La reincarnazione di trullitrulli (/viewuser.php?uid=46671)
Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.
Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10 ***
Capitolo 1 *** Capitolo 1 ***
La
reincarnazione
Camminava lungo la
strada sospesa tra le nuvole insolitamente gialle che spiccavano sul
cielo perennemente rosato.
Barbagli di luce blu avanzavano lasciando dietro di se una scia
luminosa fosforescente.
Piccole fiammelle che emanavano un aura luminosa e che proferivano, pur
senza le labbra, parole, chiacchieravano gli uni
con gli altri, agitati, poiché si trovavano in coda li da
molto tempo, aspettando che avanzassero gli altri davanti a loro.
A volte provavano a spintonarsi, intimandosi a vicenda di fare in
fretta, ma non riuscivano a sfiorarsi: si attraversavano.
Lo schiamazzo generale di tutte le luci che animavano il serpentone
conducente al palazzo di re Jammer era composto da voci, lingue e lemmi
di diversi pianeti; un vocio nel cui insieme non si distinguevano
più nemmeno le parole formulate, per la maggior parte
estranee a lei e a tutti i terrestri che forse si erano sparsi per la
strada.
Si guardò un po’ in giro, non avendo imparato la
percezione delle aure non poteva distinguere nessuno, li tutti erano
lucciole dalle calde radiazioni luminose
azzurre, albori, spiriti.
Omini dalla pelle blu guidavano il flusso di luci da una postazione
più in alto; piedistalli si innalzavano a ogni curva della
strada sospesa, alti a sufficienza perché gli occupanti
potessero avere una visione abbastanza ampia del traffico.
Con un megafono incollato alle labbra urlavano alle fiammelle azzurre
di non agitarsi e di aspettare che le file procedessero da se senza
forzature, senza superarsi l’un altro e che il loro turno
sarebbe comunque venuto.
Una volta che l’ennesimo fantasma fu collocato dove re
Yhammer l’aveva designato venne il suo turno.
La stanza era enorme quanto il suo occupante, che sedeva ad una immensa
scrivania di legno dove erano posati mucchi e mucchi di carte, plichi
di fogli, registri e quant’altro.
L’ennesimo timbro venne impresso su una carta che
successivamente venne messa da parte, andandosi ad aggiungere alla
torre che si era creata nel corso dell’ultima ora al lato
della scrivania.
Avanzò sul tappeto che si srotolava dall’ingresso
fino ad arrivare dinnanzi alla scrivania del colossale giudice che
squadrava con severità chiunque entrasse.
Consce che da lui dipendeva la loro sorte le anime si inchinavano con
rispetto e un certo timore reverenziale.
Una volta che il re ripose il timbro accanto alla penna stilografica e
levò lo sguardo dai documenti incontrando il suo bagliore la
scrutò stranito, le sembrò incerta, in presso
cinto di dire qualcosa .
Goku gliene aveva parlato, era una degli ultimi superstiti delle
battaglie contro i cyborg, colei che aveva costruito una macchina del
tempo per viaggiare da una dimensione all’altra e impedire
che catastrofici avvenimenti rovinassero anche la vita di altri
terrestri.
Colei che aveva allevato un figlio sui terreni coperti di sangue e
macerie di case durante una guerra che gli umani non potevano
combattere.
Anche la sua ora era giunta, la sua come quella di tutti i suoi
compagni che già erano stati al suo cospetto, avevano
ammesso di essere pentiti dei loro peccati ed erano stati designati ai
regni alti dei cieli.
Tutti tranne
uno:… colui a cui lei teneva di più….
Lei era l’unica ad aver instaurato un legame con lui,
l’unica, forse, oltre a Goku, ad aver pensato, davvero che
Vegeta potesse cambiare, che sentimenti potessero attecchire nel suo
cuore.
L’unica che l’aveva indagato abbastanza da leggere
nei suoi occhi, oltre alla rabbia, tristezza.
L'unica che avesse avuto l’ardire, la sfrontatezza, e
sfacciataggine di sfidarlo.
La sola che lui, forse, aveva amato.
Il vincolo che li univa andava oltre la loro natura, buona o malvagia
che fosse, oltre le fazioni per cui combattevano, oltre la perenne
guerra tra bene e male.
Le circostanze, forse, avevano portato lui a scegliere di unirsi ai
paladini del bene, a cercare nuovi alleati, per poi, sempre forse,
tradirli.
L’allettante prospettiva di nuove battaglie sempre
più impegnative e il desiderio di superare il suo rivale
l’avevano portato a tornare sulla terra dopo un infinito
viaggio nello spazio alla ricerca di Goku.
Era li, nella capsule corporation, che Bulma sperava sarebbe rimasto,
prima che i cyborg lo strappassero via a lei e a suo figlio, lui, e un
gran numero dei suoi amici e di terrestri a lei ignoti.
Non poteva certo pretendere che re Yhammer gli perdonasse colpe tanto
gravi solo perché aveva combattuto per un po’ al
fianco dei guerrieri z.
La speranza di rivederlo nell’aldilà era morta con
lui e tutti gli altri.
Auspicava che con il tempo avrebbe combattuto non solo per
il suo orgoglio, perché la sua sete di potere potesse essere
soddisfatta, ma anche…per loro, per lei, per suo figlio,
come Trunks le aveva raccontato che avesse fatto per lui nell'altra
dimensione.
La morte era giunta troppo presto, i cybor gli avevano impedito di
riscattare le proprie colpe, di ottenere una seconda chanse, di
pentirsi, realmente.
E ora lei era li, sapeva quasi certamente che avrebbe raggiunto i suoi
amici dovunque ora loro si trovassero, sapeva che re Jammer le avrebbe
reso merito per i contributi dati nelle guerre a difesa della terra e
l’avrebbe compensata, ma il vuoto che Vegeta aveva lasciato
era incolmabile.
Raccolse tutto il
coraggio che aveva per esprimere un ultimo desiderio: voleva, per se stessa e per Vegeta,
un'altra vita, per assolvere i peccati della precendente.
Re Yhammer decise che, dopotutto, Vegeta meritava la seconda occasione che Bulma (e anche Goku) volevano gli fosse concessa e che avrebbe avuto sulla terra se fosse rimasto vivo…
Due
omini dalla pelle azzurra e dal corno d’avorio sulla
sommità
del capo che affiorava dalla capigliatura nera fecero il loro ingresso
da una
porta laterale.
Diedero uno sguardo al tappeto rosso dove le luci stavano in fila
attendendo
che la processione di una di loro fosse finita per avanzare di qualche
centimetro.
Valutarono bene se fosse il momento migliore per interrompere il loro
capo sul
posto di lavoro.
Lo sbattere del timbro sull’ennesimo registro
decretò la fine del processo e
l’anima potè essere condotta nel luogo a lei
designato.
-Re Yhammer?-
Il pretore fece segno alle luci di non avanzare e di attendere ancora
qualche
minuto.
-Le abbiamo portato ciò che ci aveva chiesto- disse
l’altro allungando le mani
unite a coppa sotto il bagliore di uno spirito dalla luce sinistra.
Re Yhammer annuì serio portandosi le dita intrecciate delle
due mani sotto il
mento.
-Dategli un corpo- ordinò.
L’omino disgiunse le mani da sotto il barbaglio che si
andò a posare poco
lontano dalla scrivania, fece segno agli spiriti di indietreggiare, in
modo che
la porta potesse essere temporaneamente chiusa e che potesse aver luogo
un
colloquio privato.
Attorno all’alone luminoso cominciò a caracollare
qualche scintilla, poi,
l’unione dello spirito con la carne avenne.
Un corpo con le mani a terra ansante e un po’ mal concio
stava prostrato allo
stremo delle forze stillando sudore e sangue che insudiciava il tappeto
della
sala.
Si mostrava nelle sue nudità il principe dei Sayan, spoglio
di qualunque forma
di indumento e di ricchezza.
Solo una miserabile anima al cospetto del suo giudice.
Appena aveva ripreso il suo corpo le sue energie erano state
prosciugate e lui
reso inoffensivo e vulnerabile.
-Congratulazioni, Vegeta, sembra che ci sia qualcuno che tenga
particolarmente
a te- lo schernì re Yhammer.
Il principe irrigidette i muscoli, solo ora si era reso conto di
possedere un
corpo, ma si sentiva come se gli fosse stata caricata a dosso una
montagna e
qualunque movimento gli costava uno sforzo che neanche le sue fatiche
nella gravity
room potevano eguagliare.
Il semplice accenno a voler sollevare il capo gli spezzava il collo.
Re Yhammer continuava a scrutarlo inclemente, non poteva avere riguardi
per un
anima così deprecabile.
-Purificatelo- ordinò ora rivolto agli omini senza
distogliere gli occhi dal
condannato.
-Portatelo alla fonte dell’acqua miracolosa-
Il timbro battè sui plichi di fogli che riguardavano Vegeta
e la sua decisione
fu resa ufficiale.
****
-Re Yhammer?-
Baba seduta sulla sua sfera di cristallo con le mani in grembo
osservava il capo rassettare le varie scartoffie e registri;
nient’altro che lunghissime, interminabili, liste di nomi.
-Che c’è?-
-è sicuro che sia saggio mandare quell’efferato di
nuovo nel mondo dei vivi?-
-Certamente,perché no?-
Baba rivolse un occhiata al soffitto.
-Mi sembra infruttuoso soddisfare le
richieste di quella donna- commentò sciettica.
-Tu davvero credi che io l’abbia fatto se non ci fosse stato
un motivo più urgente?-
Baba lo guardò perplessa.
-C’è un altro motivo perché quel
delinquente è stato rispedito laggiù?-
-Certo che si-
-Poteva mandarci Goku- fece notare.
Re Yhammer sbattè un registro sulla scrivania seccato.
-Pensi che non ci abbia pensato?Ma ti assicuro che lui non
può niente contro questa nuova minaccia, se fosse stato
così semplice tu avresti potuto farlo resuscitare, ma
stavolta non può farcela da solo-
Baba insisteva con il suo scetticismo.
-Ci sono orde di guerrieri nel paradiso poteva inviarci loro-
Re Yhammer si impose un contegno.
-Occorrono sayan- disse riprendendo nello sport estremo che
è riordinare – occorrono i più grandi
guerrieri della galassia, coloro che sono in grado di superare i loro
limiti, Vegeta non sarebbe mai stato disposto ad aiutarci di sua
spontanea volontà, per questo è meglio che venga
purificato e la sua memoria modificata.-
-Ma allora perché ha spedito in mezzo a pericoli
così gravi anche la ragazza?- disse felice di aver trovato
una faglia nel suo piano.
Re Yhammer sospirò –dopo tutto quello che ha
passato anche lei si merita la sua fetta di felicità-
Assunse un aria grave.
-Crede davvero che Vegeta riuscirà a riscattarsi e a
rimediare alle sue malefatte?- chiese con la sua voce gracchiante
Il colosso guardò Baba perplesso si sistemò il
colletto del completo a righe, non si illudeva, prese un espressione di
amaro realismo e sospirò.
–... la ragazza ci credeva-
Sorvoliamo il fatto che
questa sia la mia ennesima fic Bulma-Vegeta ma non ho mai digerito il
fatto che Vegeta fosse morto nella dimensione di Mirai Trunks e mi
sembrava che Bulma avesse il diritto di avere una seconda
possibilità con lui perciò per vostra immensa
sfortuna mi è venuta questa idea. ( sulla quale sto ancora
lavorando perchè devo definire bene un po' di dettagli ma ci
tengo molto a questa fic perciò spero vivamente che vi
piaccia*-* se qualcosa nella fic risulta poco chiaro verrà
spiegato col procedere dei capitoli).
La fan fic
è ispirata alla storia "la speranza è l'ultima a
morire" di taisa.
A scanso di equivoci
avviso fin da subito che non ho intenzione di cambiare le fattezze
fisiche dei personaggi.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 2 *** Capitolo 2 ***
La
reincarnazione
Il
portellone del velivolo si aprì con insopportabile lentezza
producendo un cigolio
della struttura e un sordo rumore metallico una volta che fu
atterrato sul cemento.
La bimba
gettò uno sguardo dietro di se, intravvedendo, dietro le
gambe della madre, e
delle guardie dietro di lei, distese e distese di prati ombrosi per le
nuvole
grigie passeggere che oscuravano la giornata.
Riusciva
a forare la coltre nuvolosa qualche fascio di luce, percorrendo
l’ombra che
imperversava, quasi fosse
un riflettore.
Pareva un
fenomeno quasi divino; la discesa sul pianeta di una forza astrale
benevola,
come una luce di redenzione.
Il
bellissimo pianeta terra.
Dopo aver
passato qualche settimana in quel mondo suo padre aveva capito che non
ci
sarebbero potuti essere rapporti con quei terrestri che ignoravano
addirittura
l’esistenza di altri corpi celesti sulle mappe stellari.
A quanto
sembrava, per loro, gli alieni erano leggenda.
Un patto
di amicizia non sarebbe stato una buona idea, non sarebbe stato saggio
sconvolgere il loro equilibrio emotivo.
Accerchiati
dalle scolte salirono sulla loro navicella, atterrata su una vecchia
autostrada
in rovina che gli abitanti dell’astro non utilizzavano
più da decenni.
La madre
la sospinse leggermente con la mano invitandola silenziosamente a
procedere più
svelta e una volta superata la soglia che li avrebbe riportati nel loro
mondo
evoluto, e gli avrebbe permesso di abbandonare quel mucchio di sassi
abitato da
creature dall’arretrata tecnologia, il portellone si chiuse
con ugual lentezza
e producendo lo stesso rumore metallico di poco prima.
-Ecco
Klareth, vedrai, tra pochissimo saremo di nuovo a casa- disse la
corpulenta
donna.
La
piccola alzò lo sguardo incrociando gli occhi dalla insolita
tonalità viola
della madre e assumendo un espressione molto seccata.
-Mammaaaa-
disse con tono lamentosa e cantileno –non chiamarmi
così…- continuò.
-E come
ti dovrei chiamare scusa?-
-Non con
un nome così brutto- disse la figlia imbronciandosi e
gonfiando le guance
stringendo ancora di più il suo coniglietto di pezza.
La madre
sorrise divertita e benevola e le arruffò i capelli azzurri.
-Sciocchina,
Klareth è un bellissimo nome- cinguettò zuccherosa
La figlia
si risentì ancora di più.
-No è
brutto- disse pestando un piede sul pavimento in metallo della
navicella con
fermezza.
La madre
continuando a sorridere si avviò verso la sua camera
coniugale lasciando la
piccola sola e immusonita che si esibì in un verso a
metà tra uno sbuffo seccato e
un grugnito acuto simile al rumore dei cardini arrugginiti.
Sentì il
sibilare del motore che sotto il loro piedi stava partendo, il
distendersi
delle ali che uscivano dalle loro coperture e il partire dei razzi.
L’aggeggio
levitò per qualche secondo, finche non trovò la
stabilità, poi il carrello
venne ritirato e la potenza dei propulsori aumentata.
La
navicella sfrecciò fuori dall’atmosfera.
La
piccola corse all’oblò per osservare la terra, che
da là su sembrava una palla
azzurra tranquilla sospesa in uno sfondo di stelle più
piccole.
Lentamente
le forme dei continenti non furono più distinguibili sulla
facciata del globo e
poi, la terra, ai suoi occhi divenne una tra i tanti puntini
luminescenti dell’universo
che riusciva a vedere dal vetro.
Sospirò e
appoggiò le punte dei gomiti sul piccolo davanzale
sorreggendosi la testa con
le mani.
Osservò
annoiata la sua immagine riflessa nel vetro
dell’oblò; capelli azzurri, legati
in due piccoli codini arruffati, viso paffuto, guance rosee, occhi
celesti, di
origine ignota, poiché i suoi genitori non possedevano
connotati simili, e un
paio di spropositate orecchie a punta.
Sbuffò e
sul vetro andò a formarsi un’evanescente macchia
di condensa che evaporò in
pochi secondi.
Saltò giù
dalla poltroncina su cui si era arrampicata per raggiungere la finestra
affacciata
l’universo e trotterellò verso l’ufficio
del padre.
Saltellò
per i corridoi fino a quando non raggiunse lo studio, al suo passaggio
un
enorme porta di metallo si spostò e le fece intravvedere una
stanza tinteggiata
di bianco dalle pareti popolate di facce incorniciate a lei ignote e,
al
centro, un’ampia scrivania sulla quale c’era una
targhetta che recitava “
signor Gray” e dietro di essa un uomo intento a parlare al
telefono.
Le fece
cenno di venire avanti con la mano senza però staccare la
cornetta dalle
gigantesche e puntute orecchie a sventola.
Girò
sulla sedia munita di ruote ridendo sguaiatamente a una battuta che
forse non aveva
capito a pieno, salutò promettendo di richiamare e
riagganciò il telefono
accanto a una consolle e un fino monitor che prima mostrava la faccia
paffuta e
rugosa di un suo collega.
La bimba
sfoderò il suo sorriso più largo e gli
saltò addosso.
-Come
stai principessa?-
La
piccola non smise di sorridere.
-Benissimo
papy, torniamo a casa vero?-
-Certo
amore manca meno di un ora-
-Posso
restare con te?- fece speranzosa.
Il padre
tentennò lanciando occhiate preoccupate al telefono.
-Beh…-
-Allora?-
chiese la piccola impaziente con le mani sui fianchi.
-Non puoi
Klareth, sto aspettando una telefonata-
Il padre
era un uomo gracile e indifeso dagli occhietti piccoli e neri infossati
e
cerchiati da occhiaie violacee.
Aveva le
mani lunghe e magre, quando Klareth si era ritrovata a strattonorgli il
braccio
per ricevere attenzione e gli afferrava la mano le era sembrato di
afferrare un
mucchietto di ossicini ricoperti solo da uno strato di pelle e dubitava
della
presenza di carne sotto di essa, pur non essendo tanto vecchio,
dimostrava
molti più anni di quanti non ne avesse in realtà.
Era
continuamente soggetto ai capricci e agli isterismi della moglie
essendo per
natura un uomo irresoluto e dominabile.
Agli
occhi della bambina, come la madre avesse potuto scegliere un marito
così, rimaneva
un mistero.
La
delusione della piccola fece investire il padre da orribili sensi di
colpa.
-Tesoro
se te ne vai prometto che appena tornati ti farò un bel
regalo, vuoi?-
La bimba
alzò lo sguardo.
-Davvero
lo faresti?- intrecciò le mani come in preghiera.
-Certamente-
disse distrattamente senza smettere di occhieggiare il telefono e i
monitor
sopra alla sua scrivania.
-Va bene
papy- disse stampandogli un bacio umido sulla guancia – ti
voglio bene- sapeva
che quella frase condita con gli occhioni mielosi era ciò
che più appagava un
genitore.
Saltellando
se ne andò come era venuta e la porta di metallo scorrevole
si richiuse dentro
di lei con un pesante tonfo.
Una volta
fuori rimase immobile con l’orribile sensazione che il padre
avesse preferito
un telefono a lei.
Strinse
di più il suo coniglietto.
-Papino
ci vuole bene- gli sussurrò in un orecchio rattoppato
– non ti preoccupare, ha
detto che ci comprerà
dei giochi- continuò con un sorriso materno carezzandogli
amorevolmente la testa ricucita più e più volte,
infatti aveva rischiato di
andare in pezzi svariate volte visto che era stato vittima di
molteplici incidenti
e ricucito con fili di vari colori.
Da tempo
la madre cercava di liberarsi di quel “lercio pezzo di
pezza” con cui Klareth
aveva condiviso l’infanzia, ma ogni tentativo di
impossessarsene falliva perché
la piccola se lo portava sempre appresso in qualunque ora del giorno.
Canticchiando
il suo pensiero venne rivolto proprio a lei.
Di andare
a trovarla non se ne parlava nemmeno, la madre non era una persona
adatta con
cui discorrere nemmeno per gli standard di una bimba di cinque anni.
Perciò
una volta superata la stanza della madre non ci furono titubanze e
continuò a
percorrere i corridoi fino ad arrivare alla sua stanza preferita.
Quella
dove c’era Paul.
Come
tutte le porte anche quella si aprì al suo passaggio dietro
di questa c’era una
ambiente illuminato solo da un paio di lampade al neon sul soffitto che
irradiavano con un labile chiarore i tavoli da laboratorio gremiti di
computer
e apparecchi strani che la affascinavano.
Chino sui
monitor c’era Paul: un giovane scienziato che i suoi genitori
si portavano
dietro nei loro viaggi come tutto fare, anche se il suo compito
ufficiale era
di accertare che le condizioni dei pianeti su cui atterravano
fossero adatte
per il loro fisico o che si dovesse provvedere a vestire delle tute
spaziali o
semplicemente munirsi di un respiratore.
La figura
che Klareth aveva sempre associato al nome di Paul era un ragazzo dai
capelli
rossi e una spruzzata di lentiggini sul naso, un sorriso sempre un
po’ esitante
e occhi a mandorla azzurri.
Ingobbito
sui computer, con quell’illuminazione scarsa non riusciva a
distinguerne che la
nuca riccioluta.
Paul, a
lungo andare, era diventato anche il suo compagno di giochi, anche se
non
rientrava tra le sue attribuzioni.
Silenziosamente
e con la mano sulla bocca per soffocare una risatina si
avvicinò in punta di
piedi sperando che Paul fosse talmente assorbito dal suo lavoro da non
sentirla.
