The 101 Canto - Lost in your eyes Sequel di AnAngelFallenFromGrace (/viewuser.php?uid=22478)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Dear God ***
Capitolo 2: *** Deaf and Blind (pt1) ***
Capitolo 3: *** Deaf and Blind (pt2) ***
Capitolo 4: *** Pay me attention, I'll pay your soul back ***
Capitolo 5: *** Pay me attention, I'll pay your soul back (pt2) ***
Capitolo 6: *** Choises and Mistakes (pt1) ***
Capitolo 7: *** Choises and Mistakes (pt2) ***
Capitolo 8: *** Love only matters (pt1) ***
Capitolo 9: *** Love only matters (pt2) ***
Capitolo 1 *** Dear God ***
The 101 Canto
Chapter 1
Dear God
Pieces of a new life
23
Giugno 2007
Mi
rigiro nel mio letto, ancora e
ancora, cercando una posizione comoda. Ma so già che
è inutile: quando mi
capita di svegliarmi, così, all’improvviso, mi
è quasi impossibile rimettermi a
dormire.
Sarà
il caldo: passare l’estate a
Milano non è proprio il massimo, l’afa
è terribile, ogni giorno di più. Ho la
finestra spalancata, ma sembra che nemmeno un filo d’aria
abbia la compiacenza
di farmi una visita.
D’altra
parte, fin quando non avrò
terminato questo stupido esame di maturità non posso nemmeno
scapparmene al
lago. Per sfuggire al caldo sarei disposta anche ad accontentare
Arianna
e andare con lei al mare,
sebbene non lo ami proprio alla follia. Ma un bagno non sarebbe affatto
male in
questo momento.
E
invece no: con la solita fortuna, i
commissari d’esame hanno estratto la D, cosicchè
la cara Elisa Bonizzi sarà una
delle ultime maturande a sviscerare la sua tesina. Come poteva essere
altrimenti?
Pensare
alla maturità mi rimette lo
stomaco in subbuglio: la settimana scorsa ho terminato le prove
scritte, e tra
l’altro ho idea che il mio tema sul Decadentismo non sia
stato proprio un’opera
d’arte, ma, come si dice, è inutile piangere sul
latte versato.
Mi
rigiro per l’ennesima volta, a
pancia in su. Per evitare di pensare a tutta la roba che devo ancora
far
entrare a forza - e per forza - nella mia povera testa, concentro la
mia
attenzione sulle foto e i poster che ho attaccato sul mio soffitto.
Sì,
perché la mia stanza non è molto
grande, sarà forse qualche metro quadro in meno di quella di
Arianna, ma ogni
superficie piana è completamente sotterrata da quadri o
fotografie. C’è anche
qualche disegno, regalatomi da qualche amico, o fatto da Arianna. Gli
acquarelli sono la sua ultima passione. Il più bello di
tutti rappresenta la Uspensky
Cathedral di
Helsinki, con le sue guglie dorate e i riflessi
granata.
La
parete sud, quella sopra la
scrivania, è interamente dedicata alla Finlandia: ci ho
impiegato quasi un mese
per fare un collage con tutte le nostre foto e il risultato
è davvero
impressionante. Quando mi siedo al computer, ogni tanto sollevo lo
sguardo e mi
sembra di essere ancora lì, tra le strade illuminate o sulla
banchina del
porto, a guardare il mare.
La
mia foto preferita in assoluto
occupa il posto d’onore proprio al centro del muro ed
è anche molto più grande
delle altre, così da saltare subito agli occhi. Era stata
scattata proprio il
primo giorno, sull’immensa gradinata davanti alla Cattedrale:
c’è tutto il
gruppo, Dave, con la sua espressione sempre mezza addormentata, Andrea,
con il
suo dolcissimo sorriso, Luke, con la sua faccia da schiaffi e gli
occhiali da
sole, e naturalmente io e Arianna, in piedi alle loro spalle, in una
posa
decisamente assurda.
Ogni
volta che guardo quella foto non
posso fare a meno che sorridere, ripetendo a me stessa che prima o poi
quella
città meravigliosa e i suoi tranquillissimi abitanti
dovranno sopportare un
nuovo assalto della banda degli Svitati, al gran completo.
Nonostante
ciò che mi ero ripromessa,
non ho mai dovuto rimettere Arianna su un aereo diretto verso la
penisola
scandinava.
L’autunno
scorso infatti, la mia
amica ha trovato un posto come commessa nel nostro negozio di cd
preferito, uno
dei pochi negozi dove riusciamo a trovare musica davvero interessante.
Ricordo
come fosse ieri quel venerdì, uno dei primi di Ottobre,
quando Arianna tornò a
casa superesaltata, e, saltellando per la cucina dove io, invano, stavo
tentando di preparare la cena, mi aveva informato della
novità: “Visto che sei
sempre qui, potresti anche darci una mano in negozio” le
aveva proposto il
proprietario, un ragazzo vicino ai trenta, che, a mio parere, si
è preso anche
una bella sbandata per lei. Sebbene lei sembri non farci proprio caso.
Ama
quel lavoro: ama sistemare per
ore e ore la merce in un nuovo ordine, soprattutto i vinili, adora
ancor di più
consigliare i clienti, che ogni volta ritornano ringraziandola con il
cuore per
i suoi consigli.
E
poi è venuto il giorno, a Gennaio,
quando finalmente ha potuto posare sullo scaffale delle nuove uscite
anche il
primissimo cd degli ‘Unforgivable sinner’:
ritrovare il volto dei nostri
migliori amici sulla copertina di album, nei negozi, è
ancora uno shock, e
nonostante siano passati quasi sei mesi, non sono ancora riuscita ad
abituarmici.
