesso),

da Les Fleurs du Mal

 

 

 

Contumacia

la Ribellione

parte prima

 

- Sei stata via per diverso tempo, Bellatrix, ma immagino non mi dirai dove – mormorò Antonin Dolohov, muovendosi verso la donna parzialmente immersa nella penombra. Lei non si voltò neppure, continuando a guardare il cielo notturno trapunto di stelle, ancora più brillanti a causa della luna nuova che non sbiadiva, con la sua luce d’oro bianco, la loro luminosità sorridente. Rimase seduta sul davanzale della grande finestra all’ultimo piano della Torre di basalto del Lord Oscuro, una struttura imponente, che si elevava dal suolo rastremandosi verso l’alto per parecchi metri.

Dolohov le si avvicinò, osservandola quasi con sospetto. Aveva notato qualcosa di diverso in lei, appena accennato, ma sufficiente per trasformare il suo viso solitamente teso in un volto che esprimeva pace e pacatezza dell’animo. Bellatrix sembrava diversa dal solito, come se la sua diffidenza ed il suo perenne stato d’allerta si fossero attenuati, stemperati in qualcosa di misterioso che l’avvolgeva come un manto delicato, aleggiando su di lei e irradiandosi nello spazio circostante, come se la donna si stesse realmente trasformando nella stella di cui portava il nome(*).

Infine lei si voltò, alzando lo sguardo verso il viso ancora giovane del Mangiamorte:

- Faceva piuttosto freddo, comunque – rispose, stringendosi istintivamente nelle spalle.

L’uomo annuì. Dopo la vista a Barthy jr, anche lui aveva avuto lo stesso impellente bisogno di toccare immediatamente qualcosa di gelido, ma che l’avrebbe fatto sentire dolorosamente vivo e in grado di avvertire i morsi del freddo. Aveva dovuto sentire la sua materialità in tutta la sua prepotente presenza.

Eppure non riusciva ancora a spiegarsi quella netta sensazione di cambiamento emanata dalla persona di lei, che lo stava fissando ora nel tentativo di capire esattamente cosa gli stesse passando per la testa. L’uomo decise di non perdere altro tempo:

- Cosa ti turba, Bellatrix? – chiese, appoggiando la schiena alla fredda parete di pietra.

- Che vuoi dire? – replicò lei, mentre i suoi occhi venivano attraversati da un’ombra di diffidenza che però scomparì subito.

- Sei… come dire… diversa, ecco tutto – fece lui, con una pacifica alzata di spalle.

Quasi non credette ai suoi occhi quando vide le labbra di Bellatrix incurvarsi in un sorriso che sfiorava la tenerezza. Quella donna non aveva mai sorriso, non così, almeno, e sicuramente, non a lui.

- Non immaginavo si potesse notare tanto – sussurrò lei, incrociando le braccia in grembo – Aspetto un figlio. -

Antonin Dolohov la guardò allibito: - Ma è impossibile! - esclamò, usando le parole che meglio esprimevano la sua incredulità. La donna gli rivolse un’occhiata indecifrabile, poi disse con calma:

- Anch’io pensavo lo fosse. Avevo sempre creduto di essere sterile, e invece… -

- Ne sei sicura, Bella? – chiese Dolohov, mentre il suo mento affilato si addolciva in un sorriso appena accennato.

- Lo sento, Antonin. Sento il figlio di Rodolphus che vive e cresce nel mio corpo. Ne sono più che certa – e il suo volto si illuminò mentre parlava.

- Allora devi dirlo al nostro Signore, Bella. Sarà lui a dirti cosa ci sia più giusto da fare… forse… forse la prescelta potresti essere davvero tu. -

- La prescelta? – chiese lei, senza poter impedire che un brivido inquietante le percorresse la schiena, una sensazione che la turbò non poco. Eppure…

Eppure avrebbe dovuto essere al settimo cielo. Essere qualcuno di importante, addirittura di essenziale per il Lord Oscuro sarebbe stata l’estasi, l’apoteosi, il coronamento dei suoi sogni, la giusta ricompensa per i propri sforzi, il premio per la fedeltà incondizionata che la legava a quel paio di occhi vermigli e ultraterreni che avevano pilotato la sua vita, avevano forgiato il suo carattere indomabile e battagliero, la sua forte personalità, il suo animo ardente di libertà e di devozione solo per colui che le aveva realmente aperto gli occhi. Ma allora…

… allora perché si sentiva inspiegabilmente ghiacciare al solo pensiero che tutto ciò potesse verificarsi? Perché sentiva dentro di sé che avrebbe preferito non diventare mai quello che Dolohov chiamava “ la prescelta”?

- Lo saprai quando sarai da lui – le rispose enigmatico l’uomo dai profondi occhi castani, allontanandosi silenziosamente com’era venuto.

La donna si voltò nuovamente verso il cielo stellato, attendendo l’alba in silenzio, incapace di addormentarsi anche per pochi minuti.

 

 

Per l’ennesima volta nella sua vita, Bellatrix Lestrange si chinò a baciare devotamente la veste nera del suo Signore, mentre la stessa inquietudine di poche ore prima tornava a tormentarla. Aveva ripetuto quel gesto moltissime volte.

Dunque cos’era che la stava turbando?

La risposta arrivò appena sollevò le labbra dall’orlo dell’abito. Bellatrix percepì chiaramente, e per la prima volta in tutta la sua vita, quanto il Lord Oscuro fosse lontano dall’essere un umano. Il suo distacco dal resto dell’umanità dotata e non di poteri magici era così netto che quasi lei lo poté scorgere. Nella sua mente sgomenta si formò per un istante l’immagine di una voragine, buia e senza alcuna possibilità di vederne il fondo, che la paralizzò totalmente per un lunghissimo secondo.

Una strana reazione, che L’Oscuro non mancò di notare, decidendo comunque di non farne parola.

-  So che hai qualcosa da dirmi, Bella – sussurrò Lord Voldemort, non appena le ebbe dato il permesso di alzarsi. La donna annuì, e nulla trasparì dal suo sguardo profondo di quello che si agitava nel suo animo con la forza di un maremoto. Il suo viso d’alabastro si mantenne calmo, quasi sereno, mentre i suoi occhi si posarono coraggiosamente sul volto altrettanto marmoreo del Lord Oscuro, una volta tanto lasciato interamente scoperto. Gli occhi ferini del suo Signore brillarono come due immense polle di sangue, trafiggendo la semioscurità che aleggiava perennemente nell’ampia sala del sotterraneo e giungendo fino alle soglie del suo animo, ansiosi di avere la conferma di quello che aveva sospettato da più di un mese a questa parte.

Lui se n’era accorto ancor prima di lei. L’aveva percepito come se fosse stata una sensazione fisica: la potente aura di Bellatrix, che conosceva bene, non era ormai più sola, ma una nuova si era sovrapposta, un’energia che prometteva di diventare prorompente, immensa, quasi incontrollabile, un potere che avrebbe potuto scuotere le fondamenta della Terra, una forza distruttrice e ricreatrice che avrebbe reso il più semplice dei mortali un nuovo, terrificante dio e che avrebbe potuto rendere lui l’Essere più potente dell’intera Storia dell’umanità. 

- Aspetto un figlio, mio Signore – disse piano Bellatrix, e abbassò gli occhi sul suo ventre ancora piatto. Così facendo, non poté scorgere il lampo di trionfo che attraversò quelli rossi del Lord Oscuro, anche se un altro brivido freddo le fece tremare le membra, rinvigorendo quella sensazione di angoscia che l’aveva attanagliata la sera prima.

Lord Voldemort le si avvicinò lentamente, mentre l’unico suono percepibile era il lieve frusciare delle sue vesti sul suolo spoglio. Si trattenne a stento dall’esclamare dalla sorpresa quando il Signore Oscuro poggiò una lunga mano bianca e innaturalmente lunga sul suo addome, rimanendo ammaliata, quasi catturata dalla piega ghignante che le labbra sottili di Mylord assunsero un attimo dopo.

- Una nuova vita palpita in te, Bellatrix – sussurrò Lui, gli occhi ridotti a due lame di fuoco fissi sul suo volto. La donna sussultò, il disagio era quasi diventato timore, adesso. L’Oscuro voleva qualcosa di ben preciso da lei, o meglio, Lui desiderava l’unica cosa che lei non avrebbe mai voluto donargli. Aveva la sua vita, aveva la sua volontà imbrigliata tra le lunghe dita pallide, aveva il suo potere, ed anche se il pensiero la trafiggeva come mille lance d’acciaio, avrebbe avuto il suo corpo se solo l’avesse desiderato, se solo glielo avesse ordinato. Ma non poteva chiederle nient’altro, nient’altro

- Voglio la carne della tua carne, il sangue del tuo sangue, Bellatrix. Perché voglio rinascere – sibilò il suo Signore, guardandola ancora ed esercitando tutta la sua terribile volontà su di lei. Bellatrix sbarrò gli occhi, non era certa di aver compreso bene il sacrificio che questa volta Lui pretendeva da parte sua.

- Tuo figlio, Bellatrix, ha l’unico potenziale magico in grado di ospitare il mio spirito senza venirne distrutto. Ho bisogno di un corpo di carne e di sangue, perché quest’involucro che mi contiene non potrà durare a lungo. Tuo figlio sarà quel corpo. Tuo figlio e Lord Voldemort finiranno per diventare una cosa solaconcluse, staccandosi da lei, gli occhi fiammeggianti che sembravano disintegrare qualsiasi cosa avessero guardato troppo a lungo.

La donna restò immobile, il volto pallido congelato in un’espressione neutra, come se le parole del Lord Oscuro l’avessero lasciata del tutto indifferente e imperturbabile.

- Macnair – sussurrò Lui, chiamando un alto e possente Mangiamorte che era rimasto in attesa all’entrata della grande sala. L’energumeno si avvicinò, e con un movimento sorprendentemente fluido si chinò a baciargli l’orlo della veste.

- Accompagna Lestrange in un luogo confortevole, un posto che sia adatto al suo stato – continuò dopo avergli accordato il permesso di alzarsi.

L’omone si esibì in un formale e devoto inchino, poi si voltò verso la donna, aspettando che lei muovesse il primo passo. Ancora con la stessa espressione di marmo, Bellatrix tornò a guardare la figura sottile del suo Signore, attendendo pazientemente che si Smaterializzasse. Il Lord Oscuro rivolse il suo sguardo sanguigno su di lei e svanì in un silenzio gelido. Lei si mosse verso Macnair che si accinse a condurla come aveva ordinato il loro Padrone, incamminandosi verso i piani superiori dell’immensa Torre basaltica.

 

 

L’orrore raccapricciante per quello che sarebbe stata costretta a fare la stava letteralmente soffocando, ma nulla il suo viso statuario lasciò trasparire, come un’efficace maschera che avrebbe protetto e nascosto più a lungo possibile i suoi sentimenti e il suo animo lacerato da una lotta che la stava annientando. In quegli interminabili secondi in cui il Signore Oscuro aveva fatto la sua richiesta, lei aveva capito due cose: la prima, che Lord Voldemort desiderava più di ogni altra cosa un corpo umano, il solo in cui il suo spirito avrebbe potuto albergare senza che una sofferenza senza tregua tormentasse ogni istante della sua esistenza; un corpo simile a quello che aveva posseduto prima della sua sconfitta, fatto di vera carne e vero sangue, la sola materia che non avrebbe nuociuto al suo animo che si era originato insieme ad essa e che più di ogni altra cosa anelava a ricongiungervisi. 

La seconda, che non avrebbe mai potuto consegnarli suo figlio. Il solo pensiero di immolare la nuova vita che stava ospitando nel suo corpo la scuoteva dolorosamente in ogni più minuscola fibra del suo essere. Semplicemente, non ne avrebbe avuto la forza. Meglio morire, meglio essere baciati da un Dissennatore, meglio essere condannati alla sofferenza eterna che strappare un’anima già nata al proprio corpo, costringendola ad errare senza meta e senza requie, atrocemente sola anche oltre la fine del mondo.

Non poteva concepire un abominio più grande di questo. Avrebbe dato se stessa, anima, corpo e mente, ma non suo figlio, il bambino di Rodolphus… non sarebbe sopravvissuta ad un dolore simile, che l’avrebbe seguita anche dopo la morte. Non poteva. Non questa volta.

 

 

Simili pensieri continuarono a torturarla nei giorni seguenti, mentre sola se ne stava accucciata contro la parete nuda della stanza che Macnair le aveva mostrato, lo sguardo fisso davanti a sé, le mani poggiate sulle ginocchia premute contro il petto, a languire come mai aveva fatto sino a quel momento. La sua mente, che per chiunque appariva irrimediabilmente annegata nello stagno melmoso della pazzia, si dibatteva disperatamente e senza tregua nel vano tentativo i trovare una via d’uscita dal baratro spaventoso in cui era sprofondata. Se solo ci fosse stato Rodolphus con lei

Non sapeva letteralmente che cosa fare. Disobbedire significava tradire, e tradire voleva dire la morte, o peggio. Ma lei non voleva tradire il Suo Signore, la devozione verso di Lui era così radicata che tutto il suo animo aborriva semplicemente anche solo l’ipotesi di tradimento. Eppure doveva proteggere la vita di cui era diventata custode ed unico tramite.

 

Per la prima volta, qualcun altro prese il posto che era stato fino ad allora il centro del suo Universo, e lei si trovò di fronte ad una scelta che per nessuna ragione al mondo avrebbe voluto compiere.

Tuttavia lo fece.

 

Capì subito che doveva andarsene al più presto dalla Torre. Doveva nascondersi e nascondere suo figlio.

 

Doveva allontanarsi da Lui.

 

Il pensiero la fece quasi urlare dal dolore, ma si morse le labbra, riducendo il grido ad un gemito sommesso. Si alzò a fatica, sentendo sulle spalle il peso della propria scelta che la stava stritolando. Dove sarebbe andata?

Escluse a priori tutti i Mangiamorte, poiché se si fosse rifugiata presso qualcuno di loro Lui sarebbe venuto a saperlo, se non l’avessero avvertito prima loro. Non considerò neanche per un istante l’idea di chiedere aiuto a qualsiasi altro mago, perché si sarebbe ritrovata ad Azkaban nel giro di qualche minuto… e difficilmente ancora in vita.

Aveva bisogno d’aiuto, tuttavia non poteva certo dare alla luce suo figlio all’ospedale St Mungo.

Per quanto si sforzasse, non vedeva vie d’uscita. Era sola, terribilmente, disperatamente sola. Guardò con occhi sconcertati la stanza rischiarata dal sole pomeridiano che stava quasi diventando una prigione per lei, soffermandosi ad osservare la sua immagine in un piccolo specchio appeso ad una delle pareti. Era stanca, peggio, esausta, come le ombre che erano comparse sotto i suoi occhi davano chiaramente a vedere. Bellatrix fissò ancora per un istante il suo volto pallido, ma un attimo prima di distogliere lo sguardo dalla sua immagine riflessa, notò qualcosa che a prima vista le era sfuggito: una piccola striscia ancora più bianca, proprio vicino all’attaccatura dei capelli. Sfiorò la pelle in quel punto con un dito, e solo allora le venne alla mente che doveva essere la cicatrice che si era procurata l’ultima volta sull’isola di Azkaban.

 

“ Tienilo sopra la ferita, è imbevuto di una pozione cicatrizzante e disinfettante”

 

Bellatrix sbarrò gli occhi, e quasi barcollò dalla sorpresa.

Forse c’era ancora una speranza…

Possibile… possibile che lui l’avrebbe aiutata? Proprio lui, l’uomo che aveva tradito il Lord Oscuro e tutti loro…

 

“Traditore? E’ una parola con troppi significati reconditi per essere usata con una tale leggerezza”

 

Forse…

In una situazione normale non avrebbe mai, mai pensato ad una simile evenienza, ma ora era disperata e sola e bisognosa d’aiuto… da qualsiasi persona che fosse disposta a donarglielo senza odiarla non appena l’avesse guardata in faccia. E lui, quella volta, non l’aveva fatto.

 

”Conoscevo Rodolphus… lo conoscevo bene… Se dev’essere una guerra, che almeno sia ad armi pari ”

 

Bellatrix prese con sé alcune boccette contenenti il Filtro dell’Invisibilità e trasfigurò i suoi abiti da Mangiamorte in normali vestiti da strega, sulle tonalità dell’azzurro.

Erano anni che non indossava qualcosa di un colore diverso dal nero.

Si Smaterializzò subito dopo, rifiutandosi di pensare a cosa stesse andando incontro. L’avrebbe affrontato a poco a poco. Per il momento, sperò solo di passare inosservata una volta riapparsa ad Hogsmeade. 

 

 

Continua…

 

 

(*) Bellatrix è il nome di una stella che, insieme a Betelgeuse, Rigel, Saiph, ed altri astri forma la Costellazione di Orione, nel cielo australe.

E’ interessante notare come la Rowling abbia chiamato i membri della famiglia Black con il nome di astri: Bellatrix, Sirius, Andromeda, Regulus... Curioso è poi il fatto che a tutti questi nomi di stelle, l’autrice abbia affiancato il cognome Black (cioè nero, come credo che tutti sappiate^^), creando ossimori perfetti che a mio parere mettono chiaramente in evidenza le luci e le ombre dei personaggi, i loro contrasti interiori, le loro personalità prismatiche.

Piccola nota: questo capitolo è stato scritto sulle note di “Someday”, dei Nickelback.

 

Nel prossimo capitolo, Bellatrix incontrerà l’unica persona dalla quale spera di poter ricevere aiuto (credo sia chiaro a tutti di chi si tratta ^__^) … vedrete presto come andrà a finire!

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Contumacia - parte II ***


Disclaimer: Bellatrix Lestrange e gli altri personaggi che compaiono in questa fanfiction sono proprietà di J

Disclaimer: Bellatrix Lestrange e gli altri personaggi che compaiono in questa fanfiction sono proprietà di J.K. Rowling e di editori come Bloomsbury, Bros, Salani. Nessuna violazione del copyright si ritiene pertanto intesa.

 

Contumacia

la Ribellione

parte seconda

 

Un rumore lieve, come di vento autunnale tra le foglie dorate, e Bellatrix si materializzò in un vecchio ripostiglio della stazione di Hogsmeade. Per fortuna ne ricordava l’esistenza, altrimenti non avrebbe proprio saputo dove apparire. Cauta, scavalcò secchi e scope ammassati lì senza il minimo senso dell’ordine, e raggiunse la porta. Evitando il più piccolo rumore, abbassò la maniglia, aprì e sbirciò fuori. Non c’era nessuno oltre a lei e ai binari deserti.

La stazione era rimasta esattamente come la ricordava, con le stesse lampade a nafta appese ai muri ogni due metri e che di notte diffondevano la loro luce cremosa, illuminando ogni primo settembre i volti entusiasti degli studenti di Hogwarts. Il nuovo anno scolastico doveva già essere cominciato.

La donna si guardò intorno e uscì completamente dallo stanzino, spolverandosi gli abiti. Doveva essere più che prudente se non voleva rischiare di essere riconosciuta e catturata. Il villaggio era chiaramente in stato d’allerta, come si accorse dopo qualche minuto: i manifesti con le foto dei dieci Mangiamorte evasi mesi prima da Azkaban tappezzavano quasi tutti i muri della stazione. Vedere la sua foto animata che la guardava con astio la sorprese non poco, ma un nodo le bloccò lo stomaco quando adocchiò l’immagine di Rodolphus, sbarrata da una linea rossa, che la guardava con lo splendido viso calmo. “Deceduto”, c’era scritto sotto, a lettere cubitali.

I suoi occhi divennero di pietra. “Deceduto”… “assassinato”, semmai, “pugnalato alle spalle” da quel…

Bellatrix fece un profondo respiro. Doveva calmarsi se voleva mantenersi abbastanza lucida da attraversare illesa Hogsmeade. Chiuse tutto il suo spirito di vendetta in un angolo della propria mente e a passo svelto si incamminò verso le basse abitazioni del villaggio interamente abitato da maghi. Si alzò il cappuccio azzurro sul capo, cercando di far rimanere nell’ombra quasi tutto il volto. Gli Auror non si sarebbero mai aspettati di trovarla lì, nella tana del leone, mentre la gente del villaggio non avrebbe fatto tanto caso ad una comune strega dall’ancora più comune abito blu. Questi pensieri contribuirono a darle sicurezza, mentre oltrepassava la Stamberga Strillante, la prima abitazione che incontrò, anche se isolata dal resto del paese.

Hogsmeade a quell’ora del tardo pomeriggio era poco affollata, con qualche persona che circolava frettolosa per la strada principale. Bellatrix si tenne ben lontana da quella via, preferendo passare per le stradine secondarie che correvano dietro gli edifici più noti agli studenti.

Il profumo di dolci ed altre golosità che avvertì passando sul retro di Mielandia le ricordò prepotentemente che era a digiuno da parecchio tempo. Da quando era diventata una Mangiamorte il cibo era passato in secondo piano: si era nutrita ogni volta che ne aveva avuto l’occasione, il più delle volte capitava quando era in missione e per quindici anni si era dovuta accontentare della poltiglia nauseante che le passavano ad Azkaban, ma adesso il pensiero che suo figlio avesse bisogno di cibo decente e, soprattutto, assunto con regolarità, la fece fermare a riflettere. Non poteva rischiare che crescesse debole e malaticcio.

Guardò ancora le pareti di legno di Mielandia, mentre un pensiero andava prendendo forma nella sua testa. Affamata com’era, anche dei dolciumi avrebbero fatto al caso suo, anzi, sarebbero stati l’ideale per un’immediata fonte di energia di cui lei aveva decisamente bisogno. Se non ricordava male, sotto il negozio (dove peraltro non avrebbe mai messo piede, perché sarebbe stato troppo rischioso) i proprietari avevano un ampio magazzino dove conservavano la merce che poi esponevano al piano di sopra. Sperò che dopo quasi vent’anni le cose non fossero cambiate. Il suo stomaco aveva cominciato a lamentarsi. Accidenti, stava proprio morendo di fame e se voleva mangiare, doveva decidere in fretta.

Alzò gli occhi al cielo azzurro cupo, segno della sera imminente. Meglio ancora, a quest’ora il negozio doveva essere già chiuso e i proprietari al secondo piano. assicurandosi che nessuno la stesse osservando, Bellatrix si smaterializzò ancora una volta e, eludendo facilmente gli incantesimi di allarme, riapparve nel magazzino stracolmo di scatole e cibarie fino all’inverosimile. Come aveva previsto non c’era nessuno e il silenzio si manteneva anche al piano di sopra: evidentemente il negozio aveva già chiuso. Stando attenta a non fare il più piccolo rumore, la donna avanzò tra lo scatolame, per buona parte ancora sigillato, in cerca di qualcosa di sostanzioso da mettere sotto i denti. Tralasciò  le Gelatine, le Piperille e le Api Frizzole, dirigendosi invece verso pile ordinate di blocchi di torrone cremoso, il cui profumo si diffondeva delizioso in tutto l’ambiente. Sorridendo tra sé al pensiero di cosa avrebbe detto Rodolphus se l’avesse vista rubare i dolci come una ragazzina undicenne, prese un pezzo di torrone, lo scartò è lo mangiò in non più di quattro morsi. La fame cronica a cui si era quasi abituata in tutto quel tempo si era fatta fortemente sentire: prese altri due blocchi di quel dolce squisito e li infilò in una tasca, decidendo che era tempo di sparire da quella specie di Casa della Cuccagna… quando qualcosa sul pavimento attirò la sua attenzione. Incuriosita, si chinò a terra, spalancando gli occhi dalla sorpresa nel momento in cui si accorse di una maniglia arrugginita che sembrava fissata sulle assi di legno coperto da un sottile strato di polvere. Bellatrix afferrò l’anello infilato nel pavimento e tirò.

Una lunga scalinata consunta di cui non si riusciva a vedere il fondo si presentò davanti alla sua faccia sbigottita, mentre teneva ancora in mano la porta di quella che si era rivelata essere una botola ben mimetizzata.

Si chiese dove potesse condurre quel passaggio… forse in un nascondiglio, si disse, un posto che le avrebbe fatto più che comodo.

Decise di scoprirlo, così scese il primo gradino e lentamente richiuse la botola sopra la sua testa, piombando in un’oscurità densa e umida.

- Lumos – mormorò, e sollevò la bacchetta sopra la testa, rischiarando lo stretto passaggio. Cominciò a scendere l’interminabile scalinata, stando leggermente curva a causa del soffitto piuttosto basso, fino a che non incontrò una sorta di tunnel sotterraneo che dopo pochi metri già si piegava in una curva.

Evidentemente era destino che ovunque andasse prima o poi avrebbe dovuto sgattaiolare in un cunicolo, si disse mentre avanzava quasi incespicando nel terreno sconnesso di quella piccola galleria tutta a zig zag.

Il percorso le sembrò interminabile e aveva ormai perso l’orientamento, quando si trovò di fronte uno scivolo di pietra, la cui pendenza però non le impedì di arrampicarsi con discreta facilità. Arrivò alla fine del passaggio ansimando leggermente per lo sforzo e si trovò di fronte uno stretto muro di pietra. Picchiettò sulla parete con le nocche delle dita, assicurandosi che c’era del vuoto dall’altra parte. Esitante, appoggiò entrambe le mani e spinse, ma la parete non si mosse. Senza perdere la calma pronunciò l’incantesimo più comune per sbloccare le porte, ma dopo aver sussurrato “Alohomora”, la situazione rimase immutata. Le serviva un incantesimo che faceva spostare i muri.

- Dissendium! – disse ad un tratto, e finalmente ebbe fortuna. La parete sembrò ruotare sui cardini come una vera e propria porta. Bellatrix si chiese cosa avrebbe incontrato una volta fuori dal passaggio. Appena l’apertura fu sufficientemente larga da permetterle di dare un’occhiata, la donna si ritrovò ad osservare un lungo corridoio illuminato da torce fissate ai muri di pietra grigia. Cautamente, uscì dallo stretto varco, accorgendosi solo allora che il passaggio da lei appena utilizzato era abilmente mimetizzato dalla gobba di una statua di strega orba. Bellatrix sbarrò gli occhi, mentre la comprensione di dove esattamente si trovasse le fece battere il cuore furiosamente contro il petto. Guardò il corridoio buio, le pareti familiari, la strega gobba, le finestre gotiche di ferro e vetro smerigliato, il pavimento di terracotta, il soffitto alto, i pilastri di sostegno adiacenti ai muri e quelle che sembravano porte di aule.

Era ad Hogwarts.

 

 

Si appoggiò contro il muro, totalmente nel panico. Accidenti, voleva contattare Snape, ma andarlo a trovare fin dentro casa sua…

Velocemente prese una delle boccette della sua scorta dell’Invisibilità e ne trangugiò tutto il contenuto. Si avvicinò ad una finestra che dava sul cielo ormai blu notte, cercando il riflesso della sua immagine, ma non lo scorse. Aveva la certezza di essere invisibile per almeno un po’ di tempo.

A quell’ora gli studenti di Hogwarts dovevano già essere nelle rispettive Sale Comuni, almeno che qualcuno con troppa intraprendenza non ignorasse le regole, come lei aveva fatto centinaia di volte già da quando era al primo anno.

Avanzando in direzione delle scalinate e sperando di non incrociare il cammino di nessuno, fu sommersa dai ricordi dei tempi in cui era ancora una studentessa… dopotutto quella era stata casa sua per ben sette anni, ed era mutata pochissimo da quando se n’era andata, abbracciando la causa di Colui che aveva giurato di non tradire mai e non immaginando neanche lontanamente che alla fine sarebbe stata costretta a fuggire da Lui.

Il castello era immerso in un piacevole silenzio che sembrava permeato all’odore di antico, come se il lento scorrere del tempo avesse lasciato una scia profumata nell’aria. Bellatrix rifletté un istante su dove potesse trovarsi Snape a quell’ora. Se non rammentava male quello che Rodolphus una volta le aveva detto, Severus insegnava Pozioni ed era il responsabile dei Serpeverde, quindi probabilmente l’avrebbe trovato nel suo studio, o al massimo, nella sua aula. Non era sicura di ricordare bene il luogo esatto di dove si tenessero le lezioni di Pozioni, ma d’istinto si diresse verso i sotterranei, scendendo attentamente le scale che, come ben rammentava, avevano la brutta abitudine di spostarsi secondo schemi imprevedibili.

All’improvviso si ritrovò qualcosa davanti ai piedi e fu per miracolo che non la calpestò. Tuttavia, quella che sembrava uno straccetto spelacchiato con quattro zampe soffiò minaccioso, muovendo i piccoli occhi sospettosi tutt’intorno. Bellatrix riconobbe Mrs Norris, la sgradevole gatta dell’ancora più sgradevole Flitch, che, come ben sapeva, si trovava non molto lontano dalla sua bestiaccia. In punta di piedi la donna si allontanò dall’animale e in pochi minuti raggiunse uno dei corridoi dei sotterranei, mentre il suo istinto e i vaghi ricordi le dicevano di proseguire verso l’ala nord del castello.

Giunse davanti alla porta dell’aula di Pozioni senza incrociare anima viva, quasi non credendo alla sua fortuna. Notò che la porta era socchiusa e decise di entrare. Con prudenza ed evitando che cigolasse, aprì l’uscio e sgattaiolò dentro. L’aula era come la ricordava, con i calderoni, i banchi da lavoro, e file e file di sostanze diverse tutte più o meno disgustose. La stanza era deserta, ma il calderone più vicino alla cattedra era acceso. Un sottile filo di fumo si elevava dalla superficie del paiolo fino a scontrarsi con il soffitto e ad aprirsi come la corolla di un fiore: evidentemente la pozione sarebbe giunta tra breve ad ebollizione. L’effetto dell’invisibilità sarebbe durato ancora per poco, ma la donna non resistette e si avvicinò alla pozione sempre più calda. L’annusò, ma non fu in grado di identificarla, anche se l’odore sembrava tutt’altro che piacevole. Stava per dirigersi verso l’uscita quando qualcuno entrò nella classe: Bellatrix riconobbe la figura snella e pallida di Snape che reggeva tra le mani affusolate un mestolo ed un calice. Prudentemente, lei si fece da parte e si appoggiò contro una parete, respirando il più piano possibile. Severus sembrava non essersi accorto di nulla, mentre si avvicinava al paiolo, controllando la densità della pozione con il mestolo. Lo guardò quasi affascinata mentre con pochi e precisi movimenti d’una fluidità eccezionale spegneva il fuoco e versava l’intruglio scuro e fumante nel calice che aveva portato con sé.

Era certa che sarebbe diventata visibile a momenti, anche se dubitava che Snape avrebbe alzato gli occhi da quello che stava così meticolosamente preparando.

Quando notò il suo riflesso allargato dalla superficie concava di un contenitore di vetro lì vicino, decise che era giunto il momento di farsi coraggio.

- Sei davvero in gamba come dicono, Severus – lo apostrofò, non nascondendo la sua ammirazione, nonostante fossero nemici, almeno, ancora “ufficialmente”. Si sfilò il cappuccio, lasciando il viso scoperto.

Lo vide sollevarsi di scatto e voltarsi verso di lei. I suoi occhi scurissimi si dilatarono dalla sorpresa e poi dallo sbigottimento mentre la riconosceva, restando per alcuni istanti letteralmente a bocca aperta. Poi lo stupore lasciò di colpo il posto alla comprensione e alla minaccia, ma prima che la sua mano corresse alla bacchetta, Bellatrix l’aveva già anticipato.

- Vengo in pace, non voglio attaccarti, non voglio scagliare maledizioni, voglio solo che tu mi ascolti – disse velocemente, alzando entrambi e palmi delle mani in segno di resa.

Seppur lentamente, il braccio di Snape ritornò a rilassarsi, mentre il suo viso aveva assunto un’espressione guardinga e di profonda diffidenza. Sarebbe stata dura conquistare la sa fiducia, si disse lei, ma ci avrebbe comunque provato.

- Come sei… cosa ci fai qui? - sibilò lui, gli occhi d’ossidiana che dardeggiavano verso di lei.

- Sono fuggita – disse la donna e dopo un profondo sospiro aggiunse: - Sono scappata da Lui -

L’uomo rimase in silenzio, il viso incredulo ancora più pallido del solito. Bellatrix decise di tentare il tutto per tutto e velocemente estrasse la sua bacchetta dalle pieghe dell’abito. Prima che lui potesse reagire, la gettò verso Severus.

Snape la prese al volo, totalmente confuso.

- Almeno ti fiderai un po’ di più… in fin dei conti me l’hai già restituita una volta, ricordi? – e sorrise leggermente. Snape, che non aveva mai visto le sue labbra incurvarsi in quello che poteva essere anche l’accenno di un sorriso, la guardò ancor più confuso e stupefatto.

- Ascoltami, prima - disse – e poi potrai decidere cosa fare di me.-

Stava rischiando tutto, lo sapeva bene, e se non sarebbe riuscita a convincerlo se la sarebbe vista male.

- Sentiamo – bisbigliò semplicemente lui, anche se i suoi occhi inquisitori non avevano nulla di semplice. Bellatrix sospirò ancora e poi cominciò:

- Sono fuggita dal Lord Oscuro perché lui vuole mio figlio. – disse, e sorrise ancora mentre gli occhi di Severus la guardavano increduli – Si, lo so che fa un certo effetto, ma aspetto un figlio da Rodolphus. Lui… Lui vuole il corpo di mio figlio per poterlo abitare, ha detto che il corpo che possiede ora non è più adatto. Tutto quello che desidera è essere di nuovo un uomo dai poteri di un dio, e ha scelto mio figlio per poter realizzare il Suo sogno… mi ha detto che il bambino che nascerà avrà poteri straordinari, ma io… io non posso, Snape. Non posso darglielo… preferisco una morte lenta e dolorosa, piuttosto che questo. -

Tacque, sperando in una replica che non arrivò. Snape continuava a guardarla come se fosse stata un’aliena. Probabilmente aveva bisogno di qualche secondo per poter assimilare la notizia. La donna continuò, speranzosa:

- Ho bisogno di aiuto, Severus. Ne ha bisogno mio figlio… lo so che meriterei la morte immediata per quello che ho fatto, o per quello che forse farò, ma mio figlio non c’entra… lui… lui non è una mela marcia… come sua madre. – Tacque un istante – Sei la mia unica speranza, Severus. Sono… siamo completamente soli. -

Bellatrix rimase silenziosa per un lungo istante, mentre la speranza dentro di lei si affievoliva. Come poteva sperare che lui l’aiutasse, dopo tutto quello che era successo? Snape era ancora in silenzio e non accennava a dire niente ancora per molto.

Improvvisamente lui si mosse verso la donna, con la bacchetta di lei puntata al suo petto, e Bellatrix trattenne il fiato, preparandosi al peggio. L’uomo, giunto a un metro da lei, le porse l’asticella di legno con un lieve sorriso, quello stesso sorriso enigmatico che lo rendeva a modo suo meraviglioso, nonostante non fosse un uomo avvenente.

- Spero non diventi un’abitudine – disse, restituendole la bacchetta per la seconda volta. Allora le credeva… era riuscita a convincerlo.

- Severus… - sussurrò lei, cercando le parole per… ringraziarlo.

Non aveva mai fatto una cosa del genere in vita sua…

Tuttavia, bastò guardarlo in quegli occhi profondi come il tempo per capire che non ce n’era bisogno. Aveva ancora una richiesta da fargli, anche se ne andava della sua reputazione da inossidabile, spietata Mangiamorte.

- Non avresti qualcosa da mangiare? – chiese speranzosa.

 

Il sorriso di Snape si accentuò.

 

Continua…

 

 Ed eccoci arrivati alla fine della seconda parte! Come farà Snape ad aiutare Bellatrix per altri otto mesi? E soprattutto, come reagiranno Voldemort e gli altri Mangiamorte a quello che si presenta come un gravissimo tradimento solo per l’amore di un figlio?

Lo saprete nel prossimo capitolo!

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** Stella Atra ***


Disclaimer: Bellatrix Lestrange e gli altri personaggi che compaiono in questa fanfiction sono proprietà di J

Disclaimer: Bellatrix Lestrange e gli altri personaggi che compaiono in questa fanfiction sono proprietà di J.K. Rowling e di editori come Bloomsbury, Bros, Salani. Nessuna violazione del copyright si ritiene pertanto intesa.

 

IMPORTANTE: Le prime battute della storia si riferiscono al capitolo “Beyond the Veil” di “Harry Potter e l’ordine della Fenice”. Si tratta di una traduzione manipolata al fine di descrivere la scena culmine del capitolo dalla prospettiva di Bellatrix Lestrange, invece che da quella di Harry.

 

 

Stella Atra

- La Stella Nera -

 

 

Ministero della Magia, Dipartimento dei Misteri

 

- Andiamo, puoi fare meglio di così! – le aveva gridato lui, schernendola, la sua voce sicura che rimbombava nell’ambiente cavernoso.

La sua rabbia si fece incontenibile. Quell’idiota come al solito osava prendersi gioco di lei…

Guardò Sirius Black con odio, con disgusto, quasi. Colui che aveva gettato del sudiciume sulla famiglia, sulla sua famiglia, schierandosi dalla parte dei Mezzosangue, di coloro che avrebbero voluto eliminare il Lord Oscuro. Aveva schivato il primo colpo, ma non sarebbe sfuggito ancora.

Bellatrix puntò la bacchetta verso di lui, le labbra strette e pallide dalla furia, gli occhi roventi che avrebbero addomesticato un drago. Lanciò il suo schiantesimo e questa volta colpì il suo rinnegato cugino in pieno petto, congelandogli il sorriso sulle labbra.

Lentamente, Sirius si curvò indietro, quasi con grazia, la sorpresa mista a paura che gli aveva dilatato quegli occhi così simili ai suoi. Lei per un attimo non comprese, ma poi, quando lo vide sparire dietro il Velo nero, non poté fare a meno di gridare trionfante, perché aveva vinto quel duello, finalmente si era confrontata con lui e ne era uscita vincitrice.

Ecco cosa voleva dire il suo grido di trionfo

Da un momento all’altro lui sarebbe sbucato dalla parte opposta, cadendo a terra privo di sensi, battuto e umiliato da lei … ma Sirius non riapparve.

Mai più.

Sentì a malapena l’urlo di disperazione del ragazzino che stava intralciando i loro piani, mentre la consapevolezza di dove avesse spedito Black con quel semplice colpo squarciò la sua mente, facendole piegare le ginocchia. Non… non l’avrebbe mai immaginato… non l’aveva calcolato… Quell’arco era…

Ma prima che l’orrore e lo sgomento per le conseguenze del suo atto potesse sopraffarla, la Sua Presenza possente, da cui non avrebbe mai potuto sottrarsi, la invase in ogni fibra, spazzando via qualsiasi altro pensiero e sentimento. Lui era lì, adesso, per strappare ai Mezzosangue la Sua rivincita e perpetrare inesorabile la Sua vendetta.

Il volto di Sirius Black fu murato dietro le spesse pareti del suo inconscio, e lei non ci pensò più, trovando persino la forza di insultare il moccioso, nel tentativo di ferirlo nello spirito e indebolirne la mente. L’Animagus era stato cancellato dalla sua consapevolezza, svanito come ghiaccio nel deserto, i ricordi che aveva di lui dissipati nel vento.

Almeno fino ad allora.

 

………………………………………………….

 

“Il mio pensiero vola verso te,

per raggiungere le immagini

 scolpite ormai nella coscienza, come indelebili emozioni

che non posso più scordare;

il mio pensiero ti verrà a cercare

 tutte le volte che ti sentirò distante,

 tutte le volte che ti vorrei parlare,

per dirti ancora che sei solo tu la cosa

che per me è importante”

 Tiromancino

 

 

Bellatrix Lestrange socchiuse gli occhi e sollevò appena la testa: la prima cosa che focalizzò fu il boccale vuoto di burrobirra e il vassoio di panini al tonno colmo a metà, da cui si era servita poco tempo prima di assopirsi con il capo poggiato sulle braccia incrociate sulla scrivania, scivolando in un breve sonno brulicante di ricordi. Sbatté le palpebre, cercando di vincere quella nebbia fumosa che sembrava avvolgerla, scuotendosi da un lento torpore che oramai faceva fatica a controllare, vinta dalla stanchezza e da una gravidanza che aveva cominciato a prosciugarle le energie. Tuttavia scattò immediatamente in piedi quando non riconobbe la stanza in cui si trovava, ma le immagini di qualche ora fa le tornarono subito in mente: il suo tentativo di convincere Snape, la cena che lui le aveva offerto nel suo studio, il suo assopirsi improvviso sulla cattedra del professore di Pozioni.

Si guardò intorno proprio in cerca della snella figura nerovestita di Severus, ma non lo scorse. Si avvicinò alla porta dello studio che comunicava con l’aula di Pozioni, la socchiuse con cautela e sbirciò attentamente tra banchi e calderoni, ma Snape non era neanche lì.

La sua assenza improvvisa la fece sentire fortemente a disagio. Si ritrasse e chiuse a chiave la porta dello studio, cercando di esorcizzare quel velo di paura che si stava lentamente depositando su di lei come un sudario umido, quando i suoi occhi si posarono su un biglietto di pergamena affisso all’uscio di legno antico e ferro battuto, vergato con una verde grafia lineare e precisa, che prima non aveva notato: “Sarò di ritorno tra qualche ora” vi lesse la donna, “ chiuditi dentro, blocca la porta con un incantesimo e accendi il fuoco. Non aprire per nessun motivo, qualcuno potrebbe vederti. Io utilizzerò un’entrata… alternativa. Severus.”

Il suo cuore batté più forte al pensiero che qualcuno avrebbe potuto accorgersi della sua presenza, ma in tal caso Dumbledore sarebbe già stato avvisato e lei… beh, preferiva non pensare cosa le sarebbe successo. Probabilmente si sarebbe ritrovata in cenere prima di poter aprire bocca. Si riscosse con un sussulto, accingendosi a fare come Snape le aveva consigliato. Bloccò subito l’uscio dello studio con il più resistente incantesimo di protezione che le venne in mente, ma stette ben attenta a non usare troppa forza o qualcuno particolarmente in gamba avrebbe potuto insospettirsi di un potenziale magico così alto proveniente dai sotterranei di Hogwarts.

Bellatrix si accucciò poi davanti al camino, cercando di sistemare i ceppi parzialmente carbonizzati in modo da poter avere un fuoco alto e scoppiettante. Sapeva bene infatti che la sola magia non era sufficiente per conservare il fuoco vivo, ma bisognava anche sistemare la legna in modo tale che non soffocasse le fiamme. Una brillante scintilla arancione partì dalla punta della sua bacchetta e un caldo fuoco cominciò a danzare allegramente nel focolare, spandendo in breve nel piccolo ambiente un piacevole tepore, insieme alla sua rassicurante luce color miele. La donna si sollevò, cercando qualcosa su cui potersi sedere e godersi il calore delle fiamme, ma l’ufficio di Snape sembrava quasi monastico, arredato semplicemente con un paio di sedie dure come il cemento, una scrivania del tutto spoglia e montagne di libri impilati ordinatamente negli scaffali di una personale libreria che occupava l’intera parete più lontana rispetto al camino di pietra e terracotta. Bellatrix sospirò… forse Severus avrebbe avuto qualcosa da ridire, ma lei aveva bisogno di appoggiare le sue povere ossa doloranti su qualcosa di ragionevolmente morbido e comodo. Si avvicinò alla libreria e prese a caso uno dei libri dagli scaffali più bassi, così vecchio che alcune pagine, ingiallite e sottili, si frantumarono al solo tocco delle sue dita. Era una raccolta di vecchi trattati su Pozioni le cui formule erano state superate già da qualche secolo. Un motivo di più per riciclarlo in qualcosa di utile.

Lo portò vicino al focolare, sistemandolo nel modo che più le sembrò adatto, con un incantesimo che aveva usato diverse volte lo trasfigurò in un comodo sacco a pelo, adattandolo poi alle dimensioni abbastanza minute della sua persona. Soddisfatta, si sedette a gambe incrociate e cominciò pazientemente ad aspettare il ritorno di Snape. I suoi occhi si soffermarono a guardare le fiamme dorate e guizzanti che, a intervalli irregolari, le illuminavano delicatamente il volto, accendendo le sue gote pallide e riverberando sui suoi lunghi capelli lucidi con bagliori purpurei. Il sommesso crepitio della legna che poco a poco si consumava ebbe quasi un effetto ipnotico sulla sua mente provata e Bellatrix lentamente scivolò ancora una volta in quello stato di torpore vigilante che non le offuscava totalmente i sensi, così simile al dormiveglia che un qualsiasi rumore sarebbe stato sufficiente per farla tornare precipitosamente in stato d’allerta.

La sua mente riprese a rincorrere i ricordi… si ritrovò ancora al Dipartimento dei Misteri, com’era successo poco prima, e il volto familiare di Sirius Black tornò per la seconda volta ad occupare con prepotenza i suoi pensieri. La donna intuì che non sarebbe stata l’ultima, e che suo cugino avrebbe continuato a tormentarla nei prossimi mesi a venire. Si rese conto in quel momento che il rimorso, così magistralmente sopito in lei dall’intervento del Signore Oscuro, si era svegliato con una formidabile irruenza. Era vero, aveva detestato suo cugino con tutta se stessa, ma non avrebbe mai voluto farlo fuori, non avrebbe davvero desiderato che morisse, o peggio. Ed ora tutto quell’odio che Bellatrix aveva provato per Sirius si stava ritorcendo contro di lei, mischiandosi al suo crescente senso di colpa in un terribile e doloroso sentimento di disgusto verso se stessa. Per la prima volta si rese conto di quanto tempo aveva passato ad odiare suo cugino, probabilmente da quando se ne era andato di casa, rinnegando la sua famiglia e schierandosi dalla parte dei Mezzosangue. Ricordava che mentre Narcissa aveva a stento notato l’accaduto, Andromeda ne aveva sofferto parecchio. E lei… cosa aveva provato lei?

Solo… rabbia. Tanta rabbia.

Perché Sirius aveva preferito i Potter alla sua vera famiglia.

Perché aveva desiderato la compagnia di James alla sua.

Perché lui non l’aveva mai calcolata.

Non l’avrebbe mai ammesso, ma suo cugino era stato un modello per lei, nonostante tutto. Lui era più grande di quasi quattro anni, e da bambina l’aveva osservato miriadi di volte, cercando di imitare la sua spavalderia, la sua bravura, la sua incredibile faccia tosta, il suo comportamento oltraggioso e irriverente. Sirius aveva cominciato a frequentare Hogwarts prima di lei e nel giro di pochissimo tempo aveva acquistato grande notorietà tra gli studenti, per la sua abilità, per i continui contrasti con Severus Snape e soprattutto per le Strillettere che arrivavano al tavolo dei Grifondoro quasi tutti i giorni. E ogni volta che tornava a casa scoppiava una guerra, fin quando non se ne andava a trascorrere l’estate dai suoi amici. In famiglia lo sopportavano poco, Narcissa aveva cominciato ad evitarlo come se avesse la peste, mentre lei… lei se ne stava silenziosamente nell’ombra, solitaria ed attenta, ad osservare come lanciava gli incantesimi più bizzarri, cercando poi di imitare, in camera sua, i movimenti di lui, il modo in cui ruotava il polso e scandiva le parole e le formule. Ad otto anni, senza che nessuno lo notasse, era già capace di eseguire la maggior parte degli incantesimi che suo cugino e sua sorella avevano appreso al primo anno, e poco a poco si era interessata anche ai libri di magia che abbondavano in casa sua, il più delle volte illegalmente. Molti degli incantesimi che ora era in grado di eseguire alla perfezione erano il frutto di quegli studi fanciulleschi, di quelle ore trascorse in compagnia di pesanti volumi nel tentativo di scacciare via la solitudine e l’indifferenza che l’opprimevano senza sosta. Voleva diventare più brava di lui, desiderava confrontarsi con suo cugino e batterlo, dimostrargli che non era una “mocciosa”, l’odioso appellativo con cui frequentemente la chiamava, ma che poteva impegnarlo seriamente in un duello da cui sarebbe uscito perdente.

A quel tempo non vedeva l’ora di compiere undici anni e cominciare finalmente frequentare una vera scuola di magia… era davvero stanca di essere considerata come la bambina di casa, neanche si trattasse di una malattia rara di cui solo lei era affetta e che irrimediabilmente la faceva apparire agli occhi degli adulti e dei ragazzi più grandi come una paralitica, incapace di badare a se stessa, una mina vagante pronta a combinare disastri. Era sì una bambina, ma non era una stupida, né tanto meno un’incapace. Semplicemente si sentiva tremendamente sola. Narcissa, quando non era in compagnia di Lucius Malfoy, era a spettegolare con le sue amiche e Andromeda, già un’adulta, aveva, com’è ovvio, tutt’altri interessi.

Anche quando poi aveva finalmente cominciato a frequentare Hogwarts, l’impressione che fosse una ragazzina debole e incapace aveva continuato a gravare su di lei come una maledizione. Il fatto di essere nata a dicembre e il suo fisico minuto, poi, non l’avevano di certo aiutata. Era come se avesse eretto uno schermo intorno al proprio corpo che induceva gli altri a stare il più possibile lontano da lei, respinti da una barriera spinosa, una grigia corazza che lei stessa aveva finito per costruirsi, per cercare di difendersi da quel senso di abbandono che prima o poi l’avrebbe polverizzata. In classe si annoiava a sentire spiegazioni meticolose su cose che già conosceva benissimo, dando ai professori l’errata impressione di svogliatezza e di poco interesse per lo studio… per lo meno, di quello teorico, perché, quando poi si passava alla pratica, nessuno riusciva a batterla e i suoi voti finivano per essere una contraddizione. Aveva conservato l’abitudine di trascorrere molte ore in compagnia esclusiva dei libri ed era diventata abile a sottrarli di notte al reparto proibito, senza usare mantelli dell’invisibilità o altri espedienti: tanto era immersa nell’ombra e nella dimenticanza pure di giorno, e probabilmente Flitch non si era neanche accorto della sua esistenza.

Mentre Sirius… lui, come molti altri, non aveva neanche lontanamente considerato la sua presenza, neanche fosse una completa estranea, preferendo starsene con la combriccola dei Grifondoro.

Appariva una ragazzina strana ed ambigua, se non pericolosa, per questo molti occhi fuggivano il suo sguardo, rifugiandosi altrove, quando lei posava il suo dritto sulle facce degli altri ragazzi. Aveva l’impressione di intimidire i suoi rari interlocutori, qualsiasi cosa dicesse o chiedesse – una penna d’oca, un po’ d’inchiostro, code di salamandra - persino all’interno della sua Casa. Sembrava che tutti la temessero… tutti, tranne un ragazzo coetaneo di Sirius dagli splendidi occhi color ametista e dal tenue sorriso asimmetrico… e Severus Snape.

Non si era innamorata subito di Rodolphus, anzi. Pieno com’era di ragazzine immature che gli correvano dietro come tante oche, l’aveva classificato come uno stupido impettito e pieno di sé. Era un bel ragazzo, bellissimo, senza ombra di dubbio, ma lei inizialmente aveva avuto l’impressione che quel quattordicenne dai lineamenti androgini si sentisse come una divinità scesa in mezzo ad una folla di giovani e fascinose mortali festanti. Solo dopo un paio di anni si era accorta che Mr Lestrange non aveva occhi che per lei.

Era successo tutto in un giorno durante il terzo anno, un tardo pomeriggio particolarmente brutto, per quello che ricordava. Alcuni Grifondoro – e probabilmente c’era stato lo zampino di Sirius – avevano teso una trappola al primo Serpeverde che capitasse da quelle parti e lei era stata così sfortunata da cadere come una pera matura nello scherzo di quei mocciosi. Camminava abbastanza frettolosamente per uno dei corridoi che portavano alle aule nei sotterranei, quando, all’improvviso, qualcosa di sconosciuto le era balzato davanti agli occhi, una nube densa, grigia, gelida, che l’aveva avvolta in una stretta spasmodica da troncarle il respiro per il terrore… l’aveva riconosciuta… quella era la stessa sensazione che provava quando la sua inseparabile solitudine incombeva su di lei, turbolenta come una tempesta, la stessa tacita minaccia che successivamente aveva avvertito per tanto tempo nel respiro rantolante dei Dissennatori. Aveva in seguito scoperto cosa era veramente successo: si trattava di un Boggart che aveva assunto la forma di ciò che lei temeva di più, ma quel giorno la paura era stata davvero tanta.