Aveva
visto giusto, non la sentì, e gli saltò addosso
urlando –Buuuuuuuuuu-
Paul
sobbalzò e si portò una mano sul petto a sinistra
per simulare grande spavento.
-Ti ho
spaventato?- chiese sorridente e gaia.
-Tantissimo-
recitò con veemenza Paul.
Klareth
saltò giù regalandogli una altro dei suoi sorrisi
speciali.
-Dove
siamo adesso?- chiese sinceramente interessata.
Paul la
guidò all’oblò, la piccola adorava
quando gli spiegava le cose,poiché le
raccontava sempre con enfasi come se si trattasse di una favola, tutto,
anche
le leggi della fisica, con tale entusiasmo da contagiare anche lei.
Si
scambiavano sguardi complici, inventavano giochi che conoscevano solo
loro, si
divertivano a guardare le stelle insieme e a formulare impensate teorie
su
pianeti su cui germogliavano caramelle e cioccolata.
Klareth
amava moltissimo Paul, incondizionatamente, a volte lo chiamava
papà, ma
imbarazzata si correggeva subitissimo mettendosi una mano sulla bocca e
ridendo
insieme a lui del suo sbaglio.
Lo
osservò accendere un ricevitore e ordinare di rallentare la
velocità giusto per
qualche minuto rischiando un rimprovero della signora Gray che non
vedeva l’ora
che quel viaggio finisse.
Afferrò
la piccola per le anche e se la mise sulle spalle.
-Guarda
nell’oblò la in alto- disse indicandone uno a cui
neppure lui riusciva ad
arrivare.
Si
avvicinarono e Klareth ammirò un gruppo di meteore e di
pulviscolo spaziale,
con sua grande sorpresa su una meteora più grande
campeggiava un mucchio di
alberelli bruciati ed erba secca.
Guardò Paul
con espressione interrogativa, per merito della connessione singolare
che li
univa Paul capì.
-Era un
pianeta- spiegò.
Klareth
rimase ancora con le mani incollate al finestrino.
-Come è
esploso?-
Paul fece
spallucce –Non ne ho idea- mentì.
Klareth
di nuovo guardò oltre il vetro.
-Era grande?-
-Tantissimo,
si chiamava Namecc-
-...-
-Era
bellissimo, aveva l’erba blu come il cielo e il cielo verde
come l’erba, un
luogo dove abitavano creature verdi che si chiamavano namecciani, non
si
nutrivano di nulla fuorché dell’acqua
e…-
-Anche
dei raggi del sole come le piante in giardino?- chiese la piccola.
Paul
scoppiò a ridere.
-Non lo
so- si asciugò una lacrima –ma so che sono
riusciti a fuggire prima che
esplodesse-
-Come è
esploso?- ripetè la bimba sporgendosi un po’ per
incontrare l’azzurro dei suoi
occhi.
Il nome
di quell’astro di cui fino a quel momento aveva ignorato
l’esistenza fomentava
in lei sensazioni di inspiegabile inquietudine, trepidazione che non le
apparteneva di certo, eppure la faceva sua.
Rivisse vaghi
e labili ricordi di battaglie, che lei stessa identificò
come
sue fantasie, e sensi
di puro terrore che le fecero strisciare uno sgradevole brivido sulla
schiena
fino al collo… non era pienamente certa di voler conoscere
la risposta.
Seguì un
attimo di silenzio in cui il giovane scienziato rimase perplesso.
-Non
posso sapere tutto- dissimulò di nuovo, non troppo
brillantemente, lui.
La fece
tornare con i piedi sul pavimento in metallo,
e
nello stesso istante un trillo proveniente
dalle casse dei computer lo avvisò che la madre della
piccola lo richiamava
come fattorino tutto fare.
-Un
giorno me lo racconterai?-
Paul non
potè trattenere un sussulto, sapeva che la sua piccola amica
era intelligente
ma non fino a questo punto, forse lo conosceva davvero troppo bene.
Si
abbassò alla sua altezza e le accarezzò una
guancia.
-Non me
lo vuoi dire perché sono troppo piccola vero?- chiese
provando a indovinare il
movente della bugia, incupendosi e abbassando lo sguardo.-Non
intristirti piccola- le disse sollevandole il mento con
l’indice e guardandola
in quegli occhi dal colore tanto simile al suo che non aveva ereditato
ne da suo
padre ne dalla madre.
-Sono
cose brutte, tanta gente ha sofferto, e io voglio che tu viva felice
tesoro,
l’universo non è bello come pensi tu, ci sono
tante persone cattive, queste
cose te le racconterò quando sarai più grande- le
stampò un bacio in fronte.
-Sorridi,
dai, sei tanto carina quando sorridi-
La
piccola stirò le labbra in un sorriso forzato per
contentarlo.
-Brava
piccina-
A volte
Paul le parlava come molte volte lei aveva sperato che suo padre e sua
madre
avrebbero fatto, ma la sua vita con loro consisteva nel tentare di dare
il via
a una conversazione decente che finiva poi con la promessa di alcuni
giocattoli
speciali in cambio della sua uscita dalla stanza.
Si
aggirava sempre per le stanze della casa come un spettro nullafacente
stringendo il suo peluche per trovare un po’ di consolazione
e sussurrare a lui
e a se stessa parole dolci e rassicuranti.
Ma un
sorriso di Paul valeva più di tutti gli sbrigativi
“ti voglio bene” dei suoi
genitori e le promesse di grandi regali sfarzosi che avrebbero dovuto
sostituirsi a loro.
Accompagnò
la piccola verso la porta.
-Paul?-
disse approfittando del momento propizio.
-Si
tesoro?- era normale per lui chiamarla tesoro.
Klareth
sorrise con uno di quei suoi studiati sorrisi melliflui.
-Visto
che ho cinque anni…- continuò –posso
venire con te quando vai a prende i pezzi
di ricambio per le nostre navicelle?- si era preparata quella richiesta
da
molte settimane e conoscendo il debole che aveva per lei, sperava che
Paul acconsentisse.
-No- fece
lui senza smettere di sorridere – sei troppo piccola- disse
liquidando
allegramente la richiesta della piccola.
Sapeva
che aveva una certa propensione per il mestiere, la vedeva scrutare i
suoi
gesti mentre si adoperava con i suoi armamentari per riparare motori e
altri
marchingegni con espressione quasi venerante, una vocazione
inesplicabile per
una bambina che colleziona peluche rosa e fruga nell’armadio
di sua madre in
cerca di vestiti da mettersi addosso senza riuscire a colmarli.
Il tutto
naturalmente si svolgeva con il suo tacito favore, quando la
sorprendeva in un
azione che i genitori avrebbero certamente poco apprezzato fingeva di
non
vedere e se poteva si univa al gioco.
La lasciò
sulla soglia immusonita.
-Non fare
così, tesoro, con me non attacca, sei una piccola peste
viziata- la prese in
giro bonariamente e le carezzò la testa senza che lei
smettesse la sua
allenatissima smorfia seccata.
-Uffa- urlò
pestando di nuovo il piede.
-Klareth!-
la rimproverò lui più fermo.
La
bambina incrociò le braccia al petto senza smettere di
guardarlo con finto
odio.
-Sei
cattivo-
Paul rise
e chiuse la porta, ormai l’allarme aveva smesso di squillare.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 3 *** Capitolo 3 ***
La
reincarnazione
“Come
si può essere così spietati” lo penso
mentre giro per le strade buie sormontate
da i possenti giganti di metallo che sono i grattacieli, sedi del
potere e dell’alta
società di questa terra che mi ha declassato qua
giù in mezzo alla polvere e al
pattume di quei figli di papà.
Lo
penso quando vedo un robot appartenente a quella spocchiosa gente
guidare una
air -car senza tettuccio, aprire la portiera e scaricare un fagotto che
si
agita sull’asfalto.
Mi
accorgo che dal fagotto provengono dei guaiti.
Se
ne va lasciandolo nella polvere così come ci hanno lasciato
me, forse per
ragioni diverse, ma ce l’hanno comunque lasciato.
Possano
essere condannati per averlo fatto.
In
un primo momento mi sembra che dal telo in cui è stato
avvolto qualcosa
provenga un lamento, ma è così labile che finisco
per pensare che forse è solo il frutto della mia
immaginazione,
della stanchezza per il troppo lavoro, l’età che
comincia a farmi rimbecillire.
No, il verso è insistente,forse
ho ragione, sono vecchio, ma non fino a questo punto.
Mi
sporgo per vedere cosa si agita e si dimena nel fagotto e la mia teoria
non
viene smentita.
Guardo
i fanali posteriori della macchina che ancora si allontana spargendo
polvere e
acqua melmosa ai margini della strada.
La
mia bocca si contrae in una smorfia di disprezzo.
Sputerei
in faccia a chiunque abbia impartito a quel robot un ordine tanto
meschino.
Prendo
in braccio il telo con quello che contiene che continua ad agitarsi e a
vagire
stringendo nei suoi piccoli pugni le coperte in cui è stato
avvolto,
completamente nudo, con questo freddo.
Mi
sfugge un imprecazione.
Cerco
di esaminarlo, ci deve essere un motivo se l’hanno lasciato
qui; forse qualche
difetto fisico qualche connotato storpiato.
In
un primo momento mi sembra che il bambino non possegga difetti del
genere,non
mi sembra ne brutto ne malato,
vista la forza con cui continua a dimenarsi, ma
qualche secondo dopo sento il suono di uno squarcio, di fili di tessuto
che si
strappano.
Guardo
sotto di lui e mi accorgo che dallo squarcio formatosi sotto il panno
affiora
una coda pelosa che si agita e mi frusta le gambe con lena.
Sussulto
e lo allontano per un momento dal mio petto, non smette di agitarsi, e
non
sembra neppure che lo faccia perché ha paura di me, sembra
quasi alterato e accalorato.
Certo
su questo pianeta ci sono un infinità di razze diverse ma
non credevo che…non
pensavo…
“Ma
dove diavolo è stato concepito questo moccioso, i Sayan non
esistono più”sospiro
“Beh…”
penso mentre lo riavvicino a me e mi stringe il dito con il pugno
cominciando a
strattonarlo energicamente.
“Non
posso lasciarlo qui”.
Non
voglio essere neanche lontanamente paragonabile a quei tracotanti
ricconi che
conducono serenamente la loro vita lassù in quel affollarsi
di macchine e
albori provenienti dalle case di palazzi su diverse stratificazioni
della città,
senza pensare alla sfascio dove hanno lasciato il marmocchio.
Mi
spiace per questo moccioso, la vita l’ha destinato qua
giù, con me, a soffrire.
-Cosa
mai avrai fatto nella tua vita passata per meritarti
questo…Vegeta-
Lo
chiamerò così…in onore della sua
somiglianza con i Sayan.
Lo
avvolgo meglio nelle sue coperte bianche…sorrido.
Il
grigiume del cielo era
una serie di riquadri ingabbiati dagli svettanti
grattacieli.
Il gelido
vento spazzava la polvere del quartiere in via di disfacimento dove
abitava.
Dall’alto
del palo della luce dove era seduto a cavalcioni, con le gambe
penzolanti,
osservava lo squallore del suo regno.
Albergava,
nel vicolo, una quiete innaturale, come la tacita attesa di un presagio.
Solo il
passaggio occasionale di qualche air-car lo squarciava ricordandogli
che il tempo
continuava a scorrere.
Cinto dai
titani in acciaio c’era un ambiente lordo e mal messo.
L’altra
faccia di una capitale come quella, il lato più buio, anche
di giorno, abitato
da ratti, residenti dei bidoni del pattume cittadino, e da loro; la
gente
povera residenti di case che potevano essere scambiate per mucchi di
pattume.
Ciò che
la società potente evitava con cura di mostrare ai
passeggeri
delle molteplici
navicelle cariche di gente ricca e importante che regolarmente
sbarcavano sull’astro.
Con
agilità felina scese dal suo piedistallo atterrando
sull’umido cemento
chiazzato da pozze di acqua stagnante, che, in pendenza, scorreva
raccogliendosi nelle condutture portanti alle fogne che le
inghiottivano
insieme al lerciume.
Con le
gambe leggermente arcuate, per ammortizzare l’atterraggio, ne
annusò il puzzo.
Non una
fibra del suo corpo venne smossa, del resto si era abituato alla
sgradevole
essenza che spirava casa sua.
Con l’insolito
cipiglio serio e idrofobo che aveva adottato, forse fin dalla nascita,
per
svelare il suo dispetto per il mondo, e affettando una sdegnosa
indifferenza
anche ai ratti, si incamminò infilando le mani nelle tasche
dei suoi slavati e
sfilacciati jeans, bucati sul posteriore dalla sua coda.
All’alba
dei suoi sette anni poteva dire di conoscere il posto come le sue
tasche
sgualcite.
Le sue
gambe lo facevano macchinalmente svoltare nelle direzioni per
raggiungere i
vicoli desiderati senza che lui dovesse quasi pensare.
Merito
del suo fino senso dell’orientamento, che il vecchio riteneva
“una vera fortuna”
per un bambino della sua età, che viveva in un intricato
labirinto di baracche
cadenti costruite ai piedi di svettanti palazzi.
Diede
inavvertitamente un calcio a una lattina di soda li vicino, che
andò a sbattere
contro le scrostate pareti di una casupola producendo un metallico
suono di
vuoto.
Come il
suo stomaco.
Da tempo
il suo apparato digestivo aveva cominciato laboriosamente a contrarsi
richiedendo l’esagerata quantità di cibo che
occorreva lui.
Il
vecchio non riusciva a capacitarsi di quanto potesse mangiare quel
marmocchio,
e nemmeno poteva
soddisfare i suoi
bisogni alimentari.
Una volta
appurato ciò un basso gorgoglio risuonò nel
vicolo, segno che il suo
metabolismo di bambino richiedeva…no…esigeva un
pasto decente.
Tanto
bastò al piccolo per decidere di ignorare i principi etici
che il vecchio si
ostinava a impartirgli per prestare ascolto al suo istinto, che gli
imponeva di
placare i crampi della fame.
L’unico
modo efficace che lui conoscesse era saziarsi.
Ma il solo
modo per trovare un pasto dignitoso in grado si soddisfare i suoi
bisogni era
risalire le stratificazioni residenziali ricche, i cui abitanti, a
detta del
vecchio, lo avevano condannato a quella vita per la semplice colpa di
possedere
una protuberanza pelosa sul posteriore.
Vide una
grossa navicellavirare per
raggiungere
il porto spaziale cittadino.
Fece un
salto disumano e raggiunse la cima di una baracca, una altro ancora,
alzandosi
ulteriormente di livello per poi raggiungere un balcone ornato di fiori.
Non era
che all’inizio del tragitto, forse avrebbe dovuto anche
scroccare un passaggio
su un mezzo volante, ma sarebbe arrivato ai piani alti.
Proprio dove
ora la navetta atterravava...
Capitò a
proposito un grosso pulman volante.
Uno
scatto delle iridi nerissime, il tempo per calcolare la distanza tra
vettura
e il balcone e la forza da utilizzare nel balzo, e fu sul dorso in
acciaio del
mezzo.
Fece
scattare il mento dai lineamenti infantili, ma che già
preannunciavano la
durezza che avrebbero acquisito in futuro, verso la stazione.
Era sempre
stato il suo punto di riferimento, tutte le strade eminenti e
trafficate
portavano li, e da li si arrivava ovunque.
Si
sedette a gambe incrociate, ignornado il vento che gli soffiava in
faccia, socchiudendo gli occhi, sempre con aria
sdegnosa e
irriverente.
Trafugare
un pasto era l’unico mezzo che aveva per sfamarsi, era del
tutto incurante di
quello che il vecchiaccio gli avrebbe detto, sordo alle sue paternali,
continuava a farlo perché nessuno, nessuno, poteva comandare
o vincolare
Vegeta.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 4 *** Capitolo 4 ***
La
reincarnazione
Il
sibilo
del carrello che si abbassava a toccare il suolo era il segno che
l’atterraggio
era imminente.
Saltò
sulla poltrona accanto all’oblò per sporsi un
po’ più in alto e fissare i suoi
occhi sul mondo esterno.
Il
traffico di luci e fanali di air-car le ferì gli occhi che
si erano abituati
all’oscurità della stanza, con i tubi di luce al
neon disattivi e lo spazio che
effondeva con le sue stelle solo una fioca luminescenza.
Saltò giù
dal divanetto e corse a riaccendere la luce, afferrando con una mano il
suo
compagno di sventure di pezza sgualcita e ricucita e andando ad
avvertire Paul.
Poco
importava se lo sapeva già.
Almeno
lui era l’unico ad accertarsi della sua presenza a bordo
della navicella, i
suoi genitori avrebbero potuto tranquillamente continuare a vivere
anche
sapendola precipitata nello spazio da uno sportello.
Almeno
così sembrava.
***
Era stata
felice di poter essere liberata da quel grosso sigaro di metallo che la
costringeva vicina ai suoi parenti, così felice che era
corsa oltre la soglia a
tutta velocità, certa che le sentinelle avrebbero pensato ai
suoi bagagli
contenenti giochi e vestiario, e dimentica della distrazione dei suoi
genitori.
Una
volta
terminato lo slalom tra i passanti, accompagnata dal coniglietto, si
era girata
per dare ai suoi genitori il tempo per individuarla e raggiungerla, ma
una
volta voltata non vide altro se non profili di estranei che camminavano
sveltiti seguendo le indicazioni della femminile voce diramata
dall’altoparlante, che dispensava indicazioni su come
raggiungere le postazioni
di imbarco.
Girò
la
testa in tutte le direzioni, atterrita, desiderosa di trovare un punto
di
riferimento che le permettesse di ripercorrere la strada che
l’aveva portata
là.
Timorosa
di essersi persa cominciò a correre intorno, studiando le
vetrine e le insegne
per riconoscere quelle a cui aveva concesso una fugace occhiata mentre
correva.
Smarrita
e atterrita si girò su se stessa temendo di aver
completamente perso la via del
ritorno.
Conscia
della scarsa attenzione che i genitori le dedicavano, concluse che
prima
dell’ora di colazione del giorno dopo non avrebbero notato la
sua mancanza.
Mosse
alcuni passi atterrita e incerta sul da farsi.
In
qualunque direzione svoltasse il capo incontrava solo un nugolo di
gente; una
mescolanza di razze diverse che avevano fatto dell’aeroporto
spaziale il loro
punto di incontro e scambi commerciali.
Ci
era
proprio in mezzo.
Sola
nell’animazione dell’affluenza circostante,
stringeva per farsi forza il
suo compagno di malesorti.
Gli
occhi
azzurri non nascondevano una certa inquietudine e guizzavano di qua e
di la in
cerca di visi famigliari.
Venne
sballottata nel trambusto generale fino ad andare a sbattere contro un
muro.
Dopo
l’impatto cadde a terra serrando ancor di più la
presa delle manine sul pupazzo
per non perdere anche lui.
Era
stata
bruscamente sospinta dalla calca fino all’uscita principale,
una volta che
smise di tremare e schiuse un occhio constatando di essere tutta intera
occhieggiò
la strada affollata di air-car.
Si
alzò e
corse verso l’uscita.
Appena
fuori una folata di vento sembrò burlarsi di lei agitandole
i capelli e l’orlo
della gonna.
La
sua
faccia scatto a destra e a sinistra della strada cominciò a
correre segnalando
la sua presenza ai guidatori agitando il braccio destro, sperando che
fosse la
macchina giusta.
Inciampò
e sull’asfalto, si sbucciò il ginocchio.
Si
rialzò
con le giunture della gambe imbrattate, mentre il lerciume si andava a
mescolare con il sangue sul ginocchio destro, ne avvertiva il bruciore,
si
rialzò per cercare una fermata del bus.
Smise
di
riconoscere in ogni macchina, vagamente lussuosa, la sua e
cominciò a camminare
mestamente studiando un sentiero praticabile che le permettesse di
evitare urti
con i pedoni e di essere sballottata fuori strada il meno possibile.
L’orlo
del vestitino rosa che indossava si era inevitabilmente macchiato
spargendo il
luridume anche sulle sue gambe.
Il
vento
continuava a spingerla da dove era venuta, troppo forte per una della
sua
statura.
Sembrava
che stesse, in tutti modi, apertamente cercando di ostacolarla.
Le
giornate ventose su Zelion erano terribili.
“Terribili,
una tortura per i capelli” diceva la madre.
Già.
La
donna
che non la stava cercando ora.
Bella
madre che era, pensò sbuffando e lasciandosi cadere a peso
morto sulla panchina
accanto al luogo dove il mezzo pubblico imbarcava i passeggeri.
Certo
se
lei non avesse corso, smaniosa come era di scendere, nulla sarebbe
successo: i movimenti
del suo arto non sarebbero stati impediti da un bruciore che a mala
pena
sopportava, il suo fedele pupazzo non si sarebbe sporcato di acqua
ristagnante,
e le sue gambe e le sue vesti sarebbero state linde e pulite come
sempre.
Ma
soprattutto
non si sarebbe sentita come ora, e se i suoi avessero ignorato
volutamente la
sua assenza?Se ora non la stessero cercando perché non
volevano farlo?Se lei
fosse solo un peso? Qualcosa che si poteva serenamente ignorare per poi
rivendicare su di essa dei diritti senza pensare al suo giovane cuore,
come i
gioielli della madre molti in disuso rimasti ad ammuffire dentro un
porta gioie?
Cosa
ne
sarebbe stato di lei?
Si
morse
il labbro per ricacciare le lacrime da dove erano venute.