La
band nel frattempo è tornata a
casa e comincia a godere dei primi frutti del suo successo:
naturalmente qui in
Italia non c’è stato un gran boom, ma in Finlandia
e in Germania hanno già
venduto moltissime copie.
Non
posso nemmeno esprimere a parole
quanto sia felice e fiera di loro, benché
l’improvvisa notorietà non abbia
giovato affatto sul già smisurato ego del loro frontman.
Quando
erano divisi, divisi da
chilometri e dal mare, sembrava che Arianna e Luke non potessero vivere
separati. Da quando vivono nella stessa città, la loro
relazione è un continuo
tira e molla.
Ogni
tanto ritrovo Arianna a parlare
da sola davanti allo specchio, o con una tazzina di caffè,
imprecando contro ogni
essere vivente e respirante e giurando a se stessa – e alla
tazzina di caffè –
che quella sarà stata l’ultima volta in cui si
è fatta fregare.
Naturalmente
fino a quando non lo
vede flirtare con un’altra ragazza; allora la situazione si
ribalta.
Immagino che l’espressione ‘come cane e
gatto’ sia il loro motto di vita:
d’altra parte conosco davvero poche persone così
indissolubilmente legate.
Per
quanto mi riguarda, rientrata dal
mio folle viaggio a Helsinki, sono tornata a scuola e, nonostante
avessi saltato
quasi due mesi di lezione, con molte preghiere e tanto, tanto lavoro,
sono
riuscita a non perdere l’anno. Gli esami di riparazione me li
sogno ancora di
notte, a volte: si può quasi dire che per me la
maturità sia un gioco da
ragazzi. Beh, quasi.
Certo
adesso ho dalla mia la simpatia
di quasi tutti i professori, mentre un anno fa…un anno fa le
cose era
completamente diverse.
Molte
erano le persone che non me
l’avrebbero fatta passare liscia volentieri, e se non fosse
stato per
l’intervento della prof di Matematica, l’unica che
credeva realmente nelle mie
possibilità e nella mia buona volontà,
probabilmente ora non sarei qui a due
passi dalla fine.
Così
mi hanno dato una seconda chance
ed io l’ho colta e sfruttata a pieno, dimostrando che la loro
fiducia non era
stata mal riposta.
Non
dico di essere diventata una
studentessa modello – certe abitudini sono dure a morire
– ma senza dubbio
quest’anno ho studiato come mai nella mia vita. E impegnarmi
seriamente in
qualcosa mi ha aiutato molto, a distrarmi, a tenere la mente occupata,
a
decidere cosa fare della mia vita, come una persona adulta.
Ritornate
in Italia, Arianna mi ha
ospitato a lungo nel suo vecchio appartamento. La situazione non era
proprio
delle più idilliache: il monolocale era piccolo, il mio
letto era una poltrona
alquanto scomoda, la convivenza a volte diventava un po’
difficile, soprattutto
quando Luke veniva a trovarla dalla Finlandia…
Ma
ha fatto tanti sacrifici per me,
non ha permesso che tornassi a vivere con quell’uomo.
Non
appena compiuti diciotto anni,
sono andata a cercarlo, per l’ultima volta. Senza scenate,
senza litigi, sono
riuscita a dirgli tutto quello che pensavo di lui e a informarlo che
sarebbe
stata l’ultima volta che mi avrebbe visto. Adesso sono
ufficialmente una donna
emancipata e sono contenta di esserlo.
Per
tutto l’anno io e Arianna abbiamo
lavorato duramente e forse il destino ha voluto ricompensarci. Ancora
non
riusciamo a credere alla fortuna che ci è capitata: verso la
fine di Marzo,
abbiamo trovato, quasi per caso, un appartamento di modeste dimensioni,
ma
addirittura con due camerette divise ed un terrazzino davvero
delizioso, di cui
ci siamo perdutamente innamorate a prima vista. Quando scoprimmo che
anche
l’affitto era decisamente abbordabile, abbiamo firmato il
contratto in un
attimo.
E’
anche piuttosto vicino al locale
dove lavoriamo entrambe la sera, come cameriere: un posto carino,
sempre
affollato. Certo, nulla in paragone del vecchio Midnight
Wish…
Ma
ogni tanto, quando mi sveglio di
notte e resto a fissare il soffitto, con gli occhi sbarrati, proprio
come
adesso, mi ripeto che il famoso Midnight Wish non era davvero reale:
faceva
parte di quel meraviglioso sogno che è durato fin troppo a
lungo, ma che, come
tutti i sogni, ha finito per infrangersi in mille minuscoli frammenti,
simile
ad un vaso di cristallo troppo fragile.
Pensavo
che tutti i pezzi fossero
stati portati via dal vento molto tempo fa: in realtà,
durante quest’anno, mi
sono resa conto che le schegge penetrate nel mio cuore non potranno mai
uscirne.
Quando
di notte mi sveglio e resto a
guardare il soffitto, non posso fare a meno di pensare a lui.
A dire il vero, ci penso molto più spesso, ma è
facile mentire
a me stessa quando il mondo intorno a me risuona dei suoi mille rumori
e la
voce delle persone – anche quella della scorbutica prof di
diritto – riesce a
carpire nuovamente la mia attenzione e a riportarmi alla
realtà.
Quando
però sono sola nella mia
stanza, nel profondo silenzio interrotto soltanto dallo sporadico
motore di una
macchina, in lontananza, nella strada deserta oltre la mia finestra,
non mi
resta nessun appiglio. Nessuna ancora di salvezza che possa salvarmi
dal mare
di ricordi nel quale inevitabilmente sprofondo ogni volta.
