The 101 Canto - Lost in your eyes Sequel

di AnAngelFallenFromGrace
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Dear God ***
Capitolo 2: *** Deaf and Blind (pt1) ***
Capitolo 3: *** Deaf and Blind (pt2) ***
Capitolo 4: *** Pay me attention, I'll pay your soul back ***
Capitolo 5: *** Pay me attention, I'll pay your soul back (pt2) ***
Capitolo 6: *** Choises and Mistakes (pt1) ***
Capitolo 7: *** Choises and Mistakes (pt2) ***
Capitolo 8: *** Love only matters (pt1) ***
Capitolo 9: *** Love only matters (pt2) ***



Capitolo 1
*** Dear God ***


The 101 Canto

Chapter 1

Dear God

Pieces of a new life

23 Giugno 2007

Mi rigiro nel mio letto, ancora e ancora, cercando una posizione comoda. Ma so già che è inutile: quando mi capita di svegliarmi, così, all’improvviso, mi è quasi impossibile rimettermi a dormire.

Sarà il caldo: passare l’estate a Milano non è proprio il massimo, l’afa è terribile, ogni giorno di più. Ho la finestra spalancata, ma sembra che nemmeno un filo d’aria abbia la compiacenza di farmi una visita.

D’altra parte, fin quando non avrò terminato questo stupido esame di maturità non posso nemmeno scapparmene al lago. Per sfuggire al caldo sarei disposta anche ad accontentare

Arianna e andare con lei al mare, sebbene non lo ami proprio alla follia. Ma un bagno non sarebbe affatto male in questo momento.

E invece no: con la solita fortuna, i commissari d’esame hanno estratto la D, cosicchè la cara Elisa Bonizzi sarà una delle ultime maturande a sviscerare la sua tesina. Come poteva essere altrimenti?

Pensare alla maturità mi rimette lo stomaco in subbuglio: la settimana scorsa ho terminato le prove scritte, e tra l’altro ho idea che il mio tema sul Decadentismo non sia stato proprio un’opera d’arte, ma, come si dice, è inutile piangere sul latte versato.

Mi rigiro per l’ennesima volta, a pancia in su. Per evitare di pensare a tutta la roba che devo ancora far entrare a forza - e per forza - nella mia povera testa, concentro la mia attenzione sulle foto e i poster che ho attaccato sul mio soffitto.

Sì, perché la mia stanza non è molto grande, sarà forse qualche metro quadro in meno di quella di Arianna, ma ogni superficie piana è completamente sotterrata da quadri o fotografie. C’è anche qualche disegno, regalatomi da qualche amico, o fatto da Arianna. Gli acquarelli sono la sua ultima passione. Il più bello di tutti rappresenta la Uspensky Cathedral di Helsinki, con le sue guglie dorate e i riflessi granata.

La parete sud, quella sopra la scrivania, è interamente dedicata alla Finlandia: ci ho impiegato quasi un mese per fare un collage con tutte le nostre foto e il risultato è davvero impressionante. Quando mi siedo al computer, ogni tanto sollevo lo sguardo e mi sembra di essere ancora lì, tra le strade illuminate o sulla banchina del porto, a guardare il mare.

La mia foto preferita in assoluto occupa il posto d’onore proprio al centro del muro ed è anche molto più grande delle altre, così da saltare subito agli occhi. Era stata scattata proprio il primo giorno, sull’immensa gradinata davanti alla Cattedrale: c’è tutto il gruppo, Dave, con la sua espressione sempre mezza addormentata, Andrea, con il suo dolcissimo sorriso, Luke, con la sua faccia da schiaffi e gli occhiali da sole, e naturalmente io e Arianna, in piedi alle loro spalle, in una posa decisamente assurda.

Ogni volta che guardo quella foto non posso fare a meno che sorridere, ripetendo a me stessa che prima o poi quella città meravigliosa e i suoi tranquillissimi abitanti dovranno sopportare un nuovo assalto della banda degli Svitati, al gran completo.

Nonostante ciò che mi ero ripromessa, non ho mai dovuto rimettere Arianna su un aereo diretto verso la penisola scandinava.

L’autunno scorso infatti, la mia amica ha trovato un posto come commessa nel nostro negozio di cd preferito, uno dei pochi negozi dove riusciamo a trovare musica davvero interessante. Ricordo come fosse ieri quel venerdì, uno dei primi di Ottobre, quando Arianna tornò a casa superesaltata, e, saltellando per la cucina dove io, invano, stavo tentando di preparare la cena, mi aveva informato della novità: “Visto che sei sempre qui, potresti anche darci una mano in negozio” le aveva proposto il proprietario, un ragazzo vicino ai trenta, che, a mio parere, si è preso anche una bella sbandata per lei. Sebbene lei sembri non farci proprio caso.

Ama quel lavoro: ama sistemare per ore e ore la merce in un nuovo ordine, soprattutto i vinili, adora ancor di più consigliare i clienti, che ogni volta ritornano ringraziandola con il cuore per i suoi consigli.

E poi è venuto il giorno, a Gennaio, quando finalmente ha potuto posare sullo scaffale delle nuove uscite anche il primissimo cd degli ‘Unforgivable sinner’: ritrovare il volto dei nostri migliori amici sulla copertina di album, nei negozi, è ancora uno shock, e nonostante siano passati quasi sei mesi, non sono ancora riuscita ad abituarmici.

La band nel frattempo è tornata a casa e comincia a godere dei primi frutti del suo successo: naturalmente qui in Italia non c’è stato un gran boom, ma in Finlandia e in Germania hanno già venduto moltissime copie.

Non posso nemmeno esprimere a parole quanto sia felice e fiera di loro, benché l’improvvisa notorietà non abbia giovato affatto sul già smisurato ego del loro frontman.

Quando erano divisi, divisi da chilometri e dal mare, sembrava che Arianna e Luke non potessero vivere separati. Da quando vivono nella stessa città, la loro relazione è un continuo tira e molla.

Ogni tanto ritrovo Arianna a parlare da sola davanti allo specchio, o con una tazzina di caffè, imprecando contro ogni essere vivente e respirante e giurando a se stessa – e alla tazzina di caffè – che quella sarà stata l’ultima volta in cui si è fatta fregare.

Naturalmente fino a quando non lo vede flirtare con un’altra ragazza; allora la situazione si ribalta.
Immagino che l’espressione ‘come cane e gatto’ sia il loro motto di vita: d’altra parte conosco davvero poche persone così indissolubilmente legate.

Per quanto mi riguarda, rientrata dal mio folle viaggio a Helsinki, sono tornata a scuola e, nonostante avessi saltato quasi due mesi di lezione, con molte preghiere e tanto, tanto lavoro, sono riuscita a non perdere l’anno. Gli esami di riparazione me li sogno ancora di notte, a volte: si può quasi dire che per me la maturità sia un gioco da ragazzi. Beh, quasi.

Certo adesso ho dalla mia la simpatia di quasi tutti i professori, mentre un anno fa…un anno fa le cose era completamente diverse.

Molte erano le persone che non me l’avrebbero fatta passare liscia volentieri, e se non fosse stato per l’intervento della prof di Matematica, l’unica che credeva realmente nelle mie possibilità e nella mia buona volontà, probabilmente ora non sarei qui a due passi dalla fine.

Così mi hanno dato una seconda chance ed io l’ho colta e sfruttata a pieno, dimostrando che la loro fiducia non era stata mal riposta.

Non dico di essere diventata una studentessa modello – certe abitudini sono dure a morire – ma senza dubbio quest’anno ho studiato come mai nella mia vita. E impegnarmi seriamente in qualcosa mi ha aiutato molto, a distrarmi, a tenere la mente occupata, a decidere cosa fare della mia vita, come una persona adulta.

Ritornate in Italia, Arianna mi ha ospitato a lungo nel suo vecchio appartamento. La situazione non era proprio delle più idilliache: il monolocale era piccolo, il mio letto era una poltrona alquanto scomoda, la convivenza a volte diventava un po’ difficile, soprattutto quando Luke veniva a trovarla dalla Finlandia…

Ma ha fatto tanti sacrifici per me, non ha permesso che tornassi a vivere con quell’uomo.

Non appena compiuti diciotto anni, sono andata a cercarlo, per l’ultima volta. Senza scenate, senza litigi, sono riuscita a dirgli tutto quello che pensavo di lui e a informarlo che sarebbe stata l’ultima volta che mi avrebbe visto. Adesso sono ufficialmente una donna emancipata e sono contenta di esserlo.

Per tutto l’anno io e Arianna abbiamo lavorato duramente e forse il destino ha voluto ricompensarci. Ancora non riusciamo a credere alla fortuna che ci è capitata: verso la fine di Marzo, abbiamo trovato, quasi per caso, un appartamento di modeste dimensioni, ma addirittura con due camerette divise ed un terrazzino davvero delizioso, di cui ci siamo perdutamente innamorate a prima vista. Quando scoprimmo che anche l’affitto era decisamente abbordabile, abbiamo firmato il contratto in un attimo.

E’ anche piuttosto vicino al locale dove lavoriamo entrambe la sera, come cameriere: un posto carino, sempre affollato. Certo, nulla in paragone del vecchio Midnight Wish…

Ma ogni tanto, quando mi sveglio di notte e resto a fissare il soffitto, con gli occhi sbarrati, proprio come adesso, mi ripeto che il famoso Midnight Wish non era davvero reale: faceva parte di quel meraviglioso sogno che è durato fin troppo a lungo, ma che, come tutti i sogni, ha finito per infrangersi in mille minuscoli frammenti, simile ad un vaso di cristallo troppo fragile.

Pensavo che tutti i pezzi fossero stati portati via dal vento molto tempo fa: in realtà, durante quest’anno, mi sono resa conto che le schegge penetrate nel mio cuore non potranno mai uscirne.

Quando di notte mi sveglio e resto a guardare il soffitto, non posso fare a meno di pensare a lui. A dire il vero, ci penso molto più spesso, ma è facile mentire a me stessa quando il mondo intorno a me risuona dei suoi mille rumori e la voce delle persone – anche quella della scorbutica prof di diritto – riesce a carpire nuovamente la mia attenzione e a riportarmi alla realtà.

Quando però sono sola nella mia stanza, nel profondo silenzio interrotto soltanto dallo sporadico motore di una macchina, in lontananza, nella strada deserta oltre la mia finestra, non mi resta nessun appiglio. Nessuna ancora di salvezza che possa salvarmi dal mare di ricordi nel quale inevitabilmente sprofondo ogni volta.

I primi tempi è stato difficile.

Non riuscivo più ad ascoltare la sua musica: tutto riportava alla mia mente i momenti trascorsi insieme, persino un pezzo di pizza, un libro di poesie o un gatto nero. Sentire la sua voce non era nemmeno da prendere in considerazione.

Senza contare poi che ho dovuto eliminare internet dalla mia vita per qualche mese: proprio i primi giorni da quando ero tornata a casa infatti, mentre ero a casa di una mia compagna di scuola dalla quale ero andata ad elemosinare appunti e ad invocare un po’ di aiuto, mi imbattei per caso nelle mie foto in rete. Fu un duro, durissimo colpo.

Ancora ringrazio che gli HIM in Italia siano conosciuti ben poco; in caso contrario un bel mattino, risvegliandomi, avrei probabilmente trovato una schiera di giornalisti fuori dalla mia porta.

Invece ho dovuto convivere soltanto con la curiosità di amici e conoscenti, i quali però, dopo i miei continui e, talvolta, scorbutici silenzi, hanno presto capito che non era il caso di insistere.

A dire il vero mi capita ancora qualche volta di essere fermata nei locali da qualche ragazzina con un heartagram appeso al collo o un tatuaggio in bella vista, che mi domanda, con sguardo trasognato, se abbia davvero conosciuto Ville Valo.

Ma adesso è diverso. Posso anche parlarne. Un poco.

Le ferite, non più fresche, bruciano meno. E la dipendenza da quelle canzoni, che sono state per anni la colonna sonora della mia esistenza, è tornata a farsi sentire.

Quando sono insieme ad Arianna o ad altri amici, riesco anche a cantarle con un sorriso sulle labbra. Per quanto riguarda video e interviste, mi tengo ancora ad una distanza di sicurezza. Ma è più che altro una precauzione: non ho bisogno di foto o filmati per ricordare ogni particolare del suo volto.

Non ho più voluto sapere nulla della sua vita. Mi illudo che sia un capitolo chiuso, che le nostre strade si siano definitivamente divise, che i nostri mondi siano diventati estranei l’uno all’altro. Io sono la fan, lui il mio cantante preferito. Fine della storia.

Dall’alto del suo posticino sopra l’armadio più alto, seminascosta dalla polvere, una grande scatola nera mi ricorda che le cose non stanno esattamente in questo modo. In quella scatola ho sepolto tutti i poster, tutte le maglie, la mia tazza preferita, tutto ciò che avevo della mia vecchia vita, legato agli HIM.

Ma soprattutto in quella scatola sono nascosti tutti i biglietti scritti di suo pugno, quei semplici pezzi di carta, macchiati della sua illeggibile calligrafia, che ho portato con me dalla Finlandia per uno stupido riflesso infantile e masochista, e dei quali non sono ancora riuscita a liberarmi.

Non apro quella scatola da quasi due mesi ormai; la sua presenza è tuttavia costante e talvolta quasi opprimente in quella stanza.

C’è poi un altro piccolo particolare che gioca contro di me e i miei patetici tentativi di auto-convincimento: la rosa che ho tatuata sul mio piede destro, con al centro il simbolo della sua band. La rosa che lui ha disegnato per me, contornata dalle parole di una sua canzone: ‘I’ll be the thorns on every rose, you’ve been sent by hope’

Sollevo la gamba nuda e un sorriso triste si dipinge sulle mie labbra, quasi inconsapevolmente, non appena i miei occhi ormai abituati all’oscurità si posano sul ben noto tatuaggio. Oh, come hai ragione Ville, penso ironicamente: le spine nascoste nell’amore che mi hai offerto non hanno ancora cessato di lacerare la mia carne.

Mi lascio trasportare dall’onda dei ricordi, ripensando a quel giorno. E’ strano pensare a quali scherzi possa giocare la memoria: quando sei davanti ad una cattedra non riesci a riportare alla mente quello stupido articolo tal dei tali nemmeno piangendo in greco, turco o macedone; eppure sei convinta di averlo ripetuto almeno un centinaio di volte la sera prima. E anche mentre intingevi i biscotti nel tuo caffelatte.

Quando si tratta però dei momenti trascorsi insieme a lui, invece, sembra quasi un viaggio nel tempo: ogni particolare, ogni parola, ogni gesto è perfettamente chiaro e limpido. Immutato.

“Adesso ci sarà sempre qualcosa che ti appartiene intimamente a ricordarti di me. Non ne sei spaventata? E se col passare del tempo inizierai ad odiarmi? E se un giorno non vorrai più vedermi? Se dovesse succedere, cosa farai?

“La rosa è passione, nel bene e nel male. Se un giorno le spine diventeranno più forti e feriranno la mia carne, non spegneranno comunque la passione. L’odio è fuoco, e non è poi tanto distante dall’amore. Per quanto potrò mai odiarti o detestarti, sarai sempre una parte importante della mia vita e non ne sarò mai pentita”

Sfiorandomi con le dita la caviglia, seguendo il contorno dello stelo fitto di spine, mi accorgo che in fondo, sebbene abbia deciso di non vederlo più, sebbene mi abbia fatto del male e mi abbia ferito proprio quando avevo abbandonato ogni difesa, non sono mai riuscita ad odiarlo. La passione però, quella continua a pulsare ancora oggi nelle mie vene, quasi fosse la linfa che tiene in vita una rosa che non potrà mai appassire.

Non so se anche questo sia un proverbio, o semplicemente sia una delle mie frasi inventate, ma penso che i ricordi siano come le ciliegie: uno richiama inevitabilmente gli altri, in una catena senza fine. E quando cedi al primo, è la fine.

Ti amo

Perché, anche nel ricordo, quelle parole sono tanto dolci? Così forti e delicate insieme, come la mano di un amante. Così seducenti, così ammalianti, da sembrare vere?

Quando le sue parole tornano a riempire le mie orecchie, non posso fare a meno di chiedermi se la mia scelta sia stata quella giusta e di desiderare di tornare indietro, laggiù dove ho lasciato il mio cuore e dove vorrei essere in ogni momento.

Un altro sospiro fugge dalla mia bocca, mentre sollevo il capo, appoggiandolo contro la mano, per poter sbirciare l’orologio sul mio comodino.

Sono passate da poco le quattro, ma è inutile restare in questo letto; oramai il sonno è andato, non c’è più speranza di ricadere tra le braccia di Morfeo.

Mi alzo lentamente e do uno sguardo alla mia scrivania; cerco di appigliarmi all’unica preoccupazione abbastanza forte da scacciare, almeno momentaneamente, memorie decisamente troppo vivide per essere tollerate: la mia tesina.

Sto per accendere la piccola ab ajoure, e sedermi sulla mia sedia con le rotelle, ma poi ci ripenso: quella stanza ha un effetto troppo psichedelico sui miei nervi scoperti.

Prendo il mio computer e mi dirigo in cucina, facendo il minor rumore possibile. Passando davanti alla sua porta, do un’occhiata nella camera di Arianna: la rossa dorme profondamente, i piedi fuori dal letto, la testa appoggiato contro il materasso, qualche centimetro più sotto del cuscino. La osservo per qualche istante, sollevando un sopracciglio: un giorno o l’altro riuscirò a carpire il suo segreto.

Quando arrivo in cucina e accendo la luce, scopro che c’è una sorpresa ad aspettarmi.

Proprio al centro del tavolo c’è un gigantesco biglietto e accanto un altro meraviglioso acquarello: il disegno è stato copiato da una fotografia scattata lo scorso Settembre sul lago e rappresenta la sottoscritta, come al solito pallidissima, con un costume da bagno nero, un buffo cappello di paglia e un paio di occhiali da sole verde mela, dalle lenti spropositate.

Non riesco a trattenere una piccola risata, mentre ricordo ad alta voce alla mia cucina quanto odi quel cappello. In generale io odio tutti i cappelli.

Sistemo il disegno sulla credenza, in modo che sia ben visibile, e lascio sul tavolo un po’ di spazio per Frankie, il mio portatile.

Mentre aspetto che Frankie, con i suoi tempi, ricarichi i milioni di dati che lo ho costretto ha memorizzare, stringo ancora tra le mani il mio biglietto.

“Buon diciannovesimo compleanno Elisa”

A lonely road, crossed another cold state line
Miles away from those I love purpose hard to find
While I recall all the words you spoke to me
Can't help but wish that I was there
Back where I'd love to be, oh yeah

***

La mia Helsinki è sempre bellissima, di notte come di giorno. E’ l’unica in grado di confortarmi in ogni circostanza, qualunque sia la mia pena.

Ora, decidere se le quattro del mattino di un giorno di fine Giugno, con tutta questa luce, siano da considerarsi notte o giorno, è un altro paio di maniche.

Ma in fondo non mi importa: continuo a camminare, senza compagnia, senza una vera meta, soltanto per il gusto di farlo.

Questo è decisamente il momento che preferisco per errare da solo, perdendomi nei miei pensieri. I pub hanno chiuso da forse un’ora e i negozi non sono ancora aperti. Non c’è nessuno per strada, la città è completamente addormentata e il silenzio culla ogni mio passo, dolcemente.

Arrivo fino alla baia meridionale, vicino al porto: i miei piedi ormai, quasi inconsapevolmente, seguono sempre lo stesso percorso. Scendo lungo la scala di legno e roccia e mi accoccolo sugli scogli, a contemplare il sole che sorge oltre la linea dell’orizzonte.

Sono stato via solo qualche settimana, per due o tre festival in Germania, ma la mia Helsinki mi è mancata tremendamente.

Forse Migè non parla proprio a vanvera quando, prendendomi in giro, mi fa notare che matrimoni tra esseri umani e città non sono ancora stati permessi dalla legge, come il matrimonio tra gay.

Ride tanto, ma sono sicuro che anche lui, ogni volta che partiamo per qualche data all’estero, non desideri alto che tornare a casa.

Soprattutto adesso che ad aspettarlo impaziente c’è Vedrana, la sua nuova compagna. I due stanno insieme da neanche un anno, ma sono una coppia talmente affiatata che sono sicuro che è soltanto questione di tempo prima che Mikko si decida a farle, finalmente, la proposta.

Proprio ieri l’ho beccato mentre teneva troppo a lungo lo sguardo fisso sulla vetrina di una gioielleria: quando gli ho domandato, con un sorriso sardonico, se fosse interessato a qualcosa in particolare, lui è diventato tutto rosso e si è allontanato il più velocemente possibile, borbottando frasi incomprensibili.

E così adesso Migè ha Vedrana, Lindzy ha Manna e la piccola Olivia, che si fa ogni giorno che passa più bella e intelligente, Burton ha Luisa e da pochi mesi anche Heartta, la loro dolcissima figlia.

Persino Gas ha abbandonato il Club degli Scapoli, iniziando ad uscire con una strana ragazza dai capelli color del miele, un sorriso immenso di denti bianchissimi e gli occhi forse un po’ troppo vicini, che rendono il suo viso estremamente buffo, ma allo stesso tempo inguaribilmente simpatico.

“Ora è il tuo turno, Ville!” continuano a ripetere, con ammiccamenti vari ogni volta che, per un motivo o per l’altro, mi ritrovo a parlare con una bella donna.

Ma non ho nessuna intenzione di tradire la mia Helsinki: ho messo una pietra sopra il mondo femminile, definitivamente.

Una volta ero un uomo pieno d’amore e cercavo disperatamente la persona giusta a cui donarlo: ho tentato e ritentato, affidando sempre il mio cuore nelle mani della persona sbagliata, ricevendolo indietro sempre più a pezzi, subendo una delusione dopo l’altra, sentendomi sempre più debole ad ogni pugnalata infertami intenzionalmente o senza volerlo.

Poi, quando finalmente ho trovato la persona giusta, ho rovinato tutto per un errore: sono stato io a spezzare il suo cuore e l’ho perduta per sempre.

Non potrò tornare ad amare altra donna, perché ciò che restava del mio cuore è rimasto con lei. Benché lei non lo sappia, benché lei non abbia voluto ascoltare.

Non ho bisogno di voltare il busto e sollevare il capo per vedere la collina verde che sovrasta la baia, alle mie spalle. Essa è incisa nella mia mente, come anche quella notte di Maggio, più di un anno fa.

Su quella collina, tra gli alberi ancora bagnati di pioggia, è finito tutto.

Se chiudo gli occhi, posso ascoltare distintamente le sue ultime parole e rivedere il suo viso contrito dalla sofferenza, così come quel malinconico e sarcastico sorriso, che mi aveva ferito più di mille lacrime.

“Ciò che c’è stato fra noi è finito. Finito, Ville, capisci? Per sempre”

“ Esprimi un desiderio

Oh sì, io lo espressi il mio desiderio Elisa, ma questo non si è avverato. Quel giorno non ti sei più voltata indietro, te ne sei andata via. Non era certo questo ciò che bramavo.

Da quella sera non l’ho più rivista.

Di certo non mi diedi per vinto: andai alla sua camera d’albergo, il giorno successivo e iniziai a bussare incessantemente alla sua porta, gridando disperatamente il suo nome.

Dopo quelle che mi erano sembrate ore, la porta finalmente si aprì, ma la persona che uscì nel corridoio non era la stessa che stavo aspettando. Arianna, la sua migliore amica, cercò di convincermi in tutti i modi ad andarmene, a lasciarla da sola, dicendomi che se davvero l’amavo come dicevo, dovevo rispettare la sua decisione.

Ho pianto a lungo davanti a quella porta chiusa, non ascoltando la voce della rossa, volendo sentire anche quelle stesse parole così dolorose, ma almeno dalla sua bocca.

Alla fine mi lasciai persuadere e tornai a casa mia. Passai tutta la notte e il giorno seguente appollaiato sulla finestra della mia torre, senza mangiare né bere, fumando non so quanti pacchetti di sigarette e guardando il mare.

La sera infine, capii che non avrei mai potuto mantenere la promessa. Presi la mia giacca e salii su un taxi diretto al Midnight Wish, il locale dove lavorava. Arrivai trafelato a destinazione, per poi scoprire dal proprietario che la mia Elisa si era licenziata il pomeriggio stesso e probabilmente era già in volo verso casa.

Correre all’aeroporto fu tutto in utile: quando arrivai a ?, il suo aereo era già partito.

Quindi era vero? Se ne era andata per sempre, fuggendo da me, risolvendosi di abbandonare la sua nuova vita, i suoi amici, tutto pur di non incrociare più la sua strada con la mia.

Fermo in quell’aeroporto, guardando il tabellone con gli annunci di aerei che non avrei mai preso, compresi di averla persa per sempre e che non era giusto provare a rincorrerla.

I primi tempi furono difficili.

La stampa mi continuava a tormentare, bloccandomi alla prima occasione per estorcermi informazioni sulla misteriosa ragazza.

Era inutile dire anche la verità: se avessi detto che non sapevo più nulla di lei, che lei non ne voleva più sapere nulla di me, di certo non mi avrebbero creduto.

Con il passare dei mesi però, senza più alcuno scoop di cui nutrirsi, alla fine hanno lasciato perdere. Soltanto ogni tanto, quando qualche rivista si trova a corto di informazioni succulente, qualche giornalista riesuma la vecchia notizia, chiedendosi che fine abbia fatto l’oscura meteora ‘dalla pelle pallida e i capelli corvini’.

Per quanto mi riguarda, per molto tempo non ho più rilasciato interviste. Ho costretto la band ha cancellare tutte le date previste, che per fortuna erano davvero poche, non ho più scritto canzoni, ho iniziato ad uscire di casa sempre più raramente, fin quasi a diventare l’ombra di me stesso.

Sono ripiombato in quel circolo vizioso che è l’alcol, dal quale ero riuscito così faticosamente ad uscire nei mesi precedenti, in gran parte grazie a lei, alla voglia di vivere che riusciva a trasmettermi con un solo e semplice sorriso.

Ormai anche la mia salute fisica aveva toccato livelli inammissibili. Mi stavo lasciando andare lentamente, ma non ero sicuro che me ne importasse qualcosa.

Poi, è bastato un piccolo gesto per cambiare tutto.