Inavvertitamente
allentò la presa sul suo morbido piccolo amico che le venne
bruscamente
strappato dal grembo dal vento finendo oltre il bordo del marciapiede.
Ansiosa
di recuperarlo e spaventata all’idea di perdere il suo
ricordo più caro dell’infanzia
scattò nella sua direzione ignorando i fanali che
inevitabilmente le si
avvicinavano.
Allungò
il braccio per riconquistarne il possesso ma un clacson la fece
sobbalzare, fece scattare la
testa nella direzione dove l’acuto richiamo
le era arrivato, notando la
faccia di un grosso ari-bus color zucca e del conducente allarmato che
premeva
bruscamente il freno.
Tutto
avvenne in un attimo.
Strizzò
gli occhi e tese i muscoli inconsciamente, forse, convinta che
irrigidendosi
avrebbe potuto lenire, almeno in parte, un dolore inevitabile.
Strinse
in quelli che credeva i suoi ultimi istanti in quella strada il suo
peluche,
inspirò velocemente aria e strinse ancor di più i
denti.
A
raggiungerla non fu la facciata del bus ma schizzi d’acqua
trasportati dalla
brezza.
I
fari di
erano fermati davanti a lei costringendola a socchiudere gli occhi e ad
adagiare il lato della mano sulla fronte.
-Bambina
ma sei matta???- urlò il conducente in preda ad una isteria
incontrollabile.
Aveva
la
faccia rossa per lo spavento, guardava il bus, i passeggeri e la strada
con
scatti nervosi del capo, gesticolando delirante e sudato con i battiti
accelerati
del cuore che gli pompavano martellante il sangue nelle palpitanti vene
della
fronte.
-Per
poco
non ti investivo- continuò a sbraitare con la testa e il
collo completamente
fuori dal finestrino del mezzo volante.
Bulma
percepì con la coda dell’occhio un movimento
sospetto sul dorso del mezzò,
movimento di un corpo che sembrava umano e che si spostò in
strada.
Tolse
al
conducente la sua attenzione per spostarla sull’ombra che
veloce schivava i
passanti e poi…sparì.
Il
conducente, notando che la bambina mostrava una genuina
curiosità per un punto
indefinito del marasma sul bordo della strada si stizzì
ancor di più.
-Dovresti
fare attenzione, mocciosa, e guardare dove vai invece di pensare alle
tue
bambole- disse alludendo al peluche sudicio di melma acquosa.
-Meno
male che ho frenato altrimenti ti spedivo dritta al creatore,
mocciosetta
distratta, bada che la prossima volta la fortuna non ti
assisterà, bada, e
badaci bene piccola…- mentre le offese dell’uomo
piovevano su di lei senza che
egli avesse la soddisfazione i vederla realmente dispiaciuta si
allontanò
seguendo imprudentemente un ombra che forse non esisteva che nella sua
immaginazione.
Fu
sollevata al pensiero che non avrebbe dovuto passare un secondo in
più nei
pressi della fermata del bus.
Tutti
la
osservavano chiedendosi come una bambina tanto piccola, e per di
più, tanto
graziosa e diversa da tutti gli abitanti dell’astro, a cui
poteva essere
accomunata solo per le orecchie a punta, essere lasciata sola in strada
ad
aspettare un mezzo pubblico di cui certamente non poteva pagare il
biglietto.
Aveva
sentito su di se i loro sguardi, benchè, quando si voltasse
non li trovasse a
guardarla, ma, in fondo, sapeva.
Aveva
intuito nelle loro espressioni pensierose, nei loro schiocchi di
lingua, nel
loro scuotere tristemente il capo che era stato emesso un giudizio
molto
negativo nei confronti dei suoi genitori.
Come
dar torto
a quella gente, come?
Attraversò
la strada per raggiungerne l’altro capo.
Svincolò
passando tra le auto del traffico fermo e arrivò al
marciapiede opposto,
correndo ai bordi del passaggio pedonale per evitare la massa aliena
che circolava
veloce.
Si
sporse
un po’ dalla strada sospesa notando sotto di lei un intricato
groviglio di
altre strade su diversi livelli di altezza che portavano a marciapiedi
e vie a diverse quote percorse da luci e, sul fondo,
un buio quasi totale rischiarato appena da un chiarore quasi
inesistente;
composto per lo più da qualche lucerna.
Lì,
nascoste dalle baracche e dal buio che imperversava quasi in tutti le
ore del
giorno, si trovavano i pilastri portanti di tutto quel che era la
capitale.
La
gente
che viveva laggiù era povera, privata, dalla smisurata
altezza delle case
signorili, persino della luce e del calore che arrivava sino a loro
solo quando il
sole
riusciva ad affacciarsi oltre i grattacieli a mezzogiorno.
Staccò
lo
sguardo da lì per ripercorrere i passi del piccolo spettro
che aveva distinto
nell’oscurità.
Prese
un
corridoio impraticato coperto da un tetto di vetro sostenuto da aste
metalliche,riusciva a vedere l’ombra lunga della minuta
figura allontanarsi.
Rientrò
nel vivo della città, nella confusione quotidiana, per poi
imboccare un altro
vicolo chiuso ai lati da palazzi spenti.
Si
guardò
indietro, chiedendosi, se fosse prudente abbandonare le vie abitate e
illuminate dai grattacieli splendenti di mille luci, controllate dalle
autorità,
dove facilmente poteva nascondersi tra la confusione, dove i suoi passi
si
sarebbero confusi con quelli di milioni di altre persone di milioni di
altre
razze, e dove poteva trovare aiuto.
Ingoiò
la
paura e incedette con piccoli e lenti passi mirati per non attirare
l’attenzione
di loschi individui possibilmente appostati li.
Carezzò
il suo peluche sussurrandogli di rimanere calmo e chiedendogli di
essere
coraggioso.
Il
silenzio era intollerabile, magari il coniglietto avesse potuto
rassicurare lei
e non l’inverso.
Deglutì.
Si
udì un
rumore di vetri spaccati, lontano.
Si
aggirò
incerta con il vento che le soffiava addosso ogni tipo di pattume, le
vetrine
dei negozi buie, il silenzio rotto a intervalli dal soffio ben udibile
delle
raffiche d' aria, il gelo che le procurava un brivido alle braccia, una
lacrima
di smarrimento appena trattenuta che si affacciava negli occhi
velandone
l’azzurro.
Dopo aver vagato sconsolata e smarrita le sue orecchie
riuscirono a percepire altro oltre al rumore di una lattina di soda che
il
vento trascinava sull’asfalto.
Era
uno
scartare furioso e violento, un accartocciarsi di materiali per
l’imballaggio.
Un
frugare continuo e, man mano che si avvicinava, anche un trangugiare
incessante.
Svoltò
in
una stradina ancora più piccola e le arrivò in
testa una scatola del cartone dei
cereali.
Ai
suoi
piedi altri tipi di residui alimentari rendevano impraticabile il
vicolo.
Accucciato
contro il muro si ingozzava di tutti i generi di cibo, senza ordine, un
bambino, che, per quel che Klareth era riuscita a vedere nella sua
breve vita,
era il più vorace di tutto il pianeta, peggio di uno stormo
di cavallette
locali.
Lo
vide
mandare giù un'altra confezione di cereali, tracannare una
bottiglia di latte,
che andò in frantumi lanciata a pochi metri da lei,
seguitando a mangiare una
vaschetta di tonno sott’olio.
Fu
colta
alla sprovvista da un ondata di nausea che le risalì in gola.
Se
prima
avvertiva un leggero languore, ora la sola idea di mandare
giù un biscotto la
ripugnava immensamente.
Schivò
la
lattina del tonno, che andò a seguire la bottiglia
sull’asfalto e si avvicinò
cautamente, facendo ben attenzione a non incespicare nelle confezioni
di
merendine e non scivolare su rimanenze di liquidi.
Quando
potè assistere a distanza ravvicinata
all’ingozzarsi frenetico del bambino,
mancò poco che la lieve nausea non si trasformò
in conati di vomito
irrefrenabili: una magra figura davvero davanti a un bambino
pressappoco della
sua età.
Non
cessò
di ingurgitare, sebbene avesse percepito i passi incerti e lievi
associabili
solo ad un infante.
Klareth
lanciò una sguardo furtivo alla faccia del commensale
affamato oltre misura e
poi ai rifiuti da lui seminati.
Storse
la
bocca contrariata.
-Ehi
tu-
Alzò
la faccia, ma non per questo smise di
ficcarsi in bocca quantità spropositate di cibo.
A
Klareth
parve che si fosse cacciato tra le fauci un intera confezione di
biscotti al
cioccolato, poteva essere un nuovo primato universale per quel che ne
sapeva.
Altro
che
stormi di cavallette, quel moccioso avrebbe potuto infilarsi in bocca
pure loro
insieme alle notevoli quantità di vivere che aveva
già consumato.
-Ti
sembra il modo di mangiare? Mi sta venendo il voltastomaco-
Il
bambino piantò gli occhi nel cibo e non la degnò
di una risposta.
Non
le
concesse uno sguardo di più, già Klareth stava
avvertendo i sintomi di un
imminente rigetto del pranzo.
-Ehi,
sto
parlando con te!-
Lo
stesso
sdegnoso silenzio le arrivò in risposta.
Si
imbronciò e incrociò le braccia mostrandosi
superiore e impermalita.
-Stai
sporcando tutto, questo è un danno pubblico- disse con aria
saputa.
Le
parve
di scorgere l’ombra di un ghigno, ma con una simile
quantità di cibo in bocca
non era possibile che le labbra assumessero una foggia ben definita.
-Senti
chi parla- disse degnandola di un occhiata distratta riferendosi alla
sporcizia
che portava con se sul vestito e sul pupazzo.
Alla
nausea
si sostituì l'indignazione.
-Io
non
mi sognerei mai di mangiare come una scimmia- ribattè con le
mani sui fianchi.
Nessuna
risposta.
Gli
concesse altro tempo per elaborare un insulto da replicare, ma
semplicemente atteggiando
indifferenza riusciva ad offenderla.
Non
riusciva però altrettanto efficacemente a levarsela dai
piedi e a consumare il
suo pasto in santa pace.
La
mocciosa sospirò in segno di massima sopportazione, forse ce
l’aveva fatta; l’aveva
zittita.
Inavvertitamente
però, la bimba si accucciò al suo fianco con la
schiena contro la parete a
osservarlo mangiare più attentamente, non dando
più segni di disgusto, o,
riuscendo a dissimularli molto brillantemente.
Sentiva
i
suoi occhi su di lui.
Che
aveva
di tanto interessante?
Klareth
sbattè un paio di volte le folte ciglia prima di sentire un
grugnito seccato
uscire dalla bocca del bambino.
Klareth
non
rispose alla pseudo replica, continuava ad osservarlo.
Con
la
coda dell’occhio gli parve che stesse studiando un punto
indefinito dei suoi
arti inferiori, più precisamente il suo didietro.
La
vide
allungare la mano con movenze caute verso qualcosa vicino a lui, poche
frazioni
di secondi dopo si accorse che stava oculatamente riducendo le distanze
che
separavano la sua mano DA lui.
Si
scostò
indignato, livido di rabbia.
-Non
toccarmi!- sbraitò con la bocca libera dal cibo.
Lo
guardò,
non perché fosse stupita dal fatto che avesse parlato
esentandosi dall’emettere
solo sporadici grugniti o risposte volutamente offensive con un tono di
voce
basso e sprezzante o che avesse smesso di ingozzarsi e nutrirsi, ma
perché, con
lui, si era mossa anche ciò che calamitava la sua attenzione.
La
coda.
La
sua
faccia sorpresa cambiò di poco assumendo un espressione
simile al disgusto ma
mitigato.
-Hai…hai…un..a..co…d..a?-pronunciò
senza articolare bene le parole.
La
faccia
di Vegeta invece non era cambiata; era rimasta torva e seccata.
La
risposta era scontata, forse per questo Vegeta decise di non buttar via
la voce
per urlarle di si e rispose con un ringhio sommesso e irritato.
Lo
stupore di Klareth si attenuò e la mano si andò
ad allungare verso il pelo
della coda, gesto finalizzato a tastarla per appurarne la consistenza.
La
coda
scattò in direzione opposta, Vegeta la stava sdegnosamente
fissando.
Visto
che
aveva appreso ciò che lei credeva fosse un segreto
inconfessabile e si sentiva
già alleata con lui grazie a questo, si presentò.
-Io
mi
chiamo Klareth- la mano ora venne allungata per stringere la sua, come
aveva
visto fare molte volte a suo padre con i suoi ospiti, di cui ignorava i
nomi.
Vegeta
si
alzò mostrando dispetto oltremodo e allontanandosi
dignitosamente senza curarsi
dei rifiuti.
La
piccola gonfiò le guance indispettita e gli si
parò davanti.
-Ehi,
stavo solo cercando di essere educata, di solito quando due persone si
conoscono si ha la decenza di salutare, cerca di essere un
po’ più solidale-
Le
arrivò
solo una smorfia sprezzante e infastidita.
Vegeta
le
girò attorno come ad una delle cartacce e si
allontanò.
Klareth
rimase li con i pugni chiusi pensando che quel bambino fosse, oltre che
eccessivamente vorace, la persona più maleducata che avesse
mai incontrato in
vita sua.
Un
vocio
confuso e risate sguaiate arrivarono alle orecchi della piccola.
-Ehi
aspettami! – urlò – non lasciarmi in
questo postaccio, io ho paura!-
Quando
sorpassò l’angolo e rivolse lo sguardo verso
destra vide la schiena e la nuca
coperta di capelli dal taglio a fiamma di Vegeta.
Era
immobile a fissare con i pugni chiusi davanti a se.
Tra
i
grattacieli si potevano distinguere due lune, una quasi piena e
l’altra
crescente, dal profilo rosato.
Bulma
si
avvicinò ancora un po’ per capire cosa attraesse
tanto l’attenzione del bimbo
fino a che, oltre le sue spalle, potè vedere quattro tipi
davvero poco
raccomandabili che incedevano incespicando ogni due passi con delle
birre in
mano.
Notò
che
nella tasca dei pantaloni, uno di loro, aveva furbescamente infilato
una
pistola senza la sicura.
Due
di
loro erano ben piazzati, dotati di una faccia dalle guance cascanti e
di una
pelle vermiglia mentre gli altri erano decisamente sovrappeso, abitanti
originari del pianeta.
I
due
alieni brandivano bastoni che dovevano essere rimanenze di pali mentre
gli
altri continuavano a scolarsi birre inondandosi le magliette del
liquido
schiumoso.
L’ultima
cosa che si aspettasse da loro era che riconoscessero il suo ospite.
-Ehi
moccioso- rise uno zoticamente senza innescare nel piccolo la
benché minima
reazione.
-Ti
ricordi di noi Vegeta?-
Ricordava…ricordava,
ma non per questo aveva paura.
Ehm...dopo
tre capitoli che mi sn immensamente sforzata di nn fare troppo lunghi
ecco che ricomincio a postare pagine che sembrano poemi, perdonatemi,
è più forte di me ( risata insulsa e imbarazzata
tipo Goku ^^')
|
Ritorna all'indice
Capitolo 5 *** Capitolo 5 ***
La
reincarnazione
Un'anno
prima...
Cos’era
quel silenzio?
Sotto la
maschera da un foro rettangolare si intravvedevano i suoi occhi acuti e
castani,
protetti grazie
al vetro dalle scintille ardenti che guizzavano di qua e di la andando
ad
estinguersi sul suo bancone, per terra, a volte persino sul tessuto
della sua
maglietta bianca macchiata di lubrificante per motori.
Che
cos’era quel silenzio?
Non era
del tutto assente il rumore, anzi, i suoi attrezzi da lavoro
producevano stridi
acuti e fastidiosi.
Non era
il silenzio della mancanza di rumori ma della mancanza di parole.
Gettò
l’ennesima occhiata al piccolo.
Era
rimasto nella stessa identica posizione di due ore fa, con la schiena
compressa
al muro con il piglio
troppo serio e grave per un bambino della sua età.
Sembrava
sempre così assorto nei suoi pensieri, sempre perpetuamente
riservato, lo
vedeva sempre li, spesso seduto con le braccia incrociate intento in un
attenta
analisi di pensieri, che dalla sua espressione parevano cupi, e
rabbiosi.
Lo vedeva
nei cortili quando passava a dargli un occhiata, ostinandosi a credere
che non
potesse cavarsela da solo e che, come tutti i bambini, prima o poi,
avrebbe
fatto una stupidata a
cui sarebbe stato
difficoltoso porre rimedio, ma lui era sempre li, nella solita postura,
col
solito atteggiamento distaccato, di colui che si rifiuta di avere
contatti con
il mondo per un evidente insofferenza e disgusto verso i suoi abitanti.
Faceva parte dello sfondo dei giochi di ragazzini.
Aveva una
gamba raccolta vicino al petto su cui posava il braccio arcuato, mentre
l’altra
era distesa e impediva il passaggio all’imboccatura del
corridoio dove si era
appostato per non essere troppo disturbato dallo sfrigolio degli
strumenti da
lavoro del “padre”.
La coda
era abbandonata a terra e non dava segno di volersi muovere come invece
aveva
fatto per interminabili minuti, sferzando l’aria e battendo
sul pavimento con impazienza e nervosismo.
Avrebbe
voluto qualche parola da lui, invece del solito sdegnoso silenzio.
Mai
neanche col capo si era voltato verso la sua postazione mostrando
interesse per
qualche suo gesto, non aveva sputato neanche un ingiurioso e sarcastico
insulto.
Quel
bambino possedeva un arroganza mai riscontrata in un moccioso.
-Credo
che dovresti darti una regolata- insinuò lui riferendosi al
suo atteggiamento
esageratamente irriverente e ingrato.
La coda
riprese a battere al suolo.
-Tu
credi?-
-Si, io,
credo- replicò lui diffamato, rispondendogli con lo stesso
veleno nel tono
pronunciando “io”.
Si scostò
il casco dalla faccia asciugandosi con il dorso della mano il sudore
trattenuto
dalla protezione.
Vegeta
sapeva che in considerazione della sua troppo giovane età
non poteva spingersi
oltre un certo limite con le parole in presenza di un adulto.
Si girò
verso il colloquiante; i capelli ingrigiti avevano aderito alla fronte
spaziosa
e segnata da rughe profonde.
Le
braccia forti, non ostante l’età non
più verde, potevano ancora lavorare, e in
fondo, era lui che gli aveva dato una casa.
-Tu credi
troppo vecchio-
Si sfilò
i guanti da lavoro sudici di ungente per motori, scostò gli
attrezzi per far
posto e li sbattè con veemenza sul bancone.
-Mai una
volta che mi chiamassi papà…-
ringhiò
quasi tra se e se dando un calcio alla
cassetta degli attrezzi sotto il suo sedile per scendere senza
rischiare di
inciampare.
La custodia
proseguì il tragitto fino al muro andando a sbattere a pochi
centimetri da
Vegeta, che rimase del tutto indifferente allo schianto del contenitore
contro
il muro.
Una
chiave inglese cadde dalla cassetta rossa.
-E perché
dovrei?...- insinuò –Non sei mio padre- lo disse
quasi con un sottile e
studiato godimento, nonostante avesse poco più di sei anni
non sembrava nient’affatto
titubante davanti agli adulti.
-Modera i
toni signorino-
Lo
chiamava sempre così…Vegeta aveva cominciato a
pensare che si trattasse di un
nominativo denigratorio conferitogli dal fatto che, se non fosse nato
con
quell’affare appena sopra le natiche, avrebbe occupato una
posizione sociale ben
più elevata rispetto a quella attuale.
Era un
continuo e perpetuo rinfacciamento della sua sfortuna, che non gli
sfiorava
minimamente l’orgoglio… mai.
Inutile
rimpiangere ciò che non aveva mai avuto, e che certo non
desiderava
ardentemente avere.
Si vedeva
a prima vista che la sua natura restia e misantropa non ne avrebbero,
in
futuro, fatto un uomo che potesse vivere in un ambiente del genere,
dove la
gente era incline a sperticarsi in discorsi futili, pettegolezzi;
sarebbe stata
una vita che non gli poteva calzare per nulla.
Quella
situazione si confaceva molto di più alla sua indole
riottosa e indocile;
queste caratteristiche non avrebbero prestato ne a lui ne alla sua
famiglia una
buona reputazione nella società.
Vegeta
inoltre non era il tipo da intrattenere rapporti, non aveva alcuna
predisposizione a dilungarsi in conversazioni, si rifiutava di avere
qualunque
contatto verbale con i suoi coetanei, evitando con cura di essere
immischiato
in sciocchi giochi, e una certa tendenza, poco diplomatica davvero,
a… venire
alle mani.
Glielo si
leggeva in faccia, ogni volte che schiudeva un occhio per assodare se
la
situazione nel cortile vicino fosse cambiata o no, si vedeva che
fremeva dalla
voglia di fare a botte.
Inoltre,
all’età di sei anni, aveva sviluppato un
indifferenza tale da renderlo capace
di sostenere anche la vista di un cadavere nel bel mezzo della strada.
Immagine
che aveva, per davvero, impresso nella mente chiara e nitida come un
fotogramma,
ma che non sembrava aver generato in lui alcun disgusto o averlo
sconvolto in
particolar modo, come se fosse la norma per lui.
Con un
dito iniziò a far girare la chiave inglese su se stessa.
Una
musica ad un volume smodato scandita da sordi botti prodotti dalla
consolle di
un dj riempì il quartiere all'improvviso.