I
primi tempi è stato difficile.
Non
riuscivo più ad ascoltare la sua
musica: tutto riportava alla mia mente i momenti trascorsi insieme,
persino un
pezzo di pizza, un libro di poesie o un gatto nero. Sentire la sua voce
non era
nemmeno da prendere in considerazione.
Senza
contare poi che ho dovuto
eliminare internet dalla mia vita per qualche mese: proprio i primi
giorni da
quando ero tornata a casa infatti, mentre ero a casa di una mia
compagna di
scuola dalla quale ero andata ad elemosinare appunti e ad invocare un
po’ di
aiuto, mi imbattei per caso nelle mie foto in rete. Fu un duro,
durissimo
colpo.
Ancora
ringrazio che gli HIM in
Italia siano conosciuti ben poco; in caso contrario un bel mattino,
risvegliandomi, avrei probabilmente trovato una schiera di giornalisti
fuori
dalla mia porta.
Invece
ho dovuto convivere soltanto
con la curiosità di amici e conoscenti, i quali
però, dopo i miei continui e,
talvolta, scorbutici silenzi, hanno presto capito che non era il caso
di
insistere.
A
dire il vero mi capita ancora
qualche volta di essere fermata nei locali da qualche ragazzina con un
heartagram appeso al collo o un tatuaggio in bella vista, che mi
domanda, con
sguardo trasognato, se abbia davvero conosciuto Ville Valo.
Ma
adesso è diverso. Posso anche
parlarne. Un poco.
Le
ferite, non più fresche, bruciano
meno. E la dipendenza da quelle canzoni, che sono state per anni la
colonna
sonora della mia esistenza, è tornata a farsi sentire.
Quando
sono insieme ad Arianna o ad
altri amici, riesco anche a cantarle con un sorriso sulle labbra. Per
quanto
riguarda video e interviste, mi tengo ancora ad una distanza di
sicurezza. Ma è
più che altro una precauzione: non ho bisogno di foto o
filmati per ricordare
ogni particolare del suo volto.
Non
ho più voluto sapere nulla della
sua vita. Mi illudo che sia un capitolo chiuso, che le nostre strade si
siano
definitivamente divise, che i nostri mondi siano diventati estranei
l’uno
all’altro. Io sono la fan, lui il mio cantante preferito.
Fine della storia.
Dall’alto
del suo posticino sopra
l’armadio più alto, seminascosta dalla polvere,
una grande scatola nera mi
ricorda che le cose non stanno esattamente in questo modo. In quella
scatola ho
sepolto tutti i poster, tutte le maglie, la mia tazza preferita, tutto
ciò che
avevo della mia vecchia vita, legato agli HIM.
Ma
soprattutto in quella scatola sono
nascosti tutti i biglietti scritti di suo pugno, quei semplici pezzi di
carta,
macchiati della sua illeggibile calligrafia, che ho portato con me
dalla
Finlandia per uno stupido riflesso infantile e masochista, e dei quali
non sono
ancora riuscita a liberarmi.
Non
apro quella scatola da quasi due
mesi ormai; la sua presenza è tuttavia costante e talvolta
quasi opprimente in
quella stanza.
C’è
poi un altro piccolo particolare
che gioca contro di me e i miei patetici tentativi di
auto-convincimento: la
rosa che ho tatuata sul mio piede destro, con al centro il simbolo
della sua band. La rosa che lui ha disegnato per me, contornata
dalle parole di una sua canzone: ‘I’ll
be the thorns on every rose, you’ve been sent by
hope’
Sollevo
la gamba nuda e un sorriso
triste si dipinge sulle mie labbra, quasi inconsapevolmente, non appena
i miei
occhi ormai abituati all’oscurità si posano sul
ben noto tatuaggio. Oh, come
hai ragione Ville, penso ironicamente: le spine nascoste
nell’amore che mi hai
offerto non hanno ancora cessato di lacerare la mia carne.
Mi
lascio trasportare dall’onda dei
ricordi, ripensando a quel giorno. E’ strano pensare a quali
scherzi possa
giocare la memoria: quando sei davanti ad una cattedra non riesci a
riportare
alla mente quello stupido articolo tal dei tali nemmeno piangendo in
greco,
turco o macedone; eppure sei convinta di averlo ripetuto almeno un
centinaio di
volte la sera prima. E anche mentre intingevi i biscotti nel tuo
caffelatte.
Quando
si tratta però dei momenti
trascorsi insieme a lui, invece, sembra quasi un viaggio nel tempo:
ogni
particolare, ogni parola, ogni gesto è perfettamente chiaro
e limpido.
Immutato.
“Adesso
ci
sarà sempre qualcosa che ti appartiene intimamente a
ricordarti di me. Non ne
sei spaventata? E se col passare del tempo inizierai ad odiarmi? E se
un giorno
non vorrai più vedermi? Se dovesse succedere, cosa farai?”
“La
rosa è
passione, nel bene e nel male. Se un giorno le spine diventeranno
più forti e
feriranno la mia carne, non spegneranno comunque la passione.
L’odio è fuoco, e
non è poi tanto distante dall’amore. Per quanto
potrò mai odiarti o detestarti,
sarai sempre una parte importante della mia vita e non ne
sarò mai pentita”
Sfiorandomi
con le dita la caviglia,
seguendo il contorno dello stelo fitto di spine, mi accorgo che in
fondo,
sebbene abbia deciso di non vederlo più, sebbene mi abbia
fatto del male e mi
abbia ferito proprio quando avevo abbandonato ogni difesa, non sono mai
riuscita ad odiarlo. La passione però, quella continua a
pulsare ancora oggi
nelle mie vene, quasi fosse la linfa che tiene in vita una rosa che non
potrà
mai appassire.
