La reincarnazione

di trullitrulli
(/viewuser.php?uid=46671)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


La reincarnazione



Camminava lungo la strada sospesa tra le nuvole insolitamente gialle che spiccavano sul cielo perennemente rosato.
Barbagli di luce blu avanzavano lasciando dietro di se una scia luminosa fosforescente.
Piccole fiammelle che emanavano un aura luminosa e che proferivano, pur senza le labbra, parole, chiacchieravano gli uni con gli altri, agitati, poiché si trovavano in coda li da molto tempo, aspettando che avanzassero gli altri davanti a loro.
A volte provavano a spintonarsi, intimandosi a vicenda di fare in fretta, ma non riuscivano a sfiorarsi: si attraversavano.
Lo schiamazzo generale di tutte le luci che animavano il serpentone conducente al palazzo di re Jammer era composto da voci, lingue e lemmi di diversi pianeti; un vocio nel cui insieme non si distinguevano più nemmeno le parole formulate, per la maggior parte estranee a lei e a tutti i terrestri che forse si erano sparsi per la strada.
Si guardò un po’ in giro, non avendo imparato la percezione delle aure non poteva distinguere nessuno, li tutti erano lucciole dalle calde radiazioni luminose azzurre, albori, spiriti.
Omini dalla pelle blu guidavano il flusso di luci da una postazione più in alto; piedistalli si innalzavano a ogni curva della strada sospesa, alti a sufficienza perché gli occupanti potessero avere una visione abbastanza ampia del traffico.
Con un megafono incollato alle labbra urlavano alle fiammelle azzurre di non agitarsi e di aspettare che le file procedessero da se senza forzature, senza superarsi l’un altro e che il loro turno sarebbe comunque venuto.
Una volta che l’ennesimo fantasma fu collocato dove re Yhammer l’aveva designato venne il suo turno.
La stanza era enorme quanto il suo occupante, che sedeva ad una immensa scrivania di legno dove erano posati mucchi e mucchi di carte, plichi di fogli, registri e quant’altro.
L’ennesimo timbro venne impresso su una carta che successivamente venne messa da parte, andandosi ad aggiungere alla torre che si era creata nel corso dell’ultima ora al lato della scrivania.
Avanzò sul tappeto che si srotolava dall’ingresso fino ad arrivare dinnanzi alla scrivania del colossale giudice che squadrava con severità chiunque entrasse.
Consce che da lui dipendeva la loro sorte le anime si inchinavano con rispetto e un certo timore reverenziale.
Una volta che il re ripose il timbro accanto alla penna stilografica e levò lo sguardo dai documenti incontrando il suo bagliore la scrutò stranito, le sembrò incerta, in presso cinto di dire qualcosa .
Goku gliene aveva parlato, era una degli ultimi superstiti delle battaglie contro i cyborg, colei che aveva costruito una macchina del tempo per viaggiare da una dimensione all’altra e impedire che catastrofici avvenimenti rovinassero anche la vita di altri terrestri.
Colei che aveva allevato un figlio sui terreni coperti di sangue e macerie di case durante una guerra che gli umani non potevano combattere.
Anche la sua ora era giunta, la sua come quella di tutti i suoi compagni che già erano stati al suo cospetto, avevano ammesso di essere pentiti dei loro peccati ed erano stati designati ai regni alti dei cieli.

Tutti tranne uno:… colui a cui lei teneva di più….


Lei era l’unica ad aver instaurato un legame con lui, l’unica, forse, oltre a Goku, ad aver pensato, davvero che Vegeta potesse cambiare, che sentimenti potessero attecchire nel suo cuore.
L’unica che l’aveva indagato abbastanza da leggere nei suoi occhi, oltre alla rabbia, tristezza.
L'unica che avesse avuto l’ardire, la sfrontatezza, e sfacciataggine di sfidarlo.
La sola che lui, forse, aveva amato.


Il vincolo che li univa andava oltre la loro natura, buona o malvagia che fosse, oltre le fazioni per cui combattevano, oltre la perenne guerra tra bene e male.
Le circostanze, forse, avevano portato lui a scegliere di unirsi ai paladini del bene, a cercare nuovi alleati, per poi, sempre forse, tradirli.
L’allettante prospettiva di nuove battaglie sempre più impegnative e il desiderio di superare il suo rivale l’avevano portato a tornare sulla terra dopo un infinito viaggio nello spazio alla ricerca di Goku.
Era li, nella capsule corporation, che Bulma sperava sarebbe rimasto, prima che i cyborg lo strappassero via a lei e a suo figlio, lui, e un gran numero dei suoi amici e di terrestri a lei ignoti.
Non poteva certo pretendere che re Yhammer gli perdonasse colpe tanto gravi solo perché aveva combattuto per un po’ al fianco dei guerrieri z.
La speranza di rivederlo nell’aldilà era morta con lui e tutti gli altri.
Auspicava che con il tempo avrebbe combattuto non solo per il suo orgoglio, perché la sua sete di potere potesse essere soddisfatta, ma anche…per loro, per lei, per suo figlio, come Trunks le aveva raccontato che avesse fatto per lui nell'altra dimensione.
La morte era giunta troppo presto, i cybor gli avevano impedito di riscattare le proprie colpe, di ottenere una seconda chanse, di pentirsi, realmente.
E ora lei era li, sapeva quasi certamente che avrebbe raggiunto i suoi amici dovunque ora loro si trovassero, sapeva che re Jammer le avrebbe reso merito per i contributi dati nelle guerre a difesa della terra e l’avrebbe compensata, ma il vuoto che Vegeta aveva lasciato era incolmabile.

Raccolse tutto il coraggio che aveva per esprimere un ultimo desiderio: voleva, per se stessa e per Vegeta, un'altra vita, per assolvere i peccati della precendente.

Re Yhammer decise che, dopotutto, Vegeta meritava la seconda occasione che Bulma (e anche Goku) volevano gli fosse concessa e che avrebbe avuto sulla terra se fosse rimasto vivo…


Due omini dalla pelle azzurra e dal corno d’avorio sulla sommità del capo che affiorava dalla capigliatura nera fecero il loro ingresso da una porta laterale.
Diedero uno sguardo al tappeto rosso dove le luci stavano in fila attendendo che la processione di una di loro fosse finita per avanzare di qualche centimetro.
Valutarono bene se fosse il momento migliore per interrompere il loro capo sul posto di lavoro.
Lo sbattere del timbro sull’ennesimo registro decretò la fine del processo e l’anima potè essere condotta nel luogo a lei designato.
-Re Yhammer?-
Il pretore fece segno alle luci di non avanzare e di attendere ancora qualche minuto.
-Le abbiamo portato ciò che ci aveva chiesto- disse l’altro allungando le mani unite a coppa sotto il bagliore di uno spirito dalla luce sinistra.
Re Yhammer annuì serio portandosi le dita intrecciate delle due mani sotto il mento.
-Dategli un corpo- ordinò.
L’omino disgiunse le mani da sotto il barbaglio che si andò a posare poco lontano dalla scrivania, fece segno agli spiriti di indietreggiare, in modo che la porta potesse essere temporaneamente chiusa e che potesse aver luogo un colloquio privato.
Attorno all’alone luminoso cominciò a caracollare qualche scintilla, poi, l’unione dello spirito con la carne avenne.
Un corpo con le mani a terra ansante e un po’ mal concio stava prostrato allo stremo delle forze stillando sudore e sangue che insudiciava il tappeto della sala.
Si mostrava nelle sue nudità il principe dei Sayan, spoglio di qualunque forma di indumento e di ricchezza.
Solo una miserabile anima al cospetto del suo giudice.
Appena aveva ripreso il suo corpo le sue energie erano state prosciugate e lui reso inoffensivo e vulnerabile.
-Congratulazioni, Vegeta, sembra che ci sia qualcuno che tenga particolarmente a te- lo schernì re Yhammer.
Il principe irrigidette i muscoli, solo ora si era reso conto di possedere un corpo, ma si sentiva come se gli fosse stata caricata a dosso una montagna e qualunque movimento gli costava uno sforzo che neanche le sue fatiche nella gravity room potevano eguagliare.
Il semplice accenno a voler sollevare il capo gli spezzava il collo.
Re Yhammer continuava a scrutarlo inclemente, non poteva avere riguardi per un anima così deprecabile.
-Purificatelo- ordinò ora rivolto agli omini senza distogliere gli occhi dal condannato.
-Portatelo alla fonte dell’acqua miracolosa-
Il timbro battè sui plichi di fogli che riguardavano Vegeta e la sua decisione fu resa ufficiale.

****

-Re Yhammer?-
Baba seduta sulla sua sfera di cristallo con le mani in grembo osservava il capo rassettare le varie scartoffie e registri; nient’altro che lunghissime, interminabili, liste di nomi.
-Che c’è?-
-è sicuro che sia saggio mandare quell’efferato di nuovo nel mondo dei vivi?-
-Certamente,perché no?-
Baba rivolse un occhiata al soffitto.
-Mi sembra infruttuoso soddisfare le richieste di quella donna- commentò sciettica.
-Tu davvero credi che io l’abbia fatto se non ci fosse stato un motivo più urgente?-
Baba lo guardò perplessa.
-C’è un altro motivo perché quel delinquente è stato rispedito laggiù?-
-Certo che si-
-Poteva mandarci Goku- fece notare.
Re Yhammer sbattè un registro sulla scrivania seccato.
-Pensi che non ci abbia pensato?Ma ti assicuro che lui non può niente contro questa nuova minaccia, se fosse stato così semplice tu avresti potuto farlo resuscitare, ma stavolta non può farcela da solo-
Baba insisteva con il suo scetticismo.
-Ci sono orde di guerrieri nel paradiso poteva inviarci loro-
Re Yhammer si impose un contegno.
-Occorrono sayan- disse riprendendo nello sport estremo che è riordinare – occorrono i più grandi guerrieri della galassia, coloro che sono in grado di superare i loro limiti, Vegeta non sarebbe mai stato disposto ad aiutarci di sua spontanea volontà, per questo è meglio che venga purificato e la sua memoria modificata.-
-Ma allora perché ha spedito in mezzo a pericoli così gravi anche la ragazza?- disse felice di aver trovato una faglia nel suo piano.
Re Yhammer sospirò –dopo tutto quello che ha passato anche lei si merita la sua fetta di felicità-
Assunse un aria grave.
-Crede davvero che Vegeta riuscirà a riscattarsi e a rimediare alle sue malefatte?- chiese con la sua voce gracchiante
Il colosso guardò Baba perplesso si sistemò il colletto del completo a righe, non si illudeva, prese un espressione di amaro realismo e sospirò.
–... la ragazza ci credeva-

Sorvoliamo il fatto che questa sia la mia ennesima fic Bulma-Vegeta ma non ho mai digerito il fatto che Vegeta fosse morto nella dimensione di Mirai Trunks e mi sembrava che Bulma avesse il diritto di avere una seconda possibilità con lui perciò per vostra immensa sfortuna mi è venuta questa idea. ( sulla quale sto ancora lavorando perchè devo definire bene un po' di dettagli ma ci tengo molto a questa fic perciò spero vivamente che vi piaccia*-* se qualcosa nella fic risulta poco chiaro verrà spiegato col procedere dei capitoli).
La fan fic è ispirata alla storia "la speranza è l'ultima a morire" di taisa.
A scanso di equivoci avviso fin da subito che non ho intenzione di cambiare le fattezze fisiche dei personaggi.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


La reincarnazione



Il portellone del velivolo si aprì con insopportabile lentezza producendo un cigolio della struttura e un sordo rumore metallico una volta che fu atterrato sul cemento.
La bimba gettò uno sguardo dietro di se, intravvedendo, dietro le gambe della madre, e delle guardie dietro di lei, distese e distese di prati ombrosi per le nuvole grigie passeggere che oscuravano la giornata.
Riusciva a forare la coltre nuvolosa qualche fascio di luce, percorrendo l’ombra che imperversava, quasi fosse
un riflettore.
Pareva un fenomeno quasi divino; la discesa sul pianeta di una forza astrale benevola, come una luce di redenzione.

Il bellissimo pianeta terra.


Dopo aver passato qualche settimana in quel mondo suo padre aveva capito che non ci sarebbero potuti essere rapporti con quei terrestri che ignoravano addirittura l’esistenza di altri corpi celesti sulle mappe stellari.
A quanto sembrava, per loro, gli alieni erano leggenda.
Un patto di amicizia non sarebbe stato una buona idea, non sarebbe stato saggio sconvolgere il loro equilibrio emotivo.
Accerchiati dalle scolte salirono sulla loro navicella, atterrata su una vecchia autostrada in rovina che gli abitanti dell’astro non utilizzavano più da decenni.
La madre la sospinse leggermente con la mano invitandola silenziosamente a procedere più svelta e una volta superata la soglia che li avrebbe riportati nel loro mondo evoluto, e gli avrebbe permesso di abbandonare quel mucchio di sassi abitato da creature dall’arretrata tecnologia, il portellone si chiuse con ugual lentezza e producendo lo stesso rumore metallico di poco prima.
-Ecco Klareth, vedrai, tra pochissimo saremo di nuovo a casa- disse la corpulenta donna.
La piccola alzò lo sguardo incrociando gli occhi dalla insolita tonalità viola della madre e assumendo un espressione molto seccata.
-Mammaaaa- disse con tono lamentosa e cantileno –non chiamarmi così…- continuò.
-E come ti dovrei chiamare scusa?-
-Non con un nome così brutto- disse la figlia imbronciandosi e gonfiando le guance stringendo ancora di più il suo coniglietto di pezza.
La madre sorrise divertita e benevola e le arruffò i capelli azzurri.
-Sciocchina, Klareth è un bellissimo nome- cinguettò zuccherosa
La figlia si risentì ancora di più.
-No è brutto- disse pestando un piede sul pavimento in metallo della navicella con fermezza.
La madre continuando a sorridere si avviò verso la sua camera coniugale lasciando la piccola sola e immusonita che si esibì in un verso a metà tra uno sbuffo seccato e un grugnito acuto simile al rumore dei cardini arrugginiti.
Sentì il sibilare del motore che sotto il loro piedi stava partendo, il distendersi delle ali che uscivano dalle loro coperture e il partire dei razzi.
L’aggeggio levitò per qualche secondo, finche non trovò la stabilità, poi il carrello venne ritirato e la potenza dei propulsori aumentata.
La navicella sfrecciò fuori dall’atmosfera.
La piccola corse all’oblò per osservare la terra, che da là su sembrava una palla azzurra tranquilla sospesa in uno sfondo di stelle più piccole.
Lentamente le forme dei continenti non furono più distinguibili sulla facciata del globo e poi, la terra, ai suoi occhi divenne una tra i tanti puntini luminescenti dell’universo che riusciva a vedere dal vetro.
Sospirò e appoggiò le punte dei gomiti sul piccolo davanzale sorreggendosi la testa con le mani.
Osservò annoiata la sua immagine riflessa nel vetro dell’oblò; capelli azzurri, legati in due piccoli codini arruffati, viso paffuto, guance rosee, occhi celesti, di origine ignota, poiché i suoi genitori non possedevano connotati simili, e un paio di spropositate orecchie a punta.
Sbuffò e sul vetro andò a formarsi un’evanescente macchia di condensa che evaporò in pochi secondi.
Saltò giù dalla poltroncina su cui si era arrampicata per raggiungere la finestra affacciata l’universo e trotterellò verso l’ufficio del padre.
Saltellò per i corridoi fino a quando non raggiunse lo studio, al suo passaggio un enorme porta di metallo si spostò e le fece intravvedere una stanza tinteggiata di bianco dalle pareti popolate di facce incorniciate a lei ignote e, al centro, un’ampia scrivania sulla quale c’era una targhetta che recitava “ signor Gray” e dietro di essa un uomo intento a parlare al telefono.
Le fece cenno di venire avanti con la mano senza però staccare la cornetta dalle gigantesche e puntute orecchie a sventola.
Girò sulla sedia munita di ruote ridendo sguaiatamente a una battuta che forse non aveva capito a pieno, salutò promettendo di richiamare e riagganciò il telefono accanto a una consolle e un fino monitor che prima mostrava la faccia paffuta e rugosa di un suo collega.
La bimba sfoderò il suo sorriso più largo e gli saltò addosso.
-Come stai principessa?-
La piccola non smise di sorridere.
-Benissimo papy, torniamo a casa vero?-
-Certo amore manca meno di un ora-
-Posso restare con te?- fece speranzosa.
Il padre tentennò lanciando occhiate preoccupate al telefono.
-Beh…-
-Allora?- chiese la piccola impaziente con le mani sui fianchi.
-Non puoi Klareth, sto aspettando una telefonata-
Il padre era un uomo gracile e indifeso dagli occhietti piccoli e neri infossati e cerchiati da occhiaie violacee.
Aveva le mani lunghe e magre, quando Klareth si era ritrovata a strattonorgli il braccio per ricevere attenzione e gli afferrava la mano le era sembrato di afferrare un mucchietto di ossicini ricoperti solo da uno strato di pelle e dubitava della presenza di carne sotto di essa, pur non essendo tanto vecchio, dimostrava molti più anni di quanti non ne avesse in realtà.
Era continuamente soggetto ai capricci e agli isterismi della moglie essendo per natura un uomo irresoluto e dominabile.
Agli occhi della bambina, come la madre avesse potuto scegliere un marito così, rimaneva un mistero.
La delusione della piccola fece investire il padre da orribili sensi di colpa.
-Tesoro se te ne vai prometto che appena tornati ti farò un bel regalo, vuoi?-
La bimba alzò lo sguardo.
-Davvero lo faresti?- intrecciò le mani come in preghiera.
-Certamente- disse distrattamente senza smettere di occhieggiare il telefono e i monitor sopra alla sua scrivania.
-Va bene papy- disse stampandogli un bacio umido sulla guancia – ti voglio bene- sapeva che quella frase condita con gli occhioni mielosi era ciò che più appagava un genitore.
Saltellando se ne andò come era venuta e la porta di metallo scorrevole si richiuse dentro di lei con un pesante tonfo.
Una volta fuori rimase immobile con l’orribile sensazione che il padre avesse preferito un telefono a lei.
Strinse di più il suo coniglietto.
-Papino ci vuole bene- gli sussurrò in un orecchio rattoppato – non ti preoccupare, ha detto che ci comprerà
dei giochi- continuò con un sorriso materno carezzandogli amorevolmente la testa ricucita più e più volte, infatti aveva rischiato di andare in pezzi svariate volte visto che era stato vittima di molteplici incidenti e ricucito con fili di vari colori.
Da tempo la madre cercava di liberarsi di quel “lercio pezzo di pezza” con cui Klareth aveva condiviso l’infanzia, ma ogni tentativo di impossessarsene falliva perché la piccola se lo portava sempre appresso in qualunque ora del giorno.
Canticchiando il suo pensiero venne rivolto proprio a lei.
Di andare a trovarla non se ne parlava nemmeno, la madre non era una persona adatta con cui discorrere nemmeno per gli standard di una bimba di cinque anni.
Perciò una volta superata la stanza della madre non ci furono titubanze e continuò a percorrere i corridoi fino ad arrivare alla sua stanza preferita.
Quella dove c’era Paul.
Come tutte le porte anche quella si aprì al suo passaggio dietro di questa c’era una ambiente illuminato solo da un paio di lampade al neon sul soffitto che irradiavano con un labile chiarore i tavoli da laboratorio gremiti di computer e apparecchi strani che la affascinavano.
Chino sui monitor c’era Paul: un giovane scienziato che i suoi genitori si portavano dietro nei loro viaggi come tutto fare, anche se il suo compito ufficiale era di accertare che le condizioni dei pianeti su cui atterravano
fossero adatte per il loro fisico o che si dovesse provvedere a vestire delle tute spaziali o semplicemente munirsi di un respiratore.
La figura che Klareth aveva sempre associato al nome di Paul era un ragazzo dai capelli rossi e una spruzzata di lentiggini sul naso, un sorriso sempre un po’ esitante e occhi a mandorla azzurri.
Ingobbito sui computer, con quell’illuminazione scarsa non riusciva a distinguerne che la nuca riccioluta.
Paul, a lungo andare, era diventato anche il suo compagno di giochi, anche se non rientrava tra le sue attribuzioni.
Silenziosamente e con la mano sulla bocca per soffocare una risatina si avvicinò in punta di piedi sperando che Paul fosse talmente assorbito dal suo lavoro da non sentirla.
Aveva visto giusto, non la sentì, e gli saltò addosso urlando –Buuuuuuuuuu-
Paul sobbalzò e si portò una mano sul petto a sinistra per simulare grande spavento.
-Ti ho spaventato?- chiese sorridente e gaia.
-Tantissimo- recitò con veemenza Paul.
Klareth saltò giù regalandogli una altro dei suoi sorrisi speciali.
-Dove siamo adesso?- chiese sinceramente interessata.
Paul la guidò all’oblò, la piccola adorava quando gli spiegava le cose,poiché le raccontava sempre con enfasi come se si trattasse di una favola, tutto, anche le leggi della fisica, con tale entusiasmo da contagiare anche lei.
Si scambiavano sguardi complici, inventavano giochi che conoscevano solo loro, si divertivano a guardare le stelle insieme e a formulare impensate teorie su pianeti su cui germogliavano caramelle e cioccolata.
Klareth amava moltissimo Paul, incondizionatamente, a volte lo chiamava papà, ma imbarazzata si correggeva subitissimo mettendosi una mano sulla bocca e ridendo insieme a lui del suo sbaglio.
Lo osservò accendere un ricevitore e ordinare di rallentare la velocità giusto per qualche minuto rischiando un rimprovero della signora Gray che non vedeva l’ora che quel viaggio finisse.
Afferrò la piccola per le anche e se la mise sulle spalle.
-Guarda nell’oblò la in alto- disse indicandone uno a cui neppure lui riusciva ad arrivare.
Si avvicinarono e Klareth ammirò un gruppo di meteore e di pulviscolo spaziale, con sua grande sorpresa su una meteora più grande campeggiava un mucchio di alberelli bruciati ed erba secca.
Guardò Paul con espressione interrogativa, per merito della connessione singolare che li univa Paul capì.
-Era un pianeta- spiegò.
Klareth rimase ancora con le mani incollate al finestrino.
-Come è esploso?-
Paul fece spallucce –Non ne ho idea- mentì.
Klareth di nuovo guardò oltre il vetro.
-Era grande?-
-Tantissimo, si chiamava Namecc-
-...-
-Era bellissimo, aveva l’erba blu come il cielo e il cielo verde come l’erba, un luogo dove abitavano creature verdi che si chiamavano namecciani, non si nutrivano di nulla fuorché dell’acqua e…-
-Anche dei raggi del sole come le piante in giardino?- chiese la piccola.
Paul scoppiò a ridere.
-Non lo so- si asciugò una lacrima –ma so che sono riusciti a fuggire prima che esplodesse-
-Come è esploso?- ripetè la bimba sporgendosi un po’ per incontrare l’azzurro dei suoi occhi.
Il nome di quell’astro di cui fino a quel momento aveva ignorato l’esistenza fomentava in lei sensazioni di inspiegabile inquietudine, trepidazione che non le apparteneva di certo, eppure la faceva sua.
Rivisse vaghi e labili ricordi di battaglie, che lei stessa identificò come sue fantasie, e sensi di puro terrore che le fecero strisciare uno sgradevole brivido sulla schiena fino al collo… non era pienamente certa di voler conoscere la risposta.
Seguì un attimo di silenzio in cui il giovane scienziato rimase perplesso.
-Non posso sapere tutto- dissimulò di nuovo, non troppo brillantemente, lui.
La fece tornare con i piedi sul pavimento in metallo, e nello stesso istante un trillo proveniente dalle casse dei computer lo avvisò che la madre della piccola lo richiamava come fattorino tutto fare.
-Un giorno me lo racconterai?-
Paul non potè trattenere un sussulto, sapeva che la sua piccola amica era intelligente ma non fino a questo punto, forse lo conosceva davvero troppo bene.
Si abbassò alla sua altezza e le accarezzò una guancia.
-Non me lo vuoi dire perché sono troppo piccola vero?- chiese provando a indovinare il movente della bugia, incupendosi e abbassando lo sguardo.-Non intristirti piccola- le disse sollevandole il mento con l’indice e guardandola in quegli occhi dal colore tanto simile al suo che non aveva ereditato ne da suo padre ne dalla madre.
-Sono cose brutte, tanta gente ha sofferto, e io voglio che tu viva felice tesoro, l’universo non è bello come pensi tu, ci sono tante persone cattive, queste cose te le racconterò quando sarai più grande- le stampò un bacio in fronte.
-Sorridi, dai, sei tanto carina quando sorridi-
La piccola stirò le labbra in un sorriso forzato per contentarlo.
-Brava piccina-
A volte Paul le parlava come molte volte lei aveva sperato che suo padre e sua madre avrebbero fatto, ma la sua vita con loro consisteva nel tentare di dare il via a una conversazione decente che finiva poi con la promessa di alcuni giocattoli speciali in cambio della sua uscita dalla stanza.
Si aggirava sempre per le stanze della casa come un spettro nullafacente stringendo il suo peluche per trovare un po’ di consolazione e sussurrare a lui e a se stessa parole dolci e rassicuranti.
Ma un sorriso di Paul valeva più di tutti gli sbrigativi “ti voglio bene” dei suoi genitori e le promesse di grandi regali sfarzosi che avrebbero dovuto sostituirsi a loro.
Accompagnò la piccola verso la porta.
-Paul?- disse approfittando del momento propizio.
-Si tesoro?- era normale per lui chiamarla tesoro.
Klareth sorrise con uno di quei suoi studiati sorrisi melliflui.
-Visto che ho cinque anni…- continuò –posso venire con te quando vai a prende i pezzi di ricambio per le nostre navicelle?- si era preparata quella richiesta da molte settimane e conoscendo il debole che aveva per lei, sperava che Paul acconsentisse.
-No- fece lui senza smettere di sorridere – sei troppo piccola- disse liquidando allegramente la richiesta della piccola.
Sapeva che aveva una certa propensione per il mestiere, la vedeva scrutare i suoi gesti mentre si adoperava con i suoi armamentari per riparare motori e altri marchingegni con espressione quasi venerante, una vocazione inesplicabile per una bambina che colleziona peluche rosa e fruga nell’armadio di sua madre in cerca di vestiti da mettersi addosso senza riuscire a colmarli.
Il tutto naturalmente si svolgeva con il suo tacito favore, quando la sorprendeva in un azione che i genitori avrebbero certamente poco apprezzato fingeva di non vedere e se poteva si univa al gioco.
La lasciò sulla soglia immusonita.
-Non fare così, tesoro, con me non attacca, sei una piccola peste viziata- la prese in giro bonariamente e le carezzò la testa senza che lei smettesse la sua allenatissima smorfia seccata.
-Uffa- urlò pestando di nuovo il piede.
-Klareth!- la rimproverò lui più fermo.
La bambina incrociò le braccia al petto senza smettere di guardarlo con finto odio.
-Sei cattivo-
Paul rise e chiuse la porta, ormai l’allarme aveva smesso di squillare.


Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


La reincarnazione



“Come si può essere così spietati” lo penso mentre giro per le strade buie sormontate da i possenti giganti di metallo che sono i grattacieli, sedi del potere e dell’alta società di questa terra che mi ha declassato qua giù in mezzo alla polvere e al pattume di quei figli di papà.
Lo penso quando vedo un robot appartenente a quella spocchiosa gente guidare una air -car senza tettuccio, aprire la portiera e scaricare un fagotto che si agita sull’asfalto.
Mi accorgo che dal fagotto provengono dei guaiti.
Se ne va lasciandolo nella polvere così come ci hanno lasciato me, forse per ragioni diverse, ma ce l’hanno comunque lasciato.
Possano essere condannati per averlo fatto.
In un primo momento mi sembra che dal telo in cui è stato avvolto qualcosa provenga un lamento, ma è così labile che finisco per pensare che forse è solo il frutto della mia immaginazione, della stanchezza per il troppo lavoro, l’età che comincia a farmi rimbecillire.
No, il verso è insistente,forse ho ragione, sono vecchio, ma non fino a questo punto.
Mi sporgo per vedere cosa si agita e si dimena nel fagotto e la mia teoria non viene smentita.
Guardo i fanali posteriori della macchina che ancora si allontana spargendo polvere e acqua melmosa ai margini della strada.
La mia bocca si contrae in una smorfia di disprezzo.
Sputerei in faccia a chiunque abbia impartito a quel robot un ordine tanto meschino.
Prendo in braccio il telo con quello che contiene che continua ad agitarsi e a vagire stringendo nei suoi piccoli pugni le coperte in cui è stato avvolto, completamente nudo, con questo freddo.
Mi sfugge un imprecazione.
Cerco di esaminarlo, ci deve essere un motivo se l’hanno lasciato qui; forse qualche difetto fisico qualche connotato storpiato.
In un primo momento mi sembra che il bambino non possegga difetti del genere,non mi sembra ne brutto ne malato,
vista la forza con cui continua a dimenarsi, ma qualche secondo dopo sento il suono di uno squarcio, di fili di tessuto che si strappano.
Guardo sotto di lui e mi accorgo che dallo squarcio formatosi sotto il panno affiora una coda pelosa che si agita e mi frusta le gambe con lena.
Sussulto e lo allontano per un momento dal mio petto, non smette di agitarsi, e non sembra neppure che lo faccia perché ha paura di me, sembra quasi alterato e accalorato.
Certo su questo pianeta ci sono un infinità di razze diverse ma non credevo che…non pensavo…
“Ma dove diavolo è stato concepito questo moccioso, i Sayan non esistono più”sospiro
“Beh…” penso mentre lo riavvicino a me e mi stringe il dito con il pugno cominciando a strattonarlo energicamente.
“Non posso lasciarlo qui”.
Non voglio essere neanche lontanamente paragonabile a quei tracotanti ricconi che conducono serenamente la loro vita lassù in quel affollarsi di macchine e albori provenienti dalle case di palazzi su diverse stratificazioni della città, senza pensare alla sfascio dove hanno lasciato il marmocchio.
Mi spiace per questo moccioso, la vita l’ha destinato qua giù, con me, a soffrire.
-Cosa mai avrai fatto nella tua vita passata per meritarti questo…Vegeta-
Lo chiamerò così…in onore della sua somiglianza con i Sayan.

Lo avvolgo meglio nelle sue coperte bianche…sorrido.


Il grigiume del cielo era una serie di riquadri ingabbiati dagli svettanti grattacieli.
Il gelido vento spazzava la polvere del quartiere in via di disfacimento dove abitava.
Dall’alto del palo della luce dove era seduto a cavalcioni, con le gambe penzolanti, osservava lo squallore del suo regno.
Albergava, nel vicolo, una quiete innaturale, come la tacita attesa di un presagio.
Solo il passaggio occasionale di qualche air-car lo squarciava ricordandogli che il tempo continuava a scorrere.
Cinto dai titani in acciaio c’era un ambiente lordo e mal messo.
L’altra faccia di una capitale come quella, il lato più buio, anche di giorno, abitato da ratti, residenti dei bidoni del pattume cittadino, e da loro; la gente povera residenti di case che potevano essere scambiate per mucchi di pattume.
Ciò che la società potente evitava con cura di mostrare ai passeggeri delle molteplici navicelle cariche di gente ricca e importante che regolarmente sbarcavano sull’astro.
Con agilità felina scese dal suo piedistallo atterrando sull’umido cemento chiazzato da pozze di acqua stagnante, che, in pendenza, scorreva raccogliendosi nelle condutture portanti alle fogne che le inghiottivano insieme al lerciume.
Con le gambe leggermente arcuate, per ammortizzare l’atterraggio, ne annusò il puzzo.
Non una fibra del suo corpo venne smossa, del resto si era abituato alla sgradevole essenza che spirava casa sua.
Con l’insolito cipiglio serio e idrofobo che aveva adottato, forse fin dalla nascita, per svelare il suo dispetto per il mondo, e affettando una sdegnosa indifferenza anche ai ratti, si incamminò infilando le mani nelle tasche dei suoi slavati e sfilacciati jeans, bucati sul posteriore dalla sua coda.
All’alba dei suoi sette anni poteva dire di conoscere il posto come le sue tasche sgualcite.
Le sue gambe lo facevano macchinalmente svoltare nelle direzioni per raggiungere i vicoli desiderati senza che lui dovesse quasi pensare.
Merito del suo fino senso dell’orientamento, che il vecchio riteneva “una vera fortuna” per un bambino della sua età, che viveva in un intricato labirinto di baracche cadenti costruite ai piedi di svettanti palazzi.
Diede inavvertitamente un calcio a una lattina di soda li vicino, che andò a sbattere contro le scrostate pareti di una casupola producendo un metallico suono di vuoto.
Come il suo stomaco.
Da tempo il suo apparato digestivo aveva cominciato laboriosamente a contrarsi richiedendo l’esagerata quantità di cibo che occorreva lui.
Il vecchio non riusciva a capacitarsi di quanto potesse mangiare quel marmocchio, e nemmeno poteva
soddisfare i suoi bisogni alimentari.
Una volta appurato ciò un basso gorgoglio risuonò nel vicolo, segno che il suo metabolismo di bambino richiedeva…no…esigeva un pasto decente.
Tanto bastò al piccolo per decidere di ignorare i principi etici che il vecchio si ostinava a impartirgli per prestare ascolto al suo istinto, che gli imponeva di placare i crampi della fame.
L’unico modo efficace che lui conoscesse era saziarsi.
Ma il solo modo per trovare un pasto dignitoso in grado si soddisfare i suoi bisogni era risalire le stratificazioni residenziali ricche, i cui abitanti, a detta del vecchio, lo avevano condannato a quella vita per la semplice colpa di possedere una protuberanza pelosa sul posteriore.
Vide una grossa navicellavirare per raggiungere il porto spaziale cittadino.
Fece un salto disumano e raggiunse la cima di una baracca, una altro ancora, alzandosi ulteriormente di livello per poi raggiungere un balcone ornato di fiori.
Non era che all’inizio del tragitto, forse avrebbe dovuto anche scroccare un passaggio su un mezzo volante, ma sarebbe arrivato ai piani alti.
Proprio dove ora la navetta atterravava...
Capitò a proposito un grosso pulman volante.
Uno scatto delle iridi nerissime, il tempo per calcolare la distanza tra vettura e il balcone e la forza da utilizzare nel balzo, e fu sul dorso in acciaio del mezzo.
Fece scattare il mento dai lineamenti infantili, ma che già preannunciavano la durezza che avrebbero acquisito in futuro, verso la stazione.
Era sempre stato il suo punto di riferimento, tutte le strade eminenti e trafficate portavano li, e da li si arrivava ovunque.
Si sedette a gambe incrociate, ignornado il vento che gli soffiava in faccia, socchiudendo gli occhi, sempre con aria sdegnosa e irriverente.
Trafugare un pasto era l’unico mezzo che aveva per sfamarsi, era del tutto incurante di quello che il vecchiaccio gli avrebbe detto, sordo alle sue paternali, continuava a farlo perché nessuno, nessuno, poteva comandare o vincolare Vegeta.


Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


La reincarnazione







Il sibilo del carrello che si abbassava a toccare il suolo era il segno che l’atterraggio era imminente.
Saltò sulla poltrona accanto all’oblò per sporsi un po’ più in alto e fissare i suoi occhi sul mondo esterno.
Il traffico di luci e fanali di air-car le ferì gli occhi che si erano abituati all’oscurità della stanza, con i tubi di luce al neon disattivi e lo spazio che effondeva con le sue stelle solo una fioca luminescenza.
Saltò giù dal divanetto e corse a riaccendere la luce, afferrando con una mano il suo compagno di sventure di pezza sgualcita e ricucita e andando ad avvertire Paul.
Poco importava se lo sapeva già.
Almeno lui era l’unico ad accertarsi della sua presenza a bordo della navicella, i suoi genitori avrebbero potuto tranquillamente continuare a vivere anche sapendola precipitata nello spazio da uno sportello.
Almeno così sembrava.