Uno
sparo…
Vegeta
conosceva l’espressione allarmata ed esagitata del vecchio;
lo vedeva sbarrare
gli occhi sul punto dove stava guardando.
Stavolta
li aveva fissati sul saldatore appoggiato sul tavolo accanto a uno
straccio
lercio.
Lo vedeva
seguire ciò che accadeva con l’udito con un
attenzione tale che avrebbe potuto
ricreare nella sua mente tutte le scene.
Si
ripetevano sempre uguali come da copione.
Il rumore
dell’acqua gettata ai bordi della strada dalle ruote.
Lo
sbattere di una portiera.
I passi
sull’asfalto limaccioso.
Le urla
sguaiate.
Le
risate.
E allora
sembrava rianimarsi, risvegliarsi da uno stato di vigilanza attenta e
psicotica.
Ogni
volta che quell’espressione compariva sulla sua faccia lui
era il momento di uscire.
In quel
particolare frangente Vegeta obbediva sempre al vecchi; i guai non lo
spaventavano,
anzi, lui era l’unico bambino che non avesse avuto
paure con cui
non potesse convivere e che non si fosse sentito bisognoso di elargire
le
proprie
preoccupazioni.
Come
tutti i mocciosi si risvegliava da brutti sogni: ansimava per un
po’, strizzava
le coperte dentro ai suoi pugni rischiando di strapparle, con la coda
rigida e
la bocca secca, ma non aveva mai voluto spiegare in cosa consistessero
le sue
visioni notturne, ne aveva voluto indagare sullo strano sapore di
metallo e
terra che degustava in bocca al risveglio.
Quando
cominciavano a percepirsi i suoni elettronici della musica, sul
momento, strategicamente
il vecchio faceva in modo di aver bisogno di qualcosa, rompeva apposta
la
bottiglia del latte e ordinava a Vegeta di andare a rimediarne
un'altra,
fingeva
di aver perso un saldatore e gli chiedeva di procurarsene uno in
qualunque modo
lo trovasse lecito.
A volte
acconsentiva anche a fargli compiere crimini pur di farsi procurare
qualcosa di
cui aveva provvidenzialmente fatto in modo di aver bisogno o che non
gli
serviva affatto.
Vegeta
aveva intuito che lo faceva a beneficio suo, ma non poteva capirlo del
tutto,
in
fondo, era un bambino.
Ma questa
volta il vecchio non aveva il tempo ne di inventare scuse, ne di
cacciarlo
fuori di casa a forza.
-Vegeta!-
ordinò in tono secco indicando il retro del tavolo da lavoro.
-Vieni
qui!-
Si alzò
con una lentezza che il vecchio non tollerava.
-Vieni
qui cazzo!-
Una volta
che fu abbastanza vicino, rudemente, lo sospinse giù dietro
il bancone
pressando con le sue mani forti sul capo costringendolo a stare in
basso e
schiacciandogli il più possibile la capigliatura dalla
anomala forma
ritta a fiamma.
Entrarono
dei tipi con cui era sconsigliabile avere a che fare, indossavano
giacche di
pelle sintetica borchiate, le catene penzolavano da quasi ogni pezzo
del loro
vestiario, erano armati di mazze e di bastoni di ferro e varcarono la
soglia
con la disinvoltura e la scioltezza dei padroni di casa.
Come se
andassero a far visita a un vecchio amico si avvicinarono al meccanico
e gli
batterono una forte pacca sulla spalla, che sopportò bene.
-Ehi
vecchio- tutti lo chiamavano così –Come te la
passi- esclamò uno piuttosto in
carne mentre altri prendevano a giocare con gli arnesi in maniera
impropria e
disdicevole.
-Ragazzi…-
li accolse cupo con lo sguardo chino, di chi ingoia gli insulti a
forza,
di chi si sottomette perché non c’è
altra soluzione che quella.
I tipici
strozzini, ricattatori.
Ogni mese
arrivavano con minacce diverse eluse in cambio dei pochi soldi che
aveva e l’omertà.
Questa
consuetudine si svolgeva molto prima che Vegeta entrasse a far parte
della sua
ordinaria e povera vita, anche loro si erano resi conto delle tracce
lasciate
da un secondo inquilino: un letto sistemato in una stanza in disuso
dalle
lenzuola calde, piccolo tanto che solo un bambino avrebbe potuto
comodamente
starci, qualche gioco, o meglio, qualche rimanenza di gioco che il
vecchio si
era premurato di procurarsi quando Vegeta era ancora piccolo, qualche
vestito
calzabile solo da un moccioso in armadi che, prima, erano abitati da
ragni.
Avevano,
in giro, sentito parlare del piccolo bambino asociale e astioso, dotato
di coda
che abitava casa sua.
Intuendo il suo attaccamento
al bambino da
quanto mantenesse loro segreta, come poteva, la presenza avevano
cominciato a
far leva anche su questo.
Minacciavano
il bambino di sequestro, di tortura e di qualunque altra cosa avesse
potuto
spaventare sufficientemente il vecchio, costringendolo a tirar fuori la
grana
per cui si erano disturbati di venirlo a trovare.
-Come sta
il piccolo mezzo scimmia, eh vecchio Sam?-
Si girò
verso colui che aveva paragonato il suo piccolo a una scimmia che stava
appoggiato al bancone della cucina annessa al salotto.
-ehm…bene-
rispose cauto attento a non farsi scappare nemmeno una goccia del
veleno che
avrebbe voluto.
-E dove
si trova adesso?- continuò un altro testando la durezza del
bastone sul palmo
della sua mano.
-N-non è
in casa- si poteva percepire tangibilmente la falsità delle
sue parole; dal
balbettio e dall’indecisione che si avvertiva nella risposta,
ma i ricattatori
non sembravano essere dotati di molta perspicacia, o forse finsero di
non aver
sentito la bugia.
-Certo, e
tu vuoi che continui a stare bene vero?-
Vegeta
tese le orecchie e irrigidettè i muscoli sentendosi chiamato
in causa, ma non
diede segni di inquietudine o preoccupazione, rimanse in atteggiamento
guardingo, ma per
nulla allarmato.
Solo un
leggero inarcamento del sopracciglio destro trapelava il suo interesse
per la
vicenda.
Per il
momento gli uomini si erano mantenuti ad una distanza lecita dal
bancone dietro
al quale era nascosto.
Uno di
loro diede un calcio ad una sedia del tavolo da pranzo e il vecchio
indietreggiò come per mantenere una distanza di sicurezza.
-Allora?-
chiese aspettando ciò che Sam sapeva lui volesse.
-Mi
dispiace, ma non ne ho- mentì e disse la verità
ad
un tempo.
In realtà ne aveva,
ma i gruppi di
profittatori erano molti, e il denaro era stato promesso ad un'altra
frotta che
aveva minacciato di incendiagli casa.
-Sicuro?-
rovesciò un'altra sedia con un altro calcio, ed un altro
sparse al suolo il
contenuto della cassetta degli attrezzi.
Uno di
loro focalizzò la sua attenzione su un pennacchio nero che
affiorava da dietro
il tavolo da lavoro.
-Che roba
c’è dietro il bancone?- chiese
Il
vecchio sbiancò, divenendo pallido come un cencio e lo
stomaco gli parve fare
un salto.
-Niente-
la fretta stessa con cui aveva risposto lo tradiva.
Con un
sorrisetto sbilenco, che esibiva un dente guasto, uno di loro si
avvicinò cautamente
al bancone straziando con la sua lentezza il vecchio Sam per quanto gli
era
possibile.
Una volta
che fu ad una distanza tale da poter aggirare il tavolo
inciampò e andò
a sbattere con il mento sul pavimento, cosicché il dente
guasto saltò fuori
dalla bocca.
I
compagni identificarono la causa della rovinosa caduta del compagno
notando una
striscia pelosa che sbucava dal retro del bancone tesa in modo da
giocare un
tiro mancino al malcapitato.
-Chi c’è
là!- urlò agitando il bastone davanti a se.
- Figlio di puttana esci
fuori subit…-
Vegeta si
era già alzato e lo fissava con stizza mista a disgusto per
la sua persona.
Si erano
informati riguardo alla glacialità del suo sguardo,
del singolare timore che
effondeva nella gente quando passava semplicemente scoccando un
occhiataccia
che sembrava condannarli a morte in merito alla loro
inutilità.
-Che cazzo ci fate in casa mia?-
Lo chiese
con un tono autorevole per cui non ebbe bisogno di sforzarsi.
Sebbene
la sua figura fosse minuta e puerile avrebbero giurato che gli occhi
tradissero
che si fosse macchiato di delitti impensati anche per teppisti come
loro.
Il caduto
si rialzò tastandosi la mascella dolorante pienamente
intenzionato a punirlo
per il tranello.
-Brutto
lattante!- cominciò massaggiandosi la guancia – ti
insegno io a…AHIA- mise la
mano grossa come un badile sulla minuta spalla del piccolo ricevendo
una
scarica elettrica che gli bruciò il guanto ed i polpastrelli.
Costretto
a mollare la presa a denti stretti si fissò il palmo della
mano intravvedibile
dagli squarci del tessuto.
Poi
osservò il bambino che non si era voltato.
Con i
muscoli rigidi e lo sguardo altrettanto inflessibile
scrutò ad
uno ad uno i componenti di quel patetico quartetto di delinquenti
minori.
Storse un
angolo della bocca con disappunto.
Nessuno
di loro poteva negare che Vegeta sembrava molto più grande
di come non fosse
negli atteggiamenti, non si spiegavano come potesse ostentare tanta
sicurezza a
soli sei anni.
I suoi
occhi cupi passarono ancora da uno all’altro stavolta con una
tonalità appena
accennata di inquisizione.
-Che ci
fate ancora qui? Andatevene!- era un ordine.
Quello
che sembrava il capo si riebbe dallo smarrimento che effondevano le sue
iridi
cupe deciso a sfoggiare tutta la sua autorità.
-Chi ti
credi di essere mocciosetto, qui siamo noi a comandare, noi abbiamo le
armi - e
sfiorò il calcio della pistola laser che portava in vita in
bella vista
–siamo noi
a
decidere quando andarcene-
Vegeta si
vide gravare a dosso la minaccia di tre tubi di metallo luccicanti e di
tre
dita sui grilletti che avrebbero innescato le armi.
Sogghignò
schiudendo appena la bocca mettendo in mostra i denti da latte.
Le
pistole detonarono.
Gli
strozzini si affrettarono a lasciare gli oggetti non appena li videro
sprizzare
stille elettriche e i cocci metallici caddero al suolo.
-Ve ne
andate, deficienti?, volete proprio creparci in questa cazzo di
cantina?-
Da dove
gli nascevano quelle parole, si chiese il Sam, quello non era un
bambino, o
almeno non uno normale, solo un piccolo demone poteva minacciare di
morte.
Lo
sguardo venne catturato dalla sua coda sferzante; segno che si stava
eccitando,
e non l’aveva mai visto così, mai.
Per un
attimo diede credito alla teoria che inizialmente gli era nata nella
testa
quando lo aveva raccolto e amorevolmente curato da piccolo,
l’ipotesi che il
suo piccolo fosse un Sayan, l’ultimo.
Non lo
aveva mai visto esercitare facoltà inumane, non lo aveva mai
visto allenarsi ma
a quanto pare lo aveva fatto perché gli sembrò di
leggere le sue intenzioni dai
suoi occhi, che lasciavano intravvedere una luce di sadico divertimento.
Si sentì
qualcosa di freddo affondargli nella bocca che aveva spalancato per lo
stupore.
Tastò con
la lingua la durezza del metallo e inevitabilmente si andò a
infilare nel buco
del tubo della pistola ficcatagli tra le labbra.
-Sta
immobile, o il vecchiaccio fa una brutta fine-
Vegeta
non si scompose.
Sam vide
scorrergli nella memoria tutto ciò che Vegeta era e aveva
fatto; un bambino
scontroso e scostante, indisposto verso qualunque gentilezza, che non
ringraziava mai, che amava stare alzato di notte a contemplare una luna
piena
non riuscendo a scorgerla del tutto tra i palazzi, un bambino che amava
provocare zuffe che però finivano troppo presto.
E ora era
anche un ingrato moccioso che poteva lasciar morire il suo vecchio
senza
problemi, rimorsi o rimpianti…strizzò gli occhi
preparandosi a sopportare il
dolore della morte privandosi dell’immagine di Vegeta che ora
stava proferendo
le parole che lo urtarono di più.
-E allora
fallo-
In quel
momento l’anima di Vegeta si presentò ai suoi
occhi in tutta la sua cattiveria,
non era solo un invito per quel teppista a farlo fuori, era anche un
ribadimento del fatto che non avesse bisogno di lui, gli stava
sbattendo in
faccia in punto di morte che anche senza di lui, avrebbe potuto andare
avanti,
che sebbene lui l’avesse amato come un figlio, lui non
sarebbe mai stato legato
a lui, e a quella casa.
Sentì la
canna dell’arma spingersi sempre più in fondo alla
gola; il teppista stava
provando a spaventare il piccolo, ma lui conosceva troppo bene Vegeta
per non
riuscire ad immaginare la sua espressione.
Percepì
qualche esplosione, per un attimo credettè che fossero state
provocate dalla
pistola in bocca, credettè di essere morto, ma allora
perchè non aveva sentito
dolore?
Non
avrebbe mai creduto che il trapasso potesse essere così
indolore.
Sentì un
gemito che venne subito soffocato, seguito da urli, il tubo della
pistola gli
scivolò dalle labbra brillando di saliva e cadde a terra
insieme a colui che la
impugnava.
Riaprì
gli occhi e vide la figura bassa di Vegeta che teneva il suo assalitore
per il
collo e lo scuoteva energicamente mentre gli altri, non
c’erano più.
Deglutì
tentando di ingoiare quel groppo che gli ostruiva la gola che non
andava ne su
ne giù.
Vegeta
lasciò il collo del delinquente, ringraziando il cielo era
ancora vivo.
Quel
lattante irriconoscente lo degnò di un occhiata, forse era
curioso di vedere la
sua reazione, di vedere lo sconcerto,
l’indignazione per ciò che aveva detto, e
quello che vide sembrò soddisfarlo.
-Porta
via questo pezzente-
Si
allontanò avvertendo nelle membra un piacere di immane
sadismo.
Godendo
della sua superiorità, godendo nel recare, non tanto dolore,
ma
paura.
Il
vecchio sbuffò, non abbastanza sconvolto per dimenticarsi
che Vegeta gli aveva
impartito un ordine secco, doveva darsi una regolata il signorino.
Una volta
che tornò dopo aver scaricato il corpo incosciente del
malvivente a qualche
isolato di distanza vide Vegeta accucciato sul davanzale in
atteggiamento
meditativo: con gli occhi chiusi, il capo reclino sul petto e le
braccia
incrociate.
Quando
entrò, una volta che si fu tolto le scarpe e le ebbe
accantonate in un angolo
gli sembrò di avvertire una fioca luminescenza azzurrognola
proiettata sul muro,
proveniente dalla finestra.
Si voltò,
ma Vegeta era sempre li nella medesima posa senza aver risentito
minimamente
della variazione luminosa.
Presuppose
che se lo fosse immaginato, era stata una giornata strana, ma il
bagliore gli
venne gettato nuovamente in faccia costringendolo a socchiudere le
palpebre.
Avvertì
una vibrazione, più o meno intensa sotto i suoi piedi, e il
tintinnio dei
bicchieri nella credenza accanto.
Il
creparsi di un vetro di una finestra.
Cariche
elettriche si propagavano dal corpicino del piccolo che intanto non si
era
smosso.
Era
dunque questo il suo modo di allenarsi?
Il vaso
sul tavolo da pranzo cominciò a levitare e vibrando
arrivò fin quasi al
soffitto.
Un
confortevole tepore venne effuso in tutta la casa.
Il vaso
cadde.
Vegeta
riaprì gli occhi allo schianto che produsse contro il tavolo
e si voltò ostile
e inquisitorio verso il vecchio che
pareva boccheggiare.
Chi aveva
allevato per quasi sette anni?
Rimirò
i
cocci e la polvere della ceramica mordicchiandosi il labbro nervoso.
Scusate tanto per il capitolo
"flashback" poco sintetico e forse anche superfluo ma credevo di dover
precisare qualcosa del rapporto con Vegeta e il "vecchio" ( lo
sentirete chiamare così quasi sempre vi avviso) cmq grazie
tantissimo a chi ha messo la storia tra i preferiti
-Angeloazzurro
-miettajessica
-Vegtina
Grazie smak
e
naturalemente chi ha sacrificato un briciolo del suo tempo x lasciare
un commentino grazie, avvisatemi se il capitolo è
troppo lungo o pesante da leggere perchè a me rileggendolo
è sembrato proprio che fosse così, spero lo
apprezziate molto più di me^^ciaociao span>
|
Ritorna all'indice
Capitolo 6 *** Capitolo 6 ***
La
reincarnazione
Si
asciugò il sudore che gli scivolava sulle tempie con il
consueto gesto di portarsi il dorso della mano alla fronte.
La sua faccia era madida, oltre che di sudore, si sozzume e
lubrificante olezzo che impregnava le piaghe della pelle che con gli
anni gli avevano invaso la faccia.
Riprese ad armeggiare, soffiando per il disprezzo e il nervoso,
tentando invano di scacciare
Vegeta dai suoi pensieri.
Sempre lui era l’oggetto delle sue preoccupazioni.
Un angolo della bocca si piegò all’insù
sotto i folti baffi che da qualche tempo lasciava attecchire in un
sorriso tutt’altro che di gioia.
La natura di quel riso infelice e amaro venne tradita da una grinza di
fastidio sulla fronte e dalla foga e forza che impiegava nei movimenti.
Si lasciò sfuggire un altro cenno di irritazione, e insieme
a questo si lasciò sfuggire l’arnese.
Nitida l’immagine di Vegeta che se ne andava ritornava ad
essere materia dei suoi pensieri, il
bambino arrabbiato e indisposto che usciva per procacciarsi il cibo che
da lui non avrebbe avuto.
Ricordava l’occhiata istigatoria che gli aveva rivolto.
In risposta aveva borbottato qualche maledizione e qualche insulto,
Vegeta non aveva risposto e lo aveva lasciato solo con il suo cruccio.
Allungò la mano alla ricerca di un arnese, ma questa
vagò a cercare sulla superficie liscia del tavolo in metallo
tastando alla cieca fino ad arrivare allo spigolo.
Le sue dita scorsero lungo le gambe e si lasciò sfuggire un
altro rumoroso sbuffo, contrariato all’idea di doversi
piegare.
Ora la mano si aggirava sul pavimento errò per un minuto
buono alla ricerca di un oggetto disperso.
Straziato dal dolore alla schiena si alzò deciso alla
ricerca dello strumento quando si sentì picchiettare sulla
spalla.
-Scusi? Cercava questo?-
***
Klareth vide Vegeta rimanere impassibile all’avvicinarsi dei
teppisti che stavano seriamente rischiando di rovesciarsi a terra
vicendevolmente.
Barcollando sbattevano l’uno contro l’altro,
travolgevano secchi del pattume, sbattevano sui muri e prodigiosamente
non cadevano, tramortiti quanto erano dall’alcol tracannato.
Appena furono sufficientemente vicini riuscì addirittura a
percepirne il puzzo alcolico che spiravano e alitavano in faccia a
Vegeta mentre parlavano.
-Certo che si ricorda- rispose uno di loro alla domanda di quello, con
la bottiglia nella mano.
Uno di loro gli pizzicò scherzosamente la guancia senza che
lui emettesse un fiato.
Forse il piccolo si era premurato di trovare un posto per loro nella
sua memoria, con infinita precisione, aveva registrato gli avvenimenti
dell’anno passato nel cervello, ma loro, evidentemente
perché il vino aveva reso il loro cervello, per quanto
ciò che possedevano in testa potesse essere ascrivibile a
ciò, non più utile di quanto sarebbe stata acqua
e sapone al suo posto.
La birra aveva reso la loro memoria inaffidabile e gli avvenimenti
frammentari e lacunosi nella loro mente, ricordavano vagamente un
ragazzino dal viso simile ad una maschera di sprezzo e una buffa coda
dal pelo scuro.
Vegeta, non vedendo le dita smettere di strizzare la sua gota
allontanò la mano con uno schiaffo.
Il ragazzo la levò dalla sua faccia, ma non
indietreggiò, la vista gli era resa impossibile da una
patina che sfumava ai suoi occhi le immagini, non potè
notare il piglio incredibilmente infastidito e ostile del piccolo.
Ma distinse i contorni della sua bocca che si contraeva in una smorfia
invelenita
***
Aveva davanti un uomo, alto.
Lo sovrastava di qualche centimetro grazie alla zazzera eversiva in cui
ciuffi si direzionavano da tutte le parti.
Aveva gradi occhi neri che conservavano la genuina ingenuità
infantile e un’ espressione sinceramente lieta e spensierata.
Era nerboruto e portava una casacca arancione con affisso sul petto a
destra uno stemma illeggibile per lui.
Alla vita portava una cintura blu e polsini e stivali dello stesso
colore.
Gli porgeva l’arnese con aria amica e benevola.
Era desideroso di aiutare e mostrava l’imbarazzo
dell’ospite educato che cerca, in qualche modo, di non dare
troppa noia al padrone.
Non aveva capito come avesse fatto ad entrare, ma la sua espressione
gli instillava fiducia, non aveva l’aria di chi vuole
rendersi un pericolo, tutt’altro.