Non
so se anche questo sia un
proverbio, o semplicemente sia una delle mie frasi inventate, ma penso
che i
ricordi siano come le ciliegie: uno richiama inevitabilmente gli altri,
in una
catena senza fine. E quando cedi al primo, è la fine.
“Ti
amo”
Perché,
anche nel ricordo, quelle
parole sono tanto dolci? Così forti e delicate insieme, come
la mano di un
amante. Così seducenti, così ammalianti, da
sembrare vere?
Quando
le sue parole tornano a
riempire le mie orecchie, non posso fare a meno di chiedermi se la mia
scelta
sia stata quella giusta e di desiderare di tornare indietro,
laggiù dove ho
lasciato il mio cuore e dove vorrei essere in ogni momento.
Un
altro sospiro fugge dalla mia
bocca, mentre sollevo il capo, appoggiandolo contro la mano, per poter
sbirciare l’orologio sul mio comodino.
Sono
passate da poco le quattro, ma è
inutile restare in questo letto; oramai il sonno è andato,
non c’è più speranza
di ricadere tra le braccia di Morfeo.
Mi
alzo lentamente e do uno sguardo
alla mia scrivania; cerco di appigliarmi all’unica
preoccupazione abbastanza
forte da scacciare, almeno momentaneamente, memorie decisamente troppo
vivide
per essere tollerate: la mia tesina.
Sto
per accendere la piccola ab
ajoure, e sedermi sulla mia sedia con le rotelle, ma poi ci ripenso:
quella
stanza ha un effetto troppo psichedelico sui miei nervi scoperti.
Prendo
il mio computer e mi dirigo in
cucina, facendo il minor rumore possibile. Passando davanti alla sua
porta, do
un’occhiata nella camera di Arianna: la rossa dorme
profondamente, i piedi
fuori dal letto, la testa appoggiato contro il materasso, qualche
centimetro
più sotto del cuscino. La osservo per qualche istante,
sollevando un
sopracciglio: un giorno o l’altro riuscirò a
carpire il suo segreto.
Quando
arrivo in cucina e accendo la
luce, scopro che c’è una sorpresa ad aspettarmi.
Proprio
al centro del tavolo c’è un
gigantesco biglietto e accanto un altro meraviglioso acquarello: il
disegno è
stato copiato da una fotografia scattata lo scorso Settembre sul lago e
rappresenta la sottoscritta, come al solito pallidissima, con un
costume da
bagno nero, un buffo cappello di paglia e un paio di occhiali da sole
verde
mela, dalle lenti spropositate.
Non
riesco a trattenere una piccola
risata, mentre ricordo ad alta voce alla mia cucina quanto odi quel
cappello.
In generale io odio tutti i cappelli.
Sistemo
il disegno sulla credenza, in
modo che sia ben visibile, e lascio sul tavolo un po’ di
spazio per Frankie, il
mio portatile.
Mentre
aspetto che Frankie, con i
suoi tempi, ricarichi i milioni di dati che lo ho costretto ha
memorizzare,
stringo ancora tra le mani il mio biglietto.
“Buon diciannovesimo compleanno
Elisa”
A lonely road, crossed another cold state line
Miles away from those I love purpose hard to find
While I recall all the words you spoke to me
Can't help but wish that I was there
Back where I'd love to be, oh yeah
***
La
mia Helsinki è sempre bellissima,
di notte come di giorno. E’ l’unica in grado di
confortarmi in ogni
circostanza, qualunque sia la mia pena.
Ora,
decidere se le quattro del
mattino di un giorno di fine Giugno, con tutta questa luce, siano da
considerarsi notte o giorno, è un altro paio di maniche.
Ma
in fondo non mi importa: continuo
a camminare, senza compagnia, senza una vera meta, soltanto per il
gusto di
farlo.
Questo
è decisamente il momento che
preferisco per errare da solo, perdendomi nei miei pensieri. I pub
hanno chiuso
da forse un’ora e i negozi non sono ancora aperti. Non
c’è nessuno per strada, la città
è
completamente addormentata e il silenzio culla ogni mio passo,
dolcemente.
Arrivo
fino alla baia meridionale,
vicino al porto: i miei piedi ormai, quasi inconsapevolmente, seguono
sempre lo
stesso percorso. Scendo lungo la scala di legno e roccia e mi accoccolo
sugli
scogli, a contemplare il sole che sorge oltre la linea
dell’orizzonte.
Sono
stato via solo qualche
settimana, per due o tre festival in Germania, ma la mia Helsinki mi
è mancata
tremendamente.
Forse
Migè non parla proprio a
vanvera quando, prendendomi in giro, mi fa notare che matrimoni tra
esseri
umani e città non sono ancora stati permessi dalla legge,
come il matrimonio
tra gay.
Ride
tanto, ma sono sicuro che anche
lui, ogni volta che partiamo per qualche data all’estero, non
desideri alto che
tornare a casa.
Soprattutto
adesso che ad aspettarlo
impaziente c’è Vedrana, la sua nuova compagna. I
due stanno insieme da neanche
un anno, ma sono una coppia talmente affiatata che sono sicuro che
è soltanto
questione di tempo prima che Mikko si decida a farle, finalmente, la
proposta.