Con un urlo era emersa dal denso banco di nebbia ghiacciata ed era scappata via, incespicando nella divisa scolastica, correndo a perdifiato e inseguita da quelle che si erano rivelate essere le risate di scherno degli altri ragazzi e che lei aveva creduto provenire da quell’impalpabile ghiaccio grigio. Non era la prima volta che vedeva un Boggart, ma prima di allora non aveva mai preso quella forma… stava ancora fuggendo a rotta di collo quando, svoltato un angolo, aveva letteralmente investito un ragazzo che proveniva correndo dalla parte opposta: lo scontro era stato talmente forte che entrambi erano caduti a terra e lei si era ritrovata ansimante dalla corsa sfrenata e schiacciata dal peso di quell’altro, che era rovinato con malagrazia addosso a lei.

- Cavolo… scusami, scusami tanto… - aveva bofonchiato lui, alzandosi immediatamente, mentre lei si metteva seduta, e tendendole una mano per aiutarla a rialzarsi. Lei aveva guardato la mano gentile tesa davanti al suo viso ancora basso, e lentamente aveva alzato il mento, per incontrare il viso stupendo di Rodolphus Lestrange lievemente arrossato per la corsa precedente. Aveva visto nitidamente lo stupore dilatare quelle iridi violette nel momento in cui l’aveva riconosciuta, e un immediato e candido sorriso rifulgere sulle sue labbra.

- Bellatrix… - aveva sussurrato, pronunciando ogni sillaba come se l’accarezzasse con  sorprendente leggiadria. Lei l’aveva fissato, sbigottita: l’ultima cosa che si aspettava era che lui la chiamasse per nome – era addirittura sicura che non lo conoscesse affatto – e che lo dicesse in quel modo.

- Non vorrai certo rimanere per terra… - aveva continuato lui, notando la sua indecisione, sorridendole ancora con una dolcezza che lei non aveva mai scorto su quella bocca. L’aveva guardato ancora, lasciando che quel sorriso di pura luce la contagiasse, poi aveva preso le sue dita lunghe e affusolate con la sua piccola mano:

- No…-  gli aveva risposto, e poi anche le sue labbra si erano incurvate in un sorriso radioso, il suo primo, vero sorriso da un lungo, lunghissimo tempo.

- Vai di fretta? – le aveva chiesto lui, sinceramente incuriosito. Bellatrix ci aveva riflettuto un istante.

- Veramente no – aveva replicato e il riso che aveva fatto brillare i suoi occhi notturni non aveva abbandonato il volto.

Si era ritrovata così a passeggiare con quel sedicenne lungo i corridoi di Hogwarts, fino a che non erano giunti sulla torre più alta, nell’aula a cielo aperto di Astronomia.

Senza quasi accorgersene Bellatrix aveva cominciato a parlare sempre con meno ritrosia. Anche adesso, non avrebbe saputo dire cosa la spinse a confidarsi per la prima volta nei suoi tredici anni… forse fu semplicemente lo sguardo trasparente di Rodolphus a cancellare la sua stratificata diffidenza, o forse l’atmosfera di calma silenziosa che il cielo crepuscolare aveva creato insieme alla luce ancora tenue della luna piena. Aveva finito per rivelargli la parte più nascosta della sua anima bambina, quasi con naturalezza e senza che alcun rossore infiammasse le sue gote. E poi Rodolphus aveva il raro dono di saper ascoltare, come aveva piacevolmente scoperto durante quel loro primo incontro. Lui a sua volta le aveva raccontato molto di sé, convincendola del tutto come l’impressione che aveva avuto all’inizio fosse completamente sbagliata.

- Ma… avevi l’allenamento di Quidditch? – gli aveva chiesto lei all’improvviso, notando in lontananza alcuni giocatori in divisa argento-verde che sfrecciavano sul campo da gioco in sella a manici di scopa. Sapeva che Rodolphus faceva parte della squadra.

- Già, ma la mia presenza stasera non era essenziale… - le aveva risposto e stava per aggiungere qualcosa, quando uno sciame di Grifondoro aveva fatto irruzione nell’aula, tra cui lei aveva immediatamente riconosciuto Sirius, Potter e Pettigrew.

- Hey, Lestrange, snobbi gli allenamenti? – l’aveva apostrofato sarcasticamente Potter – Comunque anche se ti allenassi giorno e notte, finiresti lo stesso per perdere - aveva proseguito, ignorando il duro sguardo di ghiaccio di Rodolphus, ma non il suo. Gli occhi nocciola di James avevano incrociato per caso quelli di lei, e Bellatrix aveva potuto chiaramente percepire il grande disagio che aveva attraversato come una saetta lo sguardo apparentemente sprezzante di Potter. Aveva incurvato le labbra in un sorriso lupesco, con la bocca appena socchiusa, in modo che sembrasse ancora più aggressiva.

Per una volta era sembrato che James avesse deciso di non continuare a provocare Lestrange, vista la propensione di quest’ultimo a lasciar cadere la frecciata, ma Sirius probabilmente non aveva afferrato il significato dell’improvviso silenzio del suo migliore amico. Si era accorto della presenza di sua cugina, naturalmente, e forse aveva pensato di divertirsi un po’ a punzecchiare lei, dimenticandosi di quanto Bellatrix potesse essere pericolosa.

- Hey, Black, mi hanno detto che hai fatto un gran chiasso prima nel corridoi del sotterraneo… le nuvole ti fanno paura? – l’aveva schernita, mentre gli altri ragazzi alle sue spalle avevano cominciato a ridacchiare.

Lei aveva sbarrato gli occhi, sgomenta. Come… come faceva lui a sapere di quella nebbia gelida che poco prima l’aveva terrorizzata? A meno che

La rivelazione di essere stata vittima inconsapevole di uno scherzo di cattivo gusto, il risentimento che provava nei confronti del cugino, centuplicato dal fatto che l’aveva apostrofata chiamandola per cognome, la rabbia mista a tristezza che a lungo aveva abitato il suo cuore erano giunte tutte insieme.

I suoi occhi si erano impietriti, mandando bagliori incandescenti. Il suo braccio era già corso sotto il mantello della divisa in cerca della bacchetta, quando una mano l’aveva bloccata, stringendole con delicatezza e decisione il polso sottile: Rodolphus l’aveva guardata con calma assoluta, le sue iridi d’ametista che l’avevano invitata a non reagire, a non lasciarsi andare al furore che in lei aveva appena rotto gli argini dell’autocontrollo. Quella tranquillità quasi sovrumana era riuscita a frenare la sua collera, e Bellatrix aveva lasciato cadere il braccio lungo il fianco.

Senza dire una parola lui l’aveva presa per mano e l’aveva condotta fuori dall’aula, sfidando chiunque a intralciargli il cammino. I Grifondoro li avevano lasciati passare e poi avevano perso interesse per loro, chiacchierando dell’imminente partita.

Lui l’aveva portata fin dentro la Sala Comune dei Serpeverde, completamente vuota dal momento che quasi tutti quelli della Casa erano ad assistere agli allenamenti di Quidditch.

- Non devi dare ascolto alle sue parole… Sirius Black ha l’abitudine di parlare senza riflettere. D’altronde non credo sarebbe capace di fare il contrario. – le aveva detto Rodolphus, strappandole un piccolo sorriso con quell’ultima affermazione.

 - Era un Boggart – aveva detto lei.

- Cosa? –

- Un Boggart. Prima, quando ci siamo scontrati, stavo correndo perché… avevo avuto paura – aveva proseguito, dandogli le spalle e avvicinandosi al camino dove stavano lentamente morendo le ultime braci. Non voleva che vedesse quanta fatica le costasse solo parlarne, tuttavia non si era fermata.

- Qualcuno ne ha nascosto uno nel corridoio dove stavo passando e mi è saltato improvvisamente davanti agli occhi. Si è trasformato in una… strana e densa nebbia -

- Hai paura della nebbia? – aveva sentito la voce gentile di lui provenire dalle sue spalle. Bellatrix aveva scosso lentamente la testa, ancora fissando il rosso riverbero dei tizzoni, in un chiaro segno di diniego.

Non erano affatto le nuvole che la intimorivano.

Aveva sentito i suoi passi che si avvicinavano a lei quasi correndo, poi due braccia forti le avevano cinto la vita e le spalle in un abbraccio possessivo. Aveva sentito il viso di Rodolphus affondare nell’incavo del suo collo attraverso il manto ondulato dei suoi capelli corvini e la sua voce roca sussurrarle all’orecchio il suo nome ripetuto una, due, tre volte, come se lei fosse stata la creatura più desiderabile della Terra.

Era rimasta immobile.

- Non permetterò a niente e nessuno, nuvole o mostri, di farti paura – aveva detto lui, voltandola verso di sé, sorridendo ancora nel vedere la bocca spalancata di lei e decidendo, giustamente, di chiudergliela con la sua.

 

 

Da quel giorno aveva giurato sulla sua vita di rimanere accanto a lui ogni istante della sua esistenza. Solo un altro giuramento era stato così potente: quello fatto, alcuni anni dopo, a Colui che nessuno osava nominare, il Mago Oscuro dagli occhi di sangue.

Lui si era accorto immediatamente cosa Bellatrix era capace di fare e l’aveva accolta subito tra i suoi sempre più numerosi proseliti. Il Lord Oscuro aveva capito, l’aveva tirata fuori dall’ombra a cui lei sembrava essere votata, ma solo per gettarla nella tenebra corposa delle sue vesti di Mangiamorte… e lei si era veramente sentita se stessa.

Bianco o Nero, si era detta, non grigio, non l’intermedio. Non l’indefinito. E lei aveva scelto il Nero ed aveva brillato come una stella oscura in tutta la sua potenza, rivelandosi una delle streghe più capaci e dalla volontà d’acciaio, nonostante la sua giovane età.

Rodolphus l’aveva seguita… incapace di staccarsi da lei come se Bellatrix fosse l’estensione della sua anima, aveva intrecciato la sua vita a quella di lei, che ne era stata così felice da sfiorare quasi l’estasi… si era specchiata tante volte in quegli occhi e vi aveva visto se stessa finalmente completa, vi aveva scorto un amore sconfinato, lo stesso sconvolgente sentimento che illuminava anche il suo di viso, le metteva le ali ai piedi, le spezzava quelle catene che tanto spesso le stringevano il cuore in una morsa gelata… molte, molte volte la sua forza era dipesa esclusivamente dalla certezza di avere l’amore di Rodolphus a sostegno della propria anima.

Quando, dopo la caduta dell’Oscuro, l’avevano catturata e sbattuta in una cella umida dall’aria stagnante, era stato il pensiero di lui a tenerla in vita, tutte le volte che un Dissennatore si era avvicinato troppo a lei fino a sentirsi risucchiare dal baratro gelido che abitava quella creatura, lui era stato l’appiglio a cui si era aggrappata per non scivolare nella voragine dell’Inferno.

Ricordava il giorno in cui aveva ricevuto il Marchio Nero. Aveva avvertito un bruciore lancinante appena il Lord Oscuro aveva appoggiato la sua bacchetta sul suo avambraccio sinistro, un bruciore che era scomparso immediatamente ed aveva lasciato al suo posto un brillante tatuaggio… tuttavia, quel forte dolore non era scomparso dalla sua memoria, e quasi le sembrava di risentirlo, atroce come la prima volta…

o forse, ancora più forte… più forte…

… più forte…

 

Bellatrix spalancò gli occhi, portando immediatamente la mano destra al braccio sinistro, il cui dolore si faceva di attimo in attimo più intenso. Non l’aveva sognato, il Marchio Nero stava veramente ardendo sulla sua pelle. Ma la sua mano venne bloccata a mezz’aria, prima che potesse raggiungere la meta.

- Non lo toccare – mormorò una voce proveniente da dietro la sua testa. La donna, accortasi di essere scivolata durante il sonno in posizione supina, alzò lo sguardo e fissò il volto concentrato di Snape che, inginocchiato dietro di lei, stava attingendo con una brocca in un piccolo paiolo poggiato vicino al sacco a pelo.

- Ti calmerà il dolore – disse, scoprendo il suo braccio dolorante e versandoci sopra un liquido giallo opalino. Il refrigerio fu quasi immediato.

- Come… da dove sei entrato? – gli chiese, parlando a fatica. Aveva la bocca impastata ed era decisamente in un bagno di sudore freddo.

- Da lì – rispose l’uomo, accennando al focolare ancora acceso.

- Per… ché… mi… - cercò di parlare lei, ma le sue labbra non ne volevano sapere di staccarsi.

- Vorresti dire perché il Marchio ti sta facendo un male d’inferno? – le chiese lui, il volto pallido che esprimeva un leggero sarcasmo. La donna annuì e si mise seduta, per facilitargli il lavoro. Snape prese alcune garze di lino e cominciò a bendarle l’avambraccio. – L’Oscuro deve aver cominciato a sospettare quali sono i tuoi piani. Diciamo che non è la prima volta che qualcuno disobbedisce ai suoi ordini…–  il suo sorrisetto divenne ancora più sbilenco del solito – personalmente, diverse volte mi ha davvero fatto vedere le stelle per il dolore; ha un modus operandi davvero prevedibile, non trovi? -

Lei non disse niente, ma  guardò con interesse i suoi movimenti esperti e precisi. Severus finì la fasciatura, controllando che tutto fosse in ordine, poi bagnò le garze ancora con quel liquido color grano, in modo tale che restassero abbastanza umide.

- Hai fatto parecchia pratica - sussurrò alla fine lei. L’uomo annui, ammiccando al suo polso sinistro.

- Abbastanza da sapere come contrastare i suoi tiri mancini -

Si alzarono entrambi in piedi, e Bellatrix lo osservò riporre in un piccolo armadio a muro caraffa e paiolo.

- Dove sei stato? – gli chiese poi, notando un sacchetto gonfio che Snape portava appeso alla cinta della sua veste scura.

- In banca -

- Cosa? – chiese stupita lei.

- La Gringott è aperta anche alle tre di notte, sapevi? Comunque sono andato a prendere qualcosa che potrà sicuramente servirti. A proposito, non hai un solo zellino sul tuo conto… tieni – disse, porgendole un’altra borsa di pelle di drago tintinnante di monete. – Prendila e non fare storie – aggiunse, vedendo che lei aveva storto la bocca. 

- Perché, ho ancora un conto? – replicò la donna, afferrando la borsa –  Credevo che il ministero mi avesse confiscato anche quello, insieme al resto dei galeoni che avevo conservato nella mia camera blindata. -

- Evidentemente non ci hanno pensato. Come hai fatto per tutto questo tempo senza un soldo? – chiese lui, incuriosito, mentre slacciava il sacchetto di pelle dalla cintola e si accingeva ad aprirlo.

- Non ne ho avuto bisogno… ma cos’hai lì dentro? -

- Polvere volante – rispose lui, avvicinando la piccola borsa di pelle al suo volto in modo che lei potesse vederne il contenuto grigiastro.

- E sei andato in banca a quest’ora solo per un po’ di Polvere? – notò lei, stupita.

- Non è di tipo ordinario. Diciamo che è progettata per viaggi lunghi, la usavano alla Gringott per le comunicazioni rapide con l’Egitto, prima dell’invenzione di sistemi più moderni. Capisci benissimo che non posso nasconderti qui dentro, sarebbe eccessivamente rischioso… senza contare che tu hai bisogno di stare il più lontano possibile dal Lord Oscuro e dai tuoi compagni d’avventura… in un posto sufficientemente sicuro.-

Bellatrix cominciò a mangiare la foglia…

- E dove diavolo sarebbe questo luogo di “massima sicurezza?” – sibilò, notando il ghigno divertito che si allargava sulla faccia sibillina di Severus.

- Luxor -

- Cosa?! -

- Sulle rive del Nilo, quasi di fronte alle rovine di Tebe, per essere precisi. C’è una vecchia abitazione un po’ fuori città, che prima veniva usata dai corrieri della banca per riposarsi e rifocillarsi dopo il viaggio, ma che è rimasta in disuso per almeno mezzo secolo… questa è l’unica Polvere in grado di riaprire il passaggio. Basta che ne getti un po’ nel fuoco e dici “Emerald Ring”, arriverai a Luxor nel giro di una decina di secondi. Forse la casa è un po’ rustica e molto probabilmente ha bisogno di una sistemata, tuttavia ti assicuro che è davvero confortevole. A nessuno verrà in mente che tu possa essere lì. -

- In pieno deserto? – replicò lei, ancora incredula.

- Beh, non proprio in mezzo al deserto, ma abbastanza vicino da vedere all’orizzonte un’immensa distesa di sabbia. Avrai acqua a sufficienza, comunque, la Valle del Nilo è una zona fertile… e poi tuo figlio ha bisogno di un clima molto più caldo di quello del rigido inverno scozzese, ormai alle porte -

 - Dubito fortemente che andrò a vivere in un comunità magica, non è vero, Snape? – ringhiò quasi lei, comprendendo che quella che le offriva Severus era, le piacesse o meno, l’unica soluzione al suo problema… tuttavia, andare ad abitare in un luogo dimenticato dal resto del mondo non le sembrava affatto una prospettiva attraente.

Severus sembrava ancora più divertito: - In effetti no. Dovrai accontentarti di vivere nell’anonimato in mezzo ai Babbani del posto. - continuò, sogghignando – A proposito, inventati un nome arabo, “Bellatrix” è fin troppo fuori dal comune… ah, quelle monete che ti ho dato sono del tipo di valuta che di usa da quelle parti.-

- Vedrò cosa posso fare a proposito… - sibilò la donna, seccata. Non solo in Egitto, anche da sola come una comunissima Babbana con un nome falso e monete di cui non conosceva il valore… era disgustoso.

- Durerà poco, stai tranquilla – le disse all’improvviso Severus. L’uomo capiva benissimo il sacrificio che Bellatrix avrebbe dovuto compiere per amore del figlio… lui stesso trovava estremamente sgradevole la prospettiva di vivere in una comunità non-magica, anche solo per qualche giorno. Alzò i suoi occhi nerissimi in quelli grandi e altrettanto scuri di lei, due abissi gemelli che l’avevano da sempre incuriosito… avrebbe davvero voluto conoscere cosa si celava sul fondo di entrambi. - Nel frattempo io cercherò una sistemazione più… alla portata – concluse, porgendole la Polvere.

Bellatrix prese il sacchetto tra le mani, con un sospiro.

- Grazie – disse poi. Lo sguardo serio di Severus si illuminò dalla sorpresa. – Non importa se dovrò andare in Egitto o in Antartide, mi basta sapere che il mio bambino sarà al sicuro. Non so davvero come ringraziarti, io… -

E la donna si bloccò, non sapendo come proseguire. Snape le si avvicinò, l’ombra di quel fugace sorriso misterioso che gli aleggiava ancora una volta sulle labbra.

- Sai già come lo chiamerai? – chiese invece, fissando il suo addome. Lei scosse lentamente la testa.

- Potresti dargli il nome di suo padre -

Una tristezza malinconica si diffuse sul bellissimo viso della donna, e i suoi occhi lucenti brillarono per un istante di lacrime represse. L’ usuale determinazione abbandonò i lineamenti del volto, lasciando il posto ad una morbida e fulgida dolcezza.

Severus la fissò, incapace di distogliere lo sguardo.

- No, non credo – mormorò Bellatrix, dopo un attimo di silenzio. Snape non ebbe neanche bisogno di chiederle perché. Chiamare il bambino come Rodolphus avrebbe significato vedere ogni volta sul volto del figlio l’immagine del marito.

Bellatrix prese un pugno di Polvere Volante e la gettò tra le fiamme, che divennero azzurre. Guardò ancora Snape.

- Spero che mi restituirai la mia bacchetta per una terza volta – mormorò, accennando un sorriso.

Severus annui. – Lo spero anch’io – replicò. Dopotutto era un modo come un altro per dirsi “arrivederci”.

La donna avanzò tra le fiamme celesti, con la testa china per via della volta bassa del camino: - Emerald Ring – disse, e svanì.

 

 

Severus Snape rimase ancora per lungo tempo a osservare le fiamme d’oro rosso che danzavano sempre più debolmente nel focolare.

 

Continua…

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** Geenna et Regnum Caeli ***


Disclaimer: Bellatrix Lestrange e gli altri personaggi che compaiono in questa fanfiction sono proprietà di J

Disclaimer: Bellatrix Lestrange e gli altri personaggi che compaiono in questa fanfiction sono proprietà di J.K. Rowling e di editori come Bloomsbury, Bros, Salani. Nessuna violazione del copyright si ritiene pertanto intesa.

 

IMPORTANTE: per espliciti riferimenti alla violenza e alla morte, si consiglia una lettura a maggiori di anni 14. Grazie.

 

Quanto a me, la mia anima si è incrinata,

e quando soffrendo vuol riempire dei suoi canti

la fredda aria notturna, la voce affievolita

 

pare il rantolo rauco d’un ferito abbandonato

che in un lago di sangue, sotto un mucchio di morti,

muore senza muoversi, tra immensi sforzi.”

 

Charles Baudelaire, da La Campana Incrinata, Les Fleurs du Mal

 

 

Geenna et Regnum Caeli

- Il Fuoco dannato ed il Regno del Cielo -

Parte prima

 

Sangue… il suo sangue. Probabilmente quello che proveniva dai suoi polmoni maciullati da uno dei più potenti incantesimi a distanza che avesse mai visto. E se non avesse presto smesso di vomitare sangue, magari sarebbe stato anche l’ultimo.

Severus Snape barcollò pericolosamente, ma strinse i denti, proseguendo con lentezza la strada in salita, facendosi largo attraverso la neve alta. Hogwarts – e la salvezza – non erano lontane. Maledì gli incantesimi di protezione che impedivano di potercisi Materializzare… anche se dubitava fortemente che avesse la forza sufficiente per farlo.

Un colpo di tosse profondo, e i suoi polmoni cigolarono come vecchia ferraglia divorata dalla ruggine. Il dolore lo fece quasi piegare sulle ginocchia, ma durò solo qualche attimo. Scostò la mano dalla bocca e la osservò per un lungo istante, notando quasi con stupore le strane geometrie che le gocce di quel liquido rosso così brillante potessero assumere: un cerchio, un ovale, ancora un cerchio. E una grumosa chiazza più grande mista a qualcos’altro che preferì non identificare.

Alzò gli occhi lucidi di febbre: riusciva già a vedere il campo di Quidditch e i pinnacoli più alti del castello, ma dopo tre passi dovette arrestarsi ancora, perché un altro violento fiotto di sangue denso andò ad imbrattare la neve immacolata davanti ai suoi piedi. Si chinò, ignorando una fitta acuminata che gli trafisse il petto, e ingoiò un po’ di quella neve candida, divorato com’era dalla sete e dalla disidratazione che si faceva sempre più grave.

Questa volta, si disse, il Lord Oscuro aveva fatto un lavoro eccellente.

Si strinse nel pesante mantello nero pece, cercando di regolare il suo respiro gorgogliante in brevi e rallentate inspirazioni, in modo tale da ridurre quei dolori lancinanti al minimo.

Si pulì le labbra tinte di rosso carminio, infastidito dal fatto che stava gradualmente ma inesorabilmente perdendo il controllo sul suo corpo sempre più debole. Doveva raggiungere il castello, o sarebbe morto. La sua capacità percettiva si stava alterando velocemente e molto presto sarebbe stato incapace di proseguire.

 

Quando aveva accettato di fare la spia su commissione di Dumbledore sapeva che sarebbe potuta accadere un’eventualità simile, ma mai avrebbe immaginato che l’ira vendicativa dell’Oscuro potesse raggiungerlo, attraverso il suo Marchio nero, a chilometri di distanza.

Grazie a quel tatuaggio, gli aveva “impiantato” qualcosa che lo stava divorando dall’interno, il Maledetto. Aveva perfezionato il suo gusto sadico in un modo sorprendente, scagliandogli a distanza una maledizione che Snape non conosceva e che, come stava personalmente scoprendo, era un centinaio di volte peggio della Cruciatus.

 

Avrebbe decisamente preferito contorcersi mentre qualcuno urlava “Crucio”, piuttosto che quello.

 

Se non fosse morto per soffocamento, probabilmente il dolore avrebbe finito con l’ucciderlo comunque.

Avrebbe potuto evitarlo, pensò mentre arrancava sorreggendosi ad un bastone nodoso che aveva appena trovato abbandonato sul ciglio del sentiero. Almeno, avrebbe potuto provarci… era vero, Lui l’aveva colto totalmente di sorpresa, ma se solo fosse stato più attento, sarebbe riuscito ad impedirgli di scorgere quell’immagine registrata nella sua memoria e che troppo spesso era venuta a visitare i suoi pensieri nelle ore più disparate del giorno.

Lord Voldemort cercava Bellatrix Lestrange, ecco tutto. Da più di due mesi a questa parte.

Probabilmente aveva scandagliato la mente di ogni singolo abitante dell’isola britannica pur di cercarvi un’immagine di lei, che gli rivelasse finalmente chi era stato l’ultimo essere umano, mago o meno, a vederla, prima che la Mangiamorte, che aveva disobbedito ai suoi ordini e che, ancora più grave, era fuggita da Lui, fosse inghiottita dal nulla. E mano a mano che perlustrava, come un rapace a caccia della lepre, i ricordi di ogni cittadino inglese, la sua ira spaventosa cresceva e si moltiplicava, fino a che il solo tocco della sua mente esploratrice era diventato rovente di odio e disappunto.

Solo allora si era ricordato di lui, l’essere umano che aveva osato tradirlo. Il solo, almeno fino a qualche tempo prima…

La mente contorta di Voldemort era calata sui suoi pensieri come una ghigliottina, e prima che lui riuscisse a intervenire e a sigillare le porte della sua memoria, il Signore Oscuro vi aveva finalmente visto l’immagine della donna tanto ricercata un attimo prima che sparisse tra le fiamme azzurrognole del camino del suo studio. Fortunatamente gli aveva impedito di conoscere dove Bellatrix fosse diretta, sentendo crescere su di lui un furore inimmaginabile che poi si era improvvisamente dissolto.

Ed era ricomparso quel giorno… insieme alla sua spaventosa vendetta.

 

Erano passati settantacinque giorni esatti da quando Bellatrix si era rifugiata in Egitto. Non aveva saputo più nulla di lei, tranne il fatto che era ancora viva e ben nascosta, almeno considerando l’accanimento di tutti i Mangiamorte sguinzagliati alla sua ricerca. Non sapeva dire come avesse fatto ad adattarsi in un ambiente del tutto nuovo per lei… tuttavia, conoscendola, sapeva che la donna possedeva molte inattese risorse. Se solo i Seguaci del Lord Oscuro avessero saputo che la loro preda aveva valicato da tempo i confini della Gran Bretagna, non si sarebbero dati tutta quella pena per Bellatrix, rischiando magari di essere accoppati da Alastor Moody e dagli altri Membri dell’Ordine… di cui, suo malgrado, aveva finito di fare parte anche lui.

Aveva pensato molte volte a come avrebbero reagito gli Auror e Dumbledore alla notizia che lui aveva avuto tra le mani una delle Streghe più ricercate del mondo magico… e non solo se l’era lasciata scivolare via dalle dita, anzi, l’aveva pure aiutata a scomparire in un luogo sicuro.

Beh, non doveva tanto lavorarci di fantasia… avrebbero affermato che lui, Severus Snape, era rimasto il Mangiamorte che era sempre stato. D’altronde, molte persone – tra le quali brillavano diversi Grifondoro – non avevano mai smesso di credere che la sua rinuncia alla vita, che Lord Voldemort gli aveva a quel tempo meravigliosamente ostentato davanti ai suoi occhi di ventunenne, fosse veramente sincera e definitiva.

Pazienza.

Restava comunque il fatto che, dopo averci riflettuto per giorni, non era ancora in grado di spiegare cosa l’avesse spinto ad aiutare una donna come Bellatrix Lestrange… in difficoltà, certo, ma pur sempre estremamente pericolosa. A cominciare da quella volta in una delle grotte umide di Azkaban.

Aveva avvertito qualcosa… Una sensazione sottile, appuntita come una minuscola freccia, aveva superato la sua difensiva barriera di diffidenza, invogliandolo ad agire in un modo che aveva perfino sorpreso lui stesso… come un presentimento, che si era centuplicato quando lei era comparsa nell’aula di Pozioni, lasciandolo letteralmente senza fiato per la sorpresa.

Un’Entità che l’aveva… pregato, quasi, di aiutare quella donna… Si, era stata un’accorata richiesta…

…ma da parte di chi?

 

 

Si riscosse con un sussulto particolarmente violento. Guardò di nuovo il cielo coperto di nuvole cariche di precipitazioni, e comprese che non sarebbe arrivato in tempo. Un altro sottile filo di sangue che gli scese da un angolo della bocca parve confermargli la sua funesta intuizione. Certo che morire a trentasette anni compiuti da qualche settimana non doveva essere un granché come prospettiva per il futuro.

Nonostante la nebbia che sembrava aver congestionato il suo cervello, Severus Snape si costrinse a pensare. Lasciò che l’istinto di sopravvivenza, in lui particolarmente radicato, pilotasse le connessioni della sua mente, che si dibatteva tra una miriade di ricordi e sensazioni – affollatisi alle porte della sua coscienza tutti insieme – nel tentativo di intravedere quella via di fuga, quella soluzione che avrebbe significato vivere ancora… per quanto, poi, rimaneva un’irrisolvibile incognita.

Il suo istinto si sarebbe arpionato alla vita con tutte le sue forze, trascinandosi dietro la parte razionale di lui.

La febbre alta gli dava la sensazione di essere immerso nella gommapiuma. Tra breve sarebbe stato incapace di sentire anche lo sparo di un cannone…

 

Pensa

 

La neve cominciò a cadere lentamente, con i suoi candidi fiocchi, miriadi di cristalli l’uno diverso dall’altro, ognuno con la sua geometria, tutti contemporaneamente che danzavano nell’aria pungente. Il freddo sembrò aumentare con l’alzarsi del vento.

I ricordi di tutta una vita cominciarono a tempestargli la mente. Forse perché, inconsciamente, sapeva che gli rimaneva ancora poco tempo… memorie su memorie si sovrapposero turbinose e accalcate, a rammentargli ogni singolo, intenso istante che aveva vissuto fino a quel momento.

Scosse violentemente la testa, sbattendo le palpebre ormai pesanti.

 

Pensa, maledizione, pensa!

 

Snape si fermò all’improvviso, fissando il bastone di legno secco che aveva raccolto per strada. Finalmente, un’idea era giunta a menare calci alla sua intelligenza anchilosata dallo sfinimento. L’uomo estrasse la sua bacchetta dalle pieghe dell’abito ormai rovinato dalle molte croste di sangue coagulato e cercò di concentrarsi, chiamando a raccolta le ultime briciole di energia che gli erano rimaste. Muovendo leggermente il polso – con un gesto forse un po’ scoordinato – trasfigurò il lungo ramo secco in un manico di scopa dall’aerodinamica certo non eccellente, ma sufficiente per fargli percorrere qualche centinaio di metri in volo prima che cominciasse a perdere quota.

Non avrebbe mai immaginato che eseguire un incantesimo di Trasfigurazione Avanzata avrebbe potuto, un giorno, farlo soffrire, ma quando la magia fu ultimata, Snape non fu in grado di trattenere un urlo di dolore che gli esplose dalla gola nonostante le mascelle serrate per lo sforzo. Gridò per il male incredibile che si conficcò ad energiche martellate in ogni cellula del suo corpo malandato, ma anche di rabbia.

Soffriva ed era furioso.

Con i Mangiamorte.

Con Voldemort.

Con se stesso.

 

Gli ci volle qualche istante per calmarsi del tutto. Alzò il viso bollente di febbre verso i fiocchi bianchi che continuavano, ignari, le loro leggere acrobazie, sospinti da un vento che si era fatto intenso… quasi gioì quando uno di essi si andò a posare sulla sua fronte e subito si sciolse in rivoletti argentei d’acqua fresca.

Si mise a cavalcioni della scopa lasciandosi sfuggire qualche imprecazione per via delle sue ossa doloranti, poi si diede la spinta verso l’alto.

La resistenza che il vento di tramontana gli oppose quasi lo disarcionò, ma Snape si chinò in avanti, cercando di vincere l’attrito con l’aria. Diresse il manico di scopa verso il castello di Hogwarts, acquistando sempre più velocità, fino a quando l’imponente costruzione non gli si parò di fronte agli occhi quasi vitrei in tutta la sua gotica magnificenza.

 

Secondo piano…

 

Sorvolò la distesa ghiacciata dl lago, oltrepassò la capanna di Hagrid, costeggiando gli alti pini imbiancati della Foresta Proibita, giungendo fin sopra le Serre di Erbologia della professoressa Sprout. E finalmente riuscì a vederle.

 

Senza più forze, nemmeno per frenare, Severus Snape si diresse verso le alte finestre di vetro smerigliato dell’Infermeria, al secondo piano.

 

Un fragore assordante di vetro disintegrato in mille pezzi dalla forza dell’impatto fece strillare di paura Madama Pomfrey, quando questa si vide letteralmente piombare come un proiettile tra i lettini ordinati e le bianche tende dei separé il professore di Pozioni, pieno di sangue, vetri, ghiaccio e sull’orlo dell’Inferno.

 

………………………………………………………….

 

Quando vide quella goccia trasparente cadere dalla sua fronte ed espandersi sul suolo con una perfetta rotondità, Antonin Dolohov si rese conto che aveva cominciato a sudare freddo. Non osò neanche alzare il mento, rimanendo ostinatamente con gli occhi fissi sul pavimento spoglio e freddo dei sotterranei, in equilibrio sul ginocchio destro che aveva poggiato a terra appena aveva visto il Lord Oscuro Materializzarsi alla sua presenza e a quella degli altri Mangiamorte che erano con lui.

Con la coda dell’occhio scorse la figura sgraziata di Peter Pettigrew, inginocchiato con il peso del corpo tozzo distribuito su entrambe le ginocchia, che tremava e singhiozzava senza alcun ritegno e senza fare nulla per impedirsi di offrire agli altri quel penoso spettacolo. Era lampante che l’idiota fosse terrorizzato a morte. Almeno, però, avrebbe potuto sforzarsi di nascondere, o almeno tentare di occultare, le sue innumerevoli fobie da omiciattolo immaturo.

Tuttavia, questa volta neanche lui era rimasto indifferente alla spaventosa manifestazione d’ira dell’Oscuro, com’era solito fare. Le gocce di sudore freddo che gli imperlavano la fronte poco sopra le folte sopracciglia ne erano una testimonianza chiarissima.

Non osò muovere nessun muscolo per asciugarle, lasciando che il liquido gli colasse negli occhi, deciso a sopportare il pizzicorio che gli avrebbe procurato.

 

Avevano fallito miseramente.

Avrebbero dovuto attirare Severus Snape più vicino, in modo che Mylord avrebbe potuto scagliare quella nuova raccapricciante Maledizione nella sua intera efficacia, ma come al solito qualcuno era stato tanto maldestro da allertare l’incredibile sesto senso del Mangiamorte traditore, che aveva fatto appena in tempo ad allontanarsi quanto bastava per dimezzare la potenza dell’Incantesimo dell’Oscuro Signore.

Quella Maledizione avrebbe dovuto fargli letteralmente esplodere cuore, fegato e polmoni.

Nott era stato tanto ingenuo da rivelare alla mente acuminata di Snape i diabolici piani di vendetta nei suoi confronti… ed ora avrebbe pagato.

Lord Voldemort non avrebbe potuto perdonarlo un’altra volta.

 

Fu scosso da un brivido gelido, non sapendo cosa aspettarsi dalla reazione iraconda del suo Signore.

 

Nott aveva già fallito nella ricerca di Bellatrix Lerstrange. Erano trascorsi più di due mesi, e tutto quello che erano riusciti a scoprire, e solo per merito dell’Oscuro, era che Snape era stato l’ultimo a vederla, e che sicuramente l’aveva aiutata. Quella donna si era volatilizzata nel nulla.

Dolohov all’inizio non aveva creduto alla possibilità di un tradimento, ma quando la sua assenza aveva superato i quindici giorni, aveva finito con l’accettare questa ipotesi, che si era poi rivelata essere fin troppo veritiera.

Lei se n’era andata, rifiutandosi di eseguire la richiesta che il Suo Signore le aveva fatto…

Ricordava ancora quella sera in cui la donna gli era parsa cambiata, una trasformazione sottile, appena percepibile, invisibile agli occhi di osservatori superficiali. Ma quel cambiamento c’era stato e c’era ancora. Quel cambiamento era semplicemente suo figlio.

 

I pensieri di Dolohov ripiombarono nel presente appena avvertì la vicinissima presenza del Suo Lord. A stento si controllò, evitando solo all’ultimo che un sussulto violento lo scuotesse dalle fondamenta dell’anima… l’aura che emanava l’Oscuro era così gelida e trafiggente che la sua sola vicinanza bastavano per fargli provare un bruciore insano, che gli fece salire un gemito fino alla soglia delle sue sottili e pallide labbra serrate.

Dietro di lui, Nott e la sua paura, che stava cannibalizzando la mente instabile dell’uomo, erano altrettanto nettamente percepibili.

Dolohov continuò a fissare il pavimento, in attesa che si schiudessero sopra di lui le voragini infuocate dell’Aldilà.

 

- Lord Voldemort ama i Suoi figli – sussurrò gelidamente l’Oscuro Signore, posando i suoi occhi di sangue su ciascuno dei presenti. La rabbia che fuoriuscì intrecciata alle parole e al tono di voce, così calmo e crudele, fecero collassare la debole mente dell’uomo chiamato Nott, che cominciò a gemere e a contorcersi dal Terrore che gli stava strappando l’anima a morsi.

- Lord Voldemort è come un padre – continuò ancora l’Oscuro, sibilando – e come un padre, anche Voldemort punisce i Suoi figli, perché le loro vite Gli appartengono -

I gemiti incontrollati di Nott si erano trasformati in un pianto colmo di orrore.

- Ed oggi, Lord Voldemort punirà uno di loro. Per il suo bene – concluse, estraendo la bacchetta e stringendola tra le dita bianche e artigliate.

 

 

Antonin Dolohov dovette violentare la sua coscienza e l’autocontrollo, per continuare a restare immobile, mentre le atroci urla disumane di Nott saturavano l’ambiente.

 

 

……………………………………………

 

 

Laleh Bijani(*).

Era questo il nome arabo con cui si faceva chiamare da un po’ di tempo, ormai, quando, nei rari casi in cui usciva dalla sua “casa” di tufo e tegole, incontrava esseri umani, la stragrande maggioranza dei quali appartenenti a quella che lei aveva da sempre definito “razza ignobile”.

Ora una giovane donna babbana, dalla carnagione olivastra e dagli occhi scuri e lucenti aveva preso l’abitudine di affacciarsi alle finestre della sua casa – tutte prive di vetri – e controllare dalla strada se lei c’era.

Forse la giovane era stata spinta a “prendersi cura” di lei notando il suo stato interessante, ora molto evidente. Fatto sta che lei non glielo aveva certo chiesto – avrebbe preferito attraversare l’intero sterminato deserto che occupava tutta la linea dell’orizzonte piuttosto che quello.

La ragazzetta aveva capito sin da subito che era una straniera, e senza chiederle niente aveva cominciato ad avvicinarsi a lei poco a poco, invadendo il suo spazio vitale con una gentilezza che l’aveva quasi sorpresa. Si chiamava Ladan Qualcosa, le aveva detto le prime volte, metà parlando nella sua lingua incomprensibile, metà a gesti. Era timida e pronunciava le sillabe distintamente, una dietro l’altra, quasi sussurrando, una caratteristica che le aveva fatto piacere. Tuttavia si era accorta che la ragazzina sembrava molto più in gamba di quello che lasciava trapelare e col tempo aveva finito per sopportarne la presenza, proprio come aveva infine accettato i granelli di sabbia che si infilavano dappertutto, il caldo allucinante di mezzogiorno e la quasi assoluta mancanza di magia nel raggio di qualche migliaio di chilometri – esclusa lei, naturalmente, anche se le occasioni in cui sfoderava la bacchetta stavano man mano facendosi più rade, limitate magari a ritoccare ogni tanto la sua abitazione.

Anche quella mattina Ladan sarebbe passata a chiederle come stava e se aveva bisogno di cibo e abiti, le uniche frasi in arabo che le suonavano comprensibili.

Se solo quella ragazzina avesse saputo che fino a poco tempo fa avrebbe corso un pericolo mortale semplicemente incrociando la sua strada…

Bellatrix Lestrange scosse la testa. Ladan, con il suo cognome indecifrabile, non avrebbe mai incontrato quella donna, l’essere umano che portava il nome di una stella.

Almeno, non ancora.

Si stava abituando poco a poco a quella vita, lasciandosi assorbire dall’ambiente che la circondava fino a scomparirvi del tutto… e solo per la sicurezza del bambino che stava crescendo dentro di lei. Per lui avrebbe persino rinunciato all’anima… perciò, il deserto con la sua calura arroventata a pochi chilometri da lì non costituiva, in fin dei conti, un grosso problema.

Si era chiesta da quanto tempo aveva cominciato a pensare con una mentalità così spicciola.

Alzò lo sguardo verso il soffitto dall’intonaco color terracotta, indecisa se alzarsi o no dal letto. Ogni mattina diventava sempre più penoso rimanere in posizione verticale, con la parte bassa dell’addome che si andava pian piano appesantendo. Sul far della sera il mal di schiena la costringeva a mettersi a letto… il quinto mese di gravidanza le aveva già regalato formidabili anticipazioni su come avrebbe trascorso i prossimi quattro.

 

Quando era arrivata in quella vecchia casa era stata realmente tentata di riattraversare le fiamme e andare a rompere qualche calderone sui denti di Severus Snape, ma poi il buon senso aveva prevalso sull’ira e lei aveva desistito dal suo bizzarro proposito.

Il suo alloggio era in condizioni spaventose, senza alcun dubbio. Aveva dovuto smantellare un autentico tappeto di polvere e sabbia di almeno una quindicina di centimetri che ricopriva l’intera superficie di pietra nuda di quello che lei aveva identificato come soggiorno e di altri tre ambienti – una piccola cucina, un bagno sgangherato ed una camera da letto con una brandina piena di paglia marcia ed una sedia tarlata come mobilio.

Non aveva mai fatto un servizio in vita sua – quella era roba per gli Elfi domestici!

 

I primi giorni erano stati da incubo.

 

Fortuna volle che non incontrò nessun babbano in quel periodo, o gli avrebbe scagliato una Cruciatus solo per dar sfogo alla sua frustrazione. Tuttavia, quando la sua abitazione aveva cominciato ad assumere un aspetto più civile – aveva barato con la magia, ovviamente, lì dove era stato possibile – la rabbia se n’era andata, e quasi si era sentita soddisfatta.

Si era abituata al cibo bizzarro del luogo e agli abiti semplici e funzionali, con i lunghi veli che coprivano il capo e, se si voleva, anche il volto, difendendoli dal sole ustionante anche in pieno inverno e dal vento del deserto che quotidianamente accumulava miriadi di granelli di sabbia davanti agli stipiti delle porte e delle finestre – queste ultime costituite unicamente da tende – e che ogni giorno le donne rimuovevano, nonostante la certezza che l’indomani si sarebbe ripresentato lo stesso spettacolo.

Snape non era stato neanche troppo preciso… aveva parlato di Luxor, ma la vecchia abitazione di tufo in cui era finita si trovava sulla strada per Luxor, a circa una decina di miglia dalla periferia della città, insieme ad altre piccole e basse case che, a tutti gli effetti, costituivano un minuscolo paese tra i campi fertilizzati dal Nilo e la sconfinata distesa desertica del Sahara.

Potevano essere al massimo un centinaio di persone, per lo più contadini e piccoli artigiani.

Le era sembrato di essere addirittura finita in un’altra epoca, tanto quel paesello sembrava appartenere ai tempi dei faraoni dell’Antico Egitto, quando si viveva di agricoltura e pastorizia e i Maghi del regno erano tra i più temuti dell’intero pianeta.

Alla fine Bellatrix decise di abbandonare il letto. Si mise a sedere, con la mente ancora protesa verso il regno di Ramesse II… un giorno sarebbe andata a visitare le piramidi e tutta la Valle dei Re… quando avrebbe avuto forza sufficiente per compiere ripetutamente Smaterializzazioni.

Tuttavia, aveva trovato qualcosa di veramente interessante nel più piccolo ambiente di quella vecchia casa, uno sgabuzzino che a malapena le permetteva di entrare, occupato com’era da una grande quantità di vario ciarpame assortito, dimenticato lì da chissà quale inquilino provvisorio. Tra borse di pelle di drago, stivali consunti, vecchi mantelli e kit per il pronto soccorso ormai inutilizzabili, vi aveva scovato un vecchio librone dalla copertina incartapecorita e dal titolo quasi completamente sbiadito.

Curiosa com’era, aveva aperto il volume, tossicchiando per cinque minuti buoni a causa della polvere che si era praticamente buttata in faccia, e vi aveva trovato una vera sorpresa: si trattava di una “Guida all’apprendimento della Trasfigurazione in Animagus”.

Da allora, la maggior parte delle sue giornate era trascorsa studiando ed imparando voracemente tutti i segreti per diventare finalmente un Animagus completo.

 

Bellatrix si avvicinò alla credenza, cercando qualcosa da mettere sotto i denti: col passare dei giorni la sua fame era andata sempre aumentando, fino a stabilizzarsi ad un livello tale che la costringeva a mangiare almeno quattro volte al giorno. Mentre sgranocchiava una specie di galletta, ritornò a pensare quale forma di animale avrebbe potuto assumere… Doveva sceglierne uno abbastanza comune in Gran Bretagna, adatto a climi piuttosto rigidi, veloce, intelligente, agile e… aggressivo.

Non le venne in mente nient’altro che il lupo.

Come quel lupo dal manto argenteo che aveva visto quel giorno in Canada.

 

Cominciò a riflettere che con quella forma sarebbe potuta ritornare anche in Inghilterra… magari si sarebbe infiltrata in incognito in qualche comunità magica… nessuno avrebbe avuto sospetti, vedendola con un bambino… già, ma come avrebbe trasportato suo figlio?

Una volta nato, avrebbe dovuto trasfigurarlo in un cucciolo di lupo. Nessuno si sarebbe meravigliato di vedere una femmina con il suo piccolo… sarebbe stato però abbastanza impegnativo.

Istintivamente si portò una mano all’addome. Se si concentrava magari riusciva a sentire anche i battiti del suo piccolo cuore…

Chiuse gli occhi, restando in ascolto, il palmo della mano leggermente premuto poco al di sotto dell’ombellico.

Fu lievissimo, ma lei riuscì ad auscultare quell’alito di vita che proveniva da dentro di lei. Rimase ancora qualche tempo concentrata su quel battito flebile, che a poco a poco divenne sempre più percepibile, fino a che lei non lo sentì chiaramente, un canto alla vita che le fece venire le lacrime agli occhi.

 

Sentì anche qualcos’altro, però.

 

Accanto al primo battito, all’inizio quasi indistinguibile da esso, ce n’era un secondo, vitale e festante quanto il primo.

Bellatrix spalancò gli occhi, attonita.

Erano due.

Un meraviglioso sorriso le addolcì le labbra, mentre lei si sentiva sommergere dalla felicità.

Erano due figli. Due gemelli.

 

Continua…

 

Come se la caverà questa volta Severus Piton? E Voldemort, riuscirà a strappargli il segreto che custodisce?

Le cose si complicano in maniera evidente per Bellatrix… ce la farà a proteggere i due gemelli che ha scoperto di aspettare? A chi apparteneva quel potere straordinario che aveva indotto Voldemort a richiederle il corpo della sua progenie?

Lo scoprirete presto!

(*)Ladan e Laleh Bijani sono le due gemelle siamesi iraniane che sono morte dopo l’operazione durata giorni che avrebbe dovuto segnare l’inizio di una nuova vita. Ho scelto di usare i loro nomi in loro memoria e in memoria del grandissimo coraggio che hanno dimostrato, sia per aver vissuto per ventinove anni, unite per la testa, sia per aver deciso di sottoporsi ad un intervento in cui avrebbero rischiato la vita, come purtroppo è successo, nella speranza finalmente di avere due esistenze separate.

 

Ringrazio tutti quelli che commentano la mia storia!Siete meravigliosi!

Charlize

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** Geenna et Regnum Caeli ,parte seconda ***


Disclaimer: Bellatrix Lestrange e gli altri personaggi che compaiono in questa fanfiction sono proprietà di J

Disclaimer: Bellatrix Lestrange e gli altri personaggi che compaiono in questa fanfiction sono proprietà di J.K. Rowling e di editori come Bloomsbury, Bros, Salani. Nessuna violazione del copyright si ritiene pertanto intesa.

 

IMPORTANTE: Per espliciti riferimenti alla violenza e alla morte, si consiglia una lettura a maggiori di anni 14. Grazie

 

 

“Sopra, sotto, d’ovunque, la profondità, la riva,

il silenzio, lo spazio spaventoso e seducente…

Sul fondo delle notti, col suo dito sapiente,

Dio mi disegna un incubo multiforme e continuo.

 

Ho paura del sonno come d’un buco enorme,

pieno d’un vago orrore, che porta chissà dove,

non vedo che infinito da tutte le finestre,

e il mio spirito, che la vertigine perseguita,

invidia al Nulla l’insensibilità.

  Ah! Non uscire mai dai Numeri e dagli Esseri!”

 

Charles Baudelaire, da L’Abisso; Les Fleurs du Mal

 

 

Geenna et Regnum Caeli

- Il Fuoco dannato ed il Regno del Cielo -

Parte seconda

 

 

Bianco…

Ma non il candore accecante ed insostenibile della luce purissima… un bianco torbido, sporco, denso, inacidito, quasi tendente al verdastro.

Il bianco del Limbo.

Non sapeva da quanto tempo stesse galleggiando incorporeo, sospeso in quell’oceano sterminato, un immenso spazio senza dimensioni… il Cimitero del Tempo.

Non lo sapeva e preferiva continuare ad ignorarlo.

Aveva mantenuto la coscienza di sé, ma non quella del proprio corpo… si sentiva puro spirito, squadernato fino ai confini estremi di quell’oceano pesante, unito e disgregato, senza più carne, sangue… senza più quella materia che lo teneva ancorato al terreno friabile della dimensione umana… una condizione così precaria, talmente sottile da poter essere dilaniata dall’ alito della Morte in qualsiasi momento… molte volte troppo presto, come un bocciolo reciso che appassisce prima di potersi schiudere, i petali secchi ancora strettamente avvolti l’uno sull’altro, quasi a proteggere la vergine innocenza di una vita non vissuta…  

Si sentiva schiacciato dalla dispotica Immobilità e non avrebbe potuto fare niente per cambiare le cose. La stasi eterna era ovunque, intorno a lui, dentro di lui, penetrata così in profondità da cristallizzare il suo più piccolo riflesso di vita, custodito ancora nel forziere arrugginito della sua anima.

Nel Sepolcro senza pareti in cui era immerso, Severus Snape non aveva scorto vie d’uscita.

Ridotto a puro pensiero, non aveva paura.

Quel bianco crudele gliel’aveva uccisa.

 

 

……………………………………………

 

 

Albus Dumbledore si chinò per l’ultima volta, quel giorno, sul corpo esanime del professore di Pozioni, coperto fino al collo da pesanti lenzuola di lana azzurra, un colore che gettava sul magro viso d’alabastro dell’uomo sottili ombre inquietanti, come se gli artigli insanguinati della morte si stessero allungando su di lui, avidi di stringere la sua vita filiforme tra le grinfie. Il vecchio Preside scosse la testa, scacciando quel brutto pensiero. Sarebbero riusciti a salvarlo, l’avrebbero trattenuto oltre la porta del Regno dei Morti… anche con la forza. Avevano già perso Sirius…

e per colpa sua…

I suoi occhi cerulei, sbiaditi dalle preoccupazioni, si spostarono sulla finestra della stanza al quarto piano che si affacciava su di un orizzonte terso e già intriso dei freddi e puri colori della sera. Il cielo azzurro cupo emanava una tranquillità deliziosa, che strideva graffiando con l’atmosfera pregna di tristezza e timori inconfessabili che si respirava al San Mungo. Quegli occhi chiusi, incolori, immobili di Severus gravavano sulla sua coscienza da ormai quasi sette giorni, popolando i suoi pensieri, i suoi sogni, intrufolandosi nella sua logica, nella sua parte razionale, come tanti piccoli serpenti che sgusciavano attraverso le maglie tarlate della sua mente stanca.

Vide una Guaritrice avvicinarsi a piccoli e scattanti passi, facendogli chiaramente intendere che era ora di abbandonare l’ala dell’ospedale San Mungo riservata ai pazienti colpiti da maledizioni. L’intero reparto all’ultimo piano si stava preparando a trascorrere una notte che tutti speravano essere quieta.

Dumbledore si alzò ed uscì dalla camera il cui unico occupante, per ora, giaceva immobile, inghiottito in quello che sembrava un abbandono più forte del sonno.

 

…………………………………………………

 

Improvviso, inatteso, insperato.

Ma quel candore osceno si mosse.