Una sera, mentre ero ubriaco e completamente fuori di me, lanciai contro il muro il fermaglio a forma di farfalla che un tempo le era appartenuto, uno dei pochissimi ricordi tangibili del suo passaggio nella mia vita. Quando il giorno dopo sono tornato in possesso delle mie facoltà, ho ritrovato il fragile oggetto, distrutto. Ho versato lacrime amare, rendendomi conto dell’uomo che ero diventato, una larva capace soltanto di lasciare sgretolare tutto fra le sue stesse dita, impotente.

Mentre cercavo disperatamente, nel guazzabuglio che era diventato la mia casa, un qualunque mezzo per riparare il fermaglio, ritrovai per caso un foglio sgualcito dal tempo e dall’abbandono.

Sbigottito, riscoprii il testo di quella canzone che avevo scritto per lei, insieme a lei.

E tornai quasi inconsapevolmente a sorridere.

Fu come una lampadina, accesa dal destino o chi per esso.

In quel momento mi resi conto che l’unico modo per sopravvivere sarebbe stato continuare a scrivere canzoni e a cantarle, sempre per lei. Illudendomi forse che un giorno sarebbe tornata da me, grazie a quelle stesse canzoni che l’avevano avvicinata la prima volta.

Lei non è tornata, ma io, almeno, ho ricominciato a vivere nel suo ricordo.

Lentamente, mi sono risollevato dal baratro in cui ero sprofondato e ho ripreso le redini della mia vecchia esistenza. Con qualche miglioramento.

Alla fine ho accettato l’aiuto e i consigli di amici e parenti, e mi sono disintossicato completamente. Sono sobrio esattamente da quattro mesi e diciassette giorni, e sono contento di esserlo.

Ogni tanto, quando mi ritrovo in un pub con i ragazzi, o alle feste dopo i concerti, mi piacerebbe cedere alla tentazione. Ma la memoria del male sopportato è un buon deterrente.

Senza contare che quando sono ubriaco non riesco a ricordare ogni particolare del suo volto, ogni smorfia o l’intonazione della sua voce. Ed è qualcosa che non voglio mai dimenticare.

Ho ripreso in mano anche la mia chitarra e ricominciato a scrivere, mettendo a posto un po’ di idee che frullavano da tempo nella mia testa.

Il nuovo album è pronto: gli altri membri della band ne sono rimasti entusiasti; è forse un po’ più cupo degli altri, ma, come dice Gas, finalmente sembriamo un vero gruppo metal.

Abbiamo completato le registrazioni in tempi brevissimi e abbiamo stabilito il rilascio per Settembre.

Ho in mente tuttavia di presentare qualche brano al Ruisrock, tra due settimane o poco più.

Mentre guardo i riflessi dorati del sole sulle acque tranquille, ripenso a quanto Elisa e tutto ciò che mi ha insegnato abbiano influenzato questo album, anche tralasciando le due canzoni che ho scritto su di lei e rivolgendomi a lei sola.

Scegliere il titolo, per una volta, non è stato affatto complesso: Venus Doom. Per la mia dea, la mia Venere.

Getto un sasso nel mare e mi domando quale mai potrebbe essere il suo giudizio. Oh cosa darei per sapere cosa ne pensa, quale effetto suscitano quelle parole nel suo cuore!

Ma da lei, di certo, non lo potrò mai sapere.

Quando è partita ho provato a lungo a chiamarla, a lasciare messaggi nella sua segreteria, sono arrivato addirittura a mandarle degli sms. Lei non ha mai risposto. Credo che abbia anche cambiato numero adesso.

Sono rimasto in contatto con Arianna e con altri dei loro amici italiani. Ci sentiamo spesso, io e la rossa. E’ lei a raccontarmi come prosegua la loro vita, tra alti e bassi.

Non mi sono perso nulla, nessuna novità, dalla riammissione a scuola con ottimi risultati, all’emancipazione dal padre, i lavori temporanei, il corso avanzato di chitarra, il nuovo appartamento. Ho seguito il suo percorso di riavvicinamento alla nostra musica. Ho gioito insieme ad Arianna quando il sorriso è tornato a risplendere sul suo volto.

Mi ha raccontato un sacco di piccoli avvenimenti ed io, ogni volta, ascolto avidamente, per timore di non cogliere qualche cambiamento. Anche gli eventi che appaiono insignificanti riescono a riempire la mia vita.

Alla fine di ogni conversazione arrivano poi le due domande che ho sempre paura di porle. E’ passato più di un anno da quando Elisa mi ha lasciato, e da allora le risposte sono continuamente le medesime. Eppure, l’angoscia e la speranza non mi abbandonano mai.

Anche ieri pomeriggio, quando ho chiamato Arianna, la nostra scenetta si è ripetuta immutata.

“E’ davvero intrattabile” mi ha confidato in un sospiro “E sta uscendo di testa oltretutto: questa mattina ha iniziato ad urlare in giro per casa che Mussolini doveva ringraziare di essere già morto, perché se avesse potuto mettergli le mani addosso lei non se la sarebbe cavata con una fucilata. Sei fortunato a non essere qui”

Ho riso: ormai sono diventato un vero esperto del primo dopoguerra e di tutte le dittature che sono state instaurate in Europa negli anni ’30. Ho cercato così di dissimulare la tempesta che quella piccola frase aveva scatenato nel mio petto.

Ma Arianna, che non è affatto stupida, ha compreso subito la sua gaffe: “Mi dispiace, io non intendevo…”

“Non ti preoccupare” le ho detto dolcemente, frenando i suoi sensi di colpa “So cosa intendevi”

“Scusami comunque” ha aggiunto, realmente dispiaciuta.

Poi il silenzio è caduto sulla conversazione. Le parole premevano nella mia gola, contro le mie labbra, ma non riuscivo a lasciarle uscire.

La rossa ha atteso ancora qualche istante, poi, abituata, ha risposto con tenerezza alla mia domanda silenziosa.

“No Ville, non c’è nessun’altro”

Non ho potuto fare a meno di sospirare di sollievo, pentendomene subito dopo amaramente. Ciò che desidero più al mondo è che lei sia felice, e se questo significa doverla sapere con un altro ragazzo, sono disposto a sopportarlo. Egoisticamente però, e forse anche presuntuosamente, non so smettere di ripetermi che nessun’altro potrà mai amarla nel modo in cui io la amo.

“Oh” ho bisbigliato, inghiottendo a fatica “E…”

Ancora una volta mi ha anticipato, con un tono, però, più triste: “E no, non ha parlato di te”

“Meglio” ho risposto, non so neanche per quale motivo.

“Scusa Ville, devo riattaccare: è appena arrivato il suo autobus” mi informa, e nella sua voce il timore di essere scoperta.

“Certo vai” mi sono affrettato a replicare “Stalle vicino anche da parte mia. Soprattutto domani”

“Lo farò. Un bacio, Ville”

“Un bacio”

Tiro fuori il portafogli dalla tasca dei jeans e ne estraggo una fotografia un po’ sgualcita: sorrido, mentre i miei occhi si posano sull’immagine scattata in un freddissimo giorno di Maggio, presso una pista sciistica qualche miglia a nord di Helsinki. In primo piano c’è la mia piccola Elisa, stretta nel suo cappotto nero, con un’espressione a metà tra il tenero e l’imbronciato, probabilmente a causa di quel ridicolo cappello che l’avevo costretta ad indossare. Alle sue spalle, con il medesimo berretto e le braccia avvolte intorno alla sua vita, ci sono io. Ricordo distintamente le scene per fare quella fotografia: Elisa continuava a ripetere di non volerla scattare e di essere la persona meno fotogenica della terra.

Scruto il pezzo di carta lucida con occhio critico: a me non sembra proprio, è bellissima, come sempre, o forse mi sembra ancora più bella, perché la vedo lì, tra le mie braccia. Solo mia.

Questa è l’unica fotografia che ho di lei. Certo, ci sono quelle degli articoli di giornale, ma non è la stessa cosa. Quelle foto sono state rubate, e sono state sotto gli occhi di tutti per così tanto tempo che adesso mi sembrano quasi violate.

Vorrei poterla vedere adesso. Vedere se è cambiata o se è sempre la stessa. Vedere se quelle adorabili fossette incorniciano ancora il suo viso ogni volta che sorride. Vedere se i suoi occhi conservano ancora i riflessi violacei di un mare di petrolio.

Ma soprattutto continuo a desiderare che un giorno, anche lontano, lei voglia ascoltare la verità su quella dannata notte che ci ha separato per sempre.

Le ho scritto un mucchio di lettere. Mai spedite naturalmente.

Questa notte le manderò la mia prima lettera. Affidandola alle onde del mio fedele amico, il mare.

Mi alzo in piedi, con in mano la bottiglia di vetro che ho portato con me. Nella bottiglia c’è uno dei tanti messaggi che ho scritto, insieme ad un biglietto.

Prima di scagliarla il più lontano possibile, alzo gli occhi al cielo, e quasi mi pare di scorgere una luce più intensa, oltre le nuvole lontane. Uno spicchio di cielo un po’ più azzurro.

Non sono cresciuto in una famiglia credente e non mai confidato nell’esistenza di un dio.

Ma se mi fossi sbagliato, se tu, Dio, esisti davvero, c’è soltanto una cosa che ti chiedo:

proteggila, e veglia sempre su di lei, al mio posto. Falla sentire sicura e difesa, stretta in un abbraccio, adesso che io sono impotente, adesso che sono così lontano.

Prendo un poco di rincorsa e lancio la bottiglia, guardandola perdersi tra i flutti scuri.

“Happy ninteenth birthday, my sweet wildcat”

There's nothing here for me on this barren road
There's no one here while the city sleeps
and all the shops are closed
Can't help but think of the times I've had with you
Pictures and some memories will have to help me through, oh yeah

Dear God the only thing I ask of you is
to hold her when I'm not around
when I'm much too far away

***

Senza staccare gli occhi dallo schermo di Frankie, porto la tazza alle labbra; mi accorgo però che la mia seconda migliore amica ha deciso di tradirmi: la mia tazza sbeccata, quella di Jack, è completamente e irrimediabilmente vuota.

Sbuffo sonoramente, posandola sul tavolo con un tonfo sordo.

Odio quando succede.

Mi alzo dalla sedia, ripetendo mentalmente i pilastro fondamentali dell’economia dell’Italia neofascista, e mi avvicino al termos. Troppo impegnata a snocciolare senza tregua date ed eventi, non mi rendo conto che la caraffa è fin troppo leggera.

Quasi mi escono gli occhi dalle orbite quando, tentando di versare il magico liquido nero, mi ritrovo a capovolgere il recipiente a testa in giù, senza che ne esca una sola, misera goccia.

Il mio Caffè dello Studente è esaurito. Finito. Caput.

Guardo Frankie e i sogni di gloria del regime fascista decadono in un colpo solo. No coffee, no party.

Il sole è ormai sorto da un pezzo oltre i tetti delle case e filtra indisturbato nella stanza attraverso la finestra aperta: posso chiudere la mia sessione notturna di studio senza rimpianti e cominciare una nuova giornata con una bella tazza di caffèlatte.

Sì, sono decisamente diventata una caffeina-dipendente: già mi piaceva prima, adesso che ho iniziato anche a studiare seriamente non posso più farne a meno. In compenso è da un sacco di tempo che non tocco più una goccia d’alcol.

A giudicare dai rumori che fa il mio stomaco, anche ad un bel piatto di biscotti integrali non direi di no.

Esco qualche istante sul terrazzo, per prendere una boccata d’aria e salutare le mie piante – o meglio, le piante di Arianna -.

Dopo essermi assicurata una decina di volte di aver salvato le modifiche fatte al file della tesina, do la buonanotte a Frankie e spengo anche l’mp3, che nelle ultime quattro ore non ha fatto altro che ripropormi il cd di The poison a ripetizione. Per qualche strano meccanismo chimico del mio cervello, Bullet For My Valentine ed Economia vanno d’accordo alla perfezione. Un po’ come Storia e Sonata Arctica. Se qualcuno volesse chiedermene un giorno la spiegazione, non saprei proprio cosa dire.

Io e la musica abbiamo uno strano, stranissimo rapporto. Penso che sia molto più di una droga per me. Non potrei vivere senza.

La musica è stata per anni il mio unico porto sicuro, in una realtà che non riuscivo a sopportare. Grazie alla musica ho conosciuto le persone più importanti della mia vita.

La musica mi ha aiutato a tirare avanti, in ogni momento.

E adesso ho scoperto che, a seconda dei gruppi che ascolto, anche le mie abilità di studio possono essere notevolmente migliorate. Cosa posso chiedere di più?

Per quanto riguarda le canzoni, ho anche qualche mania un po’ ossessiva e preoccupante, nonché scomoda per gli individui che mi stanno intorno: mi capita spesso infatti che una sola canzone diventi il mio chiodo fisso per giorni interi, talvolta anche per una settimana e forse più. E per tutto il tempo non faccio altro che canticchiare e ascoltare quella canzone, o a scribacchiarne il testo su ogni superficie piana disponibile. Proprio quando le altre persone stanno per perdere la testa e ricercano esasperate il numero di una clinica psichiatrica nell’elenco delle pagine bianche, ecco che, puff, l’ossessione sparisce. E la canzone finisce, insieme alle altre, sulla mia playlist chilometrica. Mantenendo comunque un posto speciale nel mio cuore.

Questa volta, però, ho superato me stessa.

Mentre aspetto che il pentolino del latte si scaldi, non prima di essermi assicurata che la porta della camera di Arianna sia ben chiusa, faccio partire lo stereo, play e subito dopo repeat. Traccia numero 10.

Il cd è sempre lo stesso da un mese, non c’è pericolo di sbagliare. Da quando Arianna mi ha portato a casa l’ultimo cd degli Avenged Sevenfold, il mio amore per la band californiana è cresciuto a dismisura. Ho imparato in neanche una settimana tutti i testi, ho anche tentato di emulare Synister Gates con la mia chitarra. Tralasciando i miei risultati discutibili, ‘Avenged Sevenfold’ è diventato un interessante diversivo per staccare dalle ore di studio.

Poi, un mattino, è scattata la scintilla. E’ esattamente da diciannove giorni e forse un’ora che, appena sono da sola, le note di Dear God invadono le mie orecchie, la mia testa e il mio cuore.

Cullando dolcemente la testa e battendo a terra il piede, a tempo con la musica, verso il latte nella tazza e, recuperati il sacchetto di biscotti dalla credenza, mi lascio cadere mollemente sulla sedia.

Giro svogliatamente il cucchiaino, avanti e indietro, ma ormai ho perso la cognizione di ogni mio gesto, troppo immersa ad ascoltare con attenzione le parole, once again.

We all need the person who can be true to you
I left her when I found her
And now I wish I'd stayed

Ritrovare in una canzone il riflesso della tua vita è una delle esperienze più catartiche che abbia mai provato. Per questo, ogni volta che mi imbatto in una canzone di questo genere, non riesco a smettere di ascoltarla.

E’ un modo, forse un po’ infantile, per affrontare il problema da un'altra angolatura.

Se qualcuno ascoltasse tutte le bugie che ho rifilato ai miei amici e alla parte più razionale di me stessa, potrebbe pensare che questa canzone abbia ben poco a che fare con la mia vita.

Ma forse nessuno è tanto stolto da lasciarsi ingannare.

Ho paura. Ho una paura tremenda di aver trovato l’unica persona giusta per me e di essermela lasciata sfuggire, come sabbia tra le dita.

Voler cambiare il passato è un desiderio inutile, quanto doloroso. I rimpianti non servono a nulla, se non ha rovinare il presente.

Senza quasi accorgermene, ho abbandonato il cucchiaino nella tazza, mentre quelle frasi tanto vere si sono fatte strada dal mio cuore alle mie labbra.

Some search, never finding a way
Before long, they waste away”

Il grande amore si ritrova sulle pagine dei libri, ma nella vita reale non è altrettanto semplice: c’è chi, cinico, si convince che non esista proprio, per mettersi l’anima in pace. C’è chi invece, inguaribile romantico, continua la sua ricerca senza mai darsi per vinto.

Ma la maggior parte delle ricerche non porta ad alcun risultato, se non a qualche falsa pista: prima ancora che un sentimento sincero possa nascere, tutto è finito.

“I found you, something told me to stay
I gave in, to selfish ways”

Prima ancora che potessi rendermene conto, il destino ha tracciato la mia strada. Mi sono innamorata. Innamorata davvero. E in qualche modo ho sentito che la mia ricerca era finita.

Quando mi ha spezzato il cuore, sono fuggita via, coprendo con il pianto e mille ragioni quella voce che mi gridava di restare.

Nonostante i suoi tentativi di parlarmi e spiegarmi cosa fosse successo, non ho mai voluto ascoltare. Mi sono convinta di non averne bisogno. Orgogliosa, ero convinta di sapere tutto.

Egoista, ho scelto la soluzione più facile. E ho rinunciato.


“And how I miss someone to hold
when hope begins to fade...”



Quando alzo gli occhi umidi dalla mia tazza, mi accorgo che una silenziosa spettatrice mi osserva concentrata, dal muro opposto. Un’espressione piena di tristezza e comprensione deforma i tratti dolci del suo viso.

Sussulto e, portando rapidamente una mano agli occhi per controllare che le lacrime non abbiano trovato una via di fuga, le regalo il mio miglior sorriso di scuse.

“Mi dispiace, non volevo svegliarti”

“Non è stata colpa tua” mi rassicura, facendo qualche passo nella stanza, fino a raggiungermi. Mi accarezza piano i capelli, prendendo un biscotto con l’altra mano “Mi sono svegliata da sola”

Decido di crederle e do un po’ di tregua ai sensi di colpa, già tirati troppo spesso in ballo.

“Ancora questa canzone?” domanda con un finto broncio esasperato.

Alzo le spalle, mentre lei prende posto sulla sua sedia, alla mia destra.

“Quando mai ti ho portato quel cd” sospira, alzando gli occhi al cielo, prima di frugare nuovamente nel sacchetto dei biscotti.

“Sai benissimo che non sarebbe cambiato nulla: la canzone avrebbe trovato un altro modo per trovarmi e…Hey!” esclamo arrabbiata, tirando uno schiaffo contro il palmo della sua mano, mentre la mia amica intinge il biscotto nel mio caffelatte “Giù le mani”

Con aria di sfida, Arianna mette in bocca il frollino inzuppato. Ci fissiamo in cagnesco per un istante o due; poi scoppiamo entrambe a ridere come due sciocche.

Lei però ritorna subito seria: “Eli…”

Scuoto energicamente la testa, cercando di non badare al groppo alla gola che mi ha appena colto: “No, non c’è bisogno di parlarne”

“Sei sicura? Lo sai che io…”

La guardo dritta negli occhi per qualche istante, sperando che il mio sguardo sia meno tremulo e più convincente della mia voce: “Lo so. Ma non ce n’è bisogno.”

Voglio ancora illudermi che chi mi sta intorno non possa guardare oltre la ragnatela di bugie che mi avvolge: parlarne anche solo con la mia migliore amica distruggerebbe l’incantesimo.

Ancora una volta Arianna sceglie di non insistere: annuisce lentamente e poi mi abbraccia, stringendomi forte: “Buon compleanno tesoro” esclama esaltata.

Quando rincontro i suoi occhi, malinconia e preoccupazione sembrano scomparsi.

Accolgo di buon grado il mutamento repentino e mi lascio sopraffare dalla sua allegria.

Piano piano, tutto ritorna alla normalità e i miei dubbi finiscono nuovamente sepolti sotto un velo di menzogne ben costruite.

Non posso tornare indietro. Quel che fatto è fatto.

Di certo non rinnegherò il passato: questa storia mi ha fatto crescere, maturare, mi ha reso la donna che sono oggi. E di questo sarò grata per sempre.

Ma è illudersi è inutile.

Sono più forte.

Forse.

'Cause I'm lonely and I'm tired
I'm missing you again

Oh no,
Once again
¹

Note:

¹ ‘Dear God’, Avenged Sevenfold

________________________________________________________________________________

Ed eccomi qui, come promesso!

Naturalmente non potevo lasciare i miei due personaggi preferiti in pace per molto tempo xD

Spero che continuiate a seguire anche il seguito! Fatemi sapere cosa ne pensate! Personalmente questo capitolo mi piace tanto (uno dei pochi che mi piace anzi xD), forse per la canzone che l’ha ispirato che è stata la colonna sonora della mia estate.

Aspetto fiduciosa i commentini! Soprattutto delle mie lettrici preferite!

Buona befana in ritardo!xD

Baci

FallenAngel aka Mossi

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Capitolo 2
*** Deaf and Blind (pt1) ***


j

Chapter 2

 

Deaf and Blind (pt 1)

Don’t lose yourself in this suffering yet. Hold on.

To me

 

 

Brief Message in a Lost Bottle

 

 

My dear wildcat.

 

Non sono mai riuscito a capire se il tuo soprannome ti piacesse.

 

Mia dolce Venere, love metal sister, o forse semplicemente Elisa.

Elisa.

 

E’ buffo considerare quante volte abbia riscritto questa lettera, e ancora non abbia trovato un modo adatto per iniziare.

Ma in fondo non importa, perché tu non leggerai mai questo stupido pezzo di carta.

Perché la sto scrivendo allora? Non lo so nemmeno io.

Forse è un modo per illudermi e convincermi di aver fatto qualcosa per cambiare le cose.

 

La settimana scorsa, mentre aiutavo Shon a cercare il cavo di un microfono apparentemente scomparso nel nulla, nel backstage del Midnight Wish, mi è sembrato di vederti: seduta su una cassa, con le gambe raggomitolate contro il petto.

Ricordi ancora quella sera, quando mi hai autografato la camicia? Dimentico dell’oggetto della mia ricerca, mi sono seduto dietro alle quinte a ripensare alle tue prime parole.

 

Mi è venuto in mente quel tuo strano rito, la tua lista dei sogni impossibile. Ho sempre creduto che nella vita non ci fosse tempo per sognare, che era meglio sfruttare ogni istante e lavorare duro per realizzare i propri desideri.

Ancora una volta hai cambiato il mio pensiero: e così, ridendo di me stesso, ho scritto anch’io la mia lista e l’ho ben nascosta, onde evitare che occhi indiscreti possano esserne resi partecipi.

Non so se saresti sorpresa o meno nello scoprire che nella top ten dei miei sogni il tuo nome compare almeno la metà delle volte.

 

Ora sono qui, seduto sul davanzale della mia finestra, davanti ai miei occhi il verde di Munkkiniemi e poi il mare. Il vento è forte, il movimento dei rami degli alberi oltre il mio giardino è rapido e convulso, come anche quello delle onde scure poco più lontano. C’è aria di tempesta.

Tremo.

Non sono più sicuro se stia guardando fuori dalla mia finestra, o se mi stia guardando dentro. E ho paura.

Quando le prime gocce di pioggia iniziano a cadere, prima leggere, poi più violente, non posso fare a meno di ripensare a quella notte.

E’ passato un anno, ma non ho mai smesso di desiderare di poterti dare una spiegazione.

 

 

Quando arrivai al palazzo dove era stata allestita la serata di gala, il cielo era già da

tempo coperto.

Mi fermai davanti all’uscita secondaria, da solo, a pensare, con una sigaretta tra le labbra.

 

“Si prepara un bel temporale” notò una voce, strappandomi ai miei pensieri.

Non appena sollevai il capo, incrociai lo sguardo di Migè, il quale procedeva lentamente con le mani in tasca.

Lasciai cadere il mozzicone per terra, schiacciandolo con la punta del piede.

“Sembrerebbe” replicai atono, cercando di fare il sostenuto.

Le parole che i miei compagni di band mi avevano rivolto il giorno precedente, accusandomi di essere un falso ed un egoista, ancora frullavano nella mia testa, lasciandomi l’amaro in bocca.

“Già” borbottò il bassista, facendo un altro passo avanti “Io…beh…” cominciò a cincischiare con il colletto della sua camicia inamidata “Mi dispiace”

 

Mi rivolse un sorriso timido, quello stupido sorriso che mi rifilava ogni volta che litigavamo per qualche motivo, sin da quando eravamo ragazzi. Io ero sempre stato il bastardo orgoglioso, lui l’uomo conciliante, sempre pronto a scusarsi per primo. Forse per questo era sempre stato il mio migliore amico, l’unico in grado di sopportare il mio brutto carattere.

 

Davanti a quello sguardo tanto noto, non riuscii a trattenere a mia volta un sorriso: “No, avete ragione. Avrei dovuto parlarvene subito”

Lui mi posò una delle sue grandi mani sulla spalla: “Perché non l’hai fatto, Ville?” domandò, inarcando le sopracciglia “Non riesco a capire”

“Ho avuto paura” confessai “Paura di non essere capito. Ma ti assicuro che la mia non è una semplice sbandata” gli assicurai.

 

Mi sedetti sui gradini davanti all’ingresso, sospirando. Lui si lascio cadere al mio fianco, imprecando per la scomodità dell’abito che indossava.

“Ne sei sicuro Ville?” mi domandò, dopo una pausa troppo lunga.

Subito, un’ondata di irritazione mi travolse e stavo per rispondere di nuovo per le rime, ma il bassista mi fermò con un gesto della mano: “Ti prego, aspetta. Non fraintendermi. Ci siamo tutti affezionati a quella ragazza: è una persona stupenda e ha davvero tanto da dare, ma sei sicuro che sia la persona giusta per te? Forse hai visto in lei un’ancora di salvezza, ti sei lasciato affascinare dalla sua bellezza e dal suo entusiasmo, ma adesso? Sei davvero sicuro di poter sopportare tutto quello che dovrete inevitabilmente passare a causa della tua fama? E lei? Lei è davvero pronta a sacrificarsi in questo modo per te? Come puoi essere certo che la sua non sia una semplice cotta? In fondo è ancora così giovane! Troppo giovane”

 

Scossi il capo, prendendo un ampio respiro: “Non posso spiegarti a parole, Mikko. E’ qualcosa che sento, dentro di me. Io…io credo di essermi innamorato di lei. E forse è passato così poco tempo, ma mi ha strappato un pezzo di cuore sin dalla prima volta in cui ho posato il mio sguardo su di lei, e quando ho incrociato i suoi occhi ho sentito distintamente dentro di me che non sarebbe più stato lo stesso. Mi chiedi come faccio ad essere sicuro anche di lei? Non posso, non ho certezze, so solo che io mi fido di lei”

 

Migè mi fissò a lungo, soppesando ogni mia parola: “Lo sai Ville, noi siamo solo preoccupati per te. Non vogliamo vederti spezzare il cuore, ancora una volta”

“Lo so” gli assicurai, cercando di alleviare almeno un poco i suoi sensi di colpa “Ma non voglio che lo siate. E non voglio che tutto cambi soltanto per la sua età: ha solo diciassette anni, è vero, ma sulla carta. Tu l’hai conosciuta e così anche gli altri, sapete bene che è molto più matura di quanto una data possa stabilire. Perché ne sareste rimasti così stupiti altrimenti?”