Proprio
ieri l’ho beccato mentre
teneva troppo a lungo lo sguardo fisso sulla vetrina di una
gioielleria: quando
gli ho domandato, con un sorriso sardonico, se fosse interessato a
qualcosa in
particolare, lui è diventato tutto rosso e si è
allontanato il più velocemente
possibile, borbottando frasi incomprensibili.
E
così adesso Migè ha Vedrana, Lindzy
ha Manna e la piccola Olivia, che si fa ogni giorno che passa
più bella e
intelligente, Burton ha Luisa e da pochi mesi anche Heartta, la loro
dolcissima
figlia.
Persino
Gas ha abbandonato il Club
degli Scapoli, iniziando ad uscire con una strana ragazza dai capelli
color del
miele, un sorriso immenso di denti bianchissimi e gli occhi forse un
po’ troppo
vicini, che rendono il suo viso estremamente buffo, ma allo stesso
tempo
inguaribilmente simpatico.
“Ora
è il tuo turno, Ville!”
continuano a ripetere, con ammiccamenti vari ogni volta che, per un
motivo o
per l’altro, mi
ritrovo a parlare con
una bella donna.
Ma
non ho nessuna intenzione di
tradire la mia Helsinki: ho messo una pietra sopra il mondo femminile,
definitivamente.
Una
volta ero un uomo pieno d’amore e
cercavo disperatamente la persona giusta a cui donarlo: ho tentato e
ritentato,
affidando sempre il mio cuore nelle mani della persona sbagliata,
ricevendolo
indietro sempre più a pezzi, subendo una delusione dopo
l’altra, sentendomi
sempre più debole ad ogni pugnalata infertami
intenzionalmente o senza volerlo.
Poi,
quando finalmente ho trovato la
persona giusta, ho rovinato tutto per un errore: sono stato io a
spezzare il
suo cuore e l’ho perduta per sempre.
Non
potrò tornare ad amare altra
donna, perché ciò che restava del mio cuore
è rimasto con lei. Benché lei non
lo sappia, benché lei non abbia voluto ascoltare.
Non
ho bisogno di voltare il busto e
sollevare il capo per vedere la collina verde che sovrasta la baia,
alle mie
spalle. Essa è incisa nella mia mente, come anche quella
notte di Maggio, più
di un anno fa.
Su
quella collina, tra gli alberi
ancora bagnati di pioggia, è finito tutto.
Se
chiudo gli occhi, posso ascoltare
distintamente le sue ultime parole e rivedere il suo viso contrito
dalla
sofferenza, così come quel malinconico e sarcastico sorriso,
che mi aveva
ferito più di mille lacrime.
“Ciò
che c’è
stato fra noi è finito. Finito, Ville, capisci? Per
sempre”
“
Esprimi un
desiderio”
Oh
sì, io lo espressi il mio
desiderio Elisa, ma questo non si è avverato. Quel giorno
non ti sei più
voltata indietro, te ne sei andata via. Non era certo questo
ciò che bramavo.
Da
quella sera non l’ho più rivista.
Di
certo non mi diedi per vinto:
andai alla sua camera d’albergo, il giorno successivo e
iniziai a bussare
incessantemente alla sua porta, gridando disperatamente il suo nome.
Dopo
quelle che mi erano sembrate
ore, la porta finalmente si aprì, ma la persona che
uscì nel corridoio non era
la stessa che stavo aspettando. Arianna, la sua migliore amica,
cercò di
convincermi in tutti i modi ad andarmene, a lasciarla da sola,
dicendomi che se
davvero l’amavo come dicevo, dovevo rispettare la sua
decisione.
Ho
pianto a lungo davanti a quella
porta chiusa, non ascoltando la voce della rossa, volendo sentire anche
quelle
stesse parole così dolorose, ma almeno dalla sua
bocca.
Alla
fine mi lasciai persuadere e
tornai a casa mia. Passai tutta la notte e il giorno seguente
appollaiato sulla
finestra della mia torre, senza mangiare né bere, fumando
non so quanti
pacchetti di sigarette e guardando il mare.
La
sera infine, capii che non avrei
mai potuto mantenere la promessa. Presi la mia giacca e salii su un
taxi
diretto al Midnight Wish, il locale dove lavorava. Arrivai trafelato a
destinazione, per poi scoprire dal proprietario che la mia Elisa si era
licenziata il pomeriggio stesso e probabilmente era già in
volo verso casa.
Correre
all’aeroporto fu tutto in
utile: quando arrivai a ?, il suo aereo era già partito.
Quindi
era vero? Se ne era andata per
sempre, fuggendo da me, risolvendosi di abbandonare la sua nuova vita,
i suoi
amici, tutto pur di non incrociare più la sua strada con la
mia.
Fermo
in quell’aeroporto, guardando
il tabellone con gli annunci di aerei che non avrei mai preso, compresi
di
averla persa per sempre e che non era giusto provare a rincorrerla.
I
primi tempi furono difficili.
La
stampa mi continuava a tormentare,
bloccandomi alla prima occasione per estorcermi informazioni sulla
misteriosa
ragazza.
Era
inutile dire anche la verità: se avessi
detto che non sapevo più nulla di lei, che lei non ne voleva
più sapere nulla
di me, di certo non mi avrebbero creduto.
Con
il passare dei mesi però, senza
più alcuno scoop di cui nutrirsi, alla fine hanno lasciato
perdere. Soltanto
ogni tanto, quando qualche rivista si trova a corto di informazioni
succulente,
qualche giornalista riesuma la vecchia notizia, chiedendosi che fine
abbia
fatto l’oscura meteora ‘dalla
pelle pallida e i
capelli corvini’.