Disorientato lo osservò, poi guardò
ciò che gli porgeva.
Accettò l’arnese con un sorriso accondiscendente.
-Grazie...chi sei?-
L’uomo portò il braccio dietro la nuca con
spontaneità, quasi potesse discolparsi di essere entrato
candestinamente e di essersi rivelato solo ora ostentando
l’innocenza infantile, in virtù della quale, i
bambini venivano assolti dalle loro malefatte e prosciolti dalla
condanna.
-Mi spiace essermi introdotto così in casa sua- si
scusò.
Annuì lievemente perplesso.
-Posso sapere la ragione per la quale l’hai fatto? Non hai
l’aria di essere un cattivo ragazzo-
Il giovane portò le mani davanti a se agitandole come a
voler scacciare le sue incertezze.
-E infatti non c’è ragione per cui lei si
preoccupi, le assicuro che non sono un pericolo-
Era sospettoso l’affanno con cui tentava di convincerlo di
non essere una minaccia per la sua vita tranquilla.
Annuì sempre più incerto sulla natura della
visita del ragazzo.
-Ragazzo se sei entrato qui solo per questo puoi anche andare- disse
girando sui tacchi e ritornando al suo lavoro.
-No, no aspetti!- riportò le mani davanti a se a indicare di
fermarsi.
-Che altro c’è adesso?-
Il ragazzo smise la sua aria serena per adottarne una più
seria che non si confaceva alla sua indole gaia e puerile.
-Si tratta…di Vegeta-
Al sentire il nome di colui a cui egli aveva dedicato la vita si
girò allarmato, e l’occhio gli cadde
sull’insolito accessorio circolare che portava sospeso sopra
il capo il visitatore.
***
-Levatevi!- disse incamminandosi nella loro direzione e aprendosi un
varco scostandoli violentemente con un gesto delle braccia.
Klareth immagino che se parlasse così fosse nelle condizioni
per farlo.
Vegeta aveva smesso di eclissarla con la sua figura e ora, quattro
visi, scattarono verso la sua personcina.
Intimorita dalle facce che ora la fissavano ebeti e perverse, si
incamminò inquieta seguendo i passi del coetaneo guardando
di sottecchi i loro ghigni mentre infilava il corridoio creato da
Vegeta.
-Eh chi è questa signorina?- chiese quello con il ferro in
mano trattenendola per il solino della camicetta.
-Non sapevo avessi amichette...- disse un altro avvicinandosi anche lui
a Klareth che non aveva opposto resistenza alla mano che le aveva
afferrato il bavero, troppo spaventata per fare alcunché .
Un ciccione le mise le due mani sulle spalle, attirandola alle sue
gambe.
Klareth sperava davvero che l’alcol non avrebbe fatto
sfociare la loro stupidità in perversione.
Vegeta si voltò al commento acre del ragazzo con un tremito
di rabbia misto a disagio.
-Aiuto- soffiò Klareth, che tentava disperatamente di non
inalare troppo l’odore spanto da quegli individui,
augurandosi che non le si appiccicasse alle vesti e alla pelle.
-Potete farne quel che vi pare-
Eccola la sua condanna.
Strinse il bavero tra le dita unticce la tirò verso
l’alto lasciandola penzolare e sgambettare per aria nel
tentativo di sottrarsi a quello strazio.
Senza smettere di dimenare gambe e l braccia latrò con voce
straordinariamente acuta minacce di terribili percosse che il padre
avrebbe inflitto loro, ma visto che quei tipi sinistri sembravano
godere della sua magra figura non le rimase altro da fare che evocare
la pietà del ragazzino.
-Per favore non lasciarmi qui - si lagnò riuscendo ad
articolare qualche altra implorazione tra i singhiozzi che le
uccidevano il respiro e le parole in gola.
Vegeta era rimasto a riempirsi le orecchie di quello strazio, delle
risate divertite, dei pianti isterici, ma quando la cosa
cominciò a risultare fastidiosa procedette per la sua strada
deciso ad abbandonarla al suo destino, ma non c’era limite al
pervertimento che i vini generavano in individui come loro.
Sentì una mano sulla spalla trascinarlo sempre
più vicino alla fonte del piagnisteo.
Si sentì tirare per le maniche delle magliette e sollevare
mentre sbatteva gli arti e la coda di qua e di là
contrariato, nel intento di colpire i suoi aggressori.
Mentre già stava caricando un colpo più mirato la
coda venne intercettata da una delle otto grosse mani di quei
soggetti, che trovarono divertente infliggergli un potente
strattone che lo costrinse controvoglia a gemere come un bimbetto e a
irrigidire i muscoli degli arti inferiori.
Osservò a denti stretti la pateticità con cui la
mocciosa cercava di svincolarsi dalla loro presa.
Un capogiro lo colse alla sprovvista al secondo strattone, ma stavolta
stroncò il lamento privandoli
della soddisfazione di cui avevano goduto poco prima.
Il terzo strattone non fece in tempo ad arrivargli perché lo
strido che emise la bimba a volumi acuti preoccupanti costrinse ognuno
a tapparsi le orecchie con le mani libere per fuggire il loro udito ad
una lesione certa.
Vegeta strinse i denti inibendosi dal soccorrere le sue orecchie e
assestando un doloroso e micidiale pugno all’altezza della
bocca dello stomaco di colui che lo sosteneva.
Le membra del ragazzo protestarono infliggendogli un bisogno impellente
di vomitare.
Le braccia andarono ad attanagliarsi sulla pancia come per arginare la
fitta e si piegò in due sulle ginocchia preparandosi ad
espellere i pasti ingeriti, più i
super alcolici.
Non fece in tempo a rialzarsi che sentì un dolore intenso
alla collottola e poi alla schiena; cadde rovinosamente.
Il ragazzo in carne che teneva Klareth per il colletto
cambiò tonalità di colore per tre volte in poche
frazioni di secondi.
Con uno scattò delle iridi Vegeta notò lo
smarrimento e il panico nello sguardo dell’altro e decise di
appagarsi ancora un po’ con il loro orrore.
Con un calcio assettato nello stesso punto dell’altro, che
affondò nei rotoli di grasso cosparsi sul suo ventre, il
poveretto fu oppresso dalla nausea e dal dolore e rigettò
tutti i pasti della giornata, lasciando la piccola.
Vegeta si scostò appena in tempo ma Klarethh non
potè sottrarre le sue scarpe al puzzolente miscuglio di
alimenti, bava, succhi gastrici e sangue.
Emise un grido di disgusto manifestando la sua repulsione contraendo la
faccia in una smorfia, che dovette essere molto eloquente.
I conati furono placati dal sonno che Vegeta gli regalò con
un pugno in faccia, ponendo momentaneamente fine al suo strazio.
Gli altri si diedero alla fuga, ma la minuta, eppure temibile figurina
di Vegeta li si parò davanti sospeso a mezz’aria.
***
-Lo chiamate ancora così no?-
Il vecchio era sempre più perplesso, ma
quell’individuo dimostrava di conoscere il piccolo, e lui era
assetato di informazioni che lo riguardassero.
Dopo anni di convivenza non era riuscito a rimuovere quella
serietà e frigidità inadatta ad un infante, a
farsi accettare come padre, ad avere una parola gentile da
lui…nulla di affettuoso era uscito dalle sue
labbra…nulla.
Ogni informazione era essenziale.
-Tu conosci Vegeta?-
Si grattò il capo perplesso insicuro su che risposta dare.
-In un certo senso…- non aveva idea su come delucidare il
padrone di casa su come funzionasse l’ordinaria
amministrazione nella lontana dimensione da cui proveniva.
Non era certo che l’avrebbe compreso, o che
l’avrebbe lasciato in quella dimora un secondo di
più, temendo fosse una mente contorta ed esaltata; si
raccomandava cautela quando si rivelavano certi segreti.
-Sei colui che l’ha trovato vero?- chiese per accertarsi di
non essersi rivolto all’individuo sbagliato ed evitare
così di protrarre una magra figura.
-Si…sono io…si-
Intrecciò le dita a disagio, le domande che stava per
formulare erano davvero molto personali, non poteva permettersi di
introdursi nella serena esistenza di Vegeta, non dopo tutto quello che
aveva fatto, non dopo che gli aveva avvelenato quella
precedente… e ora si apprestava a farlo di nuovo.
-Ho saputo che l’hanno lasciato qui- disse recuperando un
sorriso garbato per sgravare l’atmosfera.
-Si…- c’era una punta di sdegno nel tono
enfatizzata…forse volutamente –si è
così che trattano i bambini storpi…ancora-
Goku indugiò un secondo di troppo.
-Che sei venuto a fare qui? Eh? Figlio di puttana! Sei venuto per
riprenderlo dopo che l’hai abbandonato?!…-
Goku deglutì visibilmente un grosso groppo di saliva
allontanandosi per mantenere una distanza di sicurezza.
-Sinceramente mi fai schifo! Come hai potuto lasciare tuo figlio qua in
mezzo alla merda?, ti impiccherei ad un palo della luce se non fosse
che…-
-Aspetti un momento!Io non sono il padre di Vegeta: lei ha frainteso!
Io sono qui per lui, ma non volevo portarlo via. Non è mio
figlio!- chiarì lui visibilmente a disagio.
Sam non fu del tutto convinto, lo esaminò accuratamente.
-Eppure non siete poi troppo differenti-
Si vide girare intorno e si sentì osservare da diverse
prospettive.
-In effetti ci sono molte cose che ci legano, ed è per
questo che sono venuto-
Il vecchio si fermò mugugnò qualcosa e si rimise
davanti a lui assicurandosi di rimanergli ben vicino agli occhi in modo
che neanche un frammentaria parte di menzogne potesse sfuggirgli.
-Allora, racconta-
Lo allontanò sospirando rassegnato e prendendo un sorriso
amaro.
-Mi spiace, ma deve essere lei a dirmi ciò per cui sono
venuto mi deve raccontare lei che ne è di quel povero
bambino- anche la voce aveva mantenuto parte del timbro infantile.
Gli provocava uno strano effetto chiamare Vegeta “povero
bambino”, ma contenne lo spasso.
-Che cosa vuoi sapere?-
Goku si portò una mano al mento nell’atto di chi
riflette.
-Vorrei che lei mi dicesse tutto ciò che sa di lui, se gli
è mai succsso qualcosa di...strano- disse dopo varie
elucubrazioni.
-Mi spiace, ma non so molto, sebbene viva in questa casa da quando
è nato non ha contatti verbali decenti con nessuno, si
rifiuta di parlare, la sua presenza si fa sentire appena, non
è un bambino che ha bisogno di molte attenzioni…-
Goku ascoltava assorto, il modo in cui il vecchio dipingeva il suo
antico nemico lo rattristava, Vegeta era un bambino serio e rabbioso,
senza infanzia, e di certo non voleva averla.
-...dorme sogni agitati, a volte urla poco prima del risveglio, verso
l’alba, quando i sogni rimancono nella memoria, non mi vuole
dire di che si tratti, ma so che non dorme più per il resto
della notte, e finche non sorge del tutto il sole guarda lo spicchio di
luna che si abbassa, si spegne, e lo osserva con una talemente tanto
che a volte mi sembra che possa bocare in due la finestra la finestra
…- abbassò lo sguardo pensieroso –
ultimamente sta dando segni di impazienza, colpisce oggetti ,
è arrabbiato… credo faccia anche di
peggio…ruba…non posso sfamarlo con quello che
guadagno, fagocita anche il frigo e non gli basta… credo che
se potesse si mangerebbe anche me lo farebbe, non si è mai
legato a nulla e a nessuno…-
Mentre veniva informato, scosse il capo lasciandosi sfuggire un alito.
-Il destino non è mai stato buono con Vegeta- gli
sfuggì insieme al soffio.
-E questo cosa vorrebbe dire?-
Goku continuò a guardare per terra ignorando di proposito
l’inquisizione.
-Ma il motivo per cui sono venuto è…- si
indicò il posteriore –la sua coda-
Il vecchio inarcò un sopracciglio disorientato.
-Stia in guardia, fortunatamente la luna non si vede troppo da
quaggiù-
Il vecchio fece per parlare, ma Goku prevedettè il flusso di
domande che stava perfargli e lo tacque con un cenno della mano.
-Non è necessario che lei sappia cosa centri, sappia solo
che deve stare in guardia. So che lei non vuole che capitino cose
spiacevoli alla metropoli, e so che Vegeta non la guarderà
di sua spontanea volontà vista la rarità del
plenilunio su questo pianeta, ma c’è
un’altra ragione…-
Piantò i suoi occhi nelle iridi nocciola di Sam.
L’atmosfera sospesa che si instaurò fu straziante.
Per un attimo lo sguardo del ragazzo parve strano, intenso ed eloquente.
Lo scongiurava con gli occhi di stare in
guardia, e mentalmente di riuscire a comprendere il messaggio; una
minaccia incombeva su Vegeta, ma lui di più non poteva
ripetere, Re Yhammer era stato categorico: solo avvertimenti fiochi e
imprecisi, null’altro.
Non era in condizioni di dire più di così.
-Lo tenga lontano dalla luna piena e dai guai, lo stanno cercando-
Gli occhi si sgranarono in un espressione di sorpresa e paura.
-Chi? Chi lo cerca? Che vogliono farne di un bambino?-
-Mi dispiace non posso dire di più- rise quasi volesse
discolparsi con così poco dimentico della gravità
della situazione.
-Ho le mani legate- continuò alzando lievemente le spalle e
i palmi mostrarli al suo colloquiante e sorridendo, tornato lieto come
prima.
-Le consiglio di andarlo a prendere- disse-Si sono spente due aure, e
non dimentichi, la sua coda è pericolosa-
-No aspetta!-
L'uomo pose due dita sulle tempie per meglio stimolare la
concentrazione, cucciò lo sguardo, e sparì.
Rimase atterrito senza riuscire a spiegare la natura delle
preoccupazioni di quell’individuo.
Sempre più, tutto lasciava presupporre che al destino di
Vegeta fosse legato qualcosa dalla somma importanza, e ogni cosa gli
dava sempre più motivi per credere che la natura dello
spirito di Vegeta fosse bruta e rabbiosa, e la sua potenza, i cui
accenni erano devastanti, poteva voler significare solo una
cosa…e allora la minaccia che brillava in cielo di notte gli
parve chiara e limpida.
Ma non era tutto, c’era altro alla cui conoscenza lui non
poteva essere reso partecipe.
Si chiedeva perchè mai quel ragazzo dall’anello
sospeso sulla selce nera che aveva in testa fosse così
tranquillo sebbene la gravità delle informazioni che aveva
appreso da lui fosse immane.
-Devo andare a prenderlo- pensò ad alta voce.
***
I due vennero scagliati da un’immane forza dritti contro la
parete del muro ricadendo a terra allargando una pozza vermiglia che
insudiciò l’asfalto.
Dalla bocca di uno dei due venne sputato un fiotto di sangue.
Nel muro rimase indelebile la forma indistinta dei due corpi e gocce di
sangue strisciarono lungo il metallo seminando una scia di lacrime
rosso intenso più piccole lungo la loro traiettoria, lente e
lascive.
Nel petto di uno di loro si era aperto uno squarcio che era lasciato
intravvedere dalla maglietta carbonizzata.
La carne sanguinolenta era nuda agli occhi della piccola
Klareth inorridì.
Guardò uno dei due, la cui faccia si intravvedeva sotto il
corpo del compagno.
Aveva il viso paonazzo e presuppose che nelle membra non dovesse avere
neanche una goccia di sangue vista la larghezza della chiazza di colore
sotto di lui e la colorazione delle sue guance.
Gli occhi fissi al nulla non lasciavano presupporre che fosse in vita.
Era stato un trapasso rapido, ma forse non poco doloroso.
La sua faccia si tese ancor di più e si allontanò
gattonando contrariata alla vista di quell’immagine scuotendo
la testa come se la memoria di quella scena potesse essere scacciata
uscendo dalle orecchie, ma incontrò qualcosa che le
ostacolò la fuga.
Si girò verso l’alto e vide la faccia di Vegeta
non molto soddisfatto del massacro, gli osservava con cinismo
provandone disprezzo per la loro inferiorità, per la loro
incapacità a intrattenerlo per più di pochi
secondi.
Sembrò, solo in quel momento, ricordarsi della presenza
della ragazzina scoccandole un occhiata eloquente e irridente.
-Cosa c’è?- disse avvicinandosi con un riso
detestabile e le braccia conserte.
-Sei troppo buona di cuore, o troppo debole di stomaco?-
Non potè evitare di ritrarsi lievemente per sottrarsi a
quello sguardo così pesante da sostenere.
-Tutte e due- miagolò con una punta di sarcasmo mitigato dal
disgusto e dallo smarrimento.
Non rinunciava alla sfrontatezza neanche nelle situazioni di pericolo.
Non sapeva che in un futuro non troppo prossimo avrebbe collezionato
nei suoi ricordi molti di quei cruenti scenari e mille sguardi vacui di
cadaveri.
Nulla si mosse per alcuni secondi.
Vegeta ridusse ancora di più gli occhi a due fessure, che si
affacciavano su pozzi neri e profondi, ghignò di
compiacimento e si allontanò nella direzione dove era venuto
avvertendo nelle membra un insano piacere.
Un sadismo spropositato, come se avesse trovato ristoro a sofferenze
che da quando era in vita non aveva mai patito, una consolazione, uno
scarico per la sua rabbia immotivata e irrazionale.
Klareth si guardò intorno atterrita, osservò il
massacro evitando però di incrociare gli occhi con quelli
delle due salme; non vedeva traccia che potesse condurre
all’autore del misfatto.
Si voltò nella direzione dove aveva intravisto il bambino
andarsene e lo vide ai limiti della strada, dove agli occhi si
ripresentava il paesaggio cittadino di palazzi minori.
Esplorava con lo sguardo le sommità delle residenze per
studiare un percorso agibile per un ritorno veloce a casa.
Appena lo vide caricare con le gambe un salto scattò in
piedi in stato di allerta.
-Non farlo- urlò.
Vegeta che già si stava dando lo slancio venne bloccato.
Mugugnò qualcosa che sembrò un ringhio sommesso
voltandosi appena, non vide nessuno, ma udì i passi sveltiti
di una corsa, troppo tardi.
Si sentì afferrare, cingere le spalle e bloccare le braccia
con impeto, in un abbraccio stretto.
-Non farlo!- disse lei credendo in un gesto suicida.
Lo slancio con cui si getto su di lui lo costrinse a smuovere un piede
per mantenere l’equilibrio, che però
incontrò solo l’aria all’apice della
strada.
Non trovando sostegno Vegeta perse staticità e cadde senza
possibilità di scampo, lasciandosi sfuggire un gesto di
sconcerto e stringendo ancora di più i denti al sentire la
stretta, spostata sul suo collo, rafforzarsi.
La bambina era rimasta attaccata a lui, con le unghie serrate
disperatamente sulle sue spalle.
Sentendo che i loro pesi non poterono più trovare appoggio
schiuse la bocca con il respiro mozzato preparandosi a emettere uno
stridulo grido di panico.
Non appena l’acuta imprecazione venne emessa a distanza
ravvicinata dall’orecchio di Vegeta, il ragazzino assunse un
espressione talmente sofferente che sembrò che invece
dell’urlo fosse arrivato al suo orecchio un coltello.
Cercando di reprimere la voglia di ficcarle in bocca il suo coniglietto
e insieme ad esso una sfera energetica le afferrò e
strattonò uno dei codini ottenendo che smettesse di urlare.
-Zitta oca, se non vuoi che te la dia io una motivazione per strillare-
ordinò.
Klareth piagnucolò contrariata sentendo l’aria
soffiarle in faccia spazzandole via le lacrime e irrigidendo ancor di
più le gambe.
Guardò di sotto e attanagliò le braccia sul petto
del ragazzino.
-Fa qualcosa!- urlò con voce altrettanto fastidiosa.
Vegeta ringhiò nuovamente assumendo una posizione
più aereo dinamica e allargando le braccia a cercare un
appiglio.
-Non ce la faremo mai! E tutta colpa tua!- si lagnò lei
mentre le ultime lacrime venivano spazzate dall’aria che le
agitava i capelli e le spirava sulle gote.
La sua mano trovò l’asta di una bandiera
sventagliata affissa su un balcone.
Strette più che potè le dita attorno alla spranga
ma si sentì la coda impedita da un peso.
I tendini reclamarono con un intenso dolore alla radice della
protuberanza.
Klareth non aveva retto all’improvviso cambiamento e quando
la loro caduta fu frenata bruscamente, le sue dita umide di sudore
erano scivolate dalla loro posizione.
Aveva raschiato la maglietta con le unghie nel tentativo di reggersi,
ma aveva continuato a scivolare con una mano ancora unita al braccio
arrivando alla nuda pelle di Vegeta.
Una volta che le sue mani si disunirono dall’arto del
compagno andarono a vagare a tentoni nell’aria, alla
disperata ricerca della salvezza in un appoggio, fornitole
provvisoriamente dalla coda del bambino.
Cacciò un urlò disumano spalancando le fauci in
maniera scioccante.
Ricacciando le lacrime da dove erano venute Vegeta con
un’immane sforzo chiuse la bocca mordendosi la lingua come se
lo aiutasse a sopportare lo strazio.
La presa sulla spranga si allentò pericolosamente; le sue
dita scivolavano, la sua mente si intorpidiva, il sonno sopraggiungeva
a strapparlo dal dolore che percepiva sopra le natiche.