***

Era stata felice di poter essere liberata da quel grosso sigaro di metallo che la costringeva vicina ai suoi parenti, così felice che era corsa oltre la soglia a tutta velocità, certa che le sentinelle avrebbero pensato ai suoi bagagli contenenti giochi e vestiario, e dimentica della distrazione dei suoi genitori.
Una volta terminato lo slalom tra i passanti, accompagnata dal coniglietto, si era girata per dare ai suoi genitori il tempo per individuarla e raggiungerla, ma una volta voltata non vide altro se non profili di estranei che camminavano sveltiti seguendo le indicazioni della femminile voce diramata dall’altoparlante, che dispensava indicazioni su come raggiungere le postazioni di imbarco.
Girò la testa in tutte le direzioni, atterrita, desiderosa di trovare un punto di riferimento che le permettesse di ripercorrere la strada che l’aveva portata là.
Timorosa di essersi persa cominciò a correre intorno, studiando le vetrine e le insegne per riconoscere quelle a cui aveva concesso una fugace occhiata mentre correva.
Smarrita e atterrita si girò su se stessa temendo di aver completamente perso la via del ritorno.
Conscia della scarsa attenzione che i genitori le dedicavano, concluse che prima dell’ora di colazione del giorno dopo non avrebbero notato la sua mancanza.
Mosse alcuni passi atterrita e incerta sul da farsi.
In qualunque direzione svoltasse il capo incontrava solo un nugolo di gente; una mescolanza di razze diverse che avevano fatto dell’aeroporto spaziale il loro punto di incontro e scambi commerciali.
Ci era proprio in mezzo.
Sola nell’animazione dell’affluenza circostante, stringeva per farsi forza il suo compagno di malesorti.
Gli occhi azzurri non nascondevano una certa inquietudine e guizzavano di qua e di la in cerca di visi famigliari.
Venne sballottata nel trambusto generale fino ad andare a sbattere contro un muro.
Dopo l’impatto cadde a terra serrando ancor di più la presa delle manine sul pupazzo per non perdere anche lui.
Era stata bruscamente sospinta dalla calca fino all’uscita principale, una volta che smise di tremare e schiuse un occhio constatando di essere tutta intera occhieggiò la strada affollata di air-car.
Si alzò e corse verso l’uscita.
Appena fuori una folata di vento sembrò burlarsi di lei agitandole i capelli e l’orlo della gonna.
La sua faccia scatto a destra e a sinistra della strada cominciò a correre segnalando la sua presenza ai guidatori agitando il braccio destro, sperando che fosse la macchina giusta.
Inciampò e sull’asfalto, si sbucciò il ginocchio.
Si rialzò con le giunture della gambe imbrattate, mentre il lerciume si andava a mescolare con il sangue sul ginocchio destro, ne avvertiva il bruciore, si rialzò per cercare una fermata del bus.
Smise di riconoscere in ogni macchina, vagamente lussuosa, la sua e cominciò a camminare mestamente studiando un sentiero praticabile che le permettesse di evitare urti con i pedoni e di essere sballottata fuori strada il meno possibile.
L’orlo del vestitino rosa che indossava si era inevitabilmente macchiato spargendo il luridume anche sulle sue gambe.
Il vento continuava a spingerla da dove era venuta, troppo forte per una della sua statura.
Sembrava che stesse, in tutti modi, apertamente cercando di ostacolarla.
Le giornate ventose su Zelion erano terribili.
“Terribili, una tortura per i capelli” diceva la madre.
Già.
La donna che non la stava cercando ora.
Bella madre che era, pensò sbuffando e lasciandosi cadere a peso morto sulla panchina accanto al luogo dove il mezzo pubblico imbarcava i passeggeri.
Certo se lei non avesse corso, smaniosa come era di scendere, nulla sarebbe successo: i movimenti del suo arto non sarebbero stati impediti da un bruciore che a mala pena sopportava, il suo fedele pupazzo non si sarebbe sporcato di acqua ristagnante, e le sue gambe e le sue vesti sarebbero state linde e pulite come sempre.
Ma soprattutto non si sarebbe sentita come ora, e se i suoi avessero ignorato volutamente la sua assenza?Se ora non la stessero cercando perché non volevano farlo?Se lei fosse solo un peso? Qualcosa che si poteva serenamente ignorare per poi rivendicare su di essa dei diritti senza pensare al suo giovane cuore, come i gioielli della madre molti in disuso rimasti ad ammuffire dentro un porta gioie?
Cosa ne sarebbe stato di lei?
Si morse il labbro per ricacciare le lacrime da dove erano venute.
Inavvertitamente allentò la presa sul suo morbido piccolo amico che le venne bruscamente strappato dal grembo dal vento finendo oltre il bordo del marciapiede.
Ansiosa di recuperarlo e spaventata all’idea di perdere il suo ricordo più caro dell’infanzia scattò nella sua direzione ignorando i fanali che inevitabilmente le si avvicinavano.
Allungò il braccio per riconquistarne il possesso ma un clacson la fece sobbalzare, fece scattare la testa nella direzione dove l’acuto richiamo le era arrivato, notando la faccia di un grosso ari-bus color zucca e del conducente allarmato che premeva bruscamente il freno.
Tutto avvenne in un attimo.
Strizzò gli occhi e tese i muscoli inconsciamente, forse, convinta che irrigidendosi avrebbe potuto lenire, almeno in parte, un dolore inevitabile.
Strinse in quelli che credeva i suoi ultimi istanti in quella strada il suo peluche, inspirò velocemente aria e strinse ancor di più i denti.
A raggiungerla non fu la facciata del bus ma schizzi d’acqua trasportati dalla brezza.
I fari di erano fermati davanti a lei costringendola a socchiudere gli occhi e ad adagiare il lato della mano sulla fronte.
-Bambina ma sei matta???- urlò il conducente in preda ad una isteria incontrollabile.
Aveva la faccia rossa per lo spavento, guardava il bus, i passeggeri e la strada con scatti nervosi del capo, gesticolando delirante e sudato con i battiti accelerati del cuore che gli pompavano martellante il sangue nelle palpitanti vene della fronte.
-Per poco non ti investivo- continuò a sbraitare con la testa e il collo completamente fuori dal finestrino del mezzo volante.
Bulma percepì con la coda dell’occhio un movimento sospetto sul dorso del mezzò, movimento di un corpo che sembrava umano e che si spostò in strada.
Tolse al conducente la sua attenzione per spostarla sull’ombra che veloce schivava i passanti e poi…sparì.
Il conducente, notando che la bambina mostrava una genuina curiosità per un punto indefinito del marasma sul bordo della strada si stizzì ancor di più.
-Dovresti fare attenzione, mocciosa, e guardare dove vai invece di pensare alle tue bambole- disse alludendo al peluche sudicio di melma acquosa.
-Meno male che ho frenato altrimenti ti spedivo dritta al creatore, mocciosetta distratta, bada che la prossima volta la fortuna non ti assisterà, bada, e badaci bene piccola…- mentre le offese dell’uomo piovevano su di lei senza che egli avesse la soddisfazione i vederla realmente dispiaciuta si allontanò seguendo imprudentemente un ombra che forse non esisteva che nella sua immaginazione.
Fu sollevata al pensiero che non avrebbe dovuto passare un secondo in più nei pressi della fermata del bus.
Tutti la osservavano chiedendosi come una bambina tanto piccola, e per di più, tanto graziosa e diversa da tutti gli abitanti dell’astro, a cui poteva essere accomunata solo per le orecchie a punta, essere lasciata sola in strada ad aspettare un mezzo pubblico di cui certamente non poteva pagare il biglietto.
Aveva sentito su di se i loro sguardi, benchè, quando si voltasse non li trovasse a guardarla, ma, in fondo, sapeva.
Aveva intuito nelle loro espressioni pensierose, nei loro schiocchi di lingua, nel loro scuotere tristemente il capo che era stato emesso un giudizio molto negativo nei confronti dei suoi genitori.
Come dar torto a quella gente, come?
Attraversò la strada per raggiungerne l’altro capo.
Svincolò passando tra le auto del traffico fermo e arrivò al marciapiede opposto, correndo ai bordi del passaggio pedonale per evitare la massa aliena che circolava veloce.
Si sporse un po’ dalla strada sospesa notando sotto di lei un intricato groviglio di altre strade su diversi livelli di altezza che portavano a marciapiedi e vie a diverse quote percorse da luci e, sul fondo, un buio quasi totale rischiarato appena da un chiarore quasi inesistente; composto per lo più da qualche lucerna.
Lì, nascoste dalle baracche e dal buio che imperversava quasi in tutti le ore del giorno, si trovavano i pilastri portanti di tutto quel che era la capitale.
La gente che viveva laggiù era povera, privata, dalla smisurata altezza delle case signorili, persino della luce e del calore che arrivava sino a loro solo quando il sole riusciva ad affacciarsi oltre i grattacieli a mezzogiorno.
Staccò lo sguardo da lì per ripercorrere i passi del piccolo spettro che aveva distinto nell’oscurità.
Prese un corridoio impraticato coperto da un tetto di vetro sostenuto da aste metalliche,riusciva a vedere l’ombra lunga della minuta figura allontanarsi.
Rientrò nel vivo della città, nella confusione quotidiana, per poi imboccare un altro vicolo chiuso ai lati da palazzi spenti.
Si guardò indietro, chiedendosi, se fosse prudente abbandonare le vie abitate e illuminate dai grattacieli splendenti di mille luci, controllate dalle autorità, dove facilmente poteva nascondersi tra la confusione, dove i suoi passi si sarebbero confusi con quelli di milioni di altre persone di milioni di altre razze, e dove poteva trovare aiuto.
Ingoiò la paura e incedette con piccoli e lenti passi mirati per non attirare l’attenzione di loschi individui possibilmente appostati li.
Carezzò il suo peluche sussurrandogli di rimanere calmo e chiedendogli di essere coraggioso.
Il silenzio era intollerabile, magari il coniglietto avesse potuto rassicurare lei e non l’inverso.
Deglutì.
Si udì un rumore di vetri spaccati, lontano.
Si aggirò incerta con il vento che le soffiava addosso ogni tipo di pattume, le vetrine dei negozi buie, il silenzio rotto a intervalli dal soffio ben udibile delle raffiche d' aria, il gelo che le procurava un brivido alle braccia, una lacrima di smarrimento appena trattenuta che si affacciava negli occhi velandone l’azzurro. Dopo aver vagato sconsolata e smarrita le sue orecchie riuscirono a percepire altro oltre al rumore di una lattina di soda che il vento trascinava sull’asfalto.
Era uno scartare furioso e violento, un accartocciarsi di materiali per l’imballaggio.
Un frugare continuo e, man mano che si avvicinava, anche un trangugiare incessante.
Svoltò in una stradina ancora più piccola e le arrivò in testa una scatola del cartone dei cereali.
Ai suoi piedi altri tipi di residui alimentari rendevano impraticabile il vicolo.
Accucciato contro il muro si ingozzava di tutti i generi di cibo, senza ordine, un bambino, che, per quel che Klareth era riuscita a vedere nella sua breve vita, era il più vorace di tutto il pianeta, peggio di uno stormo di cavallette locali.
Lo vide mandare giù un'altra confezione di cereali, tracannare una bottiglia di latte, che andò in frantumi lanciata a pochi metri da lei, seguitando a mangiare una vaschetta di tonno sott’olio.
Fu colta alla sprovvista da un ondata di nausea che le risalì in gola.
Se prima avvertiva un leggero languore, ora la sola idea di mandare giù un biscotto la ripugnava immensamente.
Schivò la lattina del tonno, che andò a seguire la bottiglia sull’asfalto e si avvicinò cautamente, facendo ben attenzione a non incespicare nelle confezioni di merendine e non scivolare su rimanenze di liquidi.
Quando potè assistere a distanza ravvicinata all’ingozzarsi frenetico del bambino, mancò poco che la lieve nausea non si trasformò in conati di vomito irrefrenabili: una magra figura davvero davanti a un bambino pressappoco della sua età.
Non cessò di ingurgitare, sebbene avesse percepito i passi incerti e lievi associabili solo ad un infante.
Klareth lanciò una sguardo furtivo alla faccia del commensale affamato oltre misura e poi ai rifiuti da lui seminati.
Storse la bocca contrariata.
-Ehi tu-
Alzò la faccia, ma non per questo smise di ficcarsi in bocca quantità spropositate di cibo.
A Klareth parve che si fosse cacciato tra le fauci un intera confezione di biscotti al cioccolato, poteva essere un nuovo primato universale per quel che ne sapeva.
Altro che stormi di cavallette, quel moccioso avrebbe potuto infilarsi in bocca pure loro insieme alle notevoli quantità di vivere che aveva già consumato.
-Ti sembra il modo di mangiare? Mi sta venendo il voltastomaco-
Il bambino piantò gli occhi nel cibo e non la degnò di una risposta.
Non le concesse uno sguardo di più, già Klareth stava avvertendo i sintomi di un imminente rigetto del pranzo.
-Ehi, sto parlando con te!-
Lo stesso sdegnoso silenzio le arrivò in risposta.
Si imbronciò e incrociò le braccia mostrandosi superiore e impermalita.
-Stai sporcando tutto, questo è un danno pubblico- disse con aria saputa.
Le parve di scorgere l’ombra di un ghigno, ma con una simile quantità di cibo in bocca non era possibile che le labbra assumessero una foggia ben definita.
-Senti chi parla- disse degnandola di un occhiata distratta riferendosi alla sporcizia che portava con se sul vestito e sul pupazzo.
Alla nausea si sostituì l'indignazione.
-Io non mi sognerei mai di mangiare come una scimmia- ribattè con le mani sui fianchi.
Nessuna risposta.
Gli concesse altro tempo per elaborare un insulto da replicare, ma semplicemente atteggiando indifferenza riusciva ad offenderla.
Non riusciva però altrettanto efficacemente a levarsela dai piedi e a consumare il suo pasto in santa pace.
La mocciosa sospirò in segno di massima sopportazione, forse ce l’aveva fatta; l’aveva zittita.
Inavvertitamente però, la bimba si accucciò al suo fianco con la schiena contro la parete a osservarlo mangiare più attentamente, non dando più segni di disgusto, o, riuscendo a dissimularli molto brillantemente.
Sentiva i suoi occhi su di lui.
Che aveva di tanto interessante?
Klareth sbattè un paio di volte le folte ciglia prima di sentire un grugnito seccato uscire dalla bocca del bambino.
Klareth non rispose alla pseudo replica, continuava ad osservarlo.
Con la coda dell’occhio gli parve che stesse studiando un punto indefinito dei suoi arti inferiori, più precisamente il suo didietro.
La vide allungare la mano con movenze caute verso qualcosa vicino a lui, poche frazioni di secondi dopo si accorse che stava oculatamente riducendo le distanze che separavano la sua mano DA lui.
Si scostò indignato, livido di rabbia.
-Non toccarmi!- sbraitò con la bocca libera dal cibo.
Lo guardò, non perché fosse stupita dal fatto che avesse parlato esentandosi dall’emettere solo sporadici grugniti o risposte volutamente offensive con un tono di voce basso e sprezzante o che avesse smesso di ingozzarsi e nutrirsi, ma perché, con lui, si era mossa anche ciò che calamitava la sua attenzione.
La coda.
La sua faccia sorpresa cambiò di poco assumendo un espressione simile al disgusto ma mitigato.
-Hai…hai…un..a..co…d..a?-pronunciò senza articolare bene le parole.
La faccia di Vegeta invece non era cambiata; era rimasta torva e seccata.
La risposta era scontata, forse per questo Vegeta decise di non buttar via la voce per urlarle di si e rispose con un ringhio sommesso e irritato.
Lo stupore di Klareth si attenuò e la mano si andò ad allungare verso il pelo della coda, gesto finalizzato a tastarla per appurarne la consistenza.
La coda scattò in direzione opposta, Vegeta la stava sdegnosamente fissando.
Visto che aveva appreso ciò che lei credeva fosse un segreto inconfessabile e si sentiva già alleata con lui grazie a questo, si presentò.
-Io mi chiamo Klareth- la mano ora venne allungata per stringere la sua, come aveva visto fare molte volte a suo padre con i suoi ospiti, di cui ignorava i nomi.
Vegeta si alzò mostrando dispetto oltremodo e allontanandosi dignitosamente senza curarsi dei rifiuti.
La piccola gonfiò le guance indispettita e gli si parò davanti.
-Ehi, stavo solo cercando di essere educata, di solito quando due persone si conoscono si ha la decenza di salutare, cerca di essere un po’ più solidale-
Le arrivò solo una smorfia sprezzante e infastidita.
Vegeta le girò attorno come ad una delle cartacce e si allontanò.
Klareth rimase li con i pugni chiusi pensando che quel bambino fosse, oltre che eccessivamente vorace, la persona più maleducata che avesse mai incontrato in vita sua.
Un vocio confuso e risate sguaiate arrivarono alle orecchi della piccola.
-Ehi aspettami! – urlò – non lasciarmi in questo postaccio, io ho paura!-
Quando sorpassò l’angolo e rivolse lo sguardo verso destra vide la schiena e la nuca coperta di capelli dal taglio a fiamma di Vegeta.
Era immobile a fissare con i pugni chiusi davanti a se.
Tra i grattacieli si potevano distinguere due lune, una quasi piena e l’altra crescente, dal profilo rosato.
Bulma si avvicinò ancora un po’ per capire cosa attraesse tanto l’attenzione del bimbo fino a che, oltre le sue spalle, potè vedere quattro tipi davvero poco raccomandabili che incedevano incespicando ogni due passi con delle birre in mano.
Notò che nella tasca dei pantaloni, uno di loro, aveva furbescamente infilato una pistola senza la sicura.
Due di loro erano ben piazzati, dotati di una faccia dalle guance cascanti e di una pelle vermiglia mentre gli altri erano decisamente sovrappeso, abitanti originari del pianeta.
I due alieni brandivano bastoni che dovevano essere rimanenze di pali mentre gli altri continuavano a scolarsi birre inondandosi le magliette del liquido schiumoso.
L’ultima cosa che si aspettasse da loro era che riconoscessero il suo ospite.
-Ehi moccioso- rise uno zoticamente senza innescare nel piccolo la benché minima reazione.
-Ti ricordi di noi Vegeta?-
Ricordava…ricordava, ma non per questo aveva paura.

Ehm...dopo tre capitoli che mi sn immensamente sforzata di nn fare troppo lunghi ecco che ricomincio a postare pagine che sembrano poemi, perdonatemi, è più forte di me ( risata insulsa e imbarazzata tipo Goku ^^')

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Capitolo 5 ***


La reincarnazione

Un'anno prima...