Per
quanto mi riguarda, per molto tempo non ho più
rilasciato interviste. Ho costretto la band ha cancellare tutte le date
previste, che per fortuna erano davvero poche, non ho più
scritto canzoni, ho
iniziato ad uscire di casa sempre più raramente, fin quasi a
diventare l’ombra
di me stesso.
Sono
ripiombato in quel circolo vizioso che è
l’alcol, dal quale ero riuscito così faticosamente
ad uscire nei mesi
precedenti, in gran parte grazie a lei, alla voglia di vivere che
riusciva a
trasmettermi con un solo e semplice sorriso.
Ormai
anche la mia salute fisica aveva toccato
livelli inammissibili. Mi stavo lasciando andare lentamente, ma non ero
sicuro
che me ne importasse qualcosa.
Poi,
è bastato un piccolo gesto per cambiare tutto.
Una
sera, mentre ero ubriaco e completamente fuori
di me, lanciai contro il muro il fermaglio a forma di farfalla che un
tempo le
era appartenuto, uno dei pochissimi ricordi tangibili del suo passaggio
nella
mia vita. Quando il giorno dopo sono tornato in possesso delle mie
facoltà, ho
ritrovato il fragile oggetto, distrutto. Ho versato lacrime amare,
rendendomi
conto dell’uomo che ero diventato, una larva capace soltanto
di lasciare
sgretolare tutto fra le sue stesse dita, impotente.
Mentre
cercavo disperatamente, nel guazzabuglio che
era diventato la mia casa, un qualunque mezzo per riparare il
fermaglio,
ritrovai per caso un foglio sgualcito dal tempo e
dall’abbandono.
Sbigottito,
riscoprii il testo di quella canzone
che avevo scritto per lei, insieme a lei.
E
tornai quasi inconsapevolmente a sorridere.
Fu
come una lampadina, accesa dal destino o chi per
esso.
In
quel momento mi resi conto che l’unico modo per
sopravvivere sarebbe stato continuare a scrivere canzoni e a cantarle,
sempre
per lei. Illudendomi forse che un giorno sarebbe tornata da me, grazie
a quelle
stesse canzoni che l’avevano avvicinata la prima volta.
Lei
non è tornata, ma io, almeno, ho ricominciato a
vivere nel suo ricordo.
Lentamente,
mi sono risollevato dal baratro in cui
ero sprofondato e ho ripreso le redini della mia vecchia esistenza. Con
qualche
miglioramento.
Alla
fine ho accettato l’aiuto e i consigli di
amici e parenti, e mi sono disintossicato completamente. Sono sobrio
esattamente da quattro mesi e diciassette giorni, e sono contento di
esserlo.
Ogni
tanto, quando mi ritrovo in un pub con i
ragazzi, o alle feste dopo i concerti, mi piacerebbe cedere alla
tentazione. Ma
la memoria del male sopportato è un buon deterrente.
Senza
contare che quando sono ubriaco non riesco a
ricordare ogni particolare del suo volto, ogni smorfia o
l’intonazione della sua
voce. Ed è qualcosa che non voglio mai dimenticare.
Ho
ripreso in mano anche la mia chitarra e
ricominciato a scrivere, mettendo a posto un po’ di idee che
frullavano da
tempo nella mia testa.
Il
nuovo album è pronto: gli altri membri della
band ne sono rimasti entusiasti; è forse un po’
più cupo degli altri, ma, come
dice Gas, finalmente sembriamo un vero gruppo metal.
Abbiamo
completato le registrazioni in tempi
brevissimi e abbiamo stabilito il rilascio per Settembre.
Ho in
mente tuttavia di presentare qualche brano al
Ruisrock, tra due settimane o poco più.
Mentre
guardo i riflessi dorati del sole sulle
acque tranquille, ripenso a quanto Elisa e tutto ciò che mi
ha insegnato
abbiano influenzato questo album, anche tralasciando le due canzoni che
ho scritto
su di lei e rivolgendomi a lei sola.
Scegliere
il titolo, per una volta, non è stato
affatto complesso: Venus Doom. Per la mia dea, la mia Venere.
Getto
un sasso nel mare e mi domando quale mai
potrebbe essere il suo giudizio. Oh cosa darei per sapere cosa ne
pensa, quale
effetto suscitano quelle parole nel suo cuore!
Ma da
lei, di certo, non lo potrò mai sapere.
Quando
è partita ho provato a lungo a chiamarla, a
lasciare messaggi nella sua segreteria, sono arrivato addirittura a
mandarle
degli sms. Lei non ha mai risposto. Credo che abbia anche cambiato
numero
adesso.
Sono
rimasto in contatto con Arianna e con altri
dei loro amici italiani. Ci sentiamo spesso, io e la rossa.
E’ lei a
raccontarmi come prosegua la loro vita, tra alti e bassi.
Non mi
sono perso nulla, nessuna novità, dalla
riammissione a scuola con ottimi risultati, all’emancipazione
dal padre, i
lavori temporanei, il corso avanzato di chitarra, il nuovo
appartamento. Ho
seguito il suo percorso di riavvicinamento alla nostra musica. Ho
gioito
insieme ad Arianna quando il sorriso è tornato a risplendere
sul suo volto.
Mi ha
raccontato un sacco di piccoli avvenimenti ed
io, ogni volta, ascolto avidamente, per timore di non cogliere qualche
cambiamento. Anche gli eventi che appaiono insignificanti riescono a
riempire
la mia vita.