All’inizio fu molto simile ad un soffio di vento stantio; poi quel venticello divenne impetuoso e tutto prese a vorticare, girando ancora e ancora in un turbine sporco e latrante, che lo trascinò scaraventandolo nell’occhio del ciclone, compattando ancora una volta tutti i granelli della sua essenza sparpagliati nei più nascosti anfratti di quel bianco melmoso. Sentì di avere un corpo, rantolante da qualche parte, in attesa che lo sfinimento abbeverasse le sue labbra riarse all’esigua fonte delle sue forze. Ma la mente ora era tutta lì, aggrappata alla sua anima con tanta forza quasi da strangolarla, avvolta in un ombra che aveva mani, piedi, volto – un’impalpabile proiezione di quella carne, di quel sangue e quella pelle abbandonata chissà dove che costituivano il suo corpo sottile di mago.

Snape si guardò intorno – o perlomeno, i suoi occhi incorporei lo fecero. E quello che gli si presentò davanti lo paralizzò per un lungo istante. 

 

Si trovava in un edificio che ricalcava la vasta e slanciata architettura delle chiese gotiche disseminate nell’alta Europa. I fasci di colonne che dividevano le cinque navate, striati da nervature che l’umidità aveva scavato nelle pieghe tra i blocchi tondeggianti, si inalberavano per metri e metri, fino a ricongiungersi, incurvandosi, in numerosi archi a sesto acuto che reggevano la volta spoglia, lontana, imbevuta di penombra. Sottili bifore tagliavano ogni tanto le pareti buie delle navate più esterne, lasciando penetrare soltanto deboli fili di luce polverosa. Nell’ambiente immerso nell’ opacità stagnante regnava un silenzio duro.

Snape mosse un passo, e qualcosa si frantumò sotto i suoi piedi, come se avesse calpestato un mucchio di cocci di vetro: l’uomo abbassò lo sguardo, accorgendosi di stare camminando su di un pavimento costituito interamente da ossa piatte, una incastrata nell’altra come l’imitazione imprecisa di un orrendo puzzle. Quei miseri resti umani presero a muoversi e ad ondeggiare tra loro, come se galleggiassero sull’acqua, scricchiolando e stridendo da far accapponare la pelle ogni volta che erano costretti a scivolare gli uni sugli altri. Lo sgomento schiaffeggiò il suo spirito quando i suoi occhi si accorsero che l’intera costruzione era fatta di ossa, di teschi dalle nere orbite immense ordinatamente impilati a formare i nervi del colonnato, fino alle pareti e al soffitto costituiti da lunghe e porose ossa giallastre, incastonate senza nessun ordine preciso, cementate tra loro da quelle che sembravano essere mani scheletriche, avviluppate in grigi e nodosi legamenti, seccati da secoli.

Bracieri di ossa e crani anneriti e destinati a consumarsi erano disposti ogni cinque metri, il fioco baluginio dei tizzoni morenti contribuiva a gettare su tutto uno velo spasmodico e sanguinolento. 

Smarrito e costernato, l’uomo girò su se stesso, cercando di tenere a bada migliaia di domande che si erano affollate nella sua mente troppo sbigottita per formulare risposte sensate. L’edificio sembrava non avere né principio, né fine, soltanto un’infinita parte centrale, qualcosa che gli portò alla memoria il presente, brevissimo solo all’apparenza, ma, ad un’analisi più attenta, eterno ed immenso … il presente, che ingabbiava la vita dell’essere umano soltanto nel suo regno, sbarrando le porte del passato e del futuro… Padrone crudele, che tramutava ogni attimo del futuro in se stesso, per poi gettarlo nella voragine irraggiungibile e malinconica del passato… uno stillicidio continuo…

 

Il pavimento si scosse, brutale, facendogli perdere l’equilibrio. Snape cadde in ginocchio, portando le mani in avanti per frenare la caduta – un pensiero bizzarro per una coscienza custodita in un corpo che non era reale - , e costatando, nel momento in cui vide le ampie ferite inspiegabilmente apertesi sulle sue mani pallide, che le ossa erano affilate e taglienti come rasoi. Si osservò i palmi, sorpreso perché avvertiva lo stesso dolore bruciante della carne viva tagliata per davvero.

 

E poi un gelo inaudito lo schiacciò sotto il suo atroce calcagno.

 

Snape alzò faticosamente lo sguardo, inorridendo appena scorse che qualcosa di vagamente familiare stava venendo verso di lui, rotolando nell’aria senza produrre l’ombra di un suono… una creatura drappeggiata in un logoro manto brulicante di tentacoli di muffa, che assorbiva la luce rossastra sospesa nell’ambiente.

Il risucchio putrido del respiro del Dissennatore colpì le sue orecchie con lo stesso dolore di un sadico bacio posato sul padiglione auricolare. La Paura, risorta, lo incatenò a sé e prese a percorrere la sua coscienza con quelle mani rinsecchite da vecchia.

 

Il Dissennatore si fermò a pochi metri da lui, il sibilo putrescente sempre più forte. Con una mano viscida artigliò un lembo del panno lacero che lo copriva e prese a svolgerlo con esasperante lentezza, fino a quando l’ultimo sudicio pezzo di stoffa cadde sul macabro pavimento ai suoi piedi.

 

E Snape urlò, urlò, e urlò, il terrore turpe a colargli bollente sull’anima indifesa.

 

Brandelli assemblati di arti e carni nauseabonde costituivano una figura che ricalcava vagamente la fisionomia umana… un corpo incollato sulle vestigia di qualche salma antropomorfa, un ammasso brulicante di vermi gonfi come interiora incancrenite, che vivevano in simbiosi con quella carne scuoiata, cascante e viscida, dall’odore sferzante, corrosivo, insopportabile, che si espandeva come veleno tutt’intorno, ammorbando l’aria. Miasmi mortiferi partivano serpeggiando dall’insieme di viscere traslucide che costituivano il suo volto, sul quale si strappava un taglio butterato, uno squarcio che vibrava ad ogni respiro appestante, facendo indovinare che quel taglio purulento dovesse essere la bocca con la quale i Dissennatori somministravano il terribile Bacio.

 

Snape benedisse il fatto di non avere stomaco. 

 

- Presto sarai mio…-

 La voce usci dalla bocca dell’essere strusciando ruvida contro le pareti squamose di quell’abbozzo di labbra umane. Snape non aveva mai sentito i Dissennatori pronunciare una sola sillaba in tutta la sua esistenza, e quella breve frase lo fece tremare di raccapriccio. Cercando di recuperare quel sangue freddo dimenticato chissà dove, portò una mano ferita sotto le pieghe del mantello, cercando la sua bacchetta… era sicuro che l’impressione di stringerla tra le dita gli avrebbe scrollato di dosso un po’ di quell’insano orrore che lo stava schiavizzando…

ma, sotto le sue vesti nere, non trovò nulla.

 

E, con un fragore che raggiunse livelli altissimi, il pavimento si spaccò.

 

Una lunga faglia prese a correre da un lato all’altro di quella cattedrale blasfema, allargandosi con sorprendente velocità. Le ossa si inabissarono nello squarcio sempre più largo, sul cui fondo profondissimo qualcosa di ribollente, rosso e fangoso si agitava scoppiando in fiotti d’aria ustionante – un fiume di lava.

Nel rumore assordante, Snape scivolò, aggrappandosi disperatamente al pavimento affilato, trasformatosi adesso in una ripida parete, cercando di non precipitare in quella che sarebbe stata la sua perenne, atroce tomba. Su quel paesaggio apocalittico, la risata agghiacciante del Dissennatore arrivò fino a lui, trapanando il frastuono ruggente con la stessa letale precisione di un dardo acuminato.

L’uomo si voltò, il rosso della lava a lambirgli la pelle evanescente, come se quel magma tumultuoso fosse impaziente di inghiottirlo nel suo ventre infernale…

… stava guardando dritto negli occhi lividi della Morte, aggrappato con tutte le sue forze sull’orlo del precipizio…

quando

 

Una mano, sottile, perlacea, che sembrava fatta di antimateria, esattamente come il suo corpo.

Una mano dalle sembianze squisitamente umane.

Era piccola e scendeva dall’alto… un braccio proteso verso di lui, che aspettava soltanto che lui l’afferrasse… una presa salda, sicura. La mano della salvezza, la mano della speranza.

 

Severus Snape sganciò un braccio dalla parete a strapiombo, vacillando pericolosamente, e afferrò la mano che lo stava attendendo, stringendola con tutte le sue forze, macchiandola di sangue che ora sgorgava abbondante dai numerosi tagli che si era procurato in quella breve ed intensa agonia, sospeso nel vuoto e destinato a scomparirvi. Lentamente sentì tirare verso l’orlo del burrone, che prima gli era sembrato irraggiungibile anche se era così vicino, tanto che quel braccio salvifico aveva colmato le distanze tra lui e la sopravvivenza.

Tossendo e ansimando, si puntellò con il gomito libero e finì di tirarsi su, cadendo sulle ginocchia, stremato dalla paura e dalla fatica. Il rombo che aveva fatto tremare l’enorme costruzione cominciò a scemare, riducendosi ad un fastidioso rumore di sottofondo… uno scrosciare continuo, tumultuoso e lontano.

Grondante di sudore gelato – non si soffermò a pensare come potesse sudare senza avere una reale pelle – alzò il viso stravolto verso la figura inginocchiata di fronte a lui, con il suo braccio ancora stretto tra le dita pallide.

I suoi occhi sbarrati divennero immensi.

- Bellatrix… -

 

L’immagine della donna ondulò come se fosse fatta d’acqua, poi lei alzò lo sguardo nero pece screziato di blu sul suo volto smarrito.

- Non è stato per niente facile trovarti, Severus – disse con un mezzo sorriso, mentre si rialzava, imitata da lui. Aveva lo stesso aspetto di due mesi e mezzo fa, quando l’aveva vista svanire tra le fiamme azzurre del camino nel suo studio. Tuttavia, qualcosa di impalpabile e comunque percepibile sembrava avvolgerla, come un’aura tenue che illuminava la sua figura  cancellandone quasi l’ombra.

- Dove sono… - le chiese Snape, indicando con la testa il paesaggio che li circondava.

- Oh, non ne ho idea – fu la sincera risposta – ma ovunque sia questo posto, è da qui che provengono i Dissennatori -

Bellatrix lo guardò ancora, gli occhi notturni fissi nei suoi – So soltanto che devo farti uscire di qui, prima che tu ci rimetta la vita. Sei… sei intrappolato in questo posto ad opera Sua, vero? -

L’uomo annui.

- Non ne uscirai a meno che non lo voglia Lui. Ma io conosco l’alternativa -

Severus la guardò, sorpreso. Poi domandò: - Siamo dei fantasmi? –

- No… non credo. Siamo proiezioni delle nostre menti… abbastanza verosimili, direi -

- Come sei giunta fin qui… ? L’Oscuro ha colpito solo me -

Bellatrix si guardò intorno, riflettendo. Le ossa rosseggianti dell’edificio spaccato a metà da quella faglia infinita si riflettevano sul suo sguardo, creando giochi di luce e di tenebre.

– Sei un’Occlumante… è stato dannatamente complicato tracciare il cammino della tua mente ed eludere gli allarmi che avrebbero avvertito Lui della mia presenza… anche se sono stata aiutata – e sulle sue labbra fluttuò per un istante il riverbero di un sorriso radioso.

- Aiutata… da chi? Come hai saputo che ero qui? – volle sapere Snape.

La donna rimase un attimo a cavallo dell’indecisione. – Ricordi quando ti dissi che Lui avrebbe voluto il corpo di mio figlio per poterlo abitare? –

Snape annuì, invitandola a proseguire.

- Ora posso capire il perché. Sono loro che mi hanno detto che eri bloccato qui dentro, in pericolo di vita, che mi hanno rivelato come fare a venire fin quaggiù… sono loro che mi hanno spiegato come trovare la via d’uscita da questo miserabile inferno.-

- Loro? -

- I miei figli. Sono due gemelli. Credo che si siano sentiti in dovere di aiutare la persona che li ha salvati… Lo stesso dovere che ho avvertito io – aggiunse, dopo un po’. Quelle parole suonavano strane pronunciate da lei… inusuali

… belle…

e sincere.

Snape rimase completamente ammutolito. Il pensiero che con il suo ostinato silenzio aveva salvato non una, ma ben tre vite, si insinuò con dolcezza nella sua anima provata alleviandone ogni sofferenza.

- Riescono a comunicare con me impiantando direttamente le loro richieste nella mia mente… non so come possa succedere, non so che potere abbiano i miei figli… e non mi importa. -

Snape annuì per la terza volta, ancora incapace di parlare. Poi fissò l’addome della donna, piatto e normale, una muta domanda che affiorava sui suoi lineamenti appena smussati.

Bellatrix capì e si lasciò scappare un sorriso divertito: - Ho preso quest’immagine di me stessa prima che la pancia cominciasse a crescere… credi che avrei potuto anche solo muovermi, con quel peso a spingermi verso il basso? –

Gli occhi d’ossidiana di Snape si fecero lucenti d’ilarità. – Hai ragione – disse – e… sono davvero felice per te –

- Lo sospettavo – replicò lei, senza che quella curva ridente abbandonasse le sue labbra.

 

Il pavimento tremò ancora, ma sembrò più che altro una scossa di assestamento. Le mostruose pareti che costituivano la basilica emisero un gracidare sinistro, che si propagò nell’aria fino a scivolare sull’altissima volta della navata centrale. Lugubri lamenti esplosero allora da ogni parte, dimenandosi impazziti nello spazio senza limiti,  rimbombando oscuramente contro le colonne ghignanti che ostacolavano il loro cammino. Dalle orbite vuote dei crani nudi cominciarono a sgocciolare densi liquidi organici come lacrime oscene, e tutto l’edificio sussultò in un orribile, tremendo singhiozzo.

 

Bellatrix si guardò intorno… la paura, visibile in ogni centimetro del suo viso, lottava accanitamente con la determinazione che brillava nei suoi occhi.

- Dobbiamo affrettarci, Severus – disse – la voce salda, perfettamente udibile tra le urla dannate.

Senza attendere oltre gli prese una mano, si voltò e cominciò a condurlo verso la direzione da cui era giunta come l’angelo dell’insperata provvidenza.

 

Continua…

 

Riuscirà Bellatrix a tirare Severus fuori dai guai?? Lo scoprirete nell’ultima parte di Geenna et Regnum Caeli!

 

Ringrazio ovviamente tutti coloro che vorranno leggere questa fic!

Questo capitolo è nato grazie alle influenze di parecchia gente… vediamo un po’…

Yogh-Sothoth per quanto riguarda l’elemento macabro (^_^) che in questo capitolo è quasi dovunque, Thilwen e Ida59 con i loro meravigliosi Severus, che mi hanno fatto capire che il nostro Sev è un uomo in grado di provare sentimenti potenti – la paura in primis. E poi Dante Alighieri e Alessandro Manzoni (ci sono un paio di espressioni tipicamente dantesche e manzoniane, le avete notate?), il grande, magnifico, spettacolare, inimitabile Charles Baudelaire, il poeta maledetto che ha vissuto con la sensibilità dell’uomo del nuovo millennio più di un secolo e mezzo fa… e, beh, il Cimitero dei Cappuccini a Roma (se vi capita – e se non vi fanno impressione i teschi che vi ammiccano da tutte le parti -  visitatelo!! ) Infine, ringrazio il mio prof di Anatomia (una materia che, combinata con il gusto horror di Yogh, ha contribuito alla nascita della “Cattedrale di Ossa”).

Alla prossima!!!

Charlize^__^

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** Geenna et Regnum Caeli - parte terza - ***


Disclaimer: Bellatrix Lestrange e gli altri personaggi che compaiono in questa fanfiction sono proprietà di J

Disclaimer: Bellatrix Lestrange e gli altri personaggi che compaiono in questa fanfiction sono proprietà di J.K. Rowling e di editori come Bloomsbury, Bros, Salani. Nessuna violazione del copyright si ritiene pertanto intesa.

 

IMPORTANTE: Per espliciti riferimenti alla violenza e alla morte, si consiglia una lettura a maggiori di anni 14. Grazie.

 

“Tremilaseicento volte in un’ora, il Secondo

bisbiglia: - «Ricordati!» – Con quella sua voce

da insetto, Ora dice: «Sono già Allora, e veloce

ti ho pompato la vita col pungiglione immondo!»

 

Remember! Souviens-toi! sciupone! Esto Memor!

(parla tutte le lingue la mia gola metallica)

Sono sabbia i minuti, spensierato mortale,

da non lasciare scorrere senza cavarne oro!

 

Ricordati che il Tempo è un giocatore ingordo

Che vince senza barare ad ogni mano! È la legge.

Ricordati! Il giorno decresce; la notte aumenta;

l’abisso ha sempre sete; la clessidra si svuota”.

 

Charles Baudelaire, da L’Orologio, Les Fleurs du Mal

 

 

Questo capitolo è stato scritto sulle note di Goin’ Under, degli Evanescence, e l’ultima parte della colonna sonora del Signore degli Anelli (Le due Torri, la battaglia al Fosso di Helm). E’ dedicato in particolar modo a Ida59, Nachan, Amechan (che ha avuto la titanica pazienza di leggere tutti e nove i capitoli di fila!) come particolare ringraziamento per i loro commenti stupefacenti, così intimamente toccanti da lasciarmi commossa.

L’atmosfera di “realtà deformata” è invece dovuta all’influenza di Matrix, un film, un capolavoro… l’Odissea di un’anima.

 

 

Geenna et Regnum Caeli

- Il Fuoco dannato ed il Regno del Cielo -

Parte terza

 

 

Ormai il dolore che lo percorreva istante dopo istante, ora dopo ora, giorno dopo giorno, era diventato qualcosa che si era così compenetrato con la sua anima da essere declassato allo “scomodo e fastidioso”, piuttosto che essere avvertito come l’inumano fuoco ustionante che non cessava di tormentarlo. Il suo spirito aveva finito con l’abituarsi alla sopportazione di quella sofferenza torrenziale che esigeva da lui la più piccola scintilla di energia. Eppure…

Eppure esisteva un modo per far cessare una tortura che era cominciata poco dopo la sua risurrezione… quel corpo, quell’assemblaggio di carni che di natura umana aveva ben poco, si era rivelato un involucro fragile, una materia non adatta ad accogliere uno Spirito così sconfinatamene potente come il suo, che aveva trasceso le colonne d’Ercole dell’umano per approdare ad una condizione unica, inconcepibile per la mente pur sempre limitata dell’uomo, una dimensione preclusa al resto dell’umanità tutta. Una dimensione che aveva fatto sua, diventandone il Signore incontrastato.

Aveva poteri che rasentavano l’illimitato, gareggiando con Dio, ma un corpo troppo debole per poter sopportarne il peso. Tutte le volte che la sua mano pallida, stringente una scura e sottile bacchetta, si sollevava per compiere un incantesimo, qualcosa di quella carne bianca, di quel sangue che gli inondava gli occhi dalle pupille affilate, finiva inevitabilmente con consumarsi, col perire, crepandosi e sbriciolandosi sotto il fardello insopportabile della sua stessa magia.

Non gli ci era voluto molto per capire che quell’involucro sottile avrebbe finito per lacerarsi come una carta intrisa d’acqua.

Per assurdo, il corpo che avrebbe dovuto renderlo intramontabile stava declinando dietro l’orizzonte del caduco. Il suo spirito aveva bisogno di essere accolto in qualcos’altro, una dimora stabile, forte, solida, che avrebbe sorretto, come sulle spalle di un titano, quel potere sconfinato, ormai divenuto il fuoco che l’aveva fatto rinascere, che lo manteneva in vita.

Quella dimora era custodita nel tiepido grembo di Bellatrix Lestrange.

Aveva sentito la nuova vita formarsi in lei ancora prima che la donna se ne accorgesse.

All’inizio un sussurro, appena un bisbiglio modellato su labbra sottili, che poi si era trasformato in un brontolio sempre più intenso, sempre più pressante, fino a tramutarsi in un vociare turbolento e incessante che aveva finito per gridare a squarciagola. Quella vita era ciò di cui aveva bisogno, quel potere immenso che aveva avvertito aleggiare su Bellatrix, irraggiarsi da lei, sconfinare fin quasi nel sovrumano. Un corpo fatto di carne, ossa e sangue, ma capace di accogliere il Potere del Signore Oscuro come se fosse il tassello mancante per completare l’intricato mosaico della sua inimmaginabile Energia… sarebbe diventato l’Unico ed Incontrastato, e avrebbe obliterato Potter, Dumbledore e la feccia dei Mezzosangue dall’intero Cosmo.  

Per questo doveva trovare Bellatrix e la sua progenie, ad ogni costo.

Era stanco di quella guaina sottile che l’avvolgeva, scarnificata dalla sua stessa magia, destinata a consumarsi lentamente in atroci spasmi che avrebbe potuto sopportare ancora per poco.

E chiunque, chiunque avesse solo tentato di impedirglielo, avrebbe pagato un prezzo altissimo, che gli avrebbe fatto rimpiangere mille e mille volte di non essere mai nato.

Qualunque essere vivente sulla faccia di questo stupido sasso… a cominciare da Severus Snape.

 

Si.

 

Perché Snape sapeva.

E l’aveva ostacolato…

Non si sarebbe mai accontentato di vederlo morto, neanche dopo avergli fatto patire millenni di sofferenze…

 

L’entrata dell’alta e snella figura di Lucius Malfoy lo distolse dai suoi pensieri arroventati. Il biondo Mangiamorte si inginocchiò devotamente ai suoi piedi, i chiari e sottili capelli a sfiorargli la fronte pallida, e baciò l’orlo della sua pesante veste scura.

Quando gli diede il permesso di alzasi, gli occhi tratteggiati d’argento dell’uomo gli rivelarono subito che Malfoy aveva scoperto qualcosa di interessante.

Le sue labbra esangui fremettero di soddisfazione.

 

Lucius Malfoy gli era sempre piaciuto. Il suo viso affilato, quasi a evidenziare la sottigliezza della sua mente, gli avevano rivelato che aveva a che fare con un uomo dalle molteplici apparenze… un umano capace di recitare magistralmente diverse parti, scivolando dall’una all’altra come se si sfilasse una maschera e ne indossasse una seconda con un incredibile naturalezza, restando autentico soltanto sotto il suo sguardo. Dietro i suoi occhi luminosi e altrettanto freddi riusciva a scorgerne la vera personalità.

E quello che aveva visto l’aveva piacevolmente sorpreso.

- Si, Lucius – sussurrò con un filo di voce talmente tagliente da risultare letale come una sciabolata.

Il biondo Mangiamorte accennò ad un sorriso, gli angoli delle labbra sottili piegati verso l’alto in maniera diseguale.

- Ho riflettuto su… un dettaglio, Mio Signore, e penso che potrebbe essere importante – disse, le dita della mano destra che stringevano con forza l’elegante bacchetta. Il suo corpo slanciato, avvolto nelle scure vesti dei Mangiamorte, parve fremere appena di un’impazienza che trapelava dalle linee tese del volto avvenente.

- Un dettaglio… - mormorò lui, soppesando accuratamente ogni sillaba – il Mondo si regge sui dettagli, Lucius. Dimmi quello che hai scoperto -

 

Gli occhi d’argento liquido dell’uomo scintillarono sul pallore diafano della sua pelle perfetta, mentre la paura che Lucius provava innegabilmente nei suoi confronti si confuse con l’eccitazione del predatore nel momento in cui si rende conto di aver stretto nell’angolo la propria preda.

 

Senza darle alcuna via d’uscita.

 

 

……………………………………………………

 

 

Percorsero l’interminabile navata centrale della cattedrale di ossa quasi correndo. I loro passi frettolosi ticchettavano sulle scapole sporgenti incastrate a formare il pavimento in uno stridio raccapricciante. Erano due figure opalescenti che si spostavano in un universo a sua volta popolato di spettri, ma dal rumore dei loro piedi sembrava che la loro materialità non li avesse abbandonati un solo istante. Con la coda dell’occhio, Bellatrix scorse Severus Snape, che la seguiva così da vicino da poter essere annoverato alla sua ombra. Il suo volto - o perlomeno, l’immagine di esso - parzialmente illuminato dalla luce rossastra che permeava l’ambiente, mascherava abilmente i suoi veri sentimenti che tuttavia quegli occhi scolpiti nel basalto non riuscivano a tener segregati troppo a lungo dietro la maschera marmorea delle apparenze. Semplicemente, Snape era troppo abituato a non lasciar trapelare quello che gli si dimenava turbolento nel nucleo dell’anima.

Dovevano tirarsi fuori da quel Mondo che sembrava sgretolato dall’Assurdo, l’unico, assoluto monarca, creato dal potentissimo ed atroce incantesimo che l’Oscuro Signore aveva scagliato sul suo ex-servitore… anche se gli effetti fisici erano stati solo parziali, il maleficio, per quanto concerneva la psiche, aveva funzionato maledettamente bene. Lui aveva condannato la brillante mente di Severus a vegetare prostrata dall’orrore fino alla fine dei tempi.

O almeno, così sarebbe successo, se non fossero intervenuti loro… i suoi figli, tramite lei.

 

 

Quel giorno, non appena aveva avvertito che le vite da lei protette erano due, nell’istante in cui aveva capito che erano due gemelli, qualcosa si era dipanato attraverso la sua coscienza allibita, un potere così forte da farle tremare le ginocchia . Si era dovuta sedere per non crollare a terra, quasi oppressa da quell’aura potentissima che sembrava averla circondata, una pesante coltre di pura energia che l’aveva avviluppata, facendola sentire come l’anima di una sottile ed eterna candela dalla fiamma inesauribile…non aveva mai avvertito un potenziale così alto in nessun angolo del pianeta, neanche le molte volte in cui si era trovata in presenza del Lord Oscuro… Era indubbio che Lui possedesse un potere tale da spazzare via in un istante qualsiasi entità si fosse frapposta tra Lui e la sua meta, ma quello che aveva sentito irradiarsi da lei e da quei due cuori che battevano all’unisono trascendeva così completamente la mera dimensione umana che le sembrava aver gettato un ponte tra il mondo degli uomini e le intelligenze angeliche. Quando l’aveva realizzato, un cielo trapunto di stelle, un’immensa volta color cobalto si era squarciato davanti ai suoi occhi, ed il suo sguardo, solo per un istante, aveva accarezzato il futuro.

L’immagine evanescente di due esseri umani, di quell’età privilegiata che contempla lo sfumare dell’adolescenza nel fiore della giovinezza, si era formata in quell’oceano picchiettato d’oro. Per un istante breve come un battito di ciglia, le due creature più belle che lei avesse mai visto – o addirittura la loro anima, non sapeva con certezza - erano comparse. Così simili tra di loro, eppure, ognuna con la sua formidabile individualità, avevano collegato le loro menti con la sua. Come risvegliatasi da una trance, Bellatrix aveva saputo in quell’istante che Severus Snape stava per oltrepassare la soglia del regno dei Morti ad opera dell’Oscuro, e, unitamente a questo, come avrebbe dovuto agire per strappare dalle spire dell’incantesimo la vita dell’uomo, ormai ridotta ad una striscia sottile, poco più consistente di una voluta di fumo.

Non era un’esperta in Occlumanzia, ma qualcosa nel suo cervello le aveva detto come agire. Si era stesa sul letto, immobile, e i suoi occhi dilatati, poco a poco, avevano finito col guardare il nulla, mentre la sua mente, svincolata dalla sua parte cosciente, era andata in cerca di quella di Snape.

 

E, dopo due giorni di ininterrotta ricerca, l’aveva trovata.

 

 

Stavano camminando ormai da diverso tempo, quando lei scorse una larga porta sormontata da un imponente architrave che si apriva sul muro d’ossa della navata più esterna.

- A sinistra – bisbigliò a Snape, piegando leggermente la testa in quella direzione. Più che una porta, due colonne ingiallite delimitavano un varco di dimensioni considerevoli, che immetteva in un lungo corridoio immerso parzialmente nel buio, ma almeno, in pietra e calce grigia. Oltrepassarono la soglia e percorsero velocemente quello stretto passaggio debolmente rischiarato dalle timide fiammelle di morenti mozziconi di candele, saldate da rivoli di cera fusa al metallo sporco dei candelabri appesi al soffitto. Non occorse molto tempo perché i due intravidero l’uscita dall’altra parte, oltrepassandola con la speranza riaccesa nel cuore di uno, la certezza di non essere ancora fuori pericolo nell’animo dell’altra.

Si trovarono improvvisamente all’aperto… ma il paesaggio che si srotolò velocemente in loro presenza non assomigliava a nessun luogo esistente sulla Terra.

 

Un’immensa distesa fangosa si trascinava gorgogliante per miglia e miglia, fino a scontrarsi violenta con un orizzonte tinto di un rosa malsano, all’apparenza simile alle sfumature che intingono il vespro, ma, ad un’analisi più attenta, più pesante, soffocante…

Beffardo.

Come se il sole, invece di star tramontando dietro la lontanissima linea piatta, fosse in procinto di annegarvi agonizzante.

Ciuffi di erba marcia intercalavano quell’immensa pianura imbevuta di cenere ed una pioggerella insistente confondeva i contorni di ogni cosa, dai radi alberi anneriti e contorti che annaspavano nel terreno viscido a resti carbonizzati di mura, colonne e capitelli, di chiara fattezza romana anche se quasi interamente ricoperti da grumi di fango in parte secco. I ruderi di quello che doveva essere un tempio dedicato agli dei pagani dell’Antica Roma era sparpagliato sul terreno grumoso, nell’agonizzante attesa di consumarsi del tutto e mischiarsi alla cenere che soffocava ogni cosa. Esalazioni sulfuree si levavano dalle depressioni del terreno irregolare come turpi bestemmie rivolte al cielo opprimente, e il tipico odore di uova marce trasformava ogni respiro in un atto forzato, quasi violento.

Ma ciò che sgomentò Snape non fu quella sorta di palude che si stendeva davanti ai loro occhi, uniformando, divorando i colori, solvatando le linee. Quello che gli inaridì la gola, dandogli l’impressione che fiammate di paura lo stessero bruciando dall’interno, fu ritrovare l’orientamento in quel mare di fango caliginoso.

 

Ed accorgersi che il sole stava tramontando ad est.

 

Sentì Bellatrix irrigidirsi accanto a lui, non appena la donna si avvide dello strano fenomeno che l’aveva così profondamente turbato. I suoi occhi spaziarono dal lato opposto, ad ovest, già innaturalmente immerso in un buio dai riflessi purpurei che gravava come una campana di vetro smerigliato. Sulla volta spasmodicamente tesa sopra le loro teste le stelle erano soltanto grandi masse fredde…

…buie…

Spente.

- Dove ci troviamo… - bisbigliò lui, rivolgendo il suo sguardo penetrante sul viso serio della donna. Bellatrix alzò gli occhi verso di lui, le sue iridi incupite dalla fermezza:

- Siamo in un posto dove persino la Morte è costretta a sottomettersi al volere di qualcos’altro. Siamo in un luogo precluso all’umanità tutta… Nella Terra del Non Realizzato – concluse lei, la voce che era scemata man mano di intensità, come se avesse temuto che le ultime parole avrebbero potuto ritorcersi contro e azzannarla alla gola.

Il volto stanco di Snape lasciò trapelare la confusione mista alla volontà di conoscere, e le sue parole non tardarono a confermarla:

- Temo di non capirti, Bella – sussurrò infatti, le pupille contratte nella luce sofferente del crepuscolo.

La donna attese un istante prima di rispondere, perché l’esatta spiegazione di dove si trovassero in quel momento sfuggiva parzialmente alla sua comprensione – acuta, certo, ma pur sempre, limitatamente umana. Il suo sguardo abbracciò il paesaggio agonizzante intorno a lei, riflettendosi in miriadi di immagini scomposte nella sua mente che cercava di ordinare e catalogare l’incomprensibile.

- Siamo in quella dimensione dove si riuniscono le Scelte non prese. – disse dopo un po’- E’ difficile spiegarlo, ma tenterò comunque. Vedi… tu, io,.. anche l’Oscuro, l’umanità tutta… siamo chiamati a compiere delle Scelte, Severus… ed ogni volta che lo facciamo, la nostra preferenza cade su una di esse, mentre le altre sono inesorabilmente destinate a dileguarsi nel nulla. Certo, potrà capitare di rimpiangerle, di disperarsi per aver compiuto la scelta sbagliata o quella meno proficua… ma le Scelte non fatte non ritorneranno mai più da noi… L’opportunità si presenta una volta sola. All’uomo non è concesso di dominare sul passato e, se devo dirti la verità, non oso immaginare cosa succederebbe se fosse altrimenti. –

La donna fece una pausa, per accertarsi che Severus stesse comprendendo appieno le sue parole.

- Questo… è il luogo dove le Scelte Perse vengono riunite – concluse, accompagnando le sue parole con un lieve gesto della mano pallida.

- La Terra del Non Realizzato… - mormorò Snape, mentre i suoi occhi sconcertati indugiavano su ogni cosa. Ecco perché il sole tramonta ad est… è questo il motivo per cui le stelle sembrano solo pietre raffreddate da millenni…ma…

- Chi mai ha scelto di far nascere il sole a levante e di farlo perire a ponente? Giorno dopo giorno… – concluse con una domanda che suonò quasi urgente.

Bellatrix lo fissò, sorpresa da una simile richiesta. Poi, rassegnata, abbassò lo sguardo sulle proprie mani intrecciate:

- Questo non lo so, Severus – disse, e Snape ebbe l’impressione di avvertire nel suo tono di voce un rispetto reverenziale.

E lui si fermò a riflettere, per la prima volta, sui limiti che lo ingabbiavano, le stesse catene che intrappolavano Bellatrix, i Mangiamorte, Dumbledore. Le corde ruvide che il Lord Oscuro stava riuscendo pian piano a lacerare.

Mentre loro…

Erano maghi, avevano a disposizione molte più risorse dei semplici Babbani, eppure la loro mente era destinata a scontrarsi con le barriere erette dalla sua stessa natura di essere uomo… mura che mai un umano avrebbe potuto sfondare, neanche per aprirsi una breccia e spiare, avido e terrorizzato, cosa esistesse al di fuori di quella cinta muraria che stringeva in un doloroso e perenne assedio la sua mente smaniosa di conoscenza…

E se il mondo che vedevano, l’universo intero in cui vivevano, fosse stato qualcosa di completamente diverso, che loro non riuscivano a scorgere… qualcosa di cui l’uomo non riusciva a impadronirsi, restandone esiliato, a ridosso dei margini, battuto, umiliato, condannato ad indossare i paraocchi per il resto dei suoi giorni? E se invece l’essere umano fosse in balia del nulla, un Niente a cui egli aveva dato una forma illusoria e un’irreale consistenza, per cercare di scacciare la miseria incombente che lo stritolava, richiudendosi intorno a lui come una botte chiodata?

Snape scosse lentamente la testa, cercando di scrollarsi quelle domande che dolorosamente si erano incollate alla sua mente provata, insinuandosi tra le pieghe del dubbio, incastrandosi tra le crepe dell’incomprensibile, smontando lentamente i costrutti della logica, rosicchiando alle fondamenta le certezze del suo esistere.

Una crescente sensazione di atroce disagio montò in lui con la furia di un mare in tempesta, scaraventando ovunque i detriti della razionalità ritenuta fino ad allora una fortezza inespugnabile, e che ora stava soccombendo…

 

… precipitando nel nulla…

 

- Severus! -

 

La voce di Bellatrix parve scuoterlo e lui si sentì debole e vinto, un fuscello colpito da un fulmine. Snape sbatté le palpebre, frastornato, notando con stupore che il viso preoccupato della donna lo sovrastava, guardandolo dall’alto… per poi rendersi subito conto che era lui ad essere scivolato, accasciandosi nel terriccio melmoso, coprendosi di fango fino al mento. L’umidore della terra calpestata dall’acqua e intrisa di zolfo venefico finì per spazzare la nebbia che gli era calata sulla mente: tutto ridivenne lucido, tutto sembrò ancora più squallido.

Bellatrix gli tese una mano, aiutandolo a sollevarsi.

Il risucchio del fango lo ripugnò.

- Sei caduto all’improvviso… - mormorò la donna, scrutando il suo volto come se volesse cercarvi tutte le risposte alle domande che pressavano anche la sua mente, insistenti, continue, fastidiose come irritanti punture di zanzare. Provava la smania di grattarle via, di liberarsene, di scuoterle di dosso, ma intuiva inconsciamente il rischio che si poteva correre…

- Non… non me ne sono accorto. Stavo pensando a… -

E Severus si bloccò, indeciso, alla ricerca delle parole adatte con cui spiegarle esattamente cosa gli fosse successo. Con grande costernazione, realizzò che nella lingua umana non esistevano parole per esprimere ciò che aveva vissuto in quei brevi istanti, che nella mente di lui si erano slargati a dismisura, come abnormi tumori maligni.

Tuttavia la donna annuì, consapevole.

- Domande… - sussurrò infatti, ottenendo da Snape come risposta un breve cenno d’assenso. – Sigilla la tua mente, Severus, perché le domande di questo posto sono pericolose, mentre le risposte… possono essere mortali -

L’uomo sussultò impercettibilmente, avvicinandosi d’istinto alla figura minuta di lei, intenta a contemplare per l’ennesima volta la terra violentata delle Scelte Non Fatte.

- Dobbiamo trovare un ponte… so che è l’unica via capace di consentirci di ritornare nella nostra dimensione. – la donna sospirò, poi aggiunse - Giungere qui è facile, ma andarsene… -

- Da che parte si trova questo “ponte”? – sussurrò Snape, mentre il timore si faceva di nuovo strada nel suo animo esausto – da che parte sei giunta? -

- Dobbiamo raggiungere l’orizzonte – mormorò Bellatrix.

Snape la guardò ancora. La cenere sospesa nell’aria si era posata qua e là tra i suoi lunghi capelli nerissimi come l’imitazione ingrigita di cristalli di neve. La sua figura sottile sembrava avvolta in un lucore che baluginava a tratti e incostantemente intorno a lei, una luminescenza azzurra che aveva il gusto dolce del potere arginato dalla saggezza. La sua parte razionale si domandò sdegnata come fosse possibile raggiungere l’orizzonte, ma poi qualcosa gli ricordò che in quel posto la Scelta non fatta avrebbe potuto rendere realizzabile una simile impresa.

- D’accordo – disse, e le sue labbra accennarono ad un sorriso.

Bellatrix ricambiò lo sguardo, poi anche le sue labbra si dischiusero in un riso lieve, con un breve scintillio di denti bianchi.

 

Il borbottio remoto di un tuono percorse l’aria snervata dalla fuliggine che si insinuava ovunque, a tratti appesantita dalla pioggia, incastonata nel fumo sulfureo.

Bellatrix sfiorò con la mano il gomito di Severus, un gesto gentile e al contempo pressante.

Si avviarono insieme, diretti verso il cielo grondante di sangue, una ferita aperta sul petto del giorno che continuava, lento, a morire.

 

Continua…

 

Riusciranno Bellatrix e Severus a raggiungere l’Orizzonte e il tanto sospirato passaggio?

Che cosa ha scoperto Lucius Malfoy?

Lo saprete nel prossimo capitolo, Ara Pacis!

Bacioni a tutti coloro che mi commentano!

Charlize

Ritorna all'indice


Capitolo 11
*** Ara Pacis ***


Disclaimer: Bellatrix Lestrange e gli altri personaggi che compaiono in questa fanfiction sono proprietà di J

Disclaimer: Bellatrix Lestrange e gli altri personaggi che compaiono in questa fanfiction sono proprietà di J.K. Rowling e di editori come Bloomsbury, Bros, Salani. Nessuna violazione del copyright si ritiene pertanto intesa.

 

IMPORTANTE: Per espliciti riferimenti alla violenza e alla morte, si consiglia una lettura a maggiori di anni 14. Grazie

 

 

 “Era l’ora in cui lo sciame dei sogni malsani

torce i bruni adolescenti sui guanciali,

in cui la lampada, come un occhio sanguinante

fa una macchia di rosso sul giorno, palpitando,

e l’anima sotto il peso del corpo intorpidito

imita quella lotta del lume col mattino.

Come una faccia in lacrime che la brezza asciuga

L’aria è piena del brivido delle cose in fuga

L’uomo è stanco di scrivere e la donna d’amare.

 

Charles Baudelaire, da Il crepuscolo del mattino; Les Fleurs du Mal

 

 

Questo capitolo è stato scritto sulle note della colonna sonora de “Il Ritorno del Re” (da “Il Signore degli Anelli”), musiche del geniale Howard Shore.

 

Ara Pacis

- L’altare della Pace -

 

 

Hogwarts, 6 December

 

“My beloved Mother,

come ti avevo promesso l’ultimo giorno prima di tornare tra le mura di Hogwarts, ti scrivo per raccontarti della mia vita qui alla scuola di Magia e Stregoneria. E scrivo solo a te, madre, pregandoti, implorandoti anzi, affinché le parole che ora scivoleranno sotto il tuo sguardo non possano essere lette da mio padre.

Lui non capirebbe. Non potrei sopportare di saperlo cosciente della mia debolezza, lo amo troppo per dargli questo dispiacere. E tu, madre, lo sai bene quanto me.

Circondato dalle pareti dell’umido sotterraneo che ospita la mia Casa, riesco a pensare soltanto ad una cosa.

E’ assillante, ossessiva.

Spaventosamente semplice.

 

Ho paura, madre.

 

Ho paura della mia vita, della mia esistenza… di quello che potrei diventare. Di quello che temo di diventare.

Sono perseguitato dal mio futuro, che mi svuota, mi prosciuga, mi getta nella nebbia del presente. So che presto mio padre pretenderà da me che io compia il gran passo, quello decisivo, che mi porterà ad affiancarlo nella lotta per la causa dell’Oscuro.

Sai che lo farò, madre, qualunque cosa accada.

Sono stato preparato a questo sin dalla tenera età, ma… ora…

Non so più quello che voglio, madre.

E questo mi terrorizza.

Da quando mio padre è costretto a nascondersi come un volgare ladro ho perso la mia sicurezza. Sei rimasta l’unica luce della mia esistenza, madre cara. Sono attorniato dal nulla, un vuoto che colma urlante i fantocci di coloro che si dichiarano “miei amici”, come Crabbe e Goyle, ad esempio… o Pansy Parkinson. E’ terribile scoprire la menzogna camuffata dietro il loro sguardo amichevole… mi fa sentire macchiato, sporco… contaminato. Mi temono, credo, e sono affascinati da quell’oscurità con cui convivo da molto tempo e che, adesso, fa parte di me. Attratti e respinti, soggiogati e impauriti da quell’ombra buia che è nata con me e che morirà con me.

In questa tenebra che mi culla tra le sue braccia fresche tutto sfuma, il significato di ogni cosa si smarrisce nell’oblio. Guardo Potter e quasi non ricordo l’odio che sono sicuro di aver provato per lui per cinque anni. Guardo la Mezzosangue e le parole di disprezzo dimenticano la strada che le porta sulle mie labbra. Guardo Weasley e la derisione viene cancellata dai miei occhi.

Cosa sto diventando, madre? Ho perso gli unici sentimenti che mi tenevano vivo. Mi sto trasformando anch’io in un guscio cavo da riempire a proprio piacimento?

 

Ho paura, madre. Tanta paura.

 

Mi piacerebbe tornare ai giorni della mia infanzia. Della beata inconsapevolezza.

A quei giorni quando potevo ancora sentire il profumo dei tuoi capelli di sole accarezzarmi le guance, quando ti chinavi su di me con il sorriso che aveva per il mio cuore lo stesso significato dell’alba. Della rinascita.

Da quanto tempo le tue labbra non si poggiano sulla mia fronte ad augurarmi la buonanotte?

Quei baci tenevano lontani gli incubi che mi graffiano durante il sonno, madre. Perché mai crescere deve significare soffrire, rinunciare a quei pochi momenti che mi tiravano fuori dalla pozzanghera in cui mi sento invischiato, imprigionato nel fango di una giovinezza vecchia?

Non riesco a spiegarmelo, madre. So soltanto che è come percorrere un tunnel nero e vuoto, con l’oscurità che preme sadica sugli occhi, ricacciandoli dentro le orbite… la tenebra che preme, preme, preme. E non mi fa vedere null’altro se non le ragnatele sospese tra i soffitti della mia anima. Quando le scorgo ho la sensazione di essere costretto a guardare attraverso tre, quattro paia di lenti. E mi bruciano gli occhi…

Sono impotente dinanzi alla morte che mi circonda. Vedo Severus Snape morire lentamente e so che mio padre ne è responsabile. So che mio padre sta aiutando l’Oscuro a dare la caccia a Bellatrix… mia zia, tua sorella.

Madre… mamma…non posso più…”

 

 

Narcissa non riuscì a proseguire la lettura della pergamena liscia su cui suo figlio aveva vergato, con la sua grafia tremula, quelle frasi. Le lacrime brucianti che avevano profanato i suoi occhi celesti erano scese copiose e avevano sciolto l’inchiostro, impregnando la carta.

 

……………………………………………..

 

Il cielo sopra le loro teste aveva acquistato una trasparenza insolita, quasi minacciosa. Severus alzò gli occhi verso la volta cupa che li avvolgeva, drappeggiandosi sul globo del mondo, e il fiato gli uscì sibilando dai polmoni. Il suo sguardo incredulo riuscì a perforare quell’immenso vuoto privo di stelle, innalzandosi sempre più in alto, nel buio gelido del ventre del cosmo, spaziando, saettando fino a conficcarsi nel limite dello Spazio.

Si, riusciva a vedere la fine dell’Universo.

Si accorse che non esistevano parole del linguaggio umano per descrivere l’inafferrabile sensazione che lo fece tremare fin nei sotterranei dell’anima, senza cadere nella contraddizione. Ma quei limiti erano così simili a pareti immense, mura che si allontanavano all’improvviso proprio quando si era in procinto di sfiorarle con dita frementi. Esse sfuggivano, guizzavano, ma erano sempre visibili, sempre, inesorabilmente irraggiungibili.

Erano lì.

Abbassò lo sguardo per fissare il paesaggio spoglio dinanzi a sé. La tinta cremisi del tramonto aveva lasciato lo spazio ad un indaco intenso, che irritava gli occhi, strappava lacrime pungenti.

Stavano percorrendo un sentiero a malapena visibile tra l’erba marcia e calpestata, l’odore d’azoto tipico della pioggia soffocato dalle esalazioni del terreno incancrenito, quando due figure si materializzarono a poca distanza di fronte a loro.

Avvertì chiaramente il brivido che percorse la schiena di Bellatrix come se stesse condividendo con lei un unico corpo. Entrambi si arrestarono, incapaci di spingersi oltre, ed attesero.

Le due figure si mossero verso di loro, scivolando sul sentiero con la stessa paurosa fluidità dei fantasmi, avvolti in manti dal colore indefinibile. Solo quando furono a pochi passi di distanza Bellatrix e Severus riuscirono a scorgerne i lineamenti. Sembravano un uomo e una donna dalle fattezze comuni, ma se ci si soffermava ad osservarli meglio e con più attenzione, i loro volti erano allo stesso tempo fanciulleschi e invecchiati, le loro mani morbide e aggrinzite, la pelle del loro viso rosea e cinerea. Sui loro volti il Tempo giocava a suo piacimento… avanzava di corsa, si arrestava bruscamente, tornava indietro per poi di nuovo scattare in avanti. Ed i loro occhi sembravano sorridere a quel Tempo giocherellone, sopportando con pazienza e benevolenza il suo carattere infantile ed eccentrico.

I due si arrestarono, fissando con il loro sguardo insostenibile gli ex-mangiamorte.

- Chi siete? – si azzardò a domandare Bellatrix a voce così bassa che Severus fece fatica ad udirla. Quello che sembrava un uomo spostò lo sguardo su di lei, lentamente, come se stesse cercando di rammentare qualcosa. Poi, d’un tratto parlò:

- La tua Morte – disse con tono calmo, profondo.

Tranquillizzante.

Severus osservò Bellatrix impallidire visibilmente. Il suo volto divenne una scultura d’avorio.

- Che… cosa vorresti dire? - replicò, senza badare alla sua voce incrinata, che usciva raschiando contro il palato.

- E’ molto semplice, Bellatrix. Io sono la tua Morte, e lei – disse, rivolgendosi alla figura femminile che sostava al suo fianco – è la Morte di Severus -

Snape fissò ammutolito il volto divino intriso di tempo della donna che lo fronteggiava.

- La… mia Morte? – le chiese con un filo di voce. Lei annuì, poi sorrise… e Snape si rese conto di non aver mai visto un simile sorriso sul viso di un umano: era la pace, la calma. Il riposo dell’anima stanca. Poi la donna parlò… frasi morbide, gentili, carezzevoli.

- Immagino sia strano per voi vederci, finalmente – disse, rivolgendosi anche a Bellatrix – Tuttavia noi ci siamo già incontrati. -

- Incontrati? – sussurrò la donna. La figura annuì, poi continuò con voce dolce, senza il minimo segno di rimprovero:

- Gli uomini e le donne lasciano scorrere i loro anni senza accorgersi della nostra presenza. Nel mondo vi accompagniamo lungo l’intero cammino della Vita. Vi teniamo per mano, senza che voi ve ne rendiate conto. Avete infatti scelto di non vederci, se non alla Fine del vostro Sentiero.

Noi siamo là, sempre, per non lasciarvi mai soli, anche quando le catene della solitudine sembrano imprigionare le vostre anime. Voi umani avete paura di noi, temete la Morte come si teme un nemico, ma noi non lo siamo mai stati - la donna sospirò, scuotendo leggermente la testa – Noi vegliamo sull’anima dell’uomo dal principio e accorriamo in suo aiuto alla fine. Senza di noi, la vita finirebbe per essere eterna e la sofferenza… inconcepibile. –

- Vorresti… vorresti dire che è giunta la nostra ora? – domandò Bellatrix, sforzandosi di non far tremare la voce.

- No, figlia mia – rispose l’uomo senza tempo – alla Morte è vietato sapere in anticipo quando la vita terminerà il suo cammino. Verremo in vostro aiuto solo al momento in cui dobbiamo. E nessuno sa quando ciò accadrà. noi, né la Vita nostra sorella. -

- E quando qualcuno viene ucciso? – chiese Snape, gli occhi sbarrati che brillavano neri sul volto pallidissimo.

- L’assassino uccide anche noi, figlio mio – rispose la donna – L’omicidio non violenta solo la Vita, ma anche la Morte. Separa l’anima dai suoi custodi, permette alla paura e alla sofferenza di ghermirla con dita atroci. L’anima si smarrisce, preda inerme e singhiozzante. Quando la ritroviamo la sua serenità è ormai perduta. Non possiamo che condividerne le sofferenze, cercando di alleviarne il dolore, aiutati dalle preghiere dei vivi che custodiscono nel cuore il ricordo di quell’anima piangente. -

- Ma è… terribile… - bisbigliò Bellatrix, sgomenta – Non… non dovrebbe essere permesso -

- Figlia, cara figlia mia – replicò dolcemente la sua Morte – all’uomo è stato dato il libero arbitrio… certo, avrebbero potuto crearlo in modo tale da farlo agire solo nel giusto… ma cosa sarebbe stato? Un fantoccio con i fili della volontà stretti in mani altrui? No, figlia. L’uomo ha la possibilità di scegliere, e se scegliere significa anche sbagliare, si può solo sperare che la prossima scelta si allontani dal percorso tracciato dalla prima. E che l’uomo impari e cresca dai propri errori. Se non fosse così, negheresti l’essenza dell’umanità tutta. -

Bellatrix lo fissò un istante ancora, mentre le parole dell’uomo trovavano la strada per la sua comprensione.

- Io… io ho fatto questo… - sussurrò e tacque, incapace di andare oltre.

Avvertì un tocco tiepido, rassicurante. La sua Morte le aveva sfiorato una guancia.

- E’ tempo in cui prenda coscienza delle tue azioni, figlia. Quando sceglierai di nuovo, il tuo cuore ti dirà cosa fare -

Bellatrix rimase in silenzio.

- Perché siete qui? – chiese, rivolta ad entrambi.

- Per mostrarvi qualcosa che appartiene al vostro passato – rispose la Morte di Severus – e per chiedere il vostro aiuto. -

I due la guardarono, non riuscendo a capire il senso della richiesta.

- Tom Marvolo Riddle, colui che voi conoscete col nome di Voldemort -

- Lui… - sibilò Bellatrix, gli occhi fattisi d’un tratto roventi.

La figura annuì. – La Morte di Voldemort sta svanendo. Se dovesse scomparire del tutto, l’ordine naturale delle cose sarebbe stravolto. Sarebbe la fine del vostro e del nostro mondo –

- Svanendo? Come? – chiese Snape, che aveva cominciato a rendersi conto della reale portata dei poteri dell’Oscuro.