Cos’era quel silenzio?
Sotto la maschera da un foro rettangolare si intravvedevano i suoi occhi acuti e castani, protetti grazie al vetro dalle scintille ardenti che guizzavano di qua e di la andando ad estinguersi sul suo bancone, per terra, a volte persino sul tessuto della sua maglietta bianca macchiata di lubrificante per motori.
Che cos’era quel silenzio?
Non era del tutto assente il rumore, anzi, i suoi attrezzi da lavoro producevano stridi acuti e fastidiosi.
Non era il silenzio della mancanza di rumori ma della mancanza di parole.
Gettò l’ennesima occhiata al piccolo.
Era rimasto nella stessa identica posizione di due ore fa, con la schiena compressa al muro con il piglio
troppo serio e grave per un bambino della sua età.
Sembrava sempre così assorto nei suoi pensieri, sempre perpetuamente riservato, lo vedeva sempre li, spesso seduto con le braccia incrociate intento in un attenta analisi di pensieri, che dalla sua espressione parevano cupi, e rabbiosi.
Lo vedeva nei cortili quando passava a dargli un occhiata, ostinandosi a credere che non potesse cavarsela da solo e che, come tutti i bambini, prima o poi, avrebbe fatto una stupidata a cui sarebbe stato difficoltoso porre rimedio, ma lui era sempre li, nella solita postura, col solito atteggiamento distaccato, di colui che si rifiuta di avere contatti con il mondo per un evidente insofferenza e disgusto verso i suoi abitanti.
Faceva parte dello sfondo dei giochi di ragazzini.
Aveva una gamba raccolta vicino al petto su cui posava il braccio arcuato, mentre l’altra era distesa e impediva il passaggio all’imboccatura del corridoio dove si era appostato per non essere troppo disturbato dallo sfrigolio degli strumenti da lavoro del “padre”.
La coda era abbandonata a terra e non dava segno di volersi muovere come invece aveva fatto per interminabili minuti, sferzando l’aria e battendo sul pavimento con impazienza e nervosismo.
Avrebbe voluto qualche parola da lui, invece del solito sdegnoso silenzio.
Mai neanche col capo si era voltato verso la sua postazione mostrando interesse per qualche suo gesto, non aveva sputato neanche un ingiurioso e sarcastico insulto.
Quel bambino possedeva un arroganza mai riscontrata in un moccioso.
-Credo che dovresti darti una regolata- insinuò lui riferendosi al suo atteggiamento esageratamente irriverente e ingrato.
La coda riprese a battere al suolo.
-Tu credi?- 
-Si, io, credo- replicò lui diffamato, rispondendogli con lo stesso veleno nel tono pronunciando “io”.
Si scostò il casco dalla faccia asciugandosi con il dorso della mano il sudore trattenuto dalla protezione.
Vegeta sapeva che in considerazione della sua troppo giovane età non poteva spingersi oltre un certo limite con le parole in presenza di un adulto.
Si girò verso il colloquiante; i capelli ingrigiti avevano aderito alla fronte spaziosa e segnata da rughe profonde.
Le braccia forti, non ostante l’età non più verde, potevano ancora lavorare, e in fondo, era lui che gli aveva dato una casa.
-Tu credi troppo vecchio-
Si sfilò i guanti da lavoro sudici di ungente per motori, scostò gli attrezzi per far posto e li sbattè con veemenza sul bancone.
-Mai una volta che mi chiamassi papà…- ringhiò quasi tra se e se dando un calcio alla cassetta degli attrezzi sotto il suo sedile per scendere senza rischiare di inciampare.
La custodia proseguì il tragitto fino al muro andando a sbattere a pochi centimetri da Vegeta, che rimase del tutto indifferente allo schianto del contenitore contro il muro.
Una chiave inglese cadde dalla cassetta rossa.
-E perché dovrei?...- insinuò –Non sei mio padre- lo disse quasi con un sottile e studiato godimento, nonostante avesse poco più di sei anni non sembrava nient’affatto titubante davanti agli adulti.
-Modera i toni signorino-
Lo chiamava sempre così…Vegeta aveva cominciato a pensare che si trattasse di un nominativo denigratorio conferitogli dal fatto che, se non fosse nato con quell’affare appena sopra le natiche, avrebbe occupato una posizione sociale ben più elevata rispetto a quella attuale.
Era un continuo e perpetuo rinfacciamento della sua sfortuna, che non gli sfiorava minimamente l’orgoglio… mai.
Inutile rimpiangere ciò che non aveva mai avuto, e che certo non desiderava ardentemente avere.
Si vedeva a prima vista che la sua natura restia e misantropa non ne avrebbero, in futuro, fatto un uomo che potesse vivere in un ambiente del genere, dove la gente era incline a sperticarsi in discorsi futili, pettegolezzi; sarebbe stata una vita che non gli poteva calzare per nulla.
Quella situazione si confaceva molto di più alla sua indole riottosa e indocile; queste caratteristiche non avrebbero prestato ne a lui ne alla sua famiglia una buona reputazione nella società.
Vegeta inoltre non era il tipo da intrattenere rapporti, non aveva alcuna predisposizione a dilungarsi in conversazioni, si rifiutava di avere qualunque contatto verbale con i suoi coetanei, evitando con cura di essere immischiato in sciocchi giochi, e una certa tendenza, poco diplomatica davvero, a… venire alle mani.
Glielo si leggeva in faccia, ogni volte che schiudeva un occhio per assodare se la situazione nel cortile vicino fosse cambiata o no, si vedeva che fremeva dalla voglia di fare a botte.
Inoltre, all’età di sei anni, aveva sviluppato un indifferenza tale da renderlo capace di sostenere anche la vista di un cadavere nel bel mezzo della strada.
Immagine che aveva, per davvero, impresso nella mente chiara e nitida come un fotogramma, ma che non sembrava aver generato in lui alcun disgusto o averlo sconvolto in particolar modo, come se fosse la norma per lui.
Con un dito iniziò a far girare la chiave inglese su se stessa.
Una musica ad un volume smodato scandita da sordi botti prodotti dalla consolle di un dj riempì il quartiere all'improvviso.
Uno sparo…
Vegeta conosceva l’espressione allarmata ed esagitata del vecchio; lo vedeva sbarrare gli occhi sul punto dove stava guardando.
Stavolta li aveva fissati sul saldatore appoggiato sul tavolo accanto a uno straccio lercio.
Lo vedeva seguire ciò che accadeva con l’udito con un attenzione tale che avrebbe potuto ricreare nella sua mente tutte le scene.
Si ripetevano sempre uguali come da copione.
Il rumore dell’acqua gettata ai bordi della strada dalle ruote.
Lo sbattere di una portiera.
I passi sull’asfalto limaccioso.
Le urla sguaiate.
Le risate.
E allora sembrava rianimarsi, risvegliarsi da uno stato di vigilanza attenta e psicotica.
Ogni volta che quell’espressione compariva sulla sua faccia lui era il momento di uscire.
In quel particolare frangente Vegeta obbediva sempre al vecchi; i guai non lo spaventavano, anzi, lui era l’unico bambino che non avesse avuto paure con cui non potesse convivere e che non si fosse sentito bisognoso di elargire le proprie preoccupazioni.
Come tutti i mocciosi si risvegliava da brutti sogni: ansimava per un po’, strizzava le coperte dentro ai suoi pugni rischiando di strapparle, con la coda rigida e la bocca secca, ma non aveva mai voluto spiegare in cosa consistessero le sue visioni notturne, ne aveva voluto indagare sullo strano sapore di metallo e terra che degustava in bocca al risveglio.
Quando cominciavano a percepirsi i suoni elettronici della musica, sul momento, strategicamente il vecchio faceva in modo di aver bisogno di qualcosa, rompeva apposta la bottiglia del latte e ordinava a Vegeta di andare a rimediarne un'altra, fingeva di aver perso un saldatore e gli chiedeva di procurarsene uno in qualunque modo lo trovasse lecito.
A volte acconsentiva anche a fargli compiere crimini pur di farsi procurare qualcosa di cui aveva provvidenzialmente fatto in modo di aver bisogno o che non gli serviva affatto.
Vegeta aveva intuito che lo faceva a beneficio suo, ma non poteva capirlo del tutto, in fondo, era un bambino.
Ma questa volta il vecchio non aveva il tempo ne di inventare scuse, ne di cacciarlo fuori di casa a forza.
-Vegeta!- ordinò in tono secco indicando il retro del tavolo da lavoro.
-Vieni qui!-
Si alzò con una lentezza che il vecchio non tollerava.
-Vieni qui cazzo!-
Una volta che fu abbastanza vicino, rudemente, lo sospinse giù dietro il bancone pressando con le sue mani forti sul capo costringendolo a stare in basso e schiacciandogli il più possibile la capigliatura dalla anomala forma ritta a fiamma.
Entrarono dei tipi con cui era sconsigliabile avere a che fare, indossavano giacche di pelle sintetica borchiate, le catene penzolavano da quasi ogni pezzo del loro vestiario, erano armati di mazze e di bastoni di ferro e varcarono la soglia con la disinvoltura e la scioltezza dei padroni di casa.
Come se andassero a far visita a un vecchio amico si avvicinarono al meccanico e gli batterono una forte pacca sulla spalla, che sopportò bene.
-Ehi vecchio- tutti lo chiamavano così –Come te la passi- esclamò uno piuttosto in carne mentre altri prendevano a giocare con gli arnesi in maniera impropria e disdicevole.
-Ragazzi…- li accolse cupo con lo sguardo chino, di chi ingoia gli insulti a forza, di chi si sottomette perché non c’è altra soluzione che quella.
I tipici strozzini, ricattatori.
Ogni mese arrivavano con minacce diverse eluse in cambio dei pochi soldi che aveva e l’omertà.
Questa consuetudine si svolgeva molto prima che Vegeta entrasse a far parte della sua ordinaria e povera vita, anche loro si erano resi conto delle tracce lasciate da un secondo inquilino: un letto sistemato in una stanza in disuso dalle lenzuola calde, piccolo tanto che solo un bambino avrebbe potuto comodamente starci, qualche gioco, o meglio, qualche rimanenza di gioco che il vecchio si era premurato di procurarsi quando Vegeta era ancora piccolo, qualche vestito calzabile solo da un moccioso in armadi che, prima, erano abitati da ragni.
Avevano, in giro, sentito parlare del piccolo bambino asociale e astioso, dotato di coda che abitava casa sua.
Intuendo il suo attaccamento al bambino da quanto mantenesse loro segreta, come poteva, la presenza avevano cominciato a far leva anche su questo.
Minacciavano il bambino di sequestro, di tortura e di qualunque altra cosa avesse potuto spaventare sufficientemente il vecchio, costringendolo a tirar fuori la grana per cui si erano disturbati di venirlo a trovare.
-Come sta il piccolo mezzo scimmia, eh vecchio Sam?-
Si girò verso colui che aveva paragonato il suo piccolo a una scimmia che stava appoggiato al bancone della cucina annessa al salotto.
-ehm…bene- rispose cauto attento a non farsi scappare nemmeno una goccia del veleno che avrebbe voluto.
-E dove si trova adesso?- continuò un altro testando la durezza del bastone sul palmo della sua mano.
-N-non è in casa- si poteva percepire tangibilmente la falsità delle sue parole; dal balbettio e dall’indecisione che si avvertiva nella risposta, ma i ricattatori non sembravano essere dotati di molta perspicacia, o forse finsero di non aver sentito la bugia.
-Certo, e tu vuoi che continui a stare bene vero?-
Vegeta tese le orecchie e irrigidettè i muscoli sentendosi chiamato in causa, ma non diede segni di inquietudine o preoccupazione, rimanse in atteggiamento guardingo, ma per nulla allarmato.
Solo un leggero inarcamento del sopracciglio destro trapelava il suo interesse per la vicenda.
Per il momento gli uomini si erano mantenuti ad una distanza lecita dal bancone dietro al quale era nascosto.
Uno di loro diede un calcio ad una sedia del tavolo da pranzo e il vecchio indietreggiò come per mantenere una distanza di sicurezza.
-Allora?- chiese aspettando ciò che Sam sapeva lui volesse.
-Mi dispiace, ma non ne ho- mentì e disse la verità ad un tempo.
In realtà ne aveva, ma i gruppi di profittatori erano molti, e il denaro era stato promesso ad un'altra frotta che aveva minacciato di incendiagli casa.
-Sicuro?- rovesciò un'altra sedia con un altro calcio, ed un altro sparse al suolo il contenuto della cassetta degli attrezzi.
Uno di loro focalizzò la sua attenzione su un pennacchio nero che affiorava da dietro il tavolo da lavoro.
-Che roba c’è dietro il bancone?- chiese
Il vecchio sbiancò, divenendo pallido come un cencio e lo stomaco gli parve fare un salto.
-Niente- la fretta stessa con cui aveva risposto lo tradiva.
Con un sorrisetto sbilenco, che esibiva un dente guasto, uno di loro si avvicinò cautamente al bancone straziando con la sua lentezza il vecchio Sam per quanto gli era possibile.
Una volta che fu ad una distanza tale da poter aggirare il tavolo inciampò e andò a sbattere con il mento sul pavimento, cosicché il dente guasto saltò fuori dalla bocca.
I compagni identificarono la causa della rovinosa caduta del compagno notando una striscia pelosa che sbucava dal retro del bancone tesa in modo da giocare un tiro mancino al malcapitato.
-Chi c’è là!- urlò agitando il bastone davanti a se.
- Figlio di puttana esci fuori subit…-
Vegeta si era già alzato e lo fissava con stizza mista a disgusto per la sua persona.
Si erano informati riguardo alla glacialità del suo sguardo, del singolare timore che effondeva nella gente quando passava semplicemente scoccando un occhiataccia che sembrava condannarli a morte in merito alla loro inutilità.
-Che cazzo ci fate in casa mia?-
Lo chiese con un tono autorevole per cui non ebbe bisogno di sforzarsi.
Sebbene la sua figura fosse minuta e puerile avrebbero giurato che gli occhi tradissero che si fosse macchiato di delitti impensati anche per teppisti come loro.
Il caduto si rialzò tastandosi la mascella dolorante pienamente intenzionato a punirlo per il tranello.
-Brutto lattante!- cominciò massaggiandosi la guancia – ti insegno io a…AHIA- mise la mano grossa come un badile sulla minuta spalla del piccolo ricevendo una scarica elettrica che gli bruciò il guanto ed i polpastrelli.
Costretto a mollare la presa a denti stretti si fissò il palmo della mano intravvedibile dagli squarci del tessuto.
Poi osservò il bambino che non si era voltato.
Con i muscoli rigidi e lo sguardo altrettanto inflessibile scrutò ad uno ad uno i componenti di quel patetico quartetto di delinquenti minori.
Storse un angolo della bocca con disappunto.
Nessuno di loro poteva negare che Vegeta sembrava molto più grande di come non fosse negli atteggiamenti, non si spiegavano come potesse ostentare tanta sicurezza a soli sei anni.
I suoi occhi cupi passarono ancora da uno all’altro stavolta con una tonalità appena accennata di inquisizione.
-Che ci fate ancora qui? Andatevene!- era un ordine.
Quello che sembrava il capo si riebbe dallo smarrimento che effondevano le sue iridi cupe deciso a sfoggiare tutta la sua autorità.
-Chi ti credi di essere mocciosetto, qui siamo noi a comandare, noi abbiamo le armi - e sfiorò il calcio della pistola laser che portava in vita in bella vista –siamo noi a decidere quando andarcene-
Vegeta si vide gravare a dosso la minaccia di tre tubi di metallo luccicanti e di tre dita sui grilletti che avrebbero innescato le armi.
Sogghignò schiudendo appena la bocca mettendo in mostra i denti da latte.
Le pistole detonarono.
Gli strozzini si affrettarono a lasciare gli oggetti non appena li videro sprizzare stille elettriche e i cocci metallici caddero al suolo.
-Ve ne andate, deficienti?, volete proprio creparci in questa cazzo di cantina?-
Da dove gli nascevano quelle parole, si chiese il Sam, quello non era un bambino, o almeno non uno normale, solo un piccolo demone poteva minacciare di morte.
Lo sguardo venne catturato dalla sua coda sferzante; segno che si stava eccitando, e non l’aveva mai visto così, mai.
Per un attimo diede credito alla teoria che inizialmente gli era nata nella testa quando lo aveva raccolto e amorevolmente curato da piccolo, l’ipotesi che il suo piccolo fosse un Sayan, l’ultimo.
Non lo aveva mai visto esercitare facoltà inumane, non lo aveva mai visto allenarsi ma a quanto pare lo aveva fatto perché gli sembrò di leggere le sue intenzioni dai suoi occhi, che lasciavano intravvedere una luce di sadico divertimento.
Si sentì qualcosa di freddo affondargli nella bocca che aveva spalancato per lo stupore.
Tastò con la lingua la durezza del metallo e inevitabilmente si andò a infilare nel buco del tubo della pistola ficcatagli tra le labbra.
-Sta immobile, o il vecchiaccio fa una brutta fine-
Vegeta non si scompose.
Sam vide scorrergli nella memoria tutto ciò che Vegeta era e aveva fatto; un bambino scontroso e scostante, indisposto verso qualunque gentilezza, che non ringraziava mai, che amava stare alzato di notte a contemplare una luna piena non riuscendo a scorgerla del tutto tra i palazzi, un bambino che amava provocare zuffe che però finivano troppo presto.
E ora era anche un ingrato moccioso che poteva lasciar morire il suo vecchio senza problemi, rimorsi o rimpianti…strizzò gli occhi preparandosi a sopportare il dolore della morte privandosi dell’immagine di Vegeta che ora stava proferendo le parole che lo urtarono di più.
-E allora fallo-
In quel momento l’anima di Vegeta si presentò ai suoi occhi in tutta la sua cattiveria, non era solo un invito per quel teppista a farlo fuori, era anche un ribadimento del fatto che non avesse bisogno di lui, gli stava sbattendo in faccia in punto di morte che anche senza di lui, avrebbe potuto andare avanti, che sebbene lui l’avesse amato come un figlio, lui non sarebbe mai stato legato a lui, e a quella casa.
Sentì la canna dell’arma spingersi sempre più in fondo alla gola; il teppista stava provando a spaventare il piccolo, ma lui conosceva troppo bene Vegeta per non riuscire ad immaginare la sua espressione.
Percepì qualche esplosione, per un attimo credettè che fossero state provocate dalla pistola in bocca, credettè di essere morto, ma allora perchè non aveva sentito dolore?
Non avrebbe mai creduto che il trapasso potesse essere così indolore.
Sentì un gemito che venne subito soffocato, seguito da urli, il tubo della pistola gli scivolò dalle labbra brillando di saliva e cadde a terra insieme a colui che la impugnava.
Riaprì gli occhi e vide la figura bassa di Vegeta che teneva il suo assalitore per il collo e lo scuoteva energicamente mentre gli altri, non c’erano più.
Deglutì tentando di ingoiare quel groppo che gli ostruiva la gola che non andava ne su ne giù.
Vegeta lasciò il collo del delinquente, ringraziando il cielo era ancora vivo.
Quel lattante irriconoscente lo degnò di un occhiata, forse era curioso di vedere la sua reazione, di vedere lo sconcerto,
l’indignazione per ciò che aveva detto, e quello che vide sembrò soddisfarlo.
-Porta via questo pezzente-
Si allontanò avvertendo nelle membra un piacere di immane sadismo.
Godendo della sua superiorità, godendo nel recare, non tanto dolore, ma paura.
Il vecchio sbuffò, non abbastanza sconvolto per dimenticarsi che Vegeta gli aveva impartito un ordine secco, doveva darsi una regolata il signorino.
Una volta che tornò dopo aver scaricato il corpo incosciente del malvivente a qualche isolato di distanza vide Vegeta accucciato sul davanzale in atteggiamento meditativo: con gli occhi chiusi, il capo reclino sul petto e le braccia incrociate.
Quando entrò, una volta che si fu tolto le scarpe e le ebbe accantonate in un angolo gli sembrò di avvertire una fioca luminescenza azzurrognola proiettata sul muro, proveniente dalla finestra.
Si voltò, ma Vegeta era sempre li nella medesima posa senza aver risentito minimamente della variazione luminosa.
Presuppose che se lo fosse immaginato, era stata una giornata strana, ma il bagliore gli venne gettato nuovamente in faccia costringendolo a socchiudere le palpebre.
Avvertì una vibrazione, più o meno intensa sotto i suoi piedi, e il tintinnio dei bicchieri nella credenza accanto.
Il creparsi di un vetro di una finestra.
Cariche elettriche si propagavano dal corpicino del piccolo che intanto non si era smosso.
Era dunque questo il suo modo di allenarsi?
Il vaso sul tavolo da pranzo cominciò a levitare e vibrando arrivò fin quasi al soffitto.
Un confortevole tepore venne effuso in tutta la casa.
Il vaso cadde.
Vegeta riaprì gli occhi allo schianto che produsse contro il tavolo e si voltò ostile e inquisitorio verso il vecchio che
pareva boccheggiare.
Chi aveva allevato per quasi sette anni?

Rimirò i cocci e la polvere della ceramica mordicchiandosi il labbro nervoso.

Scusate tanto per il capitolo "flashback" poco sintetico e forse anche superfluo ma credevo di dover precisare qualcosa del rapporto con Vegeta e il "vecchio" ( lo sentirete chiamare così quasi sempre vi avviso) cmq grazie tantissimo a chi ha messo la storia tra i preferiti

-Angeloazzurro
-miettajessica
-Vegtina

Grazie smak

e naturalemente chi ha sacrificato un briciolo del suo tempo x lasciare un commentino grazie, avvisatemi se il capitolo è troppo lungo o pesante da leggere perchè a me rileggendolo è sembrato proprio che fosse così, spero lo apprezziate molto più di me^^ciaociao span>

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Capitolo 6 ***


La reincarnazione

Si asciugò il sudore che gli scivolava sulle tempie con il consueto gesto di portarsi il dorso della mano alla fronte.
La sua faccia era madida, oltre che di sudore, si sozzume e lubrificante olezzo che impregnava le piaghe della pelle che con gli anni gli avevano invaso la faccia.
Riprese ad armeggiare, soffiando per il disprezzo e il nervoso, tentando invano di scacciare
Vegeta dai suoi pensieri.
Sempre lui era l’oggetto delle sue preoccupazioni.
Un angolo della bocca si piegò all’insù sotto i folti baffi che da qualche tempo lasciava attecchire in un sorriso tutt’altro che di gioia.
La natura di quel riso infelice e amaro venne tradita da una grinza di fastidio sulla fronte e dalla foga e forza che impiegava nei movimenti.
Si lasciò sfuggire un altro cenno di irritazione, e insieme a questo si lasciò sfuggire l’arnese.
Nitida l’immagine di Vegeta che se ne andava ritornava ad essere materia dei suoi pensieri, il
bambino arrabbiato e indisposto che usciva per procacciarsi il cibo che da lui non avrebbe avuto.
Ricordava l’occhiata istigatoria che gli aveva rivolto.
In risposta aveva borbottato qualche maledizione e qualche insulto, Vegeta non aveva risposto e lo aveva lasciato solo con il suo cruccio.
Allungò la mano alla ricerca di un arnese, ma questa vagò a cercare sulla superficie liscia del tavolo in metallo tastando alla cieca fino ad arrivare allo spigolo.
Le sue dita scorsero lungo le gambe e si lasciò sfuggire un altro rumoroso sbuffo, contrariato all’idea di doversi piegare.
Ora la mano si aggirava sul pavimento errò per un minuto buono alla ricerca di un oggetto disperso.
Straziato dal dolore alla schiena si alzò deciso alla ricerca dello strumento quando si sentì picchiettare sulla spalla.
-Scusi? Cercava questo?-

***


Klareth vide Vegeta rimanere impassibile all’avvicinarsi dei teppisti che stavano seriamente rischiando di rovesciarsi a terra vicendevolmente.
Barcollando sbattevano l’uno contro l’altro, travolgevano secchi del pattume, sbattevano sui muri e prodigiosamente non cadevano, tramortiti quanto erano dall’alcol tracannato.
Appena furono sufficientemente vicini riuscì addirittura a percepirne il puzzo alcolico che spiravano e alitavano in faccia a Vegeta mentre parlavano.
-Certo che si ricorda- rispose uno di loro alla domanda di quello, con la bottiglia nella mano.
Uno di loro gli pizzicò scherzosamente la guancia senza che lui emettesse un fiato.
Forse il piccolo si era premurato di trovare un posto per loro nella sua memoria, con infinita precisione, aveva registrato gli avvenimenti dell’anno passato nel cervello, ma loro, evidentemente perché il vino aveva reso il loro cervello, per quanto ciò che possedevano in testa potesse essere ascrivibile a ciò, non più utile di quanto sarebbe stata acqua e sapone al suo posto.
La birra aveva reso la loro memoria inaffidabile e gli avvenimenti frammentari e lacunosi nella loro mente, ricordavano vagamente un ragazzino dal viso simile ad una maschera di sprezzo e una buffa coda dal pelo scuro.
Vegeta, non vedendo le dita smettere di strizzare la sua gota allontanò la mano con uno schiaffo.
Il ragazzo la levò dalla sua faccia, ma non indietreggiò, la vista gli era resa impossibile da una patina che sfumava ai suoi occhi le immagini, non potè notare il piglio incredibilmente infastidito e ostile del piccolo.
Ma distinse i contorni della sua bocca che si contraeva in una smorfia invelenita

***


Aveva davanti un uomo, alto.
Lo sovrastava di qualche centimetro grazie alla zazzera eversiva in cui ciuffi si direzionavano da tutte le parti.
Aveva gradi occhi neri che conservavano la genuina ingenuità infantile e un’ espressione sinceramente lieta e spensierata.
Era nerboruto e portava una casacca arancione con affisso sul petto a destra uno stemma illeggibile per lui.
Alla vita portava una cintura blu e polsini e stivali dello stesso colore.
Gli porgeva l’arnese con aria amica e benevola.
Era desideroso di aiutare e mostrava l’imbarazzo dell’ospite educato che cerca, in qualche modo, di non dare troppa noia al padrone.
Non aveva capito come avesse fatto ad entrare, ma la sua espressione gli instillava fiducia, non aveva l’aria di chi vuole rendersi un pericolo, tutt’altro.
Disorientato lo osservò, poi guardò ciò che gli porgeva.
Accettò l’arnese con un sorriso accondiscendente.
-Grazie...chi sei?-
L’uomo portò il braccio dietro la nuca con spontaneità, quasi potesse discolparsi di essere entrato candestinamente e di essersi rivelato solo ora ostentando l’innocenza infantile, in virtù della quale, i bambini venivano assolti dalle loro malefatte e prosciolti dalla condanna.
-Mi spiace essermi introdotto così in casa sua- si scusò.
Annuì lievemente perplesso.
-Posso sapere la ragione per la quale l’hai fatto? Non hai l’aria di essere un cattivo ragazzo-
Il giovane portò le mani davanti a se agitandole come a voler scacciare le sue incertezze.
-E infatti non c’è ragione per cui lei si preoccupi, le assicuro che non sono un pericolo-
Era sospettoso l’affanno con cui tentava di convincerlo di non essere una minaccia per la sua vita tranquilla.
Annuì sempre più incerto sulla natura della visita del ragazzo.
-Ragazzo se sei entrato qui solo per questo puoi anche andare- disse girando sui tacchi e ritornando al suo lavoro.
-No, no aspetti!- riportò le mani davanti a se a indicare di fermarsi.
-Che altro c’è adesso?-
Il ragazzo smise la sua aria serena per adottarne una più seria che non si confaceva alla sua indole gaia e puerile.
-Si tratta…di Vegeta-
Al sentire il nome di colui a cui egli aveva dedicato la vita si girò allarmato, e l’occhio gli cadde sull’insolito accessorio circolare che portava sospeso sopra il capo il visitatore.