Lui abbassò lo sguardo, non sapendo bene cosa rispondere.

“Davvero, lei è in grado di capirmi più di chiunque altro” aggiunsi “Ed io ho bisogno di lei”

Il bassista annuì piano, e poi riallacciò il suo braccio intorno alla mia spalla: “Allora io mi fiderò di te, piccoletto”

“Ehi” protestai ridendo “Piccoletto potevi dirmelo quando avevo dieci anni”

 

“Per noi resterai sempre il fragile piccoletto” intervenne Gas, il più vecchio di tutti, comparendo da chi sa dove “Ma anche il peggior combinacasini della storia”

Io e Migè ci voltammo, ritrovandoci davanti al naso la nostra band al gran completo, tutti vestiti di tutto punto e piuttosto imbarazzati.

 

Bastò un solo sguardo e seppi che le cose tra di noi erano tornate a posto.

Gli abbracciai, uno per uno, chiedendo a ciascuno scusa.

Linde fu l’ultimo: mi strinse più forte, mi battè due o tre volte la mano sulla spalla. Le sue parole, il giorno precedente, erano state le più dure.

“Mi dispiace” mormorò, incurvando le labbra in un mezzo sorriso.

Scossi la testa: “Sono stato uno stupido. Ma adesso è tutto a posto?”

“Certo” mormorò rapidamente, prima di aggiungere “Entriamo? Siamo già in ritardo, tra poco tocca a noi”

 

Quando facemmo il nostro ingresso nel palazzo, gli Apocalyptica stavano completando la loro esibizione. Facemmo appena in tempo a raggiungere il backstage allestito per l’occasione, che era già il nostro turno.

Come stabilito, suonammo Wicked Game e subito dopo Funeral; mentre cantavo, la mia mente si affollò con immagini della sera prima, lasciandomi con un sorriso: la collina, la tua voce, il tuo profumo.

 

Tuttavia, d’un tratto, fui colto da un improvviso turbamento. Le parole di Migè rimbalzavano vorticosamente nella mia testa, stordendomi.

Sei davvero sicuro di poter sopportare tutto quello che dovrete inevitabilmente passare a causa della tua fama? E lei? Lei è davvero pronta a sacrificarsi in questo modo per te?

Per lei, per te, avrei sopportato ogni cosa ed ero sicuro che, se solo te lo avessi chiesto, avrebbe fatto altrettanto. Ma la vera domanda era un’altra: era giusto chiederti di farlo? Di sacrificarti per una persona più vecchia, egoista, che avrebbe potuto offrirti il suo amore, ma che poteva promettere o garantire poco altro.

 

Così, quando gli altri presero parte alla festa, riunendosi a compagne e amici, io rimasi ancora un po’ nel nostro improvvisato camerino.

Presi il cellulare, composi il tuo numero. Rimasi a fissare per un minuto buono lo schermo senza essere in grado di avviare la chiamata.

 

“Sempre un indeciso cronico? Non cambierai mai Ville” mi prese in giro una voce femminile. Il mio cuore mancò un battito: avrei riconosciuto quella voce ovunque, eppure, non era possibile che la sua proprietaria si trovasse lì, in quel momento.

Sollevai il capo, per controllare di non aver avuto un’allucinazione uditiva in quello stato di completa confusione emotiva in cui mi trovavo.

Ma lei era proprio in quella stanza, davanti a me, i capelli castani abbandonati sulle spalle, un elegante tailleur beige ad avvolgere morbidamente il suo corpo, come la prima volta in cui l’avevo rivista in quell’hotel a Seattle, non molti mesi prima.

 

Lei, la mia Tarja, o Meredith, come adesso si faceva chiamare. Il mio primo amore, l’amore impossibile che avevo lasciato dall’altra parte del mondo.

 

Sbattei più volte le palpebre, ancora incerto riguardo alle mie facoltà mentali.

Meredith sorrise di fronte alla mia espressione stupita, facendo qualche passo avanti lentamente, stringendosi le mani sul grembo.

Mi alzai in piedi di scatto, incapace di dire alcunché, ancora sotto shock.

“Hei Ville” mormorò lei, sempre sorridendo, quando fummo uno di fronte all’altro, un numero esiguo di centimetri a dividerci.

“Meredith” boccheggiai, deglutendo a fatica “Cosa ci fai qui?”

Lei si passò le mani sulle braccia, a disagio, in un gesto involontario di difesa: “Sono venuta a trovarti”

Continuai a fissarla in silenzio, mettendola ancora più in imbarazzo, sebbene non fosse affatto la mia intenzione.

“E’ così bella Helsinki” proseguì allora, cambiando argomento “Non mi ricordavo quanto mi mancasse fino a quando non ho messo piede giù dall’aereo…”

 

“Perché sei qui?” domandai ancora, ignorando i suoi tentativi di allentare la tensione.

Mosse ancora le mani, come faceva ogni qualvolta era agitata: fu allora che mi accorsi che il suo dito anulare era spoglio. Nessuna fede, nessun anello di fidanzamento.

 

Quando l’avevo lasciata, soffrendo come un animale, Meredith stava per sposarsi. L’avevo lasciata perché sapevo che l’uomo che l’aveva chiesta in moglie l’amava veramente, che ci teneva davvero a lei, come alla sua stessa vita, se non di più. E anche lei lo amava.

 

Afferrai la sua mano, bloccandola: “Perché non ti sei sposata? Dov’è James?”

Meredith abbassò lo sguardo a terra, tremando.

“Meredith!” la chiamai, cercando i suoi occhi “James sta bene, non è vero?” la incalzai, preoccupato.

Tornò a guardarmi negli occhi, sospirando: “Sì, certo, lui sta bene”

“Perché non vi siete più sposati allora?” la interrogai, non riuscendo a capire.

Le sue labbra fremerono una volta: “Non potevo. Io…”

 

Non la lasciai finire di parlare; mollai la presa, e feci un passo indietro: “No…”

Meredith mi seguì: calde lacrime le rigavano il volto, ora.

“Ville” gemette “Io non potevo…Io ti amo”

Scossi la testa, coprendomi il viso con le mani: “No, Tarja, è tutto sbagliato. Noi non possiamo stare insieme, non potrei farti felice quanto lui. Lui ti ama”

Fu scossa da un singhiozzo, ma cercò di riprendersi subito: “Io-io…io questo lo so” balbettò piano “Ma…” scosto le mie mani dal mio volto, poggiandoci con delicatezza le sue, carezzando piano la mia pelle “Io voglio te”

Tenni gli occhi chiusi, sconvolto, incapace di fare qualunque movimento.

 

Perché? Perché adesso?

Perché quando credevo di aver trovato la mia strada, tutti i pezzi del puzzle venivano di nuovo mescolati?

 

Impietrito sul posto, non mi accorsi che Meredith si era avvicinata ancora, alzandosi in punta di piedi.

Poi, le sue labbra erano sulle mie.

Erano umide, bagnate di sale. Il suo sapore era dolce, morbido, proprio come lo ricordavo. Per un momento fui stordito dal suo profumo di vaniglia.

 

In quello stesso momento, mi domandai se non avessi sbagliato tutto nella mia vita. L’avevo lasciata credendo di fare il bene di entrambi, ma forse, forse il mio posto era sempre stato accanto a lei, da quando l’avevo incontrata per la prima volta, a quindici anni, in quel bosco.

 

Ero sul punto di abbandonarmi a quel bacio, quando il volto di un ragazzo dai capelli castani e i grandi occhi azzurri, mi sorrise entusiasta da un luogo lontano. Come potevo fare questo a James? A James, che avevo imparato a conoscere in quei giorni di ospedale e di estenuante attesa, giorni in cui mi aveva offerto la sua amicizia, i suoi ricordi, in cui aveva aperto ad uno sconosciuto il suo cuore e mi aveva mostrato quanto amasse quella donna che adesso gli avevo portato via.

 

Il ricordo di James svanì in fretta: un’altra immagine, più vivida, più forte, soverchiante e travolgente ogni altra cosa, occupò ogni ansa della mia mente.

Una ragazza dai capelli neri come la notte, due occhi tanto profondi da potervisi perdere dentro, forse un po’ appannati a causa dell’alcol. Il sorriso più dolce e struggente che avessi mai visto.

“La vita a volte ha dei risvolti imprevedibili, a volte il destino sembra voltarci per sempre le spalle e abbandonarci completamente a noi stessi, dopo averci tolto ciò che di buono ci rimane in questo mondo. E a volte è davvero finita, ma in altre occasioni può riscattarsi, offrendoci un’altra chance. Lei ritornerà da te, ne sono sicura.

Tu hai il potere di trasformare la vita delle persone, come hai trasformato la mia con le tue canzoni, e questo è il dono più grande: è giusto che le preghiere degli angeli vengano esaudite.”

 

Altri riflessi, altri ricordi si susseguirono davanti ai miei occhi chiusi, come una processione di uomini incoronati davanti alle pupille deliranti di Macbeth: la canzone al Midnight Wish, il tuo corpo disteso sulla neve, il tuo sguardo terrorizzato davanti allo slittino, la massa disordinati dei tuoi capelli appena sveglia, il tuo profilo addormentato.

I battiti nel mio petto si fecero più frequenti, quasi incontrollabili e fu allora che tutto divenne chiaro.

 

Il primo amore non si scorda mai. Avrei amato Meredith per tutta la vita, avrebbe sempre occupato una parte del mio cuore, fino alla fine.

Ma c’è qualcosa che è ancora più potente. Qualcosa che non credevo potesse esistere davvero, qualcosa che invece ho trovato quasi per caso.

 

La mia anima gemella.

 

E questo amore è qualcosa che va oltre ogni altro sentimento, piccolo o grande che sia.

Mentre finalmente riuscivo a comprendere ciò che il mio cuore già sapeva da tempo, un rumore mi fece sussultare.

 

Scostai le labbra da quelle di Meredith, aprii gli occhi e mi voltai verso la porta e la fonte di quel suono.

Quando ti vidi, furono  gioia e desiderio le prime sensazioni a sopraffarmi. Ma quando incrociai i tuoi occhi lucidi, colmi di delusione e sofferenza, mi resi conto della situazione dalla quale il tuo ricordo mi aveva allontanato e il sangue mi si gelò nelle vene.

 

Fu un secondo, o forse meno. Ma lasciò un marchio indelebile nel mio cuore.

Il terrore di averti perso, mi tolse la voce e le forze: quando ti abbassasti a raccogliere la tua borsa e poi scappasti veloce senza voltarti indietro, guardai senza battere ciglio, immobile, mentre dentro mi sentivo morire.

 

Passarono secondi, minuti, ore. Non lo so dire.

 

Meredith sfiorò il mio braccio, riportandomi alla realtà.

“Ville” pronunciò il mio nome con sgomento e confusione “Ville chi era?”

Mi lasciai cadere su una poltrona, scuotendo la testa.

Feci qualcosa che non facevo da tempo.

Senza riuscire a trattenermi; piansi.

“Ville!” mi chiamò di nuovo, inginocchiandosi ai miei piedi.

Allungai una mano, per sfiorare le sue guance, per asciugare quelle lacrime che avevano ricominciato a scivolare anche dai suoi occhi.

“Tu appartieni alla mia vita Tarja, ne farai sempre parte. Ma le nostre strade si sono divise molto tempo fa. Tu hai trovato Jamie, io ho incontrato un’altra persona. Tutto questo è sbagliato”

 

Mi guardò con gli occhi spalancati, scrollando il capo, ma senza dire una parola, perché in fondo, sapeva che io avevo ragione. Glielo potevo leggere in viso, la conoscevo abbastanza.

Sempre in silenzio, si spostò all’indietro, abbandonandosi sul pavimento. Dopo pochi attimi, anche le sue dita si staccarono dalle mie ginocchia. E fu come se una catena si fosse spezzata.

Piansi il mio ultimo addio, e mi misi a correre, senza prestare attenzione alle persone che mi guardavano con un’espressione curiosa e interrogativa.

 

Mentre stavo per abbandonare il palazzo, incrociai Linde.

Il mio amico osservò il mio viso sconvolto e ne rimase fortemente turbato: “Dio, Ville, che cosa è successo?” la sua voce tremava, sembrava avesse paura di chiederlo.

“Dov’è andata? L’hai vista? L’hai vista?” continuavo a ripetere, fuori di me dalla rabbia e dalla paura.

“Ville calmati, ti prego” mi strinse le spalle, costringendomi a guardarlo negli occhi.

“Linde” gemetti, mentre altre lacrime rigavano il mio viso “L’hai vista? Sai dov’è andata? Dimmelo ti supplico…”

“Chi?” mi chiese, sovrastando i miei lamenti.

“Elisa” sussurrai, in un soffio.

Lui fece un passo indietro, come se si fosse scottato. Fece segno di no con la testa, fissandomi mesto “No, Ville, non lo so”

 

Non persi un altro secondo. Uscii fuori, sotto un temporale assurdo, e senza ascoltare le grida del chitarrista che chiamava il mio nome, mi misi a correre, cercando un taxi.

“Kainopuisto” ordinai al tassista, dicendo il primo posto che mi frullò nel cervello. Dopotutto dovevo pur iniziare da qualche parte.

 

Quando ti trovai davvero, seduta e tremante su quella all’altalena, quasi non riuscivo a credere ai miei occhi; fui ancora più certo di quello che provavo. Certo che i nostri destini fossero indissolubilmente legati.

 

Cercai di parlarti, di spiegarti, gridando come un folle. Ma tu non volesti ascoltare, convinta che il mio amore fosse soltanto una bugia.

Tentai un ultima carta, la sincerità più assoluta. Una dichiarazione esplicita e incontrovertibile. E per un attimo, la tua incertezza mi fece sperare nell’impossibile.

La ripetei ancora, facendo un passo avanti.

 

Trattenni il respiro, aspettando quella risposta che non venne.

“No. Non è così. Per quanto mi piacerebbe crederlo, per quanto lo desideri con tutta me stessa, questa non è la verità. Ciò che c’è stato fra noi è finito”

“Finito, Ville, capisci? Per sempre”

“Esprimi un desiderio”

E prima ancora che il ciondolo che ti avevo regalato toccasse il terreno, era davvero tutto finito.

 

Questa è la verità. Questo è quello che è successo.

Ma tu non lo saprai mai ed io resterò soltanto l’uomo che ha spezzato il tuo cuore. Distruggendo nello stesso momento anche il mio. Per sempre.

                                            Ville”

 

 

 

 

__________________________________________________________________________

 

Salve donzelle!

Eccomi qui con il nuovo capitolo! No, in realtà, solo la prima parte del nuovo capitolo xD in questa storia i capitoli sono decisamente troppo lunghi xD

Fatemi sapere cosa ne pensate ^.^ Qui c’è la spiegazione del brutto fattaccio dell’altra storia xD

Grazie mille a chi ha letto e soprattutto a chi ha commentato!

 

@Angel Of Death: picci scusa xD Adesso mi ricorderò sempre di aggiornare xD Grazie mille per il commentino ^-^ Anche me ti ama tanto!

 

@Queenrock: Siiiii sono tornata in fretta! A dire il vero ormai, questi due poveri personaggi sono diventati parte della mia vita, e faccio davvero molta fatica a lasciarla andare xD Poveri xD Sono davvero tanto felice di saperti così contenta per la mia storia e spero continuerò a non deluderti! Grazie mille *-* Bacini!

 

@Puzzolinda: quello che io so  xD aiutooooooooo xD Grazie mille mio piccolo tortino di pesca! Che spreco di carta però xD Ci sentiamo dopo! Intanto Mossi piange T.T

 

@Lux: wiiiiiiiiiiii sono così felice di risentirti! Mi sei mancata tanto tanto! E sono contenta che ti sia piaciuta ^^ E come hai preso il finale dell’altra storia? xD Credo che questa canzone sia diventata una delle mie preferite in assoluto *-* Non mi stancherei mai di ascoltarla. E’ anche la canzone che mi ha fatto conoscere gli Avenged, quindi le sono doppiamente affezionata, e poi è decisamente troppo bella, sia la musica che le parole! Spero di sentirti presto. Bacini

 

Alla  prossima!

FallenAngel aka Mossi

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Capitolo 3
*** Deaf and Blind (pt2) ***


Chapter 2

 

Deaf and Blind (pt 2)

Don’t lose yourself in this suffering yet. Hold on.

To me

1 Luglio

 

Appoggio il mento, sulle braccia piegate. Sbuffo, lanciando un’altra occhiata allo schermo di Frankie e alla pigna di libri sparpagliati sul tavolo della cucina.

La mia tesina è completa, sebbene non ne sia completamente soddisfatta: d’altra parte, sono per natura una persona incontentabile per quanto riguarda ogni cosa che faccio, quindi non mi lascio turbare troppo dal problema.

Il vero problema è il chilometrico programma di quinta a cui dovrei dare un’altra ripassatina. Ma la mia voglia di studiare al momento è finita sotto le scarpe, anzi, diciamo 666 metri sotto terra.

 

Giro la testa su un fianco, incontrando a colpo sicuro con lo sguardo la mia dolcissima Angi.

Angi è la mia chitarra, una stupenda Ibanez MBM1-BK MATT BACHAND (per essere precisi xD NdA) nera come un abisso oscuro e profondo.

 

Sì, tra i tanti difetti, sono anche affetta da una malata mania di dare un nome a tutti gli oggetti a cui sono affezionata. Ma in fondo, chi può davvero affermare che anche questi strumenti, a loro modo, non abbiano un’anima? Di certo hanno un motivo di esistere, e questo è già abbastanza. Perché non dovrebbero avere anche un nome?

 

Trattengo languidamente i miei occhi sopra la sua forma slanciata e le sue corde così invitanti e sogno già ad occhi aperti di provare quel nuovo riff che mi gira in testa da due giorni.

Ancor prima che me ne possa accorgere, ho dimenticato l’esistenza dei libri e di un esame di maturità, e mi sto alzando dalla sedia per raggiungere Angi.

 

Non ho fatto nemmeno un passo verso la sospirata meta, che la porta di casa si apre di scatto, facendomi sussultare.

Sentendomi colta in flagrante e, d’un tratto, terribilmente in colpa, mi affretto a risedermi al mio posto davanti al computer, e fingo di sfogliare il testo di storia.

Non che Arianna potrebbe davvero sgridarmi trovandomi a suonare la mia chitarra invece che chinata sui libri; anzi, ha iniziato anche a prendermi in giro chiamandomi ‘maniaca dello studio’. Il mio è più che altro un atteggiamento quasi involontario: lei rappresenta la mia coscienza, che ne sia conscia o meno, e solo la sua presenza mi mette in agitazione quando sto facendo qualcosa che, so, non è propriamente corretto.

 

“Cosa diavolo pensi di fare?” la sento urlare alle mie spalle, arrabbiatissima, mentre si fa strada nel corridoio a passo sostenuto. Salto sulla sedia, mordendomi il labbro inferiore. Ha iniziato anche a leggermi nel pensiero adesso?

Mi volto lentamente per affrontare la sua furia.

“Ti ho già detto milioni di volte che non puoi decidere tutto tu e informarmi all’ultimo momento!” continua a gridare.

Scopro ben presto che la sua rabbia è rivolta a qualcuno a qualche chilometro di distanza, dall’altra parte di una comunicazione telefonica. E a giudicare dal suo tono, posso tirare a indovinare chi sia l’uomo misterioso…

“No, Luke, ascoltami bene: la mia risposta è NO!”

Yeah, I got it.

 

Entra in cucina come una fiera, con il cellulare ben assicurato tra la guancia e la spalla; lascia cadere con poco garbo i sacchetti della spesa sulla credenza, insieme ad un mucchietto bianco di buste. 

Liberatasi da quei pesi, recupera il telefono prima di essere colpita da una paralisi al collo, e prosegue con la sua filippica.

Quando si volta, le faccio un timido segno con la mano, cercando di trattenere le risa davanti alla sua espressione concentrata e arrabbiatissima.

Come risvegliandosi da una trance, si batte la mano libera sulla fronte, e si avvicina rapida per posare un fugace bacio sulla mia fronte.

Sfortunatamente, non ho nemmeno il tempo per ricambiare, perché, invasata da un altro attacco d’ira, sparisce nella stanza adiacente, lanciando un’altra serie di improperi.

Ah, l’amore…

 

Canticchiando a bassa voce e ridendo sotto i baffi, mi faccio strada verso la credenza, raccogliendo la scatola di cereali che Arianna non si è nemmeno accorta di aver fatto volare dal sacchetto. Prima di mettermi a sistemare i viveri al loro posto, do una rapida occhiata alla posta, scostando le buste con le dita.

Pubblicità, pubblicità, catalogo di un negozio di vestiti da cui nessuno ha mai comprato nulla ma che inspiegabilmente ci continua a mandare la lista dei nuovi arrivi ogni due mesi, pubblicità, un’immancabile bolletta, un CD…

 

Mi blocco di scatto, inarcando un sopracciglio. Lascio perdere le altre lettere e mi rigiro il CD tra le mani: sembra un CD ancora vergine, se non per il fatto che non c’è più la pellicola di plastica trasparente a ricoprirlo, ma la custodia è completamente bianca.

Lo apro, cercando qualche indizio della sua provenienza, senza però avere maggior fortuna: anche il compact disc appare completamente intonso.

 

Un terribile desiderio di sapere mi assale: vorrei chiedere alla mia amica, ma, a giudicare dalle grida che mi giungono di tanto in tanto, Arianna sembra ancora impegnata nell’altra stanza.

Dovrei aspettare il suo ritorno, ma il mio occhio cade casualmente sullo stereo a pochi passi di distanza, e mi rendo conto di non riuscire a resistere: la curiosità è troppo forte.

Mordicchiandomi il labbro inferiore e mandando in ferie, ancora una volta, la voce della coscienza, faccio scattare l’apertura del lettore e tolgo il cd che ha passato lì gli ultimi due mesi.

 

Sorrido tra me e me, mentre ripongo ‘Avenged Sevenfold’ nella sua custodia, riflettendo che la mia ultima passione è infine stata spodestata per un cd ignoto e forse assolutamente insignificante.

Premo il tasto play e ritorno saltellando alla mia solita sedia.

 

Per almeno una trentina di secondi, il silenzio regna sovrano nella stanza, interrotto soltanto dal brusio causato da Arianna. Appoggio la testa al braccio, fissando il lettore con malcelata delusione, e, afferrata una penna, picchio impazientemente la punta sul tavolo: inizio a pensare che il cd sia effettivamente vuoto e che il mio entusiasmo di poco prima sia stato assolutamente immotivato.

Sto per alzarmi e riporre il mio amore al suo legittimo posto e, per farmi perdonare, dare un altro ascolto alla track numero 10, quando sento uno strano suono provenire dalle casse.

 

Forse ho le traveggole, ma mi sembra proprio il rumore di un accendino acceso e l’inconfondibile sfrigolio della fiamma intorno alla cartina infiammabile di una sigaretta. Con la fronte corrugata, pongo ancora più attenzione nell’ascolto, e le mie orecchie colgono un altro suono altrettanto particolare che, prima ancora di essere correttamente registrato dal mio cervello, mi lascia senza respiro. E’ poco più di un sospiro, un breve e rapido sospiro che però il mio cuore riconosce immediatamente, quasi inconsciamente.

 

Le bacchette di una batteria battono veloci su tamburo e piatti, introducendo una canzone che credo di non aver mai ascoltato: eppure, quando anche basso e chitarra si uniscono al primo strumento, mi rendo conto che la melodia non mi è completamente sconosciuta. E’ legata ad un ricordo lontano, sebbene diversa, forse più veloce?

Le stesse note si ripetono per tre volte, poi, all’improvviso, capisco.

 

La penna mi scivola tra le dita, mentre parole mai davvero dimenticate sdrucciolano lentamente contro di me.

 

Leave all behind now to watch her crawl

Through our dark gardens of insanity
She'll be the light to guide you back home
Just give her a kiss worth dying for - and open your arms

 

Una stanza d’albergo, un letto disfatto, un blocco per gli appunti e una chitarra classica.

Tutto riaffiora dal buio del passato, riempiendo la mia mente.

La sua espressione concentrata, il suo sorriso, la sua risata. Sembra tutto così vero, d’un tratto così vivido, quasi fosse il presente.

 

Watch me fall

For you

My venus doom
Hide my heart

Where all dreams are entombed
My venus doom

Una lacrima scivola sul mio viso, senza il mio permesso, mentre mi ritrovo a pensare che le stupide frasi messe insieme quel giorno, quasi per gioco, sono diventate una canzone suonata da tutta la band, registrata addirittura in studio.

 

Grieve all your hearts out as she'll arrive enthralled

 in tragic, ecstatic agony
And in her flames we will die some more
Just show me a life worth living for – light of the dark

Ma è una bugia. Il nostro non era stato un gioco ed io in fondo ne sono consapevole.

Espressione di un sentimento profondo che aveva allacciato e legato i nostri cuori in un modo così strano.

Ciò che avevo provato, ciò che ancora provo, è di certo amore. Un amore molto più profondo di quanto mai abbia sentito per qualcuno.

Per lui non era la stessa cosa, il suo grande amore l’aveva già trovato, eppure sono sicura che almeno un poco mi abbia voluto bene.

 

Watch me fall for you –
My venus doom
Hide my heart where all dreams are entombed –
My venus doom
[ all dreams are of you – my venus doom ]

 

Quanto vorrei essere la tua Venere, quanto vorrei essere l’oggetto dei tuoi sogni.

Davvero quella canzone era dedicata a me? Poteva essere vero?

La passione, l’alchimia dei corpi, talvolta può essere scambiata per amore.

Ma se fosse stato di più?

Perché aveva lasciato che quelle parole divenissero una canzone vera e propria, anche dopo che me ne ero andata via?

I pensieri si fanno più fitti, più confusi, la testa inizia a farmi male.

Stringo i pugni, quasi inconsapevolmente, respirando più forte.

 

Quando sento di non poterne più, la musica d’un tratto cambia, si fa più dolce.

La canzone non è finita, non è rimasta come l’avevamo lasciata.