- La sua anima ha ingoiato la Morte, intrappolandola dentro di lui fino alla fine dei tempi -

- Non è possibile… -

- Il possibile e l’impossibile hanno pareti molto sfumate, Severus. La definizione umana di cosa è possibile e cosa non lo è resta un insicuro tentativo di tracciare le loro complesse architetture. -

- Cosa possiamo fare per fermarlo? – domandò Snape.

- Dovete agire nel vostro mondo. Dovete compiere delle scelte. Ed è per questo che ora vi mostriamo qualcosa che appartiene a voi e al vostro passato… qualcosa su cui non vi siete mai fermati realmente a riflettere. Vi separeremo e quando vi ricongiungerete vi sembrerà che sia trascorso solo un istante. E vi troverete all’inizio dell’Altare della Pace, il ponte che vi condurrà fuori da questa dimensione e che vi riunirà ai vostri corpi. -

Bellatrix si voltò verso Severus, quasi restando sorpresa di vedere lui agire nello stesso modo. I loro occhi si cercarono, i loro sguardi si allacciarono, sfiorandosi come mai le loro mani avrebbero potuto fare. Il suo timore si specchiò in quello identico di Severus, ma una muta promessa di rivedersi alla fine del viaggio nel passato corse tra di loro, forte e salda.

Poi il buio calò, avvolgendoli nella sua pastosa, fresca densità.

 

………………………………………………..

 

Tradire.

Così semplice, così rapido.

Così definitivo.

Eppure qualcosa dentro di lui continuava a stridere e a dimenarsi, scagliandosi con una forza disperata contro la parete d’acciaio della sua decisione.

Lucius Malfoy decise di ignorare quella parte ululante della sua coscienza. Aveva sempre saputo cosa avrebbe significato seguire il Lord Oscuro, ed adesso ne stava soltanto avendo un’ulteriore conferma: avrebbe dovuto recidere un altro filo di seta… il filo dell’amicizia che lo legava a Bellatrix Lestrange.

Bastava un taglio netto, preciso. Pulito.

Contrariamente a quanto si aspettasse, la sua scelta alla fine non risultò essere troppo dolorosa. Solo fastidiosamente pungente, come un dito che passa più e più volte alla ricerca dell’antipatica presenza di una piccola spina, senza riuscire a sfilarla.

- Il colore del fuoco, mio Signore – sussurrò Lucius, con un pacato movimento delle labbra bianche, guardando Lord Voldemort nelle polle di sangue che costituivano i suoi occhi. – Hai detto, mio Signore, di aver visto Bellatrix svanire tra le fiamme azzurre del camino di Snape. Un colore bizzarro, se si considera che l’usuale tinta del fuoco dei camini-passaggio è verde. -

L’uomo tacque, aspettando che l’Oscuro assimilasse quelle informazioni.

- Continua, Lucius – sussurrò Voldemort, le pupille verticali fisse su di lui, come se volessero strappargli a viva forza i pensieri dalla mente. Quello sguardo violento lo turbò, ma la sua indecisione durò solo un istante.

- L’azzurro è generato da uno speciale tipo di metropolvere, usato in passato dal Ministero e dalla Gringott. Può condurre solo in dieci luoghi diversi… basterà controllarli tutti. Uno di questi ci porterà da lei, Mylord. -

Il silenzio che seguì le sue ultime parole sembrò gelido come la superficie di un lago ghiacciato.

- Controlleremo – sibilò Voldemort – Mi ricorderò del tuo aiuto, Lucius -

Prima che il ginocchio dell’uomo biondo toccasse terra, il Lord Oscuro si era smaterializzato, lasciando dietro di sé una nube d’aria accartocciata.

La spina continuava a fargli male.

 

……………………………………………………………..

 

Un rigagnolo opaco scorreva proprio vicino ai suoi piedi. Snape abbassò gli occhi, osservando poco lontano lo zampillare dell’acqua proveniente dalla neve che si scioglieva sopra i tetti, che si riversava torbida dal canale di scolo, collegato ad una grondaia, lungo il marciapiede tappezzato di ghiaccio sporco.

Era nella Londra babbana, in quello che appariva a prima vista un vicolo nascosto, illuminato fiocamente da qualche lampada a nafta appesa in alto, sulle pareti esterne di due vecchie case che delimitavano l’angusto passaggio. Il cielo notturno, una striscia blu scuro tra i tetti spioventi delle due case, era trapunto qua e là dalle stelle sbiadite dal pallido quarto di luna crescente.

Snape si chiese a che momento del suo passato appartenesse quello che stava vedendo, quando, con un sussulto, ricordò.

Quella notte…

Col cuore in gola, cominciò ad avanzare verso il fondo del vicolo, certo di trovarci ciò che temeva

Era la notte della sua ultima vittima.

L’ultima vita spezzata prima di abbandonare la causa di Lord Voldemort.

Trafelato arrivò sul fondo, sicuro di rivedere quell’immagine che l’aveva tormentato per anni.

 

Quella notte di quindici anni prima gli era stato ordinato di vendicare uno dei primi Mangiamorte ucciso da un Auror. All’inizio si era sentito onorato per aver ottenuto il permesso di riscattare la memoria offesa del caduto, ma quando gli avevano detto chi doveva eliminare, la sua determinazione aveva vacillato come un rametto seccato e storpiato dal vento.

Il Lord Oscuro gli aveva sibilato di compiere la sua vendetta uccidendo la figlia dodicenne di Fabian Prewett.

E lui aveva eseguito gli ordini.

Era stato facile attirare la bambina nella trappola. Aveva già deciso che sarebbe stato rapido, istantaneo. Vedere la sofferenza su quel volto infantile e sorridente gli avrebbe fatto perdere il senno. Avrebbe evitato di guardarla negli occhi verdi. Avrebbe impedito ai suoi occhi di soffermarsi sui bagliori dei lunghi capelli ramati di lei. Avrebbe zittito la sua coscienza che gli urlava nella testa che era solo una bambina, una rosellina in boccio che ancora non assaporava la brezza della vita.

Nel momento in cui la figlia dell’Auror era stata in sua completa balia qualcosa dentro di lui si era spezzato con uno schianto, frantumandosi in mille scaglie taglienti.

Con gli occhi accecati dall’orrore, aveva pronunciato la terza Maledizione Senza Perdono. Quando le ultime sillabe dell’Avada Kedavra erano uscite serpeggiando dalla sua bocca esangue, la consapevolezza che il prossimo colpo di bacchetta fosse destinato a se stesso si era riversata su di lui come un fiume di fango bollente.

E Severus Snape era scappato, cercando di sfuggire a quella parte di sé, quel se stesso che lo terrorizzava e che aveva appena compiuto un abominio.

 

Il cadavere della ragazzina continuava a fissarlo nei suoi sogni tormentati ancora adesso.

 

Questa volta il corpo minuto di Charlene Prewett non era solo. Accatastati accanto al suo, infatti, c’erano altre tre salme. Sopraffatto dall’orrore, Snape distinse in quei volti gonfi e tumefatti i lineamenti gentili di Remus Lupin, i capelli rosa di Nymphadora Tonks, la faccia distorta di Alastor Moody.

Indietreggiò, inciampando nei suoi stessi passi esitanti.

- E’ quello che sarebbe successo se non ti fossi fermato in tempo, Severus – sentì dire alle sue spalle. Snape si voltò, i suoi occhi sbarrati incontrarono quelli calmi della sua Morte. – Il sacrificio della piccola Charlene Prewett è stato ingiusto, ma quanto sbagliato? Ha impedito che ti trasformassi in un mostro, figlio mio. Un’azione aberrante che ha generato un rimorso altrettanto atroce. Un sentimento che tuttavia ha cambiato il tuo cuore -

Severus rimase silenzioso. Si girò di nuovo a guardare gli occhi vuoti della ragazzina abbandonata nel vicolo.

- Pregherò per la tua anima… - sussurrò, mentre tutto ondeggiava intorno a lui a causa delle lacrime cocenti che si erano affacciate ai suoi occhi bui.

Una figura avvolta in una luce argentata si materializzò all’improvviso davanti al suo sguardo annebbiato.

La Morte di Charlene Prewett si chinò a raccogliere tra le braccia lucenti la salma ingrigita della ragazzina.

Non poté essere sicuro, ma a Snape sembrò vedere la pace sul volto della bimba, un momento prima che la piccola svanisse insieme alla sua custode.

 

………………………………………………………

 

Dipartimento dei Misteri.

Ancora.

Era tornata in quel posto innumerevoli volte nei suoi sogni, rivivendo, attimo per attimo, tutto quello che vi era accaduto.

La rabbia nell’essere insultata dal sangue del suo sangue.

Il volto sorpreso di Sirius Black che scompariva dietro al velo.

L’urlo di Harry Potter.

L’orrore tempestoso che l’assaliva.

La volontà dell’Oscuro che si impadroniva della sua mente.

Ed ora, intorno a lei, regnava la più assoluta immobilità. Soltanto il drappo nero ondeggiava piano, gonfiato da una brezza gelida che proveniva dall’interno dell’arco. Bellatrix si immobilizzò ad osservare rapita quei movimenti fluttuanti che sembravano sussurrare il suo nome ad ogni curva che il drappo descriveva nell’aria. Attratta, quasi soggiogata dalla strana danza del velo, la donna si avvicinò all’arco, allungando dita tremanti verso uno dei suoi lembi. La stoffa nera era vellutata e soffice, morbida al tatto, come lei non si sarebbe mai aspettata. Tremante d’attesa e di paura, Bellatrix scostò il velo di qualche centimetro, aprendosi uno spiraglio.

 

Urlò.

 

Una mano bianca e sottile le aveva afferrato il polso in una morsa gelida. Con uno strattone lei aveva cercato di liberarsene, contorcendosi dal dolore, ma i suoi tentativi erano falliti. Quel braccio la stringeva ancora e stava avanzando verso di lei.

Lentamente, alla mano bianca seguì il resto del corpo, che emerse dall’oscurità protetta dal velo con una calma esasperante. Quando alla fine anche il volto fu strappato alla tenebra, la donna urlò di nuovo, liberandosi violentemente dalla presa d’acciaio di Sirius Black.

- Salve, cugina – sussurrò questi… due parole che le ghiacciarono l’anima.

- Tu… tu sei… - Bellatrix non riusciva a parlare. Il terrore per quello che stava vedendo le chiudeva la gola, soffocandola.

Il viso di Sirius Black, talmente somigliante al suo che avrebbe potuto essere suo gemello, si contorse in un sorriso sarcastico.

- Morto? – bisbigliò, venendole in aiuto. – Immagino di si, cugina. Anche se la mia Morte sta ancora faticando per trovarmi, e il mio corpo mi impedisce di distaccarmi da esso per andarla a cercare. Sto vegetando in attesa che la materia di cui sono fatto si consumi, cugina. Devo a te questa originale condizione. -

L’uomo si zittì in un silenzio spietato.

 

L’anima di Bellatrix stava sanguinando. Non avrebbe voluto, non avrebbe dovuto farlo… meritava di morire… meritava anche lei di smarrire la sua Morte.

 

- Mi hai strappato dall’unica famiglia che mi rimaneva, cugina. – continuò inclemente l’uomo, mentre i suoi occhi blu oceano si velarono, ripensando a quel ragazzo che aveva lasciato solo – Mi hai tolto l’unica gioia della vita. Mi hai trascinato via colui che considero mio figlio, mio fratello, parte di me stesso. Mi hai tolto la speranza di morire in pace. –

 

Martellate. Chiodi inferti nella carne viva.

Nel dolore atroce che quelle parole provocavano in lei, Bellatrix non aveva smesso di pensare che se lo meritava. Erano le conseguenze delle sue azioni.

Con sgomento si accorse che stava soccombendo sotto i colpi del suo agire rinfacciatole in maniera tanto cruda.

Avrebbe voluto dirgli che le dispiaceva, ma quel pensiero che attraversò la sua mente si tinse di ridicolo. Era certa che se l’avesse espresso ad alta voce lui l’avrebbe insultata

 

- La sua Morte lo sta raggiungendo, Bellatrix. La sofferenza della tua anima le ha aperto le porte. -

Al suo fianco, l’uomo che si era presentato come la sua Morte si era materializzato con uno sfolgorio d’argento. La donna ammutolì, facendo scorrere lo sguardo dal suo volto indecifrabile a quello familiare di Sirius, che sembrava sorpreso nel vedere la figura che aveva parlato all’improvviso.

- Sta… sta arrivando? – mormorò Sirius, senza staccare gli occhi dal viso stravolto di Bellatrix.

- Si, ragazzo. Tua cugina le ha mostrato la strada, il dolore ed il rimorso per quello che ha causato hanno mostrato la Via che giunge fino a te. -

Sirius si zittì, guardando la donna tanto intensamente che Bellatrix si sentì scottare. Con uno sforzo di volontà sostenne quello sguardo, ma nei suoi occhi la sfida, l’odio, il risentimento che aveva sempre provato nei confronti di Sirius avevano lasciato posto ad una malinconica ammissione di colpa venata di rimorso e di rimpianto.

- Dovrei detestarti, Bellatrix. Eppure, ora non ne sono più capace – mormorò Sirius, mentre il veleno dell’odio abbandonava i suoi occhi bellissimi.

 

Tutto si oscurò di nuovo, all’improvviso. Bellatrix capì che il suo viaggio nel Passato era terminato.

Nella tenebra quieta in cui si trovava, la donna sollevò istintivamente le mani, come per farsi strada nel buio. Un sussulto di sorpresa le sfuggì dalle labbra pallide quando i palmi incontrarono qualcosa di fronte a lei… una superficie tiepida, setosa. Sicura.

Il buio si dileguò, le tenebre si rischiararono, e la donna si trovò alla fine dell’orizzonte, sull’orlo di un abisso profondissimo su cui era sospeso un lungo ponte bianco che luccicava contro la volta azzurra.

L’Altare della Pace.

Di fronte a lei, con i palmi delle mani poggiati contro i suoi, Severus Snape sorrideva, il suo volto luminoso di speranza.

 

Continua…

 

QUALCHE NOTA DOVEROSA: ho spesso incontrato nella letteratura mondiale il binomio vita-morte, un concetto che mi ha affascinata sin da quando ero bambina. Avevo immaginato di personificare entrambe le “entità”, dare loro un volto, una fisicità… questo è il mio tentativo! Immaginate ora la mia sorpresa quando ho scoperto che uno scrittore eccellente, Philiph Pullman (uno dei miei miti), ha adottato lo stesso espediente in uno dei suoi libri! Quella è stata la prima – ed unica - volta che vedevo una mia idea partorita dalla mia fantasia sciagurata tradotta sulle pagine di un libro… Il mio primo pensiero è stato: - Ma Pullman mi ha rubato le idee!…sostituito immediatamente da un secondo pensiero (decisamente più saggio): - Ma che stupidaggini vado farneticando!

Cosa potrei dire? Mi sono ispirata a Pullman ancor prima di aver letto i suoi libri? Le nostre immaginazioni si sono scontrate per un istante?? Bah…

Comunque sia, se vi capitano tra le mani, comprate i suoi libri!! I titoli sono “La bussola d’oro”, “La lama sottile” e “Il cannocchiale d’ambra”!

 

Un paio di parole su Charlene Prewett. Il nome del padre, Fabian Prewett, lo trovate citato nel 5° libro come vittima di Antonin Dolohov. Per quanto riguarda la ragazzina, “Charlene” non c’entra nulla con il mio nick^ ^ E’ solo uno speciale omaggio a Stephen King e ad un suo romanzo favoloso, “L’Incendiaria”, che vede protagonista una bimba di nome Charlene McGee.

 

All’inizio del capitolo, come avrete notato, ho cambiato il carattere Times New Roman in Viner Hand ITC, per cercare di rendere visivamente la grafia ordinata, slegata e appena angolosa  di Draco. Il nostro giovane Malfoy sta attraversando un periodo… particolare, diciamo così.

 

Credo che questo capitolo concluda la prima parte della fic che ho in mente^^

Grazie di nuovo a tutti i lettori! Siete fantastici!! Un bacione, Charlie.

Ritorna all'indice


Capitolo 12
*** Sanguinis Revocatio ***


Disclaimer: Bellatrix Lestrange e gli altri personaggi che compaiono in questa fanfiction sono proprietà di J

Disclaimer: Bellatrix Lestrange e gli altri personaggi che compaiono in questa fanfiction sono proprietà di J.K. Rowling e di editori come Bloomsbury, Bros, Salani. Nessuna violazione del copyright si ritiene pertanto intesa.

 

IMPORTANTE: Per espliciti riferimenti alla violenza e alla morte, si consiglia una lettura a maggiori di anni 14. Grazie

 

Ancora una volta dedico questo capitolo a Ida59, Nachan, Amechan, Animagus88, Galadwen, Amarantha, Eryn, Zelgadiss e tutti i Malandrini della Mappa come speciale ringraziamento per i loro commenti. Siete persone meravigliose e non finirò mai col ringraziarvi abbastanza.

Charlie

 

“Potremo mai soffocare il vecchio, lungo Rimorso,

che vive, si agita e si attorce

e si nutre di noi, come il verme dei morti

come il bruco si nutre della quercia?

Potremo mai soffocare il vecchio, lungo Rimorso?

 

In quale vino, in quale filtro, in quale tisana

Affogheremo il crudele nemico,

distruttore e ghiotto come la cortigiana,

paziente come lo è la formica?

In quale filtro? – in quale vino? – in quale tisana?”

 

Charles Baudelaire, da “L’irréparable”, « Les Fleurs du Mal »

 

 

Sanguinis Revocatio

- Il Richiamo del Sangue -

Parte prima

 

 

Narcissa Malfoy.

 

Aurea.

Luminosa, accarezzata dai raggi obliqui del sole del primo mattino, a cui i capelli strappavano scaglie lucenti, ricadendo morbidi attorno al suo viso chiaro… un’armonia crisoelefantina.

Sedeva composta, come suo solito, sul divano verde scuro del salotto in penombra, le mani bianche intrecciate in grembo, il viso ovale e bellissimo appena abbassato ad osservare, con aria nostalgica, un paio di vecchie fotografie, in bianco e nero. Solo una di esse era incorniciata, mentre l’altra aveva i bordi un poco consunti e gli angoli arrotondati. Le teneva poggiate sulle ginocchia, quasi avesse timore solo di sfiorarle. Racchiuse dalla cornice d’argento opaco, due bambine sorridenti ed una ragazza sedicenne dal viso allegro salutavano verso l’obiettivo.

Ma la sua attenzione al momento era concentrata sull’altra fotografia, dove i cottage di Hogsmeade, imbiancati dalla prima neve invernale, facevano da sfondo ad un paio di ragazzi dell’ultimo anno, entrambi stretti nella loro divisa scolastica di Serpeverde. Uno di loro guardava fisso davanti a sé, le sopracciglia scure leggermente aggrottate, gli occhi nerissimi che spiccavano sul viso dal colorito troppo pallido, quasi malato. La serietà del suo sguardo era accentuata dai lineamenti netti, angolosi, ma non sgradevoli. Sembrava che tutto sul suo viso – bocca sottile e chiara, naso lungo, aquilino, capelli scuri che gli lambivano il collo – fosse disposto in maniera indovinata… interessante.

Il secondo ragazzo, il più alto dei due, che si appoggiava con un gomito alle spalle magre e strette dell’altro, sorridendo insolente e divertito, era Rodolphus Lestrange. I suoi occhi chiari scintillavano al di sotto delle sopracciglia color inchiostro, così pure scuri e folti erano i suoi capelli che gli sfioravano le guance arrossate dal vento gelido. La sua mano destra stringeva un pacchetto di forma cubica infiocchettato con un nastro chiaro.

Era il pomeriggio del giorno precedente il quattordicesimo compleanno di Bellatrix.

 

Narcissa non riusciva a distogliere lo sguardo dalle loro facce che si muovevano sulla filigrana setosa della carta.

Ed ora Rodolphus era morto… e Severus Snape, stando a quello che le aveva detto Lucius, stava per seguirlo nella tomba.

Rodolphus e Severus non erano mai stati in stretti rapporti, almeno fino all’ultimo anno. Oh, Narcissa lo ricordava bene… era stato durante l’anno dei diplomi che i due avevano cominciato a frequentarsi in maniera… amichevole, quasi.

Un sorriso nostalgico si modellò sulle labbra rosa corallo di Narcissa al ricordo del broncio che compariva spesso, se non perennemente, sulla bocca di Snape.

Atteggiamento difensivo, si era detta la prima volta che aveva posato i suoi occhi celesti su di lui.

Carattere scostante per celare l’insicurezza che, nonostante tutto, ammiccava dietro la superficie specchiata dei suoi occhi color vino insieme ad un’intelligenza fuori dal comune.

Il sorriso di Narcissa sfumò in tristezza. Mai, come in quel momento, il passato le sembrò tanto inespugnabile.

Il suo sguardo si spostò sull’altra foto nella cornice… ritraeva lei, insieme alle sue sorelle.

Fissare il viso sorridente di Bellatrix le procurò una fitta.

Nel sangue, nell’anima, nel cuore.

 

Non le avevano detto niente.

Lucius non le aveva detto niente.

Lui non mi permette di parlartene”, aveva mormorato, rauco.

Non sapeva perché stessero cercando Bellatrix, anzi, ignorava del tutto anche il motivo del tradimento della sorella… ma ricordava il suo volto quando era tornata dalla missione di Azkaban, coperta del sangue di Rodolphus.

Memoria dolorosamente vivida.

Le era corsa incontro, ansiosa di ringraziarla per aver liberato il marito… ma, alla vista di quello che aveva inondato gli occhi abissali di lei, i suoi passi erano rallentati, echeggiando sempre più affievoliti contro le pareti di pietra della Torre dell’Oscuro. Fino a fermarsi.

Narcissa era sicura che, se lei fosse stata al posto della sorella, quel dolore folle che stava indemoniando Bellatrix avrebbe finito per ucciderla.

Bellatrix invece non cadeva.

Ed ora la stavano cercando… ossessivamente. Suo marito sembrava aver scoperto il suo misterioso nascondiglio… ed era andato a comunicarGli le sue supposizioni.

 

Avvertì qualcosa saettare nell’aria, crepitando come una scarica elettrica. Narcissa afferrò la foto che ritraeva quei due ragazzi, amici di altri tempi, e la nascose dietro l’altra foto, tra la cornice argentea e il cartoncino che la supportava.

Aveva poggiato di nuovo il portafotografie sulle ginocchia, scostandosi una ciocca di capelli biondi che le era ricaduta davanti al volto, quando udì un fruscio sommesso provenire da qualche metro alle sue spalle. Si voltò, mentre lo scialle di lana rossa che le copriva le spalle esili scivolò da una parte.

 

Fu così che Lucius la trovò, materializzandosi all’ingresso del salotto finemente arredato del Malfoy Manor.

Lei alzò gli occhi verso di lui, ma sul suo viso non c’era sorpresa, quasi si fosse aspettata di vederlo comparire, nonostante il maniero fosse quotidianamente perquisito dagli agenti del Ministero... che non perdevano mai occasione di umiliare lei e la sua famiglia. In fondo, Lucius Malfoy era ancora ricercato. Il suo sguardo si fece intenso.

- Lucius… -

L’uomo si avvicinò con andatura pacata, i lembi scuri del mantello che gli accarezzavano le caviglie. Girò attorno al divano, per portarsi di fronte a sua moglie.

- Lui…ora lo sa… vero? – sussurrò lei, rivolta al marito.

Lucius non disse nulla. Con un movimento elegante della bacchetta fece evanescere il mantello nero col cappuccio, poi i suoi occhi d’argento spaziarono per la stanza, percorrendo con scrupolosa attenzione ogni particolare dell’arredamento, fino a portarsi nuovamente sul viso pulito di sua moglie. Lei non aveva smesso di fissarlo, gli occhi color del cielo d’estate che scrutavano la sua espressione, in cerca di risposte.

Avanzò di qualche passo, poi si sedette a sua volta sul divano, accanto alla moglie.

- Si – mormorò, guardando fisso davanti a sé – ora lo sa. Gliel’ho rivelato. -

Il silenzio si insinuò tra di loro come un rigagnolo gelido che scivola dalle crepe di un muro.

- Perché? – chiese poi lei.

Lucius si voltò, incontrando gli occhi di sua moglie. Il tono della domanda non era stato pressante, né lui aveva potuto scorgervi il rimprovero, o il risentimento. Narcissa voleva delle risposte.

Semplicemente.

 

Risposte che lui non aveva.

 

- Dovevo – disse piano.

- E’ mia sorella… - mormorò Narcissa, ma questa volta lui poté avvertire un sottile filo d’emozione intrecciato nelle sue parole.

- Lo so. Ma non potevo fare altro – replicò, calmo. – Lei ha tradito. Ed è andata via. -

Narcissa distolse lo sguardo, riportandolo alla vecchia foto che ora stringeva tra le dita sottili.

- Se solo mi dicessi che cosa ha fatto… forse io riuscirei a provare nei suoi confronti qualcosa che sia più vicino all’odio… che all’affetto. – disse fissandolo di nuovo, la voce che scemava gradualmente.

Lucius scosse la testa, abbassando gli occhi. Non riusciva sopportare lo sguardo azzurro trapunto di angoscia di sua moglie.

- E cosi… la Sua stretta attorno al tuo cuore si è fatta più forte – bisbigliò lei, la voce titubante, ora.

Lucius non rispose, ma osservò sua moglie per un lungo istante. Poi sollevò una mano pallida e sfiorò con le nocche la guancia di lei, scendendo, seguendo i lineamenti puri, fino al collo. Narcissa si voltò, gli occhi azzurri schiariti dalla luce del giorno nascente.

- Forse – bisbigliò lui, scostandole una ciocca di capelli biondi dietro l’orecchio ornato al lobo da un piccolo brillante. – Forse è vero – ripeté poi, parlando quasi a se stesso.

- Morirà? – chiese lei. Un tremito percorse la sua voce.

Lucius abbassò lo sguardo sulla fotografia che Narcissa stringeva tra le mani.

 

Immagini di un’altra vita.

 

Vide la bionda ragazzina undicenne che aveva finito per sposare sorridergli con una serena spensieratezza che da tempo aveva abbandonato il viso di lei.

Vide la sorella maggiore, Andromeda, i capelli castani e ricciuti, le sopracciglia gentili.

E vide Bellatrix. Il viso infantile, gli occhi che non sarebbero dovuti appartenere ad una bambina di otto anni. Uno sguardo che riusciva ad insinuarsi più in profondità di quanto egli avesse permesso e voluto.

- Il Lord Oscuro perdona una sola volta – disse.

Con il pollice sfiorò gli zigomi bianchi del volto di sua moglie, asciugandone le lacrime rimaste intrappolate tra le ciglia.

La baciò.

 

Il Marchio Oscuro si infiammò all’improvviso. Lucius si staccò dalle labbra di seta di Narcissa, senza nascondere il rammarico.

- Devo andare… - sussurrò, prendendole il viso perlaceo tra le mani eleganti.

Un lieve sospiro sfuggì dalla bocca deliziosa della donna: - Lo so – disse.

Lui si chinò a baciala ancora, le labbra bianche, morbide, che abbracciarono quelle di lei in un bacio fugace. Poi si smaterializzò.

 

 

…………………………………………………

 

 

Un vortice confuso, caotico, dove colori e linee si contendevano caparbiamente lo spazio a vicenda e i contorni si arrotolavano sfumando in una foschia amara. Poi, lentamente, il turbinio si arrestò e cominciò a muoversi nel senso opposto… il tempo sembrò dilatarsi, poi si contrasse implodendo su se stesso… tutto riguadagnò ordine, precisione, nitore. I colori divennero distinti, luci e ombre si equilibrarono.

Il mondo divenne definito. E dolcemente familiare.

Severus Snape sbatté ancora le palpebre e la sua vista si normalizzò completamente. Il suo sguardo spaziò alla ricerca di qualunque cosa potesse apparirgli anche solo vagamente noto, ma tutto quello che gli occhi riuscirono a scorgere fu l’anonimo colore bianco di un soffitto, rischiarato dal lucore ancora incerto dell’alba.

La sensazione di essere racchiuso in qualcosa di pesante e piacevole allo stesso tempo arrivò subito dopo… e lui prese coscienza nuovamente del suo corpo, di quella materia bellissima e caduca, e che un giorno si sarebbe consumata, ma che faceva parte di lui e da cui non avrebbe più voluto separarsi.

Era rientrato nel suo corpo. Si era svegliato.

Era sfuggito alla maledizione del Lord Oscuro…

Quasi benedisse la debolezza che lo invase da capo a piedi un istante più tardi. Amò le sue membra stanche, amò le sue ossa doloranti, il suo respiro lento, ma regolare. Amò sentirsi umano. Sentirsi vivo. Ascoltare il ritmo del suo cuore cocciuto.

Provò a muovere le dita delle mani e una gioia inconsapevole lo inondò quando la sensazione di stare veramente toccando qualcosa arrivò alla sua mente ancora intorpidita per il lungo distacco dalla materialità. Stava sfiorando quello che sembrava il soffice materasso di un letto, poi le sue dita si strinsero afferrando un manto di lana, una coperta azzurra posata su di lui e impregnata di un bellissimo tepore.

Il suo calore.

Si sentiva meravigliato e felice e dolorante come un neonato che respira per la prima volta dopo aver abbandonato la protezione sicura del ventre della madre…

 

Bellatrix

 

La sua coscienza si scrollò con un brivido repentino gli ultimi brandelli di torpore.

Ricordò l’Altare… Lui e Bellatrix all’inizio del ponte madreperlaceo sottile e lunghissimo che scavalcava una voragine sul cui fondo borbottavano, esplodendo, lampi di luce verdastra. Un passaggio che forava il velo blu dell’orizzonte tondeggiante che avevano finalmente raggiunto. Rammentò l’aura argentea che li aveva investiti non appena avevano cominciato ad avanzare sullo stretto passaggio, i loro sguardi catturati dalla luce abbagliante che proveniva da quella che sembrava essere la fine dell’Altare.

Ricordò i suoi abiti neri che scolorivano in quel bagno di luce fulgida.

Ricordò Bellatrix Lestrange che si schermava il volto, gli occhi lucidi per l’insostenibile intensità della luce, sempre più forte, sempre più calda…

Dopo c’era stato solo il soffitto che stava tutt’ora guardando.

 

Le sensazioni cominciarono a riversarsi su di lui con l’allegria fragorosa di una cascata scintillante. Aveva caldo ma sentiva freddo ai piedi, i capelli umidi si erano incollati alla sua fronte sudata, livida, rumori indefiniti si accavallavano, spintonandosi nella sua testa disorientata, l’odore di alcool e medicinali giungeva alle sue narici mischiato col profumo di rose fresche, passi frettolosi ticchettavano su un pavimento lucido…

- Severus! -

Una voce gentile, chiara, conosciuta. Snape voltò lentamente il capo, i suoi occhi ancora caldi di febbre si soffermarono su di un’immagine che lui conosceva bene… qualcuno era seduto accanto al letto su cui si era reso conto di giacere coperto fino al mento, un uomo dal viso la cui naturale bellezza era accentuata da una morbida malinconia; un volto su cui risplendevano soffuse le sofferenze di un’anima che non aveva perduto la sua intrinseca dolcezza e fiducia nel prossimo, nonostante fosse stata più volte flagellata dal dolore straziante.

- Lu…Lupin… - balbettò Severus, vincendo quella strana resistenza che le sue labbra stavano incontrando nel socchiudersi. La voce picchiò flebile contro il palato e uscì in un sussurro appena percettibile.

Remus Lupin però l’aveva udito. La sua bocca si incurvò in un sorriso che gli illuminò il volto magro e gli occhi ambrati.

- Finalmente sei sveglio… eravamo tutti in pensiero! -

Snape lo guardò ancora, soffermandosi sui suoi capelli castani prematuramente striati d’argento, sul logoro mantello  che gli copriva le spalle ossute, poi spostò gli occhi sulle pareti lisce e pulite, sul mobilio di formica giallo opalino.

- Dove sono… - mormorò, continuando a guardarsi intorno senza riuscire a riconoscere il posto. Cercò di alzare il busto puntellandosi sui gomiti, rischiando di perdere l’equilibrio. Immediatamente braccia gentili gli cinsero le spalle aiutandolo a mettersi seduto con una leggera pressione sulla schiena. Un accenno di protesta stirò per un istante le labbra pallide di Snape, ma tutto quello che Lupin riuscì a scorgere negli occhi scuri di Severus fu soltanto l’ombra fugace di una timida gratitudine.

- Ti trovi al St Mungo Hospital, Severus… da una settimana. Dumbledore e Madama Pomfrey hanno deciso di portarti qui immediatamente… eri in condizioni… spaventose. Aspetta solo che sappiano del tuo risveglio… rimarranno a dir poco increduli! -

- Perché ti trovi qui? – chiese Snape, notando le ombre bluastre sotto gli occhi stanchi e luminosi di Lupin. Lo vide incrociare le braccia magre sul petto e stringersi nelle spalle.

- Oggi toccava a me, Severus – disse con la dolce naturalezza che sembrava essergli congenita – Sono arrivato poco fa e sono subito entrato in reparto per… controllare che non fossi peggiorato… ulteriormente. Ieri Dumbledore è stato qui fino a sera. -

Snape non disse nulla, ma i suoi occhi non si spostarono dal volto di Remus. La sua bellezza aveva qualcosa di fragile, il bianco prematuro tra i riflessi ramati dei capelli velava la sua figura di tristezza nostalgica. Abbassò gli occhi, soffermandosi a osservare le coperte di lana che gli erano scivolate in grembo e il bizzarro pigiama di flanella che indossava.

Remus notò la direzione del suo sguardo e con un sorriso appena divertito disse:

- Dumbledore ti ha trasfigurato l’abito in qualcosa di più adatto… a questo posto -

- Il Preside conosce perfettamente il significato della parola “sadismo”… - sibilò allora Snape, ritrovando all’improvviso la sua solita, pungente vena sarcastica, gettando alcune occhiate palesemente disgustate alle maniche del pigiama che in effetti era di un bel rosso brillante. Rosso Grifondoro.

Lupin soffocò a stento una risata, mascherandola in un paio di colpi di tosse gracchiante.

- Bentornato, Snape – disse poi, gli occhi dorati splendenti di ilarità, il petto magro ancora scosso dalla tosse.

- A quanto pare non sono l’unico in condizioni… “ospedaliere” – sussurrò con un ghigno Snape, guardando con più attenzione la faccia pallida, quasi giallastra del Lupo Mannaro. – Quando… è stata l’ultima notte di luna piena? – volle informarsi poi.

Lupin lo guardò, completamente sorpreso.

- Er… due… due notti fa… Perché me lo chiedi? -

- Hai l’aspetto di un cadavere ambulante, Remus – gracchiò Snape, in risposta.

Gli occhi di Lupin si sbarrarono dallo stupore.

L’aveva chiamato per nome.

 

Per la prima volta.

 

- Ti sei dimenticato di prendere la pozione per le trasformazioni? – chiese ancora Severus, osservando quasi divertito il volto sbigottito dell’ex – collega ( e ricordando che lui aveva contribuito in maniera determinante a quell’“ex”).

- Veramente… non me ne sono dimenticato, ma non l’ho presa comunque… Il fatto è che, a parte te, non c’è nessun altro in grado di distillare quella pozione. Sono rimasto a bocca asciutta, è proprio il caso di dirlo. – e Lupin piegò le labbra in un sorriso obliquo che a Snape ricordò molto il suo.

Si, quello era il suo identico sorriso amareggiato.

- Cosa? Vuoi dire che Dumbledore non ti ha procurato… nulla? – sbottò poi, sorprendendosi dell’astio che lasciò trapelare tra le parole.

Remus scosse la testa: - Dumbledore aveva molte cose a cui badare… ho pensato non fosse il caso di disturbarlo per simili sciocchezze. –

Il suo tono di voce voleva apparire leggero… invece risultò essere solo afflitto.

- Sciocchezze?? – sibilò Snape, le labbra arricciate sui denti.

Lo stupore invase nuovamente i lineamenti gentili di Lupin e si allargò anche agli occhi quando vide il Professore di Pozioni balzare giù dal letto, barcollando come un ubriaco.

- Severus, cosa… -

- La mia bacchetta! – disse, la voce ancora più rauca.

- N-nel cassetto… lì, nel comodino… è incantato in modo che solo tu possa essere in grado di pren -

Snape non gli lasciò terminare la frase. Con passo incerto si diresse verso il mobiletto giallo pallido e tirò con violenza la maniglia del cassetto, fino a estrarlo completamente. Lo buttò sul letto dopo aver recuperato la sua preziosissima bacchetta.

- Cosa hai intenzione di far..-

Con un gesto deciso Snape trasfigurò il suo pigiama scarlatto in un paio di pantaloni, camicia e maglione insopportabilmente babbani, ma rigorosamente neri.

L’energia dissipata nell’incantesimo gli fece quasi perdere l’equilibrio. Si appoggiò alla ringhiera del letto, odiando la sua debolezza e allontanando con un’occhiata rovente la mano che Lupin stava porgendogli per aiutarlo.

Ce la faceva.

Da solo.

Lui non era un debole.

Raddrizzò la schiena, furente soprattutto con se stesso. Avanzò verso Lupin, gli afferrò un braccio magro e cominciò letteralmente a trascinarlo fuori dalla stanza dell’ospedale.

- Severus! Dove diavolo stai andan -

- Hogwarts, Lupin, Hogwarts. Ho una pozione da distillare. Senza contare il fatto che il Vecchio morirà dalla voglia di sapere cosa è successo. – sibilò Snape, senza che la sua formidabile stretta si allentasse dal braccio dell’altro.

- Il Preside non è l’unico ad essere incuriosito – borbottò Lupin, che cominciava a sentire dolore nel punto in cui Snape gli stava artigliando il braccio.

L’uomo bruno piegò le labbra in una smorfia sarcastica: - E’ una lunga storia – sussurrò, sogghignando.

 

 

……………………………………………

 

Doveva sapere.

Voleva sapere e voleva essere liberata dal tormento del dubbio.

Narcissa Malfoy si alzò dal divano dov’era rimasta seduta, ancora sentendo su di sé le labbra seriche di Lucius. Lui non glielo avrebbe mai detto… sarebbe morto, pur di evitare di disobbedire al suo Signore… e lei non l’avrebbe indotto in tentazione.

Lo amava troppo per farlo.

Si portò verso l’ampia finestra del salotto, osservando il cielo mattutino tingersi delle sfumature dell’oro, a spese dell’indaco che si andava ritirando lentamente, ultimo strascico della notte appena trascorsa.

Narcissa avrebbe scoperto la verità… ma usando vie diverse, che aggiravano l’ostacolo… che scavalcavano il tradimento. Perché lei non aveva intenzione di tradire.

Semplicemente, il bisogno della verità si era fatto bruciante.

Doveva trovare Bellatrix prima di loro.

E capire.

Ci aveva riflettuto parecchio negli ultimi giorni ed era giunta alla conclusione che quella era l’unica soluzione possibile… non aveva idea di cosa Lucius avesse scoperto, ma di una cosa era certa: lei, Narcissa Black Malfoy, aveva una strada in più spalancata di fronte a sé. Una strada che l’aveva sempre legata a sua sorella e che continuava ad esistere, nonostante si fossero allontanate progressivamente l’una dall’altra nel corso degli anni.

Esisteva un legame tra loro… un legame di sangue.

Ed ora quello stesso sangue l’avrebbe condotta al nascondiglio di sua sorella.

Non sapeva se il piano che si stava definendo nella sua mente comportasse rischi e preferiva continuare a non dare peso ad eventuali possibilità di fallimento… dentro di sé sentiva che la sua intuizione era giusta… sentiva di potercela fare, se agiva immediatamente.

Sospirò. E decise.

I suoi occhi chiari si mossero alla ricerca di un oggetto che poteva fare al caso suo… qualcosa di abbastanza voluminoso ma non troppo ingombrante. Finalmente il suo sguardo si posò su di un vaso sbalzato d’argento che ornava il comò vicino all’entrata… Quando lo ebbe tra le mani lo giudicò perfetto. Prese la sua bacchetta, poggiata distrattamente sul bracciolo del divano, la puntò contro il vaso.

E si concentrò.

Pensò a Bellatrix, intensamente… pensò alla loro infanzia nella grande tenuta dei Black, alla loro giovinezza trascorsa tra le mura di Hogwarts, chine a studiare incantesimi o a rimestare pozioni maleodoranti; ripercorse i giorni dei loro matrimoni, rammentò gli occhi luccicanti di sua sorella quando aveva preso in braccio il piccolo Draco, fissò i suoi lineamenti, si soffermò sui capelli d’ebano, ricucì i frammenti di memorie su di lei che aveva conservato in tutta la sua vita. E si sentì pronta.

- Portus – sussurrò, fremente d’attesa. Una luce azzurrina avvolse il vaso d’argento, poi scomparve.

Narcissa infilò la bacchetta nella cintura che le fermava in vita la morbida gonna di velluto bordeaux, poi afferrò con entrambe le mani la Passaporta che aveva appena creato.

La familiare sensazione di essere tirata a livello dell’ombelico confermò le sue speranze… il piano stava funzionando.

 

Fine prima parte.

 

Ohoh… ho l’impressione di avervi… ehm, diciamo così… lasciati con il magone

Hey, hey, cosa sono tutte quelle Passaporte che mi state tirando addosso?? Che temperamento alla “Bellatrix”!

Comunque spero di aggiornare prestissimo, nonostante gli impegni soffocanti che avrò per un paio di mesi…

Alla prossima! Bacioni a tutti!!! Charlie.

Ritorna all'indice


Capitolo 13
*** Sanguinis Revocatio - parte seconda - ***


Disclaimer: Bellatrix Lestrange e gli altri personaggi che compaiono in questa fanfiction sono proprietà di J

Disclaimer: Bellatrix Lestrange e gli altri personaggi che compaiono in questa fanfiction sono proprietà di J.K. Rowling e di editori come Bloomsbury, Bros, Salani. Nessuna violazione del copyright si ritiene pertanto intesa.

 

IMPORTANTE: Per espliciti riferimenti alla violenza e alla morte, si consiglia una lettura a maggiori di anni 14. Grazie

 

E’ un pezzo nato guardando il sole che in queste ore inonda la mia camera, al terzo piano in una palazzina di Roma, mentre ascolto la colonna sonora di Berserk. Ho visto i raggi perforare la nebbia che si era alzata durante la mattina… in quel momento è sorto questo capitolo. Ancora una volta lo dedico Ida59 (Ida dolcissima, grazie per il commento… dici che la mia fantasia a volte ti spaventa… non sai quanto spaventi anche me! Sembra sia un’entità a sé stante…^__^), Nachan, Amechan (Le mie bellissime sorelline Slytherin, vvtb!), Galadwen (meravigliosa “Grifonverde”, anima dell’amore di Sirius e Remus), Amarantha (non finirò mai di ringraziarti per i commenti), Shocking_ Eve (la cui splendida storia mi coinvolge sempre di più! Mi raccomando, leggi le poesie di Baudelaire, qui ho inserito anche la versione in originale!), Lilychang (di cui sto leggendo Oscuro Candore, con mio grande piacere) e ancora Animagus88, Eryn, Zelgadiss, Eliopodo, Bellatrix_Black e tutti i Malandrini della Mappa… Diciamo la verità… Questo capitolo è nato soprattutto grazie ai vostri commenti… perciò, consideratevi a pieno merito co-autori. Grazie di cuore a tutti. Charlie

 

 « Or il n’est pas d’horreur au monde qui surpasse

La froide cruauté de ce soleil de glace

Et cette immense nuit semblable au vieux Chaos

 

Je jalouse le sort de plus vils animaux

Qui peuvent se plonger dans un sommeil stupide

Tant l’écheveau du temps lentement se dévide ! »

 

 

“Al mondo non esiste orrore che superi

la fredda crudeltà di questo sole glaciale

di questa notte immensa simile al vecchio Caos;

 

ed invidio la sorte degl’infimi animali

che possono tuffarsi in fondo a un sonno ottuso,

la matassa del tempo così lenta si dipana”

 

Charles Baudelaire, da “De Profundis Clamavi, « Les Fleurs du Mal »

 

 

Sanguinis Revocatio

- Il Richiamo del Sangue -

Parte seconda

 

 

E’ mattina.

Ancora

La luce del sole si scontra con i vetri sottili delle finestre, piegandosi con un suono stridulo e piovendo sulle palpebre abbassate.

Odio il sole.

Mandatelo via.

Il sole ride di me, fatelo andare via!

 

Risata beffarda.

 

Mi fa male…il dolore mi acceca.

Ride, ride, ride…

Spegnetelo!

Dov’è l’Oscuro Signore? Parla!”

Luce che scotta e brucia… è la verità, la luce brucia!

Dimmelo, ho detto!”

Fa male! Le fiamme mi consumano…No, no…

“Crucio!”

La tua risata ha unghie infette che mi graffiano… e il sole prosciuga le piaghe, il dolore è insopportabile.

Spegnete il sole, vi prego!

“Crucio!”

Spegnete il sole! Spegnetelo!

Brucia!

 

Con un urlo stridente Alice Longbottom si rizzò su a sedere, gli occhi chiari spalancati e fissi dinanzi a sé. Una guaritrice si avvicinò di corsa al suo letto, portando con sé una dose di calmante. La trovò che respirava velocemente, le narici bianche e dilatate, le mani scarne che stringevano sottili fili grigi. L’infermiera sospirò… quella donna si era strappata i capelli ancora una volta.

 

………………………………………………………

 

Il sole profumava di sabbia.

 

Bellatrix si portò una mano davanti al viso, schermandosi gli occhi per l’intensità cocente della luce che ardeva di fronte a lei, ma che non feriva, al termine dell’Altare della Pace. Il bianco scintillante aveva unito i contorni, annullando i limiti… si sentiva come immersa in qualcosa simile alla cera liquida. Si voltò, riuscendo appena a scorgere alla sua sinistra l’immagine di Severus Snape che scoloriva lentamente, diventando poco più che aria condensata. Gli occhi di lui, l’unica macchia scura in quell’oceano sfolgorante, si posarono sul suo volto.

Bellatrix non ebbe bisogno di parole. Si rese conto di essere capace di leggere quel viso come nessun altro prima di allora era stato in grado di fare. L’imperscrutabilità che ammantava i lineamenti di Severus Snape scomparve, sciogliendosi come la neve di marzo che copre i primi germogli.

E lei vide.

Fu come osservare Severus per la prima volta.

Scorse il suo vero io riverberare sotto la sua pelle evanescente. Lo vide acquisire la consapevolezza di essere fuori pericolo… e fissò l’anima di lui che la ringraziava, prima che Snape scomparisse del tutto.

Bellatrix sorrise.

Alzò un braccio davanti a sé, sfiorando l’aria che aveva presto il posto dell’uomo appena svanito. Poteva vedere attraverso le dita trasparenti della sua mano.

Per un attimo sentì il forte desiderio di voltarsi, di scorgere per l’ultima volta quel piano dell’Esistenza che avevano attraversato, ma la luce diventata ormai insopportabile tenne il suo sguardo lucido di lacrime incatenato a sé.

- In avanti… guarderò solo in avanti -, sussurrò allora lei, comprendendo il tacito messaggio che quel biancore accecante le stava trasmettendo. Chiuse gli occhi, abbassando il mento… sapeva che, essendo incorporea, avrebbe potuto scorgere la porta luminosa che le avrebbe permesso di tornare al mondo, ma preferì non farlo. Non volle spingersi oltre… tutto quello era fuori della sua portata.

 

Il sole profumava di sabbia.

 

Il vento tiepido le sfiorò una guancia, facendo ondeggiare il velo di pallido arancione che le copriva la testa.

Respirò quel calore rassicurante, sentendo l’odore della terra che si asciugava dall’umidità nata durante la notte, delle pietre impilate a secco che si scaldavano sotto i raggi quasi perpendicolari dell’astro diurno, della frescura generata dai rami delle palme da dattero, con i loro frutti insieme aspri e dolci.

Seppe di essere tornata nella sua “casa” in Egitto ancor prima di aprire gli occhi e posarli sulla parete di pietra chiara vagamente bagnata dalla luce dell’alba.

Prese gradualmente coscienza del suo corpo, come se vi stesse scivolando dentro, fluida, calma e con estrema delicatezza, avvertendo anche la presenza gentile di quelle due creature che stavano crescendo in lei.

Si tirò su a sedere, respirando profondamente prima di alzarsi, intenta a mantenere l’equilibrio nonostante il ventre sempre più largo e pesante. Si avvicinò ad una finestra che dava verso oriente, scostando le tendine leggere che chiudevano parzialmente la vista. Poggiò una mano sul davanzale, coperto da uno strato di tiepida sabbia finissima, quasi meravigliata nel vedere i cristalli di sale mischiati ai granelli di roccia che scintillavano come minuscoli brillanti. Il suo sguardo spaziò fino all’orizzonte tondeggiante, dove l’oro bruno del deserto sconfinava nell’oro del cielo liquefatto dai raggi del sole nascente, per poi tingersi di azzurro puro e intenso, un colore che l’Inghilterra non avrebbe mai visto.

La sabbia le piaceva… il deserto le piaceva.

 

Le ricordava se stessa.

 

Sembrava che la desolazione e la natura dispotica avessero prosciugato quella terra modellata dal vento, ma lei sapeva che tra le pieghe di quel mantello friabile si nascondeva la vita, attendendo sotterranea che la calura del giorno nascente si stemperasse con il sopraggiungere della sera, per poi essere invocata nel cuore della notte, quando la temperatura si abbassava tanto da poter ghiacciare il fiato. Il deserto era come lei… spietato all’esterno, ma che, di nascosto, offriva riparo alla vita, lasciando che i fiumi sotterranei lo percorressero per poi sbocciare nelle oasi, accogliendo nel suo grembo rare e profonde sorgenti d’acqua pura.

Come lei.

Sole e sangue.

Il deserto aveva ambrato la sua carnagione pallida, nonostante lei non si fosse mai esposta direttamente alla luce, consapevole del rischio di poter venire ustionata in maniera seria.

 

All’improvviso, la fame e la sete si fecero prepotentemente sentire. Bellatrix si allontanò dalla finestra della stanzetta adibita a “camera da letto”, dirigendosi di fretta verso la cucina… Dovevano essere passati tre, quattro giorni da quando si era staccata dal suo corpo per andare in cerca di Severus, calcolò, mentre si chinava con difficoltà ad afferrare la maniglia di una piccola botola intagliata nel pavimento. Sapeva che una volta abbandonato il corpo, esso sarebbe stato preservato dalla magia fino al suo ritorno, altrimenti non sarebbe sopravvissuta per tutto quel tempo senza cibo, né acqua. Sollevò il portello di legno di palma, scoprendo un vano poco profondo stipato di otri in terracotta colme di acqua. Era l’unico modo per conservare l’acqua allo stato liquido… in qualunque altro posto della casa, sarebbe evaporata in poche ore. Inoltre lei aveva eseguito sui coperchi delle otri un semplice incantesimo refrigerante, che avevano consentito di mantenerla deliziosamente fresca. Riempì un mestolo e bevve avidamente, provando una gioia quasi selvaggia quando il liquido le raffreddò la gola asciutta. Mise le mani a coppa prelevando direttamente l’acqua dal contenitore e si bagnò il viso accaldato.

 

E poi ebbe quella sensazione.

 

L’avvertì nell’aria, nella mente, nell’anima.

Nel sangue.

Senza riflettere strinse le dita intorno alla bacchetta sottile, che di solito teneva nascosta in una piccola tasca ricavata all’interno della manica sinistra del suo abito orientale, e la estrasse, guardandosi intorno.

Sembrava che nulla stesse turbando la quiete di quella mattina soleggiata, ma Bellatrix non abbassò la guardia. Fissò per un momento il buio fuligginoso del camino spento – doveva sembrare ben strano un focolare nel continente africano -, e quasi ebbe l’impressione di veder danzare all’interno vivaci fiamme azzurre. Sbatté le palpebre, rimproverando la sua immaginazione…

eppure, qualcosa c’era…

 

Fu un attimo, poi l’aria si elettrizzò, crepitando e scoppiettando come legna secca buttata sul fuoco. Davanti agli occhi allibiti della donna, Narcissa Malfoy si materializzò a mezz’aria, a poca distanza dal magazzino dell’acqua ancora aperto, stringendo al petto un elegante vaso d’argento.

Una Passaporta

Bellatrix vide tutto al rallentatore. Guardò sua sorella apparire in aria, il torace incurvato in avanti, le ginocchia leggermente piegate come se avesse voluto proteggersi da una caduta pericolosa. La vide atterrare con delicatezza sul pavimento di pietra, ammorbidito dalla sabbia, la lunga gonna di velluto che ne catturava i granelli. I lunghi capelli biondi, sciolti sulle spalle, le coprirono per un attimo il viso dall’incarnato chiaro, poi lei si scostò dagli occhi quella leggera cortina dorata.