Mentre la mente si ottenebrava
e al paesaggio composto dal susseguirsi di palazzi si sovrapponevano i
sogni di un sopore lieve, le sue dita si disunirono del tutto dalla
spranga.
Le sue visioni si dissolsero come immagini riflesse sulla superficie
d’acqua rotta da un sasso
I rumori si fecero meno ovattai e più vicini.
La mocciosa aveva ricominciato ad urlare, ma aveva cambiato appiglio.
Quando la presa di Vegeta era venuta a mancare aveva tentato
pietosamente di arrampicarsi sul suo corpo e di raggiungere lei stessa
l’asta, ma aveva conseguito solo di raggiungere la sua gamba
dove ora era avviluppata.
Vegeta tese la mano in cerca di un'altra salvezza, raggiungendo il
bordo di un davanzale.
La spalla di Klareth andò a sbattere contro il muro,
costringendola ad arginare il pianto e a stringere le labbra
convulsamente e le dita sull’orecchio di pezza del coniglio
per meglio sostenere il dolore.
Vegeta arrivò al davanzale anche con l’altra mano
facendo leva sulle braccia riuscendo facilmente a compiere
l’impresa con un peso che lo opponeva, ma improvvisamente il
carico venne a mancare.
Udì uno schianto terribile, lo schizzo di qualcosa in faccia
e poi un lamento.
Quando riuscì a mettersi seduto si sporse leggermente,
infastidito dalla presenza di quel fardello.
Vide risorgere dalle buste nere della pattumiera una testolina
foltamente coperta di capelli azzurri ornata da una buccia di frutta, e
una faccia sporca dello stesso liquido che era stato schizzato a lui.
Ringhiò seccato poco avvezzo a sopportare certe
pateticità e saltò giù dal davanzale.
Klareth lo sentì cadere con agilità felina e
ammortizzare l’atterraggio davanti a lei.
Provò ad alzarsi e a riacquisire un minimo di decenza, ma
sentì qualcosa di …vivo sotto la scarpa, che
oppose resistenza al suo piede.
Urlò atterrita ritraendosi verso la parete liberando il topo
dal suo peso.
Questo squittì e sgattaiolò via in tutta fretta
sotto lo sguardo stomacato di Klareth e quello freddo
dell’altro.
Alzò leggermente la testa vedendo Vegeta che ancora
osservava il ratto offrendole le spalle e la nuca.
Gonfiò le guance indignata e si rialzò fissandosi
il vestito lordato di ogni genere di sporcizia cittadina.
Allargò le braccia a indicare la sua persona.
-Guarda che hai combinato!- lo assalì.
Vegeta non la degnò neanche di un’occhiata
voltando la testa davanti a se e iniziando ad allontanarsi con incedere
lento e cadenzato.
-Ehi! Sto parlando con te!Non so neanche come ti chiami! Guarda che hai
fatto al mio vestito!Potevi salvarmi da quella caduta ma non
l’hai fatto! Sei cattivo!-
Vegeta si arrestò all’ultima affermazione si
girò con flemma esibendo un ghigno inviso.
Si voltò del tutto verso di lei con le braccia incrociate
ridendo sommessamente, come se l’ultimo commento lo avesse
sinceramente divertito.
Klareth rimase immobile a chiedersi la ragione del suo atteggiamento.
Con austerità si avvicinò in modo che le fosse
evidente il vantaggio in altezza che aveva.
Il divario di età creava anche una disparità tra
le loro stature.
Si morsicò l’angolo inferiore della bocca come per
reprimere il piccolo ghigno, l’unico sorriso che ci si
sarebbe potuti aspettare da lui.
Mantenne sempre una certa distanza da lei, come per renderle evidente
la sua superiorità: un bambino, un assassino, non poteva
toccare una ragazzina indifesa e patetica come lei.
-Ma davvero?-
Realizzò che quel bambino le faceva una gran paura, il suo
solo modo di osservala con sufficienza la feriva, eppure era lei quella
ricca li, lui il poveretto che rubava per sfamarsi, sarebbe dovuta
essere lei a mettere soggezione a lui, con la sua
superiorità, i suoi bei vestiti, il suo pupazzo…
Si sorprese a indietreggiare.
Incespicò in un sasso dietro di lei cadendo
all’indietro.
Prima di poter toccare terra ed insudiciarsi maggiormente le vesti
venne trattenuta da qualcosa sotto le ascelle.
Si girò vedendo il riso benevolo di un uomo dalla tuta
arancione e la pettinatura improponibile.
La risollevò con delicatezza rimettendola in piedi e
restituendole il pupazzo che aveva perso.
-Ciao piccola-
La bambina fissava intensamente tutta la sua persona.
Sembrava gentile, aveva un riso affabile e sinceramente contento,
glielo elargiva con la naturalezza di chi sorride ad un vecchio amico,
ma lui era un perfetto estraneo per lei, e , se i suoi genitori le
avevano insegnato qualcosa doveva essere educata e presentarsi.
-Buon giorno- disse chinandosi leggermente in segno di rispetto.
L’uomo si abbassò alla sua altezza e le pose una
mano sul capo accarezzandola.
-Ciao, come ti chiami?-
Klareth sbattè un baio di volte le palpebre disorientata dal
sorriso buono e simpatico che aveva in faccia il suo ospite.
-Io mi chiamo Klareth-
Sembrò che l’attenzione dell’uomo fosse
calamitata da qualcosa alle sue spalle.
-E tu giovanotto come ti chiami?-
Vegeta aveva sdegnosamente ripreso la via del ritorno verso casa e non
si diede pena di fermarsi e voltarsi, ma proseguì affettando
distacco e disinteresse per la cosa.
Non avrebbe certo pensato di vedersi comparire davanti colui che
l’aveva chiamato ad essere partecipe dei convenevoli inutili.
-Ehi piccolo, ti ho fatto una domanda- lo rimbrottò
benevolmente senza smettere quel suo, troppo sincero, sorriso.
Ringhiò seccato con una grinza di fastidio sulla fronte e
agli angoli della bocca.
-Che vuoi?-
Ridacchiò divertito constatando che non fosse cambiato di
una virgola.
Aveva sempre quel crucciato e arrogante cipiglio anche da bambino.
C’era del dilettevole nella situazione in cui si trovavano a
distanza di molto tempo, li; lui, Vegeta e… Bulma.
Klareth percependo che il centro delle attenzioni del simpatico
individuo non era più lei ma quell’antipatico
ragazzino si inalberò piantò i piedi per terra, i
pugni sui fianchi e prese a canzonarlo.
-Lui è un maiale, mangia da maiale ed è odioso-
informò il nuovo venuto con questi chiarimenti sul bambino.
Goku rise di gusto all’affermazione senza scomporre Vegeta
che continuò a fissarlo ostile.
-Mi dai sui nervi- comunicò con un ringhio e girandoli
attorno e desamniando il suo nuovo avversario.
Tutto sommato non gli sarebbe dispiaciuto spassarsela con un nuovo
seccatore.
Partì alla carica direzionando il pugno destro verso la sua
mascella e mentre pregustava una vittoria le sue nocche vennero
bloccate con troppa facilità.
Livido di rabbia rimise i piedi per terra caricando un calcio in mezzo
alle gambe dell’uomo, ma il suo avversario pose un ginocchio
a intralciare la sua mossa.
Si sentì afferrare con forza per un braccio.
Ora scalciava per liberarsi, provò ad assestare un altro
calcio al ventre dell’opponente, ma questo venne bloccato con
il solo uso dell’altra mano.
Sempre più carico di astio e rancore sentì il
bisogno urgente di urlare di una rabbia che gli faceva quasi male.
Privato del suo diritto ad arrecare danno e a godere della paura,
insieme all’ira gli pervase il corpo una scarica
elettricà che percosse il braccio dell’avversario
talmente forte da costringerlo a mollare la presa.
Klareth urlò.
-Ahia-
Vegeta recuperò la distanza da lui con un salto e lo
fissò con odio ringhiando come un’animale
minacciato.
-Sei in gamba Vegeta, e non ti sei ancora allenato, chissà
che risultati incredibili potresti dare con un appropriato esercizio-
esclamò entusiastico allargando le braccia come se volesse
abbracciarlo…come se fosse fiero di lui?!
Vegeta inarcò un sopracciglio.
Si risollevò riprendendo la sua posa superiore e fissandolo
con un disprezzo diverso da quello che riservava a tutti gli altri.
La rabbia di aver subito la sua prima, bruciante sconfitta era immensa,
il sorriso compiaciuto e felice del suo avversario, che non sembrava
adottare tanto perchè fosse felice della sua vittoria o
della sconfitta dell’oponente, gli dava fastidio, davvero no
riusciva a capire perché fosse allegro.
-Non hai perso un briciolo della tua potenza-
“ ne della tua freddezza” pensò.
Davvero neanche lui, neanche in un’altra esistenza aveva
potuto godere della sua porzione di felicità? Neppure
nell’infanzia?
Sorrise mestamente per un attimo ripensando a quanto il destino fosse
crudele con Vegeta, che ora non era altro che un bambino solo, triste e
cinico.
Vegeta lo fissò con un espressione di sorpresa irritazione.
Quando mai aveva avuto dimostrazione della sua forza, e quegli elogi
entusiastici… gli davano noia, provenienti proprio da colui
che l’aveva vinto per giunta.
Gli tese la mano amichevolmente.
-Sono Goku-
|
Ritorna all'indice
Capitolo 7 *** Capitolo 7 ***
La
reincarnazione
a vivvina
“Nel
piccolo mondo che racchiude la vita dei bambini... nulla è
percepito in modo così distinto e così vivo
quanto l’ingiustizia”
(Charles Dickens)
L’immobilità
si era fatta padrona della situazione; Goku fermo
con la mano tesa, a voler dimostrare amicizia, con un sorriso
indelebile disegnato sulla bocca altrettanto bonario.
Vegeta dal canto suo fissava il palmo senza troppo interesse.
Storse il naso.
Goku ritirò la mano ormai persuaso che non avrebbe
ricambiato.
“deve essere successo qualcosa di strano” gli venne
in mente qualcosa di simile perché nel processo di
purificazione davvero doveva esserci stato qualche incaglio.
-Come fai a sapere il mio nome?- chiese a brucia pelo il ragazzino.
Klareth trotterello verso il duo introducendosi prepotentemente nella
non-conversazione.
-Signore- strattonò i pantaloni dell’adulto nella
speranza di riceverne le attenzioni.
-Signore…mi scusi-
Goku si voltò incontrando solo il paesaggio e fu costretto
ad abbassare gli occhi per intravvedere la piccola che gli sorrideva in
modo semplicemente squisito.
Goku di nuovo fu costretto a inginocchiarsi per eguagliarla in altezza.
-Mi scusi da dove viene quello strano accessorio che porta in testa?- e
indicò con il dito l’aureola.
Klareth era un abile maestra in questa arte; sapeva perfettamente come
persuadere gli adulti ad essere schiavi della sua volontà;
sapeva come dosare i toni, quanto era necessario sbattere le ciglia
folte e sapeva bene cosa volevano sentirsi dire per essere compiaciuti
da lei e della sua mielosa voce.
In particolar modo sapeva torchiare un adulto misurando bene il giusto
tono dolce, sapientemente artefatto, condendolo con
l’innocenza più schietta che poteva abilmente far
erompere dalle sue iridi.
-Vedi è un anello funzionale a distinguermi da tutte le
persone che vivono su questo mondo - concluse Goku.
Klareth lo guardò dubbiosa.
Irruppe la voce fredda del bambino.
-Non mi importa chi sei o che accidenti di affare porti in testa-
girò sui tacchi e procedette verso casa con le braccia
conserte.
Klareth gli fece una linguaccia che scaturì lo spasso del
suo ospite.
Si imbronciò guardandolo male e ritraendosi e incrociando le
braccia.
-Che ci trovi di tanto divertente?-
Come certe pose enfatizzassero quelle di Vegeta era un mistero per lui,
non a caso erano stati protagonisti di
una relazione, per quanto questa fosse stata discutibile e travagliata.
-Niente, non puoi capire-
Questa frase non fece che degenerare il suo dispetto.
Gli girò attorno boriosamente con le guance gonfie di ira,
per dispetto seguì i passi dell’odiato coetaneo.
-Non sono stupida- insolentì.
Goku rimase a grattarsi la nuca confuso.
Risolse che avrebbe dovuto chiedere a Re Yhammer di controllare
l’efficienza dei processi di cancellazione della
reminescenza, a quanto pareva non erano perfettamente validi
Qualche ricordo in loro era rimasto, come sennò potersi
spiegare l’insensato odio di Vegeta al primo sguardo.
***
-Ehi aspettami-
Disse accelerando il passo assicurandosi di distanziare Goku di qualche
metro in più.
-Vegeta! Ti chiami così? Vegeta!-
Il bambino non la graziò di fermarsi ma neanche
rallentò, finse brillantemente di non aver sentito il
richiamo e continuò a camminare sordo alle sue urla.
-Vegeta!- trafelata si appigliò alla sua spalla.
Il bambino Si scosse bruscamente e si voltò indignato.
-Vattene via! Non toccarmi!-
Allontanata bruscamente si vide minacciare dai suoi occhi.
-Vegeta!-
Un'altra voce, un altro seccatore; il vecchio.
-Vegeta-
Klareth si sporse sollevandosi sulle punte per poter intravvedere oltre
la sua capigliatura ritta a formare una fiamma nera e folta.
-Vegeta, meno male-
L’uomo che lo richiamava si fermò e si
chinò appoggiando le mani sulle ginocchia per riprendere
fiato.
Una volta che il respiro si fu regolarizzato e il petto smise
spasmodicamente di alzarsi ed abbassarsi riuscì ad
articolare parole di senso compiuto.
-Ti stavo cercando, dove sei stato?-
Il monosillabo grugnitogli fu sintetico e alquanto esauriente per chi,
come lui, aveva imparato a capirlo.
-Lascia stare, non voglio neanche sapere cosa hai fatto là
fuori, concedimi il beneficio del dubbio- ironizzò alzando
le braccia in segno di resa.
Klareth alzò la mano per essere interpellata come a scuola,
ma parlò lo stesso, prima di ricevere il consenso.
-Te lo dico io che cosa ha fatto signore: ha rapinato un negozio e
pestato quattro uomini- disse orgogliosa di poter rifilare rogne al
bimbo.
Vegeta le ingiuriò qualcosa che parve un ringhio e la
guardò trapelando risentimento.
Fiera incrociò le braccia e aspettò una reazione
dell’uomo, immaginò che fosse saggio non rivelare
della strage che aveva compiuto.
Al contrario di ogni sua aspettazione il vecchio sospirò
arrendevole.
-Cosa vai a fare Vegeta? Vuoi cacciarti nei guai? Hai già
fatto perdere conoscenza a due poliziotti che hai, astutamente, fatto
rinvenire appesi ai balconi, non metterti troppo in cattiva luce. Vuoi
cacciare nei guai pure me?.
Vegeta proseguì il cammino.
-Non mi importa di quello che ne faranno di te-
Il vecchio, seppur il commento avesse rievocato
quell’infelice evento di qualche anno prima, si
voltò verso la bambina che lo aveva gentilmente informato
delle attività ricreative con cui Vegeta si era tenuto
occupato.
-Ehi Vegeta e questa poveretta che ci fa qui- disse quasi affaticato da
tutti i pasticci in cui si cacciava il figlioccio.
-Non me ne importa, potrebbe anche crepare sul posto per quel che mi
riguarda-
Klareth non potè che puntare i piedi e rivolgersi
all’uomo, decisa a raccontargli tutti gli altri misfatti e
crimini compiuti dal piccolo, ma la sua faccia represse ogni rea
intenzione.
Guardava per terra con negli occhi la forza di chi resiste a dure
prove, di chi soffoca ogni crudele pensiero, di chi spreme la clemenza
dalle riserve che possiede.
-Oh guardati, povera bimba come ti ha ridotta, sei tutta sporca-
Si inginocchiò per sfilarsi la giacca e avvolgergliela
attorno alle spalle.
-Sei tutta bagnata, con questo vento gelido…-
Minacciava di piovere, il vento soffiava e le aderiva l’umido
orlo della gonna alle gambe paffute.
I brividi la percossero un ultima volta prima che l'accogliesse il
caldo del giaccone.
Capì che il vecchio era disposto a prendersi cura di lei,
finche le cose non si fossero sistemate.
Capì quanto si risentisse per il bene che Vegeta ogni volta
gli negava, nel modo in cui gli fiaccava nel petto la speranza, e
l’orgoglio offendeva, ben conscio di essere diventato
essenziale per la sua vita, di occupare una posizione privilegiata,
certamente non meritata.
Capì quanto soffrisse per il tempo che fruiva per elargirgli
come poteva, per quanto la sua natura solitaria e taciturna glielo
consentisse, piccoli gesti, piccoli cenni, sorrisi.
Tutti spenti da un gelido e insofferente sguardo.
Chissà quanto aveva sperato che accettasse il suo amore,
possibilmente lo ricambiasse.
Speranze nate solo per essere ostinatamente nutrite, solo per
l’agognata soddisfazione, forse utopistica, di avere un cenno
di apprezzamento.
Si strinse nel cappotto, tormentata dai sensi di colpa.
In tono con l’umore del vecchio, la pioggia aveva cominciato
a scrosciargli addosso.
Sentiva il ticchettare delle gocce sull’asfalto che si
dividevano in frammenti acquei ancor più minuscoli per
ricongiungersi a tutti gli altri nelle pozze agitate da grandi cerchi;
increspamenti che si allargavano sempre più fino ad
estinguersi ed appiattirsi. .
Le venne cortesemente aperta la porta di casa e lei entrò in
tutta fretta.
-Sono Sam- si presentò.
Ad occhi bassi, rispettosamente mormorò
–…Klareth-
Il maglione infeltrito era pregno di acqua e odore di umido,
così come i pantaloni slavati e i capelli ingrigiti.
Vegeta era al centro della stanza.
Perfettamente asciutto, irradiava un delizioso tepore.
Quando questo finì si andò a rannicchiare nel
cantuccio della finestra, con lo sguardo assente rivolto
all’esterno al sudiciume che lo lordava e alla pioggia che lo
ripuliva.
La piccola aspettò che si offrisse di soccorrere il padre da
un raffreddore. Aspettò, ma niente.
Il vecchio non parve far caso al disinteresse che il figlio gli
regalava dopo tutto ciò che aveva fatto per lui.
Gli restituì il cappotto e vergognosa per essersi servita
dell’unico suo riparo, con lo sguardo che strisciava a terra
e voce talmente flebile che si udì appena tra gli scrosci
esterni e i ringhi contrariati del terzo inquilino occupante della casa
disse –mi dispiace, io…io...non volevo usare il
suo…-
Tranquillo e benevolo le poggiò una mano sulla testa prima
che concludesse le discolpe.
-Non ti preoccupare, ora mi asciugo, e tu ti cambi!- ordinò
- puzzi come una spurgatrice di fogne.-
Leggermente offesa dal commento poco lieto appena fatto in merito alle
sue condizioni igieniche, ma non abbastanza per dimenticarsi che si
fosse privato di un bene primario pur di offrirlo a lei in uno slancio
di bontà, obbediente si fece guidare verso il bagno.
La aiutò a pulirsi, le diede una maglietta lunga che le
sarebbe funta da pigiama e obbligò Vegeta a sloggiare dal
suo letto.
Fu un impresa meno travagliata di quel che credeva.
Certo Vegeta non era stato propriamente entusiasta, ma pensò
che fosse abituato ad una vita di tali stenti che, perdere il letto,
era forse il male minore di tutti.
Sam naturalmente si offrì anche di detergere il suo pupazzo
e Klareth pensò a quanta fosse immensa la gratitudine che
doveva a quell’uomo.
-Non capisco perche ti affanni tanto per una mocciosa di nessun valore-
Irruppe caustico Vegeta che si era steso sul ripiano interno della
finestra e se ne stava straiato con una mano dietro la nuca, e gli
occhi chiusi per dispetto.
-Semplicemente perché l’ho fatto anche con te. E
contrariamente a quel che pensi quella bambina che tu hai insozzato,
offeso, e trasportato qui senza possibilità di tornare
indietro vale molto più di quanto tu creda.-
Si sfilò il guanto giallo
con cui stava nettando i piatti, afferrò il telecomando e
accese la tv, Vegeta non si smosse, ma non fu indispensabile.
“La piccola Klareth Grey è scomparsa durante uno
sbarco aereo spaziale. È figlia di un importante
ambasciatore, si pensa sia…” la
pubblicità era stata ripetuta ad ogni intermezzo tra un
programma e l’altro “…i genitori
disperati offrono una cospicua ricompensa al ritrovatore della piccola,
le autorità stann…- la voce venne taciuta da un
calo di corrente non certo dovuto al temporale.
Ogni luminescenza artificiosa si spense dopo aver sfrigolato e balenato
ad intermittenza fino ad esaurirsi, si udì uno scoppio
sonoro che fece sussultare il vecchio.
Si volse di scatto notando che era esplosa la lampada sul
comò e sul vetro della finestra accanto a Vegeta
c’era
un incrinatura di non più di tre pollici.
-Mi dai sui nervi- sbottò e si rigirò offrendogli
le spalle contemplando un punto imprecisato oltre il vetro.
Sam sospirò nuovamente e decise di
andare ad ed elargire premure a chi le apprezzasse.