***


-Levatevi!- disse incamminandosi nella loro direzione e aprendosi un varco scostandoli violentemente con un gesto delle braccia.
Klareth immagino che se parlasse così fosse nelle condizioni per farlo.
Vegeta aveva smesso di eclissarla con la sua figura e ora, quattro visi, scattarono verso la sua personcina.
Intimorita dalle facce che ora la fissavano ebeti e perverse, si incamminò inquieta seguendo i passi del coetaneo guardando di sottecchi i loro ghigni mentre infilava il corridoio creato da Vegeta.
-Eh chi è questa signorina?- chiese quello con il ferro in mano trattenendola per il solino della camicetta.
-Non sapevo avessi amichette...- disse un altro avvicinandosi anche lui a Klareth che non aveva opposto resistenza alla mano che le aveva afferrato il bavero, troppo spaventata per fare alcunché .
Un ciccione le mise le due mani sulle spalle, attirandola alle sue gambe.
Klareth sperava davvero che l’alcol non avrebbe fatto sfociare la loro stupidità in perversione.
Vegeta si voltò al commento acre del ragazzo con un tremito di rabbia misto a disagio.
-Aiuto- soffiò Klareth, che tentava disperatamente di non inalare troppo l’odore spanto da quegli individui, augurandosi che non le si appiccicasse alle vesti e alla pelle.
-Potete farne quel che vi pare-
Eccola la sua condanna.
Strinse il bavero tra le dita unticce la tirò verso l’alto lasciandola penzolare e sgambettare per aria nel tentativo di sottrarsi a quello strazio.
Senza smettere di dimenare gambe e l braccia latrò con voce straordinariamente acuta minacce di terribili percosse che il padre avrebbe inflitto loro, ma visto che quei tipi sinistri sembravano godere della sua magra figura non le rimase altro da fare che evocare la pietà del ragazzino.
-Per favore non lasciarmi qui - si lagnò riuscendo ad articolare qualche altra implorazione tra i singhiozzi che le uccidevano il respiro e le parole in gola.
Vegeta era rimasto a riempirsi le orecchie di quello strazio, delle risate divertite, dei pianti isterici, ma quando la cosa cominciò a risultare fastidiosa procedette per la sua strada deciso ad abbandonarla al suo destino, ma non c’era limite al pervertimento che i vini generavano in individui come loro.
Sentì una mano sulla spalla trascinarlo sempre più vicino alla fonte del piagnisteo.
Si sentì tirare per le maniche delle magliette e sollevare mentre sbatteva gli arti e la coda di qua e di là contrariato, nel intento di colpire i suoi aggressori.
Mentre già stava caricando un colpo più mirato la coda venne intercettata da una delle otto grosse mani di quei soggetti, che trovarono divertente infliggergli un potente strattone che lo costrinse controvoglia a gemere come un bimbetto e a irrigidire i muscoli degli arti inferiori.
Osservò a denti stretti la pateticità con cui la mocciosa cercava di svincolarsi dalla loro presa.
Un capogiro lo colse alla sprovvista al secondo strattone, ma stavolta stroncò il lamento privandoli della soddisfazione di cui avevano goduto poco prima.
Il terzo strattone non fece in tempo ad arrivargli perché lo strido che emise la bimba a volumi acuti preoccupanti costrinse ognuno a tapparsi le orecchie con le mani libere per fuggire il loro udito ad una lesione certa.
Vegeta strinse i denti inibendosi dal soccorrere le sue orecchie e assestando un doloroso e micidiale pugno all’altezza della bocca dello stomaco di colui che lo sosteneva.
Le membra del ragazzo protestarono infliggendogli un bisogno impellente di vomitare.
Le braccia andarono ad attanagliarsi sulla pancia come per arginare la fitta e si piegò in due sulle ginocchia preparandosi ad espellere i pasti ingeriti, più i super alcolici.
Non fece in tempo a rialzarsi che sentì un dolore intenso alla collottola e poi alla schiena; cadde rovinosamente.
Il ragazzo in carne che teneva Klareth per il colletto cambiò tonalità di colore per tre volte in poche frazioni di secondi.
Con uno scattò delle iridi Vegeta notò lo smarrimento e il panico nello sguardo dell’altro e decise di appagarsi ancora un po’ con il loro orrore.
Con un calcio assettato nello stesso punto dell’altro, che affondò nei rotoli di grasso cosparsi sul suo ventre, il poveretto fu oppresso dalla nausea e dal dolore e rigettò tutti i pasti della giornata, lasciando la piccola.
Vegeta si scostò appena in tempo ma Klarethh non potè sottrarre le sue scarpe al puzzolente miscuglio di alimenti, bava, succhi gastrici e sangue.
Emise un grido di disgusto manifestando la sua repulsione contraendo la faccia in una smorfia, che dovette essere molto eloquente.
I conati furono placati dal sonno che Vegeta gli regalò con un pugno in faccia, ponendo momentaneamente fine al suo strazio.
Gli altri si diedero alla fuga, ma la minuta, eppure temibile figurina di Vegeta li si parò davanti sospeso a mezz’aria.

***


-Lo chiamate ancora così no?-
Il vecchio era sempre più perplesso, ma quell’individuo dimostrava di conoscere il piccolo, e lui era assetato di informazioni che lo riguardassero.
Dopo anni di convivenza non era riuscito a rimuovere quella serietà e frigidità inadatta ad un infante, a farsi accettare come padre, ad avere una parola gentile da lui…nulla di affettuoso era uscito dalle sue labbra…nulla.
Ogni informazione era essenziale.
-Tu conosci Vegeta?-
Si grattò il capo perplesso insicuro su che risposta dare.
-In un certo senso…- non aveva idea su come delucidare il padrone di casa su come funzionasse l’ordinaria amministrazione nella lontana dimensione da cui proveniva.
Non era certo che l’avrebbe compreso, o che l’avrebbe lasciato in quella dimora un secondo di più, temendo fosse una mente contorta ed esaltata; si raccomandava cautela quando si rivelavano certi segreti.
-Sei colui che l’ha trovato vero?- chiese per accertarsi di non essersi rivolto all’individuo sbagliato ed evitare così di protrarre una magra figura.
-Si…sono io…si-
Intrecciò le dita a disagio, le domande che stava per formulare erano davvero molto personali, non poteva permettersi di introdursi nella serena esistenza di Vegeta, non dopo tutto quello che aveva fatto, non dopo che gli aveva avvelenato quella precedente… e ora si apprestava a farlo di nuovo.
-Ho saputo che l’hanno lasciato qui- disse recuperando un sorriso garbato per sgravare l’atmosfera.
-Si…- c’era una punta di sdegno nel tono enfatizzata…forse volutamente –si è così che trattano i bambini storpi…ancora-
Goku indugiò un secondo di troppo.
-Che sei venuto a fare qui? Eh? Figlio di puttana! Sei venuto per riprenderlo dopo che l’hai abbandonato?!…-
Goku deglutì visibilmente un grosso groppo di saliva allontanandosi per mantenere una distanza di sicurezza.
-Sinceramente mi fai schifo! Come hai potuto lasciare tuo figlio qua in mezzo alla merda?, ti impiccherei ad un palo della luce se non fosse che…-
-Aspetti un momento!Io non sono il padre di Vegeta: lei ha frainteso! Io sono qui per lui, ma non volevo portarlo via. Non è mio figlio!- chiarì lui visibilmente a disagio.
Sam non fu del tutto convinto, lo esaminò accuratamente.
-Eppure non siete poi troppo differenti-
Si vide girare intorno e si sentì osservare da diverse prospettive.
-In effetti ci sono molte cose che ci legano, ed è per questo che sono venuto-
Il vecchio si fermò mugugnò qualcosa e si rimise davanti a lui assicurandosi di rimanergli ben vicino agli occhi in modo che neanche un frammentaria parte di menzogne potesse sfuggirgli.
-Allora, racconta-
Lo allontanò sospirando rassegnato e prendendo un sorriso amaro.
-Mi spiace, ma deve essere lei a dirmi ciò per cui sono venuto mi deve raccontare lei che ne è di quel povero bambino- anche la voce aveva mantenuto parte del timbro infantile.
Gli provocava uno strano effetto chiamare Vegeta “povero bambino”, ma contenne lo spasso.
-Che cosa vuoi sapere?-
Goku si portò una mano al mento nell’atto di chi riflette.
-Vorrei che lei mi dicesse tutto ciò che sa di lui, se gli è mai succsso qualcosa di...strano- disse dopo varie elucubrazioni.
-Mi spiace, ma non so molto, sebbene viva in questa casa da quando è nato non ha contatti verbali decenti con nessuno, si rifiuta di parlare, la sua presenza si fa sentire appena, non è un bambino che ha bisogno di molte attenzioni…-
Goku ascoltava assorto, il modo in cui il vecchio dipingeva il suo antico nemico lo rattristava, Vegeta era un bambino serio e rabbioso, senza infanzia, e di certo non voleva averla.
-...dorme sogni agitati, a volte urla poco prima del risveglio, verso l’alba, quando i sogni rimancono nella memoria, non mi vuole dire di che si tratti, ma so che non dorme più per il resto della notte, e finche non sorge del tutto il sole guarda lo spicchio di luna che si abbassa, si spegne, e lo osserva con una talemente tanto che a volte mi sembra che possa bocare in due la finestra la finestra …- abbassò lo sguardo pensieroso – ultimamente sta dando segni di impazienza, colpisce oggetti , è arrabbiato… credo faccia anche di peggio…ruba…non posso sfamarlo con quello che guadagno, fagocita anche il frigo e non gli basta… credo che se potesse si mangerebbe anche me lo farebbe, non si è mai legato a nulla e a nessuno…-
Mentre veniva informato, scosse il capo lasciandosi sfuggire un alito.
-Il destino non è mai stato buono con Vegeta- gli sfuggì insieme al soffio.
-E questo cosa vorrebbe dire?-
Goku continuò a guardare per terra ignorando di proposito l’inquisizione.
-Ma il motivo per cui sono venuto è…- si indicò il posteriore –la sua coda-
Il vecchio inarcò un sopracciglio disorientato.
-Stia in guardia, fortunatamente la luna non si vede troppo da quaggiù-
Il vecchio fece per parlare, ma Goku prevedettè il flusso di domande che stava perfargli e lo tacque con un cenno della mano.
-Non è necessario che lei sappia cosa centri, sappia solo che deve stare in guardia. So che lei non vuole che capitino cose spiacevoli alla metropoli, e so che Vegeta non la guarderà di sua spontanea volontà vista la rarità del plenilunio su questo pianeta, ma c’è un’altra ragione…-
Piantò i suoi occhi nelle iridi nocciola di Sam.
L’atmosfera sospesa che si instaurò fu straziante.
Per un attimo lo sguardo del ragazzo parve strano, intenso ed eloquente.
Lo scongiurava con gli occhi di stare in guardia, e mentalmente di riuscire a comprendere il messaggio; una minaccia incombeva su Vegeta, ma lui di più non poteva ripetere, Re Yhammer era stato categorico: solo avvertimenti fiochi e imprecisi, null’altro.
Non era in condizioni di dire più di così.
-Lo tenga lontano dalla luna piena e dai guai, lo stanno cercando-
Gli occhi si sgranarono in un espressione di sorpresa e paura.
-Chi? Chi lo cerca? Che vogliono farne di un bambino?-
-Mi dispiace non posso dire di più- rise quasi volesse discolparsi con così poco dimentico della gravità della situazione.
-Ho le mani legate- continuò alzando lievemente le spalle e i palmi mostrarli al suo colloquiante e sorridendo, tornato lieto come prima.
-Le consiglio di andarlo a prendere- disse-Si sono spente due aure, e non dimentichi, la sua coda è pericolosa-
-No aspetta!-
L'uomo pose due dita sulle tempie per meglio stimolare la concentrazione, cucciò lo sguardo, e sparì.
Rimase atterrito senza riuscire a spiegare la natura delle preoccupazioni di quell’individuo.
Sempre più, tutto lasciava presupporre che al destino di Vegeta fosse legato qualcosa dalla somma importanza, e ogni cosa gli dava sempre più motivi per credere che la natura dello spirito di Vegeta fosse bruta e rabbiosa, e la sua potenza, i cui accenni erano devastanti, poteva voler significare solo una cosa…e allora la minaccia che brillava in cielo di notte gli parve chiara e limpida.
Ma non era tutto, c’era altro alla cui conoscenza lui non poteva essere reso partecipe.
Si chiedeva perchè mai quel ragazzo dall’anello sospeso sulla selce nera che aveva in testa fosse così tranquillo sebbene la gravità delle informazioni che aveva appreso da lui fosse immane.
-Devo andare a prenderlo- pensò ad alta voce.