Alla
fine di ogni conversazione arrivano poi le due
domande che ho sempre paura di porle. E’ passato
più di un anno da quando Elisa
mi ha lasciato, e da allora le risposte sono continuamente le medesime.
Eppure,
l’angoscia e la speranza non mi abbandonano mai.
Anche
ieri pomeriggio, quando ho chiamato Arianna,
la nostra scenetta si è ripetuta immutata.
“E’
davvero
intrattabile” mi ha confidato in un sospiro “E sta
uscendo di testa oltretutto:
questa mattina ha iniziato ad urlare in giro per casa che Mussolini
doveva
ringraziare di essere già morto, perché se avesse
potuto mettergli le mani
addosso lei non se la sarebbe cavata con una fucilata. Sei fortunato a
non
essere qui”
Ho
riso: ormai sono diventato un vero esperto del
primo dopoguerra e di tutte le dittature che sono state instaurate in
Europa
negli anni ’30. Ho cercato così di dissimulare la
tempesta che quella piccola
frase aveva scatenato nel mio petto.
Ma
Arianna, che non è affatto stupida, ha compreso
subito la sua gaffe: “Mi dispiace, io non
intendevo…”
“Non
ti preoccupare” le ho detto dolcemente,
frenando i suoi sensi di colpa “So cosa intendevi”
“Scusami
comunque” ha aggiunto, realmente
dispiaciuta.
Poi il
silenzio è caduto sulla conversazione. Le
parole premevano nella mia gola, contro le mie labbra, ma non riuscivo
a
lasciarle uscire.
La
rossa ha atteso ancora qualche istante, poi,
abituata, ha risposto con tenerezza alla mia domanda silenziosa.
“No
Ville, non c’è nessun’altro”
Non ho
potuto fare a meno di sospirare di sollievo,
pentendomene subito dopo amaramente. Ciò che desidero
più al mondo è che lei
sia felice, e se questo significa doverla sapere con un altro ragazzo,
sono
disposto a sopportarlo. Egoisticamente però, e forse anche
presuntuosamente,
non so smettere di ripetermi che nessun’altro
potrà mai amarla nel modo in cui
io la amo.
“Oh”
ho bisbigliato, inghiottendo a fatica
“E…”
Ancora
una volta mi ha anticipato, con un tono,
però, più triste: “E no, non ha parlato
di te”
“Meglio”
ho risposto, non so neanche per quale
motivo.
“Scusa
Ville, devo riattaccare: è appena arrivato
il suo autobus” mi informa, e nella sua voce il timore di
essere scoperta.
“Certo
vai” mi sono affrettato a replicare “Stalle
vicino anche da parte mia. Soprattutto domani”
“Lo
farò. Un bacio, Ville”
“Un
bacio”
Tiro
fuori il portafogli dalla tasca dei jeans e ne
estraggo una fotografia un po’ sgualcita: sorrido, mentre i
miei occhi si
posano sull’immagine scattata in un freddissimo giorno di
Maggio, presso una
pista sciistica qualche miglia a nord di Helsinki. In primo piano
c’è la mia
piccola Elisa, stretta nel suo cappotto nero, con
un’espressione a metà tra il
tenero e l’imbronciato, probabilmente a causa di quel
ridicolo cappello che
l’avevo costretta ad indossare. Alle sue spalle, con il
medesimo berretto e le
braccia avvolte intorno alla sua vita, ci sono io. Ricordo
distintamente le
scene per fare quella fotografia: Elisa continuava a ripetere di non
volerla
scattare e di essere la persona meno fotogenica della terra.
Scruto
il pezzo di carta lucida con occhio critico:
a me non sembra proprio, è bellissima, come sempre, o forse
mi sembra ancora
più bella, perché la vedo lì, tra le
mie braccia. Solo mia.
Questa
è l’unica fotografia che ho di lei. Certo,
ci sono quelle degli articoli di giornale, ma non è la
stessa cosa. Quelle foto
sono state rubate, e sono state sotto gli occhi di tutti per
così tanto tempo
che adesso mi sembrano quasi violate.
Vorrei
poterla vedere adesso. Vedere se è cambiata
o se è sempre la stessa. Vedere se quelle adorabili fossette
incorniciano
ancora il suo viso ogni volta che sorride. Vedere se i suoi occhi
conservano
ancora i riflessi violacei di un mare di petrolio.
Ma
soprattutto continuo a desiderare che un giorno,
anche lontano, lei voglia ascoltare la verità su quella
dannata notte che ci ha
separato per sempre.
Le ho
scritto un mucchio di lettere. Mai spedite
naturalmente.
Questa
notte le manderò la mia prima lettera.
Affidandola alle onde del mio fedele amico, il mare.
Mi
alzo in piedi, con in mano la bottiglia di vetro
che ho portato con me. Nella bottiglia c’è uno dei
tanti messaggi che ho
scritto, insieme ad un biglietto.
Prima
di scagliarla il più lontano possibile, alzo
gli occhi al cielo, e quasi mi pare di scorgere una luce più
intensa, oltre le
nuvole lontane. Uno spicchio di cielo un po’ più
azzurro.
Non
sono cresciuto in una famiglia credente e non
mai confidato nell’esistenza di un dio.
Ma se
mi fossi sbagliato, se tu, Dio, esisti
davvero, c’è soltanto una cosa che ti chiedo:
proteggila,
e veglia sempre su di lei, al mio
posto. Falla sentire sicura e difesa, stretta in un abbraccio, adesso
che io
sono impotente, adesso che sono così lontano.
Prendo
un poco di rincorsa e lancio la bottiglia,
guardandola perdersi tra i flutti scuri.