Klareth stava accarezzando il suo coniglietto bisbigliando parole
inintelleggibili con voce rotta dal pianto, soffocato per rispetto
della quiete.
Riuscì ad afferrare alcuni rudimenti del discorso
disorganico e sconnesso di lei notando che stesse avvampandole in
faccia un colore rosso intenso che trapelava la voglia di pianto.
-Ci vogliono bene….ci vogliono bene…ci
cercano…vengono a prenderci…si ci verranno a
cercare…ci vogliono bene…vedrai.-
Si rifugiò sotto le coperte rannicchiandosi su se stessa con
la faccia contorta in una smorfia, trattenendo le gocce di pianto e non
si udì più niente.
Richiuse lo spiraglio della porta spegnendo del tutto la luminescenza
nella stanza, lasciandola riposare, lasciando che i suoi tormenti si
quietassero e la lasciassero sprofondare in un ristoratore sonno senza
sogni.
***
Era tarda notte, si era alzata
vinta dalla sete.
Decise che avrebbe fatto da se, non era proprio giusto svegliare il
vecchio, aveva già approfittato troppo di lui,o meglio lui
aveva voluto che si approfittasse.
Non avrebbe dovuto sentirsi in colpa, ma preferì non tentare
comunque.
Era semplice, doveva solo aprire il frigo e cercar una bottiglia, non
era troppo difficile per una bambina sveglia come lei.
Percepì sotto la pianta del piede il pavimento piastrellato
limaccioso e gelido.
Si sentì piovere addosso l’acqua dalla finestra,
il vento ulularle nelle orecchie e far ondeggiare furiosamente i
tendaggi.
Si gettò sulle ante delle finestre esiliando il rumore della
tempesta, e la pioggia, fuori di casa.
Voleva dell’acqua?Ora ne aveva addosso.
Ora che la finestra era chiusa e le persiane serrate, il buio era
spesso e fitto, la sua vista era del tutto compromessa e fu costretta a
stendere un braccio avanti per prevenire l’impatto violento
con qualcosa o qualcuno.
Tutta via il gelido vento si era insinuato nella casa e ora volteggiava
per aria e la assaliva con un freddo che le irrigidiva le ossa e ogni
fibra muscolare.
Ci sarebbe voluto un po’ prima che si disperdesse.
Toccò qualcosa, lo sfiorò più volte
nel tentativo di identificarne la forma e la natura.
Tastò meglio la consistenza del maglione infeltrito, era
soffice , ma soprattutto era caldo.
Al momento, la sete le si era acquietata, non voleva continuare a
procedere verso l’acqua con il rischio di incontrare Vegeta
lungo il cammino.
Non era proprio sicuro svegliare un individuo arrogante e cinico
già in tenera età.
Si arrampicò sul davanzale, senza interrogarsi sul ritmico
contrarsi del morbido tessuto, senza capire perché
irradiasse un calore tanto confortevole e accogliente, senza sentire un
respiro.
Si accoccolo facendosi posto accanto alla coperta e,con il compagno di
pezza sotto braccio, le mani si attanagliarono alla stoffa, tastandola,
e pose la faccia a contatto con la superficie piacevolmente tiepida.
Scoprì sotto la scorza morbida, la durezza di una colonna di
marmo, ma indifferente si sistemò meglio accanto al
guanciale e soffiò esaudita dal tepore sprigionato sotto la
lana.
Quel regolare e lento movimento che la cullava accompagnato da soffi
tranquilli ricordanti il respiro dei supini si fermò
bruscamente.
Si ritrovò con le spalle contro la finestra, vincolata con
la parete vetrosa e gelida, e l’alito di Vegeta sul collo.
-Che ci fai qui?- inquisì indignato per averla trovata
dolcemente accoccolata accanto a lui
-Chi parla? Chi sei?- miagolò con una gran voglia di pianto,
chiaramente all’oscuro che, il suo presunto guanciale era
dotato di vita propria in quanto non propriamente un guanciale.
Le mani che le stringevano i polsi come due manette la liberarono con
malgarbo.
-Sciocca- mormorò dispotico intuendo l’incoscienza
che aveva della sua presenza.
-Ehi!- ribattè con lena recuperando la grinta.
-Io volevo solo andare a prendere dell’acqua, che ci fai
ancora alla finestra? Non è più comodo il
divano?- continuò a protestare arcuando i gomiti con le mani
sui fianchi.
-Se lo trovi così comodo perché non ti accucciavi
li?-… avrebbe avuto modo di adattarsi alla sua
scontrosità.
Percepì un rumore ovattato, cadenzato, che andò,
via, via ad attutirsi sempre più.
Saltò giù dal davanzale interno.
Allungò il braccio, ma non trovò nulla che
indicasse la presenza di Vegeta davanti a se.
Cercò sul muro e con la mano, individuò sulla
parete la forma e la consistenza dell’ interruttore.
La luce era smorzata, e la lampada prossima al fulminarsi.
Ma era l’unica cosa che ancora vinceva il buio e le
permetteva una visione, non certo perfetta, ma approssimativa
dell’ambiente circostante.
Distinse nella penombra la forma vaga e accennata di qualcosa che
trafficava nel frigo.
Gli arti superiori e la testa di Vegeta erano ficcati dentro
l’elettrodomestico ed esploravano i ripiani alla ricerca di
commestibili.
Scodinzolava appagato dal cibo che trangugiava.
Turbata e schifata si voltò verso la finestra incontrando
solo un buio più omogeneo.
-Mi fai schifo-
La ignorò brillantemente.
Cominciava già ad essere assuefatta a questo frangente della
sua personalità.
Lo vide riemergere dai meandri dei ripiani e delle cibarie, sbattere il
frigo, non senza scoprire il suo disappunto, e camminare verso di lei
asciugandosi con la manica i residui del suo pasto.
Le vennero i brividi al solo pensare che era stata vicino al deposito
di milioni di batteri.
-Come ho già puntualizzato prima mi fai schifo- si
esibì in una smorfia incisiva tappandosi la bocca a mimare
conati di vomito trattenuti a stento.
Senza preavviso Vegeta non deviò la sua traiettoria, ma
continuò il suo passo flemmatico senza contenere una certo
divertimento disegnato sull’espressione.
La cinse d’assedio bloccandola di nuovo con le spalle al muro
riprendendo il castigo dove Goku lo aveva interrotto.
La prima volta che lo aveva visto non le era sembrato così
maestoso ed alto, o forse erano le tenebre a conferirgli
quell’imponenza, no, forse era lei che si sentiva piccola e
inerme davanti alla sua inclemenza e al suo disprezzo.
Chiuse le braccia attorno al suo pupazzo impiegando la forza di una
tenaglia, con amore materno, difendendolo.
Le venne bruscamente strappato di mano e gettato qualche metro
più in la.
Metodicamente Vegeta le afferrò uno dei codini
strattonandolo dispettosamente.
Fece una smorfia, soffocò un guaito occhieggiando con
l’occhio schiuso l’oggetto del suo affetto buttato
malamente lontano da lei, con una cucitura sull’orecchio che
aveva ceduto.
-Non hai capito forse? Devi stare lontana da me! E non rivolgermi mai
più la parola! Chiaro!-
Le ultime frasi
le articolò scandendo bene, con rabbia, ogni sillaba,
assicurandosi di farsi intendere nonostante eventuali disagi di
comprendonio.
Non smise di trattenerla per i capelli e la fissò
intensamente, severamente.
Si sarebbe anche potuta mettere a piangere, umiliarsi invocando il suo
perdono, perché era questo che i suoi
occhi neri, biechi, le suggerivano.
Tirando su col naso alzò gli occhi guardandolo
sfacciatamente e con il labbro inferiore sporgente in un broncio, e
così rimase.
***
Aveva sentito rumori velati dal
torpore che ancora non si era diradato.
Il trafficare col frigo che occasionalmente sentiva di notte, quando si
risvegliavano i gorgogli dello stomaco del piccolo.
Poi allo sbattere dell’anta del congegno era sussultato.
Si era issato a sedere confuso stropicciandosi gli occhi con
l’indice e il pollice stimolando la mente a riprendere le
normali facoltà.
Accanto alla sua porta era volato un oggetto non identificato
atterrando proprio accanto all’entrata.
Poi la voce di Vegeta.
“Non hai capito forse? Devi stare lontana da me!Non devi
rivolgermi la parola mai più! Chiaro!”
Le parole gli arrivarono ovattate, man mano che la frase di disegnava
nella sua completezza la voce si faceva più vicina e
presente, perdendo le sfumature dei sogni.
L’unico individuo a cui il figlio poteva sbraitare nel cuore
della notte era lui, ma poi si ricordò di una certa presenza
sgradita al principino e infilò le pantofole ai piede.
Barcollante, si avviò a recuperare l’oggetto
catapultato al suo ingresso.
Quel moccioso aveva quasi mandato a morire lui e una svariata serie di
persone.
Non osava pensare cosa avrebbe potuto fare a quella bambina in
virtù dell’inesistenza apparente della sua
coscienza.
Si preparò psicologicamente a dividerli in una zuffa, ma
quel che trovò fu solo un profondo e intenso contatto di
sguardi tra i due litiganti.
Naturalmente minacciosi.
-Che sta succedendo qui?-
Tempestivamente e simultaneamente i due fecero scattare i loro ostili e
infantili visi verso di lui, ognuno con una serie di lamentele scritte
in faccia.
Il vecchio non trattenne un sussulto di stupore nel notare il
sincronismo con cui i bizzosi sguardi gli vennero rivolti da entrambi.
-Allora? Che sta succedendo?- rincarò la dose riprendendosi.
Vegeta chiarì il suo disinteresse per la cosa svincolando le
ciocche azzurre della bambina dal suo pugno e con uno sdegnoso scatto
del mento nella direzione opposta.
Gli occhi della bambina improvvisamente divennero lucidi,
sbattè le dolci palpebre un paio di volte e sporse il
necessario il labbro inferiore.
L’espressione supplichevole che ne derivò fu
devastante per l’adulto, che si ritrovò indeciso
sul da farsi.
-Mi ha preso per i capelli- cantilenò lei indicando
accusatoria il colpevole e non dando pace al vecchio con
l’insistente enfatizzazione della sua innocenza.
Il grugnito dell’altro non fu propriamente convincente.
Il vecchio ancora non sapeva a chi rivolgere la sua pietà.
Optò per la scelta più saggia, resistendo agli
occhi mielati della piccola.
-Andate tutti e due a letto! Vegeta, lei è nostra ospite
cerca di comportarti decentemente per una volta, e non si mangia di
notte! Klareth perché lo hai disturbato mentre dormiva? Se
volevi qualcosa dovevi chiederlo a me, e ora filate-
***
-Ma come
può essere successo?- guaì sceneggiando la
vecchia appollaiata sul cristallo sferico che le fungeva da mezzo, con
le mani trai capelli per la disperazione.
-Già,
come?- le fece eco il ragazzo che aveva smesso la casacca per vestire
di una tuta da combattimento composta da un paio di pantaloni larghi
giallo canarino e sformati, stretti in vita da una cinta blu, e una
maglietta del medesimo colore che lasciava esposti i pettorali ben
allenati e le braccia altrettanto forti.
Il
loro colossale ospite si grattava la guancia perplesso osservando
alcuni documenti con meticolosità.
Muoveva
lo sguardo da una carta all’altra e tutte recavano sul fondo
il medesimo marchio impresso al momento del controllo.
-Non
c’è niente che non vada nel nostro sistema,
è tutto assolutamente regolare, ogni cosa è stata
progettata e supervisionata per funzionare con la massima efficienza e
zelo, non può esserci stato un inghippo o io ne sarei stato
il primo al corrente- disse trafelato con la sua voce arrochita e la
faccia nascosta da pile di documenti che avrebbe volentieri arso e
ridotto in cenere.
Goku
cominciò a camminare avanti e indietro nervoso
come un animale stretto in gabbia in cerca di soluzioni alla sua
prigionia.
-Eppure
qualcosa deve essere successo, altrimenti non mi avrebbe guardato
così…- vi fu una breve pausa in cui Goku
ricercò la parola esatta per definire i suoi pensieri
– insomma… così- concluse con le
braccia spalancate esasperato dalla situazione e incapace di trovare un
aggettivo abbastanza compiuto.
-Mi
scusi re Yhammer, ma la responsabilità è solo
sua; lei è incaricato di accertarsi che certe cose
funzionino bene- disse Baba resa indisposta dalla contingenza.
-E
infatti non ho alcun documento che mostri problemi, la fonte
dell’acqua miracolosa è tutt’ora
regolarmente usata senza che gli spiriti ritrovino nella memoria tracce
della loro vita passata, è inconcepibile.- si
ritrovò a illustrare nuovamente lievemente incollerito.
-Deve
essere successo qualcosa proprio perché si trattava di
Vegeta- meditò Baba.
-Altrimenti
non avrebbe fatto gli strani sogni di cui parlava il vecchio-
continuò il pensiero re Yhammer.
Goku
si librò in aria raggiungendo la sommità delle
cataste cartacee più serio del suo solito cancellando ogni
traccia si spensieratezza dalla sua bocca.
-Che
sappiano…?- si azzardò ad ipotizzare con
voce fioca e afona esprimendo la peggiore delle ipotesi e
insieme la sua preoccupazione.
Entrambi
sospirarono afflitti dal problema più che allarmante.
-E
come se no potersi spiegare tutto questo?-
ehi nn sn mica allergica ai commenti*-* ( potete anche
andarci giù pesante nn vergognatevi nn temete di farvi
odiare, siate spietati ma vi prego lasciate un commento cosa posso fare
di più se nn inginocchiarmi davanti al pc e supplicarvi*-*)
|
Ritorna all'indice
Capitolo 8 *** Capitolo 8 ***
La
reincarnazione
Sentì
l’asfalto mancare sotto i suoi piedi e il suo stomaco le
sembrò una fredda e compatta pietra tra le budella.
Guardava l’ultimo piano della costruzione valutando
l’esiguità di quella in cui aveva soggiornato per
un paio di giorni, incapace di quantificare la gratitudine che provava
verso l’individuo che le stava accanto.
Vegeta non era venuto a riaccompagnarla e la sua mancanza non si era
fatta sentire.
Il vecchio aveva insistito sfoderando la convincentissima
argomentazione che sarebbe stato maleducato non riaccompagnare la bimba
che lui stesso aveva trascinato li.
-È lei che si è messa in questo buco- aveva
sbottato ed era uscito dalla finestra per non essere costretto a
sostenere una conversazione che aveva stabilito fastidiosa ed inutile
in partenza.
Sam non si era impuntato oltre, aveva preso la mano di Klareth e
l’aveva accompagnata riservandole il silenzio più
rabbioso che aveva in corpo.
-È questa casa tua no?-
Klareth cominciò un po’ a pentirsi, accanto a
quell’ovvia ostentazione di lusso e di ricchezza, che
l’avesse accompagnata fin là.
Quell’enorme palazzo si evidenziava su tutti i minori con
superba maestosità e dominava sul paesaggio con la sua
stazza, imponendosi sullo sfondo della città.
Sbirciò la sua reazione deglutendo visibilmente, ma lui non
diede cenni di insofferenza o stupore; il viso
grinzoso era appena contratto in un piccolo sorriso di docile
arrendevolezza e rassegnata malinconia.
Klareth si voltò del tutto e si piegò lievemente
in un inchino di rispettosa devozione.
-Grazie di tutto-
Si risollevò vincendo il suo imbarazzo con molta grazia.
-Vuoi entrare?- almeno questo doveva chiederlo, si sarebbe sentita un
verve a lasciarlo li inerme sotto quelle
nuvole che strisciavano nel cielo cariche di tempestosa atmosfera,
mentre lei spariva nella luce della sala.
Sorrise della sua ingenua gentilezza.
-No ti ringrazio-
Ma Klareth non voleva rinunciare alla sua generosità.
-Sei sicuro, fa freddo, mi hai ospitato la notte scorsa e tra poco
piov…-
Non aveva bisogno di sciorinarsi sul perché, la sua
silenziosa seraficità era di per se eloquente ed essenziale.
-…è proprio sicuro?-
Un lieve cenno di assenso chiuse la faccenda.
Si inginocchio davanti a lei sistemandole affettuosamente la giacca e
dandole un buffetto sulla spalla.
-Stai bene- le augurò.
Cosa le fosse preso non avrebbe saputo dire, nei giorni prima aveva
nutrito con la riconoscenza un profondo senso di rispetto per quel
restio signore; gli gettò le braccia al collo con un
po’ di commozione che le fece sgusciare
due lucciconi dagli occhi.
Se li pulì subito con la manica e si staccò
dall’abbraccio.
Corse via improvvisamente spaventata dalla sua audacia.
***
Con afflizione accorciò
le distanze tra lei e l’ultimo piano.
Cominciava a figurarsi mentalmente la scena cruda del suo ritorno;
niente lacrime, niente abbracci, niente affetto materno e paterno.
Provò inconsciamente, seppellito sotto la rassegnazione
abituale nelle vie periferiche della mente, un lacerante vuoto allo
stomaco e al cuore.
Bussò mestamente alla porta soffiando via aria rassegnata.
Sentì il cigolio della serratura che si allentava, il
movimento dei cardini.
Non potè fare a meno di impedirsi di guardare e
chinò la testa dolente.
Non accadde nulla, si figurò il padre con uno sguardo
sorpreso che le chiedeva di entrare e di pulirsi senza troppe
cerimonie, invece improvvisamente ebbe delle difficoltà si
respirazione.
Il sangue smise di affluire regolarmente al cervello e le ci volle un
po’ per assimilare in se il succedersi rapido e impensato
degli eventi.
Si vide due magre braccia che la stringevano con una forza
insospettabile senza accennare ad allentarsi da lei.
Per un momento il busto compresso contro il suo si discostò
e la prima cosa che notò furono un bel paio di occhiaie
ancor più vistose di come se le ricordava, un rossore che
raggiungeva la punta delle orecchie a sventola e spasimi di un pianto
sollevato e gioioso.
Le tenne strette le spalle tra le mani, incredulo, esageratamente
contento, scuotendola come per avere prova che fosse davvero lei
cercando di rianimarla.
-Tesoro!- chiamò il signor Grey, e riprese ad abbracciarla.
Dal corridoio fece capolino una bella donna corpulenta con gli occhi
rossi e un fazzoletto con cui si stava asciugando il mascara sbavato
sul lato dell’occhio.
Appena vide la piccola matassa di capelli azzurri emergere dietro le
spalle strette del marito ricollegò subito il colore al
oggetto agognato da due giorni, e corse spodestando il consorte e
sottoponendo Klareth ad un'abbraccio ancor più energico e
disperato.
-Klareth!- urlò.
Le passò le mani per tutto il viso, per tutto il corpicino,
riconoscendo in lei la figlia e non un frutto dei nervi sotto pressione.
Le tastò la faccia adorante, trafelata, morta di paura in
quegli ultimi giorni, in preda ad un forte impulso di abbracciarla
baciarla, di sentire che c’era sotto la sua pelle, di
avvertirne la morbida consistenza, il profumo, di provare a se stessa
che non era un fantasma.
Continuava a ripetere senza sosta il suo nome come per eludere la
possibilità che fosse un miraggio, come se potesse
concretizzare la sua teoria quel continuo, imperterrito, passionale
–Klareth… Klareth... Klareth-
Talmente era assetata di quell’affetto, che i suoi credevano
desse per scontato, che non si fece più di tante domande e
abbracciò la madre con egual forza, mescolando le sue
lacrime con le sue lasciandosi accarezzare amorevolmente.
-Non farlo mai più Klareth- le urlò tra un
singhiozzo e l’altro senza riuscire a mantener fermo il tono
di comando –Promettimelo, promettimelo che non lo rifarai-
Sulla soglia del laboratorio apparve Paul, agitato da tutto
quell’urlare della moglie dell’ambasciatore, ancora
con una chiave inglese in mano e l’altra con cui si
massaggiava la nuca essendo andato a sbattere sul ripiano soprastante
al pannello che stava riparando per lo spavento era infagottata da un
grosso e veggio guanto.
-Klareth?!-
***
Il tetto del palazzo più alto era il luogo che in assoluto
più lo esaudiva di tutta la metropoli.
Lo liberava delle presenze indiscrete come il vecchio e lasciava che i
pensieri defluissero dalla sua mente, offrendogli sotto gli occhi uno
spettacolo di minuscole lucciole vaganti per le strade della
città, si arrampicavano, quegli esigui albori, sulle
facciate dei palazzi strisciavano rari nei quartieri bassi e copiosi sulle strade e nel loro insieme
erano la bella e cangiante luce della città; una magia
perfetta insorta solo di notte.
E mentre si crogiolava in quella sua pace, mentre fuggiva da tutte
complicazioni in quel rifugio inarrivabile, in quella sensazione dove
niente era importante, in cui la coscienza del mondo svaniva assieme al
orticaria che gli aveva provocato avere quella mocciosetta figlia di
papà in casa sua, percepì in modo del tutto
singolare una vibrazione, un' alterazione
dell’immobilità.
Aprì gli occhi e le iridi scattarono con ricercata
indifferenza verso la presenza che lo osservava con una luce di
interesse quanto mai fastidiosa ed invadente.
-Che cosa vuoi ancora?-
La sconfitta del giorno prima era arrivata al suo orgoglio con il
minimo disturbo, forte del fatto che, se avesse continuato, avrebbe
certamente sconfitto quell’individuo, e non aveva bisogno di
cercare certezze per fondare la sua teoria, gli bastava la sua fierezza
a mantenerla stabile come un castello di carta ben fatto.