***


I due vennero scagliati da un’immane forza dritti contro la parete del muro ricadendo a terra allargando una pozza vermiglia che insudiciò l’asfalto.
Dalla bocca di uno dei due venne sputato un fiotto di sangue.
Nel muro rimase indelebile la forma indistinta dei due corpi e gocce di sangue strisciarono lungo il metallo seminando una scia di lacrime rosso intenso più piccole lungo la loro traiettoria, lente e lascive.
Nel petto di uno di loro si era aperto uno squarcio che era lasciato intravvedere dalla maglietta carbonizzata.
La carne sanguinolenta era nuda agli occhi della piccola
Klareth inorridì.
Guardò uno dei due, la cui faccia si intravvedeva sotto il corpo del compagno.
Aveva il viso paonazzo e presuppose che nelle membra non dovesse avere neanche una goccia di sangue vista la larghezza della chiazza di colore sotto di lui e la colorazione delle sue guance.
Gli occhi fissi al nulla non lasciavano presupporre che fosse in vita.
Era stato un trapasso rapido, ma forse non poco doloroso.
La sua faccia si tese ancor di più e si allontanò gattonando contrariata alla vista di quell’immagine scuotendo la testa come se la memoria di quella scena potesse essere scacciata uscendo dalle orecchie, ma incontrò qualcosa che le ostacolò la fuga.
Si girò verso l’alto e vide la faccia di Vegeta non molto soddisfatto del massacro, gli osservava con cinismo provandone disprezzo per la loro inferiorità, per la loro incapacità a intrattenerlo per più di pochi secondi.
Sembrò, solo in quel momento, ricordarsi della presenza della ragazzina scoccandole un occhiata eloquente e irridente.
-Cosa c’è?- disse avvicinandosi con un riso detestabile e le braccia conserte.
-Sei troppo buona di cuore, o troppo debole di stomaco?-
Non potè evitare di ritrarsi lievemente per sottrarsi a quello sguardo così pesante da sostenere.
-Tutte e due- miagolò con una punta di sarcasmo mitigato dal disgusto e dallo smarrimento.
Non rinunciava alla sfrontatezza neanche nelle situazioni di pericolo.
Non sapeva che in un futuro non troppo prossimo avrebbe collezionato nei suoi ricordi molti di quei cruenti scenari e mille sguardi vacui di cadaveri.
Nulla si mosse per alcuni secondi.
Vegeta ridusse ancora di più gli occhi a due fessure, che si affacciavano su pozzi neri e profondi, ghignò di compiacimento e si allontanò nella direzione dove era venuto avvertendo nelle membra un insano piacere.
Un sadismo spropositato, come se avesse trovato ristoro a sofferenze che da quando era in vita non aveva mai patito, una consolazione, uno scarico per la sua rabbia immotivata e irrazionale.
Klareth si guardò intorno atterrita, osservò il massacro evitando però di incrociare gli occhi con quelli delle due salme; non vedeva traccia che potesse condurre all’autore del misfatto.
Si voltò nella direzione dove aveva intravisto il bambino andarsene e lo vide ai limiti della strada, dove agli occhi si ripresentava il paesaggio cittadino di palazzi minori.
Esplorava con lo sguardo le sommità delle residenze per studiare un percorso agibile per un ritorno veloce a casa.
Appena lo vide caricare con le gambe un salto scattò in piedi in stato di allerta.
-Non farlo- urlò.
Vegeta che già si stava dando lo slancio venne bloccato.
Mugugnò qualcosa che sembrò un ringhio sommesso voltandosi appena, non vide nessuno, ma udì i passi sveltiti di una corsa, troppo tardi.
Si sentì afferrare, cingere le spalle e bloccare le braccia con impeto, in un abbraccio stretto.
-Non farlo!- disse lei credendo in un gesto suicida.
Lo slancio con cui si getto su di lui lo costrinse a smuovere un piede per mantenere l’equilibrio, che però incontrò solo l’aria all’apice della strada.
Non trovando sostegno Vegeta perse staticità e cadde senza possibilità di scampo, lasciandosi sfuggire un gesto di sconcerto e stringendo ancora di più i denti al sentire la stretta, spostata sul suo collo, rafforzarsi.
La bambina era rimasta attaccata a lui, con le unghie serrate disperatamente sulle sue spalle.
Sentendo che i loro pesi non poterono più trovare appoggio schiuse la bocca con il respiro mozzato preparandosi a emettere uno stridulo grido di panico.
Non appena l’acuta imprecazione venne emessa a distanza ravvicinata dall’orecchio di Vegeta, il ragazzino assunse un espressione talmente sofferente che sembrò che invece dell’urlo fosse arrivato al suo orecchio un coltello.
Cercando di reprimere la voglia di ficcarle in bocca il suo coniglietto e insieme ad esso una sfera energetica le afferrò e strattonò uno dei codini ottenendo che smettesse di urlare.
-Zitta oca, se non vuoi che te la dia io una motivazione per strillare- ordinò.
Klareth piagnucolò contrariata sentendo l’aria soffiarle in faccia spazzandole via le lacrime e irrigidendo ancor di più le gambe.
Guardò di sotto e attanagliò le braccia sul petto del ragazzino.
-Fa qualcosa!- urlò con voce altrettanto fastidiosa.
Vegeta ringhiò nuovamente assumendo una posizione più aereo dinamica e allargando le braccia a cercare un appiglio.
-Non ce la faremo mai! E tutta colpa tua!- si lagnò lei mentre le ultime lacrime venivano spazzate dall’aria che le agitava i capelli e le spirava sulle gote.
La sua mano trovò l’asta di una bandiera sventagliata affissa su un balcone.
Strette più che potè le dita attorno alla spranga ma si sentì la coda impedita da un peso.
I tendini reclamarono con un intenso dolore alla radice della protuberanza.
Klareth non aveva retto all’improvviso cambiamento e quando la loro caduta fu frenata bruscamente, le sue dita umide di sudore erano scivolate dalla loro posizione.
Aveva raschiato la maglietta con le unghie nel tentativo di reggersi, ma aveva continuato a scivolare con una mano ancora unita al braccio arrivando alla nuda pelle di Vegeta.
Una volta che le sue mani si disunirono dall’arto del compagno andarono a vagare a tentoni nell’aria, alla disperata ricerca della salvezza in un appoggio, fornitole provvisoriamente dalla coda del bambino.
Cacciò un urlò disumano spalancando le fauci in maniera scioccante.
Ricacciando le lacrime da dove erano venute Vegeta con un’immane sforzo chiuse la bocca mordendosi la lingua come se lo aiutasse a sopportare lo strazio.
La presa sulla spranga si allentò pericolosamente; le sue dita scivolavano, la sua mente si intorpidiva, il sonno sopraggiungeva a strapparlo dal dolore che percepiva sopra le natiche.
Mentre la mente si ottenebrava e al paesaggio composto dal susseguirsi di palazzi si sovrapponevano i sogni di un sopore lieve, le sue dita si disunirono del tutto dalla spranga.
Le sue visioni si dissolsero come immagini riflesse sulla superficie d’acqua rotta da un sasso
I rumori si fecero meno ovattai e più vicini.
La mocciosa aveva ricominciato ad urlare, ma aveva cambiato appiglio.
Quando la presa di Vegeta era venuta a mancare aveva tentato pietosamente di arrampicarsi sul suo corpo e di raggiungere lei stessa l’asta, ma aveva conseguito solo di raggiungere la sua gamba dove ora era avviluppata.
Vegeta tese la mano in cerca di un'altra salvezza, raggiungendo il bordo di un davanzale.
La spalla di Klareth andò a sbattere contro il muro, costringendola ad arginare il pianto e a stringere le labbra convulsamente e le dita sull’orecchio di pezza del coniglio per meglio sostenere il dolore.
Vegeta arrivò al davanzale anche con l’altra mano facendo leva sulle braccia riuscendo facilmente a compiere l’impresa con un peso che lo opponeva, ma improvvisamente il carico venne a mancare.
Udì uno schianto terribile, lo schizzo di qualcosa in faccia e poi un lamento.
Quando riuscì a mettersi seduto si sporse leggermente, infastidito dalla presenza di quel fardello.
Vide risorgere dalle buste nere della pattumiera una testolina foltamente coperta di capelli azzurri ornata da una buccia di frutta, e una faccia sporca dello stesso liquido che era stato schizzato a lui.
Ringhiò seccato poco avvezzo a sopportare certe pateticità e saltò giù dal davanzale.
Klareth lo sentì cadere con agilità felina e ammortizzare l’atterraggio davanti a lei.
Provò ad alzarsi e a riacquisire un minimo di decenza, ma sentì qualcosa di …vivo sotto la scarpa, che oppose resistenza al suo piede.
Urlò atterrita ritraendosi verso la parete liberando il topo dal suo peso.
Questo squittì e sgattaiolò via in tutta fretta sotto lo sguardo stomacato di Klareth e quello freddo dell’altro.
Alzò leggermente la testa vedendo Vegeta che ancora osservava il ratto offrendole le spalle e la nuca.
Gonfiò le guance indignata e si rialzò fissandosi il vestito lordato di ogni genere di sporcizia cittadina.
Allargò le braccia a indicare la sua persona.
-Guarda che hai combinato!- lo assalì.
Vegeta non la degnò neanche di un’occhiata voltando la testa davanti a se e iniziando ad allontanarsi con incedere lento e cadenzato.
-Ehi! Sto parlando con te!Non so neanche come ti chiami! Guarda che hai fatto al mio vestito!Potevi salvarmi da quella caduta ma non l’hai fatto! Sei cattivo!-
Vegeta si arrestò all’ultima affermazione si girò con flemma esibendo un ghigno inviso.
Si voltò del tutto verso di lei con le braccia incrociate ridendo sommessamente, come se l’ultimo commento lo avesse sinceramente divertito.
Klareth rimase immobile a chiedersi la ragione del suo atteggiamento.
Con austerità si avvicinò in modo che le fosse evidente il vantaggio in altezza che aveva.
Il divario di età creava anche una disparità tra le loro stature.
Si morsicò l’angolo inferiore della bocca come per reprimere il piccolo ghigno, l’unico sorriso che ci si sarebbe potuti aspettare da lui.
Mantenne sempre una certa distanza da lei, come per renderle evidente la sua superiorità: un bambino, un assassino, non poteva toccare una ragazzina indifesa e patetica come lei.
-Ma davvero?-
Realizzò che quel bambino le faceva una gran paura, il suo solo modo di osservala con sufficienza la feriva, eppure era lei quella ricca li, lui il poveretto che rubava per sfamarsi, sarebbe dovuta essere lei a mettere soggezione a lui, con la sua superiorità, i suoi bei vestiti, il suo pupazzo…
Si sorprese a indietreggiare.
Incespicò in un sasso dietro di lei cadendo all’indietro.
Prima di poter toccare terra ed insudiciarsi maggiormente le vesti venne trattenuta da qualcosa sotto le ascelle.
Si girò vedendo il riso benevolo di un uomo dalla tuta arancione e la pettinatura improponibile.
La risollevò con delicatezza rimettendola in piedi e restituendole il pupazzo che aveva perso.
-Ciao piccola-
La bambina fissava intensamente tutta la sua persona.
Sembrava gentile, aveva un riso affabile e sinceramente contento, glielo elargiva con la naturalezza di chi sorride ad un vecchio amico, ma lui era un perfetto estraneo per lei, e , se i suoi genitori le avevano insegnato qualcosa doveva essere educata e presentarsi.
-Buon giorno- disse chinandosi leggermente in segno di rispetto.
L’uomo si abbassò alla sua altezza e le pose una mano sul capo accarezzandola.
-Ciao, come ti chiami?-
Klareth sbattè un baio di volte le palpebre disorientata dal sorriso buono e simpatico che aveva in faccia il suo ospite.
-Io mi chiamo Klareth-
Sembrò che l’attenzione dell’uomo fosse calamitata da qualcosa alle sue spalle.
-E tu giovanotto come ti chiami?-
Vegeta aveva sdegnosamente ripreso la via del ritorno verso casa e non si diede pena di fermarsi e voltarsi, ma proseguì affettando distacco e disinteresse per la cosa.
Non avrebbe certo pensato di vedersi comparire davanti colui che l’aveva chiamato ad essere partecipe dei convenevoli inutili.
-Ehi piccolo, ti ho fatto una domanda- lo rimbrottò benevolmente senza smettere quel suo, troppo sincero, sorriso.
Ringhiò seccato con una grinza di fastidio sulla fronte e agli angoli della bocca.
-Che vuoi?-
Ridacchiò divertito constatando che non fosse cambiato di una virgola.
Aveva sempre quel crucciato e arrogante cipiglio anche da bambino.
C’era del dilettevole nella situazione in cui si trovavano a distanza di molto tempo, li; lui, Vegeta e… Bulma.
Klareth percependo che il centro delle attenzioni del simpatico individuo non era più lei ma quell’antipatico ragazzino si inalberò piantò i piedi per terra, i pugni sui fianchi e prese a canzonarlo.
-Lui è un maiale, mangia da maiale ed è odioso- informò il nuovo venuto con questi chiarimenti sul bambino.
Goku rise di gusto all’affermazione senza scomporre Vegeta che continuò a fissarlo ostile.
-Mi dai sui nervi- comunicò con un ringhio e girandoli attorno e desamniando il suo nuovo avversario.
Tutto sommato non gli sarebbe dispiaciuto spassarsela con un nuovo seccatore.
Partì alla carica direzionando il pugno destro verso la sua mascella e mentre pregustava una vittoria le sue nocche vennero bloccate con troppa facilità.
Livido di rabbia rimise i piedi per terra caricando un calcio in mezzo alle gambe dell’uomo, ma il suo avversario pose un ginocchio a intralciare la sua mossa.
Si sentì afferrare con forza per un braccio.
Ora scalciava per liberarsi, provò ad assestare un altro calcio al ventre dell’opponente, ma questo venne bloccato con il solo uso dell’altra mano.
Sempre più carico di astio e rancore sentì il bisogno urgente di urlare di una rabbia che gli faceva quasi male.
Privato del suo diritto ad arrecare danno e a godere della paura, insieme all’ira gli pervase il corpo una scarica elettricà che percosse il braccio dell’avversario talmente forte da costringerlo a mollare la presa.
Klareth urlò.
-Ahia-
Vegeta recuperò la distanza da lui con un salto e lo fissò con odio ringhiando come un’animale minacciato.
-Sei in gamba Vegeta, e non ti sei ancora allenato, chissà che risultati incredibili potresti dare con un appropriato esercizio- esclamò entusiastico allargando le braccia come se volesse abbracciarlo…come se fosse fiero di lui?!
Vegeta inarcò un sopracciglio.
Si risollevò riprendendo la sua posa superiore e fissandolo con un disprezzo diverso da quello che riservava a tutti gli altri.
La rabbia di aver subito la sua prima, bruciante sconfitta era immensa, il sorriso compiaciuto e felice del suo avversario, che non sembrava adottare tanto perchè fosse felice della sua vittoria o della sconfitta dell’oponente, gli dava fastidio, davvero no riusciva a capire perché fosse allegro.
-Non hai perso un briciolo della tua potenza-
“ ne della tua freddezza” pensò.
Davvero neanche lui, neanche in un’altra esistenza aveva potuto godere della sua porzione di felicità? Neppure nell’infanzia?
Sorrise mestamente per un attimo ripensando a quanto il destino fosse crudele con Vegeta, che ora non era altro che un bambino solo, triste e cinico.
Vegeta lo fissò con un espressione di sorpresa irritazione.
Quando mai aveva avuto dimostrazione della sua forza, e quegli elogi entusiastici… gli davano noia, provenienti proprio da colui che l’aveva vinto per giunta.
Gli tese la mano amichevolmente.
-Sono Goku-

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** Capitolo 7 ***


La reincarnazione


a vivvina

“Nel piccolo mondo che racchiude la vita dei bambini... nulla è percepito in modo così distinto e così vivo quanto l’ingiustizia”

(Charles Dickens)

 
L’immobilità si era fatta padrona della situazione; Goku  fermo con la mano tesa, a voler dimostrare amicizia, con un sorriso indelebile disegnato sulla bocca altrettanto bonario.
Vegeta dal canto suo fissava il palmo senza troppo interesse.
Storse il naso.
Goku ritirò la mano ormai persuaso che non avrebbe ricambiato.
“deve essere successo qualcosa di strano” gli venne in mente qualcosa di simile perché nel processo di purificazione davvero doveva esserci stato qualche incaglio.
-Come fai a sapere il mio nome?- chiese a brucia pelo il ragazzino.
Klareth trotterello verso il duo introducendosi prepotentemente nella non-conversazione.
-Signore- strattonò i pantaloni dell’adulto nella speranza di riceverne le attenzioni.
-Signore…mi scusi-
Goku si voltò incontrando solo il paesaggio e fu costretto ad abbassare gli occhi per intravvedere la piccola che gli sorrideva in modo semplicemente squisito.
Goku di nuovo fu costretto a inginocchiarsi per eguagliarla in altezza.
-Mi scusi da dove viene quello strano accessorio che porta in testa?- e indicò con il dito l’aureola.
Klareth era un abile maestra in questa arte; sapeva perfettamente come persuadere gli adulti ad essere schiavi della sua volontà; sapeva come dosare i toni, quanto era necessario sbattere le ciglia folte e sapeva bene cosa volevano sentirsi dire per essere compiaciuti da lei e della sua mielosa voce.
In particolar modo sapeva torchiare un adulto misurando bene il giusto tono dolce, sapientemente artefatto, condendolo con l’innocenza più schietta che poteva abilmente far erompere dalle sue iridi.
-Vedi è un anello funzionale a distinguermi da tutte le persone che vivono su questo mondo - concluse Goku.
Klareth lo guardò dubbiosa.
Irruppe la voce fredda del bambino.
-Non mi importa chi sei o che accidenti di affare porti in testa- girò sui tacchi e procedette verso casa con le braccia conserte.
Klareth gli fece una linguaccia che scaturì lo spasso del suo ospite.
Si imbronciò guardandolo male e ritraendosi e incrociando le braccia.
-Che ci trovi di tanto divertente?-
Come certe pose enfatizzassero quelle di Vegeta era un mistero per lui, non a caso erano stati protagonisti di
una relazione, per quanto questa fosse stata discutibile e travagliata.
-Niente, non puoi capire-
Questa frase non fece che degenerare il suo dispetto.
Gli girò attorno boriosamente con le guance gonfie di ira, per dispetto seguì i passi dell’odiato coetaneo.
-Non sono stupida- insolentì.
Goku rimase a grattarsi la nuca confuso.
Risolse che avrebbe dovuto chiedere a Re Yhammer di controllare l’efficienza dei processi di cancellazione della reminescenza, a quanto pareva non erano perfettamente validi
Qualche ricordo in loro era rimasto, come sennò potersi spiegare l’insensato odio di Vegeta al primo sguardo.
 

***

-Ehi aspettami-
Disse accelerando il passo assicurandosi di distanziare Goku di qualche metro in più.
-Vegeta! Ti chiami così? Vegeta!-
Il bambino non la graziò di fermarsi ma neanche rallentò, finse brillantemente di non aver sentito il richiamo e continuò a camminare sordo alle sue urla.
-Vegeta!- trafelata si appigliò alla sua spalla.
Il bambino Si scosse bruscamente e si voltò indignato.
-Vattene via! Non toccarmi!-
Allontanata bruscamente si vide minacciare dai suoi occhi.
-Vegeta!-
Un'altra voce, un altro seccatore; il vecchio.
-Vegeta-
Klareth si sporse sollevandosi sulle punte per poter intravvedere oltre la sua capigliatura ritta a formare una fiamma nera e folta.
-Vegeta, meno male-
L’uomo che lo richiamava si fermò e si chinò appoggiando le mani sulle ginocchia per riprendere fiato.
Una volta che il respiro si fu regolarizzato e il petto smise spasmodicamente di alzarsi ed abbassarsi riuscì ad articolare parole di senso compiuto.
-Ti stavo cercando, dove sei stato?-
Il monosillabo grugnitogli fu sintetico e alquanto esauriente per chi, come lui, aveva imparato a capirlo.
-Lascia stare, non voglio neanche sapere cosa hai fatto là fuori, concedimi il beneficio del dubbio- ironizzò alzando le braccia in segno di resa.
Klareth alzò la mano per essere interpellata come a scuola, ma parlò lo stesso, prima di ricevere il consenso.
-Te lo dico io che cosa ha fatto signore: ha rapinato un negozio e pestato quattro uomini- disse orgogliosa di poter rifilare rogne al bimbo.
Vegeta le ingiuriò qualcosa che parve un ringhio e la guardò trapelando risentimento.
Fiera incrociò le braccia e aspettò una reazione dell’uomo, immaginò che fosse saggio non rivelare della strage che aveva compiuto.
Al contrario di ogni sua aspettazione il vecchio sospirò arrendevole.
-Cosa vai a fare Vegeta? Vuoi cacciarti nei guai? Hai già fatto perdere conoscenza a due poliziotti che hai, astutamente, fatto rinvenire appesi ai balconi, non metterti troppo in cattiva luce. Vuoi cacciare nei guai pure me?.
Vegeta proseguì il cammino.
-Non mi importa di quello che ne faranno di te-
Il vecchio, seppur il commento avesse rievocato quell’infelice evento di qualche anno prima, si voltò verso la bambina che lo aveva gentilmente informato delle attività ricreative con cui Vegeta si era tenuto occupato.
-Ehi Vegeta e questa poveretta che ci fa qui- disse quasi affaticato da tutti i pasticci in cui si cacciava il figlioccio.
-Non me ne importa, potrebbe anche crepare sul posto per quel che mi riguarda-
Klareth non potè che puntare i piedi e rivolgersi all’uomo, decisa a raccontargli tutti gli altri misfatti e crimini compiuti dal piccolo, ma la sua faccia represse ogni rea intenzione.
Guardava per terra con negli occhi la forza di chi resiste a dure prove, di chi soffoca ogni crudele pensiero, di chi spreme la clemenza dalle riserve che possiede.
-Oh guardati, povera bimba come ti ha ridotta, sei tutta sporca-
Si inginocchiò per sfilarsi la giacca e avvolgergliela attorno alle spalle.
-Sei tutta bagnata, con questo vento gelido…-
Minacciava di piovere, il vento soffiava e le aderiva l’umido orlo della gonna alle gambe paffute.
I brividi la percossero un ultima volta prima che l'accogliesse il caldo del giaccone.
Capì che il vecchio era disposto a prendersi cura di lei, finche le cose non si fossero sistemate.
Capì quanto si risentisse per il bene che Vegeta ogni volta gli negava, nel modo in cui gli fiaccava nel petto la speranza, e l’orgoglio offendeva, ben conscio di essere diventato essenziale per la sua vita, di occupare una posizione privilegiata, certamente non meritata.
Capì quanto soffrisse per il tempo che fruiva per elargirgli come poteva, per quanto la sua natura solitaria e taciturna glielo consentisse, piccoli gesti, piccoli cenni, sorrisi.
Tutti spenti da un gelido e insofferente sguardo.
Chissà quanto aveva sperato che accettasse il suo amore, possibilmente lo ricambiasse.
Speranze nate solo per essere ostinatamente nutrite, solo per l’agognata soddisfazione, forse utopistica, di avere un cenno di apprezzamento.
Si strinse nel cappotto, tormentata dai sensi di colpa.
In tono con l’umore del vecchio, la pioggia aveva cominciato a scrosciargli addosso.
Sentiva il ticchettare delle gocce sull’asfalto che si dividevano in frammenti acquei ancor più minuscoli per ricongiungersi a tutti gli altri nelle pozze agitate da grandi cerchi; increspamenti che si allargavano sempre più fino ad estinguersi ed appiattirsi. .
Le venne cortesemente aperta la porta di casa e lei entrò in tutta fretta.
-Sono Sam- si presentò.
Ad occhi bassi, rispettosamente mormorò –…Klareth-
Il maglione infeltrito era pregno di acqua e odore di umido, così come i pantaloni slavati e i capelli ingrigiti.
Vegeta era al centro della stanza.
Perfettamente asciutto, irradiava un delizioso tepore.
Quando questo finì si andò a rannicchiare nel cantuccio della finestra, con lo sguardo assente rivolto all’esterno al sudiciume che lo lordava e alla pioggia che lo ripuliva.
La piccola aspettò che si offrisse di soccorrere il padre da un raffreddore. Aspettò, ma niente.
Il vecchio non parve far caso al disinteresse che il figlio gli regalava dopo tutto ciò che aveva fatto per lui.
Gli restituì il cappotto e vergognosa per essersi servita dell’unico suo riparo, con lo sguardo che strisciava a terra e voce talmente flebile che si udì appena tra gli scrosci esterni e i ringhi contrariati del terzo inquilino occupante della casa disse –mi dispiace, io…io...non volevo usare il suo…-
Tranquillo e benevolo le poggiò una mano sulla testa prima che concludesse le discolpe.
-Non ti preoccupare, ora mi asciugo, e tu ti cambi!- ordinò - puzzi come una spurgatrice di fogne.-
Leggermente offesa dal commento poco lieto appena fatto in merito alle sue condizioni igieniche, ma non abbastanza per dimenticarsi che si fosse privato di un bene primario pur di offrirlo a lei in uno slancio di bontà, obbediente si fece guidare verso il bagno.
La aiutò a pulirsi, le diede una maglietta lunga che le sarebbe funta da pigiama e obbligò Vegeta a sloggiare dal suo letto.
Fu un impresa meno travagliata di quel che credeva.
Certo Vegeta non era stato propriamente entusiasta, ma pensò che fosse abituato ad una vita di tali stenti che, perdere il letto, era forse il male minore di tutti.
Sam naturalmente si offrì anche di detergere il suo pupazzo e Klareth pensò a quanta fosse immensa la gratitudine che doveva a quell’uomo.
-Non capisco perche ti affanni tanto per una mocciosa di nessun valore-
Irruppe caustico Vegeta che si era steso sul ripiano interno della finestra e se ne stava straiato con una mano dietro la nuca, e gli occhi chiusi per dispetto.
-Semplicemente perché l’ho fatto anche con te. E contrariamente a quel che pensi quella bambina che tu hai insozzato, offeso, e trasportato qui senza possibilità di tornare indietro vale molto più di quanto tu creda.-
 Si sfilò il guanto giallo con cui stava nettando i piatti, afferrò il telecomando e accese la tv, Vegeta non si smosse, ma non fu indispensabile.
“La piccola Klareth Grey è scomparsa durante uno sbarco aereo spaziale. È figlia di un importante ambasciatore, si pensa sia…” la pubblicità era stata ripetuta ad ogni intermezzo tra un programma e l’altro “…i genitori disperati offrono una cospicua ricompensa al ritrovatore della piccola, le autorità stann…- la voce venne taciuta da un calo di corrente non certo dovuto al temporale.
Ogni luminescenza artificiosa si spense dopo aver sfrigolato e balenato ad intermittenza fino ad esaurirsi, si udì uno scoppio sonoro che fece sussultare il vecchio.
Si volse di scatto notando che era esplosa la lampada sul comò e sul vetro della finestra accanto a Vegeta c’era
un incrinatura di non più di tre pollici.
-Mi dai sui nervi- sbottò e si rigirò offrendogli le spalle contemplando un punto imprecisato oltre il vetro.
Sam sospirò nuovamente e decise di andare ad ed elargire premure a chi le apprezzasse.
Klareth stava accarezzando il suo coniglietto bisbigliando parole inintelleggibili con voce rotta dal pianto, soffocato per rispetto della quiete.
Riuscì ad afferrare alcuni rudimenti del discorso disorganico e sconnesso di lei notando che stesse avvampandole in faccia un colore rosso intenso che trapelava la voglia di pianto.
-Ci vogliono bene….ci vogliono bene…ci cercano…vengono a prenderci…si ci verranno a cercare…ci vogliono bene…vedrai.-
Si rifugiò sotto le coperte rannicchiandosi su se stessa con la faccia contorta in una smorfia, trattenendo le gocce di pianto e non si udì più niente.
Richiuse lo spiraglio della porta spegnendo del tutto la luminescenza nella stanza, lasciandola riposare, lasciando che i suoi tormenti si quietassero e la lasciassero sprofondare in un ristoratore sonno senza sogni.
 