Mi accorgo con sorpresa che Ville ha aggiunto altre frasi, e sembra quasi che non le canti, ma le reciti, con un timbro di voce ancora più basso, che mi dà i brividi e mi congela sul posto.

 

Hold me inside your infernal offering

Touch me as I fall

Don’t lose yourself in this suffering yet

Hold on

Hold me inside your infernal offering

Touch me as I fall

 

Don’t lose yourself in this suffering yet

Hold on

To me

 

Un astruso sentimento mi pervade: ogni parola si adatta perfettamente al mio stato d’animo.

Sembra quasi un messaggio, lasciato apposta per me.

Scuoto la testa, come per scacciare lo stupido pensiero e mi alzo, muovendomi rapida verso lo stereo e quasi inciampando nei miei stessi piedi.

Ma quando mi trovo davanti al lettore non ho davvero la forza di spegnere; senza preavviso, le mie dita scelgono da sole la loro strada.

Indietro, poi ancora avanti.

 

Il brano ricomincia, di nuovo, dall’inizio.

E resto ascoltare ancora, fissando il pavimento, illudendomi di essere ancora in quella camera d’albergo, mentre Ville canta per me la mia canzone.

 

D’un tratto altri ricordi. Altre ferite.

 

“Voglio un posto” mormorò Ville, mordendosi un labbro, con lo sguardo perso nel vuoto, perso nei suoi pensieri “voglio un posto dove custodire il mio cuore, senza soffrire ancora”

Lo guardai, dal basso verso l’alto, con la testa appoggiata sul suo grembo, mentre lui passava, senza rendersene conto, la mano tra i miei capelli.

“Conosco un posto” dissi timidamente, ma ottenni immediatamente la sua attenzione.

Rivolse i suoi occhi accesi di curiosità verso il mio volto.

“Davvero?” sorrise, spostando lentamente le sue dita sulla mia fronte, fino alla punta del mio naso.

“C’è un posto segreto” mormorai, giocando con la sua mano “Dove ogni sogno e desiderio più recondito resta prigioniero, fino a quando non giunge l’occasione giusta per realizzarlo. E’ lì che avevo celato il mio povero cuore spaurito” recitai con sentimento, aggrappandomi al suo braccio e cominciando a sollevarmi

Ville mi porse il suo aiuto, senza bisogno che proferissi parola. In pochi attimi ero seduta sulle sue ginocchia.

“Avevo?” mi fece notare, tirandomi ancora più vicina a sé.

Annuii, spostando indietro i suoi capelli dalla spalla destra e piegando il capo, fino a toccare con le labbra il suo collo.

“Adesso è qui, nelle tue mani. Non lo senti battere per te?”

 

“Stupida, stupida, stupida” mi ripeto un milione di volte, asciugandomi il viso con un gesto deciso.

Una goccia salata fugge ancora la mia volontà, scivolando oltre la guancia, e poi il mento. Cade più giù, senza un suono.

 

Abbasso lo sguardo, accorgendomi che quell’odiosissima prova della mia debolezza è andata a bagnare una delle lettere della nostra posta.

Prendo in mano il pezzo di carta e mi rendo conto che non c’è nessuna busta, nessun mittente.

Rimango a fissarla per qualche istante, percorrendone i bordi con le dita, ancora e ancora, fino quasi a farmi male.

Sono le mie stesse dita a schiudere i lembi del foglio, troppo velocemente perché possa davvero pensare a quello che sto facendo, mentre il nodo che mi stringe le viscere diventa sempre più saldo.

 

Sollievo e delusione mi colgono insieme, in un ossimoro potente e devastante, quando i miei occhi incontrano lettere e inchiostro uniti in una calligrafia che non conosco.

Sbircio le prime parole e scopro che il breve messaggio è indirizzato a me. Non sono sicura di voler veramente leggere, ma in fondo si dice che la curiosità è femmina, non è vero?

Bene, sono una donna.

 

Hey Liz,

 

qui è Linde che scrive. Beh, come stai? Ho saputo che stai per prendere il tuo diploma; in bocca al lupo.

 

Come sai non sono una persona molto loquace, nemmeno di persona, e, beh, con le lettere sono ancora peggio – sì, se te lo stai chiedendo, è possibile -.

Non so esattamente quello che debba o possa dire, quindi, salterò tutti i preamboli e spero scuserai la mia scortesia.

 

Quanto è passato? Più di un anno? Non lo so più, ho perso il conto. Ma sono sicuro che Ville ricordi il numero di giorni, forse anche di ore, esatto, da quando sei partita ad adesso.

 

Quando te ne sei andata, ho pensato che fosse la cosa migliore. Per entrambi.

 

Di certo non lo è stata per Ville; non credo di aver preso un granchio peggiore nella mia vita.

 

Mi dispiace.

 

E’ passato un anno e non è giusto che io adesso ti chieda di fare qualcosa: avrai una nuova vita adesso, e dopo quello che hai sofferto, non vorrai sicuramente riaffondare nelle sabbie mobili del passato.

 

Ma ancora una volta, mi ritrovo qui, ad intromettermi ed egoisticamente domandarti di pensare a quello che hai lasciato indietro.

Lui non ti ha dimenticato. E’ sempre qui ad aspettare.

 

Ti ho mandato un cd. Vi è registrata un’unica traccia, una piccola anteprima del nostro nuovo album. Da quanto ci ha detto Ville, dovresti conoscerla molto bene.

 

Ti lascio nuovamente il mio numero di cellulare, e quello di Ville, nel caso in cui tu non li abbia più: spero possano servirti.

 

Un abbraccio sincero da Manna, Luisa e tutti i ragazzi.

Linde

 

***

 

Le note ancora ristagnano nella stanza; accompagnano ogni mio respiro, ogni battito accelerato del mio cuore.

Poi, dei passi famigliari risuonano sul pavimento della cucina, modificano quella ripetitività, sciogliendo anche lo stato di trance al quale mi sono incautamente abbandonata.

“Scusami Ell, ma Luke mi avev– “ Arianna comincia a raccontarmi, sospirando profondamente, ma non appena mi raggiunge le parole le muoiono in gola.

“No” riesce soltanto a sussurrare, scuotendo piano la testa, mentre nelle sue iridi celesti si riflettono le fiamme azzurre di un fuoco debole, ma abbastanza forte da consumare un più fragile pezzo di carta.

 

Lascio cadere quel che resta: un ultimo frammento annerito, che si accartoccia su se stesso, con un orribile sfrigolio di morte. Poi è solo cenere.

 

Alzo gli occhi verso la mia amica, ormai asciutti e rossi, senza più lacrime.

“Non posso tornare indietro”

 

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Ecco qui l'altro pezzetto!
Grazie alla mia pulcetta e anche a chi ha solo letto lo scorso capitolo!
Alla prossima, baci
FallenAngel aka Moss

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Capitolo 4
*** Pay me attention, I'll pay your soul back ***


Chapter 3

 

Pay me attention, I’ll pay your soul back (pt1)

Do you want the real story or do you prefer the lie?

 

 

Per tutta la settimana successiva il cd è rimasto abbandonato sul piano di marmo della cucina, accanto allo stereo. Non l’ho più ascoltato, e Arianna ha troppa paura per farlo.

 

Il mio primo impulso è stato quello di gettarlo via, distruggerlo, come la lettera.

Ma ho scoperto di non essere abbastanza forte. Così ho deciso di seguire il proverbio: vivi e lascia vivere.

 

Ho finto che nessun meteorite fosse caduto all’improvviso nella mia orbita. Ho finito di prepararmi per la maturità e il 4 Luglio, mentre gli Americani festeggiavano la Dichiarazione di Indipendenza, io ho sostenuto il fantomatico esame.

 

E adesso che non ho più pensieri per la testa, tutto appare così complicato…

 

***

 

8 Luglio

 

Torno a casa, tentando di camminare lentamente, ma già sull’ascensore ho cominciato a saltellare: uno stupido sorriso preme per irrompere sul mio viso e faccio davvero fatica a nasconderlo.

Giro la chiave nella toppa ed entro nell’appartamento: non ho fatto nemmeno a tempo a chiudermi la porta alle spalle, che Arianna spunta di corsa dalla cucina.

 

“Cosa ci fai qui?” le chiedo, strabuzzando gli occhi per la sorpresa. Sono appena le 11 e mezza del mattino e lei dovrebbe essere al negozio di CD.

Fa un gesto con la mano, per liquidare la domanda: “Mi sono presa un giorno di ferie”

Alzo gli occhi al cielo, scuotendo la testa. E poi viene ancora a dirmi che Francesco, il proprietario del negozio, non si sia preso una cotta colossale? Quale datore di lavoro ti permette di prenderti dei giorni liberi, così, a buffo?

 

“Ehhh, cosa vuoi che sia!” sbuffa. Poi cambiando espressione e argomento, mi interroga concitata: “Ma allora? Dimmi come è andata!”

“Beh…” faccio qualche passo avanti, aspettando un istante o due per far crescere la sua curiosità. Ma io stessa non riesco a resistere a lungo.

Quel sorriso pieno di soddisfazione si dipinge finalmente sulle mie labbra e la voce esce dalla mia gola quasi in un grido: “E’ un 89!”

“Ottantanove?” ripete lei incredula. Subito dopo corre ad abbracciarmi stretta stretta “Sei un mostro!”

Rido insieme a lei, mentre come due bambine ci mettiamo a ballare nel corridoio, rischiando di inciampare più di una volta nei nostri stessi piedi.

 

Sono così contenta: per la prima volta nella mia vita, sono riuscita a portare a termine qualcosa di buono.

 

Arianna mi conduce in cucina, dove un’altra torta al cioccolato ci aspetta, esposta in bella vista sul tavolo. ‘Congratulazioni maturanda’ c’è scritto sopra a carattere cubitali, con la pasta di zucchero.

“Ero sicura che li avresti stesi tutti!” commenta orgogliosa, con la mano sulla mia spalla.

“Un’altra torta?” borbotto, prendendomi la testa tra le mani “Ri, ma vuoi farmi diventare obesa?”

“Ohh ma smettila” mi rimprovera, spingendomi verso il mio premio “Che tra un po’ mi scompari sotto gli occhi”

“Si, certo nei tuoi sogni” ribatto, facendo un rapido calcolo di tutti i dolci che ho ingollato nell’ultima settimana tra feste e non feste per il mio compleanno.

D’altra parte il profumo è troppo invitante per poter opporsi. Dannata donna, perché deve essere sempre così brava in tutto?

 

Ci sediamo entrambe al tavolo, dopo aver tirato fuori dalla credenza un paio di piattini.

Prima ancora che la prima fetta sia stata tagliata, strappo con le mani un pezzo di pasta di mandorle che ricopre, in parte, la superficie della torta.

“Ehi!” esclama Arianna contrariata, guardandomi torva.

Alzo le spalle, leccandomi le dita: “E’ il mio premio dopotutto, giusto?” ridacchio malignamente, sfruttando a mio favore le sue stesse parole, in modo che non possa replicare alcunché.

 

Mentre il coltello affonda lentamente nel soffice dolce di cioccolato, il campanello di casa suona all’improvviso, facendoci sussultare. E’ un trillo breve, ma deciso.

“Aspettavi qualcuno?”

Le sopracciglia di Arianna si sollevano, nascondendosi sotto i boccoli rossi: “No, non mi pare. E tu?”

Dopo aver fatto rapidamente mente locale, scuoto la testa “Nemmeno”

“Beh, vai a vedere chi è comunque” suggerisce, agitando il coltello, in un gesto che, seppure non volutamente, appare ai miei occhi alquanto minaccioso.

“Vado, vado, ma tu tieni le mani a posto” osservo, fuggendo dalla cucina.

“Idiota!” la sento gridare da lontano, mentre mi avvicino, sempre ridendo tra me e me, alla porta.

 

Non appena metto a fuoco, un ragazzo sulla trentina entra nel mio campo visivo.

“Hei Liz” mormora timidamente con il suo accento nordico, facendo un cenno con il capo e toccandosi la fronte in segno di saluto.

La voglia di saltellare si è dileguata d’un tratto nel nulla: i miei piedi sono incollati al pavimento, il sorriso muore lentamente sulle mie labbra.

 

***

 

Three days before

 

Manna entra piano nella stanza, portando in equilibrio su un vassoio due tazze fumanti di caffè.

“Grazie” le sorrido nella semioscurità, mentre me ne porge molto gentilmente una.

“Figurati” replica, ricambiando il sorriso. Poi, le sue sopracciglia spariscono all’improvviso sotto la frangia, mentre la donna scuote il capo, osservando la bambina che si è beatamente addormentata contro il mio petto.

“Ville, avresti dovuto dirmelo!” mi rimprovera, appoggiando sul tavolino il vassoio “L’avrei portata a letto prima”

 

“Ma non mi è nemmeno passato per l’anticamera del cervello” ridacchio, cercando di non parlare troppo forte per non svegliare la piccola Olivia “E’ da così tanto tempo che una bella ragazza non si addormenta tra le mie braccia”

“Anche se ultimamente ne hai fatte addormentare tante con le tue chiacchiere interessanti” interviene Linde, spaparanzato sulla poltrona accanto, mentre si solleva per recuperare il suo caffè.

Fingo di non averlo sentito, piegandomi per posare un ultimo bacio sulla fronte della bambina, prima che la madre la prenda in braccio.

Olivia biascica qualcosa di incomprensibile, ma si lascia spostare senza proteste, allacciando le braccia sottili al collo di Manna.

 

“Buonanotte ragazzi” ci saluta la cantante, stringendo con attenzione la sua piccola “Vedete di non fare troppo tardi” ci ammonisce dopo, agitando un dito contro la schiena di Olivia che, in tutta risposta, gira la testa dall’altra parte.

“Sì mamma!” annuiamo insieme, scoppiando subito dopo a ridere.

“Divertente” borbotta lei, avviandosi verso la scala “Io lo dico per voi…”

 

Restiamo a ridere per un po’, sorseggiando piano la calda bevanda.

“Lily” mormoro, interrompendo il momentaneo silenzio.

Lui distende le gambe, voltando il capo nella mia direzione: “Mh?”

“Ti darebbe fastidio se io fossi innamorato di tua figlia?” gli domando cautamente, con molta serietà.

 

Immediatamente, un’ombra di orrore cade sui suoi occhi e il suo viso sbianca.

Quasi rischio di sputacchiare ovunque il mio sorso di caffè: “Hey man, stavo scherzando!” esclamo, tirandogli una pacca sulla gamba.

Un po’ di colorito torna a macchiare le sue guance: “Certo, lo sapevo” dichiara, tossicchiando e riappoggiandosi allo schienale della poltrona, dalla quale è saltato senza accorgersi.

“Comunque” prosegue, cercando di dimenticare rapidamente la figura da idiota che ha appena fatto “Se Olivia un giorno – molto lontano, sia chiaro – mi portasse a casa un tipo come te, Ville, di certo verrebbe diseredata all’istante”

Non mi premuro nemmeno di fingermi offeso “Credo che farei la stessa cosa” ghigno, posando la tazza sul tavolino e tendendo il braccio per afferrare posacenere e blocco degli appunti.

 

“Ma adesso bando alle ciance” esordisco, accendendomi una sigaretta “Vediamo di finire in fretta, così io posso levare le tende e tu tornare dalla tua mogliettina”.

Terminiamo di decidere gli ultimi cambiamenti della set-list, rispetto all’ultimo festival. Non ci sono grandi differenza, tralasciando il piccolo particolare che inseriremo due pezzi completamente sconosciuti dal pubblico: i primi due brani inediti del nuovo cd.

 

Abbiamo scelto, o meglio, sono stato io a scegliere, che la prima canzone che i partecipanti al Ruisrock avranno l’onore di ascoltare sia Dead Lovers’ Lane, incastrata tra Poison Girl e Join Me, più o meno a metà del concerto.

Migè ha a lungo cercato di convincerci a suonare Sleepwalking Past Hope, la sua preferita di tutto l’album, ma eravamo tutti d’accordo sul fatto che sorbirsi un brano di 10 minuti mai sentito prima poteva non essere una cosa gradevole per ciascuno dei 20 mila spettatori.

 

“Allora Funeral sempre per ultima?” chiede conferma Linde, grattandosi la testa.

Ci penso sopra qualche istante: “Mh, direi di sì. Ormai è diventato quasi un must”

“Ah Ville, stai diventando prevedibile” mi prende in giro, lasciandosi scappare uno sbadiglio.

“E tu stai diventando vecchio” lo rimbecco, non riuscendo a trattenere una risata “Non riesci a stare più sveglio oltre mezzanotte?”

Lui assume un’espressione strana, un misto tra l’imbarazzato e lo scocciato: “Non è colpa mia” mugola piano “Ieri notte Olivia aveva mal di pancia, e non abbiamo dormito affatto!”

“Ah beh…” lo stuzzico, sbirciandolo con uno sguardo non molto convinto, che lo fa indispettire ancora di più.

“E comunque sono sveglissimo” aggiunge, raddrizzandosi sulla poltrona e sbattendo una volta le palpebre.

Questa volta mi trattengo saggiamente dal ridacchiare, e torno a posare la penna sul foglio.

 

“Bene, allora per l’encore abbiamo Razorblade Kiss e Bleed Well” scandisco bene, mentre trascrivo i titoli delle canzoni. Linde posa una mano sul mio braccio, per fermarmi.

“Sei sicuro?” domanda con circospezione.

Davanti al suo quesito, ma soprattutto al vero significato che sta dietro a quella semplice frase, tentenno un istante.

 

Quando avevamo a iniziato a programmare la scaletta per il festival, il mio primo pensiero era stato quello di cantare ‘Venus Doom’: era la canzone che dava il titolo all’album, il brano che lo teneva insieme, la chiave di volta per comprendere tutti i miei sentimenti e le emozioni che avevo messo in quel nuovo lavoro. Ma era anche la nostra canzone: non ero sicuro di poterla cantare senza di lei, non ero sicuro di averne la forza.

 

La lotta interiore era stata lunga ed estenuante: una parte di me, quella più ingenua e sognatrice, la parte più immatura, credeva che cantare quella canzone me l’avrebbe fatta sentire vicina, su quel palco insieme a me, e forse, forse, lei, ascoltandola, in qualche modo avrebbe potuto capire, forse sarebbe tornata da me. Ma erano troppi forse e troppe speranze, che la parte più razionale del mio io aveva saputo sopprimere: non sarebbe cambiato nulla, avrei sofferto solo un po’ di più.

E i ragazzi si sarebbero divertiti molto di più a suonare Bleed Well.

 

Annuisco, abbozzando un sorriso: “Ne sono sicuro. Faremo fare un bel giretto all’inferno alla nostra Ruissalo!”

Il chitarrista non sembra completamente soddisfatto dalla risposta, ma cerca di non darlo a vedere “Allora siamo a posto, no?”

“Sì” confermo, alzandomi dal divanetto e infilandomi sigarette e accendino in tasca “Domani ci sistemiamo con i ragazzi e Seppo per l’ultima prova: al Finnvox alle 4 e mezza, puntuale”

Mentre mi segue verso la porta, mi lancia un’occhiata in tralice: “IO sono sempre puntuale” assicura, incrociando le braccia “Non scaricare sugli altri i tuoi stessi peccati, Rakohammas!”

“Quanto siamo permalosi” commento con un ghigno. Adoro farlo arrabbiare, le sue reazioni sono sempre esilaranti.

Forse non ha torto chi sostiene che la mia mente sfiori il sadismo.

 

Linde mi ha già praticamente spinto fuori da casa sua, quando una lampadina si accende nella mia testa.

“Ah! Prima di essere buttato fuori” esordisco, voltandomi di scatto indietro e allungando un piede, per evitare di ritrovarmi la porta sbattuta in faccia “C’è una cosa che volevo chiederti”

“E sarebbe?” mi sprona Linde, alzando un sopracciglio.

“Mi ci porti tu a Turku?” lo prego, sbattendo le ciglia “Avevi intenzione di partire Venerdì giusto? O addirittura Sabato? Perché io…”

“No, aspetta Ville” mi interrompe, guadagnandosi uno sguardo di incomprensione.

“E’ meglio se chiedi a Migè”

 

Mi gratto la testa, continuando a non capire: “E come mai?”

Sembra piuttosto a disagio; sposta il peso del suo corpo da un piede all’altro, appoggiandosi allo stipite della porta “Beh…” incomincia “Manna e Olivia vanno insieme a Burton, perché io devo fare una cosa prima…”

Vorrebbe lasciare cadere il discorso, ma io sono troppo curioso per accontentarlo: “Una cosa?”

“Uffa Ville, sei mia madre?” sbuffa, alzando gli occhi al cielo “Devo…andare a trovare un amico a Tampere”

“Adesso?”

“Sì, Ville adesso. Sta male e quindi mi sembra il minimo, considerando che poi saremo in tour tutta l’estate in America”

“Uh” borbotto, facendo un passo indietro, quasi in procinto di andarmene.

 

Linde non ha il tempo di tirare un sospiro di sollievo, che sono tornato a girarmi: “Ma chi è?”

Si batte una mano sulla fronte, spazientito: “Non lo conosci”

La cosa mi sembra alquanto strana, considerando che io e Linde siamo praticamente cresciuti insieme e abbiamo un sacco di amici in comune. Ma evito di contraddirlo.

“Vuoi che ti accompagno?” accenno un sorriso a trentadue denti.

“Molto gentile da parte tua, ma non ce n’è bisogno” mi liquida rapidamente, prendendo saldamente la maniglia tra le dita.

“Buonanotte Ville” mi saluta con un tono che non vuole replica.

“Notte” ridacchio, agitando la mano, mentre la porta sbatte effettivamente a pochi centimetri dal mio naso.

 

***

 

8 Luglio

 

D’un tratto il tempo sembra essersi fermato.

No, sembra tornato indietro, ad un anno prima, o poco più.

Guardo i lunghi dreads che gli ricadono sulle spalle e ancora una volta mi domando se quella sia davvero la realtà.

Eppure non può essere un sogno. Ho detto addio ai sogni molti mesi fa.

 

Linde.

 

Linde è davanti alla mia porta, e aspetta paziente e in silenzio una risposta. Il sorriso continua a piegare le sue labbra sottili, senza lasciarsi sfiorare dal mio comportamento forse non troppo coerente con le regole dell’ospitalità.

Me lo fa notare, con leggerezza, sempre sorridendo: “Hai deciso di lasciarmi fuori dalla porta? O ti sei già dimenticata del tuo chitarrista e maestro preferito?” domanda poi, allargando le braccia.

Mi lascio contagiare involontariamente dalla sua allegria.

Scuoto piano il capo, facendo un passo avanti mentre lui mi viene incontro; ci abbracciamo forte e mi accorgo di quanto mi sia mancato. Di quanto mi manchi la vita che ho lasciato ad Helsinki.

Il suo profumo scatena mille ricordi, la sua stretta è famigliare e accogliente.

 

“E’ bello rivederti” gli confesso, sebbene nella mia voce ci sia ancora una nota malinconica che proprio non riesco a sopprimere.

“Già. E’ passato tanto di quel tempo” Linde si stacca piano, scrutandomi da capo a piedi “Sei sempre la stessa, e allo stesso tempo sei cambiata così tanto. Sei sempre più bella” commenta, strizzandomi l’occhio.

Scuoto la testa davanti alla sua affermazione, sospirando: “Certo che lo sono. Mh, anche tu non sembri messo male”

“Oh grazie” ridacchia, facendo un mezzo inchino.

Mi trattengo dal sollevare gli occhi al cielo. Tutta quella teatralità. E’ proprio uguale a Ville, mi ritrovo a pensare senza accorgermene.

 

A Ville…

Scaccio l’immagine, concentrandomi sul viso del chitarrista.

 

“Ora che ci siamo salutati e complimentati, vuoi che me ne vada via?” mi chiede, alzando un sopracciglio “O posso entrare un minuto?”

Sono consapevole che stia scherzando, ma una parte di me vorrebbe davvero mandarlo via. Stare con lui, ricordare…fa male. Un presentimento potente continua a gridare nella mia testa, ancora e ancora: non ascoltare, non parlare.

Ma come potrei fare una cosa del genere? Mi sorprendo di me stessa: faccio immediatamente qualche passo indietro, lasciandogli libero il passaggio.

“Prego” mormoro semplicemente.

 

Proprio mentre Linde fa il suo ingresso nel nostro modesto appartamento, la voce di Arianna si fa sempre più forte, come i suoi passi rapidi sul pavimento.

“Ma chi è alla porta Liz? Perché ci stai così tanto e…” quando arriva nell’ingresso le parole si fermano sulle sue labbra. Fine della corsa.

Guardo i suoi occhi sgranarsi per la sorpresa, mentre scuote la testa incredula.

“Oddio non è possibile!” borbotta con un filo di voce. Poi, in un istante, è già al collo del chitarrista, sulle punte dei suoi piedi scalzi.

 

“Oddio Linde cosa diavolo ci fai qui?” gli urla quasi nell’orecchio, stritolandolo in uno dei suoi superabbracci.

Quasi temo che Linde possa spaventarsi di quel comportamento. Ma in fondo è Arianna, non è vero? Mi sbaglio: il chitarrista ricambia l’abbraccio, battendo qualche volta la mano sulla sua spalla: “Anche io sono contento di rivederti” scherza lui, fingendosi offeso.

“Oh certo, anche quello” ride lei, un tantino imbarazzata.

 

Osservo la reazione di Arianna dal mio angolino, senza capire: non appena ho visto Linde ho subito pensato che fossero d’accordo, un altro accordo alle mie spalle.

La mia amica mi aveva infatti svelato di essere rimasta in contatto con il chitarrista per tutti quei mesi, cosa di cui in fondo non ero rimasta affatto sorpresa: chi dopo essere diventata amica dei suoi idoli avrebbe potuto rompere così di punto in bianco i rapporti, senza un motivo? Beh solo io, ma mi illudo di aver un motivo abbastanza valido.

E così lettera e cd erano stati mandati al negozio di Arianna, in modo che fosse la mia amica a portarmeli: le cose non erano poi esattamente andate come avevano pianificato.

Ma adesso, mentre li vedo insieme salutarsi e parlare del più e del meno con quei grandi sorrisi stampati sul viso, non posso credere che sia soltanto una farsa.

Forse nemmeno Arianna sapeva che Linde sarebbe venuto.

Peccato, niente capro espiatorio.

 

Ci spostiamo tutti in cucina, essendoci accorte che il salotto è poco presentabile: altro segno che la visita sia stata inaspettata.