Il suo sguardo celeste incontrò quello della sorella.

 

Silenzio.

 

Lungo… ma dolce. Familiare.

E Bellatrix non si sentì minacciata.

 

- Narcissa… - mormorò alla fine, con un filo di voce.

La sorella la guardò ancora, quegli occhi così diversi dai suoi fissi sul suo volto, come se non la riconoscessero… come se volessero imparare a memoria ogni linea del suo viso, ogni punto che colorava la trama della sua pelle abbronzata, il più piccolo riverbero della luce mutevole dei suoi occhi neri. Poi il suo sguardo si spostò sul suo ventre tondo, ben visibile sotto i molteplici strati di tessuto sottile.

Gli occhi di Narcissa parvero riflettere quel cielo di un azzurro abbagliante sopra di loro.

 

………………………………………………………

 

Il familiare odore insieme speziato e marcio degli ingredienti per le pozioni gli diede il benvenuto non appena Severus aprì la porta della sua aula nei freddi sotterranei di Hogwarts.

Lasciò scorrere il suo sguardo vellutato sui lucidi calderoni poggiati su fornelli spenti, percorse amorevolmente gli scaffali che accoglievano fiale e contenitori in vetro di svariate dimensioni, che custodivano sostanze rare, bizzarre, spesso palesemente disgustose e altrettanto chiaramente necessarie. Percorse i metri che lo separavano dalla cattedra, poi si fermò, accarezzando il legno liscio del ripiano.

Si sentiva realmente a casa.

- Era da un po’ che non mi godevo l’allegria di quest’aula… - mormorò Lupin non appena entrò, guardandosi intorno senza nascondere la smorfia vagamente disgustata che gli arricciava le labbra pallide.

- Un’ottima occasione per recuperare il tempo perso… - sussurrò Snape, con una smorfia sarcastica.

Lupin parve per un attimo a corto di parole, ma poi si riprese in fretta: - Beh, potremmo sempre “rivitalizzarla” con qualche nastro di colore qua e là… credo di potermi ispirare al tuo pigiama, Severus… –

Snape alzò lo sguardo su di lui, sorpreso.

- Ascolta… Lupin… Non una parola su quel… quella ridicolaggine! – sibilò, poi sbuffò sonoramente nel vedere l’altro che riusciva a stento a trattenersi dal ridere.

- Va bene, Severus… se vuoi decorazioni verde-argento, che sia! Anche se io… – 

- Non voglio decorazioni nella mia aula… - ringhiò Snape.

- … vedrei di buon occhio pure qualche nastro rosa qua e là… San Valentino si avvicina… diventeresti l’eroe degli studenti… -

 

Una schermaglia a suon di battute con Remus Lupin?

Snape riusciva a stento a credere alle sue orecchie.

 

- Bada, Lupin, che nella pozione che ti preparerò potrei accidentalmente far cadere qualche ingrediente… velenoso… senza accorgermene… - sibilò, guardando l’altro con gli occhi che brillavano malevoli.

- Sarebbe una tragica fatalità… - convenne Lupin, annuendo in segno d’approvazione.

Snape lo guardò stupito. Da quando in qua Lupin possedeva una tale vena sarcastica?

- Molto tragica. Molto drammatica. Molto funesta. Decisamente tetra… - sibilò il Professore di Pozioni.

- Sembra di sentire la tua descrizione, Severus… -

 

Senza parole.

 

Snape restò per un attimo totalmente ammutolito.

Poi però, qualcosa cercò di uscire dalla sua gola… qualcosa che assomigliava ad una risata… Severus vide Lupin sogghignare a sua volta, gli occhi dorati lucidi di allegria…

Snape cominciò a ridere in silenzio, con le spalle che gli sussultavano. Poi alcuni colpi di tosse richiamarono la sua attenzione verso il Lupo Mannaro… Lupin, per impedirsi di scoppiare a ridere, si stava quasi strozzando da solo, sobbalzando per i singhiozzi.

Questo era troppo.

La tenebra che aleggiava da anni intorno alla sua anima si dileguò…Severus si piegò in due.

Boccheggiando per cercare di respirare, il mago crollò a terra e rise crepapelle con le lacrime che gli scivolavano lungo le guance. La risata si liberò da lui, sgorgando direttamente dal suo cuore rinfrancato, rimbalzando sul soffitto dell’aula, innalzandosi sempre più in alto, tanto che gli parve di cantare… e Severus rise e rise, sentendo che gli faceva bene, l’allegria che lo inebriava scintillando su di lui come un buon vino(*).

 

Dumbledore rimase piacevolmente sorpreso nel vederli entrambi inginocchiati a terra in preda alle risate… tutti e due, per la prima volta in maniera così liberatoria, dopo molti anni.

 

……………………………………………………

 

Incinta.

Bellatrix. Sua sorella.

Incinta.

 

Narcissa rimase immobile per un istante che sembrò durare in eterno. Non poteva crederci, nonostante l’evidenza fosse lì, davanti a lei.

E più possente ancora, dentro di lei, nella sua coscienza. Nella sua anima.

Guardò ancora sua sorella, incapace di emettere un solo suono coerente. Il volto abbronzato della donna ancora giovane che le stava di fronte le sembrava allo stesso tempo estraneo e familiare, in un’altalena di sensazioni quasi dolorosa.

Non avrebbe mai immaginato… non avrebbe mai potuto prevederlo.

Incinta.

Loro non glielo avevano detto. Lucius non glielo aveva detto… ed ora poteva scorgerne il motivo, con cruda chiarezza.

Bellatrix aveva voltato le spalle all’Oscuro…

Bellatrix aspettava un bambino…

Bellatrix che tradiva per amore di suo figlio.

Narcissa lo capì con la stessa facilità con cui comprendeva di poter respirare…

Quello era il legame di sangue. E tutte le parole erano inutili.

Semplicemente.

 

Si rese conto che sua sorella l’aveva chiamata. Con stupore realizzò che la voce di Bellatrix era cambiata… non nel tono, ma si era in qualche modo ammorbidita, perdendo il timbro quasi stridulo che lei aveva percepito quando lei era uscita da Azkaban, dopo quindici anni di logorante prigionia… quando le avevano detto che era diventata completamente pazza.

 

Bellatrix mosse un passo verso di lei, la bacchetta ancora stretta tra le dita ambrate, ma puntata verso terra.

Lei si fidava? Si fidava di sua sorella?

I pensieri della donna vennero interrotti ancora.

- Narcissa… Tu…come… Luivuole i miei bambini, Narcissa… i miei bambini... – il tremolio nella sua voce era percepibile.

Due gemelli.

Una certezza che le attraversò la mente, lasciandola allibita. Bellatrix sarebbe stata la madre di due gemelli, figli di Rodolphus… Narcissa non aveva idea di come facesse ad esserne così sicura. Quel pensiero era risuonato nella sua mente come il trillo di una campana d’argento.

La donna bruna fece scorrere lo sguardo dal suo viso alla Passaporta che lei stringeva ancora tra le braccia esili. Sicuramente aveva compreso abbastanza facilmente in che modo lei dovesse essere giunta fino a … beh, fino al posto in cui era arrivata, visto che ancora non sapeva con esattezza dove si fosse materializzata.

Doveva parlarle.

Narcissa si costrinse a parlarle.

- Sono… sono venuta solo io, Bella… - balbettò finalmente. La voce suonò stranamente impastata. -Gli altri… non sanno che sono qui. Lui… non immagina neanche. Ma tu… sei in pericolo…– terminò, in un soffio.

 

Sua sorella mosse un altro passo verso di lei.

 

Il suo volto sorpreso lasciò all’improvviso il posto ad un sorriso triste.

Un sorriso bellissimo che brillò sulla sua pelle brunita.

 

Bellatrix si fidava del suo sangue…

 

- Bella… – sussurrò ad un tratto Narcissa con voce incrinata, avvicinandosi a lei di un paio di passi. – Ora so… adesso capisco… e so che per Draco avrei fatto la stessa cosa… non può prendersi anche questo da te, non è giusto… -

Bellatrix la guardava, gli occhi velati da un’espressione che lei non seppe decifrare.

- Draco. Lui potrà scegliere, Narcissa. Sa essere forte. Come te. Ha sangue Black nelle vene. -

 

La donna abbassò lo sguardo, mordendosi il labbro inferiore.

Draco poteva scegliere.

Draco poteva morire.

 

- Severus sta morendo per aver scelto…-

Narcissa vide Bellatrix sorridere ancora.

- Severus sta bene, sorella. Lui vivrà… -

Gioia muta.

Tanto intensa da essere quasi colpevole.

- Dici che stanno venendo qui…- mormorò piano Bellatrix.

Narcissa sollevò il mento, fissandola con i suoi limpidi occhi celesti - Si. Arriveranno presto, Bella. Devo portarti… devo portarvi via. Loro non devono trovarvi. -

- Vuoi dire che… - Bellatrix lasciò la frase aleggiare nell’aria, come una bolla di sapone che rischiava di scoppiare da un momento all’altro. Il tempo parve arrestarsi… poi…

- Ti aiuterò, sì – replicò la sorella.

 

Senza preavviso, entrambe colmarono in tutta fretta la distanza che le separava e si lanciarono l’una tra le braccia dell’altra.

 

La luce dell’Africa brillava sulle guance striate di lacrime.

 

Continua…

 

Beh, dopo avervi lasciato col fiato sospeso (me si sente ancora in colpa^_^’) non potevo non aggiornare! Credo che questo sarà l’ultimo capitolo per un po’ di tempo… mumble mumble

Ehm, io non sono mai stata in Egitto… l’unica sabbia che ho visto è quella del mare “zona Gargano”, in Puglia… perciò, se notate qualcosa che non c’entra niente con la terra dei Faraoni fatemelo sapere, vedrò di rimediare!

Un bacione a tutti voi, siete sempre preziosissimi!

Charlie.

* Questa frase non mi appartiene, è un omaggio a Raistlin Majere della saga di Dragonlance.

Ritorna all'indice


Capitolo 14
*** Cines et germines - parte I ***


Disclaimer: Bellatrix Lestrange e gli altri personaggi che compaiono in questa fanfiction sono proprietà di J

Disclaimer: Bellatrix Lestrange e gli altri personaggi che compaiono in questa fanfiction sono proprietà di J.K. Rowling e di editori come Bloomsbury, Bros, Salani. Nessuna violazione del copyright si ritiene pertanto intesa.

 

IMPORTANTE: Per espliciti riferimenti alla violenza e alla morte, si consiglia una lettura a maggiori di anni 14. Grazie

 

 

«Foreste, m’impaurite come cattedrali!

Strepitate come l’organo, e i nostri cuori dannati

Stanze d’eterno lutto in cui i vecchi rantoli vibrano,

rimandano gli echi dei vostri De Profundis.

 

Ti odio, Oceano! In sé i tuoi impeti e tumulti

lo spirito ritrova; quella risata amara

dell’uomo vinto, piena di singhiozzi e d’insulti

io la sento nel riso enorme del mare.

 

Come mi piaceresti, notte, senza quelle stelle

la cui luce parla un linguaggio conosciuto!

perché io cerco il vuoto, e il nero, e il nudo!

 

Ma perfino le tenebre sono come tele

in cui vivono, uscendomi dagli occhi a migliaia

esseri scomparsi dagli sguardi familiari.»

 

Charles Baudelaire, da Ossessione”,

« Les Fleurs du Mal »

 

 

 Cinis et Germines

- Cenere e Germogli -

Parte prima: Frammenti

 

Little Hangleton, 14 luglio 1943

 

- Vendetta – sibilò, il fiato che si condensava sulle labbra pallide nonostante la temperatura del soggiorno fosse gradevolmente mite.

La luce arrossata del crepuscolo strappava riverberi vermigli ai suoi occhi scuri, ombrati da ciglia lunghe, quasi femminee, che gli conferivano un’aria di paurosa e ingannevole innocenza.

- Sono qui per prendermela. – continuò, in una tranquillità minacciosa.

L’uomo lo guardò stranito, incapace di comprendere perché quel ragazzo aveva puntato su di lui il suo sguardo feroce e bellissimo, levando nello stesso tempo il braccio sinistro. Fissò la sottile asticella che il giovane stringeva tra le dita pallide e affusolate. Mani che lui conosceva, mani che aveva visto altre volte, con ribrezzo e costernazione, stringere bacchette di legno.

Bacchette magiche.

Le mani di sua moglie.

Gli occhi dell’uomo tornarono a posarsi sul volto d’una bellezza inquietante del ragazzo che gli stava davanti, avvolto in abiti di velluto nero, bordati di verde.

 

E lo riconobbe.

 

- Tom… - mormorò, incredulo. La gola secca gli impediva quasi di parlare.

Lo vide torcere le labbra chiare in una smorfia disgustata. La luce vermiglia che filtrava tra le tendine socchiuse della stanza pioveva su di lui bagnandogli il viso bianco di striature sanguigne.

- Vedo che non hai dimenticato di aver avuto tanta presunzione da chiamarmi come te, padre. Con il nome di un rifiuto. Mi hai insultato da prima che io nascessi. –

 

Le sue parole ghiacciate parvero corrodergli l’anima, impedendogli di replicare.

 

Alle sue spalle, Marvolo e Clara Riddle, i suoi anziani genitori, erano impietriti, seduti a tavola davanti ai piatti ancora colmi a metà. Continuavano a guardare quel giovane, dominati dallo sgomento che li aveva assaliti quando avevano riconosciuto il loro nipote, il figlio della strega che Thomas Riddle aveva così sdegnosamente ripudiato.

- Non tollero la tua vista. La tua stessa esistenza mi risulta insopportabile – proseguì il giovane, senza alzare il tono di voce. Lo sguardo traboccava di disprezzo. E di odio.

Profondo, terrificante.

Hai abbandonato mia madre, l’hai fatta morire nella sofferenza. Mi hai lasciato marcire in un orfanotrofio. Mi hai costretto a sopportare le peggiori umiliazioni che la mente di un essere umano possa concepire. Non meriti di vivere, padre. Voglio la mia vendetta e me la prenderò.

Qui. Ora. -

L’uomo guardò suo figlio.

 

Non capiva.

 

I pensieri si erano inceppati nella sua testa in un ammasso informe ed ululante.

Vendetta?

Non capiva.

- Tom… - ripeté. La sua voce echeggiò nella sua testa intasata, strangolandosi nel groviglio dei suoi pensieri.

L’aria intorno al ragazzo parve contrarsi in una morsa gelata.

- Lord Voldemort, feccia di un Babbano. Il mio nome è Lord Voldemort. - 

Le pupille si strinsero in quelle iridi color mogano. La mano sinistra si sollevò ancora, puntando contro il suo petto l’asticella di legno scuro.

E, alla fine, l’uomo comprese. Il terrore che lo sopraffece fu così enorme che ebbe la certezza di aver danneggiato qualcosa dentro di sé.

Mentre le labbra del ragazzo pronunciavano sottili parole incomprensibili, lui arretrò di un passo, inumanamente conscio di quello che stava per succedere. Gli strilli acuti dei suoi genitori lo trapassarono, impalandolo lì, su due piedi.

Qualcosa all’interno della bacchetta si infiammò, delineando i suoi contorni incandescenti contro il nero del legno: una lunga piuma fu per un istante nettamente visibile in tutta la sua luminosità rovente. Poi un lampo di luce verde sfrigolò nell’aria, accompagnata dalle ultime sillabe della maledizione.

 

L’acqua sgocciolava dal rubinetto difettoso della cucina. Uno stillicidio lento e costante.

Inarrestabile.

Il giovane abbassò la bacchetta, chinandosi sui tre cadaveri  che continuavano a fissarlo con gli occhi aperti sul vuoto. Fissò i volti dei Riddle, scolpiti nel marmo della paura.

E sorrise.

E così, la purificazione del suo sangue per metà babbano era finalmente compiuta, si disse, voltandosi e uscendo dalla casa di Little Hangleton.

 

……………………………………………

 

La Sua stretta intorno al tuo cuore si è fatta più forte

Pensieri che risalivano dal profondo dell’oceano nero che abitava da tempo dentro di lui.

La voce di sua moglie viaggiava verso la superficie, chiusa in una bolla, per poi scoppiare a contatto con l’aria.

E ricominciare a salire dal fondale, gorgogliando coraggiosa, una sorgente d’acqua trasparente.

Esplodere e risorgere.

La Sua stretta intorno al tuo cuore si è fatta più forte

Era come viaggiare in una galleria, un tunnel che curvava e curvava, all’infinito, mentre l’attesa di veder ricomparire il rettilineo, e poi l’uscita, diventava spasmodica, dolorosa.

Insopportabile.

Perché era accorso dal Suo Signore?

L’Oscuro l’aveva chiamato, e lui sapeva che non avrebbe potuto fare altrimenti.

Doveva andare da Lui.

Lord Voldemort gli avrebbe mostrato l’uscita, lo sapeva.

L’aveva sempre fatto, gli aveva indicato la strada, aveva aperto i suoi occhi, aveva nutrito la sua ambizione con l’ambrosia delle promesse di conquista e potere.

Aveva compreso la sua anima come neanche lui sarebbe stato capace di fare, ma non era stato il solo.

 

*Narcissa*

 

Voldemort non era stato il solo.

- Lucius -

L’uomo biondo si voltò verso la voce bassa proveniente dalla sua sinistra. I suoi occhi si fermarono sulla possente figura nerovestita di Walden Macnair. Le sopracciglia scure e folte dell’ex boia per conto del Ministero erano così vicine tanto da formare una linea nera che ombreggiava lo sguardo, celando la maggior parte delle sue intenzioni agli occhi grigi ed attenti del suo interlocutore.

Lucius sentiva istintivamente di non potersi fidare di quell’uomo, di un essere umano che mascherava costantemente i suoi pensieri dietro un’espressione ambigua, fuorviante.

- Dimmi, Macnair – sussurrò, ritornando a fissare il lembo di cielo plumbeo che si intravedeva da una delle strette finestre tagliate sulle pareti della Torre. Avrebbe preferito scorgere il sole che quella mattina aveva inondato il volto di Narcissa, giocando con l’oro racchiuso nei capelli di lei.

Avrebbe voluto tornare al Malfoy Manor.

- Ha chiesto di te. Può riceverti – proseguì l’altro, avanzando d’un passo verso di lui. Lucius si girò, portandosi una mano al polso sinistro.

La Sua stretta intorno al tuo cuore si è fatta più forte.

- Sono da Lui – disse, accompagnando le sue parole con un breve cenno del capo.

 

……………………………………

 

Stava succedendo qualcosa.

Lo avvertiva nell’aria, tutt’intorno a sé.

Qualcosa di importante, sicuro! E lei l’avrebbe scoperto, prima o poi. Tuttavia ora la sua attenzione era concentrata sulle sue mani meticolosamente intente a districare una massa informe che profumava di Whisky. Ancora una volta era rimasto qualcosa attaccato caparbiamente alle punte dei suoi lunghi capelli biondo cenere. Afferrò la ciocca tra le dita, cercando di sbrogliare il groviglio di ChewinCocktail Super-Colloso  – uno degli ultimi capolavori sfornati dal negozio dei Weasley - che aveva fatto presa sulla sua chioma disordinata. Forse si era appoggiata da qualche parte, senza accorgersi di aver trascinato quell’appiccicosa gomma da masticare con sé, o forse qualcuno con un umorismo particolarmente spiccato aveva deciso di prendersi gioco di lei.

- Beh, non è la prima volta, sai? – mormorò, alzando gli occhi nebulosi davanti a sé, l’espressione vagamente offesa.

Per dieci minuti buoni tentò di sfilarlo dai capelli senza alcun risultato, le labbra pallide che stringevano ad un angolo un piccolo rametto di liquirizia, già umido e sfilacciato dai denti all’altra estremità. Tra qualche minuto sarebbero iniziate le lezioni di Pozioni con Snape e lei sapeva benissimo che non poteva permettersi di arrivare in ritardo, anche se era certa che il suo lugubre professore sarebbe stato deliziato all’idea di sottrarre punti alla sua Casa e favorire in tutti i modi i Serpeverde. La notizia che Severus Snape fosse tornato quella mattina presto dal San Mungo aveva fatto il giro della scuola in un baleno. Si era stupita che, nonostante le condizioni ancora febbricitanti del Responsabile dei Serpeverde, lui si fosse reintegrato subito nel corpo docenti.

- Certo che il Professor Snape si è comportato in un modo ben strano! Non trovi? – esclamò, trafficando con le punte ruvide dei suoi capelli. Rassegnata, si diresse camminando e saltellando verso il dormitorio delle ragazze del quinto anno, con i rapanelli rosso carminio che penzolavano dalle orecchie – adorava sentire come le sfioravano le guance e il loro profumo appena acre - dove aveva il suo baule contenente altri svariati oggetti che le sue compagne si ostinavano a chiamare “Ciarpame”, nascondendo un risolino di scherno dietro il palmo della mano tesa, convinte che lei non stesse ascoltando.

Beh, non la chiamavano Lunatica Lovegood per niente.

Biascicò la parola d’ordine, sputacchiando un paio di legnetti di radice di liquirizia che si erano staccati dal resto del rametto; senza fare caso agli altri studenti della sua casa – sesto e settimo anno – si diresse verso il dormitorio, raggiungendo il suo baule e non smettendo un solo istante di tormentarsi la ciocca incollata di capelli.

Armeggiò per qualche tempo con le fibbie d’ottone della chiusura, poi lo spalancò con una manata non tanto gentile e in quel disordine fantasioso riuscì a trovare un paio di comunissime forbici.

Senza troppi complimenti mozzò la ciocca incriminata di almeno un palmo.

- Problema risolto! – sussurrò allegramente guardando davanti a sé, mentre con un gesto distratto amalgamava il ciuffo di capelli mozzati con la massa di chewingum rosa shocking. – Dici che non si noterà? – proseguì, inarcando le sopracciglia chiare e sottili, gli occhi grigio opaco ancora più sporgenti del solito. – Io dico che non lo noterà nessuno! – concluse, sorridendo candidamente e passandosi una mano tra i lunghi capelli pieni di nodi.

 

La figura che scintillava d’argento di fronte a lei, e che da quando era morta sua madre la seguiva ovunque lei andasse, annuì convinta, mentre un sorriso divertito illuminava il suo volto senza Tempo, un viso dai lineamenti che racchiudevano tutte le Età dell’uomo.

 

 

…………………………………………

 

 

La prima volta era stato quaranta anni fa.

Gli era capitato soltanto allora di far riaffiorare dalle fosse buie e pulsanti della sua mente quelle memorie. Ricordi quasi di un’altra vita, un’esistenza che, egli sentiva, non gli apparteneva.

Non gli era mai appartenuta.

Il patricidio era stato solo l’inizio… la crisalide che lo aveva formato, avvolgendolo nel suo guscio traslucido fino a che lui non l’aveva lacerato, per riemergerne forte, potentissimo, spietato. Era stato lì, tra le mura troppo linde di Little Hangleton, dove aveva incontrato la biforcazione del suo cammino, la creta grezza con cui lui aveva cominciato a plasmare personalmente il Suo destino, non tollerando che nessun altro, mago o Dio che fosse, lo facesse per lui.

- Mylord -

La voce profonda di Walden Macnair giunse ovattata alla sua mente immersa nei ricordi. Non diede segno di essersi accorto della presenza del robusto Mangiamorte alle sue spalle.

Non volle accorgersene.

I suoi pensieri tornarono sull’argomento su cui stava riflettendo prima che i ricordi irrompessero irriverenti nella sua mente concentrata.

Severus Snape era guarito. Gli era sfuggito ancora.

Si, l’aveva percepito in maniera forte, possente. Un grido di trionfo che era esploso nella sua testa simile ad un boato.

Aveva sentito l’urlo della Speranza, mentre il suo odio si centuplicava, e ancora, e ancora.

Snape non aveva agito da solo, non poteva averlo fatto. Nel posto dove era riuscito a confinarlo sarebbe dovuto morire circondato da un oceano di agonia, e invece…

Qualcuno doveva averlo aiutato.

- Mio Signore – rumoreggiò ancora l’alto Mangiamorte. Il Lord Oscuro emise un sibilo appena percettibile, poi si voltò, le labbra bianche strette in una linea tesa d’irritazione. Fu sorpreso di vedere anche Lucius Malfoy in silenzio al fianco dell’alto Mangiamorte. Non l’aveva sentito entrare, nonostante lo stesse aspettando. Il suo sguardo tagliente si soffermò sul pallido viso dell’uomo biondo, poi le sue pupille ferine scivolarono sulla figura nera dell’altro possente umano.

- Parla, Macnair – sillabò in un sussurro ghiacciato. Questi deglutì prima di rispondere.

- Dolohov ha controllato la prima destinazione della Metropolvere Azzurra, Mylord. Conduce… fuori dall’Inghilterra. In una casa poco distante da Gerusalemme. -

- Gerusalemme? – mormorò Voldemort, la fronte d’avorio attraversata da una sottile ruga, che svanì quasi subito. – E lei… è lì? -

- Non l’abbiamo trovata, Mylord. La casa è disabitata da molto tempo, tanto che gli incantesimi di protezione con cui era stata schermata sono quasi del tutto scomparsi. Alcuni babbani sono riusciti a penetrarvi e l’hanno usata come nascondiglio. Sono in guerra tra loro, da quelle parti. -

- Esseri umani in balia di altri esseri umani… - mormorò Voldemort, piano, piegando le labbra in un sorriso freddo –… al mondo non esiste nulla di tanto perverso ed attraente. -

Il silenziò calò a cristallizzare nell’aria le sue ultime parole.

- Hai scoperto la destinazione delle altre uscite, Lucius? – chiese poi, fissando intensamente il volto dell’altro. Malfoy mosse un passo, guardando in tralice la faccia sgraziata di Macnair.

- Si, mio Signore. Ciascuna di esse conduce all’estero. La seconda porta a Roma, su un’isola in mezzo ad un fiume. La terza uscita a Kiev, la quarta ad Atlanta, la quinta in una capanna sulle pendici del monte Fuji, in Giappone. Ci sono porte anche per Durmstrang e Beaubatons; un’uscita in una cittadina sulle coste del Mar Nero, in Romania, di nome Constanţa; poi a Luxor, in Egitto e nel continente Australiano, in un villaggio di Aborigeni. Sarà necessario esplorarle tutte, Mylord. -

- Avremo bisogno di tempo per farlo, Lucius, tempo che non abbiamo. Tempo che non ho. Non mi dimenticherò del tuo operato, Lucius. La tua capacità di sorprendermi aumenta di giorno in giorno, ma ricorda: se si rivelerà un’arma a doppio taglio, saprò come rimediare. –

Il volto chiaro dell’uomo biondo rimase imperscrutabile.

 

…………………………………………

 

- Non so cosa fare. –

Narcissa alzò lo sguardo verso il volto abbronzato di sua sorella, fissando l’umidità che ancora bagnava le guance riflettersi scintillando negli occhi già asciutti.

- Se… Lui sta venendo qui, non mi rimane che andarmene. Sai bene che non posso contrastarlo… Non ancora, almeno. Forse non ne sarò mai in grado… E non posso rivederlo – disse la sorella, abbassando il mento.

- Ne sei certa, Bella? – sussurrò Narcissa. La calura del giorno si era sollevata ad impregnare il piccolo ambiente dove si trovavano. 

- Si, ne sono sicura. Quando sono andata via il dolore mi ha quasi uccisa. Non riuscirei più ad allontanarmi da Lui, non un’altra volta. E non so se i miei figli potrebbero aiutarmi. Capisci, Narcissa? Lui stringe tra le mani i fili della mia esistenza, nonostante tutto. Il Marchio è rimasto e mi brucia sulla pelle… Gli appartengo ancora. Gli apparterrò sempre, ma impedirò che Lui possa avere anche i miei bambini – continuò lei, la voce pacata che lasciava però filtrare una crescente preoccupazione.

Narcissa non rispose, guardando la striscia di cielo terso che sbucava tra le due tendine tirate per creare un po’ d’ombra. Strinse la Passaporta, riportando gli occhi azzurri sul viso di sua sorella. L’incantesimo che aveva utilizzato per arrivare da lei sarebbe durato ancora per poco tempo. Tra breve il vaso si sarebbe riattivato e l’avrebbe riportata nel salotto di Malfoy Manor.

Doveva pensare a qualcosa.

- Dove vorresti andare, Bella? Se ritorni in Inghilterra ti troverà e… - sussurrò, evitando di proseguire. Non voleva pensare a cosa sarebbe potuto succedere se quell’eventualità si fosse verificata. – Devi decidere in fretta! Lucius non tornerà prima di sera…e mi deve trovare dove mi ha lasciata. Lui…non deve sapere niente. -

- Credi che possa prendersela con te, se scopre quello che stai facendo? – mormorò la sorella, fissandola.

- No. Lucius… non lo farebbe mai. Ma non potrebbe evitare che l’Oscuro lo venisse a sapere. Lo metterei di fronte ad una situazione atroce, una scelta che non voglio lui compia. Mai. -

- Capisco di che scelta parli – disse Bellatrix, distogliendo lo sguardo dal volto teso dell’altra.

- Lo so, Bella. Lo so… - sospirò Narcissa – Potresti nasconderti scendendo ancora più internamente nel continente africano ed io posso confondere le tue tracce. -

- Invece torno a casa, Narcissa – affermò Bellatrix, scuotendo lievemente la testa – Voglio che i miei figli nascano nella mia terra. Troverò un modo per nascondermi. -

- Ma… - sussurrò la sorella, avvicinandosi all’altra e prendendole le mani tra le sue – Bella, rifletti, come credi di potergli sfuggire? Non dimenticarti che anche il Ministero ti cerca! Renderanno la tua vita un inferno! -

La minore guardò il volto bellissimo di Narcissa.

Nonostante fosse più grande, era lei a sembrare più giovane, come se meno consumata. Bellatrix aveva già visto fili d’argento tra i suoi capelli d’ebano.

E voleva che la sorella maggiore restasse così per sempre.

*Intatta*

- Io l’ho già visto, Narcissa. L’Inferno può esistere dentro di te, senza che tu lo sappia… fino a che no ti guardi intorno e realizzi di esserci caduta al centro -

La sua espressione era strana, tranquilla e inquietante a un tempo.

- Dove sei stata, Bella…? - sussurrò la donna bionda, fissando gli occhi neri dell’altra, che continuavano a non rivelare nulla. Lei tacque a lungo, prima di rispondere.

- E’ difficile spiegarlo. E’ quasi inesprimibile nella lingua dell’uomo, ma un giorno te lo racconterò. Ti dirò tutto, te lo prometto. -

Bellatrix vide lo sgomento modellarsi sui lineamenti cesellati di lei. La vide prendersi una ciocca di capelli dorati tra i denti, un vizio che non aveva più visto da quando lei era una ragazzina.

Ricordò ogni volta che la loro madre gli toglieva delicatamente le punte bionde tra i denti, dicendo con dolcezza che così si sfilacciava la sua bella capigliatura.

Il viso di Narcissa ad un tratto si illuminò.

- Devi venire al Malfoy Manor… subito. La mia Passaporta si sta riattivando -

Bellatrix la guardò sorpresa.

- Cosa? -

- A casa di Lucius. A casa mia! Ho un’idea. Almeno per farti passare inosservata per le prime ventiquattr’ore. Usa il camino, l’ho lasciato acceso; la Passaporta non potrebbe trasportarci entrambe, l’incantesimo è troppo debole – esclamò l’altra, parlando velocemente, mentre il vaso d’argento aveva cominciato a illuminarsi d’azzurro. – Abbi fiducia in me, Bella… vieni a casa… - mormorò ancora la donna bionda, guardando prima lei, poi la luminescenza del vaso che si andava man mano intensificando.

Bellatrix fissò sbalordita la sorella, poi, un attimo prima che Narcissa svanisse, annuì con un breve cenno del capo ed un mezzo sorriso.

 

………………………………………………………

 

 

- Dieci punti in meno a Corvonero, miss Lovegood - sussurrò Snape senza neanche alzare gli occhi verso di lei - Ed ora fila al tuo posto – continuò, voltandosi verso l’armadietto dove erano stipati in bell’ordine parecchi ingredienti per le pozioni.

Accidenti.

Sapeva che avrebbe fatto tardi, ma non pensava che il ritardo fosse tanto grave da consentire a Snape di sottrarre alla sua casa ben dieci punti. Guardò la figura argentata, che si era subito portata accanto a lei, con la tipica espressione di chi è convinto di aver subito un’ingiustizia. Tra le rughe lisce di quel volto calmo Luna ebbe l’impressione di scorgervi un barbaglio divertito.

- Non c’è nulla da ridere… - bisbigliò nella direzione dell’uomo-bambino che baluginava al suo fianco, andando a prendere posto al suo calderone, accompagnata dagli sguardi a metà tra ilarità e rassegnazione degli altri studenti.

- Cominciate a copiare gli ingredienti alla lavagna… - iniziò Snape con la sua voce di seta, continuando a trafficare con fiale e ampolle.

Luna lo osservò meglio. Sembrava non essere cambiato molto, a parte il pallore davvero impressionante del viso, la figura smagrita, gli zigomi e il naso ancora più pronunciati del solito. Ma gli occhi simili a carboni ardenti, capaci di farla sentire come un calzino rivoltato senza troppe cerimonie, erano rimasti uguali. I capelli unticci pure.

Il professore si voltò verso la classe del quinto anno.

- Si tratta della Pozione della Pace, un preparato che… - la voce improvvisamente sembrò morirgli in gola. L’uomo aprì la bocca, poi la richiuse di scatto, stringendola in una linea chiarissima. Con sua totale sorpresa, Luna si rese conto che Severus Snape stava fissando proprio lei, tanto intensamente da farla tremare… o meglio… lui stava guardando con gli occhi sbarrati verso la sua spalla sinistra. Nel silenzio quasi irreale la ragazza voltò la testa, per andare ad incontrare la figura d’argento in piedi alle sue spalle, che teneva una mano incorporea poggiata vicino alla base del suo collo, mentre fissava a sua volta Snape, come se… lo riconoscesse.

For Heaven’s Sake.

Snape riusciva a vederlo. Come ci riusciva lei.

Per la prima volta Luna si sentì realmente vicina a qualcuno… anche se la persona in questione era il più odioso degli insegnanti.

Oh, non le importava più. Snape riusciva a vedere colui che lei chiamava “l’Angelo d’Argento”.

- Lei ci riesce, non è vero Professore? – disse con un sorriso appena accennato – Riesce a vederlo come me? -

- Tutti fuori di qui – mormorò l’uomo alla classe incredula di vederlo comportarsi in un modo simile. – La lezione è sospesa. Tutti tranne tu, miss Lovegood. E che qualcuno vada a chiamare il Preside. -

 

Luna fissò ancora il volto sgomento del professore, poi riportò lo sguardo su quello strano essere.

Stava sorridendo.

 

Fine prima parte.

 

Eccolo qui, un nuovo capitolo nato a sorpresa tra un ora di lezione e l’altra, o durante la notte, cercando di far *riposare* la mente! Ancora una volta lo dedico a tutte le persone che, generosissime, mi hanno lasciato i loro commenti! Non so che farei senza di voi! Quindi, grazie di cuore a Dona86, Mirtilla, Ida59, Nachan, Amechan, Gwillion, Galadwen, Amarantha, Shocking_ Eve, Animagus88, Lilychang e ancora,Eryn, Fuffi, Zelgadiss, Eliopodo, Bellatrix_Black e tutti i Malandrini della Mappa… Siete fenomenali!!!!

Come avete notato sin dal sottotitolo, “Frammenti” , si tratta di un brano che lascia spazio a più protagonisti… vedrete, ognuno di essi avrà un ruolo determinante nei prossimi chap a seguire! Ogni frammento, appunto, si riunirà alla fine in un puzzle veramente molto esteso…

Che altro dire? In questo pezzo fa il suo ingresso Luna Lovegood, personaggio totalmente sopra le righe, forse uno dei meglio riusciti della cara zia Rowling… avrete sicuramente compreso che lei riesce a vedere le Morti… ci doveva essere un motivo per il quale la ragazza è così… strana… non trovate? Questo è quello che immagino io!^_-

Un bacione enorme a tutti!

Vi voglio bene, Charlie.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 15
*** Cinis et Germines - parte II ***


Disclaimer: Bellatrix Lestrange e gli altri personaggi che compaiono in questa fanfiction sono proprietà di J

Disclaimer: Bellatrix Lestrange e gli altri personaggi che compaiono in questa fanfiction sono proprietà di J.K. Rowling e di editori come Bloomsbury, Bros, Salani. Nessuna violazione del copyright si ritiene pertanto intesa.

 

 

 

“Ed il Tempo mi inghiotte minuto per minuto,

come la neve immensa un corpo irrigidito;

guardo dall’alto il globo rotondo e rifiuto

di cercarvi ancora in qualche tana un rifugio.

 

Valanga, puoi portarmi con te nella caduta?”

 

Charles Baudelaire, da “Il gusto del Nulla, Les Fleurs du Mal

 

Cinis et Germines

- Cenere e Germogli -

Parte seconda

 

 

Guglie e pinnacoli si elevavano per metri e metri, tendendosi come rami di alberi maledetti, fino a sfiorare le nuvole basse e caliginose, quasi volessero aggrapparvisi per non scivolare oltre la scogliera sottostante sulla cui sommità solitaria sorgeva tutto il Castello. Il fragore delle onde gonfiate dal vento, che si scagliavano con rabbia contro la roccia bagnata e levigata dall’incessante rollio dell’oceano, saliva fino alle bifore degli ultimi piani, facendone vibrare i vetri coperti da un sottile strato di condensa che non permetteva di distinguere dove finiva la terra e cominciava il cielo.

Durmstrang si stagliava imponente contro lo sfondo metallico dell’orizzonte: le sue cinque torri imbiancate dalla neve fresca sembravano le dita di un morto poggiate sulla lama di una spada. Lungo il viale, tappezzato di larghe e nere pietre laviche, che conduceva al monumentale ingresso della scuola, Igor Karkaroff continuava a procedere speditamente, lanciando dietro di sé, di tanto in tanto, un’occhiata sospetta, per assicurarsi di non essere seguito.

Dopo aver avuto la certezza che nessuno fosse sulle sue tracce, l’uomo affrettò maggiormente il passo, stringendosi nell’ampio mantello nero bordato di pelliccia per contrastare il rigore della stagione invernale. I suoi occhi chiari e freddi si posarono sulla scuola che era stata il suo unico rifugio per ben tredici anni della sua vita, un tempo in cui si era illuso di poter dimenticare chi era.

Lui era tornato da più di un anno, si ricordò, avvertendo un brivido ghiacciato percorrergli la schiena ossuta. Da allora non aveva smesso per un solo istante di cercarlo. L’avrebbe ucciso, ne era più che certo: l’Oscuro Signore non perdonava i tradimenti.

Mai.

A rammentarglielo ad ogni ora del giorno era sufficiente il tormento bruciante che il Marchio Nero gli regalava costantemente, come se Lord Voldemort non aspettasse altro che una sua distrazione per calare su di lui la falce della sua vendetta e mozzargli la testa, lasciandolo cadavere, a sanguinare nella neve.

Le Torri del castello erano state progettate in modo da incutere nei rari visitatori un senso di completa impotenza di fronte a tale manifestazione di forza e stabilità poderosa, tanto che neanche il vento che sferzava incessantemente la costa frastagliata avrebbe potuto far nulla contro di loro. Ci riuscivano così bene che l’uomo trasalì quando giunse più vicino all’ingresso principale, nonostante credeva di essersi ormai abituato alle dimensioni della costruzione che preferiva espandersi in altezza piuttosto che in larghezza.

Fermo davanti alla porta di bronzo, Karkaroff si soffermò un istante ad ascoltare il lugubre ululato del vento tra gli stretti merli delle Torri, dove le raffiche passavano così violentemente da dare l’impressione di arroventare la pietra.

Dopo più di un anno passato a nascondersi, finalmente stava per riaprire la porta di casa sua… era giunto a Durmstrang per una precisa ragione.

Qualcuno, nonostante la sua cautela, era riuscito a fargli arrivare un messaggio da Hogwarts: corto, lapidario, chiarissimo.

“Dumbledore ti deve parlare. Durmstrang, camino dell’aula di Trasfigurazione, Torre Ovest”, vi aveva trovato scritto.

L’uomo sfilò le mani guantate dalle tasche dell’abito, afferrando un grosso anello che spuntava dalle fauci di un leone scolpito nel bronzo. Batté il maniglione contro la porta per tre volte ed attese.

Alcuni passi frettolosi dall’altra parte gli rivelarono che qualcuno nella scuola doveva già essere a conoscenza della sua venuta.

 

………………………………………………

 

Secondo gli anziani del posto era più facile accecarsi fissando le assolate pianure del Sahara che guardando direttamente il sole, tanto era intenso il riverbero di quel deserto sconfinato, ricco di sodio che lo faceva brillare come la superficie di una stella. I granelli di sabbia riscaldata dall’astro diurno venivano continuamente trasportati dal vento, depositandosi sulle pietre delle case, sbiancate dall’intensa radiazione solare.

Nonostante quel mare di dune stesse lentamente diventando incandescente, Bellatrix voleva sentire il calore della sabbia, per l’ultima volta.

Sulla pelle, tra le dita… voleva sentire la carezza ruvida del deserto infondere coraggio alla sua anima intimorita.

Aveva paura.

Paura del futuro, di quello che sarebbe potuto succedere, delle conseguenze delle sue azioni che si sarebbero ripercorse sui suoi figli.

E lei non poteva permettersi di avere paura. Le era vietato… l’avrebbe prosciugata nel cuore del Sahara. Doveva liberarsi di quella pozzanghera di timore che minacciava di allagare la mente ed il cuore. Doveva curare quei buchi neri che si stavano aprendo nella sua anima provata.

Aveva pochissimo tempo. Tra qualche minuto avrebbe varcato la soglia del camino già acceso, che l’avrebbe portata a Malfoy Manor. Doveva fare in fretta.

Si diresse verso l’uscio di quella che era stata la sua casa per più di due mesi, in cui aveva vissuto un periodo di relativa tranquillità; tolse il chiavistello che lo bloccava ed aprì lentamente la porta, schermandosi gli occhi con il dorso della mano. A quell’ora il sole doveva aver quasi raggiunto il suo zenith, investendo la terra bruciata con una pioggia di luce caldissima. L’aria torrida di quel clima inospitale la investì in pieno, strappandole l’umidità dalla gola. Si ritrasse sconcertata, ripetendosi tuttavia che avrebbe dovuto aspettarselo… i contadini del villaggio evitavano di uscire a quell’ora del giorno, come lei non aveva mancato di notare.

Ma Bellatrix voleva sentire il deserto per l’ultima volta.

Aveva bisogno della sua dura forza, della sua crudezza.

Afferrò la bacchetta e compì un incantesimo refrigerante sui vestiti, rabbrividendo al contatto della sua pelle accaldata con gli abiti gelidi. Dischiuse nuovamente la porta e questa volta uscì allo scoperto, sotto il sole a picco, riparandosi il capo e le braccia sotto la pesante stoffa araba.

Si diresse verso il retro della casa, verso il lato che dava sul mare di dune del Sahara.

Il deserto che si estendeva all’orizzonte sembrava oro liquido strinato dal fuoco. I piccoli cristalli di salgemma rilucevano come diamanti, impreziosendone il profilo ondulato, qualcosa che le ricordò i capelli di sua sorella…

Narcissa.

Doveva far presto.

Concentrandosi sulla magia che stava per compiere, Bellatrix si smaterializzò con un rumore che sembrò attutito dalla sabbia. Riapparve a due chilometri di distanza da Emerald Ring, in pieno deserto.

Attraverso gli occhi socchiusi per l’intensità insopportabile della luce, osservò l’immensa distesa di dune che si espandeva intorno a lei, mentre masse di aria arroventata salivano ondeggiando verso l’alto, dandole l’impressione di vedere tutto attraverso uno schermo liquido.

E Bellatrix sentì.

In quell’oceano arroventato, prosciugato da millenni, attraversato da tempeste di sabbia capaci di trasformare il giorno nella più impenetrabile delle notti, lei avvertì l’immensa forza del deserto, quella potenza che sembrava sprigionarsi da ogni granello di roccia frantumata, da ogni piccola scaglia di sale, dal vento bruciante che allontanava la pioggia, dall’umidità che, nonostante tutto, riusciva a nascondersi in profondità, in attesa di essere bevuta dalle radici delle poche piante in grado di spingerle sotto metri di terra.

Quella forza impresse le sue orme dentro di lei. La sua paura sbiadì, si evaporò, lasciandole nell’anima soltanto l’alone del sentimento provato che l’aveva turbata così tanto.

- Posso tornare, ora… – mormorò a se stessa, preparandosi a smaterializzarsi ancora: neanche l’incantesimo refrigerante poteva tenere lontano a lungo il fuoco del deserto.

Scomparve e si materializzò direttamente nel soggiorno della vecchia casa, surriscaldato per via del camino acceso. Si avvicinò ad una mensola, prendendo con sé qualche provvista e il sacchetto contenente la strana polvere volante. Raccolse una manciata di quella farina grigia, riducendo il suo bagaglio con un altro incantesimo.

Gettò la polvere tra le fiamme, che subito divennero azzurre. Il suo sguardo cadde ancora sul panorama assolato che si intravedeva tra le tende delle finestre.

La donna si voltò, avanzando tra il fuoco celeste.

- Malfoy Manor – disse, poi sparì.

 

 

…………………………………………….

 

- Lei riesce a vederlo come me? -

 

Severus Snape ripensava a queste parole mentre attendeva l’arrivo di Dumbledore nell’aula di Pozioni, con la schiena appoggiata ad una parete, vicino ai lavandini solitamente utilizzati dagli studenti al termine delle sue lezioni. Aveva lo sguardo fisso sulla porta, seguendo attentamente le linee curve e screpolate del legno vecchio. E non voleva distogliere gli occhi da quello che vedeva, nonostante pochi banchi più in là Luna Lovegood stesse canticchiando sommessamente qualche motivetto infantile, dal sapore malinconico, seduta sul banco dagli spigoli arrotondati per l’usura, lasciando penzolare le gambe magre e impegnandosi a sfiorare con le punte dei piedi il pavimento di pietra fredda.

 

“Home is behind
The world ahead.
And there are many paths to tread…”

 

Nonostante tentasse di tenere a freno la sua curiosità, gli occhi di Snape, attirati da quelle parole cantate sommessamente, si spostarono sulla quindicenne pallida e minuta che sembrava aver vissuto per tutta la vita sul fondo di un lago, tanto che i colori parevano essere scivolati via da lei, lasciandosi dietro solo una sfumatura sbiadita, ma gentile. La voce sottile di Luna si disperdeva in fini volute tra le volte incrociate dell’aula, accompagnata dal fruscio delle suole di cuoio delle sue ballerine piatte che contribuivano a conferirle un’aria vulnerabile.

 

“Through shadow,
To the edge of night
Until the stars are all alight…”

 

La Morte della ragazza, la figura argentata che lui aveva riconosciuto non appena l’aveva scorta, era dietro di lei, con le mani scintillanti tra i suoi capelli biondo cenere, intenta ad intrecciarglieli con tutta l’amorevole delicatezza di una madre. Severus vide Luna voltarsi verso di lui e guardarlo con insistenza. Gli occhi grigi insolitamente lucidi si fissarono sul suo volto, mentre lei raccoglieva le ginocchia ossute al petto e le circondava con le braccia magre, poggiando i talloni nella piccola depressione sul ripiano del banco dove abitualmente i ragazzi vi posavano mestoli e coltelli per affettare gli ingredienti. Aveva il mento sprofondato nella sciarpa azzurro-nera, i colori dei Corvonero, che attutiva maggiormente il suo canto fanciullesco.

 

“Mist and shadow
Cloud and shade
All shall fade
All shall... fade.”

 

Poi lei tacque, continuando a tenere fissi gli occhi sporgenti su di lui, come se cercasse di interpretare i simboli di una lingua da tempo dimenticata, la cui musicalità tuttavia non aveva abbandonato la memoria. Il silenzio che si frappose tra i due riempì il vuoto che li divideva, ed essi si trovarono immersi in una calma quasi irreale, che spinse via il resto del mondo fuori dai pensieri di entrambi.

Snape distolse lo sguardo dalla figurina rannicchiata a poca distanza da sé, che tuttavia rimase a fissarlo con gli occhi che parevano racchiudere la nebbia mattutina. Quelle iridi brumose lo avevano sempre incuriosito per una ragione particolare: non era mai riuscito a leggervi dentro, nonostante avesse tentato di farlo innumerevoli volte. Mentre gli altri adolescenti, Potter compreso, erano più chiari e leggibili di un libro aperto al suo sguardo penetrante, Luna Lovegood, con la sua espressione di costante sorpresa, le sopracciglia castane inarcate da un perenne stupore, era rimasta indefinita… qualcosa di vagamente abbozzato coperto da una nuvola impenetrabile, che continuava a sciogliersi in pioggia, impedendogli di distinguere altro.

Quella mattina, quando era ritornato a Hogwarts, aveva fatto capire a Dumbledore che non gli avrebbe rivelato subito tutto ciò che aveva vissuto.

Aveva bisogno di tempo… tempo per rimettere in ordine i suoi pensieri, per riflettere su quello che aveva visto, sentito, compreso a proposito dell’esistenza. Della loro battaglia. Di quello che il Signore Oscuro stava tentando di fare.

Il Preside l’aveva capito e si era limitato ad esprimere la sua felicità nel vederlo finalmente guarito e “perfettamente funzionante”, come aveva detto, glissando sul fatto che l’aveva trovato, insieme a Lupin, piegato in due e con le lacrime agli occhi dal ridere: una situazione più unica che rara, che aveva sorpreso persino lui. Non aveva riso negli ultimi quattordici anni...

O forse non aveva mai riso.

Nelle due ore successive si era dedicato alla selezione e preparazione degli ingredienti per la pozione di Lupin, un’attività che gli aveva impedito di soffermarsi con attenzione quasi maniacale sui suoi pensieri che saettavano liberi nella sua mente ancora un po’ stordita.

- Da quando riesce a vedere quelli come lui, professore? -

La voce di Luna spezzò lo spesso silenzio ed ebbe per lui l’effetto di una doccia gelida. Snape tornò a guardarla, notando che la ragazzina non aveva cambiato la sua posizione e al momento stava giocherellando con un… rapanello… appeso orgogliosamente alle sue orecchie, quasi fosse il più prezioso dei gingilli.

- Da stamattina – rispose laconico Snape, con l’intento di stroncare sul nascere qualsiasi accenno di conversazione. Ma non era preparato al fiume di parole che Luna gli riversò addosso, nonostante sapesse alla perfezione che nessuno glielo aveva richiesto.

- Davvero? Io invece lo vedo da quando avevo nove anni, cioè dal momento in cui è morta mia madre… Io lo chiamo “Angelo d’Argento”, le piace come scelta? Forse no, è un po’ stupido, lo capisco, ma è la prima cosa che mi è venuta in mente allora… dopotutto avevo solo nove anni! Loro non vanno in giro con la gente, fino ad ora ho visto solo un altro “Angelo” che seguiva un ragazzo, ma lui non si era accorto della sua presenza, che scemo… -

Snape quasi non credeva alle sue orecchie. Non avrebbe mai immaginato che esistessero esseri umani in grado di pronunciare quattro parole al secondo.

- …quando ho capito che anche lei riusciva a vederlo mi è sembrato che la terra si stesse sciogliendo… cioè, è la prima persona che incontro in grado di poterlo vedere, io non l’ho mai detto a nessuno perché altrimenti mi avrebbero preso per pazza… non che mi trattino meglio comunque, visto che mi chiamano Lunatica Lovegood, ma io so cose che loro non sanno e non sapranno mai, cioè, non so se c’è qualcun altro oltre a me e a lei in grado di… si, insomma, quello. Oh, mi ricordo che quando mia madre è morta mi sentivo talmente sola e disperata che ho creduto di impazzire, anche se mi rimaneva mio padre, ma sa, non è mica la stessa cosa per una femmina … meno male che è venuto da me, o non avrei saputo come fare! Stavo pensando che anche lei deve essersi sentito solo e disperato, per arrivare a vederli, vero? Non pensavo di trovare qualcuno che soffrisse come me. -

Severus Snape stava quasi per sibilarle contro di chiudere quella boccaccia quando le ultime parole lo raggelarono, soffocandolo. Gli parve quasi di boccheggiare per trovare aria e tornare a respirare normalmente.

Solo e disperato.