***

Era tarda notte, si era alzata vinta dalla sete.
Decise che avrebbe fatto da se, non era proprio giusto svegliare il vecchio, aveva già approfittato troppo di lui,o meglio lui aveva voluto che si approfittasse.
Non avrebbe dovuto sentirsi in colpa, ma preferì non tentare comunque.
Era semplice, doveva solo aprire il frigo e cercar una bottiglia, non era troppo difficile per una bambina sveglia come lei.
Percepì sotto la pianta del piede il pavimento piastrellato limaccioso e gelido.
Si sentì piovere addosso l’acqua dalla finestra, il vento ulularle nelle orecchie e far ondeggiare furiosamente i tendaggi.
Si gettò sulle ante delle finestre esiliando il rumore della tempesta, e la pioggia, fuori di casa.
Voleva dell’acqua?Ora ne aveva addosso.
Ora che la finestra era chiusa e le persiane serrate, il buio era spesso e fitto, la sua vista era del tutto compromessa e fu costretta a stendere un braccio avanti per prevenire l’impatto violento con qualcosa o qualcuno.
Tutta via il gelido vento si era insinuato nella casa e ora volteggiava per aria e la assaliva con un freddo che le irrigidiva le ossa e ogni fibra muscolare.
Ci sarebbe voluto un po’ prima che si disperdesse.
Toccò qualcosa, lo sfiorò più volte nel tentativo di identificarne la forma e la natura.
Tastò meglio la consistenza del maglione infeltrito, era soffice , ma soprattutto era caldo.
Al momento, la sete le si era acquietata, non voleva continuare a procedere verso l’acqua con il rischio di incontrare Vegeta lungo il cammino.
Non era proprio sicuro svegliare un individuo arrogante e cinico già in tenera età.
Si arrampicò sul davanzale, senza interrogarsi sul ritmico contrarsi del morbido tessuto, senza capire perché irradiasse un calore tanto confortevole e accogliente, senza sentire un respiro.
Si accoccolo facendosi posto accanto alla coperta e,con il compagno di pezza sotto braccio, le mani si attanagliarono alla stoffa, tastandola, e pose la faccia a contatto con la superficie piacevolmente tiepida.
Scoprì sotto la scorza morbida, la durezza di una colonna di marmo, ma indifferente si sistemò meglio accanto al guanciale e soffiò esaudita dal tepore sprigionato sotto la lana.
Quel regolare e lento movimento che la cullava accompagnato da soffi tranquilli ricordanti il respiro dei supini si fermò bruscamente.
Si ritrovò con le spalle contro la finestra, vincolata con la parete vetrosa e gelida, e l’alito di Vegeta sul collo.
-Che ci fai qui?- inquisì indignato per averla trovata dolcemente accoccolata accanto a lui
-Chi parla? Chi sei?- miagolò con una gran voglia di pianto, chiaramente all’oscuro che, il suo presunto guanciale era dotato di vita propria in quanto non propriamente un guanciale.
Le mani che le stringevano i polsi come due manette la liberarono con malgarbo.
-Sciocca- mormorò dispotico intuendo l’incoscienza che aveva della sua presenza.
-Ehi!- ribattè con lena recuperando la grinta.
-Io volevo solo andare a prendere dell’acqua, che ci fai ancora alla finestra? Non è più comodo il divano?- continuò a protestare arcuando i gomiti con le mani sui fianchi.
-Se lo trovi così comodo perché non ti accucciavi li?-… avrebbe avuto modo di adattarsi alla sua scontrosità.
Percepì un rumore ovattato, cadenzato, che andò, via, via ad attutirsi sempre più.
Saltò giù dal davanzale interno.
Allungò il braccio, ma non trovò nulla che indicasse la presenza di Vegeta davanti a se.
Cercò sul muro e con la mano, individuò sulla parete la forma e la consistenza dell’ interruttore.
La luce era smorzata, e la lampada prossima al fulminarsi.
Ma era l’unica cosa che ancora vinceva il buio e le permetteva una visione, non certo perfetta, ma approssimativa dell’ambiente circostante.
Distinse nella penombra la forma vaga e accennata di qualcosa che trafficava nel frigo.
Gli arti superiori e la testa di Vegeta erano ficcati dentro l’elettrodomestico ed esploravano i ripiani alla ricerca di commestibili.
Scodinzolava appagato dal cibo che trangugiava.
Turbata e schifata si voltò verso la finestra incontrando solo un buio più omogeneo.
-Mi fai schifo-
La ignorò brillantemente.
Cominciava già ad essere assuefatta a questo frangente della sua personalità.
Lo vide riemergere dai meandri dei ripiani e delle cibarie, sbattere il frigo, non senza scoprire il suo disappunto, e camminare verso di lei asciugandosi con la manica i residui del suo pasto.
Le vennero i brividi al solo pensare che era stata vicino al deposito di milioni di batteri.
-Come ho già puntualizzato prima mi fai schifo- si esibì in una smorfia incisiva tappandosi la bocca a mimare conati di vomito trattenuti a stento.
Senza preavviso Vegeta non deviò la sua traiettoria, ma continuò il suo passo flemmatico senza contenere una certo divertimento disegnato sull’espressione.
La cinse d’assedio bloccandola di nuovo con le spalle al muro riprendendo il castigo dove Goku lo aveva interrotto.
La prima volta che lo aveva visto non le era sembrato così maestoso ed alto, o forse erano le tenebre a conferirgli quell’imponenza, no, forse era lei che si sentiva piccola e inerme davanti alla sua inclemenza e al suo disprezzo.
Chiuse le braccia attorno al suo pupazzo impiegando la forza di una tenaglia, con amore materno, difendendolo.
Le venne bruscamente strappato di mano e gettato qualche metro più in la.
Metodicamente Vegeta le afferrò uno dei codini strattonandolo dispettosamente.
Fece una smorfia, soffocò un guaito occhieggiando con l’occhio schiuso l’oggetto del suo affetto buttato malamente lontano da lei, con una cucitura sull’orecchio che aveva ceduto.
-Non hai capito forse? Devi stare lontana da me! E non rivolgermi mai più la parola! Chiaro!-
Le  ultime frasi
le articolò scandendo bene, con rabbia, ogni sillaba, assicurandosi di farsi intendere nonostante eventuali disagi di comprendonio.
Non smise di trattenerla per i capelli e la fissò intensamente, severamente.
Si sarebbe anche potuta mettere a piangere, umiliarsi invocando il suo perdono, perché era questo che i suoi
occhi neri, biechi, le suggerivano.
Tirando su col naso alzò gli occhi guardandolo sfacciatamente e con il labbro inferiore sporgente in un broncio, e così rimase.
 

***

Aveva sentito rumori velati dal torpore che ancora non si era diradato.
Il trafficare col frigo che occasionalmente sentiva di notte, quando si risvegliavano i gorgogli dello stomaco del piccolo.
Poi allo sbattere dell’anta del congegno era sussultato.
Si era issato a sedere confuso stropicciandosi gli occhi con l’indice e il pollice stimolando la mente a riprendere le normali facoltà.
Accanto alla sua porta era volato un oggetto non identificato atterrando proprio accanto all’entrata.
Poi la voce di Vegeta.
“Non hai capito forse? Devi stare lontana da me!Non devi rivolgermi la parola mai più! Chiaro!”
Le parole gli arrivarono ovattate, man mano che la frase di disegnava nella sua completezza la voce si faceva più vicina e presente, perdendo le sfumature dei sogni.
L’unico individuo a cui il figlio poteva sbraitare nel cuore della notte era lui, ma poi si ricordò di una certa presenza sgradita al principino e infilò le pantofole ai piede.
Barcollante, si avviò a recuperare l’oggetto catapultato al suo ingresso.
Quel moccioso aveva quasi mandato a morire lui e una svariata serie di persone.
Non osava pensare cosa avrebbe potuto fare a quella bambina in virtù dell’inesistenza apparente della sua coscienza.
Si preparò psicologicamente a dividerli in una zuffa, ma quel che trovò fu solo un profondo e intenso contatto di sguardi tra i due litiganti.
Naturalmente minacciosi.
-Che sta succedendo qui?-
Tempestivamente e simultaneamente i due fecero scattare i loro ostili e infantili visi verso di lui, ognuno con una serie di lamentele scritte in faccia.
Il vecchio non trattenne un sussulto di stupore nel notare il sincronismo con cui i bizzosi sguardi gli vennero rivolti da entrambi.
-Allora? Che sta succedendo?- rincarò la dose riprendendosi.
Vegeta chiarì il suo disinteresse per la cosa svincolando le ciocche azzurre della bambina dal suo pugno e con uno sdegnoso scatto del mento nella direzione opposta.
Gli occhi della bambina improvvisamente divennero lucidi, sbattè le dolci palpebre un paio di volte e sporse il necessario il labbro inferiore.
L’espressione supplichevole che ne derivò fu devastante per l’adulto, che si ritrovò indeciso sul da farsi.
-Mi ha preso per i capelli- cantilenò lei indicando accusatoria il colpevole e non dando pace al vecchio con l’insistente enfatizzazione della sua innocenza.
Il grugnito dell’altro non fu propriamente convincente.
Il vecchio ancora non sapeva a chi rivolgere la sua pietà.
Optò per la scelta più saggia, resistendo agli occhi mielati della piccola.
-Andate tutti e due a letto! Vegeta, lei è nostra ospite cerca di comportarti decentemente per una volta, e non si mangia di notte! Klareth perché lo hai disturbato mentre dormiva? Se volevi qualcosa dovevi chiederlo a me, e ora filate-

 

***

-Ma come può essere successo?- guaì sceneggiando la vecchia appollaiata sul cristallo sferico che le fungeva da mezzo, con le mani trai capelli per la disperazione.
-Già, come?- le fece eco il ragazzo che aveva smesso la casacca per vestire di una tuta da combattimento composta da un paio di pantaloni larghi giallo canarino e sformati, stretti in vita da una cinta blu, e una maglietta del medesimo colore che lasciava esposti i pettorali ben allenati e le braccia altrettanto forti.
Il loro colossale ospite si grattava la guancia perplesso osservando alcuni documenti con meticolosità.
Muoveva lo sguardo da una carta all’altra e tutte recavano sul fondo il medesimo marchio impresso al momento del controllo.
-Non c’è niente che non vada nel nostro sistema, è tutto assolutamente regolare, ogni cosa è stata progettata e supervisionata per funzionare con la massima efficienza e zelo, non può esserci stato un inghippo o io ne sarei stato il primo al corrente- disse trafelato con la sua voce arrochita e la faccia nascosta da pile di documenti che avrebbe volentieri arso e ridotto in cenere.
Goku cominciò  a camminare avanti e indietro nervoso come un animale stretto in gabbia in cerca di soluzioni alla sua prigionia.
-Eppure qualcosa deve essere successo, altrimenti non mi avrebbe guardato così…- vi fu una breve pausa in cui Goku ricercò la parola esatta per definire i suoi pensieri – insomma… così- concluse con le braccia spalancate esasperato dalla situazione e incapace di trovare un aggettivo abbastanza compiuto.
-Mi scusi re Yhammer, ma la responsabilità è solo sua; lei è incaricato di accertarsi che certe cose funzionino bene- disse Baba resa indisposta dalla contingenza.
-E infatti non ho alcun documento che mostri problemi, la fonte dell’acqua miracolosa è tutt’ora regolarmente usata senza che gli spiriti ritrovino nella memoria tracce della loro vita passata, è inconcepibile.- si ritrovò a illustrare nuovamente lievemente incollerito.
-Deve essere successo qualcosa proprio perché si trattava di Vegeta- meditò Baba.
-Altrimenti non avrebbe fatto gli strani sogni di cui parlava il vecchio- continuò il pensiero re Yhammer.
Goku si librò in aria raggiungendo la sommità delle cataste cartacee più serio del suo solito cancellando ogni traccia si spensieratezza dalla sua bocca.
-Che sappiano…?- si azzardò ad ipotizzare con voce  fioca e afona esprimendo la peggiore delle ipotesi e insieme la sua preoccupazione.
Entrambi sospirarono afflitti dal problema più che allarmante.
-E come se no potersi spiegare tutto questo?-

ehi nn sn mica allergica ai commenti*-* ( potete anche andarci giù pesante nn vergognatevi nn temete di farvi odiare, siate spietati ma vi prego lasciate un commento cosa posso fare di più se nn inginocchiarmi davanti al pc e supplicarvi*-*)

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** Capitolo 8 ***


La reincarnazione


Sentì l’asfalto mancare sotto i suoi piedi e il suo stomaco le sembrò una fredda e compatta pietra tra le budella.
Guardava l’ultimo piano della costruzione valutando l’esiguità di quella in cui aveva soggiornato per un paio di giorni, incapace di quantificare la gratitudine che provava verso l’individuo che le stava accanto.
Vegeta non era venuto a riaccompagnarla e la sua mancanza non si era fatta sentire.
Il vecchio aveva insistito sfoderando la convincentissima argomentazione che sarebbe stato maleducato non riaccompagnare la bimba che lui stesso aveva trascinato li.
-È lei che si è messa in questo buco- aveva sbottato ed era uscito dalla finestra per non essere costretto a sostenere una conversazione che aveva stabilito fastidiosa ed inutile in partenza.
Sam non si era impuntato oltre, aveva preso la mano di Klareth e l’aveva accompagnata riservandole il silenzio più rabbioso che aveva in corpo.
-È questa casa tua no?-
Klareth cominciò un po’ a pentirsi, accanto a quell’ovvia ostentazione di lusso e di ricchezza, che l’avesse accompagnata fin là.
Quell’enorme palazzo si evidenziava su tutti i minori con superba maestosità e dominava sul paesaggio con la sua stazza, imponendosi sullo sfondo della città.
Sbirciò la sua reazione deglutendo visibilmente, ma lui non diede cenni di insofferenza o stupore; il viso
grinzoso era appena contratto in un piccolo sorriso di docile arrendevolezza e rassegnata malinconia.
Klareth si voltò del tutto e si piegò lievemente in un inchino di rispettosa devozione.
-Grazie di tutto-
Si risollevò vincendo il suo imbarazzo con molta grazia.
-Vuoi entrare?- almeno questo doveva chiederlo, si sarebbe sentita un verve a lasciarlo li inerme sotto quelle
nuvole che strisciavano nel cielo cariche di tempestosa atmosfera, mentre lei spariva nella luce della sala.
Sorrise della sua ingenua gentilezza.
-No ti ringrazio-
Ma Klareth non voleva rinunciare alla sua generosità.
-Sei sicuro, fa freddo, mi hai ospitato la notte scorsa e tra poco piov…-
Non aveva bisogno di sciorinarsi sul perché, la sua silenziosa seraficità era di per se eloquente ed essenziale.
-…è proprio sicuro?-
Un lieve cenno di assenso chiuse la faccenda.
Si inginocchio davanti a lei sistemandole affettuosamente la giacca e dandole un buffetto sulla spalla.
-Stai bene- le augurò.
Cosa le fosse preso non avrebbe saputo dire, nei giorni prima aveva nutrito con la riconoscenza un profondo senso di rispetto per quel restio signore; gli gettò le braccia al collo con un po’ di commozione che le fece sgusciare due lucciconi dagli occhi.
Se li pulì subito con la manica e si staccò dall’abbraccio.
Corse via improvvisamente spaventata dalla sua audacia.

 

***

Con afflizione accorciò le distanze tra lei e l’ultimo piano.
Cominciava a figurarsi mentalmente la scena cruda del suo ritorno; niente lacrime, niente abbracci, niente affetto materno e paterno.
Provò inconsciamente, seppellito sotto la rassegnazione abituale nelle vie periferiche della mente, un lacerante vuoto allo stomaco e al cuore.
Bussò mestamente alla porta soffiando via aria rassegnata.
Sentì il cigolio della serratura che si allentava, il movimento dei cardini.
Non potè fare a meno di impedirsi di guardare e chinò la testa dolente.
Non accadde nulla, si figurò il padre con uno sguardo sorpreso che le chiedeva di entrare e di pulirsi senza troppe cerimonie, invece improvvisamente ebbe delle difficoltà si respirazione.
Il sangue smise di affluire regolarmente al cervello e le ci volle un po’ per assimilare in se il succedersi rapido e impensato degli eventi.
Si vide due magre braccia che la stringevano con una forza insospettabile senza accennare ad allentarsi da lei.
Per un momento il busto compresso contro il suo si discostò e la prima cosa che notò furono un bel paio di occhiaie ancor più vistose di come se le ricordava, un rossore che raggiungeva la punta delle orecchie a sventola e spasimi di un pianto sollevato e gioioso.
Le tenne strette le spalle tra le mani, incredulo, esageratamente contento, scuotendola come per avere prova che fosse davvero lei cercando di rianimarla.
-Tesoro!- chiamò il signor Grey, e riprese ad abbracciarla.
Dal corridoio fece capolino una bella donna corpulenta con gli occhi rossi e un fazzoletto con cui si stava asciugando il mascara sbavato  sul lato dell’occhio.
Appena vide la piccola matassa di capelli azzurri emergere dietro le spalle strette del marito ricollegò subito il colore al oggetto agognato da due giorni, e corse spodestando il consorte e sottoponendo Klareth ad un'abbraccio ancor più energico e disperato.
-Klareth!- urlò.
Le passò le mani per tutto il viso, per tutto il corpicino, riconoscendo in lei la figlia e non un frutto dei nervi sotto pressione.
Le tastò la faccia adorante, trafelata, morta di paura in quegli ultimi giorni, in preda ad un forte impulso di abbracciarla baciarla, di sentire che c’era sotto la sua pelle, di avvertirne la morbida consistenza, il profumo, di provare a se stessa che non era un fantasma.
Continuava a ripetere senza sosta il suo nome come per eludere la possibilità che fosse un miraggio, come se potesse concretizzare la sua teoria quel continuo, imperterrito, passionale –Klareth… Klareth... Klareth-
Talmente era assetata di quell’affetto, che i suoi credevano desse per scontato, che non si fece più di tante domande e abbracciò la madre con egual forza, mescolando le sue lacrime con le sue lasciandosi accarezzare amorevolmente.
-Non farlo mai più Klareth- le urlò tra un singhiozzo e l’altro senza riuscire a mantener fermo il tono di comando –Promettimelo, promettimelo che non lo rifarai-
Sulla soglia del laboratorio apparve Paul, agitato da tutto quell’urlare della moglie dell’ambasciatore, ancora con una chiave inglese in mano e l’altra con cui si massaggiava la nuca essendo andato a sbattere sul ripiano soprastante al pannello che stava riparando per lo spavento era infagottata da un grosso e veggio guanto.
-Klareth?!-

 