“Hey, ma siete delle streghe voi due? Mi avete preparato una torta di benvenuto?” ci interroga il rasta con le sopracciglia aggrottate e la testa piegata da un lato per osservare l’immenso dolce.

“Eh no” lo informa Arianna, muovendo in segno negativo il dito indice “Quella era per Elisa!” sposta il suo sguardo su di me e afferma con orgoglio “Oggi ha ricevuto i risultati del suo esame: diplomata con ottimi voti”

“Che esagerata” ribatto, scuotendo la testa “Diciamo buoni”

“Smettila di fare la modesta come tuo solito” mi sgrida contrariata, mentre Linde si avvicina per darmi una rapida stretta alla vita.

“Congratulazioni Sweetie”

“Grazie” balbetto, un po’ scossa, quasi pietrificata. Nuovamente l’immagine del chitarrista si è sovrapposta a quella di…

 

Smettila Elisa, è ridicolo, continuo a ripetermi: Linde e Ville non si assomiglia nemmeno, non hanno la stessa voce o lo stesso atteggiamento, eppure ogni gesto o ogni parola del rasta  rendono la sua presenza reale.

Sto di certo diventando matta.

 

Restiamo a parlare a lungo, mangiando torta e bevendo spremuta.

In verità sono Arianna e Linde a parlare, io cerco di ascoltare i loro discorsi, tenendomi aggrappata alla realtà con tutte le mie forze.

E così il loro nuovo album uscirà a Settembre: un’improvvisa curiosità mi assale, ma tento di non darlo a vedere. Nuove canzoni, nuove poesie, nuove melodie: quali altre emozioni sarà riuscito a regalare a tutti i suoi fan? Quali passioni avrà deciso di condividere?

Quasi mi strozzo con la mia fetta di torta, quando vengo a sapere che ‘Venus Doom’ sarà anche il titolo dell’album: la mia amica non sembra particolarmente meravigliata questa volta. Probabilmente ero l’unica fan degli HIM ad esserne ancora allo scuro.

L’unica fan degli HIM a conoscere il segreto racchiuso dietro a quelle due parole.

 

“Ancora due mesi” sospira Arianna, lo sguardo sognante.

“Beh, voi avete avuto una piccola anteprima” ammicca Linde “Anche se per Liz non era proprio un pezzo ineditissimo. Vi è piaciuta?”

Arianna abbassa lo sguardo sul suo piatto, imbarazzata.

Finalmente mi costringo a parlare, attirando l’attenzione del chitarrista su di me: “Certo. La realizzazione è stata perfetta. E’ così diversa dagli altri album, ogni volta riuscite a stupirci”

 

Il sorriso di Linde si allarga sul suo volto, fino a raggiungere i suoi occhi: “E’ bellissimo sentirlo dire. E’ qualcosa che porta sempre una soddisfazione incredibile in un musicista, è la ragione del nostro lavoro” Si riscuote dai suoi pensieri filosofici all’improvviso, sospirando: “Peccato che tu non sia proprio super parte, eh Liz?”

Super parte? Forse no. Come potrei non amare quella canzone con tutta me stessa?

“Ma no” lo contraddico, cercando di essere il più autorevole possibile “Siete sempre più bravi, è un dato di fatto”

 

Ancora racconti. Mi lascio trasportare anch’io dai sorrisi e dalle risate. Per lunghi attimi, mentre ascolto le ultime avventure di Olivia, o i meravigliosi primi mesi di Heartta, quasi mi sembra di essere ancora avvolta in quel mondo.

Ma riesco sempre a riscuotermi.

Una tempesta di sentimenti si combatte nel mio cuore, ma l’esercito delle illusioni è ancora troppo debole per sopravvivere.

 

Si sono quasi fatte le tre: presi dai nostri discorsi e dal rinvangare il passato, ci siamo dimenticati di pranzare.

L’occhio di Arianna cade sul suo orologio da polso e la rossa sussulta, incredula: “Oddio ma è già così tardi? Io sono una gran chiacchierona, ma non pensavo che il taciturno chitarrista degli HIM potesse parlare così tanto” scherza, scuotendo la testa. Ma è davvero sorpresa, lo leggo in quel suo volto che ormai conosco come le mie tasche.

Linde si abbandona ad una risata argentina: “Avevamo molto da raccontare”

“Già” concorda la mia amica. Poi la sua fronte si corruga all’improvviso: “Ma non ci hai ancora detto perché sei qui”

 

Il rasta si irrigidisce impercettibilmente sulla sedia e il suo viso si contrae in un espressione più seria, sebbene un dolce sorriso continui ad increspare le sue labbra.

“Beh, io avevo bisogno di parlare…con Elisa”

Arianna balza in piedi di scatto, quasi spaventandoci.

“Perché non me lo hai detto subito?” lo sgrida, lanciandogli un’occhiataccia di rimprovero, più rivolta a se stessa in realtà che al finlandese stesso “Ti ho fatto perdere un sacco di tempo con la mia lingua lunga…”

“Ma smettila” ribattiamo entrambi, quasi insieme, e la nostra sincronia scioglie per un attimo la tensione, mentre scoppiamo tutti a ridere.

“Comunque sia, adesso devo andare al lavoro” ci informa, avvicinandosi a Linde per abbracciarlo ancora una volta “Così vi lascio parlare. Mi raccomando però, prima di andare via passa a salutarmi in negozio!”

“Certo” promette, lasciandola delicatamente andare.

Prima di abbandonare la cucina, Arianna ci lancia un ultimo radioso sorriso dalla porta: nei suoi occhi risplende, chiara, una nuova speranza.

 

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Capitolo 5
*** Pay me attention, I'll pay your soul back (pt2) ***


Chapter 3

 

Pay me attention, I’ll pay your soul back (pt2)

Do you want the real story or do you prefer the lie?

 

Dopo la sua partenza, il silenzio nella stanza diventa qualcosa di fisico e opprimente, denso quasi come la nebbia d’inverno.

Aspetto, appoggiata appena appena allo schienale della sedia, gli occhi fissi sulle briciole rimaste nel mio piatto, le mani attorcigliate in grembo: l’immagine del relax, insomma, penso tra me e me, senza divertimento.

Anche Linde non sembra più sicuro di voler parlarmi, adesso. Lascia vagare lo sguardo nella stanza: il suo respiro è lento e regolare, mi rimbomba quasi nelle orecchie.

 

All’improvviso, con la coda dell’occhio, mi accorgo che si è alzato in piedi. Seguo curiosa i suoi movimenti: si sposta dall’altra parte della cucina e si ferma ad ammirare la mia Angi, accostata al muro.

Le sue dita scivolano sulle corde, come in una carezza: la osserva attentamente con un sorriso che fa sciogliere, poi si volta nella mia direzione.

“E’ tua?”

Annuisco brevemente, ancora a disagio.

“E’ una bella Ibanez” commenta, ma poi aggiunge con un piccolo ghigno “Anche se le Gibson sono le mie preferite. Quando ero ragazzo però…”

 

“Linde” lo fermo con un sospiro, sollevando una spalla e incassando la testa nel collo “Ti prego, poniamo fine a questo tormento. Perché sei venuto? Sai che non cambierà nulla”

Lui riabbassa gli occhi sulla mia chitarra, il suo viso così diverso.

“Non appena ho imbucato quella lettera” esordisce a voce alta, sempre evitando di guardarmi, quasi stesse parlando ad Angi, piuttosto che a me “Subito mi sono reso conto che era stato stupido. Un errore. Che effetto avrebbero potuto sortire due misere righe? Avevo mandato anche il cd con la canzone, è vero. Ma non sarebbe stato abbastanza. Così, quando non ho ricevuto alcuna risposta scritta, nè alcuna chiamata, e potevo essere certo che lo stesso valeva per Ville, non mi sono meravigliato poi molto. Chissà cos’avrai pensato di me, leggendo quella lettera: cosa diavolo vuole questo? Perché non pensa agli affari propri? Immagino quale sia stata la fine di quella lettera”.

 

Solleva il capo all’improvviso, imprigionando i miei occhi sconvolti. Sento le mie gote in fiamme per la vergogna, vorrei parlare, ma non trovo la voce.

“No, Linde, ascolta…” cominciò a balbettare, così fievolmente che mi quasi mi stupisco di riuscire a sentire io stessa qualche sillaba.

 

Lui scuote la testa, interrompendomi con un gesto della mano: “No, avevi ragione. Quella lettera è stata un’idea penosa. E’ solo che” chiude gli occhi un momento, inspirando forte, mentre sul suo volto si fanno visibili segni di indicibile tristezza “io non potevo più vederlo in quel modo, dovevo fare qualcosa. E’ passato un anno, e giorno dopo giorno continuavo a ripetermi che sarebbe stato migliore. Ma non è stato affatto così: dopo che te ne sei andata, Ville si è richiuso completamente in se stesso, ha cancellato le date dei tour, ha smesso di scrivere, ha smesso di suonare. Poi non è più uscito di casa e quasi non ci permetteva di andare a trovarlo: quante volte mi sono ritrovato la porta chiusa in faccia, la strada inaccessibile. Stava sempre da solo, l’alcol come unica compagnia”.

 

Parla lentamente, lasciando scivolare ogni parola con fatica. E’ come una pioggia leggera, una di quelle piogge primaverili che bagna e dà vita ai fiori appena risvegliati dal sonno dell’inverno. Questa lieve pioggia di parole, tuttavia, non porta vita, ma uccide: è come una pioggia di aghi acuminati, che entrano uno ad uno nella mia pelle, facendosi strada verso il mio cuore.

Lacrime bollenti rigano il mio viso, mi accecano.

“No, non voglio ascoltare” gli grido, coprendomi la faccia con le mani.

 

Ero riuscita a superare quell’anno, tutto quel dolore, soltanto confidando nel fatto che lui stesse bene; che la sua vita fosse, se non felice, almeno piacevole.

Non posso credere il contrario. Non avrei mai potuto sopportarlo.

 

“Lasciami finire” mi supplica: la sua voce è vicinissima,tanto da farmi sobbalzare. Quando lascio cadere le mani, scopro che si è fatto avanti, e adesso accarezza dolcemente i miei capelli “Ti prego”

Inghiottisco con difficoltà e, con un sospiro, gli assicuro la mia attenzione.

 

Linde si siede di nuovo di fronte a me e ricomincia a raccontare: “Poi, a d’un tratto è cambiato, dal giorno alla notte. Con nostra grandissima sorpresa, ci ha chiesto aiuto: lo abbiamo accompagnato in un centro di riabilitazione, dal quale è uscito più in salute e perfettamente sobrio. Ha ricominciato a uscire con gli amici, a suonare, ha sistemato le bozze delle sue canzoni e ha tirato fuori un nuovo album spettacolare: ha ricominciato a vivere, insomma. Mi sono illuso che fosse guarito del tutto, che stesse bene. Ma ci sono delle ferite che ancora non si sono rimarginate, e sono quelle del suo cuore”

 

La mia testa sta per scoppiare: posso ancora ascoltare?

Devo.

Sta bene, mi dice. E poi si rimangia tutto. Fino a quando riuscirà a resistere il mio, di cuore?

 

“Perché lui è ancora innamorato di te. Lo è davvero, molto più di quanto avrei potuto pensare”

 

Il sangue è freddo nelle mie vene. Sta ancora scorrendo? Il battito è lento, non ne sono poi tanto sicura.

 

“Linde, no” mi lamento, ma lui non ascolta. E’ come se non avessi detto nulla.

“Sapevo che dovevo fare qualcosa: così ho scritto la lettera, perché sono un codardo, perché avevo paura di affrontarti, di affrontare Ville” il suo tono è più concitato ora, soffuso di rabbia disperata, ma non contro di me, o contro l’amico, ma verso se stesso.

“Perché non pensa agli affari propri, avrai pensato. Ma vedi” rivela, tornando a guardarmi fisso negli occhi, con un ironico sorriso “In fondo sono un po’ anche fatti miei, dato che la colpa di tutto quello che è successo è mia”

 

Le ultime parole galleggiano a lungo nell’aria, cullate dal silenzio.

Io ricambio il suo sguardo, senza riuscire a comprendere il significato di quella frase.

“Linde” mi sforzo infine di sussurrare, poggiando una mano sulla sua, davanti alla maschera di rimorso che lacera il suo viso “Ma cosa stai dicendo?”

Stringe le mie dita, una volta, ritraendo subito dopo il braccio.

Comincia a raccontare, gli occhi bassi e spenti.

 

Mi confida di come fosse stato profondamente turbato dalla notizia della mia età: si era molto affezionato a me, certo, e mi reputava una ragazza molto dolce, ma sapeva anche che io e Ville non ci conoscevamo neanche da un mese ed io ero così giovane. Ero una loro fan, affascinata dal mio cantante preferito, come poteva essere sicuro che la mia non fosse soltanto una semplice cotta? Ville aveva sofferto tanto, per Jonna. Poi era partito: era andato in America, aveva ritrovato il suo primo amore, la ragazza che aveva cercato di rintracciare per anni, e quando l’aveva ritrovata, aveva scoperto che questa stava per sposarsi; cosicché, per la felicità di lei, si era fatto da parte. Il suo cuore non avrebbe retto l’ennesima delusione. Linde voleva proteggerlo, salvarlo prima che fosse troppo tardi.

 

Quel giorno stesso, Tarja lo aveva trovato: gli aveva chiesto aiuto, aveva bisogno di parlare con Ville; era convinta di aver commesso un errore, permettendo al darkman di andarsene, e adesso volevo sistemare le cose. Linde, pur intuendo dall’espressione del suo volto che fosse sincera, aveva a lungo esitato: quale poteva essere la scelta giusta? Forse Ville avrebbe sofferto rivedendola. Forse però era la persona giusta per lui, l’unica che lo avrebbe potuto rendere felice. Aveva avuto più fiducia in lei che in me, ma in fondo non ho proprio nulla da rimproverargli, probabilmente anche io avrei puntato sulla donna di 30 anni, matura, innamorata di Ville sin dall’infanzia, piuttosto che sulla ragazzina diciassettenne conosciuta due settimane prima, di cui si sapeva davvero poco o nulla. E poi sembrava proprio che il destino avesse voluto metterla sulla sua strada.

 

Così Linde aveva combinato il loro incontro alla festa di beneficenza. Ma soprattutto, cosa di cui andava ben poco fiero, aveva fatto in modo che io lo venissi a scoprire direttamente.

“E’ stata una cosa tremenda, meschina, orribile” geme, continuando ad agitarsi sulla sedia per la vergogna “E’ solo che ero convinto che un taglio netto avrebbe troncato più facilmente le cose, meno dolorosamente. Se ci ripenso, è stato un ragionamento assolutamente incoerente, stupido. Non so davvero cosa mi sia passato nel cervello. Ma ti giuro” mi assicura, afferrando la mia mano inerme, mentre io resto silenziosa e rigida come una statua “non avrei mai voluto fare del male né a te, né a Ville. Pensavo di fare la cosa migliore, ma ho sbagliato tutto. Lui ti ama, più di quanto abbia mai amato chiunque altro probabilmente. Tu lo ami, Elisa?”

 

Resto impassibile. Ferma, zitta, immobile, senza quasi respirare.

Potrei mentirgli? Potrei dirgli che non mi importa assolutamente nulla di lui, che ormai è finito tutto?

Non sono mai stata una grande attrice.

Lo amo? Oh Linde, io lo amo più di quanto non dovrei, più di quanto credevo di essere capace.

 

Nessuna di queste parole esce dalle mie labbra. I miei pensieri restano chiusi nella mia testa, come i sentimenti nel mio cuore, nelle mie vene, in ogni millimetro cubo del mio essere.

Ma non c’è bisogno di parole. Se gli occhi sono lo specchio dell’anima, in questo momento non ho di certo la forza per oscurare o proteggere con imposte quella finestra sul mio cuore.

“Se ne sei innamorata, non fargli pagare tutto questo per un mio errore” mi prega, allungando una mano per asciugare delicatamente le lacrime che non ho sentito scivolare dai miei occhi.

 

Ancora silenzio.

Vorrei rispondere, ma mi sembra di essere intrappolata in un incubo: uno di quegli incubi in cui vorresti gridare, urlare, chiedere aiuto, ma la voce non esce mai dalla tua gola.

La mia mente lavora veloce, i muscoli non riescono a seguirla.

Linde attende paziente una qualunque reazione, ma invano.

 

Con un sospiro, spinge indietro la sedia e si alza in piedi.

“Domani sera suoniamo a Turku, al Ruisrock. Io riparto domani mattina con l’aereo delle dieci e mezza” mi informa, mettendo una mano nelle tasche dei jeans. Ne estrae una busta bianca, che appoggia sul tavolo di fronte a me: “Qui dentro ci sono altri due biglietti, sia dell’aereo che per il festival. Sono per te e Arianna, nel caso abbiate voglia di venire. Io torno indietro: e forse questa volta, troverò il coraggio di dire la verità a Ville. Ma almeno adesso ci sei anche tu a conoscerla”

Si piega in avanti per posare un leggero bacio sulla mia fronte e stringermi un’ultima volta, teneramente: “Mi dispiace, mi dispiace davvero così tanto. Spero che penserai a quanto ti ho detto. So che farai la scelta giusta e non seguirai i miei sbagli” ripete, con malinconia “Ti aspetterò, domani”

Si allontana da me, e lo spostamento d’aria, sebbene non faccia affatto freddo, mi fa rabbrividire.

 

Sta quasi per andarsene, quando d’un tratto si ricorda di qualcos’altro nascosto nella sua tasca destra.

“Volevo anche darti questo”

Mi porge una scatolina rettangolare e trasparente, contenente un cd di dimensioni molto ridotte. Lo afferro, quasi senza pensarci, spinta dalla curiosità e dallo stupore.

Visto che le mie corde vocali non sembrano ancora avere intenzione di rientrare in servizio, gli rivolgo un sguardo interrogativo.

“Perdonami le dimensioni” sorride timidamente “Ma non mi piace muovermi con borse o sacchettini: questo almeno entrava nelle tasche”

E senza nessun’altra spiegazione, mi saluta per l’ultima volta e lascia il mio appartamento.

 

***

 

E’ passata forse un’ora. Ed io sono ancora seduta al tavolo della mia cucina, rigirandomi la piccola custodia fra le dita.

Le parole di Linde riecheggiano senza posa nella mia testa. Ancora e ancora.

Cosa devo farne di quelle rivelazioni? Cambiano qualcosa?

Forse niente.

Forse tutto.

 

“Some search, never finding a way
Before long, they waste away”

“I found you, something told me to stay
I gave in, to selfish ways”
“And how I miss someone to hold
when hope begins to fade...”


Stupida canzone.

La verità di quelle parole torna a bruciare dentro di me. Ho paura, non voglio ascoltare: per la prima volta nella mia vita, provo risentimento verso quel brano che mi ha dato tanto.

Prendo tra le dita il piccolo cd e lo posiziono sul disco rotante del lettore.

Ho come il presentimento che finirò dalla padella alla brace. Ma scossa, disperata o sotto shock, la curiosità resta sempre il mio peggior difetto.

 

Una melodia dolce, sconosciuta.

Ma anche senza averla mai sentita posso dire a colpo sicuro chi ne sia l’autore.

Brace. Brace ardente.

Quelle poche note, unite con abile maestria per stringere il tuo cuore fino a fargli lacrimare sangue, si susseguono ripetutamente per quattro volte. Ad ogni giro mi sento più debole e una risatina isterica mi sfugge dalle labbra, considerando che la canzone non è nemmeno davvero iniziata e solo l’introduzione mi fa quell’effetto.

 

Should've known how hard it’s to stop tearing each other apart
Separating souls entwined in all these labyrinthine lies

La musica è straziante, la sua voce è perfetta.

Ma non è quello a lasciarmi senza fiato. O meglio, non soltanto quello.

C’è qualcosa di più, che non riesco immediatamente a cogliere.

 

I am dead to you, a shadow doomed
My love, forever in the dark
And of all untruths the truest is you
Too close to my heart

 

Ed è così che mi sento. Come morta, come un’ombra perduta.

Sta cantando una canzone o mi sta leggendo dentro?

 

This emptiness I've made my home
Embracing memories of dreams long gone
One last caress from the corpse of love is all I want
Underneath the cyanide sun

 

Un sole di cianuro.

Un sole di cianuro.

Il nostro sole di cianuro.

 

“E se domani ti stufassi di me? E se domani non fossi più abbastanza?” gli avevo chiesto, stringendo la sua mano, quel mattino nel parco, davanti a casa sua.

“Non so dirti cosa succederà domani. Adesso mi risulta difficile pensare ad un domani senza la tua presenza. Ti vorrei con me anche se la terra diventasse quadrata o il sole diventasse blu”

Avevo alzato un sopracciglio: “Blu?”

“Sì blu. Un sole di cianuro” aveva aggiunto pensoso.

 

Finalmente comprendo cosa ci sia di veramente speciale in quella canzone. Non sono parole e accordi, sono un pezzo della mia vita. Il disegno della mia anima.

 

We've sailed the seas of grief on a raft built with our tears
Looking for a way to disappear for a moment from our deepest fears

I'll be drowning you in this river of gloom
Forever in my heart

 

This emptiness I've made my home
Embracing memories of dreams long gone
One last caress from the corpse of love is all I want
Underneath the cyanide sun

 

Sì, sono la rappresentazione della mia anima. Ma anche della sua.

Adesso ne sono sicura e quella consapevolezza mi riscuote.

Scoppio in sighiozzi: come una bambina, non riesco a trattenermi. E tra le lacrime copiose e salate, quella strana smorfia è un sorriso?

 

Underneath the cyanide sun

 

 

 

 

Scusate davvero per la mia assenza: in assenza di commenti, non ero più sicura che questa storia interessasse e un po’ per mancanza di tempo, un po’ per pigrizia non ho mai finito di postare.

Ma sono stata un po’ stupida. Terminerò di postare in ogni caso.

Scusatemi ancora, davvero.

Un ringraziamento particolare a chi non ha perso la speranza (la prossima volta siete super AUTORIZZATE a mandarmi email minatorie XD)

E per le recensioni all’ultimo capitolo, grazie a:

@SomethingSpecial: scusami davvero tanto e grazie infinite per i complimenti! Sono davvero felice che sia riuscita ad emozionarti, è la cosa più bella che un lettore possa dire. Spero davvero che la tua euforia perduri! Sisi, bravissima, ci avevi azzeccato in pieno! Ma adesso la domanda è, cosa farà Elisa? Sono io a ringraziare te ^_^

@LittlrShady: sono davvero felice che tu mi abbia scritto, è sempre stupendo sapere se il tuo lavoro piace a qualcuno o riesce a farlo emozionare *_* anche se mi sembra sempre così strano. Grazie mille dei complimenti e assolutamente non trovo le tue parole banali, mi fanno solo immensamente felice. Grazie ancora

@6Vampire6girl6: grazie mille ^_^ spero che anche i prossimi capitoli non ti deludano…chissà come andrà a finire eheheh. Baci

 

 

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Capitolo 6
*** Choises and Mistakes (pt1) ***


Chapter 4

 

Choices and mistakes (pt1)

 

Looking for the key to my heart-shaped lock

 

9 Luglio

 

Ogni persona ha il suo ‘posto segreto’.

Il luogo preferito, dove si sente perfettamente a suo agio, qualunque cosa accada, che sia al settimo cielo, o 666 metri sotto terra.

Una grotta, una baita sperduta tra i monti, una casetta sull’albero, o semplicemente la propria camera da letto. Una volta ho conosciuto una ragazza che, ogni volta che sentiva di non riuscire più a sopportare il mondo esterno, troppo duro e insensibile, si chiudeva per ore nella sua cabina armadio, al buio, e restava a pensare, con le braccia intorno alle ginocchia, avvolta dal profumo della naftalina.

Di solito è un luogo nascosto, a volte poco accessibile, dove restare lontano da tutto e da tutti.

 

Sin da ragazzo, ho sempre avuto il bisogno di distinguermi. C’è chi mi ha dato del pazzo, chi dell’alternativo, chi dell’attore: ma non è qualcosa che ho mai controllato veramente. Seguire il gregge non è nel mio DNA.

E così anche il mio posto segreto è un po’ bizzarro. Perché non è poi tanto segreto, visto che sono circondato da migliaia di persone. Non sono nemmeno sicuro che possa essere definito un posto, visto che raramente è lo stesso, ma cambia ogni volta, ciclicamente.

 

Ma non esiste un momento in cui mi senta così dannatamente me stesso, come quando sono su un palco, cantando le mie canzoni davanti a tutte quelle persone che sono lì per noi.

L’agitazione è sempre tanta, ma è parte del pacchetto.

Suonare la mia musica, il lavoro di una vita, accompagnato dalla voce di migliaia di sconosciuti, è un esperienza catartica. Mi fa dimenticare il mondo, o almeno lo trasforma in un luogo un po’ meno temibile.

 

Spesso, durante i lunghi tour in giro per l’Europa, o in qualche altro continente, salire su quel palco è qualcosa di davvero faticoso: un letto sarebbe molto più appetibile. Eppure, anche quando il corpo e la mente sono obliati dalla stanchezza o dal fastidio, un po’ di quella magia riesce sempre ad insinuarsi in me.

I festival estivi sono i miei preferiti: hai il tempo di riposarti per una settimana e poi il weekend fai quello che ti piace, senza particolare sforzo, soltanto per il gusto di farlo. Semplicemente perfetto.

Ho anche una particolare preferenza per i festival che hanno luogo in Finlandia: puoi visitare anche città meravigliose, capitali da sogno, ma, come Dorothy insegna, non c’è posto come casa.

 

Quest’anno, la nostra performance al Ruisrock, è volata proprio in un soffio. Senza quasi accorgermene, siamo già arrivati a The Funeral Of Hearts. Canto lentamente, a occhi chiusi, perdendomi in quella bolla di note e bassi. Una collina illuminata dalla luna si stende davanti alle mie pupille cieche, un vento leggero le scompiglia i capelli scuri, sparpagliandoli sul mio petto. Le sue dita tormentate dal freddo sono sul mio viso adesso, il suo tocco è leggero sulla mia pelle.

 

“The heretics seal beyond divine, a prayer to a God who’s deaf and blind,

 the last rites for souls on fire, three little words and a question, why?”

 

Faccio un respiro e poi do l’attacco: “Love’s the…”

Schiudo le palpebre e sbircio attentamente la folla che mi sta davanti: la mezzanotte è passata da tempo e il cielo è ancora chiaro, ma il palco è troppo illuminato e per contro il pubblico appare sfuocato davanti ai miei occhi. Colgo qualche volto nelle prime file, qualche sguardo perso, qualche sorriso. La loro voce giunge invece forte e chiara, mentre completano la frase della mia canzone.