Nel Limbo spaventoso in cui Voldemort l’aveva confinato si era sentito esattamente così, inutile negarlo. Aveva sentito dentro di sé l’agonia della speranza di tornare tra i vivi… fiamma sempre più fioca, più flebile, fiamma malata.

Fiamma morta.

Gli occhi sporgenti di quella ragazzina erano ancora in attesa di una sua risposta, che stentava a trapelare dalle sue labbra. Non pensavo di trovare qualcuno che soffrisse come me, aveva detto a bassa voce, incurvando le labbra chiare in un lieve sorriso nostalgico. Senza volerlo, si ritrovò a fissare, quasi ipnotizzato, quella bocca su cui sembrava aleggiare una piccola scintilla di felicità.

Il cigolio della porta lo salvò da quella strana situazione da cui non avrebbe saputo come districarsi, uscendone indenne. Entrambi si voltarono verso l’ingresso dell’aula.

Le linee calme e decise del volto anziano di Albus Dumbledore rivelarono che il preside di Hogwarts aveva preso molto seriamente la situazione.

Il vecchio guardò Luna Lovegood, poi rivolse la sua attenzione a Severus, fissandolo con i suoi occhi cerulei straordinariamente intensi. Snape capì all’istante che non avrebbe potuto più tacere su quello che gli era realmente accaduto durante la settimana trascorsa barcollando lungo il bordo dell’abisso.

- Vedo che state bene, perciò vi pregherei cortesemente di venire nel mio studio – esordì il preside, con un sorriso gentile. I due annuirono, Snape si staccò dalla parete e Luna scivolò giù dal banco. Dietro di lei, la sua Morte le poggiò le mani sulle spalle, come se volesse guidarla.

 

…………………………………………

 

Seduta sul divano, a fissare la danza delle fiamme nel focolare di marmo bianco.

 

Narcissa Malfoy attendeva guardinga l’arrivo della sorella, stringendo tra le dita quelle che sembravano essere un paio di fiaschette di terracotta, dall’aspetto forse un po’ primitivo, che tuttavia sapevano svolgere la loro funzione nel miglior modo possibile.

La penombra creata dalle pesanti tende di broccato che ornavano le ampie vetrate del soggiorno contribuiva a creare un’atmosfera pregna d’attesa, d’ansia, di preoccupazione, quasi che i sentimenti che si agitavano confusi nel cuore della donna si proiettassero all’esterno, veleggiando nell’aria, nonostante lei cercasse in tutti i modi possibili di tenerli a bada, confinati sul fondo del proprio cuore, limitandosi a seguire con lo sguardo i guizzi incostanti del fuoco paglierino ed il riverbero cremisi delle braci ardenti.

Non avrebbe saputo dire quanto tempo fosse rimasta immobile, rannicchiata sul divano, in attesa.

In logorante attesa che accadesse qualcosa… qualsiasi cosa.

Poi le fiamme si colorarono di azzurro, raffreddandosi per permettere il passaggio di un essere umano. I barbagli celesti del focolare sembrarono riflettere le sfumature dei suoi occhi dilatati dal sollievo quando Bellatrix apparve nell’alto camino bianco, avanzando calma verso di lei, come se le stesse dicendo che non avrebbe più dovuto dubitare delle sue promesse.

Narcissa si alzò, andandole incontro, abbracciandola con trasporto appena la sorella uscì completamente dal fuoco. Il ventre prominente di Bellatrix non le impedì di stringersi a lei, mentre la preoccupazione si dileguava dall’anima angosciata.

- Eccoti qui, finalmente… - sussurrò la donna bionda, staccandosi da lei per guardarla meglio. Nonostante l’avesse lasciata solo da pochissimo tempo, a Narcissa non sfuggì quell’espressione sul volto e negli occhi della sorella… qualcosa di nuovo…

Una luce che prima non vi aveva visto.

Una forza che prima non c’era.

- Ti avevo detto che sarei venuta da te – concluse Bellatrix, ancora impaludata nelle colorate stoffe egiziane.

Calore.

Sua sorella portava con sé, dentro di sé, il fuoco del Sahara.

Narcissa lo comprese non appena incontrò nuovamente il suo sguardo. Occhi consumati dalle fiamme come le braci nel focolare alle sue spalle.

Quel legame… la determinazione che brillava nel sangue dei Black. Narcissa seppe che sua sorella era pronta, pronta per affrontare Lui, il suo futuro, quello dei gemelli che crescevano nel suo grembo. E lei poteva aiutarla.

Si… perché poteva… e doveva.

Non poteva sottrarsi a quell’imperativo dettato dall’anima. Non voleva farlo.

- Presto, ti ho preparato quello che ti occorre per passare inosservata per un paio di giorni – cominciò, sussurrando appena quasi temesse che anche i muri del Malfoy Manor potessero udirla – quarantotto ore mi basteranno per trovare un rifugio.-

- Non preoccuparti di questo, Narcissa – la interruppe l’altra – non voglio che tu corra rischi inutili. Mi metterò in contatto con Snape… siamo nella stessa situazione, lui saprà sicuramente trovare un posto adeguato. In fin dei conti ha un debito nei miei confronti, e sai bene quanto me che non sopporta essere indebitato con qualcuno.-

La sorpresa che comparve sul volto ovale della donna bionda non stupì Bellatrix.

- Severus… - mormorò Narcissa, gli occhi improvvisamente lontani, distanti… affacciati sui ricordi del passato, dell’adolescenza, della titubante giovinezza. Poi il suo sguardo ritornò al presente:

- Che vuoi dire, in che senso è indebitato? -

- Gli ho salvato la vita, Narcissa. L’ho sottratto all’incantesimo di Lord Voldemort -

La donna bionda trasalì nel sentire quel nome pronunciato dall’altra, anche se sommessamente. In quasi vent’anni, da prima che Bellatrix diventasse una Mangiamorte, lei non aveva mai udito sua sorella bisbigliare il nome di Lui.

- Bella… prima in Egitto mi hai detto che Gli saresti sempre appartenuta… - replicò la donna, ma nelle sue parole non vi era ombra di rimprovero.

- E’ così, Narcissa. Il Marchio Nero mi lega e mi legherà a lui per il resto della mia vita, ed io non posso sfuggire a queste catene. Ma lo faranno i miei figli. Devono poter scegliere la loro strada, come ho fatto io. Sono pronta a combattere per questo, sorella mia. A morire per questo. -

Narcissa tacque, fissando quasi ammaliata la forza che ardeva nell’altra.

- Ti aiuterò, Bella. Ecco, prendi  – disse, porgendo le fiaschette di terracotta – Le ho acquistate da Sinister per Lucius, nel caso dovesse servire, visto che il Ministero lo sta ancora cercando. Vengono qui quasi tutti i giorni, nella speranza di poterlo cogliere in flagrante. -

- Pagheranno anche loro, Narcissa… - sussurrò Bellatrix, gelida. – Cosa contengono? – chiese poi, osservando i bizzarri contenitori.

- Una dose giornaliera di Pozione Polisucco ciascuna. Puoi prenderla anche nelle tue condizioni, Bella, senza rischiare nulla. -

- Polisucco? E di chi dovrei prendere le sembianze?- domandò, inarcando le sopracciglia.

Narcissa sorrise, estraendo dalla tasca della sua gonna un piccolo coltello dal manico d’avorio. Cercò una ciocca di capelli dorati che fosse ben nascosta dal resto della chioma e la tagliò con un colpo preciso di almeno cinque centimetri.

- Questo è l’ultimo ingrediente. – disse, quasi ridendo all’espressione di assoluto stupore allargatasi sul volto della sorella – Vai a Hogwarts, con la scusa di voler incontrare Draco. Non te lo vieteranno, dopotutto hanno ancora paura dei Malfoy. Quando sarai lì, cerca Severus. -

- Narcissa, io… -

- Non dire niente, Bella. So di rischiare, ma non mi importa. Tu sei mia sorella. Ho solo un favore da chiederti… - replicò l’altra, abbassando la voce.

- Dimmi -

- Quando vedrai Draco… digli che lo amo. -

 

…………………..……………………………………

 

Sussurri nell’aria greve.

Parole frammentate da sospiri che si disperdevano nell’ampio spazio circostante, echeggiando contro la volta altissima e tondeggiante della Camera della Morte.

Appeso a quell’arco di antichissima fattura, il Velo nero, gravido degli spiriti dei trapassati, si sollevò per un lungo momento, gonfiato da una brezza fresca che spirava alitando alle sue spalle. Qualcosa parve scivolare attraverso quel passaggio, ma non fu più consistente della bruma autunnale che si sprigiona sollevandosi dalla terra umida.

Poi il drappo tornò a coprire il varco, e tutto tacque nuovamente nell’aria immobile.

 

Continua…

 

Grazie a tutti, con affetto!

Charlie

Ritorna all'indice


Capitolo 16
*** Alea iacta est ***


Disclaimer: Bellatrix Lestrange e gli altri personaggi che compaiono in questa fanfiction sono proprietà di J

Disclaimer: Bellatrix Lestrange e gli altri personaggi che compaiono in questa fanfiction sono proprietà di J.K. Rowling e di editori come Bloomsbury, Bros, Salani. Nessuna violazione del copyright si ritiene pertanto intesa.

 

Dedico il capitolo a Ida59, Dona86, Utsuchan, , Nachan, Amechan, Federico, Gwillion&Mac, Galadwen, Shocking_ Eve, Mirtilla, Amarantha-Priscilla, Animagus88, Fleacartasi, Fuffi, Lilychang e ancora Eryn, Zelgadiss, Eliopodo, The Auror, Bellatrix_Black e tutti i Malandrini della Mappa…( come al solito spero di non aver dimenticato nessuno, anche se la mia memoria tende a fare un po’ acqua… modello scolapasta, actually.) Volevo inoltre dedicare un pensiero di affetto ed una preghiera a tutti i Madrileni vittime dell’attentato dell’11 marzo  e ricordare che la Pace è l’anima del mondo…senza di essa non ci sarà vita.

Te quiero, Madrid.

Charlie.

 

 

« Presto c’immergeremo nelle fredde tenebre;

addio, vivida luce di estati troppo corte!

Sento già cadere con un battito funebre

la legna che rintrona sul selciato delle corti.

 

Tutto l’inverno in me s’appresta a rientrare;

ira, odio, brividi, orrore duro e forzato

lavoro e, come il sole nel suo inferno polare

il cuore non sarà più che un blocco rosso e ghiacciato.

 

Rabbrividendo ascolto ogni ceppo che crolla;

non ha echi più sordi l’alzarsi di un patibolo.

Il mio spirito è simile alla torre che barcolla

ai colpi dell’ariete instancabile e massiccio. »

 

Charles Baudelaire, da “Canto d’autunno, Les Fleurs du Mal

 

Alea iacta est

- Il dado è tratto -

 

- Mi raccomando, infilate i guanti in pelle di drago prima di maneggiare l’Asfodelo, molte piante sono circondate dalle ortiche. Potreste procurarvi fastidiose irritazioni – concluse con voce gentile e decisa la professoressa Sprout, facendo scorrere lo sguardo attento sui visi chini dei ragazzi del sesto anno. – Dovreste ormai sapere bene che l’Asfodelo, con le sue radici, è un ingrediente fondamentale per la preparazione di molte pozioni – aggiunse dopo qualche momento, osservando il lavoro meticoloso di una ragazza Serpeverde intenta ad estrarre le radici da uno dei larghi vasi popolati di ortiche, quasi alla fine della serra numero due. Accanto a lei, un alto ragazzo biondo puliva distrattamente le radici dal terriccio con un pennello a setole scure, gettandole poi in uno stretto contenitore di vetro. Le sue mani lunghe e affusolate riuscivano a conservare il loro fascino aristocratico nonostante fossero brunite dalla terra, trattando i tozzi tuberi quasi con una punta di disprezzo ed altezzoso disappunto. La luce polverosa del sole invernale gli lambiva appena il capo, animando alcune ciocche chiarissime di bagliori argentei.

La ragazza china vicino a lui sembrava parlargli senza curarsi se lui fosse attento alle parole che lei gli stava dicendo. Aveva i lunghi capelli castano chiaro raccolti in una treccia spessa che si gettava continuamente dietro la schiena, aiutandosi con le spalle. Alcuni ciuffi ribelli erano però riusciti a sfuggire ed ora le cadevano davanti alle orecchie, arricciandosi quel poco che bastava a conferirle un’aria da fanciulla, che contrastava con l’inaspettata profondità che i suoi occhi nocciola possedevano. Anche il suo corpo, celato in gran parte dall’ampia cappa che gli studenti utilizzavano nelle ore di Erbologia, sembrava essere una contraddizione affascinante: magro, quasi ossuto a livello delle ginocchia, assumeva poi la morbidezza delle linee femminili lungo i fianchi e la parte alta del torace, senza però privare l’insieme di quella componente immatura, nervosa, quasi acerba, che tracciava le linee essenziali della sua persona e del viso ovale. La bocca piccola, poco più scura del resto della pelle, si muoveva in continuazione, articolando parole, frasi, periodi incomprensibili nel brusio generale che aveva invaso lo stretto ambiente, espandendosi fino al soffitto di vetro opaco.

L’attenzione dell’insegnante di Erbologia si spostò poi su altri due Serpeverde, alti e corpulenti, che al momento stavano discutendo in modo abbastanza acceso con due ragazze Corvonero.

Draco Malfoy notò a stento che la professoressa Sprout aveva alzato la voce contro Crabbe e Goyle, nell’intento di placare l’animosità dei due. Non poté comunque trattenersi dall’arricciare le labbra sottili in una smorfia di scherno… riuscire a far ragionare quei due ammassi di muscoli era impossibile quanto bloccare lo scorrere del giorno. O quanto zittire Pansy Parkinson, che imperterrita continuava a chiacchierare sull’imminente Ballo del Ceppo che quest’anno si sarebbe tenuto subito dopo Natale. Sapeva quello che la ragazza desiderava: essere invitata da lui, ancora una volta, così come era successo due anni prima… o quasi. La verità era che durante il quarto anno lei si era autocandidata come sua dama senza che lui potesse dire o fare nulla per impedirglielo. In fin dei conti non gli era importato molto, anzi… aveva lasciato scivolare su di sé l’allegria ed il generale buonumore che aveva riempito la Sala Grande quella sera, rimanendovi indifferente.

Restando estraneo.

Pansy sarebbe stata accanto a lui anche quella volta, non aveva da preoccuparsi di nulla. In fondo quasi tutti a Hogwarts li consideravano ormai una coppia, anche se non si erano scambiati neanche una carezza, un gesto d’affetto.

Aveva deciso che non gli importava.

La verità era che non sapeva se egli stesso fosse capace di gesti d’affetto.

Lo era mai stato?

Forse… forse si, da piccolo.

Tutte le volte che si era rifugiato nel lettone matrimoniale, tra le braccia di sua madre, durante quelle notti in cui suo padre era assente dal Malfoy Manor.

Tutte le volte che aveva asciugato le sue lacrime contro la seta color crema della camicia da notte di Narcissa, mentre lei lo cullava mormorandogli parole senza senso, ma dalla melodia bellissima.

Tutte le volte che aveva sentito le guance sfiorate dai morbidi capelli d’oro di sua madre e la fronte rinfrescata da un bacio lieve posato a fior di labbra dalla bocca soffice di lei.

Tutte le volte che lei gli aveva posato una mano tra i capelli, accarezzandogli la testa pallida mentre una breve e cristallina risata gli sfiorava le orecchie… il riso di sua madre, qualcosa che aveva sigillato nella memoria per poterlo sentire e risentire ad anni di distanza, senza che nessuno lo schernisse per questo… senza che suo padre gli dicesse che non era quello il comportamento di un vero Malfoy.

 

Malfoy

 

Un nome che amava ed odiava. Il suo privilegio, la maledizione che gli ingabbiava il destino.

- Draco? – la voce acuta, ma non irritante di Pansy lo strappò dalle sue inconsuete riflessioni. Il sedicenne sbatté le palpebre un paio di volte, stupito di vedere sul volto della ragazza un’espressione sconcertata.

- Che vuoi? – sbottò, pur senza volerlo.

- Ma non hai sentito? La Sprout ha detto che hai una visita! Non so chi ti stia aspettando davanti all’ingresso principale, non ho capito bene. Ma tu muoviti! -

Draco guardò Pansy come se la stesse vedendo per la prima volta.

Una visita…

Aveva una visita! Di sicuro non era suo padre, o il Castello sarebbe stato invaso dagli Auror, pensò sarcasticamente. Poteva essere solo lei

Si girò ed i suoi occhi smarriti notarono la professoressa che stava gesticolando indirizzandosi a  lui, invitandolo ad avvicinarsi verso l’uscita. Quasi incespicando nei suoi stessi passi, Draco si diresse da quella parte, pulendosi le dita sporche di terra sulla cappa verdognola che proteggeva la sua divisa.

- Signor Malfoy, venga, la stanno aspettando – esordì l’insegnante, facendogli segno di levarsi l’incerata da lavoro. Lui quasi se la strappò di dosso, restando in divisa.

- Chi è, sa dirmelo? – chiese, non senza ansia nella voce.

- Non ne sono certa, ma credo di aver riconosciuto sua madre – replicò la donna in modo almeno all’apparenza cordiale – Si sbrighi, la troverà all’ingresso. - 

 

……………………………………………………

 

- Ooh, posso prenderne uno? – esclamò all’improvviso Luna Lovegood con voce sognante, vedendo un gruppetto di bicchieri ricolmi di un curioso liquido porpora sull’ampia scrivania nell’ufficio circolare di Dumbledore.

- Certo, miss Lovegood, sono lì apposta per lei! Succo di ribes con cipollina, vero? – asserì gentilmente Dumbledore, inclinando la testa da un lato, gli occhi azzurri e tersi fissi in quelli grandi ed argentati della quindicenne Corvonero. Luna lo guardò, ancora più stupefatta del solito:

- Come faceva a sapere che fosse la mia bevanda preferita? – gli chiese, prendendo un bicchiere e cominciando a girare il succo di ribes con il bastoncino di legno sulla cui sommità era infilzata una cipolla grossa quanto una noce. Senza che l’espressione sognante svanisse dai suoi occhi, la ragazza afferrò il bastoncino, lo capovolse, intinse la cipolla nel liquido denso e prese a succhiarla con evidente soddisfazione. Dumbledore si limitò a sorriderle, scorgendo alla periferia del suo campo visivo l’espressione di puro ed adamantino disgusto che aveva disposto il volto di Snape in una smorfia schifata. Luna parve improvvisamente ricordarsi della presenza del professore di Pozioni, perché si voltò di scatto verso di lui, dando incurante le spalle al preside:

- Ne prende una anche lei, professore? – gli chiese serenamente, nonostante il ghigno dell’uomo avrebbe dovuto comunicarle tutt’altro.

- No. - si sforzò di rispondere Severus. La ragazza continuò a sorridergli per alcuni lenti istanti, apparentemente ignorando il tono stridente del monosillabo uscito graffiando dalle labbra strette di Snape. Qualsiasi altro studente avrebbe avuto l’impressione di frantumare cubetti di ghiaccio sotto i denti nel sentire la risposta dell’uomo, ma la giovane Corvonero sembrava non essere minimamente infastidita dalla scontrosità del suo carattere, della sua voce, del suo atteggiamento scabroso.

Lei invece gli sorrideva, gli occhi argentei spalancati, fissandolo come se stesse contemplando un sogno vivido e a colori brillanti.

Eppure lui si sentiva come una macchia di nero denso su uno sfondo legnoso.

- Se lo desideri, Severus, per te c’è qui un po’ di gin… come al solito – disse il preside, indicando alcuni stretti ed eleganti calici colmi di un liquido trasparente. L’uomo scosse appena la testa, ma il suo diniego fu chiaro e deciso. Dumbledore si limitò a stringersi nelle spalle, indicando un paio di sedie imbottite materializzatesi all’improvviso a poca distanza dalla cattedra. Invitò gentilmente entrambi ad accomodarsi, sedendosi per primo dietro la scrivania.

Non appena i due si furono seduti, con un movimento elegante il preside fece apparire anche una terza sedia. Snape stava per domandarsi chi Dumbledore stesse aspettando, quando un rumore di passi alle sue spalle lo fece voltare. La porta dell’ufficio si aprì, rivelando l’alta e pallida figura di Remus Lupin.

L’uomo fece un cenno di saluto al preside, poi spostò il suo sguardo dorato prima su Severus, gratificandolo con un sorriso gentile che Snape non aveva richiesto, poi sulla magra ragazzina che lo stava fissando con quei suoi occhi immensi e sporgenti, la bocca socchiusa nella vaga forma di una “O”, le sopracciglia chiare inarcate dallo stupore. La vide posare il bicchiere che aveva in mano sulla cattedra, alzarsi e dirigersi velocemente verso di lui, quasi saltellando, con i lunghissimi capelli biondo sporco che le oscillavano contro i fianchi sottili.

- Professor Lupin!! Che bello rivederla! Come sta? – gli chiese, fermandosi a poca distanza. Per un attimo Remus ebbe l’impressione che lei volesse gettarsi al suo collo. Evidentemente ci aveva ripensato.

- Oh, ciao Luna. Sto abbastanza bene, grazie, e tu? – replicò, sorridendo.

- Io sto molto bene, sarà l’aria di Natale, credo. Ma lo sa che mio padre ha scritto sul Quibbler articoli su di lei, qualche tempo fa? Li ha letti? -

Lupin scosse la testa, incuriosito. La ragazza continuò, come se non aspettasse altro:

- Dovrebbe farlo, sa? Daddy ha scritto che non è per niente giusto che lei sia stato licenziato da Hogwarts solo perché è un, beh, Lupo Mannaro! Una volta poteva esserci pericolo, è vero, ma adesso, con le nuove pozioni che sono state scoperte, lei è praticamente innocuo… oh, ma immagino che questo lo sappia già. Daddy è anche venuto a parlare con il Preside, ma non c’è stato niente da fare… - la ragazza si voltò verso Dumbledore, poi guardò Severus che la stava fissando come se l’avessero inchiodato su quella maledetta sedia – Peccato che il professor Snape sia stato così… sbadato a lasciarsi sfuggire il suo problema, signor Lupin, anche se sono sicura che non l’abbia fatto apposta! – concluse, voltandosi nuovamente verso Remus, le mani che giocherellavano con una bizzarra collana di tappi di Burrobirra che aveva cacciato da sotto la sciarpa nera e azzurra, il sorriso che le andava da un orecchio all’altro, gli occhi immensi e sognanti che riflettevano le luci cremose delle candele disposte lungo i muri incurvati dell’ufficio.

Lupin non sapeva se ridere o far finta di niente. Non ebbe il coraggio neanche di spiare che forma avesse assunto la faccia di Snape e per questo continuò a guardare alternativamente Luna e le punte sdrucite delle sue scarpe marroni. Ma la voce di lei lo riscosse ancora una volta.

- Oh, professor Snape, perché è arrossito? – domandò, con il tono più candido di questo mondo.

Severus, i cui occhi neri e freddi come lo spazio si erano ristretti in due fessure alle prime parole di Luna, si ritrovò a deglutire molte volte di seguito, esercitando uno straordinario autocontrollo che vietava al suo furioso imbarazzo di esplodere ed investire quell’insignificante ragazzina dalla lingua vergognosamente lunga.

- Oh, credo proprio sia per il troppo caldo che emana il camino – intervenne Dumbledore, con deliziosa sincerità. Snape si accigliò, ma non disse nulla, seppur notando che, nonostante il volto del preside conservasse un’espressione quieta, i suoi occhi azzurri brillavano di risa soppresse.

- Miss Lovegood, Remus – aggiunse Dumbledore cortesemente, rivolgendosi ai due ancora i piedi – Vogliate sedervi… grazie. -

I due si accomodarono sulle sedie di fronte al preside e ai due lati di Severus.

- Credo sia il momento giusto per… parlare degli eventi recenti che vi hanno coinvolti e che, stando a quello che ho potuto intuire, sono in qualche modo collegati… dico bene, professor Snape? -

 

La mente di Dumbledore era incredibilmente sottile.

 

Snape l’aveva sempre saputo, sin dal suo primo anno a Hogwarts, appena undicenne. Ma non avrebbe mai immaginato che il vecchio preside arrivasse a stabilire un legame tra quello che era accaduto a lui nella Terra del Non Realizzato e lo Spirito che vegliava su Luna. Si voltò appena verso la ragazza seduta accanto a lui, gli occhi sporgenti che sembravano riflettere l’aura argentata che la sua Morte, rimasta in disparte in precedenza ed ora in piedi vicino a lei, emanava costantemente. Dumbledore sembrava non averla notata… nonostante la sua potenza fosse indubbia, Snape era certo che né il preside né Lupin, che osservava sia lui che Luna con interesse, fossero in grado di scorgere lo Spirito.

Rivolse nuovamente lo sguardo sul volto calmo del vegliardo. I suoi occhi chiari, dietro gli occhiali a mezzaluna, erano penetranti, ma non intrusivi.

Non invadenti… L’opposto dello sguardo infuocato del Lord Oscuro, si disse.

A Snape venne quasi da sorridere… la gentilezza di Dumbledore risultava essere, alla fine, la sua arma più tagliente.

Respirò piano.

Gli avrebbe rivelato quasi ogni cosa. In fin dei conti, non era la prima volta che accadeva, anche se ora l’avrebbe fatto in presenza di altre due persone, un membro dell’Ordine… ed una strana, irritante ragazzina che sembrava essere un po’ tocca.

Si, quasi ogni cosa. Ma nel suo racconto, sarebbe stato solo.

Snape si preparò, relegando l’immagine di lei negli angoli più bui della sua mente.

 

………………………………………………

 

La neve abbondante era stata ammucchiata in diversi cumuli ai lati del viale, in modo da lasciare libero il passaggio. Bellatrix osservò l’acqua grigia nelle pozzanghere che costellavano la strada, cercando di tenere la mente sgombra dai troppi pensieri che si mangiavano a vicenda, preparandosi all’incontro con suo nipote.

Il primo incontro dopo quindici anni.

Non aveva visto il figlio di Narcissa da quando era un bambino di un anno e mezzo. Lo ricordava appena, rammentava il visetto chiaro, i capelli biondissimi identici a quelli del padre, lo sguardo grigio come quello di Lucius, tuttavia negli occhi di Draco lei vi aveva potuto scorgere anche l’azzurro intenso di sua sorella, che picchiettava le iridi del figlio intorno alla pupilla.

Fissò per un istante la sua immagine riflessa dall’acqua: le pesanti vesti di velluto amaranto, il mantello bordato di ermellino, i capelli di sole che le lambivano la schiena all’altezza dei gomiti. Si sentiva strana con l’aspetto di sua sorella… quella luminosità che Narcissa sembrava irradiare da ogni centimetro della sua figura non era adatta a lei.

Preferiva l’ombra… la notte. Il gelido nero dei suoi capelli, dei suoi occhi, la carnagione scurita dalle sabbie e dal sole del Sahara.

Quella luce la faceva sentire nuda.

Vulnerabile.

 

All’improvviso lo vide… e la sua meraviglia fu grande.

Verso di lei stava venendo non un ragazzo, ma un uomo. Alto, slanciato, il manto nero della divisa che si muoveva alle sue spalle come se animato da vita propria, il portamento fiero, altero, le diedero l’impressione di rivedere Lucius ai tempi della scuola. Tuttavia, anche se la somiglianza con il padre era strabiliante, Draco in qualche modo era molto diverso da lui. Non c’era solo il sangue dei Malfoy nelle sue vene, anzi, sembrava che la grazia fredda e aristocratica della casata di Lucius si fosse illuminata della nobile e calda eleganza dei Black.

Si, Draco era figlio di sua madre.

Il ragazzo le venne incontro lentamente e Bellatrix ebbe come l’impressione che lui stesse attentamente calibrando i suoi movimenti, non lasciando nulla al caso, o all’istinto. Le fu chiaramente percepibile il motivo di tale atteggiamento, perchè era così… innaturale. Che l’educazione ricevuta da Lucius avesse intaccato e forgiato a proprio piacimento persino l’affetto che un figlio poteva nutrire per sua madre, intrappolando l’irruenza della giovinezza nei rigidi dettami del portamento che un Malfoy necessariamente doveva avere?

La donna confinò le domande in un recesso della propria mente, accorgendosi che non voleva dare una risposta.

 

 

Succedeva sempre.

Tutte le volte, ogni volta.

Si sentiva come se qualcuno stringesse tra le mani le redini della sua volontà, della sua personalità. Non sapeva cosa lo trattenesse dal correre verso sua madre e gettarsi tra le sue braccia come un bambino. Non sapeva cosa stesse frenando i suoi passi, facendolo avanzare piano verso di lei… lei, bellissima nel suo abito di velluto scuro che rubava dal sole e dalla neve circostante riflessi color prugna… le braccia lungo i fianchi, una borsetta di medie dimensioni stretta nella mano destra.

Lei, che lo stava guardando senza evitare che lo stupore ingrandisse i suoi occhi celesti.

 

 

- Draco… - mormorò Bellatrix piano, quasi temesse che le sue parole potessero in qualche modo dissolvere nell’aria dicembrina l’immagine di lui, fermo a qualche metro di distanza.

- Madre – rispose il ragazzo, regalando a quell’appellativo così rispettoso e formale una nota colorata di tenerezza. La donna sorrise appena, incurvando lievemente le belle labbra:

- Vieni qui – disse, accompagnando la richiesta con un gesto accennato della mano libera. Lui si avvicinò ulteriormente, fino a che Bellatrix non poté sfiorargli con la punta delle dita una ciocca di capelli chiarissimi che gli ricadeva sulla fronte bianca, guardandolo dal basso verso l’alto.

- Sei diventato un uomo, ormai… - sussurrò lei, accarezzandogli una guancia con il dorso delle dita, notando comunque la sua espressione stranita, come se quello che stesse facendo fosse per Draco motivo di smarrimento, stupore… di incredulità.

Distolse per un istante gli occhi dal volto del ragazzo, sincerandosi che nessuno l’avesse seguito, e all’improvviso sentì qualcosa bagnarle la mano: riportò l’attenzione sul nipote, dischiudendo la bocca in un’espressione sorpresa quando vide le lacrime morire nella lana della sciarpa verde-argentea del ragazzo. Stava per chiedergli cosa avesse, ma si bloccò in tempo, mentre la comprensione si faceva strada verso di lei, accompagnata dal dispiacere.

Soltanto ora capiva in pieno le parole di sua sorella… “Dì a Draco che lo amo”, aveva detto Narcissa.

Sulle prime Bellatrix aveva pensato che fosse una frase abituale che la sorella dicesse a suo figlio, ma le lacrime trasparenti sulle gote candide del ragazzo le stavano facendo comprendere un’altra verità… più profonda, più nascosta, più dolorosa.

Lei gli aveva fatto una carezza, un gesto spontaneo, quasi banale per la maggior parte degli esseri umani.

Una carezza che aveva scombussolato quel giovane uomo che tentava inutilmente di controllare anche il pianto, serrando le mascelle in un’espressione ingannevolmente dura.

Da quanto tempo Narcissa non gli dimostrava l’amore che provava per lui con tutta se stessa?

 

“Dì a Draco che lo amo”

Non glielo avrebbe detto, glielo avrebbe dimostrato.

Con i gesti, con le mani. Era più facile credere alle mani che alle parole… e non gli avrebbe detto che in realtà lei era sua zia, non voleva infliggergli nuova sofferenza.

Bellatrix lo trasse a sé, sollevandosi sulle punte dei piedi e baciandolo sulla fronte, tenendogli il viso tra le mani.

- Le lacrime portano via il dolore, Draco… lascia che vadano via da te – mormorò con dolcezza materna, senza sapere come avesse fatto a donare alla sua voce quel timbro così rassicurante.

Il giovane annuì, poi, si svestì delle sue catene.

E abbracciò quella che credeva sua madre, poggiando la testa bionda sulla spalla di lei, singhiozzando sommessamente.

Anche Narcissa meritava tutto questo, pensò Bellatrix. Sua sorella aveva bisogno dell’amore di suo figlio, come lui necessitava l’amore di lei.

- Draco – disse dopo un po’ Bellatrix, parlando sommessamente – Devo parlare con Severus Snape. Puoi farlo condurre a me? -

Il ragazzo si staccò da lei, gli occhi ancora lucidi di pianto, le guance appena arrossate dall’aria invernale. Annuì ancora una volta e le sue labbra si incurvarono in un sorriso sincero.

 

……………………………………………………

 

- Ho visto quella strana figura avanzare scintillando verso di me… era vecchia e giovane allo stesso tempo, un volto chiaro e sfuggente, non credo di poterlo descrivere altrimenti. Poi… -

Severus Snape guardò le proprie mani intrecciate in grembo prima di proseguire il suo racconto. Dumbledore attese pazientemente che l’insegnante riprendesse la parola. Di fronte a lui e ai lati di Severus, sia Luna sia Lupin parevano non perdersi una sola sillaba di quella affascinante e misteriosa storia. Snape rialzò lo sguardo pungente, fissando direttamente il suo interlocutore negli occhi cerulei:

- Poi lei mi ha detto di essere la Mia Morte, spiegandomi che sono le Morti che si occupano delle anime dei trapassati, accompagnando però l’esistenza anche durante la vita, nonostante l’uomo sia incapace di vederle. -

Seguì una lunga pausa, spezzata a tratti dal frusciare delle scarpe di Luna, che aveva inconsciamente ricominciato a dondolare i piedi. Tuttavia i suoi occhi avevano perso quell’espressione sognante che li copriva come una pellicola: la ragazza fissava attentamente l’insegnante di pozioni con una serietà che forse metteva ancora più a disagio della sua solita aria perennemente stupita.

- Morti? Vuoi dire che ogni uomo sulla Terra ha come custode la propria morte? – domandò Remus, non riuscendo a trattenersi oltre. Snape si voltò verso di lui, gli occhi gelidi stretti in una minaccia non tanto velata, tuttavia si ritrovò ad annuire, anche se controvoglia.

- Allora è questo che sono! Le Morti! Daddy non ci crederebbe mai… non è come per gli Eliofanti, in questo caso non c’è alcuna evidenza che loro esistono davvero! – esclamò vivacemente Luna, gli occhi sporgenti accesi dall’eccitazione.

Con tutta probabilità non aveva udito il ringhio di Snape nel momento in cui aveva accostato le parole “Eliofanti” ed “evidenza”, perché continuò, imperterrita:

- Ed io che lo chiamavo “Angelo d’argento”… beh, dopotutto lui mi ha parlato solo qualche volta, dicendomi di essere forte e che Mummy sarebbe stata sempre accanto a me, così io l’ho detto anche al mio papà, povero Daddy, quando è morta la mamma non sapeva proprio che fare per cont~ -

- Luna – la interruppe gentilmente Dumbledore, riuscendo in un impresa che a Snape pareva impossibile – di chi stai parlando? Vedi qualcosa? – le domandò con un mezzo sorriso.

- Ooh, certo!! Vedo la… come l’ha chiamata il professor Snape? Ah si, la “Mia Morte”, ma non sono mica la sola, anche il professore riesce a vederla! -

- E’ così, preside – mormorò Severus, girandosi verso la ragazzina e fissando per un lungo istante la figura argentea che baluginava accanto a lei. – Riusciamo a vederla entrambi – sussurrò, senza distogliere lo sguardo e dando l’impressione a Lupin e a Dumbledore di star osservando il muro.

- Interessante… estremamente interessante, Severus. – si limitò a commentare il preside, passandosi una mano sulla barba fluente.

- Non è tutto – aggiunse Snape, ritornando a guardare l’anziano – La mia Morte ha detto che dobbiamo agire in fretta perché… l’Oscuro Signore ha intrappolato dentro di sé la sua Morte per poter conquistare la vita eterna. Così facendo egli ha divelto l’equilibrio del cosmo, invertendo la direzione naturale delle cose: se questa non verrà ristabilita, sarà la fine di tutto. – concluse, scemando pian piano il tono di voce.

- Ora capisco molte cose, Severus – mormorò il preside, più che altro rivolto a se stesso – Voldemort è riuscito a sopravvivere incorporeo per tredici lunghi anni non perché ha bevuto sangue di unicorno, o perché è vissuto dentro i ricordi di un diario o ancora perché ha condiviso il corpo e la mente di un professore sventurato… E’ sopravvissuto perché ha costretto la sua vita a proseguire, fin quando non ha riavuto un corpo. -

- Quindi Voldemort deve aver intrappolato la sua Morte da almeno… quindici anni! – esclamò stupefatto Lupin, guardando ora Severus, ora Dumbledore.

- Dal trentuno luglio di sedici anni fa – dettò una voce profonda, dal sesso indefinito, ma chiara ed inequivocabile.

- Hai parlato! Finalmente hai parlato! – saltellò Luna sulla sua sedia, al culmine della contentezza. Severus si girò verso la Morte della ragazza, trattenendosi a stento dallo spalancare la bocca. Lupin si guardò istintivamente intorno, sebbene sapesse con certezza che non avrebbe visto niente. Dumbledore invece si limitò a guardare la giovane Corvonero che aveva ripreso a succhiare la sua cipolla immersa nel succo di ribes.

- E’ la data di nascita di Potter – disse Snape in un soffio.

- Esattamente, Severus. Questa è un informazione fondamentale che temo non avremmo trovato in nessuna Profezia – replicò il preside con un sospiro.

- Non l’avrei mai immaginato… - mormorò Remus, stupefatto.

- Non è tutto – riprese a parlare la voce incorporea – Molti credono che il Velo nel Dipartimento dei Misteri esista da sempre, invece non è così. E’ pur vero che quel Velo è in quel posto da secoli, ma per molto tempo esso non è stato che un passaggio per un’altra terra, sempre appartenente a questo mondo. Soltanto da poco tempo è diventato qualcos’altro… Il Varco per il Regno delle Ombre. La via del non-ritorno. E’ da quel luogo che io provengo e a nessun essere umano è dato di varcare la Soglia. -

A Dumbledore non sfuggì il dolore che invase gli occhi ambrati di Lupin, scolorandogli le gote già troppo pallide…

… Sirius Black era caduto in quel dannato Varco…

Il vecchio preside non permise alla tristezza di ottenebrargli la mente: - Da quando, per la precisione, il Velo è diventato il passaggio verso il tuo Regno? – chiese con cortesia all’aria trasparente dinanzi a sé.

- Nella notte di Ognissanti, quindici anni fa. – rispose pacatamente la Morte.

Un lungo silenzio calò tra i presenti e Snape ebbe quasi l’impressione di essere lambito dalla stoffa gelida e nera di quel Velo.

- E’ la notte in cui Lily e James sono stati uccisi – mormorò alla fine Remus, stringendo il tavolo tra le nocche, fino a farsele sbiancare. – La notte in cui Harry ha sconfitto Voldemort -

- Siamo alla svolta – asserì saggiamente il preside dopo un istante.

- E’ così – parlò ancora una volta quella voce profondissima – Ma questo non è che l’inizio del viaggio. -

- Viaggio? – sibilò Snape di scatto, improvvisamente conscio a quale “viaggio” si riferisse la Morte di Luna.

- La tua mente è sorprendentemente veloce, giovane mago – gli disse la figura argentata, e a Severus parve di scorgere l’ombra di un sorriso su quel volto di ogni Tempo – Hai compreso che tu e Luna dovrete varcare la Soglia. -

- Davvero? Che bello! – esclamò tutta felice la ragazzina. – Io ho già sentito le loro voci! E anche Harry! -

- Voci? Quali voci? – non poté fare a meno di chiederle Remus, ma Luna non gli prestò attenzione.

- Non dovete temere per la vostra incolumità – proseguì la Morte, notando l’espressione di puro sgomento sul volto magro dell’uomo – Noi vi accompagneremo… perché il vostro compito non sarà facile. -  

- Noi? – sussurrò Severus, fissando poi Luna come se soltanto in quell’istante riuscisse ad intravedere la verità dietro i veli delle apparenze. – Di quale compito stai parlando? -

- La tua Morte ti attende già nel Dipartimento dei Misteri, Severus Snape. Solo quando avrete oltrepassato il Varco saprete cosa fare. –

 

 

Continua…

 

Siamo arrivati alla fine di un altro capitolo (un capitolone!) del progetto (vasto, lo ammetto) che ho nella mia testa sciroccata… spero di non avervi sconvolto troppo con la storia del Velo (ancora non sono arrivata alla parte del Regno delle Ombre, quindi preparatevi^_^)

Un paio di notucciedevo ad Amechan la descrizione che ho fatto di Pansy Parkinson: è grazie a te e alla tua one-shot, Raffy, che sono riuscita ad immaginarmi la figura della nostra Slytherin dal fisico acerbo. Ti ringrazio tanto! (A proposito, consiglio caldamente a tutti la lettura di “Verità Supposte”!)

Ammetto anche un’altra cosa: come direbbero gli inglesi…

I’m growing absolutely fond of Luna Lovegood!

Per quanto riguarda il rapporto di Draco con Narcissa ( anche se in questo caso si tratta di Bellatrix), ho voluto approfondire quanto scritto dallo stesso Draco nella lettera indirizzata a sua madre di qualche capitolo fa (ve la ricordate, vero?)

Infine vi anticipo una chicca del prossimo brano… Severus incontrerà Narcissa-Bellatrix: posso dire che le fan della ship Severus-Narcy saranno contente*_* ( almeno è quello che spero^_^)

Alla prox! Vi adoro!

Charlie.

Ritorna all'indice


Capitolo 17
*** Ex nihilo te creavi ***


Evviva, evviva evviva

Disclaimer: Bellatrix Lestrange e gli altri personaggi che compaiono in questa fanfiction sono proprietà di J.K. Rowling e di editori come Bloomsbury, Bros, Salani. Nessuna violazione del copyright si ritiene pertanto intesa.

 

 

 

“Sopra gli stagni, sopra i monti e le vallate,

sopra le foreste, le nuvole, gli oceani,

al di là del sole, oltre gli spazi eterei,

al di là dei confini delle sfere stellate,

 

spirito, tu ti muovi con agilità,

e, come un buon nuotatore nell’estesi dell’onda,

solchi festosamente l’immensità profonda,

con un’indicibile e maschia voluttà.

 

Fuggi lontano da questi morbosi miasmi,

vola a purificarti nell’aria superiore,

e bevi, come un celestiale liquore,

il chiaro fuoco che colma i limpidi spazi.”

 

Charles Baudelaire, da Elevazione, Les Fleurs du Mal

 

 

Ex nihilo te creavi

- Ti creai dal nulla -

 

 

Aria in cammino.

 

Era come aria fredda, che si muoveva veloce, protetto dal mantello vellutato che catturava, avido, i riflessi delle fiaccole fissate alle pareti del corridoio sotterraneo, annegandone la fiamma nella sua viscosità nera.

Lord Voldemort procedeva verso quella cella, i passi silenziosi, ogni rumore nascosto come se l’intero mondo fosse sprofondato in un abisso di nebbia settembrina. Il vago chiarore che permeava l’ambiente illuminava a tratti il suo viso bianchissimo, strappando, a livello degli zigomi, bagliori verde-oro, come se sotto la pelle cerea si nascondessero scaglie luminose di rettile.

La mista natura del suo corpo aveva cominciato a manifestarsi, smussando, levigando le fattezze umane, per poi riplasmarle lentamente, ma con spietata precisione, in quelle serpentine, fredde ed inquietanti.

All’improvviso si fermò, portandosi una mano al volto, passandone poi il dorso sotto il mento per poter catturare il rivolo di veleno che stava sgorgando incontrollato dalle labbra purpuree. Osservò quella lacrima mortale scintillare trasparente tra le dita: da qualche giorno si era reso conto che avrebbe potuto uccidere con un morso, affondando i suoi denti venefici nel collo di qualche inutile e sfortunata vittima. Lo stesso giorno in cui si era accorto che la sua lingua aveva cominciato a biforcarsi e a rivelargli tutti i segreti dell’aria circostante.

Il bisogno di possedere un nuovo corpo si era fatto urgente… Bisogno che durante le ore più profonde della notte s’intingeva nella più cupa e gelida disperazione.

Doveva trovare Bellatrix, si disse per l’ennesima volta, riprendendo a camminare con un lieve frusciare di vesti.

Voleva un nuovo corpo.

Voleva suo figlio e l’avrebbe avuto pure a costo di smantellare le fondamenta della Terra.

E forse… adesso… aveva trovato un modo.

 

Arrivò davanti alla cella di Barty Crouch in breve tempo, seguendo le torce che tracciavano incostanti il cammino lungo il corridoio umido. La sua mano si aprì e velocemente si richiuse, la vecchia porta dell’angusta stanzetta sussultò, poi, cigolando sui cardini, si schiuse lentamente, quasi fosse esitante.

Il debole chiarore sospeso a mezz’aria penetrò all’interno, disegnando i contorni di una figura sottile, quasi evanescente. Gli occhi scarlatti di Lord Voldemort si soffermarono sul volto scarnificato dell’uomo, sul vuoto che si contorceva dietro le pupille dilatate… e sulle mani, spettrali e scheletriche, le linee dei palmi evidenti come piaghe.

- Barthemius – sillabò piano, come se stesse recitando la formula di un incantesimo. Avanzò verso l’uomo rattrappito sulla parete, gettando la sua ombra su di lui, sulle sue carni spolpate dal niente. Sollevò le proprie braccia, mentre il corposo mantello che le avvolgeva scivolava all’indietro a scoprire i polsi bianchi e sottili. Artigliò le spalle fragili di Crouch e lo trasse a sé, fino a portare il viso devastato di lui all’altezza del proprio volto.

- Barthemius – ripeté, fiato gelido contro fiato gelido.

E, con un movimento fulmineo, lo baciò.

E lo morse.

Ripetendo all’inverso il gesto del Dissennatore che aveva privato Barty Crouch della sua anima, Voldemort catturò quella bocca distrutta con la sua, affondando all’interno del labbro inferiore i suoi canini stillanti veleno e magia. Con gli occhi rossi fissi in quelli senza memoria dell’uomo e utilizzando tutta la sua potenza, cercò di restituirgli, se non l’anima perduta per sempre, almeno la consapevolezza della sua esistenza.

 

Sangue, veleno, magia… e Barthy Crouch si sarebbe destato dalle sue miserevoli ceneri e sarebbe tornato ad appartenergli ancora una volta, totalmente e in maniera più completa di prima.

 

Si staccò da lui lentamente, con cautela, ma non lasciò la sua presa sulle spalle scheletriche dell’uomo senz’anima.

- Vivi per me, Barthemius, vivi con me. Vivi di mesussurrò, poi soffiò nella bocca dell’uomo ancora socchiusa, le piaghe delle labbra riaperte dai denti dell’Oscuro Signore. Il veleno diluito nella magia si mescolò nel corpo arido dell’ex Mangiamorte, riempì i vuoti, colmò gli spazi, trasudò dai pori. Le mani che avevano spaventato molti altri accoliti si sollevarono, posandosi sulle gote incavate di Lord Voldemort, ne tastarono l’ossatura fine del volto. Lui lo lasciò fare e non si scostò.

 

Barthemius Crouch jr non riebbe l’anima, non riebbe i ricordi di una vita intera. Non tornò ad essere se stesso. Ma riconobbe il suo Signore e si prostrò dinanzi a lui, abbracciandone le ginocchia e poggiandovi la testa.

Voldemort posò le mani alabastrine sul capo quasi calvo dell’altro.

- Portami Bellatrix Lestrange e colui che ella partorirà – mormorò piano, con un sibilo suadente, irresistibile.

Un fremito d’assenso gli disse che Barty aveva compreso il suo compito e che avrebbe eseguito gli ordini, qualsiasi cosa fosse accaduta.

Barty avrebbe obbedito.

Barty non avrebbe fallito.

Ora non restava che attendere… L’Oscuro aveva ottenuto quello che voleva. Un’appendice di se stesso.

La sua marionetta.

 

…….………………………………………………

 

- Ma la notte di Ognissanti è pure il giorno del mio compleanno! – esclamò Luna Lovegood, meravigliata, gli occhi color pioggia sporgenti come sempre – Anche se devo dire che mi dispiace molto che sia lo stesso giorno in cui sono morti i genitori di Harry, si, insomma, se avessi potuto sarei nata un giorno prima o un giorno dopo invece che il trentuno ottobre, non credo mi sarebbe dispiaciuto, in fondo un giorno vale l’altro e io non avrei fatto certo storie, avrei dovuto dirlo a-

- Non è certo colpa sua, signorina Lovegood… - asserì gentilmente Dumbledore, mettendo un freno a quello straparlare simile ad un fiume in piena e guardando significativamente sia Severus, sia Remus seduti dinanzi a sé. La data di nascita di quella strana e unica ragazzina non poteva certo essere una coincidenza.

– Ora, se vuol essere così gentile da dirmi se se la sente di andare nel Regno delle Ombre con il professor Snape e il suo “Angelo d’argento”, le sarei molto grato - continuò il preside, riportando lo sguardo azzurro su di lei. Luna lo fissò come se avesse visto qualcosa di incredibile (un Cannolo Balbuziente, forse) e poi gli rispose quasi gridando:

- Allora si va davvero dietro quel Velo? Davvero davvero? Per tutti i Ricciocorni Schiattosi, ma è una notizia fantastica! Certo che me la sento! – esclamò la ragazza, saltellando sulla sedia per la contentezza, i pugni stretti in segno di vittoria, gli occhi, già normalmente sporgenti, ancora più fuori dalle orbite per l’eccitazione. Se la Corvonero divenne all’istante la personificazione della felicità, colui che avrebbe dovuto accompagnarla d’altro canto non poté immediatamente incarnare meglio la tetraggine.

Severus Snape era rimasto quasi stordito dalle ultime parole che la Morte aveva pronunciato in loro presenza e in più stava riflettendo su cosa potesse significare la concomitanza della nascita della “svampita Lovegood” con la morte dei Potter, perciò gli c’era voluto più di un istante per comprendere appieno quello che avrebbe significato la “sentenza” appena emessa: varcare un confine proibito, inoltrarsi in un universo quantomeno pericoloso in primo luogo perché sconosciuto, compiere una missione della quale ignorava ogni cosa… il tutto con la sgradevole compagnia di una ragazzina che sembrava un folletto uscito da un libro scarabocchiato… Guardò la figura argentea che se ne stava placida ad osservare gli schiamazzi insopportabili di Luna e il dubbio di uscirne vivo cominciò suo malgrado a farsi largo nella sua coscienza incredula.

- Miss Lovegood, se vuole tornare al suo dormitorio per prepararsi per il viaggio… - disse affabilmente Dumbledore, riuscendo a catturare su di sé l’attenzione di quel paio d’occhi cronicamente stupiti.

- Vorrebbe dire, Preside, che partiamo ora? – domandò Snape, con un sibilo.

- Immediatamente, Severus. Lo hai sentito bene quanto me, non abbiamo un minuto da perdere… Tuttavia, se ritieni di non essere in~ -

- Per me va benissimo – lo interruppe, caustico. Poi, senza più pronunciare un solo monosillabo, si alzò, rigido, e voltandosi uscì dallo studio circolare di Dumbledore, seguendo Luna che l’aveva preceduto continuando a saltellare per la contentezza. Il suo atteggiamento non sorprese né il preside, né Remus Lupin, che era rimasto in silenzio per tutto il tempo, i pensieri rivolti al passato remoto, doloroso… e al passato recente, atroce.

La porta si chiuse alle spalle del professore di Pozioni e i suoi passi si persero in lontananza. Dumbledore emise un sospiro rassegnato, poi si diresse verso il camino, prelevando da un vaso posto sulla mensola un pugno di polvere rossa, fine e scintillante come la sabbia. La gettò tra le fiamme del camino quasi con noncuranza: pochi attimi più tardi, il fuoco che danzava forsennato nel focolare s’immobilizzò, come se qualcuno avesse fermato il tempo, ed assunse un colore sempre più tendente al viola. Il preside annuì soddisfatto, poi tornò a sedersi di fronte a Lupin. Gli occhi ambrati del Lupo Mannaro lo scrutarono interrogativi, non osando però chiedergli alcun tipo di chiarimento. Dumbledore prese alcune pergamene da un cassetto apparso magicamente sotto la sua scrivania, cominciando a leggerle con attenzione, mentre gli occhiali a mezzaluna gli scivolavano lungo il dorso del naso, arrestandosi sulla punta aquilina.

- Preside - chiese Lupin dopo qualche istante trascorso in silenzio – Lei sapeva che Luna Lovegood fosse nata durante… quella notte? -

La risposta di Dumbledore fu preceduta da un lungo silenzio.

- Si, Remus. Ne ero a conoscenza -

- E non ha mai pensato a qualche collegamento? – replicò l’altro.