***


Il tetto del palazzo più alto era il luogo che in assoluto più lo esaudiva di tutta la metropoli.
Lo liberava delle presenze indiscrete come il vecchio e lasciava che i pensieri defluissero dalla sua mente, offrendogli sotto gli occhi uno spettacolo di minuscole lucciole vaganti per le strade della città, si arrampicavano, quegli esigui albori, sulle facciate dei palazzi strisciavano rari nei quartieri bassi e 
copiosi sulle strade e nel loro insieme erano la bella e cangiante luce della città; una magia perfetta insorta solo di notte.
E mentre si crogiolava in quella sua pace, mentre fuggiva da tutte complicazioni in quel rifugio inarrivabile, in quella sensazione dove niente era importante, in cui la coscienza del mondo svaniva assieme al orticaria che gli aveva provocato avere quella mocciosetta figlia di papà in casa sua, percepì in modo del tutto singolare una vibrazione, un' alterazione dell’immobilità.
Aprì gli occhi e le iridi scattarono con ricercata indifferenza verso la presenza che lo osservava con una luce di interesse quanto mai fastidiosa ed invadente.
-Che cosa vuoi ancora?-
La sconfitta del giorno prima era arrivata al suo orgoglio con il minimo disturbo, forte del fatto che, se avesse continuato, avrebbe certamente sconfitto quell’individuo, e non aveva bisogno di cercare certezze per fondare la sua teoria, gli bastava la sua fierezza a mantenerla stabile come un castello di carta ben fatto.
Non gliene importava come ora lui fosse riuscito a raggiungere il punto massimo della città, stava di fatto che si intrometteva nella sua caduca armonia, e lo infastidiva una presenza tanto irritante in una situazione che esigeva di non ricordare o pensare.
-Niente-
L’ importuno si accovacciò accanto la lui raccogliendo le gambe al petto e stringendole con le braccia, dondolandosi su se stesso come un infante in attesa.
L’inutilità di quell’uomo lo sconvolgeva ad ogni incontro, molto più di quella gente che conduceva la sua insignificante ed inconcludente vita sotto di lui.
-Solo che…- con fermezza avanzò la sua richiesta.
-Combattiamo…ora! Ti va?-
Visto che la sua pace era del tutto compromessa ed iniziava la guerra il bambino si alzò in piedi.
-Mi va soprattutto di ucciderti- ribbattè bellicoso.
Per Goku aveva del comico questa frase pronunciata da Vegeta sotto spoglie infantili.
Ridacchiò sotto i baffi che non aveva.
-Idiota che ci trovi da ridere? Eh?Questa tua allegria te la ficco nel…-
-Andiamo Vegeta, non essere sconveniente- lo interruppe prima che disegnasse una frase molto colorita.
-La tua presenza è sconveniente, perché diamine mi importuni?-
-Io non ti importuno, vorrei solo combattere- continuò accomodante alleggerendo l’atmosfera.
A questo punto i ruoli parevano invertiti; Goku con la sua eterna fanciullezza fronteggiava Veget impuro e feroce fin dalla nascita.Chi era il guerriero e chi il bambino?
Entrambi al contempo e in modi discordi.
Vegeta guardò l’importuno con un composito di beffardo e compatimento.
-Se proprio ci tieni-
Goku si innalzò sopra di lui in tutta la sua altezza e forza distanziandolo e mettendosi all’altro lato del ring.
-Non ti conviene sottovalutarmi, amico-
-Io non sono tuo amico- ringhiò offeso solo dalla posizione che occupava nelle grazie di un individuo tanto disprezzabile.
-Come vuoi, moccioso-
-Non sono un moccioso!- gli urlò.
Sapeva che Vegeta aveva tutte le potenzialità per eguagliarlo e coprirsi del manto d’oro che aveva agognato, doveva dargli un buono sprono per allenarsi, un fermento che lo avrebbe trascinato in queste discipline, che lo avrebbe rinvigorito ogni volta che sofferente sarebbe caduto, in fondo gli avrebbe solo regalato un scopo in più.
Conoscendone l’attitudine, per darglielo aveva bisogno di una minaccia: quella della possibilità che lo spodestassero dal suo immaginario piedistallo fondato sull’orgoglio.
Gli dispiaceva dovergli instillare di nuovo il germe dell’odio, ma era inevitabile.
-Okey piccolo, chi cade dal ring, perde conoscenza, o si arrende, ma dubito che succeda, perderà-
Vegeta si preparò al via regio con una fierezza che gli era congenita serrando i pugni e allargando le gambe.
-Via!-

vivvina: ciau sei un tesoro trovi sempre il tempo di recensirmi ( a differenza di altri) tvukdb di niente è più ke meritato ( oltre al fatto ke era x il tuo compleanno la dedica)

iulo71: la prossima volta x rispondere alle rece che ti lasciano invia una mail e nn invadere lo spazio rece altrimenti è inutile^^ grazie lo stesso

thebest: si in effetti sn una fan super accanita ^^ grazie x il complimento p.s a tutti quelli che leggono e ai pigri: vi scongiuro in ginocchio lasciate una rece misento tanto avvilita...se ha fatto skifo ditemeeeelo nn lasciatemi nel dubbio ditemi di cancellarla 1, 2 volte, mandarla a fuoco e poi far passare sulle ceneri un rullo compressore di 2 tonnellate ma ditemelo cn una rece pelase *_*

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** Capitolo 9 ***


La reincarnazione

Vegeta si buttò di peso verso l’altro lato del ring con le dita tese ad artiglio verso l’avversario.
Pochi centimetri al contatto: l’adrenalina anestetizzava i suoi pensieri, quasi non ne faceva più uso in quelle frazioni di istanti.
Chiuse il pugno con violenza attorno all’aria, atterrando agilmente sulle due gambe, guardandosi intorno.
Percepì un acuto dolore alla collottola che lo piegò in due e si ritrovò sbattuto con il mento a terra e il sangue che gli colava dalle labbra. Sentì un corpo estraneo  in bocca e sputò un grumo umido di saliva e sangue insieme al suo dente da latte davanti.
Si alzò e si pulì il sangue che gli colava dal naso.
Guardò il cielo, teso verso l’alto con ogni fibra di se, senza poter raggiungere il suo nemico.
-Si lo so- Goku lo guardò ridacchiando sottovalutando la sua capacità di soffrirne e volteggiando sopra di lui – è sleale come trucco-
Prima che potesse aggiungere delle scuse vere, Vegeta saltò paurosamente in alto.
Quando gli fu vicino fu in schivabile, si allacciò alla vita di Goku con le gambe, attaccandosi come una cozza ed iniziò a prenderlo a pugni in faccia con tanta energica convinzione che Goku temette di rimanerne ucciso.
Rimase a subirne per qualche secondo, poi lo afferro con le due meni libere per il collo e lo colpì in fronte con una testata.
Vegeta si slacciò da lui e cadde nello spazio buio tra un palazzo e l’altro.
Chi toccava la terra sotto il ring aveva perso.
Si aggrappò all’inferriata di un cancello prima di toccare l’asfalto.
Ricompose il suo equilibrio e si slanciò verso le case più alte, arrampicandosi velocemente tra un balcone e l’altro.
Si vide venire in contro Goku, tagliava l’aria come un missile.
Venne intontito dall’impatto, sentì l’infrangersi delle finestre dietro di lui e la pressione della forza di Goku che lo spingeva.
Sbattè contro il muro inchiodato ed intrappolato, sentendosi impresso nella parete, nell’incavo che lo schianto aveva scavato nel muro, che ricalcava perfettamente il suo corpo.
Spinse via Goku con un calcio, verso la parete opposta, guardando distrattamente  l’appartamento circostante.
Un ambiente sfitto e desertico.
Si spinse con la forza della schiena sanguinante verso Goku, afferrandolo e sbattendo ripetutamente la sua nuca contro il muro, ridendo allucinato .
Gli inflisse un ginocchiata nel ventre e mentre mirava un calcio sotto la cintura Goku lo afferrò per il collo e lo sbatte nella medesima posizione.
-Però…- commentò Goku mentre Vegeta si opponeva scalciando sotto di lui.
Gli diede un pugno in faccia stordendolo un po’ per non doversi sforzare a trattenerlo in quella posizione.
-Sono colpito…- disse sinceramente, con un sorriso tanto autentico che pugnalò i nervi di Vegeta.
-Sei veloce-
Il bambino urlò alla scarica di pestoni che ricevette nel petto.
-Ovviamente sei ancora un bambino- Goku accarezzò il sacchetto dei miracolosi fagioli che portava alla cintola – non resisti ad attacchi come questi-
Aprì il palmo della mano per contenere una bolla abbagliante e calda. Vegeta ne percepì l’immensa energia sintetizzata e chiuse gli occhi, tendendo tutti i muscoli, preparandosi a riceverla.
E la ricevette. In faccia. Con un esplosione che annientò metà della parete dove lo premeva Goku.
Si aspettava che anche la carne della sua faccia si disfacesse lasciando nude le ossa ma questo non avvenne.
Perdeva sangue come se lo sudasse ma il viso era integro abbastanza.
Il liquido rosso e puzzolente ora era vagamente lacrimoso e gli occhi penosamente pesti, sporgenti per il dolore, delusi.
Goku lo abbandonò a terra gemebondo; si era formata sotto la sua nuca una pozza ristagnante.
Non apparteneva a lui l’idea di colpire così pesantemente un promettente ed inesperto guerriero in erba, ma re Yhammer aveva insistito che venisse pestato a dovere per allettarlo maggiormente ad allenarsi.
Essere risorto dall’inferno non avrebbe necessariamente voluto dire smettere di soffrire.
Goku gli aprì le labbra e abbandonò un fagiolo nella sua bocca.
-Vedrai che ti sentirai me…-
Vegeta lo sputò indietro, in faccia a Goku, con un grumo sanguinolento e catarroso.
Sarebbe morto esangue se non avesse preso il fagiolo.
Goku si ripulì il volto e si inginocchiò a recuperare l’oggetto miracoloso, tentando di farglielo passare nella fessura del dente mancante.
Chiuse la bocca a Vegeta col palmo della mano per impedirgli di ributtarlo indietro.
-Ingoia, forza!- disse con un filo di panico in gola.
Si mise a scuotere Vegeta che già appariva piuttosto sfinito, e gli occhi  gli roteavano già all’indietro.
-No! Re Yhammer non ti farà rinascere un'altra volta. No!-
Vegeta già non sentiva e ciò che vedeva era l’ombra dell’ombra della realtà.
Goku percepì il bambino vomitargli in mano, e mentre la bile gli scorreva tra le dita e respingeva il fagiolo nella sua bocca, vide che gli occhi del piccolo erano fissi verso l’alto, lievemente scoloriti dall’agonia, liquidi, ma pieni di una vaga e appannata luce vitale.
Sentì che deglutiva con fatica senza staccare gli occhi da qualcosa dietro di lui.
Si girò, quasi per nulla contento che avesse ingoiato il fagiolo appena notò i due pieni cerchi bianchi al centro del cielo.
Si voltò verso Vegeta, spingendo una mano sul suo petto stretto.
Sentì i botti del cuore velocissimi spingergli il sangue alle vene tese del collo e della fronte.
Strinse gli occhi mentre le ferite si chiudevano senza lasciare sfregi.
Prese a sussultare e a torcersi ad ogni violenta percussione del cuore.
Poi urlò, dell’urlo più agghiacciante e acuto tra tutta la gamma degli urli umani e non umani.
Ogni palpito lo ingigantiva, lo imbruttiva, gli sformava la faccia rendendogli scimmieschi e rudi gli zigomi, i denti si affilavano, il corpo diventava più massiccio e sputava un incolto pelo nero.
Goku lo afferrò sebbene fosse già raddoppiato in dimensioni e lo voltò afferrandogli la coda e tirando.
La protuberanza cedette quando ormai Vegeta aveva dimensioni tali da poter riempire l’appartamento.

La massa del gigantesco gorilla nero si sintetizzo contenuta nell’esile figura di un bambino incosciente.

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** Capitolo 10 ***


La reincarnazione

La coda nell’estremo spasmo sboccò sangue scuro dalla radice recisa ed ebbe gli ultimi fremiti come la coda di una lucertola. Vegeta boccheggiò inerte, ma sveglio.
Era impressionante che non fosse svenuto dal dolore: aveva le palle degli occhi che gli volevano uscire dalle orbite, livide ed iniettate di rosso per il sangue che premeva dietro.
Sembrava molto più morto che vivo, tremava ed il fiato gli volava via in nuvolette rade, e gelide per il freddo.
Goku ebbe compassione di quella giovane vita, così audace, così tanto più forte ed esuberante delle altre, e del Vegeta bimbo, impuro e senza quel candore infantile che è alla natura del fascino dei bambini: era nato impuro perché l’acqua miracolosa del Lete non aveva eliminato fino al fondo le turpitudini dalla memoria.
L’acqua non avrebbe mai potuto cambiar l’anima a Vegeta, ma solo espiarla da tutta la sua vita, da tutte le sue colpe, dalla memoria, dal dolore, dall’amore che aveva portato con sè.
Seppur ingenuo Goku poteva vantar una rara qualità: la finezza di fiuto per l'animo umano, la stessa per cui aveva concesso a molti avversari, per istinto quell'istinto e per la sua bontà, una seconda occasione per passar dalla parte giusta.
Ed ora si accorgeva che della precedente vita di Vegeta era restato il peggio: il rancore cieco, sprofondato in recessi segreti, ma inobliabile.
Goku pensò l’avesse sempre conservato, senza saperlo, contro di lui, ed era più forte di Vegeta sentirlo per chiunque. Ma riapparso Goku, aveva ritrovato la valvola di sfogo originale.
Vegeta tremava di fragilità, gli occhi gli si chiudevano ed aveva già un piede sulla soglia di un sogno, Goku gli toccò la fronte e si accorse che scottava.
Lo sollevò delicatamente mezzo svenuto, lo strinse tra le braccia, sperando di scaldarlo col suo calore umano, e prese il volo.

 
Arrivato nei quartieri di livello più basso, toccato il piano terra del pianeta con il piede, ritornò nella casa del vecchio Sam. Consegnò nelle sue braccia il bambino e la coda.
-Cosa significa?- disse tenendo tra due dita, lontano da sè, l'appendice insanguinata.
-Gliela ho tagliata, per non correre un rischio- fece Goku, vago –l’ho fatto mentre dormiva, s’era addormentato sulla cima d’un palazzo- mentì con poca disinvoltura, mangiandosi le parole e prendendo grandi respiri.
-Che rischi va profetizzando? Cosa cercava di dirmi l’altra sera, lei?- il mal garbo delle parole faceva contrasto con la delicatezza e l’amorevolezza con cui riboccava le coperte al Vegeta bambino e gli sfiorava la fronte con una carezza sfuggente.
Goku l’asciò cadere le domande con uno stupido sorriso di circostanza.
-Ha la febbre- concluse –Comunque la coda ricrescerà. Vedrete; quando ormai avrete smesso di ricordare che l’aveva, bum!, Vegeta se la ritroverà tra le gambe. Ma non si preoccupi: per la coda di un bambino ci vorranno circa un paio di anni-
-Perché senza coda non si corre un rischio? Me lo spieghi-
Goku si passò una mano dietro la nuca, come per chi vuol tirarsi fuori d’impaccio dimostrando di esser genuino e ingenuo, ed anche un po’ fesso.
Poi vedendo che non funzionava e che il vecchio lo osservava con occhi brutali e duri, che pensò somigliassero a quelli del figlioccio, Goku sospirò ed in tono profetico bisbigliò controvoglia all’orecchio di Sam –Senza coda, con la luna piena, non ci saranno problemi-
-Che legame c’è tra uno stupido storpio e una maledetta luna pie…?- ribatté come se avesse
fatto finta di non capire cosa ci fosse tra la coda ed il plenilunio.
-Vegeta non è storpio, fa parte della sua specie aver la coda-
Sam impietrì e tutto il sangue gli defluì dalla faccia… ci fu un silenzio gravoso per entrambi gli uomini e quell'atmosfera fu indifferente solo al sonno di Vegeta. 
-Sapevo che di Sayan non ce ne fossero più…così, col tempo, ho pensato che il ragazzino fosse qualcosa come …un bastardo di qualche specie…un figlio illegittimo…-
-No, temo di no, quella coda è proprio ciò che sembra- disse e suonò come se volesse scusarsi per Vegeta. Poi gli rivolse il suo sorriso più pulito ed ingenuo –Comunque aveva ragione: di
Sayan non ce ne sono più in vita- e fece tintinnar l’aureola…

 
Dodici anni dopo

 Klareth osò passare le dita inguantate nella chioma turchina raschiando il grasso, si toccò anche la bella fronte diafana nell’atto di scostarsi la frangetta unta e sentì che anche sulla radice dei capelli e sulla pelle c’era una velatura di sudore, ma mai avrebbe puzzato tanto come l’odore della benzina che si portava sui vestiti.
Sospirò e striscò con la schiena a terra, stesa sotto il motore dell’astronave, mentre Paul la attrezzava quando gli chiedeva di passarle un saldatore o una pinza. 
Si aiutò con le gambe e quando vide la luce tese le braccia verso l’alto e Paul la sollevò di peso rimettendola in piedi.
Osservando lavorare Paul su tutti quegli attrezzi e quelle macchine, la meccanica, che aveva già aveva per lei un grande ascendente fin da piccola, l’aveva coinvolta e aveva cominciato a far prodigi di intelligenza e maestria con Paul e ad intendersene molto più di lui di macchine.
-Ahi, mi fa male il braccio- si era addormentato con le pinze in mano e si tastava la giuntura con la mano più reattiva. 
Neanche Paul riuscì ad aver la solita delicatezza e si tappò il naso con un fazzoletto -Vatti a fare una doccia, fai proprio schifo- disse voltandosi per non respirarle vicino.
Sotto la fuliggine gli occhi di Klareth mandarono lampi azzurri di rancore
-Si è vero, faccio schifo, ma sarebbe meno avvilente se tu facessi finta di non sentirlo-
-È impossibile starti vicino e far finta di nulla- protestò premendo di più il fazzoletto sul naso –quasi mi fai lacrimare gli occhi-
-E io che l’ho fatto per te, per aiutarti!- fece con una smorfietta di finta delusione –Sii gentile e passami quello straccio, vuoi?-
Paul lo gettò da una debita distanza, facendo finta di soffocarsi con una tosse da avvelenamento.
-Divertente- commentò Klareth con sarcasmo acido e si pulì il viso lasciando qualche macchia che faceva contrasto con il suo volto pieno e pallido come la luna, d’un candore sano e roseo sulle guance –Sei un uomo adulto, comportati bene- 
Decise di andar a farsi una doccia come pregava Paul senza sopportare oltre le sue frecciatine avvelenate, ma si accorse che, di nuovo, la osservava dietro il fazzoletto con quello sguardo curioso e fiero di una madre o una sorella che sta per dirti che sei cresciuta di qualche centimetro.
-Cosa c’è?! Non puzzavo?- fece esasperata.
-Niente, pensavo…sei così diversa dalla piccola Klareth, potreste non aver nulla a che fare l’una
con l’altra se non fosse per i capelli, gli occhi, e il caratterino irritante- scherzò.
Per lui era rimasta la bambina che teneva sulle spalle a sei anni.
-Sono sempre felice di sorprenderti- fece con un sorriso, un mezzo inchino e si buttò un asciugamano sulla spalla uscendo platealmente dal laboratorio: si fermò a controllare che Paul la stesse guardando per voltargli meglio la testa, lasciare la porta aperta e marciare verso il piano di sopra ridacchiando.
Tracciò una scia di impronte di suole di scarponi unti di grasso in direzione del bagno di casa; una volta occhi negli occhi con se stessa nello specchio, vedendo il suo doppio trasandato e antigienico, pensò che il suo aspetto fosse un affronto alla pulizia personale.
Si spogliò e si infilò sotto lo scroscio intenso dell’acqua calda e nel vapore al profumo di fragola pensando a come Paul fosse infantile e poco serio. 
La loro era quel tipo di amicizia sincera e poetica tra uomo e donna, che non può diventare amore, per lei era come aver un fratello che si ama con tutto il cuore di amore solo fraterno e di casi come i loro lei ne conosceva pochi esempi.
Paul in qualche modo nella scala della sua stima occupava un gradino più alto dei suoi genitori; aveva un animo infantile, tenero, ed anche un po’ incline alla tristezza e alla nostalgia. Simile al suo, ma meno saccente ed irritante. 
Si sfregò con molta forza perché con altrettanta ostinazione lo sporco si rifiutava di staccarsi dalla pelle e di cadere nello scarico.
Alla fine, quando le sembrò di esser di nuovo decente, pulita, con i capelli pesanti d’acqua e  goccioline brillanti afferrò l’asciugamano dietro la tenda e se lo avvolse sul corpo. 
Vestita e pulita, tornò da Paul.
-Allora funziona bene? Ci sono problemi?- si sfregò le mani provando quella moderata soddisfazione per i suoi lavori ben eseguiti.
Vide nelle lenti di Paul le immagini dello schermo che fissava e dietro di esse i suoi occhi azzurri, di solito pacifici, ora perplessi.
-C’è qualcosa che non va?- si avvicinò di più al computer e vide su uno schermo, diviso da una rete di linee in tanti quadrati, un puntino lampeggiare in modo irregolare e avvicinarsi ad un punto fermo, più grosso e arancione, al centro dello schermo.
-Cos’è?-
Paul continuò a fissarlo prima di accorgersi della seconda volta che glielo chiedeva e allora additò il punto arancione sfiorando con le dita lo schermo.
-Questo è il nostro pianeta- disse aggrottando la fronte e deglutendo – invece questo punto che lampeggia, quello rosso, si, è un corpo meccanico, una navicella. La vedo sullo schermo perché emana queste onde che la distinguono dai corpi celesti, ma qualcosa le disturba e perciò lampeggia. Non riesco a capire cosa possa essere…-

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=271901