“Funeral of Hearts!”

L’avrò sentito milioni di volte, ma ogni santa volta mi stupisco di quanto possa adorare tutto questo. Mi sento un dio. Okay, forse dovrei tenere a freno Mr Ego.

 

Termina il brano e, uno ad uno, torniamo nel backstage. Gas è l’ultimo: mi soffermo a sbirciarlo mentre lancia le bacchette e i fan si accapigliano per riuscire ad acchiappare il bastoncino di legno; come al solito non riesco a trattenermi dal ridere.

“A te tocca sempre la parte più divertente” mi lamento, non appena il batterista ci raggiunge dietro le quinte.

Lui sbuffa, recuperando un asciugamano per tamponare le perdite d’acqua. Dio, se suda quell’uomo.

“Non hai idea che male alle spalle” ribatte, facendo scrocchiare quella sinistra “Ti lascerei volentieri il testimone, se non avessi paura che ti si strappasse uno di quei tuoi braccini”

Lascio perdere, alzando gli occhi al cielo. Evidentemente lui si diverte un mondo.

 

Mi guardo in giro, alla ricerca di un Red Bull, mentre oltre le transenne la gente disperata ha iniziato a chiamare a gran voce un encore.

“Ma è finito tutto da bere?” domando spazientito ad uno dei tecnici, che mi passa davanti macchinando con un cellulare.

Il ragazzo non solleva nemmeno la testa per guardarmi in faccia; mantenendo l’attenzione fissa sul suo apparecchio elettronico, mi fa un cenno con la mano, indicando una direzione molto vaga: “Prova di là”

Mi volto verso il punto segnalato, immaginando che il tizio si riferisca a quello che sembra un piccolo magazzino.

 

Non ho fatto nemmeno un passo, che Migè mi si para davanti, con un’espressione sconvolta, e mi mette sotto al naso la sua birra già aperta.

“No Ville, prendi la mia!” mi ordina, agitando pericolosamente la bottiglia.

Alzo un sopracciglio, confuso: “Ehm, apprezzo il pensiero, Mikko, ma lo sai che non posso”

“Oh” borbotta, ricordandosi all’improvviso che sono in astinenza completa da alcol da mesi, e ritrae velocemente il braccio, imbarazzato “Scusa Ville, hai ragione”

“Non importa” ridacchio, divertito da quel suo strano comportamento.

“Hey tu!” blocca un altro povero impiegato gracilino del festival, prendendolo per un braccio “Andresti a prendere una coca al mio amico?”

“Ma veramente io…” balbetta il ragazzotto, ma non riesce nemmeno a finire la frase.

“Ho detto una coca” ribatte Migè, facendo una faccia davvero perfida che, unita al suo look non proprio raccomandabile, fa tremare di paura il malcapitato.

“V-va bene” assicura, sparendo rapidamente dalla circolazione, per poi ritornare pochi istanti più tardi con la mia bottiglia.

Assisto alla scena, grattandomi la testa: “Ma, cosa diavolo ti è preso? L’hai spaventato a morte poveraccio”

Conosco Migè da davvero tanto tempo e, nonostante la corporatura massiccia, lui non era mai stato un bullo…

Il bassista ride nervosamente, trangugiando la sua birra: “Eh, bisogna far capire a questi giovani chi comanda”

 

C’è qualcosa di strano, ma non posso soffermarmi su dubbi e speculazioni, perché è già ora di tornare sul palco.

Accompagnati dalle grida del pubblico, ci riposizioniamo al nostro posto e iniziamo a suonare Razorblade Kiss.

Eseguito il pezzo, faccio un segno con la mano agli spettatori, per frenare i loro applausi e le loro urla. Quando penso di aver ottenuto abbastanza attenzione, mi riavvicino al microfono per presentare la nuova canzone.

Ruissalo sembra aver apprezzato molto Dead Lovers’ Lane: sono curioso di conoscere la reazione davanti a Bleed Well.

Sto per aprire bocca, quando mi accorgo dell’ennesima stranezza: Linde e Migè si sono avvicinati un po’ troppo, sventolando animatamente i loro strumenti.

 

“Aspetta un momento Ville” mi dice Lily, sorridendo impercettibilmente.

Poso una mano sulla cima del microfono, allungando il collo verso di loro.

“Ma che diavolo avete stasera? Siete tutti ubriachi?” sbotto, spalancando le palpebre.

“Senti, so che avevamo deciso di suonare Bleed Well, e avevamo fatto le prove per quella” esordisce il rasta, soppesando ogni parola “Ma noi abbiamo preparato anche un altro pezzo, nel caso avessi cambiato idea”

 

Non mi sfugge l’espressione gongolante di Migè: “Volete suonare Sleepwalking?” tiro a indovinare, scuotendo la testa davanti alla loro testardaggine: ma in fondo sono molto fiero di quella canzone e i loro assoli sono sempre stupefacenti.

“No, no” mi smentisce il bassista “Veramente stavamo parlando di Venus Doom”

Sbatto le palpebre, due o tre volte: “Che cosa?” domando incredulo.

Linde mi batte una mano sulla spalla: “Sappiamo che in fondo è quello che volevi fare sin dall’inizio, anche se poi qualcosa ti ha bloccato. Ma è giusto così, senza quella canzone probabilmente non ci sarebbe tutto l’album”

 

Rimango a fissarli senza parlare, mentre gli ingranaggi del mio cervello si muovono sin troppo velocemente. Hanno ragione, hanno dannatamente ragione, ma io…

“Non so se posso farlo” biascico, facendo una strana smorfia.

“Certo che puoi Ville” mi incoraggia Migè “E se vuoi posso darti una botta in testa con il mio basso per darti una mano!”

Reclino l’offerta con un ghigno e poi annuisco, ancora un po’ incerto.

I miei compagni tornano tutti contenti ai miei due lati e aspettano fiduciosi che io presenti il brano.

La prossima volta che qualcuno mi accusa di essere strano, gliene dico quattro.

 

“Scusate l’interruzione” attacco a parlare, ma ancora una volta vengo interrotto dal vecchio bassista.

“No Ville, parla in inglese!” mi ammonisce, muovendo su e giù la testa con fare concitato.

“Perché?”

Quei ragazzi mi stanno mettendo un’ansia terribile addosso.

“Perché stai presentando il nuovo brano” mi spiega pazientemente “E’ giusto che capiscano tutti! E poi anche prima lo hai fatto”

Ah sì? Non riesco a ricordare esattamente. Ho rivolto al pubblico straniero sparso tra la folla qualche frase, ma non riesco a rammentare esattamente quando.

Comunque il suo discorso ha un senso, quindi ricomincio, cambiando idioma.

 

“Scusate per l’interruzione. Io e gli altri ragazzi abbiamo avuto bisogno di una piccola riunione dell’ultimo minuto. Siamo arrivati all’ultima canzone per questa sera e abbiamo deciso di proporvi un’altra anteprima del nuovo album”

Gli applausi si fanno più forti, l’adrenalina cresce.

“Questo è il brano che dà il titolo al nuovo album. Per la prima volta dopo tanto tempo, il testo e la melodia non sono tutta farina del mio sacco” mi blocco un istante, inspirando profondamente. Sento l’impulso di accendermi una sigaretta, ma poi cambio idea e riprendo a spiegare. Sto diventando logorroico “La canzone è stata creata in collaborazione con un’ottima poetessa” sorrido tra me e me, considerando quanto le stia bene quell’appellativo “La quale sfortunatamente non è qui stasera” Che non sarà mai qui “Il suo nome è Elisa Bonizzi e quest’ultimo brano lo dedico a lei”

 

Mentre Gas dà il via alle prime battute di introduzione, il sorriso si allarga ancora di più sulle mie labbra, questa volta con un po’ di malizia. Domani, il suo nome sarà di nuovo su tutti i giornali e presto la notizia girerà anche in rete. Chissà se la mia piccola uscita, forse poco felice, tornerà ancora a sfiorarla anche a casa sua, a chilometri di distanza.

Una fiammella di speranza si accende, incontrastata, nel mio cuore e questa volta non ho né la forza, né la voglia, di sopprimerla.

Ripongo la mia attenzione sulle note della canzone, socchiudendo le palpebre e stringendo con entrambe le mani il microfono.

 

“Leave all behind now to watch her crawl

Through our dark gardens of insanity…”

 

I ricordi sono come un mare in tempesta e restare concentrato è davvero difficile.

Tuttavia, cantare la nostra canzone è meno doloroso di quanto potessi pensare. E’ davvero come se fosse qui con me: se ascolto attentamente la burrasca, riesco anche a sentire la sua voce che ripete le medesime parole, nella mia testa.

 

She’ll be the---

 

She'll be the light to guide you back home”

E poi, accade qualcosa.

Qualcosa che non mi succedeva da davvero molto tempo, o che almeno non era più successo da quando avevo smesso definitivamente di bere: la gola si fa secca, le parole non riescono ad uscire.

 

Il ricordo diventa così potente da stordirmi, da lasciarmi completamente ko. La sua voce non sembra più solo nella mia testa, è nelle mie orecchie, mi sfiora la pelle come una brezza leggera. Ma non posso davvero credere che sia reale!

Forse non è stata affatto una buona idea lasciarmi persuadere ad eseguire quel pezzo. Avrei dovuto dar retta al mio primo istinto di sopravvivenza. Ora è tardi, ed io sto completamente perdendo il senno.

Chissà cosa starà pensando il pubblico, chissà cosa staranno pensando gli altri, mi domando scuotendo la testa: forse crederanno che mi sia dimenticato le parole e immagino quanto sia imbarazzante quel silenzio! Perché nella mia testa la voce continua a cantare, ma per tutte quelle persone sono solo note.

 

Mi volto indietro, verso Gas, pronto a chiedergli di ricominciare tutto daccapo.

E quando il sangue mi si gela nelle vene, comincio a domandarmi se quello non sia un sogno, o se la mia coca sia stata drogata. Perché ho iniziato ad avere anche delle allucinazioni visive.

Dalla sinistra di Gas, procedendo nella mia direzione, si fa avanti con passo leggero la mia Venere. La luce dei riflettori bagna la cascata di lunghi capelli corvini, che le ricadono morbidamente sulle spalle nude, tingendoli di un viola innaturale e ammaliante. Dietro alle sue mani avvolte intorno ad un microfono, si intravede un timido sorriso, le sue gote rosee sono accese dall’emozione e contrastano con la carnagione pallida del collo e dello sterno. I suoi occhi…i suoi occhi non possono essere descritti, perché non ho mai trovato nulla che potesse essere loro comparato, se non l’abisso. Il Nulla e il Tutto, uniti insieme in un improbabile e prodigioso legame.

 

Just give her a kiss worth dying for…”

 

Continua a cantare, continua ad avvicinarsi.

Impossibile, non smetto di ripetermi, le braccia abbandonate contro il busto, incapace di qualsiasi movimento.

Ormai è così vicina che posso distinguere ogni particolare del suo viso, posso perfino percepire il suo inconfondibile profumo: è quasi cannella, ma più pungente.

Bisognerà ammettere che la mia fantasia di certo non fa economia di dettagli. Terribilmente realistici, tra parentesi.

 

A dividerci è solo un passo.

Il sorriso si fa più sicuro sulle sue labbra, sebbene mi accorga anche che una lacrima è sfuggita ai suoi occhi. Allunga una mano, sfiorandomi delicatamente il volto.

Sussulto, chiudendo per un istante gli occhi, involontariamente.

Quello non può non essere reale.

 

“…and open your arms”

 

 

 

 

 

Eccomi di nuovo qui in tempi abbastanza ragionevoli, no? XD

Grazie mille per i commenti e anche a chi ha solo letto.

 

@ 00glo00: uhhh allora per fortuna che sei passata! Grazie mille per il commento, fammi sapere cosa ne pensi anche degli altri, se ne hai voglia ^:^ Ehh, si sa, a volte le persone sono stupide…ma chissà se Ville ha le allucinazioni oppure qualcuno ha deciso di non essere poi così stupido… Un bacio

 

@SomethingSpecial: noooo, non volevo assolutamente farti piangere. Evviva, allora tua madre può associarsi alla mia e ricoverarci insieme tra le pazze che piangono e ridono davanti al pc! Non ti preoccupare, ti capisco anche troppo bene. La differenza di età in effetti è sempre in apparenza un grande ostacolo, ma penso anche io che dipenda molto dalla personalità delle persone: capita a volte di non trovarsi per niente con i propri coetanei. Anche la storia dei punti di vista diversi mi piace un sacco, sai. Hai proprio ragione. Alla prossima e grazie per continuare a seguire la storia!

 

@Ladynotorious: quando ho aperto la mail quasi non ci credevo, pensavo di avere le allucinazioni. Sono davvero emozionata. Grazie mille, davvero, per avere inserito questa storia tra le scelte, spero non deluderà nessuno fino alla fine. Sono contenta che ti piaccia ^_^  Grazie ancora, è una cosa bellissima.

 

 

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Capitolo 7
*** Choises and Mistakes (pt2) ***


Chapter 4

 

Choices and mistakes (pt2)

 

Looking for the key to my heart-shaped lock

 

 

Se ancora due minuti fa mi chiedevo se, prendendo quello stupido aereo, avessi fatto la scelta giusta o meno, adesso non ho più alcun dubbio: non avrei mai potuto perdermi la sua faccia, quell’espressione così assurda e stupita. Sembra quasi che abbia visto un fantasma e forse non dovrei esserne tanto contenta, ma non posso fare a meno di sorridere: sono tanto spaventevole? Probabilmente.

 

Ecco, è proprio da me perdermi in tali pensieri in momenti del genere. Devo avere qualche problema mentale, ma questa non è una novità. Forse ho detto addio all’ultimo neurone quando mi sono fatta accompagnare da Arianna all’aeroporto.

E a giudicare dal mio battito cardiaco, tra molto, molto poco, dovrò dire addio anche al mio cuore. Niente cuore, niente cervello. Dovrei far visita al mago di Oz appena avrò un attimo di tempo. Anche ad un po’ più di coraggio non direi di no.

 

Si passano minuti, ore, giorni interi a fantasticare su come potrebbe essere un bacio, un incontro, un solo sguardo. Ma, chissà come, la realtà è sempre diversa.

A volte può deludere, a volte stupire.

 

Non è passato giorno, durante tutto quest’anno in cui, nel sonno o nella veglia, non abbia immaginato come sarebbe stato rincontrarlo, sebbene fossi certa al 101 per cento che questo non sarebbe mai successo. Perché avevo preso una decisione, e non me la sarei rimangiata.

 

Oltre ad avere scoperto che la fermezza nei propri propositi non è la mia principale caratteristica, mi sono resa conto che il ricordo non rende affatto giustizia: ero convinta di rammentare ogni particolare del suo viso, ogni piccolo dettaglio o imperfezione, ma non è così. La profondità di quello sguardo, la curva di quelle labbra, non sono immagini che un impulso nervoso possa riprodurre senza l’ausilio di due occhi. La sua bellezza mi lascia senza respiro e non riesco proprio a spiegarmi come la voce possa ancora uscire dalla mia gola. Lascio che una lacrima scivoli via dalle mie ciglia, sopraffatta dall’emozione.

Allungo una mano, per toccare il suo volto, senza riuscire a fermarmi. Lo sento sussultare al lieve contatto, mentre le sue palpebre si serrano per un istante.

 

L’immaginazione, in questo caso, non può decisamente reggere il confronto con la realtà.

D’un tratto, non mi ricordo più nulla. Non mi ricordo perché me ne sono andata, non mi ricordo perché non ho fatto marcia indietro all’istante, non mi ricordo quasi chi sono.

Tutto quello che sento è che, per quanto giusto o sbagliato, sono nata per quel momento. Solo per vederlo tremare al mio tocco, e sentirlo vicino, e rendermi conto che i sentimenti non sono qualcosa che possa essere soppresso o nascosto: perché quando sono veri, sono molto più forti del migliore proposito, più forti di noi stessi.

 

Sto per abbassare il mio braccio, ma Ville mi sorprende, afferrando repentinamente la mia mano con la sua e tenendola premuta contro la sua guancia. Spalanca gli occhi, imprigionandomi con il suo sguardo, così dolce e incredulo, da farlo sembrare un bambino.

Resto immobile, a sorridere e piangere, e vorrei dirgli tutto e nessuna parola esce dalle mie labbra. Il mondo esterno è perduto e sembra tutto uno strano e improbabile film degli anni Trenta, dove c’è lei, e c’è lui, e tutto lo sfondo non ha senso. In bianco e nero, ma con i suoi occhi verdi.

 

“Non vorremmo disturbare, ma sareste su un palco” Migè mette la pausa al nostro film, avvicinandosi all’improvviso e facendoci saltare per lo spavento “Ed è la terza volta che suoniamo il ritornello, quindi immagino che tutti l’abbiano già imparato a memoria, ma potrebbe essere carino aggiungere anche le parole” mormora a voce bassa, cercando di rimanere serio.

“Oh cavolo” borbotto, mentre la gravità della situazione mi coglie impreparata, come la marea senza preavviso. Rido leggermente di me stessa, arrossendo vistosamente. Ville sembra ancora parecchio sconvolto, non riesce nemmeno a reagire.

Continuo a stringere le sue dita, ma riavvicino il microfono alle labbra, aspettando il momento giusto per attaccare con il ritornello.

 

Watch me fall

For you

My venus doom
Hide my heart

Where all dreams are entombed
My venus doom”

 

Il frontman degli HIM è rimasto davvero senza parole, per la prima volta da quando lo conosco. Da quando è nato probabilmente.

 

Approfittando delle poche note di intermezzo prima dell’inizio della seconda strofa, mi appoggio piano al suo braccio e avvicino il capo al suo, di lato, vicino all’orecchio sinistro.

Lo sento respirare più velocemente, mentre il suo inconfondibile odore pizzica le mie narici: “Ti prego, non lasciarmi cantare da sola” bisbiglio quelle parole con timidezza, in un sussurro “Sai che rischiamo i pomodori marci altrimenti”

Mentre mi ritraggo indietro, percepisco il suo petto sussultare, scosso da una piccola risata.

 

Grieve all your hearts out as she'll arrive enthralled

 in tragic, ecstatic agony

 

Mi fermo, incoraggiandolo con gli occhi e aspettando fiduciosa. Ed ecco arrivare la sua voce: ho seguito tutto il concerto, dietro, nel backstage, sospirando ad ogni nota. Ma sentirlo cantare così vicino, ad un passo, cambia completamente la situazione.

 

“And in her flames we will die some more
Just show me a life worth living for…”

 

Ripenso alla prima canzone che cantammo insieme, sul palco del Midnight Wish, quando, ritrovandomi a duettare con Ville Valo sulle note di Summer Wine, mi ero domandata come una tale fortuna potesse essere capitata proprio a me; me, una fan qualunque, su un milione di donne e ragazze. Certo, non avrei mai potuto prevedere quello che sarebbe successo dopo.

Ottenere le complete attenzioni del frontman degli HIM e lasciarselo scappare.

 

“Light of the dark”

 

Luce delle tenebre.

Penso che il suo cognome sia perfettamente azzeccato. Rivederlo è come ritrovare la luce alla fine di un tunnel buio e solitario, lungo un anno. E non importa se sono stata io stessa a fuggire da quella luce e a trovare rifugio nella galleria, forse troppo spaventata dalla sua intensità.

Adesso la luce è così attraente e bellissima: spero soltanto di resistere più a lungo a quel calore, senza scottarmi. Ho paura: le bruciature pungono ancora, segnano la mia pelle delicata e pallida. Per ora resterò all’imboccatura del tunnel, avvolta dall’ombra, ma abbastanza vicina per poter contemplare il mio Sole.

 

Finalmente, per quell’ultimo ritornello, riusciamo a intonare le parole all’unisono.

 

Watch me fall

For you

My venus doom
Hide my heart

Where all dreams are entombed
My venus doom

[ all dreams are of you – my venus doom ]

 

Mentre i ragazzi suonano l’intermezzo musicale, Ville torna a concentrare tutta la sua attenzione su di me: mi scruta minuziosamente, con una certa apprensione dipinta sul viso, forse aspettandosi il mio dissolvimento improvviso da un momento all’altro.

Gli sorrido e poi abbasso subito lo sguardo, imbarazzata, accorgendomi che le nostre dita sono ancora allacciate.

 

E’ il suo turno di fare un solo passo avanti, per coprire la poca distanza che ci divide.

“Sei davvero qui?” mormora, il suo respiro accelerato sull’incavo del mio collo.

Stringo più forte la sua mano, rispondendo con un ‘forse’ sibillino.

“O forse è solo un sogno” aggiungo subito dopo, prima che il cantante torni alla sua performance.

Appoggia la mano sinistra sulla cima del microfono, formando una piccola conca per rendere ancora più basso l’effetto della sua voce, ma non si azzarda a lasciare la presa con la destra, intorno alle mie dita.

Sono così vicina quando canta, quasi mi sembra di essere dentro al suo microfono. Per un istante desidero di essere quel microfono e il pensiero mi fa ridere di me stessa.

 

Hold me inside your infernal offering

Touch me as I fall

Don’t lose yourself in this suffering yet

Hold on

Hold me inside your infernal offering

Touch me as I fall

Don’t lose yourself in this suffering yet

Hold on

To me

 

Un ultimo ritornello e la canzone è finita.

Quasi come se un incantesimo si fosse rotto, le nostre mani sciolgono il loro nodo ed entrambi ci voltiamo verso il pubblico, che applaude e chiama il nome di Ville a gran voce.

 

Dopo un breve saluto con la mano, scivolo silenziosamente indietro, mentre il frontman è occupato con gli ultimissimi saluti.

Arrivo rapida dietro le quinte, e nella fretta quasi finisco addosso ad un omino della security.

“Tutto okay?” mi domanda premuroso, aiutandomi a recuperare l’equilibrio.

“Sì, certo” lo rassicuro, prendendo un respiro profondo.

“Strano concerto” ridacchia lui, sfiorandosi con indice e pollice il pizzetto sul mento.

Beh sì, non è stata una gig troppo normale.

“Spero non sia sinonimo di terribile, anche se quando mi ritrovo a cantare io…”

“No, assolutamente” scuote la testa con vigore, mettendosi una mano sul cuore “Posso giurarti che la tua voce è--”

 

“Perfetta” completa la sua frase una voce alla nostra sinistra.

“Decisamente” concorda il ragazzo, irrigidendosi davanti alla comparsa del cantante degli HIM “Beh, io devo andare”

Si dilegua rapido, sparendo verso la scaletta che conduce sotto al palco.

Mi sembra quasi di sentire distintamente ogni passo che Ville compie, lentamente, nella mia direzione. Ma forse è soltanto il mio cuore che martella contro il mio petto e rimbomba nelle mie orecchie.

Ha le mani nelle tasche dei jeans ed è come se dondolasse leggermente, mentre procede. O forse è soltanto il mio mondo a tremare.

 

Quando è appena mezzo metro a separarci, si ferma, sistemandosi meglio il cappello di lana sulla fronte sudata.

“Ciao” esordisce impacciato, gli occhi ancora un po’ sgranati.

“Ciao”

Anche la mia voce non è perfettamente pulita, piuttosto uno squittio da topo.

Si avvicina ancora ed io mi costringo a non indietreggiare, sebbene la tentazione sia tanta.

“Niente vestito da Venere questa volta” osserva, cercando probabilmente di allentare un po’ la tensione, impostando una finta espressione contrariata.

“Non ho avuto il tempo di cambiarmi”

“Pensavo che le dee potessero cambiare sembianza o ancor più facilmente abito, con un solo schiocco delle dita” continua, l’ombra di un sorriso a tirare gli angoli delle sue labbra.

Alzo le spalle, le braccia strette al petto “Anche le divinità dell’Olimpo hanno scoperto che non esiste alcun capo di vestiario più comodo dei jeans”

Si lascia scappare una piccola risata, che però non raggiunge i suoi occhi.

 

“Sei qui” sussurra, tornando serio e grave.

Non rispondo, rimango in silenzio a guardarlo, stringendo più forte il bordo del top nero.

Allunga un braccio per raggiungermi, ma lo ritrae di scatto, quando voci rumorose ci informano che non siamo più soli.

 

“Sei stato grande Linde! Credevo ti si stessero per staccare le dita” commenta Burton, tirando una pacca sulla spalla al chitarrista.

“Qualcuno mi passi una birra, ho ancora una sete tremenda!” riconosco la voce di Gas proclamare mentre si lascia cadere su una delle poltrone sparse per il backstage.

“Avete visto che facce? E’ stato un live indimenticabile”

Alla fine qualcuno si accorge della nostra presenza: Migè mi corre incontro, abbracciandomi prima che possa compiere alcun movimento.

“Complimenti! Sei stata grandissima Liz. La tua voce ci era mancata molto. Un’altra sorpresina, eh Valo?” ammicca poi, rivolto nella direzione di Ville, il quale sembra però molto preso dal braccio che il bassista tiene ancora legato alla mia vita.

“Già” mormora infine, accennando un sorriso.

 

“Abbiamo dovuto nasconderla qui dietro per tutta la durata del concerto” spiega Migè, ridacchiando sotto i baffi “E poi quando c’è stato l’encore si è dovuta rifugiare nel magazzino. Spero non sia stato troppo scomodo, principessa”

“No, affatto” mi affretto ad informarlo, scuotendo il capo con decisione “C’era una famiglia di topini che si sono rivelati dei perfetti compagnoni”

Ricordo ancora il brivido che mi ha percorso la schiena quando il nostro ben elaborato e segretissimo piano ha rischiato di naufragare perché nell’ingresso del backstage non era rimasto più nulla da bere di non alcolico, e Ville era stato indirizzato da un impiegato verso la stanzetta dove mi ero nascosta proprio per la pausa dopo Funeral.

“Topini?” sghignazza Burton, aprendosi una lattina di birra.

“Esatto” confermo, guardandomi intorno “Ma sapete dove è finita Arianna?”

“Credo che la Rossa sia da qualche parte con Manna e Olivia, probabilmente nel parco interno alla ricerca di qualche personaggio famoso da tampinare” si inserisce subito nel discorso Linde, indicando una direzione imprecisata alle mie spalle.

 

Un genuino sorriso si apre immediatamente sulle mie labbra: “C’è anche Olivia?”