Non gliene importava come ora lui fosse riuscito a raggiungere il punto
massimo della città, stava di fatto che si intrometteva
nella sua caduca armonia, e lo infastidiva una presenza tanto irritante
in una situazione che esigeva di non ricordare o pensare.
-Niente-
L’ importuno si
accovacciò accanto la lui raccogliendo le gambe al petto e
stringendole con le braccia, dondolandosi su se stesso come un infante
in attesa.
L’inutilità di quell’uomo lo sconvolgeva
ad ogni incontro, molto più di quella gente che conduceva la
sua insignificante ed inconcludente vita sotto di lui.
-Solo che…- con fermezza avanzò la sua richiesta.
-Combattiamo…ora! Ti va?-
Visto che la sua pace era del tutto compromessa ed iniziava la guerra
il bambino si alzò in piedi.
-Mi va soprattutto di ucciderti- ribbattè bellicoso.
Per Goku aveva del comico questa frase pronunciata da Vegeta sotto
spoglie infantili.
Ridacchiò sotto i baffi che non aveva.
-Idiota che ci trovi da ridere? Eh?Questa tua allegria te la ficco
nel…-
-Andiamo Vegeta, non essere sconveniente- lo interruppe prima che
disegnasse una frase molto colorita.
-La tua presenza è sconveniente, perché diamine
mi importuni?-
-Io non ti importuno, vorrei solo combattere- continuò
accomodante alleggerendo l’atmosfera.
A questo punto i ruoli parevano invertiti; Goku con la sua eterna
fanciullezza fronteggiava Veget impuro e feroce fin dalla nascita.Chi
era il guerriero e chi il bambino?
Entrambi al contempo e in modi discordi.
Vegeta guardò l’importuno con un composito di
beffardo e compatimento.
-Se proprio ci tieni-
Goku si innalzò sopra di lui in tutta la sua altezza e forza
distanziandolo e mettendosi all’altro lato del ring.
-Non ti conviene sottovalutarmi, amico-
-Io non sono tuo amico- ringhiò offeso solo dalla posizione
che occupava nelle grazie di un individuo tanto disprezzabile.
-Come vuoi, moccioso-
-Non sono un moccioso!- gli urlò.
Sapeva che Vegeta aveva tutte le potenzialità per
eguagliarlo e coprirsi del manto d’oro che aveva agognato,
doveva dargli un buono sprono per allenarsi, un fermento che lo avrebbe
trascinato in queste discipline, che lo avrebbe rinvigorito ogni volta
che sofferente sarebbe caduto, in fondo gli avrebbe solo regalato un
scopo in più.
Conoscendone l’attitudine, per darglielo aveva bisogno di una
minaccia: quella della possibilità che lo spodestassero dal
suo immaginario piedistallo fondato sull’orgoglio.
Gli dispiaceva dovergli instillare di nuovo il germe
dell’odio, ma era inevitabile.
-Okey piccolo, chi cade dal ring, perde conoscenza, o si arrende, ma
dubito che succeda, perderà-
Vegeta si preparò al via regio con una fierezza che gli era
congenita serrando i pugni e allargando le gambe.
-Via!-
vivvina: ciau sei un tesoro trovi
sempre il tempo di recensirmi ( a differenza di altri) tvukdb di niente
è più ke meritato ( oltre al fatto ke era x il
tuo compleanno la dedica)
iulo71: la prossima volta x rispondere alle rece che ti lasciano invia
una mail e nn invadere lo spazio rece altrimenti è inutile^^
grazie lo stesso
thebest: si in effetti sn una fan super accanita ^^ grazie x il
complimento p.s a tutti quelli che leggono e ai pigri: vi scongiuro in
ginocchio lasciate una rece misento tanto avvilita...se ha fatto skifo
ditemeeeelo nn lasciatemi nel dubbio ditemi di cancellarla 1, 2 volte,
mandarla a fuoco e poi far passare sulle ceneri un rullo compressore di
2 tonnellate ma ditemelo cn una rece pelase *_*
|
Ritorna all'indice
Capitolo 9 *** Capitolo 9 ***
La
reincarnazione
Vegeta
si buttò di peso verso l’altro lato del ring con
le dita tese ad artiglio verso l’avversario.
Pochi centimetri al contatto: l’adrenalina anestetizzava i
suoi pensieri, quasi non ne faceva più uso in quelle
frazioni di istanti.
Chiuse il pugno con violenza attorno all’aria, atterrando
agilmente sulle due gambe, guardandosi intorno.
Percepì un acuto dolore alla collottola che lo
piegò in due e si ritrovò sbattuto con il mento a
terra e il sangue che gli colava dalle labbra. Sentì un
corpo estraneo in bocca e
sputò un grumo umido di saliva e sangue insieme al suo dente
da latte davanti.
Si alzò e si pulì il sangue che gli colava dal
naso.
Guardò il cielo, teso verso l’alto con ogni fibra
di se, senza poter raggiungere il suo nemico.
-Si lo so- Goku lo guardò ridacchiando sottovalutando la sua
capacità di soffrirne e volteggiando sopra di lui
– è sleale come trucco-
Prima che potesse aggiungere delle scuse vere, Vegeta saltò
paurosamente in alto.
Quando gli fu vicino fu in schivabile, si allacciò alla vita
di Goku con le gambe, attaccandosi come una cozza ed iniziò
a prenderlo a pugni in faccia con tanta energica convinzione che Goku
temette di rimanerne ucciso.
Rimase a subirne per qualche secondo, poi lo afferro con le due meni
libere per il collo e lo colpì in fronte con una testata.
Vegeta si slacciò da lui e cadde nello spazio buio tra un
palazzo e l’altro.
Chi toccava la terra sotto il ring aveva perso.
Si aggrappò all’inferriata di un cancello prima di
toccare l’asfalto.
Ricompose il suo equilibrio e si slanciò verso le case
più alte, arrampicandosi velocemente tra un balcone e
l’altro.
Si vide venire in contro Goku, tagliava l’aria come un
missile.
Venne intontito dall’impatto, sentì
l’infrangersi delle finestre dietro di lui e la pressione
della forza di Goku che lo spingeva.
Sbattè contro il muro inchiodato ed intrappolato, sentendosi
impresso nella parete, nell’incavo che lo schianto aveva
scavato nel muro, che ricalcava perfettamente il suo corpo.
Spinse via Goku con un calcio, verso la parete opposta, guardando
distrattamente l’appartamento
circostante.
Un ambiente sfitto e desertico.
Si spinse con la forza della schiena sanguinante verso Goku,
afferrandolo e sbattendo ripetutamente la sua nuca contro il muro,
ridendo allucinato .
Gli inflisse un ginocchiata nel ventre e mentre mirava un calcio sotto
la cintura Goku lo afferrò per il collo e lo sbatte nella
medesima posizione.
-Però…- commentò Goku mentre Vegeta si
opponeva scalciando sotto di lui.
Gli diede un pugno in faccia stordendolo un po’ per non
doversi sforzare a trattenerlo in quella posizione.
-Sono colpito…- disse sinceramente, con un sorriso tanto
autentico che pugnalò i nervi di Vegeta.
-Sei veloce-
Il bambino urlò alla scarica di pestoni che ricevette nel
petto.
-Ovviamente sei ancora un bambino- Goku accarezzò il
sacchetto dei miracolosi fagioli che portava alla cintola –
non resisti ad attacchi come questi-
Aprì il palmo della mano per contenere una bolla abbagliante
e calda. Vegeta ne percepì l’immensa energia
sintetizzata e chiuse gli occhi, tendendo tutti i muscoli, preparandosi
a riceverla.
E la ricevette. In faccia. Con un esplosione che annientò
metà della parete dove lo premeva Goku.
Si aspettava che anche la carne della sua faccia si disfacesse
lasciando nude le ossa ma questo non avvenne.
Perdeva sangue come se lo sudasse ma il viso era integro abbastanza.
Il liquido rosso e puzzolente ora era vagamente lacrimoso e gli occhi
penosamente pesti, sporgenti per il dolore, delusi.
Goku lo abbandonò a terra gemebondo; si era formata sotto la
sua nuca una pozza ristagnante.
Non apparteneva a lui l’idea di colpire così
pesantemente un promettente ed inesperto guerriero in erba, ma re
Yhammer aveva insistito che venisse pestato a dovere per allettarlo
maggiormente ad allenarsi.
Essere risorto dall’inferno non avrebbe necessariamente
voluto dire smettere di soffrire.
Goku gli aprì le labbra e abbandonò un fagiolo
nella sua bocca.
-Vedrai che ti sentirai me…-
Vegeta lo sputò indietro, in faccia a Goku, con un grumo
sanguinolento e catarroso.
Sarebbe morto esangue se non avesse preso il fagiolo.
Goku si ripulì il volto e si inginocchiò a
recuperare l’oggetto miracoloso, tentando di farglielo
passare nella fessura del dente mancante.
Chiuse la bocca a Vegeta col palmo della mano per impedirgli di
ributtarlo indietro.
-Ingoia, forza!- disse con un filo di panico in gola.
Si mise a scuotere Vegeta che già appariva piuttosto
sfinito, e gli occhi gli roteavano
già all’indietro.
-No! Re Yhammer non ti farà rinascere un'altra volta. No!-
Vegeta già non sentiva e ciò che vedeva era
l’ombra dell’ombra della realtà.
Goku percepì il bambino vomitargli in mano, e mentre la bile
gli scorreva tra le dita e respingeva il fagiolo nella sua bocca, vide
che gli occhi del piccolo erano fissi verso l’alto,
lievemente scoloriti dall’agonia, liquidi, ma pieni di una
vaga e appannata luce vitale.
Sentì che deglutiva con fatica senza staccare gli occhi da
qualcosa dietro di lui.
Si girò, quasi per nulla contento che avesse ingoiato il
fagiolo appena notò i due pieni cerchi bianchi al centro del
cielo.
Si voltò verso Vegeta, spingendo una mano sul suo petto
stretto.
Sentì i botti del cuore velocissimi spingergli il sangue
alle vene tese del collo e della fronte.
Strinse gli occhi mentre le ferite si chiudevano senza lasciare sfregi.
Prese a sussultare e a torcersi ad ogni violenta percussione del cuore.
Poi urlò, dell’urlo più agghiacciante e
acuto tra tutta la gamma degli urli umani e non umani.
Ogni palpito lo ingigantiva, lo imbruttiva, gli sformava la faccia
rendendogli scimmieschi e rudi gli zigomi, i denti si affilavano, il
corpo diventava più massiccio e sputava un incolto pelo nero.
Goku lo afferrò sebbene fosse già raddoppiato in
dimensioni e lo voltò afferrandogli la coda e tirando.
La protuberanza cedette quando ormai Vegeta aveva dimensioni tali da
poter riempire l’appartamento.
La massa
del gigantesco gorilla nero si sintetizzo contenuta
nell’esile figura di un bambino incosciente.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 10 *** Capitolo 10 ***
La
reincarnazione
La coda
nell’estremo spasmo sboccò sangue scuro dalla
radice recisa ed ebbe gli ultimi
fremiti come la coda di una lucertola. Vegeta boccheggiò
inerte, ma sveglio.
Era
impressionante che non fosse svenuto dal dolore: aveva le palle degli
occhi che
gli volevano uscire dalle orbite, livide ed iniettate di rosso per il
sangue
che premeva dietro.
Sembrava molto
più morto che vivo, tremava ed il fiato gli volava via in
nuvolette rade, e gelide
per il freddo.
Goku ebbe
compassione di quella giovane vita, così audace,
così tanto più forte ed
esuberante delle altre, e del Vegeta bimbo, impuro e senza quel candore
infantile che è alla natura del fascino dei bambini: era
nato impuro perché l’acqua
miracolosa del Lete non aveva eliminato fino al fondo le turpitudini
dalla
memoria.
L’acqua
non avrebbe mai potuto cambiar l’anima a Vegeta, ma solo
espiarla da tutta la
sua vita, da tutte le sue colpe, dalla memoria, dal dolore,
dall’amore che aveva
portato con sè.
Seppur ingenuo Goku poteva vantar una rara qualità: la
finezza di fiuto per l'animo umano, la stessa per cui aveva concesso a
molti avversari, per istinto quell'istinto e per la sua
bontà, una seconda occasione per passar dalla parte giusta.
Ed ora si
accorgeva che della precedente vita di Vegeta era restato il peggio: il
rancore cieco, sprofondato in recessi
segreti, ma inobliabile.
Goku
pensò l’avesse sempre conservato, senza saperlo,
contro di lui, ed era più
forte di Vegeta sentirlo per chiunque. Ma riapparso Goku, aveva
ritrovato la
valvola di sfogo originale.
Vegeta
tremava di fragilità, gli occhi gli si chiudevano ed aveva
già un piede sulla
soglia di un sogno, Goku gli toccò la fronte e si accorse
che scottava.
Lo sollevò delicatamente mezzo svenuto, lo
strinse tra le braccia, sperando di scaldarlo col suo calore umano, e
prese il
volo.
Arrivato
nei quartieri di livello più basso, toccato il piano terra
del pianeta con il
piede, ritornò nella casa del vecchio Sam.
Consegnò nelle sue braccia il
bambino e la coda.
-Cosa
significa?- disse tenendo tra due dita, lontano da sè,
l'appendice insanguinata.
-Gliela ho tagliata, per non correre un rischio- fece Goku, vago
–l’ho fatto mentre
dormiva, s’era addormentato sulla cima d’un
palazzo- mentì con poca
disinvoltura, mangiandosi le parole e prendendo grandi respiri.
-Che
rischi va profetizzando? Cosa cercava di dirmi l’altra sera,
lei?- il mal garbo
delle parole faceva contrasto con la delicatezza e
l’amorevolezza con cui
riboccava le coperte al Vegeta bambino e gli sfiorava la fronte con una
carezza
sfuggente.
Goku
l’asciò cadere le domande con uno stupido sorriso
di circostanza.
-Ha la
febbre- concluse –Comunque la coda ricrescerà.
Vedrete; quando ormai avrete smesso di
ricordare che l’aveva, bum!, Vegeta se la
ritroverà tra le gambe. Ma non si
preoccupi: per la coda di un bambino ci vorranno circa un paio di anni-
-Perché
senza coda non si corre un rischio?
Me
lo spieghi-
Goku si
passò una mano dietro la nuca, come per chi vuol tirarsi
fuori d’impaccio
dimostrando di esser genuino e ingenuo, ed anche un po’ fesso.
Poi vedendo
che non funzionava e che il vecchio lo osservava con occhi brutali e
duri, che
pensò somigliassero a quelli del figlioccio, Goku
sospirò ed in tono profetico
bisbigliò controvoglia all’orecchio di Sam
–Senza coda, con la luna piena, non
ci saranno problemi-
-Che legame
c’è tra uno stupido storpio e una maledetta luna
pie…?- ribatté come se avesse
fatto finta di non capire cosa ci fosse tra la coda ed il plenilunio.
-Vegeta
non è storpio, fa parte della sua specie aver la coda-
Sam
impietrì e tutto il sangue gli defluì dalla
faccia… ci fu un silenzio gravoso per entrambi gli uomini e
quell'atmosfera fu indifferente solo al sonno
di Vegeta.
-Sapevo che di Sayan non ce ne fossero
più…così, col
tempo, ho pensato che il ragazzino fosse qualcosa come …un
bastardo di qualche
specie…un figlio illegittimo…-
-No, temo
di no, quella coda è proprio ciò che sembra-
disse e suonò come se volesse
scusarsi per Vegeta. Poi gli rivolse il suo sorriso più
pulito ed ingenuo
–Comunque aveva ragione: di
Sayan non ce ne sono più in vita- e fece tintinnar
l’aureola…
Dodici anni
dopo…
Klareth
osò passare le dita inguantate nella chioma turchina
raschiando il grasso,
si toccò anche la bella fronte diafana nell’atto
di scostarsi la frangetta unta
e sentì che anche sulla radice dei capelli e sulla pelle
c’era una velatura di
sudore, ma mai avrebbe puzzato tanto come l’odore della
benzina che si portava
sui vestiti.
Sospirò e
striscò con la schiena a terra, stesa sotto il motore
dell’astronave, mentre
Paul la attrezzava quando gli chiedeva di passarle un saldatore o una
pinza.
Si
aiutò con le gambe e quando vide la luce tese le braccia
verso l’alto e Paul la
sollevò di peso rimettendola in piedi.
Osservando
lavorare Paul su tutti quegli attrezzi e quelle macchine, la meccanica,
che
aveva già aveva per lei un grande ascendente fin da piccola,
l’aveva coinvolta
e aveva cominciato a far prodigi di intelligenza e maestria con Paul e
ad
intendersene molto più di lui di macchine.
-Ahi, mi
fa male il braccio- si era addormentato con le pinze in mano e si
tastava la
giuntura con la mano più reattiva.
Neanche Paul riuscì ad aver la solita
delicatezza e si tappò il naso con un fazzoletto -Vatti a
fare una doccia, fai
proprio schifo- disse voltandosi per non respirarle vicino.
Sotto la
fuliggine gli occhi di Klareth mandarono lampi azzurri di rancore
-Si è
vero, faccio schifo, ma sarebbe meno avvilente se tu facessi finta di
non sentirlo-
-È
impossibile starti vicino e far finta di nulla- protestò
premendo di più il
fazzoletto sul naso –quasi mi fai lacrimare gli occhi-
-E io che
l’ho fatto per te, per aiutarti!- fece con una smorfietta di
finta delusione
–Sii gentile e passami quello straccio, vuoi?-
Paul lo
gettò da una debita distanza, facendo finta di soffocarsi
con una tosse da
avvelenamento.
-Divertente-
commentò Klareth con sarcasmo acido e si pulì il
viso lasciando qualche macchia
che faceva contrasto con il suo volto pieno e pallido come la luna,
d’un
candore sano e roseo sulle guance –Sei un uomo adulto,
comportati bene-
Decise
di andar a farsi una doccia come pregava Paul senza sopportare oltre le
sue
frecciatine avvelenate, ma si accorse che, di nuovo, la osservava
dietro il
fazzoletto con quello sguardo curioso e fiero di una madre o una
sorella che
sta per dirti che sei cresciuta di qualche centimetro.
-Cosa
c’è?! Non puzzavo?- fece esasperata.
-Niente,
pensavo…sei così diversa dalla piccola Klareth,
potreste non aver nulla a che
fare l’una
con l’altra se non fosse per i capelli, gli occhi, e il
caratterino
irritante- scherzò.
Per lui
era rimasta la bambina che teneva sulle spalle a sei anni.
-Sono
sempre felice di sorprenderti- fece con un sorriso, un mezzo inchino e
si buttò un asciugamano
sulla spalla uscendo platealmente dal laboratorio: si fermò
a controllare che
Paul la stesse guardando per voltargli meglio la testa, lasciare la
porta
aperta e marciare verso il piano di sopra ridacchiando.
Tracciò
una scia di impronte di suole di scarponi unti di grasso in direzione
del bagno
di casa; una volta occhi negli occhi con se stessa nello specchio,
vedendo il suo doppio
trasandato e antigienico, pensò che il suo aspetto fosse un
affronto alla pulizia
personale.
Si
spogliò e si infilò sotto lo scroscio intenso
dell’acqua calda e nel vapore al
profumo di fragola pensando a come Paul fosse infantile e poco
serio.
La loro
era quel tipo di amicizia sincera e poetica tra uomo e donna, che non
può diventare
amore, per lei era come aver un fratello che si ama con tutto il cuore
di amore
solo fraterno e di casi come i loro lei ne conosceva pochi esempi.
Paul in
qualche modo nella scala della sua stima occupava un gradino
più alto dei suoi
genitori; aveva un animo infantile, tenero, ed anche un po’
incline alla tristezza e alla
nostalgia. Simile al suo, ma meno saccente ed irritante.
Si sfregò con molta forza perché con altrettanta
ostinazione lo
sporco si rifiutava di staccarsi dalla pelle e di cadere nello scarico.
Alla
fine, quando le sembrò di esser di nuovo decente, pulita,
con i capelli pesanti
d’acqua e goccioline brillanti afferrò
l’asciugamano dietro
la tenda e se lo avvolse sul corpo.
Vestita e pulita, tornò da Paul.
-Allora
funziona bene? Ci sono problemi?- si sfregò le mani provando
quella moderata soddisfazione per i suoi lavori ben eseguiti.
Vide
nelle lenti di Paul le immagini dello schermo che fissava e dietro di
esse i suoi occhi azzurri, di solito pacifici, ora perplessi.
-C’è
qualcosa che non va?- si avvicinò di più al
computer e vide su uno schermo,
diviso da una rete di linee in tanti quadrati, un puntino lampeggiare
in modo irregolare e avvicinarsi
ad un punto fermo, più grosso e arancione, al centro dello
schermo.
-Cos’è?-
Paul continuò a fissarlo prima di accorgersi della seconda
volta che glielo chiedeva e allora
additò il punto arancione sfiorando con le dita lo schermo.
-Questo è
il nostro pianeta- disse aggrottando la fronte e deglutendo –
invece questo punto che
lampeggia, quello rosso, si, è un corpo meccanico, una
navicella. La vedo sullo
schermo perché emana queste onde che la distinguono dai
corpi celesti, ma
qualcosa le disturba e perciò lampeggia. Non riesco a capire
cosa possa essere…-
|
Ritorna all'indice
Questa storia è archiviata su: EFP /viewstory.php?sid=271901
|