- Per la verità no, fino a questo momento, Remus – ammise il preside – Avevo notato la particolare coincidenza quindici anni fa, ma al tempo lo ritenni un evento del tutto casuale… in fondo sono nati altri bambini durante quella notte in ogni angolo della Terra, maghi e babbani. Poi, quando Luna è arrivata ad Hogwarts, mi ha colpito la sua… particolarità, che attribuii al fatto che fosse figlia di Diana Silverwood. Somiglia molto a sua madre, più di quanto lei stessa immagini. Soltanto ora, dopo quello che abbiamo scoperto, ho cominciato a pensarla diversamente. Bisognerà indagare… Chiedo venia per la mia miopia… immagino stia diventando troppo vecchio per queste cose.- concluse Dumbledore, amareggiato, tornando a osservare le pergamene.

- Sa bene, preside, che senza di lei non riusciremmo a far nulla! – disse Lupin, con enfasi.

Dumbledore sollevò gli occhi penetranti sull’uomo che gli sedeva di fronte, accennando un mezzo sorriso.

- Non ne sarei così sicuro, Remus – disse.

Lupin scosse la testa, abbassando gli occhi in grembo.

- Tornerò a Grimmauld Place? – chiese l’uomo, dopo qualche istante di pausa. Pronunciare quel nome risultò essere più faticoso di quanto si sarebbe aspettato.

- Non esattamente, Remus. In verità ti ho fatto venire qui nel mio studio non soltanto perché volevo che sentissi il racconto di Severus -

- Significa che c’è dell’altro? – replicò Lupin, sorpreso.

- Più precisamente, c’è qualcun altro. Come hai potuto notare dal fuoco incantato nel camino, sto aspettando una persona cui devo affidare un compito particolarmente delicato e… ti devo chiedere di accompagnarla. Naturalmente sentiti libero di accettare o di rifiutare quello che ti proporrò – disse Dumbledore, guardando attentamente il volto stanco e attento dell’uomo.

- Si tratta di un membro dell’Ordine? – volle sapere Remus, nell’animo già la certezza che avrebbe accettato.

Dumbledore quasi ridacchiò: - Oh, no, non è un membro dell’Ordine, ma teme Voldemort sicuramente molto più di noi. E tra un istante potrai vedere tu stesso di chi si tratta –

Le fiamme immobili e violacee infatti avevano cominciato ad arrotolarsi su se stesse, sbiadendo e formando una sorta di vortice quasi trasparente, che girava lentamente come se fosse una crema. Dall’insolito impasto di fiamme vennero fuori un paio di braccia brancolanti coperte da un pesante mantello.

Dumbledore si alzò, subito imitato da Lupin. Afferrarono ciascuno una mano, tirando con forza.

Igor Karkaroff venne catapultato all’interno dello studio del preside con cristalli di neve ancora intrappolati tra la folta pelliccia che ornava la parte superiore del mantello. I suoi occhi chiarissimi incontrarono il volto indurito di Lupin, poi lo sguardo azzurro di Albus Dumbledore.

- Salve Igor. Gradisci una tazza di te? – gli chiese questi, facendogli segno di accomodarsi.

 

La Seconda Guerra stava prendendo una direzione davvero inaspettata.

 

………………………………………………………

 

Snape seguì Luna oltrepassando i Gargoyles di pietra, lo stomaco ridotto ad un nodo fastidioso: l’entusiasmo e la felicità di quella mocciosa sembravano prendersi gioco di lui e della sua effimera pazienza.

- Professor Snape! – esclamò la ragazza, voltandosi di scatto verso di lui tanto che l’uomo quasi le finì addosso – Lei non è entusiasta del prossimo viaggio? – chiese, guardandolo con un’espressione che Severus faticò non poco a decifrare, qualcosa di imprecisato tra antipatia ed ammirazione.

- Non lo sono, miss Lovegood – replicò secco, gli occhi neri scintillanti di collera mal repressa – in particolar modo perché sarò costretto a trascinarmi dietro lei. La avverto: se non la finisce di comportarsi come una stupida palla di Quidditch sottrarrò tanti di quei punti alla sua casa che i suoi colleghi la eviteranno per un anno intero. Sono stato abbastanza chiaro? – sibilò, minacciando la bacchetta verso di lei per imprimerle nella mente strampalata quel particolare concetto.

Luna lo fissò con i suoi occhi insopportabili e ancora più lucidi del solito, mentre il sorriso le scivolava via dalle labbra, ma fu solo un attimo. Subito dopo, però, riprese a sorridere, estraendo dalle pieghe della divisa la sua bacchetta e infilandosela dietro un orecchio, di nuovo allegra come se Snape non avesse pronunciato una sola sillaba.

- Non c’è bisogno, professore, davvero – gli disse tranquillamente, giocherellando con la sua collana di tappi di burrobirra – loro lo fanno già -

- Chi fa cosa? – gracchiò Snape, spiazzato da quel comportamento fuori da ogni razionalità.

- Gli altri Corvonero. Mi evitano sempre.- continuò Luna, col tono di chi stesse chiacchierando semplicemente del tempo.

Snape sbatté le palpebre. Gli occhi argentei della ragazza rimanevano invece fissi su di lui, immobili, indecifrabili.

Qualcosa stava perturbando i pensieri di Severus. Qualcosa che somigliava al disagio.

E che si avvicinava… alla pietà.

- E ti sei mai chiesta perché lo fanno? – sussurrò, sarcastico, cercando di spazzare via quell’ombra di sentimento per quella strana quindicenne che si andava accumulando nella sua testa.

Luna sorrise ancora, annuendo energicamente: - Oh, si! Una volta l’ho chiesto direttamente a una ragazza del mio dormitorio. E mi ha risposto che mi evitano perché sono fuori di testa… almeno lei ha detto così. Allora io ho replicato che la mia testa stava benissimo dov’è, ossia sul mio collo, e che ci abito volentieri, senza avere il bisogno di gironzolare per le teste altrui, e a quel punto lei si è messa a ridere forte e se n’è andata, continuando a dire che ero fuori di testa a tutta la Sala Comune, nonostante le avessi già spiegato il contrario. Mah, non capisco! Si sono poi messi a ridere tutti e sono dovuta andare in biblioteca perché con il chiasso che stavano facendo non riuscivo a concentrarmi per studiare. – disse la ragazza, interrompendosi per riprendere fiato.

Snape continuava a guardarla, muto.

 

Quinto anno, anche lui quindici anni. Persone che lo prendevano in giro.

Snivellus.

Persone che lo tormentavano.

 

- Non ricordo cosa è successo dopo – continuò Luna, tranquillamente - ma da allora mi chiamano tutti Lunatica. Io ho spiegato che il mio nome corretto è Luna, ma loro continuano a sbagliare. Perché non glielo dice lei, Professore, che il mio nome esatto si scrive e si pronuncia L-U-N-A? -

Silenzio incredulo. Poi…

- Severus! – esclamò all’improvviso una voce alle sue spalle, risparmiandogli l’ingrato compito di rispondere a quella domanda assurda.

Snape si voltò: verso di lui stava avanzando la Vicepreside di Hogwarts. Minerva McGonagall sembrava avere anche una certa fretta. Si arrestò davanti a lui, e Severus ebbe l’impressione che la donna avesse quasi il fiatone.

- Buongiorno, professoressa McGonagall! – esclamò Luna, anticipandolo.

- Salve, Minerva – rispose Snape, guardando in tralice Luna che aveva ripreso a saltellare dietro di lui, mentre la Morte argentea continuava a restare immobile ed invisibile, vicino ad una parete.

- Pensavo di trovarti nello studio del preside, Severus, ma va meglio così – prese a parlare la donna – Sei atteso giù, all’ingresso del castello: Narcissa Malfoy ha chiesto di poterti parlare… immagino che come responsabile della Casa dei Serpeverde vorrà sapere di Draco… -

 

Narcissa Black…non la vedeva da anni…

 

- O forse del marito che è da poco evaso da Azkaban! – esclamò Luna, nonostante nessuno l’avesse invitata a prendere parte alla conversazione. Snape si girò verso di lei, gli occhi ridotti a fessure:

- Al suo dormitorio, Lovegood! – sbraitò – Si vada a preparare! – e dopo aver aggiunto un “Grazie Minerva”, si diresse verso il portone centrale di Hogwarts, mentre il pensiero che a momenti avrebbe incontrato un altro, importante frammento del suo passato, gli fece sbattere il cuore contro le costole fino a fargli male.

 

 

Diciassette.

Aveva diciassette anni ed era la sera della festa dei diplomi di M.A.G.O. L’ultima notte che avrebbe trascorso ad Hogwarts, almeno da studente.

Non ricordava né i festoni, né tutti gli addobbi che il piccolo professor Flitwick aveva creato per l’occasione, sfavillanti di mille luci colorate.

Non ricordava neanche la musica.

Rammentava invece il lago, uno specchio nero venato di blu, la luna che si rifletteva sulla sua superficie immobile come una colata di oro bianco.

E Lei.

Lei, seduta sulla riva tra le margherite.

Lei, avvolta nel suo vestito di seta bianca, i capelli dorati raccolti sul capo, i riccioli che catturavano l’argento dell’astro notturno, i sandali poggiati da un lato, i piedi nudi immersi nell’acqua fredda.

Lei, Narcissa Black. Bellissima come sempre.

Le si era avvicinato quasi di corsa, come se qualcuno lo stesse tirando con una corda. Lei lo aveva scorto e l’aveva salutato, gli occhi celesti resi lucidi da una comprensibile malinconia.

Non aveva osato sedersi accanto a colei che era ufficialmente la fidanzata di Lucius Malfoy, ma era rimasto in piedi, le mani incrociate dietro la schiena, nei suoi abiti inconfondibilmente neri.

- Così… questa è l’ultima notte – aveva detto lei, tornando a guardare le piccole increspature dell’acqua scura che si formavano vicino alla riva.

- Prima o poi sarebbe dovuta arrivare – aveva replicato lui, senza nessuna particolare flessione nella voce.

L’aveva sentita ridacchiare: - Non capisco come tu faccia a rimanere sempre così imperturbabile, Severus! – aveva esclamato, poi si era alzata in piedi, quasi volesse fronteggiarlo, le labbra ancora incurvate in un sorriso delicato.

- Dono… o scherzo della natura – aveva risposto lui, stringendosi nelle spalle.

Narcissa aveva inclinato la testa da un lato, scrutandolo come se lo stesse osservando davvero. Come se avesse scorto qualcosa che prima non aveva notato.

- Vorrei averlo anch’io questo dono, o scherzo, come lo chiami tu. A volte sono così trasparente! Ti invidio un poco, sai. – aveva detto, abbassando gli occhi.

Lui si era mosso fulmineo e le aveva afferrato un polso sottile: - Non devi! – aveva esclamato più forte di quanto avesse voluto, ma lei non si era ritratta.

- E invece si – aveva risposto, fissandolo con quelle iridi color cielo – A volte vorrei essere come te. Forte come te – aveva terminato quasi sussurrando.

Snape le aveva lasciato il polso, poi aveva piegato le labbra in un sorriso amaro e si era chinato vicino ad un orecchio di lei.

- E chi ti dice che io lo sia? – aveva mormorato, piano. Il suo profumo aveva il potere di stordirlo. Si era rialzato ed aveva continuato: - Non invidiarmi, Narcissa. Non invidiare questa forza apparente, questa corazza che protegge il nulla e che mi impedisce di essere felice anche quando vorrei esserlo. Non invidiare la gabbia in cui vivo, che ho eretto per proteggermi e che ha finito per imprigionarmi. Non farlo. Non tu. Ti prego – aveva terminato, in un sussurro.

Era seguito un silenzio di ghiaccio.

- Severus… io…non volevo, non immaginavo… - aveva risposto lei dopo qualche istante, gli occhi lucidi e sgranati.

- Non importa, Narcissa -

- Non è vero – aveva ripreso lei, con più coraggio – Importa a me. Avrei dovuto capirlo da subito. Avrei dovuto saperlo da sempre. Perdonami, Severus -

- Non hai nulla da farti perdonare – aveva replicato lui. Non capiva cosa Narcissa stesse dicendo.

- Tra qualche istante avrò di che farmi perdonare, invece. – Si era fatta più vicina, la sua fragranza di fiori bianchi gli era nettamente percepibile – Vedi, io amo Lucius. Molto. Probabilmente lo sposerò, è un’occasione troppo ghiotta perché le nostre famiglie se la lascino sfuggire. Non ho mai pensato ad un matrimonio che non fosse in qualche modo “sporcato” dagli affari di famiglia, sarebbe stato da ingenui, da stupidi… o forse da semplici sognatori. Io non posso permettermelo. Tuttavia… amo anche qualcun altro, Severus. Con un’ intensità centuplicata dalla disperazione. Non avrei mai pensato che fosse possibile, ed invece… è successo. E stasera, l’ultima sera, voglio dirglielo. Voglio che lui sappia. Voglio condividere almeno questo. -

Narcissa si era avvicinata ancora, si era sollevata sulla punta dei piedi, e l’aveva baciato.

 

La sua corazza quella sera si era incrinata.

Dal nulla che albergava nel suo cuore, Narcissa Black aveva creato una fiammella che aveva rischiarato un lembo dell’anima nascosta e tremante da qualche parte dentro di lui… e lei aveva continuato a non avere niente da farsi perdonare.

Quella fiammella non si era ancora spenta.

Lui non l’avrebbe permesso.

 

………………………………………………

 

Bellatrix Lestrange lo scorse subito, impaludato nelle sue vesti nere. Stava avanzando verso di lei con passo deciso, come sempre, eppure c’era qualcosa nel portamento di Severus Snape che le ricordava il barcollare di un ubriaco.

Di qualcuno malfermo sulle proprie gambe.

Si arrestò ad un metro dalla donna bionda, muto, mentre l’aria intorno a lui sembrava crepitare. I suoi occhi d’ossidiana si soffermarono su di lei, come se volessero scavarle nell’anima.

E senza nessun preavviso, indietreggiò di scatto, corrugando le sopracciglia.

- Non sei lei – sibilò, minaccioso – Dimmi chi sei -

Bellatrix emise un sospiro, poi la sua bocca si piegò in un sorriso sghembo: - E’ proprio vero che è molto difficile riuscire a nasconderti qualcosa, Severus. –

Snape sbatté le palpebre. Aveva riconosciuto il tono di voce. Aveva riconosciuto il sorriso che sulle labbra di Narcissa non aveva mai visto.

- Bellatrix – sussurrò. La sua non era una domanda, ma un’affermazione.

- Felice di rivederti… ancora vivo, Snape. Ho cose urgenti da riferirti -

L’uomo la guardò ed annuì in silenzio.

 

A miglia di distanza, in pieno deserto del Sahara, Lucius Malfoy si teneva stretta una mano insanguinata: sferrare colpi ad un muro non avrebbe risolto nulla.

Si guardò intorno ancora una volta, imprimendosi nella mente ogni dettaglio di Emerald Ring ed ogni inequivocabile prova del passaggio di Bellatrix.

Era arrivato troppo tardi… ma questa sarebbe stata davvero l’ultima volta.

 

Continua…

 

Una piccola precisazione: ho dovuto inventare il nome della mamma di Luna, e l’ho chiamata Diana Silverwood per tre ragioni: Diana è il nome latino di Artemide, la dea della luna, ma è anche la dea della caccia (per questo il bosco “wood”nel cognome). Infine, Silver, quindi argento, sia perché evoca il colore della luna e degli occhi di Luna Lovegood, sia perché in passato gli alchimisti chiamavano l’argento “diana” a causa della somiglianza con il colore della luna, identificata dagli antichi proprio con la dea Diana.

Spero di essere stata chiara!

Ringrazio tutti coloro che leggeranno questo capitolo! Se c’è qualcosa che vi colpisce o che magari vorreste comunicarmi (accetto tutto tutto!) potete scrivere un piccolo commento. Ve ne sarei, come sempre, gratissima!

Baci baci, alla prox!

Charlie

Ritorna all'indice


Capitolo 18
*** Silentii Vestigia ***


<b>Disclaimer:</b> Bellatrix Lestrange e gli altri personaggi che compaiono in questa fanfiction sono proprietà di J

Bellatrix Lestrange e gli altri personaggi che compaiono in questa fanfiction sono proprietà di J.K. Rowling e di editori come Bloomsbury, Bros, Salani. Nessuna violazione del copyright si ritiene pertanto intesa.

Ma salve a tutti dalla rediviva Charlize! Ho letto a luglio l'HalfBlood Prince e, beh, non intendo fare spoilers, ma sembra quasi una fanfic! Pares Vires, com’era inevitabile, ora si trasformerà in un Alternate Universe, anche se non credete pure voi che l’uso degli Horcruxes sia paragonabile al tentativo di imprigionare la Propria Morte nell’anima, come succede in questa fiction? E che Crouch jr sembri quasi un Inferius?Mumble mumble, magari esagero… fatemi sapere! Charlie

 

 

 

«Colui che guarda fuori attraverso una finestra aperta non vede mai tante cose quante chi guarda una finestra chiusa.

Non esiste oggetto più profondo, più misterioso, più fecondo, più tenebroso, più splendente di una finestra rischiarata da una candela.

Ciò che si può vedere al sole è sempre meno interessante di quello che accade dietro una vetrata.

In quel buco nero o luminoso vive la vita, sogna la vita, soffre la vita.»

 

Charles Baudelaire, da “Les Fenêtres”, da «Petits Poëmes en Prose – Le Spleen de Paris» 

 

 

Silentii Vestigia

Le Orme del Silenzio

 

 

Hogwarts, Giugno 1974

 

Bellissimi.

Schierati lì, sorridenti, con il diploma M.A.G.O. stretto tra le dita, le divise di Hogwarts scintillanti al sole di fine giugno, in attesa della foto di rito.

Spensierati e, per questo, davvero bellissimi.

Riconobbe James Potter, il celebre Cercatore dei Grifondoro. Distinse i volti dei suoi amici, senza conoscerne i nomi. Dopotutto non apparteneva al loro universo.

Lei non apparteneva a nessun universo.

Il professor Dumbledore una volta le aveva detto che ogni essere umano custodisce in sé un intero mondo, una dimensione vastissima, che andava scoperta gradualmente.

Qualcosa che andava condiviso.

Lei non si era mai sentita né sconfinata, né immensa. Ed era sola.

 

Aveva paura.

Paura.

La sua strana magia.

Temeva se stessa.

 

Guardò ancora i neo diplomati delle quattro case: sapeva che, sebbene lei frequentasse solo il quarto anno, possedeva… cose che quegli studenti non avrebbero mai neanche immaginato.

La magia aveva cominciato ad isolarla dal resto del mondo, tracciando un fossato intorno a lei, scavando, scavando, scavando.

«Diana!!»

La giovane distolse lo sguardo dagli studenti del settimo. Si voltò, i capelli di un biondo cinereo, chiarissimo, seguirono i suoi movimenti. Una ragazza del sesto stava correndo verso di lei. La conosceva, era Alice Coltrane, gli occhi di un azzurro semplice, il viso luminoso, le guance innocenti, i lineamenti dolci e irlandesi. Una ragazza che avrebbe trattato con gentilezza anche il suo peggior nemico, una giovane dalle parole allegre e pacate, dall’indole riflessiva. Diana gradiva molto la sua compagnia, anche perché era una delle poche persone che non provasse diffidenza nei suoi confronti.

«Salve Alice» disse, sorridendo nel vedere le gote arrossate dell’altra.

«Ciao Diana! Che fai? Non vieni a vedere i risultati degli esami? Sono appena usciti!» disse tutto d’un fiato la sedicenne Grifondoro, prendendo sottobraccio l’amica più piccola.

Diana incurvò le labbra in un sorriso enigmatico:«Va bene, vengo» disse poi, quasi sospirando.

In realtà non aveva bisogno di andare a vedere i quadri con i voti.

Sapeva già cosa vi avrebbe trovato.

Alice sembrava piuttosto eccitata: quasi saltellava dalla contentezza. La Corvonero notò un piccolo anello che ornava l’anulare sinistro dell’amica… gliel’aveva regalato… Frank Longbottom, uno studente che si era diplomato… tre anni prima. Diana distolse lo sguardo: non voleva intrufolarsi nella vita privata della sua amica, anche se Alice aveva spesso raccontato di quanto fosse simpatico un certo Frank…

…Frank glielo aveva regalato solo qualche giorno prima… si erano visti a Hogsmeade… si erano parlati a lungo… si erano…

Diana scosse la testa, chiudendo gli occhi spazientita. Odiava il continuo centellinare di informazioni che la sua magia si divertiva a somministrarle.

Cercò invece di dirottare i suoi pensieri sui voti che sapeva di aver preso: eccelleva in Incantesimi e Trasfigurazione, come pure in Aritmanzia e Rune Antiche, se la cavava in pozioni, improvvisava in Storia della Magia e Erbologia. Mentre per Difesa Contro le Arti Oscure… quella era un’altra faccenda.

«Dumbledore mi ha dato una E!» diceva intanto Alice «ci pensi? Non ho mai preso una E in trasfigurazione in tutta la mia vita!»

«Davvero?» Diana finse di essere sorpresa «Congratulazioni!»

«Grazie! Non me l’aspettavo proprio! A proposito, sai chi è risultato l’alunno del settimo con il punteggio più alto? Non ci crederesti mai! Molti davano vincente James Potter o Sirius Black, ma ti anticipo che non sono loro!»

«Severus Snape» replicò Diana, senza pensarci.

«Wow! Come hai fatto ad indovinare? Te l’ha detto lui? Lo conosci? Pensavo che non parlasse con nessuno! E’ così tetro, solitario, veramen~ »

«No, Alice, non lo conosco» la interruppe Diana «Ma ho sentito dire che è particolarmente dotato. Ho solo provato ad indovinare.»

Altre bugie.

Era vero, non aveva mai parlato con Severus Snape, ma sapeva.

Sentiva la sua potenza. Avvertiva la sua magia come se fosse qualcosa di solido, duro, freddo.

Un’armatura.

Potente, infrangibile.

Quel ragazzo scostante, dall’aria malata e dall’andatura quasi furtiva, con le mani bianche, sottili, con i capelli lunghi e lucidi di sporco a nascondergli il pallido viso scarno.

Quel giovane uomo che usava il proprio dolore come arma più forte.

Diana non conosceva Severus Snape. Diana percepiva Severus Snape.

Solo dopo un po’ si accorse che Alice la stava guardando di sottecchi. «Cosa c’è?» le chiese.

«Dì la verità, ti piace qualcuno del settimo, vero? Li stavi guardando quasi con adorazione prima! Forse ti piace proprio Snape…»

«Non dire idiozie»

«… anche se non trovo affatto che sia bello, tutt’altro. Anzi, è decisamente brutto! O forse Rodolphus Lestrange, ti capisco se è lui, sembra davvero un angelo anche se è Serpeverde, ma purtroppo non ha occhi che per quella strega del quarto…»

«Il suo nome è Bellatrix Black, Alice»

«Già, Black. A me quella mette i brividi. Certe volte non sembra nemmeno viva. E’ come una morta che cammina.»

“Invece Bellatrix è più che viva, Alice. La sua è un’anima che brucia, brucia e divora tutto ciò che incontra.”

«Sai una cosa, Diana? Io e Frank ci siamo fidanzati!»

«Stai dicendo sul serio? Sono molto felice per te!»

«Vuoi sapere com’è successo?»

La Corvonero avrebbe voluto dirle che sapeva già tutto, ma non voleva deludere la sua amica e acconsentì a sorbirsi tutta la storia nei minimi particolari. Le due ragazze intanto erano arrivate davanti ai quadri con i voti.

Si fecero strada in una calca impressionante di studenti, giungendo davanti ai voti del quarto anno.

«Vediamo…» cominciò Alice «Silverwood… S… eccoti qui! Guarda, Diana! Hai una media bellissima! Direi che è una delle migliori di tutta Hogwarts!»

Diana notò che Alice aveva fissato per un attimo la casella vuota corrispondente a “Difesa contro le Arti Oscure”, e, forse per delicatezza, aveva preferito glissare sul fatto che non compariva alcuna votazione.

Naturalmente la Grifondoro sapeva perché. Molti sapevano perché.

 

Non avevano dimenticato, Diana ne era certa.

 

Non frequentava Difesa contro le Arti Oscure da più di tre anni a questa parte, in realtà.

Era la sua stessa magia che non le permetteva di partecipare alle ore di Difesa, da quando il professor Marcellus Evereth aveva decretato che la sua sola presenza in quelle ore costituiva un pericolo sia per lei stessa che per il resto della classe. Anzi, per essere più precisi, per il resto della scuola.

Era successo tutto in un giorno di marzo, durante il primo anno. Evereth voleva mostrare loro un incantesimo che contrastava il Petrificus Totalus ed aveva invitato lei a prestarsi come “cavia”. Diana aveva accettato di buon grado, e aveva tirato fuori la bacchetta, pronta ad apprendere un nuovo incantesimo. Non si aspettava certo che il professore lanciasse il Petrificus a sua insaputa, in modo da rendere più veritiera la situazione.

Quello che era successo dopo non lo ricordava.

Alcuni le avevano raccontato che Evereth non aveva fatto in tempo a finire la formula che era stramazzato al suolo, con il respiro mozzo, mentre finestre, banchi, ampolle, tutto quello che era fatto di vetro andava in mille pezzi. Lastre di ghiaccio con striature metalliche si erano formate dal nulla, l’aria si era fatta gelida, era impossibile respirare. I ragazzini del primo, sconvolti, molti feriti dalle schegge, con le sopracciglia incrostate di ghiaccio, si erano dati ad una fuga forsennata, urlando in preda al panico. Alcuni zoppicavano, avendo perso la sensibilità ai piedi. Una Tassorosso aveva raccontato di averla vista levitare a mezz’aria, con il mantello di Hogwarts che si muoveva come se fosse immerso nell’acqua, il volto e le mani tinti da sfumature luminescenti. Diana era sicura che la ragazzina avesse esagerato… non voleva credere di essere capace di tanto.

Avevano salvato il professore dall’ipotermia grazie al tempestivo intervento di Dumbledore. Lei si era svegliata in infermeria, senza alcun ricordo di quanto fosse accaduto, talmente debole da non riuscire ad alzarsi in piedi per almeno tre giorni. Aveva perso sei chili di peso in meno di cinque minuti.

La consapevolezza di quello che era realmente successo in quegli istanti era giunta molto più tardi: la sua magia aveva avvertito la minaccia ed aveva reagito, senza neanche curarsi di mettere in pericolo la sua stessa vita e quella dell’intera classe. Le sue energie erano state assorbite con un’avidità terrificante.

Quel giorno aveva anche compreso che il suo potere avrebbe finito con l’ucciderla, in un futuro non troppo lontano.

 

L’incidente era stato attribuito ad una pozione dimenticata nell’aula che era all’improvviso esplosa, forse innescata dall’incantesimo di Evereth, ma Diana sapeva che pochi avrebbero creduto a quella versione. Il consiglio dei docenti aveva deciso di non modificare la memoria ai ragazzi: sarebbero dovuti infatti intervenire su tutti gli studenti di Hogwarts.

Quel giorno era nata la diffidenza nei suoi confronti, e non aveva fatto altro che aumentare con il passare del tempo...

«Forse ci conviene andare a prendere un po’ di aria vicino al lago, Diana, ti vedo un tantino pallida… Credo sia il caldo insolito di quest’anno, a me fa lo stesso effetto, sai? Ogni tanto mi sembra di svenire… » la voce di Alice sembrava provenire da un altro mondo.

Da un altro universo.

La Corvonero vide la sua immagine riflessa nel vetro della bacheca: argento nei suoi occhi, nel suo nome, argento intrecciato nel pallido biondo dei suoi capelli.

Argento nella sua magia, che lasciava orme silenziose nel suo destino.

 

…………………………………

 

Dead man walking

 

Il Mantello dell’Invisibilità e le vesti di Mangiamorte sembravano essere troppo pesanti per spalle così esili.

Il velluto nero lo avvolgeva nelle sue spire, attutendo il rumore dei passi di un’andatura tanto regolare da essere angosciante.

Barthemius Crouch continuava ad avanzare, incurante della vita che fluiva, mulinava e saettava fuori di lui, intorno a lui, fino a sbattergli addosso senza scuoterlo, né scalfirlo.

Passi quasi inconsistenti.

Non aveva bisogno di cibo, né di acqua, né di riposo. Aveva travalicato quelle catene che lo tenevano impastoiato alle mere cose umane, colmandosi per la prima volta della trascendenza che il suo Signore sembrava aver fagocitato dentro di sé, suggendone l’essenza in un risucchio avido e continuo.

Il suo corpo si muoveva frustato dalla magia, la sua mente edificata sulla cenere contemplava e respirava e si saziava del vuoto monocromo in cui era immersa. Lui continuava ad avanzare, lo sguardo cristallizzato sulla sua meta. Tutto gli appariva sfocato, indefinito, privo di qualsiasi senso.

Tutto, tranne quello per cui era risorto.

Il risucchio lo cullava nel buio.

 

Sapeva che il suo Signore voleva Lei.

Lui gliel’avrebbe consegnata. Una promessa spietatamente semplice.

L’immagine di Bellatrix Lestrange si faceva sempre più grande, vivida e densa nella sua testa, fino ad occuparne tutto lo spazio, a riempire tutto il vuoto, a schiacciarlo sotto il suo peso informe.

Quell’ immagine l’opprimeva.

Solo trovandola si sarebbe liberato del suo fardello.

 

La velenosa magia che gli scorreva nel corpo gli stava facendo avvertire anche un’altra presenza, forte, possente, costante.

Quell’altra vita accolta nel grembo della Mangiamorte…

…o qualcosa di ancora più potente

Barthemius Crouch si arrestò di colpo nel mezzo del nulla, immobile ed invisibile come se non fosse mai esistito davvero. Tutto il suo essere fremette sin nelle fondamenta e una fiamma divorante sembrò accendersi nel vuoto cieco di cui era fatto.

Non era una sola vita.

Il fuoco crepitava, lo consumava, si nutriva di lui.

Erano due.

Due gemelli.

E si mascheravano a vicenda, tanto da ingannare persino il suo Dio.

 

Una linea spezzata contorse per un istante le labbra piagate del Mangiamorte.

Quelle due vite sarebbero state sue…

… e quando le avrebbe strette tra le mani, uncinandole nella carne tenera del collo, allora le avrebbe offerte al suo Sovrano, immolandole sull’altare della sua onnipotenza.

Dead man walking

 

………………………………

 

Quando lui la vide avvicinarsi era già troppo tardi per poterla evitare cambiando direzione. Il corridoio che entrambi stavano percorrendo era privo di un qualsiasi tipo di sbocco, finestre escluse.

Con un sospiro rassegnato Draco Malfoy andò incontro a Luna Lovegood, cercando di non incrociare quegli occhi che all’ombra delle luci tenui di Hogwarts sembravano fatti di mercurio.

Molte volte aveva insultato Lunatica Lovegood, ma era successo in compagnia di Crabbe e Goyle, che lo spalleggiavano sempre e comunque, senza protestare.

D’altra parte chissà se erano in grado di farlo, si era detto spesso con un sorriso amaro.

Questa volta, tuttavia, avrebbe evitato di rivolgerle finanche la parola, tenendo gli occhi fissi sul fondo del corridoio ingoiato nell’ombra e pensando all’incontro con sua madre e al modo in cui lei l’aveva salutato. Avrebbe ignorato il camminare scoordinato di quella ragazza, il sorriso inspiegabile che aleggiava sul volto pallidissimo, l’espressione di chi trascorre tutta la sua esistenza nel paese dei sogni, il ticchettio sordo dei tappi di burrobirra che lei strapazzava distrattamente tra le mani, la bacchetta infilata dietro l’orecchio sinistro.

Luna però si era accorta di lui già da un bel pezzo, e se il pensiero non fosse stato così assurdo, egli avrebbe detto che lei sembrasse quasi felice di incontrarlo.

- Salve Draco – gli disse educatamente, aspettandosi a sua volta il saluto.

Il ragazzo non spostò neppure lo sguardo su di lei, continuando ad avanzare dritto per la sua strada.

- Tua madre non ti ha mai detto che è buona educazione rispondere? – riprese lei, per nulla impressionata.

Draco si trattenne a stento dal lanciarle un’occhiata rovente: - Fuori dai piedi, Lovegood – si limitò a sibilarle contro, senza fermarsi come invece aveva fatto la Corvonero.

Luna però non colse lo scintillio minaccioso dello sguardo del ragazzo, ma continuò imperterrita a fissarlo come se fosse stato un bizzarro animale da circo.

- Non lo dico per me, lo dico per te! – protestò la giovane in modo petulante, sorvolando tranquillamente sull’irritazione che aveva affilato i lineamenti di Malfoy – Sai, credo proprio che tu debba... -

La Corvonero si bloccò all’improvviso, come se qualcuno le avesse premuto una mano davanti alle labbra. Fu questo inaspettato silenzio che indusse Draco a guardarla in tralice, aspettandosi di vedere davvero qualche anima generosa che aveva zittito quella specie di grillo con la divisa di Hogwarts.

Sorprendentemente non c’era nessuno alle spalle di Luna, ma quello che Draco vide lo lasciò totalmente senza fiato e incapace di tirare un altro respiro. La ragazza si era piegata in due, le mani premute sul petto all’altezza del cuore, il viso contorto in una smorfia di dolore che faceva sembrare i suoi occhi bulbosi in procinto di scivolare via dalle orbite.

Emettendo un rantolo soffocato Luna cadde sulle ginocchia e si accasciò a terra, gemendo come se l’avessero trafitta con una spada. Era in preda alle convulsioni.

Un senso di gelo gli scorse addosso, facendolo tremare.

- Ma che diavolo… Che diavolo ti prende! - gridò avvicinandosi di corsa alla ragazza, mentre il panico si faceva largo nella sua testa frastornata. Luna aveva cominciato a boccheggiare come se fosse preda di un attacco di asma. Sembrava che volesse parlargli, ma non era in grado di farlo. Draco fissò i suoi occhi febbrili e schiariti dal delirio tanto che lei le parve cieca, la fronte imperlata di sudore freddo, le labbra bianche, aride, la pelle del viso tirata. Era come se qualcosa si stesse prosciugando dentro di lei ad una velocità impressionante, lasciandola dissanguata a gemere su un pavimento di pietra fredda.

Luna stava invecchiando sotto i suoi occhi.

Lui si chinò su di lei e una mano pallida della ragazza si levò esitante a stringergli appena le spalle, come a volerlo trattenere. Si potevano distinguere chiaramente le vene.

- Aspetta… chiamo aiuto! – gracchiò lui, la voce di colpo roca, la salivazione azzerata. Guardò attonito il suo fiato condensarsi di fronte al proprio viso mentre parlava, poi si accorse che l’aria del corridoio si era fatta freddissima e le gocce di condensa che appannavano le finestre erano diventate di ghiaccio.

- No. – si sentì rispondere con un filo di voce. Luna gli aveva afferrato con entrambe le mani l’avambraccio sinistro. Spostava gli occhi chiarissimi ovunque, sul suo volto, sulle pareti intorno a loro, sul soffitto, come se non fosse in grado di vederlo – Devo… ma..mandarlo via… - sibilò in modo così roco da fare ribrezzo.

Con un brivido d’orrore Draco si rese conto che effettivamente lei non era in grado di vederlo.

 

Era realmente diventata cieca.

 

Alzò il viso inondato di lacrime su di lui, la pelle del volto era tanto bianca da sembrare quasi trasparente. Raggiunse a tentoni le maniche della veste del Serpeverde e con uno strattone inaspettato la ragazza gli scoprì il polso e il braccio, mentre il suo respiro si faceva velocissimo, frenetico.

- Non devi… farlo per forza. Non… non piegarti. Se tu… non vuoi… non accettare… - gli disse articolando a fatica ogni sillaba, nel tentativo di essere più precisa possibile.

Draco la guardò allibito: - Non devo fare cosa? Che mi stai dicendo, stupida! – urlò, terrorizzato da quegli occhi ciechi.

Luna si avvicinò ancora, le mani strette intorno al polso sinistro di lui: - Il marchio… ricevere il Marchio Nero – rantolò, premendogli le dita sulla pelle dell’avambraccio fino a conficcargli le unghie nella carne.

Lui si scostò di scatto, come se un cane l’avesse morso. La fissò, gli occhi dilatati dalla paura. Il respiro asmatico di Luna aveva cominciato a scemare, tanto da permetterle di rialzarsi in piedi, una mano ancora dolorosamente premuta sul cuore, il viso spento, gli occhi spettrali.

- Ma tu chi diavolo sei in realtà… - sibilò il ragazzo, allontanandosi ulteriormente da lei.

La ragazza sbatté le palpebre una, due, tre volte, poi si passò le nocche delle dita sulle orbite, come se volesse cancellarsi la faccia. I suoi movimenti erano scattanti, slegati l’uno dall’altro, convulsi, come se lei non fosse stata in grado di controllarli.

Quando allontanò le mani dalla faccia arrossata riaprì gli occhi, che erano tornati del solito colore grigio pioggia, e guardò il Serpeverde come se lo avesse appena scorto.

Ci vedeva di nuovo. Sbatté le palpebre.

- Oh, buongiorno Draco – disse sorridente.

Il ragazzo non rispose, impalato dall’orrore. Senza dire una parola indietreggiò, sgomento, poi girò sui tacchi e si allontanò sempre più di fretta, tanto che cominciò a correre verso la fine del corridoio, cercando di mettere tra lui e quella… cosa… la maggiore distanza possibile.

Luna rimase interdetta e sinceramente sorpresa dallo strano comportamento di Malfoy.

- Forse la visita di sua madre l’ha scosso più del dovuto -, disse ad alta voce, rimuginandoci sopra per un paio di minuti. Poi, scuotendo i suoi lunghi capelli color stoppia, proseguì verso il suo dormitorio, mentre il suo Angelo d’Argento la seguiva dall’alto, il volto imperturbabile.

Aveva un viaggio imminente per cui prepararsi.

Un cammino da affrontare.

 

………………………………

 

Per l’intera notte appena trascorsa i Guaritori assegnati al reparto delle “Maledizioni” – era così che chiamavano quel settore del San Mungo Hospital – non avevano avuto nemmeno la remota possibilità di poter dormire.

Le crisi di Alice Longbottom si erano fatte di volta in volta più violente, tanto da costringerli ad assicurare la donna al suo letto con tre robuste cinghie di cuoio che le tenevano immobilizzate le spalle, il bacino e le gambe. Era inoltre stata trasferita in un’altra camera di cui era l’unica occupante, separandola dal marito che invece non aveva dato alcun segno di peggioramento.

Le avevano medicato una serie impressionante di graffi che la donna si era autoinflitta sulle braccia e sul volto, come se avesse tentato di strapparsi una maschera che la stava soffocando, rischiando anche di danneggiare gli occhi. Con le iridi sbiadite dal terrore aveva urlato per tutta la notte frasi sconnesse, fino a quando i sedativi che le avevano somministrato d’urgenza erano riusciti a fare effetto sui suoi nervi e sulla sua mente disastrata.

La donna giaceva ancora nella posizione in cui la Guaritrice di turno l’aveva trovata quattro ore prima, con gli occhi fissi sul soffitto asettico, le labbra socchiuse in un gemito muto, piccoli tamponi d’ovatta infilati nelle narici per cercare di bloccare un’emorragia che sembrava non volersi arrestare.

La Guaritrice si avvicinò alla paziente, senza che quest’ ultima accennasse al più piccolo movimento. Delicatamente le estrasse i tamponi dal naso per poterli sostituire con dei nuovi, e subito un rivolo di sangue scuro macchiò il filtro delle labbra, colando lungo tutta la curvatura della bocca. L’infermiera si affrettò a ripulire il volto della donna e a rimettere i nuovi tamponi al loro posto, bloccando il flusso che non solo le medicine magiche, ma neanche quelle babbane erano riuscite ad interrompere. Si assicurò che il torace dell’inferma si alzasse e si abbassasse ritmicamente, segno di una respirazione regolare, ma non fece in tempo ad allontanarsi che un rumore gorgogliante la riporto subito al letto della donna: Alice Longbottom stava schiumando saliva, gli occhi iniettati di sangue, il busto inarcato spasmodicamente verso l’alto, i muscoli del collo tesi per lo sforzo, le vene turgide, mentre la pelle si arrossava per lo sfregamento contro le cinghie. La Guaritrice diede l’allarme e si affrettò a preparare una nuova dose di sedativo, quando un rumore tremendo e raccapricciante, simile ad uno stridio di unghie sulla lavagna, le fece cadere le medicine dalle mani. La guaritrice urlò, tappandosi le orecchie per proteggersi inutilmente da quel suono spaventoso.

Il rumore proveniva dalla donna.

Dalla sua bocca.

Quel rumore erano parole.

- Il non-morto… si è nutrito… della morte…-  Decine di boccette e fiale di vetro andarono in mille pezzi. Le finestre e gli specchi si incrinarono quasi simultaneamente, per poi esplodere in frantumi. La guaritrice urlò ancora, accovacciandosi in un angolo mentre schegge di vetro le piovevano addosso. Sollevò le braccia, nel tentativo di proteggersi. - Lui… avrà… lo scettro… dell’altro regno… le sue Legioni… invincibili… I figli dell’Era…No…No! -

La donna urlò ancora, poi all’improvviso tutto cessò. Il suo respiro si fece calmo, poi lentissimo.

- Sei tu…  - sussurrò con voce tremula. Aveva gli occhi fissi sul soffitto. Poi, inspiegabilmente, sorrise, mentre il torace si abbassava un’ultima volta.

L’infermiera si sollevò lentamente, terrorizzata. Si guardò le mani: erano graffiate. Cauta, si avvicinò ad Alice Longbottom, tremando.

La donna era morta.

Sorrideva.

 

Le ferite provocate da graffi e tagli erano scomparse.

 

………………………………

 

 

- Lui sa tutto -

L’aria fu di nuovo inondata dal silenzio intorpidito dell’inverno, così corposo che neanche i loro passi che affondavano nella neve, al limitare della Foresta Proibita, avrebbero potuto infrangere. Bellatrix tacque, limitandosi ad osservare la faccia stanca e riflessiva di Snape, le linee spezzate delle rughe agli angoli degli occhi, le labbra insolitamente scurite dal freddo.

- Maledizione – sibilò l’uomo dopo qualche tempo, rivolgendo lo sguardo verso un punto imprecisato davanti a sé. Poi tornò a posare gli occhi sul volto giovane della donna… l’ex-Mangiamorte con le sembianze della sorella Narcissa.

Snape si lasciò sfuggire un sorriso obliquo: nonostante Bellatrix fosse identica nell’aspetto alla vera Narcissa, c’era qualcosa in quegli occhi celesti che smaniava per uscire allo scoperto: un’ombra più scura, lucente, che non lasciava trasparire nulla.

- Non posso combattere, Severus. Soccomberei. Soccomberei… - la sua voce si spense in un sussurro.

- Infatti non lo farai. Io devo partire, Bella, ma non temere. Ho pensato a qualcosa che potesse proteggere te e i tuoi figli, quando nasceranno. Vieni con me. -

Si immersero nell’ombra della foresta picchiettata di neve. - Dove andrai? – chiese dopo un po’ la donna.

Snape tacque per un momento. – Oltre il Velo –

Bellatrix lo fissò, muta. – Morirai – gli disse, piano.

- Forse. Sarò comunque in compagnia della mia Morte. Comodo, no? E anche di una ragazzina Corvonero mezza pazza, che ha visto e tutt’ora vede la sua Morte da molto più tempo di me o di te.-

- Una ragazzina? Chi? -

- Lovegood. Luna Lovegood -

Gli occhi della donna si sgranarono: - La figlia di Diana? –

Lo sguardo di Snape fu perforante. – Conoscevi Diana Silverwood? –

- No. Era nel mio anno ad Hogwarts. Non le ho mai parlato… ma lei conosceva me, Severus, come conosceva te. Non so come ma… ho sempre avuto la sensazione che sapesse. Anche di Lui, ancora prima che la sua forza fosse interamente manifesta. -

Snape non rispose. Arrivarono in una piccola radura, al centro della quale spuntava il tronco massiccio di una quercia. Severus si avvicinò all’albero, passò una mano sulla corteccia, come se stesse cercando un punto preciso. Il palmo sfiorò qualcosa, la sua mano si arrestò in una zona senza particolari riconoscibili.

Estrasse la bacchetta: - Dissendium – sussurrò, e sul tronco apparve una sottile fessura bianca, stretta come una penna d’oca e non più lunga.

- Dammi la mano sinistra, Bellatrix -

La donna gliela porse, in silenzio. Severus la fece combaciare con la sua.

La familiarità di quel gesto le mozzò il fiato.

Con l’altra mano Snape toccò la fessura bianca, che prese a brillare sempre più forte.

Furono risucchiati in un vortice accecante all’interno dell’albero senza quasi accorgersene.

 

Bellatrix sbatté le palpebre. Non era certa di potersi fidare della sua vista.

Sapeva di trovarsi all’interno della quercia, ma tutto quello che vedeva era una stanza ampia, dalle pareti curve e legnose. Il soffitto si perdeva in alto, in un intricato dividersi di cunicoli più o meno grandi, che sembravano fatti di vetro trasparente, da cui proveniva una luce soffusa, dalle sfumature smeraldine. Un letto ad una piazza, dalle lenzuola color crema, era sistemato in quella che sembrava una nicchia naturale scavata nella parete che, Bellatrix notava ora, si accendeva di bagliori verdeggianti ora da una parte, ora da un’altra, senza nessuna precisa regola.

Una panca di legno a forma di semiluna era addossata poco distante, vicino a tre piccole botti di legno piallato. Bellatrix distinse un piccolo armadio a muro, delle dimensioni di una cassaforte, e intuì che ci dovevano essere molte cose rimpicciolite dagli incantesimi. Al centro della stanza c’erano un tavolo rotondo coperto da una tovaglia ricamata e tre sedie di legno e vimini, mentre in un'altra nicchia c’era quella che aveva tutta l’aria di essere… una culla.

- Per tutti gli dei… -

Un uscio mimetizzato nelle mura lignee si apriva alle sue spalle, dando su un piccolo ambiente dove si intravedeva un lavabo, una vasca ed uno specchio.

- Non sarai tracciabile su alcuna mappa qui, Bella. L’aria è continuamente ossigenata, in fondo ci troviamo in un albero… - cominciò Snape, guardandosi tranquillamente intorno - … La temperatura è costante. In quelle botti c’è acqua e cibo a volontà, sono rimpiccioliti con il Reductio, così pure abiti, un Mantello dell’Invisibilità, lenzuola, coperte e asciugamani in quell’armadio incastrato lì… Tutto quello che serve per i gemelli è all’interno della panca… o almeno credo sia tutto quello che potrà servire, i neonati non sono il mio forte e… Bellatrix, stai riacquistando il tuo aspetto. -

La donna abbassò lo sguardo sulle mani. Riconobbe la carnagione abbronzata, così inusuale anche per lei. Vide il suo ventre crescere sotto il velluto amaranto della veste. Guardò Severus. Non sapeva fare altro se non guardarlo. Si sentiva come… nuda.

Snape aveva visto centinaia di volte il processo inverso della Pozione Polisucco, eppure quella trasformazione gli tolse il respiro. Non era tanto vedere i capelli di Bellatrix scurirsi fino ad assumere le tinte dell’inchiostro, né il celeste diventare blu notte. Non era nemmeno vedere il pancione crescere, che pure era uno spettacolo sorprendente.

Era il cambiamento avvenuto in Bellatrix a lasciarlo senza fiato, qualcosa di tanto evidente da trasparire dalla pelle dorata dal sole, dal volto, dalle mani.

Poi intensa, travolgente, illuminante, la presenza dei gemelli lo circondò, avvolgendolo in un abbraccio di vita.

- Credo… vogliano dirti grazie. – disse la donna, piano. – Lo fanno meglio di quanto avrei potuto fare io. –

Snape rimase in silenzio, ma i suoi occhi parlarono per lui.

- Non potrai uscire da questa quercia per i prossimi tre mesi, Bellatrix – aggiunse dopo un istante –  So che sarà come una prigione, ma non puoi rischiare. Troverai libri in abbondanza, qui, di tutti i tipi, ti aiuteranno ad ammazzare il tempo durante il giorno. Porrò un sigillo all’entrata, sulla corteccia di questa quercia, diventando il tuo Custode Segreto. Chi ti cerca potrà inciampare nelle radici di quest’albero, ma non ti troverà. -

Lo sguardo della donna si fece intenso. I bagliori di luce verdeoro illuminavano il volto di Snape. Bellatrix se lo impresse a fuoco nella mente.

- Se dovessi trovarti in pericolo, tieni questo – disse, porgendole una strana sfera di vetro trasparente delle dimensioni di una pallina da ping-pong – Ti basterà stringerla tra le dita: è una passaporta che si attiva quando aumenta la pressione sulla sua superficie. Ti condurrà in un posto in cui mi sarà facile raggiungerti.-

L’uomo si voltò, pronto ad andarsene.

- Severus – lo chiamò Bellatrix. Lui girò appena la testa. – Abbi cura di te. -

- E tu di te. – disse, poi scomparve.

 

Il Sigillo del Custode segreto costò energie e concentrazione, ma Snape lo impose sull’albero in pochi minuti. Poi, un po’ ansimante, si diresse verso la capanna di Hagrid, risalendo poi verso il castello.

Luna Lovegood, avvolta in un mantello da viaggio color rosa caramello, lo stava gia aspettando, zainetto a forma di coniglio bianco in spalla, la bacchetta infilata dietro un orecchio, la collana di tappi di Burrobirra continuamente strapazzata.

Non appena avesse ripreso un po’ di forze, pensò irato Snape, avrebbe trasfigurato quel pagliaccio fuxia in qualcosa di decente.

L’Angelo d’Argento sorrise.

 

Continua…

Ritorna all'indice


Capitolo 19
*** Inter Digitos ***


Bellatrix Lestrange e gli altri personaggi che compaiono in questa fanfiction sono proprietà di J

Bellatrix Lestrange e gli altri personaggi che compaiono in questa fanfiction sono proprietà di J.K. Rowling e di editori come Bloomsbury, Bros, Salani. Nessuna violazione del copyright si ritiene pertanto intesa.

 

 

Guardali, anima mia, sono davvero atroci!

simili a manichini; vagamente ridicoli;

terribili, strambi come tanti sonnambuli;

dardeggiano non si sa dove i globi tenebrosi.

 

I loro occhi, da cui la divina scintilla è fuggita,

restano alzati al cielo come guardando lontano

e giù verso il selciato non se ne vede nessuno

chinare pensosamente la testa appesantita.

 

Così attraversano il nero sconfinato

Fratello del silenzio eterno. O città!

mentre intorno tu canti, ridi e muggisci, in cerca

 

del piacere, invaghita fino all’atrocità,

vedi! anch' io mi trascino! e più di loro ebete

dico: Ma questi ciechi, in Cielo, che cercano?”

 

Charles Baudelaire, I Ciechi, da Les Fleurs du Mal

 

 

Inter digitos

Tra le dita

 

- Non stiamo andando a Disneyland, Lovegood, né al Carnevale di Rio – sibilò Snape, appena la ragazzina fu a portata di voce. Luna gli sorrise, estatica.

- Ha visto davvero il Carnevale di Rio De Janeiro? Ho letto di quella bellissima festa babbana! C’è andato in gioventù, professore?… -

- Taci, Lovegood -

- … oppure la sua visita è recente? E’ vero che le ballerine danzano mezze nude? Io mi vergognerei a morte… -

- Ho detto taci, Lovegood! – ringhiò Snape, maledicendosi per averle rivolto la parola. Con quella specie di svitata poteva funzionare solo il silenzio. E un ferreo, rigidissimo autocontrollo.

Il sorriso della ragazzina si allargò ancora, scintillando nei suoi larghi occhi. – Secondo me lei dovrebbe cambiare il suo look, professor Snape. Insomma, andare in giro sempre vestito di nero metterebbe tristezza persino ad una pietra e~ -

- Lovegood – gracchiò Snape, la voce irriconoscibile – Ci tieni a restare viva per i prossimi cinque minuti? -

- Naturalmente, professor Snape, anzi, pure per i prossimi dieci, quindici, venti, ventici~ -

- Allora chiudi quella maledetta bocca! -

Snape si voltò, lanciando occhiate inceneritici un po’ ovunque. Non avrebbe finito di maledire la sua mala sorte per il resto dei suoi giorni.

- E’ ora. – sibilò alla ragazzina alle sue spalle – Muoviamoci. Ma prima… - Snape estrasse la bacchetta e la agitò distrattamente in direzione di Luna, senza neanche guardarla. Gli abiti stravaganti della Corvonero si mutarono in una sobria divisa con mantello e cappuccio orlato di pelliccia, il tutto di un lugubre nero uniforme. Luna spalancò gli occhi brumosi, poi si prese una ciocca di capelli e la appoggiò al velluto nero dei suoi nuovi abiti, valutando il contrasto, le sopracciglia contratte, mordicchiandosi il labbro inferiore.