Linde annuisce, facendo una piccola smorfia: “Quella bambina non dorme mai, non è vero Ville?”

Il darkman fa un distratto cenno del capo, e nessuno capisce se abbia davvero inteso la domanda. I suoi occhi sono ancora fissi su di me, posso sentirli seguirmi in ogni istante, sebbene  non abbia il coraggio di affrontarli.

Il rasta si avvicina, porgendomi una Heineken: “Adesso andiamo a cercarle, solo due minuti per riprenderci”

“Anche dieci” replico sempre sorridendo, rifiutando però con un gesto la bibita “No, grazie”

Lui mi osserva stupito per un istante, ma poi si immerge nuovamente nei commenti a caldo del live appena finito ed io riesco a defilarmi per un momento, ritornando a quel piccolo magazzino che si era gentilmente prestato ad essere il mio rifugio quella sera.

 

Nel ritornare indietro, ritrovo Ville isolato dal gruppo, appoggiato ad una parete con gli occhi chiusi.

“Qualcosa di fresco?” domando piano, facendolo sussultare. Socchiude le palpebre, dando una rapida occhiata alla bottiglia di coca cola che stringo nella mano destra, forse un po’ spasmodicamente.

“Certo” sorride, prendendola dalle mie dita e indugiando per un lunghissimo istante sul dorso della mia mano. E’ allora che nota che anche l’altra mano è occupata da una bottiglia identica.

“Addirittura due?” ridacchia “Mi hai preso per un cammello?”

“Mh, in effetti penso che tu e i cammelli abbiate molto in comune” gli confido, arricciando maliziosamente le labbra “Ma in realtà questa l’ho presa per me” aggiungo, sollevando la bottiglietta e agitandola piano.

 

“Volevo quasi meravigliarmi quando ho scoperto che la mia idea di dire per un po’ no all’alcol non fosse poi tanto originale. Poi mi sono ricordata che noi due condividiamo un cervello e lo stupore è svanito immediatamente”

Ville scoppia in una roca risata, ma i suoi occhi sono ancora troppo seri: “L’importante è che la tua scelta non sia stata maturata dopo mesi di oblio e alcolismo sfrenato”

 

Anche le mie labbra perdono il sorriso, quando mi accorgo di quanto poco felice sia stata la mia uscita. In quelle iridi insondabili e profonde percepisco un dolore terribile e mai dimenticato, una sofferenza di cui sono stata la principale causa e ragione, un supplizio a cui probabilmente il mio non potrà mai essere paragonato.

“Volevo essere più padrona delle mie scelte” torno ad esporre le mie valutazioni, cercando di deviare la sua attenzione dai propri tristi ricordi “O forse è stata solo l’influenza della mia lontana pigna gemella”

 

La bibita quasi gli va di traverso alle mie parole: “Te lo ricordi ancora?” mi interroga curioso, mentre il suo viso si trasfigura nuovamente in un modo dolcissimo, che mi fa stringere il cuore.

“Sì” sussurro piano, arrossendo lievemente.

Ricordo ogni istante, ogni parola. Ma non ho il coraggio di farglielo sapere.

“Siete pronti?” esordisce Migè, recuperando la sua giacca “Andiamo a cercare le donzelle in fuga e a recuperare le altre dolci metà!”

Io e Ville ci scambiamo un ultimo sguardo, prima di annuire alla richiesta del bassista.

 

“Devi assolutamente conoscere Vedrana!” continua lui, con un sorriso a trentadue denti “Ti adorerà sicuramente”

“E anche Niina!” interviene Gas, con gli occhi luccicanti, mentre decanta tutte le qualità della sua nuova ragazza.

“L’unica che non ci sarà è Luisa, è rimasta a casa con la piccola Heartta” mi informa Burton, accendendosi una sigaretta e precedendomi già per le scale “Ma appena torniamo a Helsinki la devi vedere”

 

Continuo a sorridere a destra e a manca, ma dentro mi sento morire.

Solo adesso riesco veramente a rendermi conto di come possa sentirsi Ville, l’unico rimasto da solo. Non posso credere che abbia rinunciato, abbia smesso di cercare per colpa mia.

Ero convinta di averlo lasciato tra le braccia della persona che amava davvero, invece lo avevo abbandonato tra le braccia della solitudine.

Se solo non fossi stata così stupida ed egoista…

 

***

 

Nonostante il concerto fosse terminato davvero tardi, abbiamo trascorso diverse ore insieme, in un delizioso ristorante di Turku, costruito su una nave d’epoca ormeggiata in mezzo alla lunghissima striscia di mare che attraversava l’intera città.

Io e Arianna ci siamo reinserite perfettamente nel gruppo, ed è quasi come se non ce ne fossimo mai veramente andate. Come se quello fosse stato da sempre il nostro posto. O almeno il mio.

 

La sorpresa più grande ed emozionante è stato forse scoprire che la dolce Olivia non si era dimenticata di me, ma serbava ancora un ricordo del nostro primo incontro. Per lei ero ancora l’amica di zio Ville con i capelli da fata.

Lei invece è davvero cambiata: l’ho trovata cresciuta molto più di quanto potessi aspettarmi, le ciglia più lunghe, i tratti del viso più definiti, ma la stessa dolcezza nello sguardo e nelle parole. Anche il suo inglese ha fatto notevoli progressi, cosa che non si può dire invece del mio finlandese.

Arianna, naturalmente, è entrata subito nelle sue grazie. Anzi, si può dire che quando le abbiamo finalmente trovate alla tenda dei Sonata Arctica, la piccola fanciulla mi aveva già rimpiazzato con la mia best friend. Ma in fondo la capisco: è impossibile non innamorarsi di Arianna, appena la si conosce. Almeno, però, la mia chioma da fata resta la sua preferita.

 

E’ stata una serata, o forse dovrei dire nottata, piacevole e divertente, ma il disagio e la tensione sono state mie compagne tutto il tempo.

Non sono riuscita a rivolgere a Ville che poche parole, troppo superficiali per avere davvero un senso, prima di rifugiarmi in altre conversazioni dove il numero dei partecipanti fosse ben più vasto.

E lui è rimasto fermo, impotente. Ad aspettare.

 

Ogni volta che ho incrociato il suo sguardo, mi sono sentita morire.

Ogni volta che ho sfiorato il suo profilo con gli occhi, mi sono sentita di nuovo in un sogno. Così irreale. Così stranamente famigliare, ma allo stesso tempo spaventoso.

 

Non sono sicura che sia giusto staccarmi ancora così tanto dal mondo reale. Ma forse non ho veramente scelta.

Qualcuno una volta ha detto che siamo destinati a ripetere sempre gli stessi errori. E’ la nostra natura. Chiedere di essere l’eccezione temo sia qualcosa che va ben oltre le mie possibilità.

Può darsi però che l’unico vero errore di cui un essere umano possa macchiarsi è di non saper mettersi in gioco al momento giusto.

 

“Di cosa stai filosofeggiando?” mi chiede Arianna, comparendo all’improvviso alle mie spalle e sfiorandomi con dolcezza i capelli.

Si siede accanto a me, sul comodo divanetto della stanza d’albergo che Linde aveva prenotato in anticipo per noi.

La luce dell’alba filtra già attraverso le finestre, bagnando con un caldo e intangibile velo le pareti candide ed un piccolo tavolino da caffè. Il vento scuote forte le fronde di un albero, così vicino, che i rami toccano a intermittenza il vetro con un sordo ticchettio.

 

“Filosofeggiando?” rispondo con un'altra domanda, inarcando le sopracciglia.

“Sì” conferma lei con un risolino. Poi atteggia il suo viso in una buffa espressione, indicandola al contempo con l’indice “Questa è la tua faccia quando la tua mente macchina pensieri filosofici”

Una risata esplode immediatamente dal mio petto: “Non è assolutamente vero!”

“Sì invece” mi assicura lei, ridendo ancora più forte.
Poi ritorna seria, cercando i miei occhi per poter leggere ciò che le parole non possono esprimere: “Come stai Ell?”

 

Mi lascio scappare un sospiro, tentando di non abbassare lo sguardo “E’…è molto più difficile di quanto potessi immaginare”

Arianna avvolge un braccio intorno alla mia vita, tenendomi stretta stretta: “Certo che lo è” sussurra piano, posando un leggero bacio sulla mia fronte “Qualunque esperienza è molto più difficile e piena di ostacoli di quanto possiamo mai aspettarci. Ma ci porta sempre qualche cosa in dono che va oltre il sogno più fervido: per questo vale la pena di essere vissuta”

Il sorriso torna ad aprirsi sulle mie labbra, mentre mi scosto un pochino da lei per poterla scrutare in viso: “Sei tu la vera filosofa. Lo sei sempre stata”

“Non per niente era l’unica materia in cui andavo bene quando ero a scuola” scherza lei, facendomi l’occhiolino. E’ allora che mi accorgo di quanto appaiano stanchi i suoi occhi.

 

“Forse sarebbe meglio dormire un po’” le faccio notare, sebbene la fatina del sonno sembri essersi dimenticata di spruzzare un po’ della sua polvere magica su di me.

“Potrebbe essere un’idea” annuisce, raddrizzandosi sul divanetto, con indosso il suo pigiama preferito, già pronta per il letto “Anche se è da tanto che non condividiamo lo stesso letto, non so se mi lascerai dormire”

“Certo” sbuffo, alzando gli occhi al cielo.

Ridacchia, scuotendo la testa e con essa i suoi bellissimi riccioli.

 

“La filosofa vuole darti solo un’ultima perla di saggezza” le sue parole sono ancora spiritose, ma il tono con cui le pronuncia attira immediatamente la mia completa e sincera attenzione “Posso?”

“Naturalmente” la sprono a continuare, con un cenno del capo.

Solleva piano le ciglia, permettendo al riflesso delle sue pupille ancora vigili, nonostante la spossatezza, di penetrare piano dentro, insieme a quell’ultimo consiglio.

 

“Tu sai che io non ho mai voluto spingerti in nessuna direzione” comincia, pronunciando ogni parola lentamente “Ci sono sempre stata, come ci sarò sempre, ma non ho mai cercato di forzare le tue decisioni, anche quando pensavo che fossero sbagliate. Perché non sono io a vivere la tua vita, e per quanto ti possa conoscere bene, solo tu stessa puoi individuare davvero la risposta giusta, scritta nel tuo destino. Ma c’è qualcosa che non posso permettere” fa una pausa, volgendo il suo sguardo a terra. Io resto immobile, quasi senza respiro. Dopo pochi attimi, riprende con più passione “Ed è che tu ti lasci frenare dalla paura. Guarda dietro ad essa. Trova la tua chiave”

Mi stringe forte la mano e poi si solleva dal divano, lasciandomi a fissare il vaso di fiori poggiato sul tavolino.

 

Avranno forse un giorno. Sembrano ancora freschi, ma in realtà stanno già appassendo e appaiono così rassegnati al loro fato. Non sperano più nella pioggia, non sperano più in un miracolo.

Mi alzo di scatto, come una molla. Afferro il vaso e lo porto in bagno, dove, dopo aver aperto il rubinetto, cambio l’acqua ai quei fiori.

Mi sembra quasi di udire il loro respiro di sollievo.

Niente pioggia, niente vita eterna o sogno senza fine. Ma c’è ancora un po’ di speranza, ancora qualche giorno da vivere adesso.

 

Ripongo i fiori sul tavolino, con il cuore che batte con nuova energia.

Arianna è sdraiata sul fianco, intenta a scrivere un messaggio con il suo piccolo cellulare argentato.

“Io esco” la informo un po’ titubante, appoggiata allo stipite della porta.

Quando alza lo sguardo, non vi è sorpresa nei suoi occhi. Tutto ciò che posso scorgere è un sorriso sardonico e insieme trionfante che le increspa le labbra: “Ah sì?”

“Hai visto quanto è bello il parco qui fuori?” continuo a giocare “Deve essere stupendo a quest’ora, con tutto questo silenzio. Non pensi?”

“Niente di più vero” replica sfrontata, abbandonandosi poi ad un ampio sbadiglio.

“E mi raccomando” aggiunge poi con noncuranza “Conta i fiori del prato qui dietro. Linde sostiene che siano 212, ma se hai voglia di controllare…”

“Potrei anche farlo” le regalo un ultimo ghigno, prima di lasciarla di nuovo al suo apparecchio telefonico e, probabilmente, al suo eterno amore.

 

Fluttuo lenta nel corridoio, come su una piccola nuvola. Abbandono il mio terzo piano, tradendolo per quello inferiore.

Ancora qualche passo, e sono al mio prato. Il mio prato nero e liscio di vernice. Con i suoi 212 fiori, incisi in oro.

Per un attimo le gambe mi tremano, ma non è il momento di perdere quel briciolo di coraggio che sono riuscita a racimolare.

Stringo le dita della mano destra in un morbido pugno e picchio più volte contro la porta del mio destino.

 

E con il cuore in gola aspetto di scoprire se la chiave che ho scelto è quella giusta.

 

 

 

Heilà ^_^

Eccomi qui tornata con la fine del quarto capitolo!

Un ringraziamento a tutti quelli che hanno letto e soprattutto a chi ha commentato ^_^

 

@Vampire666: beh, Linde si doveva far perdonare in fondo! E’ stato strano farli rincontrare, nella mia testa era passato davvero un anno XD Alla prossima!

 

@00glo00: era tutto reale XD Non sono ancora così cattiva, povero Ville! Grazie mille! Sono contenta che ti sia piaciuta! In fondo la loro storia ha sempre girato molto intorno alla musica, quindi da quando li avevo fatti lasciare ho subito pensato che questo fosse il modo più giusto per farli ritrovare! Temo di avervi lasciato di nuovo un po’ sulle spine XD Ci risentiamo tra poco, promesso! Baci

 

@maricapin: Ciaaaao Marica! Sono davvero felice che tu sia approdata alla mia storia! Certo che puoi chiamarmi Mossi ^_^ Ormai il mio vero nome è un optional XD (e lo so, il mio nick è chilometrico). Wow, sei riuscita a leggerli tutti? Ti ammiro per la tua costanza! Mmm, non che i primi capitoli fossero scritti granchè bene… XD era tipo due anni fa sì, e avrebbero bisogno di una bella risistemata (ma ho troppe storie in ballo XD). Sono contenta che ci sia una persona in più a voler loro bene *_* Per me ormai sono come i miei vicini di casa XD Non ti preoccupare. Finirò di postare tutta la storia! Che forza per Funeral! E’ il Grande Demone celeste che controlla tutto (una specie di divinità superiore che ha inventato una mia amica XD). Immagino che tutti conosciamo molto, troppo bene quel Lovely! Ahahah. A presto, baci

 

@eupraxia: grazie mille per i complimenti, sei un angelo *_* Sono davvero felice che ti siano piaciute! Sì, è decisamente un Ville adorabile (quasi sempre XD) e scrivere di questo mondo parallelo mi ha sempre aiutato a tirare avanti nei momenti più difficili! Sono così contenta che possa aiutare anche altri, facendoli appassionare. Spero di risentirti! Un bacio

 

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Capitolo 8
*** Love only matters (pt1) ***


Chapter 5

 

Love only matters, when it comes to the end (pt1)

 

 

All I want is that you love me

as I am

 

 

La sera dopo un concerto sono solitamente agitato e il sonno arriva sempre con fatica. Ma questa notte, non credo proprio riuscirò ad addormentarmi.

Sono sdraiato sul letto, nella mia camera d’albergo, fissando il soffitto in cerca di chi sa quale risposta.

Le note di una canzone dei Led Zeppelin scivolano piano nelle mie orecchie, ma non sono in grado di porvi attenzione. Solo la sua voce riempie la mia mente.

 

Una parte di me ha continuato a sperare, che un giorno, anche se lontano, l’avrei rivista.

Ma questa parte era ormai tanto piccola da non avere più realmente potere di persuasione in me.

Ritrovarla su quel palco a pochi passi da me, perdermi ancora una volta nei suoi occhi, assaporare il leggero tocco delle sue mani sul mio viso è stato come morire e rinascere in una sola volta.

Ripenso al testo di quella mia canzone che è la sua preferita: l’ho scritta molti anni prima di incontrarla, eppure sembra fatta apposta per la nostra storia. Forse era scritto nel nostro destino.

 

Probabilmente non riesco ad addormentarmi perché ho paura: paura che quando mi risveglierò, domani, scoprirò che è stato solo un sogno e dovrò ricominciare tutto, senza di lei.

Quando tornerò ad aprire gli occhi, potrei anche scoprire che lei se n’è di nuovo andata. Che me la sono lasciata sfuggire un’altra volta, senza averle detto quello che davvero provo ancora adesso per lei.

La serata è passata troppo velocemente. Non c’è stata nessuna occasione per parlare, mi ripeto, ma la realtà è che nessuno dei due l’ha davvero cercata.

Quando passi un mese in un centro di riabilitazione, hai molto tempo per leggerti dentro. Ed io ho scoperto di essere un codardo.

Non ho avuto il coraggio di seguirla quando è fuggita. Ancora oggi non ho avuto il coraggio di affrontarla.

Lei è tornata. Il destino mi ha regalato un’altra occasione, magari soltanto a breve termine, e sto buttando tutto a mare per paura.

 

Stringo i pugni, lasciando fluire dentro di me la rabbia. La scossa di adrenalina mi spinge ad alzarmi: resto seduto a lungo, elaborando un piano folle e irrazionale per poterla raggiungere, per risolvere i nostri problemi, per rendere per una sola volta nella mia vita le cose più semplici. Prima che sia troppo tardi.

 

If I ran away, I'd never have the strength
To go very far

Canta Madonna nelle mie orecchie, riuscendo a raggiungere una parte del mio cervello ancora attiva. Basta scappare, scappare non serve a nulla.

Se continui a fuggire dai tuoi problemi, prima o poi inciamperai e questi ti sommergeranno. Come mi è già successo d’altronde.

 

Sospiro, spegnendo l’mp3. Mi piego sul letto, recuperando la mia chitarra acustica appoggiata al comodino. Ho bisogno di più chiarezza, quella chiarezza che solo la musica è in grado di darmi.

Pizzico piano le corde, senza seguire un motivo preciso. Lascio scorrere l’indice su un filo teso dopo l’altro, senza sentire dolore alle dita, perdendomi in quello strano gemito.

 

Poi, all’improvviso, un altro suono. Un rumore più forte, poco melodico, ma al tempo stesso dotato di un suo ritmo.

Ci impiego qualche secondo per rendermi conto che qualcuno sta bussando alla mia porta.

Abbandono Sylvester tra le lenzuola, scivolando giù dal letto e toccando con i piedi nudi il pavimento freddo della stanza.

Pregando che Migè non sia stato colto da un altro attacco di coliche come l’ultima volta, mi avvicino rapidamente all’ingresso, stringendo un po’ gli occhi, per prepararmi al prossimo cambiamento di luminosità.

Aperta la porta, non sono sicuro che l’immagine colta dal mio povero cervello stanco sia reale e non il frutto di un’altra illusione.

 

Forse è soltanto un deja-vu:  Elisa è proprio davanti a me, un poco tremante, insicura, con quello sguardo implorante, lo stesso che aveva quella notte di Maggio di un anno prima, quando era venuta a scusarsi per azioni che non avrebbe voluto commettere.

Ma non è un semplice ricordo: il suo sguardo è il medesimo, ma il suo volto è diverso, più maturo, più deciso. Indossa ancora i vestiti del concerto, coperta da un maglioncino nero troppo leggero: per un momento desidero rivederla con addosso i pantaloncini sbiaditi del suo pigiama e la sua canottiera di quel colore indefinito.

 

“Ciao di nuovo” sussurra piano,  la testa piegata leggermente verso la spalla destra.

“Buongiorno” sorrido, dando una rapida occhiata al mio orologio da polso che segna le 4 e mezza, minuto più, minuto meno.

Le sue guance prendono un po’ di colore, quando ricambia il sorriso, imbarazzata “Scusa se sono venuta qui a quest’ora. Ti ho svegliato?” domanda, mordendosi un labbro.

Scuoto la testa, rassicurandola: “No. Non riuscivo a dormire” le confesso, osservando una ciocca di capelli che le ricade fastidiosa sopra ad uno dei suoi occhi a mandorla.

Come se avesse intuito i miei pensieri, Elisa si scosta indietro la frangia, con un gesto deciso: “Nemmeno io. Forse perché, come i fantasmi, non posso lasciare cose in sospeso”

Faccio due passi indietro, spalancando la porta: “Ti va di entrare?” le domando un po’ incerto, lasciandole libero il passaggio.

Lei annuisce, senza parlare.

 

Quando mi passa accanto il suo profumo torna a colpire le mie narici, ancora più forte che quella sera stessa. Allungo una mano per accendere la luce nella stanza, ma Elisa mi ferma, sfiorando la mia mano.

“No, aspetta” mi intima, ed io ubbidisco. La guardo mentre si avvicina rapida alla finestra, scostando le tende.

La luce del mattino si posa su di lei dolcemente, quasi avesse timore di sciuparla.

“Così è meglio, non pensi?” mi domanda con quella sua adorabile ingenuità, mentre lascia scivolare lo sguardo sui fiori colorati del giardino.

“Certo” le concedo, rimanendo fermo davanti alla porta.

 

Potrei restare anche ore immobile a guardarla, senza bisogno di parole. Siamo stati lontani così tanto, è come se desiderassi riprendermi tutto il tempo perduto, tutto il tempo in cui non ho potuto tenere il mio sguardo fisso sui suoi capelli d’ebano, sulle linee morbide del suo corpo.

Intraprendente come sempre, si sposta verso il letto, accomodandosi sul bordo.

 

“Hei Bellissima” bisbiglia alla mia chitarra, lo stesso sorriso dolce che le avevo visto rivolgere alla piccola Olivia, come se sentisse che anche quell’oggetto di legno e metallo possiede un’anima.

“Non sei proprio cambiata allora” commento, andando a raggiungerla. Mi siedo di fronte a lei, seguito dalla sua espressione incuriosita.

“In che senso?”

Allungo le mani sullo strumento, mentre lei ritrae per un riflesso involontario le sue. Fingo di non essermene accorto, sollevando la chitarra sul mio grembo: “Sempre convinta che il mondo sia governato dal gentil sesso. Bellissima? Il suo nome è Sylvester” la informo, lasciando scorrere le dita sulle corde “Non è una lei”

La mora scoppia a ridere, incapace di trattenersi: “Non volevo offenderla. Cioè, offenderlO”

“E’ una chitarra molto permalosa, ma potrebbe anche perdonarti” la rassicuro, prima di appoggiare lo strumento in questione per terra, contro il comodino.

 

Lei decide di stare al gioco: “Che cosa dovrei fare?”

“Rimangiarti quella famosa frase” rispondo semplicemente, per stuzzicarla. Per constatare se anche per lei quell’anno trascorso è come se non fosse mai davvero passato.

“Oh” sospira, alzando le spalle “Allora temo di essermi fatta un nemico. Non posso proprio rimangiarmi nulla. Le donne governano il mondo, affermare il contrario sarebbe una bugia”

Le mie labbra si aprono in un sorriso di vittoria, nonostante, ancora una volta, abbia perso la battaglia dei sessi. Ma lei ricorda, ricorda ancora.

 

“La conservo ancora sai?” mormora d’un tratto, con un tono diverso, non più ironico né pungente “La maglietta che mi autografasti quella notte. Non ho mai avuto il coraggio di disfarmene”

Ogni segno di esultanza scompare dal mio viso. Resto in silenzio, incerto su cosa rispondere, gli occhi bassi sulle sue mani che ricalcano nervosamente le decorazioni geometriche della coperta.

“Tu…” aggiunge poi timidamente, forse facendo uno sforzo su se stessa “Tu l’hai buttata via?”

Sollevo di scatto il capo, incontrando i suoi occhi: “No” esclamo, quasi indignato dalla domanda “Certo che no”

 

Elisa rimane un attimo scossa dalla mia reazione ed io, rendendomene conto, arrossisco: “Io…scusa…”

“Scusarti? Di che cosa?” mi rimprovera dolcemente “Non devi scusarti. E’ così…difficile, non è vero?” mi domanda poi, con una risata nervosa “Mi sento molto più piccola di quanto già non sia. Ma forse non è una questione di età, anzi: se fossimo dei bambini tutto questo non sarebbe successo…”

C’è così tanta malinconia nel suo sguardo: mi sembra di guardare in uno specchio. Ma la sua sofferenza brucia più di una qualunque ferita ricevuta direttamente.

 

Forse è un gesto puerile, ma tento banalmente di cambiare argomento.

“Dovremmo prendere qualche lezione da Olivia”

Lei sorride, quasi involontariamente: “Lei avrebbe tanto da insegnare. Mi ha fatto così piacere rivederla. E rivedere tutti quanti voi. E la Finlandia. Mi è mancato tutto questo. Ormai era diventato un pezzo di me…”

Mi siedo meglio accanto a lei, incrociando le gambe.

“Anche questo mondo ha sentito la tua mancanza. Ma ho sentito che ti sei fatta valere anche lontano da qui”

“Hai sentito?” inarca le sopracciglia, lanciandomi un’occhiata che è un misto tra il divertito e l’incredulo.

“Sì, beh, io…” cerco di inventarmi una scusa su due piedi, traballando sulle gambe di bugie troppo fragili “Linde mi ha raccontato qualcosa…cioè col viaggio e…”

 

Elisa ha la pietà di fermare i miei deliranti tentativi: “E con Arianna parlavi degli uccellini che cinguettavano sugli alberi e dei gatti che miagolavano ai passanti”

La guardo spalancando le palpebre e arrossendo, mentre un poco di risentimento mi invade: “Te lo ha detto?”

Scuote la testa e il suo sguardo disilluso, venato di matura ironia, la rende ancora una volta troppo grande per la sua età: “No, non me lo ha detto lei. Ma quando mi ha confessato di essere rimasta in contatto con Linde tutto questo tempo, ho capito che la stessa cosa era successa con te” fa una piccola pausa, stirando le gambe, perdendo lo sguardo lontano, per poi riposarlo su di me “E in realtà una parte di me l’ha sempre saputo”

Continuo a fissarla senza parole, senza capire

 

“Sì, io sapevo” sembra che parli più a se stessa che a me “Povera Ri, le persone nascondono la testa sotto la sabbia, come gli struzzi. Crediamo di fare la cosa giusta, e non vogliamo che nessuna causa esterna possa contraddire la nostra debole convinzione. L’ha fatto lei, l’ho fatto io. Ma le mie ragioni erano molto meno nobili”

“Quindi…” domando, piegandomi su me stesso, ancora più confuso “Tu sapevi…”

“No” mi contraddice e al contempo contraddice se stessa “Io non sapevo nulla. Non ho mai voluto sapere nulla. Né da lei, né dai giornali, né da internet. Nella mia testa tu stavi bene, felice, insieme alla donna che amavi veramente”

 

Dopo quella frase, un silenzio terribile cade tra di noi, ma è solo un silenzio apparente, che non fa altro che rendere la situazione più insopportabile, mentre la stanza trema per la tensione.

“Tu non volevi tornare” sono io il primo a parlare, e non c’è nota interrogativa nella mia affermazione. Il dolore, in un sistema malato di autodifesa, si tramuta passo passo in rabbia “Tu non vorresti essere qui”

Lei rabbrividisce, stringendosi le spalle con le braccia “Non è così. E’ molto più…”

“Difficile?” la anticipo, in un misto di scherno e frustrazione “Non fai che ripeterlo”

Annuisce, e poi scuote il capo: “Vorrei poter trovare qualcosa di diverso da dire. Ma è davvero complicato per me, Ville. Su una cosa forse hai ragione, ero convinta che non sarei tornata. Non sono pronta per tutto questo. Non lo sarò mai”

Si lascia andare ad un sospiro, scostandosi con un gesto deciso la solita ciocca di capelli.

 

“Ci sono storie che leggi nei libri, così melodrammatiche da farti bagnare le pagine di lacrime. E poi accade qualcosa, nella tua stessa vita” i suoi occhi brillano, il nero sovrasta i contorni appannati della stanza “Che è molto più di quanto avresti mai potuto immaginare. Ma forse il nostro problema è sempre stato che la nostra” si ferma un attimo, insicura delle parole da usare “storia…non è mai stata davvero reale. E’ stato un sogno. E doveva finire”

“Questa è una cazzata” la smentisco, alzando la voce, senza riuscire a trattenermi “E’ sempre stata una tua stupida idea, sin dall’inizio. Come puoi dire che non sia stato vero quello che c’è stato tra noi?”

“Oh, andiamo” ribatte, senza farsi intimidire per un solo istante “La fan anonima e normalissima e la rock star bella e famosa? E’ una cosa irreale, da film!”

 

“Ed io sono solo questo?” ciò che mi esce dalle labbra è poco più che un sussurro questa volta “La rock star, il frontman di una band? Pensavo di essere anche una persona. Credevo, o forse mi ero illuso, che fossi andata oltre quella facciata e che provassi qualcosa per me e non per l’idea di Ville Valo”

Si morde le labbra, trattenendo il respiro per un momento. Trattenendo le lacrime.

“Non è quello che intendevo” mi dice con voce rotta “Lo sai che…”

“Lo so? No, non lo so” la interrompo bruscamente “Ed è proprio quello che hai detto adesso”

Elisa scuote la testa, stringendo tra le dita un lembo di coperta, fin quasi a farsi male. Poi si alza di scatto dal letto, spinta da un irresistibile impulso di scappare, ancora una volta.

So già che non la lascerò andare, e forse lo sa anche lei stessa, perché dopo pochi passi si ferma e resta in piedi, immobile. E’ rivolta verso la finestra, ma anche dal profilo del suo corpo, dalle sue spalle, riesco a capire che sta tremando.

 

“Non era quello che intendevo” ripete ancora, e ogni sillaba porta ancor più sofferenza.

Scivolo anch’io giù dal letto e lentamente la raggiungo. Le tocco la spalla destra e faccio scorrere piano la mia mano lungo tutto il suo braccio, fino a prendere la sua e costringerla a voltarsi, con più delicatezza possibile.

Non oppone alcuna resistenza, ma tiene la testa bassa, il viso rigato di lacrime.

“Ti prego” la supplico “Guardami in faccia”

Sento che non vorrebbe ubbidire alle mie parole, ma reprime l’orgoglio e posa i suoi occhi grandi su di me.

 

Davanti a quello sguardo inquieto e triste, sono io a voler fuggire. Ma so che senza spiegazioni non si potrà mai risolvere nulla.

Paura, distanza, vergogna, fierezza. Quanti ostacoli da lasciare indietro per rimettere a posto i tasselli di un puzzle.

“Io sono un uomo come gli altri, forse solo più spaventato e insicuro di altri, che ha incontrato una persona che ha sconvolto completamente la sua vita, le sue convinzioni, i suoi tabù. Dopo essere stato ferito più di una volta, ho abbassato le mie difese molto prima di quanto avrei potuto credere possibile, e tutto ciò che chiedevo era di essere amato per quello che semplicemente sono, per i miei difetti e non per il mio nome”

Cerca di ribattere, ma io la fermo, accostando un dito all’angolo della sua bocca: “E non credo davvero quello che ho detto, non credo che tu sia rimasta attaccata alla fama, l’ho capito dal nostro primo incontro. Mi sono fidato dal nostro primo incontro. Ma tu non hai mai davvero avuto fiducia in me. E non c’è amore senza fiducia”

 

Una nuova lacrima scorre veloce, sfiorando la mia mano che Elisa scosta con un gesto deciso.

“E quando ho provato a fidarmi?” grida d’un tratto, colpendomi il petto “Cosa è successo? Non posso fidarmi di nessuno. Ogni volta che cedo, sono respinta”

“Non avrei mai voluto farti del male”

“Ma lo hai fatto!” geme, scuotendo la testa “Con quel bacio hai distrutto speranza e fiducia, in me stessa e in una storia senza futuro” Si allontana di nuovo, facendo qualche passo, avanti e indietro: “Ed io non ti incolpo di avermi tradito, non è stato quello il problema. Io sapevo che non avrei dovuto lasciarmi andare, che il tuo affetto era sincero, ma che il tuo cuore apparteneva ad un'altra. E forse è stato meglio così, che arrivasse così presto e che mi levassi di scena prima di perdere completamente ogni possibilità di scampo”

 

Si muove troppo in fretta, non riesco a fermarla. Si muove e parla così rapidamente da non avere quasi il tempo di respirare: “E pensavo di aver fatto la cosa giusta. Ho abbandonato il mio egoismo, ho messo davanti la tua felicità. E ho sofferto per un fottutissimo anno. Per poi scoprire che è stato tutto inutile”

Si blocca all’improvviso, dandomi una spinta, colpendomi con la forza di un dolore e una rabbia soppressi per così tanto tempo: “Io ti odio, ti odio per questo. Perché non sei rimasto con lei? Perché? Perché quando hai ottenuto finalmente ciò che volevi te lo sei lasciato scappare?”

 

Aspetto che sfoghi tutta la sua collera, fin quando le grida non si trasformano in pianto e singhiozzi, immobile, accogliendo ogni pugno ad occhi chiusi, moltiplicandolo nel mio animo, detestandomi ancora per averla fatta soffrire. Non riesco però a tacere a lungo: le afferrò i polsi, la attiro a me e la stringo, incurante delle sue proteste e i suoi tentativi di liberarsi.

“Perché non era ciò che volevo davvero” le sussurro all’orecchio, cercando di rassicurarla al contempo “Anche io ho tentennato: ho dubitato che la nostra relazione potesse avere un futuro. Tu eri così giovane, come lo sei anche ora, ed io non potevo rubarti la tua vita, offrendotene in cambio una piena di incognite, continuamente invasa da problemi e interferenze. E proprio quando ho ero più turbato è arrivata Tarja, cogliendomi di sorpresa. Per pochi attimi ho pensato che quello fosse un segno, un indizio per farmi capire quale piega doveva prendere la mia vita. E forse è stato proprio così: ma quel bacio a tradimento che il fantasma del mio passato mi ha strappato quella notte, mi ha spinto su una strada totalmente opposta a quella che pensavo. Con quel bacio ho compreso che, per quanto Tarja avesse un posto importante nel mio cuore, perché negarlo sarebbe una bugia, quello che provavo per te era diverso e molto più forte. Quel bacio mi ha fatto capire ciò che già sapevo, ma che non avevo il coraggio di affrontare: che ti amavo e che eri l’unica persona in grado di completare questo mio stupido cuore malato”

 

Elisa è ora immobile tra le mie braccia: ormai non grida più, né cerca di divincolarsi, non ne ha più  le forze. Continua a tremare e la sento così fragile, ho la sensazione che se allentassi anche di poco la presa, potrebbe scivolare e infrangersi, come una statua di cristallo.

“Ma tu sei scappata via prima che potessi spiegare ed io sono stato così stupido da non provare a fermarti davvero. Nella mia vita ho scelto sempre la strada meno complicata e ho perso. E adesso forse è troppo tardi?” mormoro piano, stringendo più forte, assaporando il suo profumo.

Non c’è risposta alla mia domanda, solo un silenzio assassino e assordante.

 

“E’ troppo tardi?” ripeto in un lamento, senza riuscire a staccarmi da lei, senza riuscire a incontrare i suoi occhi, per paura di trovarvi ciò che più temo.

E’ lei ad allontanarsi, traendosi lentamente fuori dal mio abbraccio. Allunga una mano per sfiorare il mio mento, posa le dita sui miei occhi, non mi permette di guardare il suo volto, cancella le lacrime che non mi sono nemmeno accorto di versare.

“Io non lo so”

 

Sposta la mano tra i miei capelli ed incrocio, alla fine, le sue iridi di petrolio: “Pensavo che venendo qui avrei trovato la risposta, ma ho scoperto invece un’altra verità. Hai ragione tu: è sempre stata una questione di fiducia. Forse non sono capace ad amare. Io non sono capace a fidarmi di nessuno. E’ colpa mia”

“Non era certo darti la colpa il mio intento. Io…io ero arrabbiato, non volevo dire quelle cose…” cerco di spiegarle, ma lei scuote la testa.

“No, hai ragione. E’ la verità. Se io fossi stata in grado di fidarmi non sarei scappata via in quel modo, non mi sarei nascosta per un anno intero”

 

“E adesso?”

 

Nessuno di noi sa più cosa dire. Ci si da la colpa a vicenda, ma non si raggiunge una soluzione. Non era così che me l’ero immaginato. No, non era così.

“Forse dovrei tornare nella mia stanza” è Elisa questa volta a rompere il silenzio, ma le sue parole portano nella direzione sbagliata.

“Ti prego, resta ancora un po’ con me” la imploro, sfiorando la sua mano “Non c’è bisogno di parole, né di gesti. Voglio solo averti ancora accanto, anche per poco”

Forse mi sto facendo solo del male, ma non riesco a sopportare l’idea di vederla uscire da un’altra porta.

Sembra tentennare per lunghi secondi, ma alla fine acconsente, probabilmente solo per pietà. Ma non mi interessa.

La accompagno al letto, la guardo distendersi al mio fianco in silenzio. Non la tocco, non la sfioro nemmeno, né le domando di girarsi nella mia direzione. Mi cullo ascoltando il suo respiro, desiderando di poter raggiungere almeno la sua anima. Pregando che quella non sia la fine.

 

 

 

 

Hey ^^ Scusate il ritardo, è stata una settimana strana!

 

Grazie mille a chi ha letto il capitolo precedente e soprattutto ad Ale e eupraxia per il commento. Siete dolcissime, come al solito!

 

Spero che il capitolo vi sia piaciuto! E se avete voglia di lasciare una recensione mi farebbe davvero felice!

Ci siamo quasi!

Bacini

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Capitolo 9
*** Love only matters (pt2) ***


Chapter 5

 

Love only matters, when it comes to the end (pt2)

 

 

All I want is that you love me

as I am

Quando mi sveglio la luce che entra dalla finestra non è più così tenue, e il letto getta strane ombre contro la parete che ho di fronte. Non avrei mai creduto di potermi addormentare, non in quelle condizioni. Ma è successo.

Ed ho dormito più sicura di quanto non abbia più fatto da tanto tempo. Forse per quel braccio che avvolge la mia vita, per quel corpo che riscalda la mia schiena, per quel respiro che accarezza i miei capelli.

Non so in quale momento della notte Ville mi abbia abbracciato, se il suo sia stato un gesto volontario o meno. Non so nemmeno se sia giusto, ma so di certo come mi sento.

Protetta. E tremendamente bene, come un pesce restituito al mare, come se quei fiori recisi  nel vaso della mia camera avessero trovato di nuovo la loro terra.

 

E so anche che, se solo lo volessi, potrei mettervi le mie radici in quella terra. Ma le parole di Ville mi hanno scosso la notte scorsa: senza volerlo, quasi senza accorgersene, ha colto il vero nocciolo della questione. La mia paura, la mia incapacità di affidarmi completamente ad una persona.

Adesso che ho ascoltato la storia dalle sue labbra, capisco a quanti errori l’orgoglio e la presunzione possano portare, anche quando si è convinti di fare del bene. Ma per quanto desideri dimenticare tutto, una parte di me, che si autodefinisce razionale, vuole sotterrare qualunque buon proposito.

Forse chi non è stato amato non potrà mai essere in grado di amare.

 

E’ un destino ben triste. Come si fa ad accettare una cosa simile?

 

Cerco di ricordare il dolore provato nel vedere Ville baciare un’altra donna. Lo comparo alla felicità e alla dolcezza di baciarlo io stessa.

E mi rendo conto, che per quanto possano far male, per quanto possano essere numerosi, anche mille ricordi tristi non sono nulla di fronte ad un unico ricordo veramente felice.

Le sue labbra, il caldo spirito che fluisce da un cuore innamorato, di bocca in bocca, fino all’altro estremo di un filo invisibile. Quanto vorrei assaggiare di nuovo il sapore di quelle labbra…

 

Senza più pensare, mi giro lentamente nel suo abbraccio, stando attenta a non svegliarlo. Mi fermo ad osservare il profilo del suo viso, le ciglia che sfiorano le gote rosee, la bocca leggermente socchiusa.

Mi sento come una ladra, ma non riesco a resistere. Un solo, piccolo bacio. Non se ne accorgerà nemmeno.

Tremando, mi sporgo in avanti per toccare le sue labbra. Il lieve contatto mi fa rabbrividire e perdo inevitabilmente ogni contatto con la realtà.

E’ solo una bocca, solo un respiro. Ma è la sua bocca e il suo respiro, ed io non riesco a ricordare nient’altro.

 

E poi non sono più solo quelle labbra di marmo: sono un braccio che mi avvolge più stretta, una mano che accarezza piano la pelle del mio viso, è il battito di due cuori che tornano a battere con la stessa accelerata e inquieta frequenza.

Non so più cosa accade realmente: ogni volta che sto insieme a lui riesco a perdere il filo, non riesco più a discernere ciò che è frutto della mia immaginazione da ciò che è reale.

Quelle labbra si muovono insieme alle mie, e come le mie chiedono di più.

Mi scosto, prima che sia troppo tardi.

 

Guardo quegli occhi verdi foschi di desiderio e aspettative, cerco di imporre a me stessa un po’ di giudizio, di tornare a pensare con la testa, di non abbandonarmi schiava dei sentimenti.

Ma, per mia sfortuna o meno, ho perso il controllo su qualunque parte del mio corpo.

Allaccio il braccio al suo collo e mi spingo di nuovo verso la sua bocca, baciandolo con più foga adesso, come se fosse la mia unica riserva d’aria.

Ville mi stringe a sé, ricambia il mio bacio con ardore, e il tempo e ricordi non sembrano avere più molto senso.

Giusto? Sbagliato? Non ero in grado di formulare una risposta di qualche valore.

 

Dopo minuti, o secoli, o anche istanti, è lui ad interrompere il contatto, con un ultimo piccolo schiocco, lasciandomi boccheggiante e perduta, riportandomi troppo bruscamente alla realtà.

Rimane a scrutare il mio volto confuso, ripercorrendone con i polpastrelli ruvidi ogni piccolo tratto.

Pian piano comprendo di essere stata troppo impulsiva, di aver contraddetto ogni parola e pensiero in un singolo istante.

“Una volta hai detto” mormora piano, con la sua voce bassa e roca “che non si possono risolvere tutti i problemi con un bacio”

Mi mordo le labbra, ricordando molto bene l’occasione.

Deglutisco, lasciando che le parole trovino da sole la strada: “Forse mi sbagliavo. Forse in alcuni momenti è più che abbastanza. Forse l’unico modo”

Mi lancia uno sguardo stupito e domanda insicuro: “Lo pensi davvero?”

“Sì” bisbiglio “Io non ho altro da dire. Hai paura?”

“Sì” risponde sinceramente, dopo un attimo di esitazione “E tu?”

“Sì”

 

Passa più volte le dita sulle mie labbra, da un angolo all’altro della bocca: “Sei sicura di quello che stai facendo?”

Ancora, evito di pensare, di inventare problemi anche dove non esistono. Dico addio alla parte pseudo-razionale. Lascio rispondere la mia anima.

“Sì” ripeto, accennando un sorriso.

A giudicare dalla sua espressione, non ho stupito soltanto me stessa con la mia affermazione decisa.

“Forse non ne sono capace. Forse sarò un completo disastro. Ma questa volta ne sono consapevole. Questa volta voglio fidarmi davvero”

Ville resta zitto, anche il suo sguardo è indecifrabile.

 

“Ti prego, dì qualcosa” lo supplico, cominciando ad avere paura senza un motivo preciso.

I suoi occhi sono i primi a sorridere, così brillanti e luminosi come ancora non li avevo visti dal mio ritorno.

La sua risposta non è fatta di lettere o fonemi. Le sue labbra mi giurano in altro modo silenziose promesse.

“E’ abbastanza?” sussurra, scendendo dalla bocca al collo.

“No”

Lo sento sussultare tra le mie braccia e non posso fare a meno di sorridere. Prendo il suo viso tra le mani, mi avvicino al suo orecchio.

“Voglio fare l’amore con te”

Le parole galleggiano nell’aria, alimentando il desiderio.

“Vuoi accontentarmi?”

Le sue labbra si piegano in una smorfia divertita, mentre scuote la testa e mi bacia la punta del naso: “Non ero indeciso. Soltanto meravigliato di come la vita ti possa stupire ad ogni passo”

 

Ripercorre con la bocca il profilo del mio viso, la mandibola e poi il mio collo; le sue mani tornano lentamente a prendere confidenza con il mio corpo, i miei sospiri si fanno ad ogni bacio più profondi.

Tutto è nuovo e insieme famigliare. Il tocco freddo delle sue dita ha l’effetto di fuoco sulla mia pelle, mi riporta lentamente in vita, come se ogni parte del mio corpo, così come il mio cuore, avesse atteso ibernato per tutto quel tempo.

I nostri vestiti giacciono ormai abbandonati ai piedi del letto. Non sento più freddo, avvolta nel suo abbraccio.

 

“Io…” sussurra alla fine di un lunghissimo bacio, litigando con le parole “Io…da allora…insomma non ho…”

“Nemmeno io” lo sottraggo all’imbarazzo, scostandogli una ciocca di capelli dalla fronte, mentre mi sovrasta con il suo corpo “Sarà come un’altra prima volta”

“La nostra terza prima volta” mi fa notare, con un sorriso divertito e amabile allo stesso tempo.

“Sì, la nostra terza prima volta” confermo, accogliendolo dentro di me.

 

E avrei vissuto ogni volta come se fosse stata la prima, perché ogni volta scoprivo che l’amore che provavo era molto più forte e più intenso di quanto ritenessi possibile.

 

Ti amo” bisbiglia ad un tratto, con il fiato corto, con quel suo accento nordico.

Ancora una volta utilizza la mia lingua madre, che non mi è mai sembrata tanto dolce prima. Ancora una volta riesce a strapparmi qualche lacrima, ma di felicità.

“Minä rakastan sinua” replico in un soffio, nascondendo la testa nell’incavo del suo collo.

 

***

 

Per la seconda volta in un giorno, mi sveglio in quel letto. Forse un po’ più sfatto adesso.

Le mie palpebre sono ancora chiuse, ma dall’intensità della luce indovino che sia ormai molto tardi, pomeriggio inoltrato probabilmente.

 

Cerco il braccio di Ville intorno alla mia vita, e quando non lo trovo spalanco immediatamente gli occhi, terrorizzata. Ma lui è proprio accanto a me, la testa appoggiata contro il palmo della mano, che mi studia con un sorriso sornione.

“Buongiorno” mi saluta, riavviandomi indietro i capelli spettinati.

Inarco le sopracciglia, perplessa: “Buongiorno?”

“Okay, forse buonasera” si corregge, carezzandomi distrattamente un braccio, non perdendo un secondo il contatto con i miei occhi.

 

Il mio cuore sembra essere aumentato di qualche taglia, temo che non ci sia più spazio nel mio petto. Ho come la sensazione la sensazione che sia diventato tutto più pesante e la percezione è così forte che non posso fare a meno di portare una mano poco al di sopra del seno, sullo sterno.

Mi accorgo così che dal mio collo pende una catenina e, alla fine di questa, un grande ciondolo d’argento.

 

“Ville…” il suo nome è tutto ciò che riesco a mormorare, sopraffatta dall’emozione.

“L’avevi perso per strada” mi ricorda con fare molto diplomatico, ma davanti al mio mezzo sorriso sistema la frase “O meglio, hai deciso di perderlo per strada. Io l’ho ritrovato. Vuoi che me lo riprenda?”

“Certo che no” ribatto prontamente, stringendo più forte il pendente nel mio pugno, quasi per paura che possa dissolversi nel nulla.

 

Il mio personalissimo heartagram. Il primo segno del suo passaggio nella mia vita.

Lo rigiro, controllando la scritta incisavi sopra.

To my LoveMetalSister and sweet wildcat. Ville

E’ ancora lì, è tutto come prima. E’ tutto come se non fossi mai andata via.

 

Ma è davvero così? D’un tratto la paura mi attanaglia le viscere.

“E adesso?” gli domando a bruciapelo, dando voce a dubbi e timori “Adesso potrà tornare tutto come allora?”

Ville raccoglie i pensieri per qualche istante, forse cercando le parole adatte.

“Non ti so dire se sarà mai lo stesso. Forse sarà ancora meglio. Possiamo solo crederci. Tu credi in questa realtà, Elisa?”

Accentua con forza le ultime parole, per ricordarmi che non è solo un sogno. Ma per me stare con lui sarà sempre un sogno. Forse però esistono anche i sogni senza fine. O possiamo crederci insieme.

Annuisco con decisione, incrociando le sue dita con le mie.

 

Tuttavia non è ancora tutto a posto, le leggo dal suo sguardo, dal modo in cui la sua mano si stringe alla mia.

“Cosa?” lo sprono a parlare, cercando i suoi occhi ora sfuggenti.

“Mi aspetteresti due mesi?” mi chiede a voce così bassa che quasi stento ad udire la sua domanda.

“Due mesi?” ripeto senza capire.

“Sì, due mesi” mi spiega, riversando con fatica ogni parola “Sarò negli Stati Uniti, abbiamo accettato di partecipare ad un progetto che ci terrà impegnati per i prossimi due mesi”

Due interi mesi?

Non so se sono in grado di resistere tanto. Non adesso.

“Fammi venire con te!” esclamo di getto. Ormai non ho più il controllo sul mio cervello, non sono mai stata così impulsiva in tutta la mia vita.

“Cosa?”

Cerco di riparare in estremis: “Cioè, se è una cosa possibile. Altrimenti aspetterò naturalmente”

 

Scivola sul letto, fino a raggiungere l’altezza del mio volto: “Tutto è possibile. Dobbiamo solo organizzarci. Ma tu puoi farlo?”

“E’ l’estate del diploma. Posso tutto” rispondo con un sorrido a trentadue denti.

E così ci ritroviamo a parlare dell’America e di un tour chilometrico chiamato ‘Project Revolution’, al quale, scopro, parteciperanno anche i miei piccoli Chimici.

 

“La mia teoria non era poi così malsana” mormora Ville all’improvviso, giocherellando pensoso con il mio heartagram.

“In che senso?”

“La teoria della fine e dei desideri. Si è avverato tutto. Il desiderio che ho espresso quella notte è diventato realtà. Sei tornata da me. C’è solo una postilla da fare al mio perfetto ragionamento filosofico”

“Cioè?” domando curiosa, affascinata come sempre dalla sua mente contorta.

 

“Tutto muore. Ma qualcosa rinasce.”

 

 

***

 

 

Un tempo Nietzsche scrisse:

 

“Sebbene delle due metà della vita, quella della veglia e quella del sogno, la prima ci appaia senza paragone come la preferibile, la più importante e degna, quella maggiormente meritevole di essere vissuta, anzi la sola vissuta, io vorrei, però, nonostante qualsiasi sospetto di paradosso, sostenere proprio l’opposta valutazione del sogno, in rapporto a quel misterioso fondo della nostra essenza, del quale noi siamo apparenza”

 

E così ho deciso di cedere al sogno, nonostante i luoghi comuni, nonostante il pensiero del mondo, nonostante una parte di me continuerà a considerare la mia scelta irrazionale e sconclusionata.

La mia vita non è iniziata come una fiaba, ed io non sono di certo una principessa.

Ma il finale della mia storia posso scriverlo da me.

 

The end

 

(Almeno per adesso…)

 

 

Here we are.

 

E così si conclude anche la seconda parte di questa storia. Lo so che vi ho fatto penare un sacco, ma almeno è finita bene questa, no? Hehe

 

In ogni caso, come potete intuire, questa non è ancora davvero la fine.

Lo so, forse sarebbe anche ora di lasciarli in pace questi due poveri personaggi… ma proprio non riesco a staccarmi.

Avevo iniziato a scrivere la terza parte, ma poi sono stata presa dentro ad un'altra storia (che doveva essere breve e invece mi ritrovo a pagina 225 e ancora lontana dalla fine -.-‘’) così non so bene quando mi rimetterò al lavoro.

Ogni tanto scrivo qual cosina…quindi non si sa mai. Potrebbe presentarsi presto un capitolo!

Ah, potrei anche postare un paio di one-shot che stanno nel mio computer da un po’!

 

Spero che vi sia piaciuto il finale. Considerando che è l’ultimo capitolo, mi piacerebbe davvero sapere cosa ne pensate ^_^ Anche un commento piccolo, piccolo e veloce veloce.

 

Colgo l’occasione per ringraziare tutti quelli che hanno letto e recensito nel corso della storia. Grazie Grazie.

 

Un altro ringraziamento particolare alle commentatrici dello scorso capitolo: sweetevil, eupraxia e maricapin *_* Siete dolcissime.

 

 

Un abbraccio a tutti quanti.

See ya soon.

Moss aka FallenAngel

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