- Devo dire che non fa troppo schifo così – disse allegra dopo una minuziosa valutazione del suo abbigliamento – Ad essere sinceri, professore, non le avrei dato più di una T in materia di vestiti, ma credo che mi toccherà alzare un pochino il giudizio… questo mantello non è troppo orripilante.-

Snape, che stava riflettendo su come avrebbe fatto a Smaterializzarsi insieme alla Corvonero scocciatrice, si voltò di scatto, afferrò rudemente la ragazzina per un braccio e prese a trascinarla di peso verso i cancelli di Hogwarts.

- Ma… ma… Professore! Non dovevamo aspettare una carrozza? – esclamò Luna, l’espressione più stralunata che mai.

- Cos’hai fumato, Lovegood? Pus di Mandragola? – sbottò esasperato Snape, continuando ad avanzare a passo marziale mentre la Corvonero arrancava  alle sue spalle, ancora trattenuta per il gomito – Non ci sarà nessuna carrozza! Non è una gita! Un’altra parola e ti ammutolisco! –

Luna lo guardò, o meglio fissò la sua schiena, poi sbatté lentamente le palpebre, con un’espressione talmente stupefatta negli occhi sgranati da fare concorrenza ad un elfo domestico. Dopo un silenzio che diede a Snape l’illusione di averla convinta, trotterellò più velocemente per portarsi di fianco all’uomo e, con una faccia assolutamente sincera, disse:

- Fumare la Mandragola? Ma Professore, non è pericoloso? Che effetto fa? Lei ha provato, vero? Altrimenti non le sarebbe venuta in mente una simile i~-

Snape aveva agitato la bacchetta con un colpo secco, imponendole il Silencio senza pronunciare una sola sillaba. Furibondo, continuò a camminare tenendo Luna con una mano e stringendo la sua bacchetta nell’altra. La ragazzina aveva cominciato a toccarsi la gola in continuazione, articolando mute parole di protesta che non scalfirono minimamente l’uomo nerovestito.

- Ti avevo avvisato, Lovegood – sussurrò questi, quasi sollevato – Riacquisterai la facoltà di tediarmi quando lo riterrò opportuno. Quindi smetti  di snocciolare frasi a vuoto. Finirai per slogarti la mandibola -

Luna gli lanciò un’occhiataccia e chiuse di colpo la bocca, corrucciata. I due oltrepassarono i cancelli della scuola, poi Snape imboccò la strada per Hogsmeade e sembrò arrestarsi in un punto preciso. Con sua sorpresa si accorse di star ancora tenendo la ragazzina per l’avambraccio e lasciò impulsivamente la presa. Le sopracciglia di Luna si alzarono in una domanda, ma la bocca restò caparbiamente sigillata.

Snape soppresse un ghigno.

- Immagino di doverti restituire la parola, Lovegood – disse caustico – ma sappi che lo faccio solo per questioni… di sicurezza, dato che dovrai Smaterializzarti con me e suppongo che tu non ne sia capace – Snape agitò lievemente la bacchetta – Sbaglio, Lovegood? -

La ragazzina alzò gli occhi argentei su di lui e l’uomo avvertì ancora una volta quel senso di disagio che lo sguardo color pioggia di Luna sapeva mettergli addosso. Era come se quegli occhi fossero condivisi da qualcun altro. Luna Lovegood lo stava fissando e non era la sola a farlo.

- Mi chiamo Luna – disse con voce insolitamente fredda.

- Prego?-

- Lu-na. Luna. Perché mi chiama sempre per cognome? – proseguì, quasi con stizza. – Chiama Draco Malfoy sempre per nome, e Malfoy ha un nome decisamente più brutto del mio. Perché con me non fa lo stesso? Perché dev’essere così tremendamente imparziale? Perché favorisce solo quelli di Serpeverde? Perché…-

Snape decise di respirare profondamente cinque, sei volte. Luna non lo notò neppure, impegnata com’era a sputacchiare un perché dopo l’altro.

- Come desideri, Luna – masticò Severus, a denti strettissimi, interrompendo quella mitragliata di parole.

Il viso della ragazzina parve accendersi come una stella quando questa lo gratificò di un sorriso così felice che Snape non poté non definire bellissimo.

- Cosa devo fare, Professore? – chiese lei, con aria leggera.

Il Professore di Pozioni si riscosse - Devo Smaterializzarti con me. All’inizio la sensazione è piuttosto spiacevole, ma ci si fa l’abitudine. Devi afferrarti alla mia mano e non lasciarla per nessun motivo. Sono stato chiaro, Lov… Luna? –

La giovane annuì. Timidamente, quasi temendo di arrecare qualche danno, appoggiò le sue piccole dita sul palmo della mano sinistra di Severus. Lui strinse la presa.

- Con maggior forza, Luna – sussurrò l’uomo, con una strana flessone del tono di voce. Luna eseguì, poi, per sicurezza, gli si avvicinò, portò l’altra mano sul braccio di Severus, stringendo, senza saperlo, proprio quella zona di carne su cui era impresso, indelebile, il Marchio Nero. Snape guardò quella testolina pallida a poca distanza da sé, sentì la pelle fredda, quasi gelida, della giovane Corvonero. Fece vuoto nella sua mente, pensando soltanto alla zona di Londra in cui si sarebbe materializzato. Appena un attimo prima di svanire con Luna, però, sentì qualcosa che premeva contro il suo torace.

Luna teneva gli occhi chiusi con forza, quasi temesse di perderli. La piccola mano era stretta alla sua, la testa poggiava sul suo petto, come se cercasse protezione, l’altro braccio, irrigidito dalla paura, gli cingeva la vita.

 

Bloody Hell

 

Luna gli si era incollata addosso, irradiando calore attorno a sé.

 

Tepore.

Contatto umano.

Aveva dimenticato quanto potesse essere caldo.

 

Sul volto di Snape affiorò lentamente un sorriso.

Poi, con un lieve schiocco, scomparvero.

 

………………………………………………………………

 

Era come respirare aria viva.

 

Bellatrix chiuse gli occhi, inspirando profondamente ancora una volta. Non avrebbe mai immaginato che potesse esistere qualcosa di così buono e piacevole come quell’aria, impregnata della fragranza della terra. Inalò a pieni polmoni, estasiata.

Non appena Snape era scomparso in un riverbero verdeoro, la donna si era messa ad esplorare la piccola e confortevole dimora all’interno della quercia, compito che non richiese più di qualche minuto. Lo spazio purtroppo era limitato e lei vi avrebbe dovuto passare qualcosa come… quattro mesi o giù di lì.

Sospirò. Non avrebbe potuto pretendere di più. In fondo in cella era riuscita a sopravvivere per quasi tredici anni con la costante e terribile presenza dei Dissennatori, mentre intorno a lei l’alito della morte imperversava ovunque, cogliendo nel sonno agitato o nel delirio quelli che un tempo erano stati potenti maghi e che ora non erano altro che cibo per topi, lerci e cenciosi, immersi nella loro disperazione.

Bellatrix scosse la testa, allontanando altri pensieri funesti. Non poteva certo paragonare la pace e il canto delle foglie mormoranti che riusciva ad udire con l’inferno che Azkaban era stato per lei e per tutti coloro che vi erano stati rinchiusi. Quell’albero maestoso, che rifulgeva di luce propria, pulsava di vita. La linfa perlacea fluiva rapida e impetuosa in una rinascita continua e incessante dall’alba dei tempi.

Si sedette sulla sponda del letto, cogitabonda, mentre un intenso sollievo percorse la sua schiena affaticata dal peso che era nel suo grembo. Agitò poi la bacchetta in direzione del piccolo armadio, lo aprì e fece galleggiare a mezz’aria un paio di piccoli parallelepipedi, che avevano tutte le sembianze di due libri rimpiccioliti così tanto che potevano stare entrambi sul palmo disteso della sua mano. La donna puntò la bacchetta contro uno di questi, mormorò “Engorgio” ed il libro centuplicò in un istante le sue dimensioni, diventando così pesante che Bellatrix dovette appoggiarlo sul materasso. Quel volume doveva almeno contenere tremila pagine.

Osservò la copertina, vecchia e sdrucita, ma tutto sommato in buone condizioni.

“ Non omnia possumus omnes”*, vi lesse, scritto a mano. Non c’era altro.

- Non tutti possiamo fare ogni cosa… - mormorò, traducendo l’espressione latina piuttosto insolita per un libro di magia.

Sollevò delicatamente la copertina di cuoio e cartone, rivelando un frontespizio altrettanto particolare. Questa volta la grafia di Severus saltò ai suoi occhi come se bruciasse sulla pagina.

“ Non è detto che per viaggiare si debba usare il corpo. La mente può farlo in modo più rapido, più silenzioso, più efficace.

Bellatrix comprese.

Snape l’aveva chiusa in una cella e le aveva dato le chiavi.

 

………………………………………………………………

 

Le porte scure erano immerse in una densa penombra venata di azzurro, creata dalle lingue fredde e guizzanti di candele dalla fiamma buia.

Severus si guardò attorno, inquieto e con un gran mal di testa. Erano nel bel mezzo della Stanza Circolare su cui si aprivano diverse porte che ogni tanto cominciavano a ruotare ad una velocità folle, mentre la vita negli altri reparti del Ministero della Magia scivolava con la consueta e indolente routine.

Erano entrati nel Dipartimento dei Misteri senza essere notati da anima viva.

Snape lanciò un’occhiata infastidita alla sua stramba compagna di viaggio che, con assoluta noncuranza per chi e cosa la circondasse, stava rimirando sul proprio petto la spilla scintillante che entrambi avevano ricevuto all’ingresso, nella sgangherata cabina telefonica che, con voce pacata, chiedeva nome, cognome e motivo della visita, qualsiasi esso potesse essere.

Era stata colpa sua, pensò Snape, sbuffando. Se non avesse risposto, con la sua solita acredine, che erano lì probabilmente per “Saltare oltre un dannato precipizio”, ora Luna non sarebbe stata a mangiarsi con gli occhi quello stupido e tondo pezzo di latta con su scritto “Aspirante suicida”.

La ragazzina alzò gli occhi su di lui, con un sorriso disarmante che mise a tacere tutti i borbottii del suo pessimo carattere.

- Ooh, è tutto come quest’estate… non è cambiato niente! Solo che non riesco a ricordare quale fosse la porta che si apre sulla stanza con l’Arco… -

- Certo che non ci riesci, sciocca: le porte sono tutte identiche! – sibilò Snape, la voce leggermente stridula dalla tensione. – Non potresti chiedere al tuo amico sfavillante alle tue spalle di darci una dritta? – ventilò l’uomo, irritato.

Gli occhi di Luna brillarono, deliziati: - Ma certo! – esclamò contentissima, poi, incredibilmente e senza nessuna logica, saltellò verso la sua Morte su un piede solo come in certi giochi babbani, mentre le porte ripresero a girare vorticosamente procurando a Snape un ulteriore e feroce attacco di emicrania. La Corvonero raggiunse la figura argentata che, come suo solito, se ne stava a braccia conserte a poca distanza da lei, si sollevò sulla punta delle solite scarpette basse, gli mise una mano vicino a quello che poteva definirsi un orecchio e allungò il collo, parlottando sottovoce come se dovesse confidargli un importante e riservatissimo segreto, dimentica del fatto che il frastuono intorno a lei avrebbe coperto anche l’esplosione di una mina, talmente intenso che aveva aggiunto all’emicrania di Snape un insopportabile senso di nausea.

La Morte annuì con un cenno, poi sollevò il braccio indicando qualcosa alla sua destra, immediatamente le porte si fermarono e la Stanza Circolare ripiombò nel silenzio. L’indice ancora alzato del Custode di Luna puntava verso una porta precisa.

Snape si passò una mano sulle tempie martellanti, stringendole tra indice e pollice, nel vano tentativo di mettere un freno al suo malessere. Vedendolo lì immobile e con la testa china, la ragazza trotterellò verso di lui, con un biondo sopracciglio alzato in una muta domanda. Poi, senza preavviso, gli afferrò l’altra mano, quella che stringeva la bacchetta in una presa d’acciaio, e lo tirò in avanti, verso la porta.

- Avanti, Professore, o faremo tardi! – disse, letteralmente trascinandosi dietro uno Snape incredulo.

- Cosa diavolo credi di fare, Lovegood! – berciò, gli occhi di nuovo lampeggianti d’ira, senza però essere in grado di strattonare il braccio per liberarsi dalla presa leggera eppur salda della ragazza.

La troppa tensione lo stava rimbecillendo del tutto, pensò, completamente spiazzato dal suo stesso comportamento. Si sentiva paralizzato, come se il suo corpo gli segnalasse beffardo la sua presenza senza ubbidire ai suoi ordini.

Era forse impazzito?

Beh, certo che con la vicinanza di quel pagliaccio biondo tenersi fuori dalla follia sarebbe stato quantomeno arduo.

Luna intanto aveva aperto la porta e, ancora con la sua mano chiusa a pugno tra le piccole dita fredde, stava inoltrandosi all’interno della grande sala quadrangolare a gradinate dove, meno di un anno prima, Sirius Black era sparito per sempre.

L’Arco era ancora lì, saldo e vecchissimo, con il suo Velo nero che ondeggiava nella solita danza ipnotica, intrappolando i pensieri di entrambi i visitatori in un frammento congelato di tempo.

Severus e Luna stettero immobili a guardare il Varco per il Regno delle Ombre che sembrava chiamarli a sé con un mormorio cantilenante di voci sussurrate.

Qualcosa riscosse Snape dalla trance in cui sembrava essere scivolato inconsapevolmente.

Una mano poggiata appena sulla spalla, poco più che inconsistente. L’uomo seppe cosa avrebbe visto prima ancora di voltarsi.

La propria Morte lo guardava, senza che nessuna particolare emozione increspasse quell’espressione eterna e imperturbabile.

- Sei pronto? – chiese, con voce calma.

- Si

Lo disse con una sicurezza che qualche minuto prima non pensava lontanamente di avere.

Luna si voltò verso di loro, distratta dalla voce della Morte di Severus. Sul suo viso pallido si dipinse uno stupore esagerato.

- E’… il suo… Angelo? – sussurrò, appena percettibile.

Snape abbassò lo sguardo su di lei – E’ lui – mormorò, chiedendosi cosa potesse averla sorpresa.

- E’… èbellissimo! – esclamò la ragazzina tutto d’un fiato, facendolo sobbalzare.

Snape non capiva. Guardò alternativamente la propria Morte e quella della ragazza: entrambe eteree, argentee, immutabili, senza tempo. Qualcuno, a prima vista, avrebbe potuto facilmente confonderle. Allora qual era la differenza che aveva fatto brillare gli occhi della Corvonero tanto da renderli ancora più grandi?

- Perché, il tuo non lo è? – disse, incerto, tentando di stare dietro alla mente stravagante di quella rompiscatole.

- Ooh, certo che lo è. Ma il suo angelo è così… così… fulgido e… forte. E ha il suo stesso, identico sguardo… -

Snape la fissò, ammutolito. Non poteva crederlo, eppure sembrava che lui e quella ragazzina vedessero le stesse, identiche cose, ma da prospettive poste completamente agli antipodi.

-… nel senso – continuò Luna, ignara di quello che stava turbinando nella testa di Snape – che il suo Angelo ha, come lei, lo sguardo che vede

Snape la guardò stranito, ma prima che potesse replicare alcunché, il Velo nero si sollevò con un’insolita forza e l’aria fu percorsa da mormorii sinistri. Alzò lo sguardo, improvvisamente in allerta. Una sensazione di paura indicibile gli ghermì l’anima, ma la mano della sua Morte lo afferrò per il polso, tenendolo ben saldo. Gli occhi dell’uomo dardeggiarono in direzione di Luna e della sua Morte. La giovane Corvonero se ne stava dritta accanto a lui, le dita intrecciate con quelle del proprio Custode. Il suo viso sembrava aver perso d’un colpo i tratti infantili, per diventare così improvvisamente adulto. Sembrava quasi che la ragazzina rompiscatole fosse stata inghiottita dalla terra e sostituita con una sconosciuta. Gli occhi d’argento della quindicenne si sollevarono su di lui.

Snape boccheggiò.

Non credette a quello che stava vedendo. Le iridi di Luna, già naturalmente chiare, erano diventate quasi bianche, con la sola pupilla a testimoniare la direzione del suo sguardo.

La ragazza era diventata cieca.

- Luna… - mormorò l’uomo, con voce incredula.

- Non si preoccupi per me, Professor Snape – gli rispose questa, la voce pacata e molto, molto più profonda. Molto più matura – Il mio Angelo ha detto che a me spetta il compito di vedere altre cose, e per farlo non posso usare gli occhi in modo… normale. –

- Vuoi dire che ti ha resa cieca? –

- Oh, no, non è stato lui. Penso di essere stata io, anche se non so proprio come – Severus guardò le labbra della piccola distendersi in uno di quei sorrisi sognanti che ad Hogwarts l’accompagnavano sempre. La fitta di nostalgia che provò subito dopo lo sconvolse più di quanto gli avvenimenti di quel giorno stavano facendo. – Comunque si, sono diventata cieca, da un certo punto di vista. E no, non sono cieca, da un altro punto di vista –

Severus non replicò, frastornato.

Lentamente, quasi temesse di perdere da un momento all’altro l’uso del braccio, l’uomo allungò la mano libera verso la ragazza. Luna non diede segno di aver visto nulla, ma il sorriso sognante scintillò più intenso. Snape si chinò un poco per raggiungere il braccio libero della ragazzina e prese delicatamente il suo polso. La mano di Luna si ritrasse un poco, ma solo per sostituire il polso alle dita, e strinse il palmo di Snape con fiducia illimitata.

- E’ il momento – esordirono insieme entrambe le Morti. Avanzarono insieme verso la conca al centro della quale si ergeva la piattaforma con il suo Arco, una catena di due persone e quattro anime.

L’Arco sembrò allargarsi e distendersi, raggiungendo una dimensione che avrebbe permesso il contemporaneo passaggio di tutti. Il Velo si mosse, inquieto, strappando riflessi blu alla penombra circostante.

Severus, Luna e le Morti mossero un passo, mentre il drappo sfiorava i loro volti.

Sparirono, lasciando dietro di sé solo il persistente e incorporeo mormorio.

 

………………………………………………………………………

 

- Non… capisco – balbettò Remus, incredulo.

- E non mi piace – aggiunse Karkaroff in un soffio, pallido sotto un colorito tendente al giallastro.

- Eppure mi sembra di essermi espresso con sufficiente chiarezza – replicò Dumbledore, sereno.

Lupin guardò alternativamente il preside, poi quello che sarebbe diventato suo compagno di viaggio.

- Lei vuole veramente mandarci a… racimolare Lupi Mannari e Vampiri per mezza Europa? – sibilò l’ex Preside di Durmstrang, attonito.

- Si, Igor – rispose con calma Dumbledore. – Sarai a conoscenza del fatto che Remus, qui, è essenziale per contattare i maghi contagiati dal suo stesso… problema.- aggiunse con naturalezza.

- Si – sillabò Karkaroff.

Lupin si mosse a disagio sulla sedia. Se Dumbledore aveva deciso di mandarlo in missione per convincere i Lupi Mannari a non lasciarsi sedurre dalle proposte di Voldemort (cosa assai improbabile) lo avrebbe fatto senza esitazioni. Ma per i Vampiri? Non sapeva quasi nulla a riguardo e dubitava fortemente che l’arcigno collega possedesse informazioni più precise. E poi perché aveva scelto lui?

- Remus – lo chiamò Dumbledore, strappandolo dai suoi pensieri – Immagino ti stia chiedendo come affrontare la comunità dei Vampiri…-

Lupin fissò i suoi occhi dorati sulla cattedra al centro dello studio, evitando di guardare Dumbledore.

- Si, Preside. -

Dumbledore si lasciò scappare un mezzo sorriso: - Credo che Igor sia più adatto di me a spiegarti…-

- Si, si Dumbledore – lo interruppe quest ultimo con un ringhio frustrato – Ho ricevuto il messaggio. Sarò breve, Lupin – aggiunse poi, rivolgendo i suoi occhi freddi verso l’altro – Sono un mezzosangue, metà umano e metà vampiro. Comprendi? -

Lupin lo guardò sconvolto: - Come? Metà Vampiro? –

- O metà Umano, come preferisci. Per me è indifferente. – sbottò. Ciò detto si alzò e, senza una parola, si avvio verso l’uscita dello studio del Preside, a passi pesanti.

- Karkaroff… dove… dove diamine stai andando! – sbottò Remus, ancora frastornato per la notizia. Un ex-Mangiamorte metà Vampiro come compagno di viaggio. Che splendide prospettive, pensò sarcastico.

- Vado verso le cucine, Lupin. Non mangio da tre giorni. Per mia disgrazia non posso sgozzare la gola a nessuno per riempirmi lo stomaco o avrei risolto il problema già da un bel pezzo. Con permesso, Dumbledore –

Ciò detto sparì dalla loro vista.

 

…………………………………………………………………

 

Era buio, ma non freddo.

C’era qualcosa di caldo vicino a lui. Qualcosa di vivo.

Luna

Snape aprì gli occhi, a fatica, sentendo le palpebre pesanti. Percepì la ragazzina accanto a sé ancor prima di metterla a fuoco. La sua presenza familiare lo rassicurava in qualche strano modo.

Sollevò la testa e poi il busto, accorgendosi solo in quel momento di essere sdraiato a terra, dall’altro lato della piattaforma, nella stessa stanza quadrangolare con la gradinata di un anfiteatro. La stanza che custodiva il Varco.

Si guardò intorno, spaesato.

Luna era lì, ancora incosciente, a pochi centimetri da lui. Spaziò con lo sguardo, alla ricerca di un qualsiasi particolare che gli segnalasse di essere in un altro mondo, così come era successo quando era piombato nella Dimensione in cui l’aveva spedito Voldemort.

Non trovò nulla.

Eppure era sicurissimo di essere transitato attraverso il Varco, si disse, sollevandosi con un leggero fruscio delle sue vesti nere. Non sembrava cambiato niente…

- Invece ogni cosa è diversa, giovane mago – mormorò una voce alle sue spalle. La sua Morte era lì, insieme a quella di Luna, in paziente attesa.

Severus si guardò ancora una volta intorno – Non riesco a comprendere – sussurrò, cercando di tenere a bada la confusione. Guardò la Corvonero ancora svenuta, si inginocchiò e le passò una mano dietro la schiena.

- Enervatemormorò, poi l’aiutò a tirarsi su. Luna sbatté le palpebre due, tre volte. Severus vide che i suoi occhi non erano tornati normali.

- Siamo arrivati… - mormorò la quindicenne, con un filo di voce.

- Tu… tu vedi qualcosa? – le chiese Snape, attonito.

- Si, ma… non so… non so come spiegarlo. E’ così strano… -

- Siete su un altro piano dell’Esistenza. – intervenne allora una delle due Morti –  Il mondo intorno a voi non è mutato, è cambiato invece lo spazio in cui vi muovete, camminate, respirate.

Lo spazio in cui esistete. –

Snape la guardò, senza dire una parola.

- Te ne accorgerai da solo, giovane mago, - proseguì il Custode - non appena vedrai te stesso camminare in mezzo all’umanità senza che nessuno sia in grado di vederti o sentirti e senza che tu possa sfiorare nessuno. Condividerete il mondo con gli uomini ma non ne farete parte. Sarete come ombre –

Snape annuì, incerto. – Cosa vede la ragazza? – chiese poi alle due figure scintillanti dinanzi a sé.

- La bambina vede l’essenza delle cose, ma per muovere i suoi passi in questa dimensione avrà bisogno di chi ne vede la forma. Avrà bisogno di te, Severus, come tu necessiterai lei. Senza l’una non può esserci l’altro. -

Snape restò in silenzio, il viso imperscrutabile. Luna rivolse i suoi occhi ciechi su di lui.

E vide.

E comprese.

- Cercherete il Signore Oscuro attraversando questa dimensione – soggiunse l’altra Morte – Solo qui potrete liberare il suo Custode e restituirgli la mortalità. Noi saremo con voi in tempo di bisogno-

Ciò detto, i due custodi svanirono lentamente, mentre l’argento si stemperava nel grigio della luce soffusa.

Snape guidò delicatamente Luna per le alte gradinate, evitando di farla incespicare. Uscirono dalla Stanza del Velo, sbucando nella Camera Circolare, silenziosa e immobile. Imboccarono subito la porta che dava sul corridoio verso l’ascensore, mentre i suoni provenienti dai piani superiori del Ministero giungevano ovattati, un mormorio confuso e incorporeo.

Quello stesso mormorio incorporeo.

Snape si fermò davanti all’ascensore, in attesa. Guardò Luna e scoprì che lo stava fissando con gli occhi bianchi e luminosi.

 

Sulle sue labbra dell’uomo si distese il solito sorriso di sbieco. Forse aveva capito cosa l’ “Angelo d’Argento” avesse voluto dire.

 

L’essenza delle cose.

 

Continua….

 

Et voilà, un altro capitolo è andato!

Probabilmente molti resteranno delusi una volta scoperta qual è la vera natura del Regno delle Ombre. A dire la verità ho riflettuto molto e molto a lungo su come avrei potuto renderlo al meglio… e in un lampo di comprensione ho capito che non mi serviva nessun luogo immaginario e sconosciuto (che comunque ho già inserito nei capitoli precedenti, ricordate La Cattedrale di Ossa e la Terra del Non Realizzato?). Avevo solo bisogno di un piano esistenziale diverso, ma non scollegato e alieno dal mondo stesso… ed eccolo qui. Ma non crediate che il Regno delle Ombre sia una semplice scarpinata fino allo Zio Voldie. Attendetevi molte sorprese!

Vi ringrazio per tutte le recensioni, per le vostre parole che mi regalano quantità industriali di coraggio ed entusiasmo: siete speciali, davvero.

Un bacione, Charlie.

 

* La citazione è di Virgilio

Ritorna all'indice


Capitolo 20
*** Ab imis fundamentis ***


Bellatrix Lestrange e gli altri personaggi che compaiono in questa fanfiction sono proprietà di J

Bellatrix Lestrange e gli altri personaggi che compaiono in questa fanfiction sono proprietà di J.K. Rowling e di editori come Bloomsbury, Bros, Salani. Nessuna violazione del copyright si ritiene pertanto intesa.

 

 

“La natura è un tempio dove colonne vive

lasciano a volte uscire confuse parole;

l’uomo vi passa attraverso foreste di simboli

che l’osservano con sguardi familiari.

 

Come echi lunghi che da lontano si fondono

in una tenebrosa e profonda unità

vasta quanto la notte e quanto la luce,

i profumi, i colori e i suoni si rispondono.

 

Ci sono profumi freschi come carni infantili,

dolci come oboi, verdi come praterie

-         e altri corrotti, ricchi e trionfanti,

 

che hanno l’espansione delle cose infinite,

come l’ambra, il muschio, il benzoino e l’incenso

che cantano l’abbandono dello spirito e dei sensi.”

 

Charles Baudelaire, “Corrispondenze”, Les Fleurs du Mal

 

 

Ab imis fundamentis

- Dalle più profonde fondamenta -

 

 

- Signor Longbottom -

La voce di Minerva McGonagall sembrava sul procinto di spezzarsi. A passi silenziosi si era avvicinata al lungo tavolo dei Grifondoro, dove decine di ragazzi stavano pranzando tra il chiacchiericcio confuso e stordente della Sala Grande. Molti visi si girarono verso di lei, sorpresi di vederla comparire all’improvviso alle loro spalle.

Neville Longbottom alzò il viso smagrito dal piatto, ancora con le posate strette tra le mani.

- Voglia seguirmi nel mio ufficio – continuò la professoressa, stringendo le labbra nella difficile impresa di controllare le sue emozioni in modo adeguato. Si voltò, senza aspettare la reazione di Neville, che, confuso, si affrettò a fare come gli era stato chiesto. Il ragazzo si alzò dalla panca un po’ impacciato, cercando di districare la divisa che si era aggrovigliata al solito intorno alle caviglie. Minerva McGonagall era già ad alcuni metri di distanza quando si fermò, in preda ad un ripensamento. Le sue spalle sembravano insolitamente fragili e cascanti.

- Potter, Granger, Weasley – esclamò, voltandosi  ancora verso il tavolo – siate così gentili e solerti da accompagnare il signor Longbottom. Se non sbaglio voi ne siete a conoscenza… - aggiunse poi, a voce tanto bassa da essere a stento udibile.

Un altro rumore di panche spostate e i tre coetanei si alzarono, guardandosi l’un l’altro senza pretendere di nascondere la sorpresa, la curiosità e un sottile senso di gelida inquietudine che aveva cominciato a strisciare subdola.

Hermione si chiese dove potesse essere Luna Lovegood. Dumbledore aveva comunicato a tutta la scuola, in Sala Grande poco prima del pranzo, che sia lei che Severus Snape erano partiti per questioni personali. Non aveva aggiunto altro. Hermione non aveva fatto quasi caso all’autentico urlo di gioia che si era levato dalla tavola dei Grifondoro. Il felice pensiero di non avere ore di lezione con Snape per un bel po’di tempo era passato in secondo piano, impegnata com’era a riflettere su cosa il Preside aveva appena detto. Questioni personali di Snape, dopo i problemi di salute che aveva avuto? Cosa poteva essere successo a Luna? E poi perché Minerva McGonagall sembrava così turbata? Decise di farsi spedire l’indomani una copia del Quibbler, forse avrebbe scoperto qualcosa…

- Professoressa McGonagall… - cominciò Hermione, raggiungendo velocemente l’insegnante ancora immobile.

- Non ora, Granger – mormorò la donna, senza però dare segno di essere irritata. La ragazza ammutolì come se l’avessero schiaffeggiata sulle labbra.

I suoi occhi attenti avevano notato le linee tese dell’anziano volto, le labbra esangui, lo sguardo lucido della donna che sembrava d’un colpo rattrappita sotto il peso di qualcosa di indicibile. Hermione sentì un brivido ghiacciato scenderle giù per il corpo.

E’ successo qualcosa di grave.

Si voltò verso Ron, fissandolo intensamente come se volesse trasmettergli quella consapevolezza entrata di prepotenza nella sua testa, ma il sedicenne dai capelli color fiamma sembrava distratto, pensieroso, e non le prestò attenzione. La ragazza sbirciò per un attimo Neville.

Occhi smarriti su un incarnato pallido.

Sembrava qualcuno che cercasse invano di scacciare un orribile presentimento.

Harry Potter camminava al suo fianco, la preoccupazione nello sguardo.

Giunsero ben presto nell’ufficio dell’insegnante di Trasfigurazione. La McGonagall li fece accomodare, mantenendo costantemente quell’espressione angosciata che le era così poco consona.

La donna si avvicinò a Neville, che stringeva i braccioli della sedia con tanta forza da sbiancarsi finanche le unghie. Il respiro era diventato veloce e superficiale.

- Neville…abbiamo appena saputo… vedi, poco fa… tua madre… - cominciò l’anziana vicepreside, faticando a trovare le parole.

Non ce ne fu bisogno.

Con un urlo il ragazzo scoppiò in pianto, scosso da singhiozzi irrefrenabili. Affondò il viso congestionato nell’incavo delle mani, mentre gli altri tre ragazzi si alzarono per correre ad abbracciarlo, nonostante sapessero quanto quel gesto fosse quasi del tutto inutile.

Ma era l’unica cosa che potevano fare.

 

……………………………………………………………

 

Lo sferragliare del grande ascensore in risalita giungeva attutito ai loro sensi in allerta. Il Nono Piano che ospitava l’Ufficio Misteri e le scalinate per le aule del Wizengamot si allontanò velocemente, sparendo sotto i loro piedi.

Luna continuava a guardarsi intorno, come se riconoscesse qualcosa. O almeno era quello che Snape, tenendola per mano, pensava.

 

Severus non si era mai sentito così in vita sua.

Esposto, nudo, vulnerabile.

Eppure sotto quello sguardo bianco era senza difese.

Strinse le dita intorno alla bacchetta, saggiandone la conosciuta e rassicurante levigatezza. La sua magia lo confortava, si sentiva sollevato al pensiero che, nonostante si trovasse nel Regno delle Ombre, fosse in grado di compiere incantesimi come se non avesse mai attraversato quel Velo.

Il suo sguardo scrutò l’ambiente circostante. La folla di maghi e streghe che si riversava nell’Atrium dagli ascensori e dai camini rumoreggiava incessantemente, ma Severus riusciva a percepire solo un debole vociare indistinto, come se tutto l’immenso atrio del Ministero fosse immerso in un mare di ovatta invisibile. Lui e la ragazza Corvonero stavano camminando sullo stesso pavimento di lucido legno scuro calcato dal centinaio di persone che si trovavano in quel momento con loro, eppure non avrebbero potuto incontrare nessuno.

Vedeva uomini e donne passargli accanto, ma era come se costoro fossero separati da qualcosa che li rendeva inarrivabili. Corpi si muovevano intorno a loro; braccia, mani e gambe spostavano l’aria, tuttavia Severus e Luna restavano inaccessibili, camminando solitari in quella dimensione occultata tra le pieghe del mondo.

Riemersero lentamente nella Londra babbana, avvolta dalla tenue luce del vespro. Snape accese la punta della sua bacchetta con un lieve movimento, aspettandosi che Luna facesse altrettanto, ma la ragazza si limitò a stringergli la mano con maggior forza, rimanendo immobile.

- Non posso usare la magia, professore – disse con un filo di voce.

Snape la guardò, spiazzato. – Perché?- fu tutto quello che riuscì a chiedere.

- Non mi è concesso – sussurrò, guardandosi intorno. Severus la imitò, pensieroso.

 

Fu solo allora che comprese di non essere più soggetto alle regole del tempo.

 

Di fronte a sé vide strade strette in terra battuta che, con la pioggia che cadeva senza bagnarli, si era tramutata in fanghiglia. Vide case di nuda pietra e tetti di rami e paglia, dalle finestre buie e senza vetri, con le porte di legno tarlato, punteggiate qua e là da chiodi semidivelti.

Vide carri trainati da massicci cavalli dal pelo lungo che transitavano lentamente davanti a misere locande appestate dall’odore di zuppa rancida e pane stantio. Un uomo avvolto in logori indumenti gli passò accanto, portandosi dietro il lezzo di letame secco che gli incrostava le scarpe di corda e stoffa.

Non capiva…

Gli sembrava di essere arrivato in pieno Medioevo…

Un rumore di zoccoli sempre più intenso alle sue spalle lo mise in allerta.

Il Professore di Pozioni si voltò di scatto. Un purosangue nero, appesantito da una lucente armatura grigia, come lo era l’uomo che lo cavalcava, sfrecciò velocissimo accanto a Luna, i crini della coda che frustavano l’aria. Snape sbatté palpebre, incredulo.

Erano nel Medioevo.

- Per tutti i Numi… -

La ragazza non parve nemmeno accorgersi del terreno che vibrava sotto i suoi piedi per la potenza del galoppo… anzi, non sembrava essersi accorta di nulla, continuando a fissare dritto davanti a sé, ferma come una statua.

L’uomo non aveva idea di cosa Luna stesse vedendo, ma non fece in tempo a rendersi conto di quello che stava succedendo perché la scena davanti ai suoi occhi cambiò ancora. Le case fatiscenti tremolarono, poi svanirono lentamente, stemperandosi nell’ombra della sera imminente. Al loro posto comparvero cumuli di macerie, che intasavano strade ormai impraticabili, e alti complessi di case popolari, molte delle quali sventrate da esplosioni.

- Non è possibile…-

Il suono lacerante di una sirena squarciò l’aria e a questo si unì il rombo terrificante dei motori di centinaia di aerei.

Luftwaffe.

Un fiume umano si riversò allora in quella strada, uomini, donne, bambini che correvano disperatamente verso il rifugio più vicino, urtandosi, ondeggiando, quasi calpestandosi, tutti presi da un’indicibile paura.

L’esplosione di una bomba che cadde non molto distante da lo fece quasi cadere a terra. La folla urlò, dimenandosi come un gigantesco animale ferito, e prese a muoversi con furia maggiore, cercando di evitare i mattoni, le lamiere e i calcinacci che sbarravano la via in più tratti.

Merlino, quello era un bombardamento.

Seconda Guerra Mondiale.

Il cuore di Snape accelerò i battiti, mentre la comprensione trovava la strada della sua mente.

 

Il Regno delle Ombre era in tutti i tempi della storia dell’Uomo, e tutti i tempi erano nel Regno.

 

Severus si sentì schiacciato. Trovare Voldemort in quella dimensione sarebbe stato impossibile… non sapeva da che parte andare, come muoversi, che via percorrere.

Si sentì irrimediabilmente perduto.

Questi erano i suoi pensieri, mentre lo scenario di fronte ai suoi occhi sbalorditi cambiava nuovamente: le macerie scomparvero insieme alla folla ululante per essere sostituiti da alberi che svettavano altissimi in mezzo a un fitto e intricato sottobosco. Fu allora che Luna, immobile sino a quel momento, mosse un passo in avanti, portandolo con sé.  

 

Era… nebbia. Si, simile alla nebbia, si disse, mentre camminava.

Un vapore grigioazzurro che si torceva su se stesso in volute sottili, etereo, solo debolmente consistente.

Strie monocrome che collegavano il mondo.

Sua madre glielo aveva detto, una volta, molto tempo fa.“C’è qualcosa che tiene unita l’umanità, Luna, nonostante quest’ultima abbia spesso tentato di lacerarla.

Ricordava quel giorno.

Aveva sette anni e non aveva capito bene quello che la sua mamma, intenta a rimestare in un calderone un denso liquido lattescente, stava cercando di spiegare.

“Vedi, bambina mia, le persone… tutte le persone, anche quando si trovano in totale isolamento, non sono mai completamente sole. C’è sempre qualcosa che le unisce al resto della gente. Per molti ciò è una gioia, per molti altri un tormento. E’ nell’indole dell’uomo anche il tentare di distruggere questi legami” aveva continuato Diana, tergendosi il viso accaldato con un panno ormai umido. Luna aveva taciuto per qualche istante, cercando di riordinare i pensieri.

Che cos’è l’indole, mamma?”

“L’indole? Beh…Diciamo che è la natura dell’essere umano.”

Sua madre aveva sorriso.

Perché le persone vogliono distruggere i fili, mamma?”

Diana l’aveva guardata, gli occhi così simili ai suoi tanto che Luna aveva avuto l’impressione di vedersi riflessa.

“Non sono esattamente ‘fili’, piccolina, ma come paragone è davvero calzante. Molte persone temono quei fili, Luna. I legami spaventano, specialmente se non ci si aspetta di averne.

Lei aveva riflettuto in silenzio per un po’, aggrottando le sopracciglia in un’espressione matura che non si conciliava con il suo volto infantile. Poi aveva fatto una domanda.

Anche Tu-sai-chi aveva paura dei legami?” aveva chiesto, il visetto serio, le piccole mani screpolate dal rigido freddo inglese.

“Si, Luna. Specialmente lui li temeva” aveva risposto la madre, con voce pacata. La bambina aveva spalancato gli occhi, stupita.

Pensavo che Tu-sai-chi non avesse paura di nulla, visto tutte le cose terribili che ha compiuto!”

Il volto di Diana si era fatto distante, come se stesse osservando attentamente qualcosa. Guardò di fronte a sé, attraverso la finestra che si apriva sul muro settentrionale della stanza e che dava sulla campagna inglese, addormentata sotto una coperta di neve fresca. Rimase silenziosa per qualche istante, i pensieri inaccessibili e occultati da un’espressione calma, poi tornò a guardare la figlia, che non aveva smesso per un solo momento di fissarla.

Tu-sai-chi ha compiuto quelle cose terribili proprio per liberarsi dalla sua paura, piccola mia.”, disse, quasi sottovoce.

“Non capisco. Però non è riuscito a fare quello che voleva fare, vero, mamma? E’ morto, lo sanno tutti!”

Sua madre le aveva accarezzato una guancia, con affetto, ma non aveva risposto.

Luna, già dimentica della sua domanda, le era andata incontro, abbracciando le sue ginocchia e Diana si era chinata per poterla prendere in braccio.

“Luna, piccola mia.”

Il suo angelo leggero e mingherlino dagli occhi troppo grandi.

L’aveva stretta a sé, baciandola sulla fronte e sui capelli che profumavano di shampoo per bambini. Sua figlia aveva ricambiato il bacio, incollando le labbra umide sulla punta del suo naso, con un risolino divertito. Quella birbante amava schioccare baci sul naso per qualche bizzarra e sconosciuta ragione.

“ I love you, mummy!”

 

- Luna! –

 

“I love you, mummy…”

 

- Luna Lovegood! -

Una voce nota la strappò brutalmente ai ricordi della sua infanzia. Si fermò di colpo, rischiando di far incespicare il suo compagno di viaggio.

- Mum …oh… pro-professor Snape…? -

Severus Snape l’osservò per alcuni istanti, sincerandosi che non si stesse sentendo male. Il viso della ragazzina era talmente pallido da farla sembrare malata. L’uomo avvertì la sua mano fredda tremare leggermente contro la sua.

- Spero tu abbia una vaga idea su dove stiamo andando! – berciò caustico.

La quindicenne guardò Severus Snape, fissò gli occhi su un volto che pareva traslucido.

 

Era come osservare una trasfigurazione continua.

Non avrebbe mai immaginato che l’insegnante più detestato di Hogwarts negli ultimi tempi – con la probabile eccezione di Dolores Umbridge – potesse celare ai più quello che lei stava vedendo.

Severus Snape custodiva qualcosa dentro di sé. Non riusciva a distogliere lo sguardo.

Era rassicurante. Caldo. Avvolgente. Vivo.

Era umano. Era bellissimo.

Luna non sapeva definirlo, ma altrettanto bene sapeva che fin quando Snape fosse stato lì con lei non avrebbe avuto paura.

- Certo che lo so, professore. Non lo vede anche lei? Dobbiamo seguire i fili, tutto qui! -

Non si accorse dell’espressione sconcertata sul volto dell'uomo, perché tornò a guardare la nebbia eterea che volteggiava in quella dimensione surreale. Tutto intorno a lei sembrava stranamente vivido e lucente, senza sfumature o gradazioni, dipinto a colori forti, quasi violenti, i contrasti netti, gli stacchi decisi. Oggetti e figure irriconoscibili erano ovunque, disposti senza alcuna logica; strade e vie si intrecciavano più volte, alberi, case, grattacieli, tutto era mischiato e sovrapposto in un caos strano ed inquietante. Eppure quel vapore azzurro avvolgeva ogni cosa, imbrigliando il mondo in una rete impalpabile e dirigendosi verso una meta sconosciuta.

 

Una meta sconosciuta, ma accessibile. E lei riusciva a scorgere la direzione da seguire per potervi giungere. Era sicura che quello che cercavano si trovasse lì, sui confini invalicabili di quel Regno.

Sapeva che sarebbe stato difficile. Il pericolo era in agguato, poteva sentire il suo fiato fetido sul collo. Strinse per la terza volta la mano di Snape, il cui palmo inaspettatamente caldo aveva cominciato ad intiepidire le sue sottili dita fredde.

Si, di nuovo quella sicurezza.

Luna si concentrò sulla nebbia che fluiva verso un’unica direzione.

“C’è qualcosa che tiene unita l’umanità, Luna”

Ora poteva vederlo.

Poteva vederlo con gli occhi resi ciechi dalla consapevolezza.

 

…………………………………………………

 

- Dunque sei arrivato troppo tardi -

La voce dell’Oscuro era bassa, gelida e controllata.

Affilata dalla furia repressa.

Lucius Malfoy cercò di non abbassare gli occhi a terra sotto quello sguardo agghiacciante, ma l’istinto fu più forte della sua pur salda volontà e si ritrovò in breve a fissare il pavimento di pietra spoglia. Sapeva bene che Lord Voldemort non tollerava inadempienze e conosceva altrettanto alla perfezione i modi in cui il suo Signore manifestava il proprio disappunto.

Non aveva paura per sé, non temeva una punizione, anche se atroce.

Il dolore non lo spaventava.

Lui aveva commesso un errore ed era giusto che adesso ne subisse le conseguenze. Si, avrebbe pagato, se l’Oscuro avesse voluto punirlo per il fallimento ad Emerald Ring, come aveva già fatto tempo prima con Nott, sebbene la Cruciatus che aveva scagliato addosso a quell’uomo per ore ed ore lo aveva portato sull’orlo dell’insania. Quello che non riusciva a tollerare, invece, era il pensiero che la Sua ira si scagliasse contro le persone che lui amava.

Lui…lui temeva per sua moglie.

Per suo figlio.

Il solo pensiero che la Sua vendetta potesse ricadere su di loro gli procurò un brivido di angoscia. La fronte alta e pallida si imperlò di gocce di sudore freddo, ma lui non osò muoversi per tergersi il volto, consapevole che l’Oscuro avrebbe percepito nei gesti inquieti la preoccupazione che aveva cominciato ad assalirlo.

- Lucius – sussurrò Voldemort. Quella voce lo trafisse.

Sentì come se qualche misteriosa forza lo obbligasse a rialzare gli occhi sul volto serpentino del suo Signore. Questi lo fissò con le pupille strette, inarcando le labbra sottilissime verso l’alto. Sapeva che l’avrebbe fatto e sapeva altrettanto bene che non avrebbe avuto la forza necessaria per opporsi… forse… forse Severus ne sarebbe stato capace, si disse, prima che Voldemort scagliasse su di lui il Legilimens, con tutta la terrificante, violenta potenza della sua mente.

 

Narcissa

Le immagini di lei, del suo bellissimo e regale viso, appartenevano a tempi recenti e remoti. Eccola bambina timida ed educata, le prime volte che si era recato a casa dei Black, in compagnia dei suoi genitori; la ricordò adolescente, rivide il giorno del loro fidanzamento, delle successive e sfarzose nozze… vide il visetto di un bimbo biondo immerso tra le lenzuola bianche e calde di una culla.

Draco

Il pianto fanciullesco. Il viso delicato e infantile.

Undici anni, la divisa di Hogwarts appena acquistata, il sorriso felice.

Dodici anni, i suoi occhi scintillanti di gioia alla vista delle sette Nimbus 2001.

“Oh, padre, grazie! Con queste vinceremo la Coppa, ne sono certo!”

Tredici anni, il giorno di Natale, nel viale del Malfoy Manor, mentre accoglieva gli ospiti con elegante disinvoltura.

Draco…

Voldemort scandagliò la sua mente, violò i ricordi alla ricerca di eventuali menzogne e lui non poté opporsi. Non tentò neppure di farlo, sapendo che sarebbe stato inutile. Si, ormai gli apparteneva. Per sempre.

Eppure Lucius riuscì a percepire qualcosa durante l’incantesimo.

Qualcosa che lo sconvolse.

La mente del suo Signore non riuscì a rimanergli del tutto sigillata… Lord Voldemort non poté chiuderla completamente: spiragli sufficientemente ampi si aprirono e lui fu in grado di catturare una piccola parte dei Suoi pensieri e progetti. Vide il dolore costante che lo assillava, la straziante sofferenza che quel corpo inadatto alla sua immensa potenza gli procurava, donandogli eterno tormento. Il volto di Barthy Crouch, con l’anima colmata da magia velenosa, balenò alla sua coscienza stordita. Poi, alla fine, la vide.

Una figura argentata, un essere dalla forma antropomorfa, in una prigione senza sbarre, circondata dal vuoto, destinata a rimanere lì per tutta l’eternità.

Il senso di orrore inumano che l’aggredì lo sopraffece, facendolo cadere pesantemente sulle ginocchia. Lo prostrò violentemente a terra, lasciandolo boccheggiante, scuotendolo sin nelle fondamenta dell’anima, squassando le certezze, sbriciolando i suoi punti saldi.

Non sapeva cosa significasse quello che aveva appena scorto, eppure dentro di sé sapeva, conosceva la risposta.

Lord Voldemort si era spinto oltre.

Troppo oltre.

La sua natura di essere umano si era ritratta urlando, inorridita e sgomenta.

L’incantesimo si spezzò, lasciando il biondo Mangiamorte in ginocchio e con il fiato corto. L’uomo si rialzò scompostamente, riuscendo con difficoltà a coordinare i propri movimenti.

- Vedo che non mi hai mentito, Lucius – disse l’Oscuro, piano  – Puoi andare, se lo desideri -

L’uomo non permise al senso di terrore di manifestarsi sui suoi lineamenti. Fece un passo verso Voldemort, si inginocchiò nuovamente per baciargli la veste e poi si smaterializzò.

Il Lord Oscuro si voltò, l’espressione indecifrabile sul volto marmoreo.

Conosceva la potenza dei legami, specialmente dei legami di sangue.

 

Aveva imparato a non sottovalutarli.

 

……………………………………………………………

 

- Lucius! -

Era piombato nel salotto del Malfoy Manor in modo tanto improvviso che Narcissa era sobbalzata al suono di quella materializzazione frettolosa. Si era alzata dalla poltrona su cui sedeva poco prima, aveva posato il libro che stava leggendo e gli era corsa incontro, notando immediatamente la sua espressione sconvolta.

- Lucius, cosa è… -

Il marito non la lasciò terminare, perché la afferrò per la vita e la trasse a sé, per stringerla in un abbraccio così intenso da mozzarle il fiato. Le mani di Lucius le premevano sulle spalle e sulla vita con insolita forza, mentre la testa di lui era poggiata sull’incavo del suo collo, sepolta sotto i lunghi capelli biondi.

- Lucius… -

L’uomo la strinse di più e lei avvertì finalmente la sua angoscia e disperazione.

Fu una sensazione quasi fisica.

Da quando lo conosceva non si era mai comportato in un simile modo. La donna alzò incerta una mano e gli carezzò la testa in modo rassicurante, non sapendo esattamente come comportarsi. Doveva essere successo qualcosa di terribile…

Il respiro di Lucius contro il proprio collo continuava ad essere corto e superficiale, i muscoli della sua schiena erano rigidi, le braccia che la serravano rimanevano immobili.

 

- Cosa è accaduto, Lucius? – sussurrò Narcissa contro la sua guancia fredda.

L’uomo si staccò brevemente da lei, guardandola con tanta intensità da farla arrossire come se fosse ancora quella ragazzina tredicenne che si era innamorata di lui a prima vista.

 

- Narcissa… - Il suo nome, appena sussurrato.

Lucius la guardò come se stesse osservando la ragione incarnata della propria vita. Avvicinò il volto al suo, osservando il lieve rossore che aveva colorato le gote di sua moglie. Non gli era mai parsa così bella come in quel momento.

La baciò con un trasporto centuplicato dal magma di sentimenti che ribolliva nella sua anima turbata e impaurita, cercando conforto sulle labbra della donna che amava, sul suo volto, tra i capelli morbidi, sulle linee armoniche della sua figura sottile.

- Narcissa… - mormorò ancora contro la sua bocca, intessendo in quelle sillabe amore, desiderio e inaspettata richiesta di aiuto.

- Cos’hai visto, Lucius…? -

La voce del marito le parve debole e distante, come se lui faticasse enormemente nel parlare.

- La fine… Ho visto… ho visto la fine. –

 

Continua…

 

Et voilà, il ventesimo capitolo!!

Vi confido una cosa: scrivere il pezzo di Luna e Severus è stato parecchio… complicato, ecco. Non sapevo come rendere esattamente l’idea che ho nella mia testa sciroccata del Regno delle Ombre e, soprattutto, come presentarla da entrambe le prospettive di Sev e Luna. Spero di non aver fatto troppo male…

Ed ora passiamo alle risposte!!

 

Vale: Grazie mille! Sono contenta che la scelta sia di tuo gradimento!! Purtroppo sono impegnata con gli esami e non posso essere troppo veloce con gli aggiornamenti… ma vedrò di fare il possibile!

 

Ida59: le tue recensioni sono sempre bellissime! Mille grazie! Hai interpretato abbastanza bene l’indizio sugli occhi di Luna, Diana c’entra qualcosa in questa storia… ma vedrai in seguito! (^^) Come vedi c’è un motivo per la cecità di Luna: senza di lei infatti Severus non potrebbe muovere un solo passo nel piacevole (??? Piacevole? Starai scherzando! – ndSeverus imbufalito) luogo in cui al momento si trova… Il nostro caro nonno Albus ha un formidabile intuito, ma ti assicuro che non sa nulla sullo strano “potere” che si manifesta in Luna – tra l’altro non è nemmeno un vero e proprio “potere”, perché non le consente di usare la magia. La nostra piccola Lunatica ha capito chi è veramente Severus… Ti ringrazio ancora per la bellissima recensione!

 

Chiara T: Grazie tantissime! Come vedi la sto continuando, anche se a velocità ridotta… A presto!

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=4154