“Happy
ninteenth birthday, my sweet wildcat”
There's nothing here for me on this barren road
There's no one here while the city sleeps
and all the shops are closed
Can't help but think of the times I've had with you
Pictures and some memories will have to help me through, oh yeah
Dear God the only thing I ask of you is
to hold her when I'm not around
when I'm much too far away
***
Senza
staccare gli occhi dallo schermo di Frankie,
porto la tazza alle labbra; mi accorgo però che la mia
seconda migliore amica
ha deciso di tradirmi: la mia tazza sbeccata, quella di Jack,
è completamente e
irrimediabilmente vuota.
Sbuffo
sonoramente, posandola sul tavolo con un
tonfo sordo.
Odio
quando succede.
Mi
alzo dalla sedia, ripetendo mentalmente i
pilastro fondamentali dell’economia dell’Italia
neofascista, e mi avvicino al
termos. Troppo impegnata a snocciolare senza tregua date ed eventi, non
mi
rendo conto che la caraffa è fin troppo leggera.
Quasi
mi escono gli occhi dalle orbite quando,
tentando di versare il magico liquido nero, mi ritrovo a capovolgere il
recipiente a testa in giù, senza che ne esca una sola,
misera goccia.
Il mio
Caffè dello Studente è esaurito. Finito.
Caput.
Guardo
Frankie e i sogni di gloria del regime
fascista decadono in un colpo solo. No coffee, no party.
Il
sole è ormai sorto da un pezzo oltre i tetti
delle case e filtra indisturbato nella stanza attraverso la finestra
aperta:
posso chiudere la mia sessione notturna di studio senza rimpianti e
cominciare
una nuova giornata con una bella tazza di caffèlatte.
Sì,
sono decisamente diventata una
caffeina-dipendente: già mi piaceva prima, adesso che ho
iniziato anche a
studiare seriamente non posso più farne a meno. In compenso
è da un sacco di
tempo che non tocco più una goccia d’alcol.
A
giudicare dai rumori che fa il mio stomaco, anche
ad un bel piatto di biscotti integrali non direi di no.
Esco
qualche istante sul terrazzo, per prendere una
boccata d’aria e salutare le mie piante – o meglio,
le piante di Arianna -.
Dopo
essermi assicurata una decina di volte di aver
salvato le modifiche fatte al file della tesina, do la buonanotte a
Frankie e
spengo anche l’mp3, che nelle ultime quattro ore non ha fatto
altro che
ripropormi il cd di The poison a ripetizione. Per qualche strano
meccanismo
chimico del mio cervello, Bullet For My Valentine ed Economia vanno
d’accordo
alla perfezione. Un po’ come Storia e Sonata Arctica. Se
qualcuno volesse
chiedermene un giorno la spiegazione, non saprei proprio cosa dire.
Io e
la musica abbiamo uno strano, stranissimo
rapporto. Penso che sia molto più di una droga per me. Non
potrei vivere senza.
La
musica è stata per anni il mio unico porto
sicuro, in una realtà che non riuscivo a sopportare. Grazie
alla musica ho
conosciuto le persone più importanti della mia vita.
La
musica mi ha aiutato a tirare avanti, in ogni
momento.
E
adesso ho scoperto che, a seconda dei gruppi che
ascolto, anche le mie abilità di studio possono essere
notevolmente migliorate.
Cosa posso chiedere di più?
Per
quanto riguarda le canzoni, ho anche qualche
mania un po’ ossessiva e preoccupante, nonché
scomoda per gli individui che mi
stanno intorno: mi capita spesso infatti che una sola canzone diventi
il mio
chiodo fisso per giorni interi, talvolta anche per una settimana e
forse più. E
per tutto il tempo non faccio altro che canticchiare e ascoltare quella
canzone, o a scribacchiarne il testo su ogni superficie piana
disponibile.
Proprio quando le altre persone stanno per perdere la testa e ricercano
esasperate il numero di una clinica psichiatrica nell’elenco
delle pagine
bianche, ecco che, puff, l’ossessione sparisce. E la canzone
finisce, insieme
alle altre, sulla mia playlist chilometrica. Mantenendo comunque un
posto
speciale nel mio cuore.
Questa
volta, però, ho superato me stessa.
Mentre
aspetto che il pentolino del latte si
scaldi, non prima di essermi assicurata che la porta della camera di
Arianna
sia ben chiusa, faccio partire lo stereo, play e subito dopo repeat.
Traccia
numero 10.
Il cd
è sempre lo stesso da un mese, non c’è
pericolo di sbagliare. Da quando Arianna mi ha portato a casa
l’ultimo cd degli
Avenged Sevenfold, il mio amore per la band californiana è
cresciuto a
dismisura. Ho imparato in neanche una settimana tutti i testi, ho anche
tentato
di emulare Synister Gates con la mia chitarra. Tralasciando i miei
risultati
discutibili, ‘Avenged Sevenfold’ è
diventato un interessante diversivo per
staccare dalle ore di studio.
Poi,
un mattino, è scattata la scintilla. E’
esattamente da diciannove giorni e forse un’ora che, appena
sono da sola, le
note di Dear God invadono le mie orecchie, la mia testa e il mio cuore.
Cullando
dolcemente la testa e battendo a terra il
piede, a tempo con la musica, verso il latte nella tazza e, recuperati
il
sacchetto di biscotti dalla credenza, mi lascio cadere mollemente sulla
sedia.
Giro
svogliatamente il cucchiaino, avanti e
indietro, ma ormai ho perso la cognizione di ogni mio gesto, troppo
immersa ad
ascoltare con attenzione le parole, once again.
We all need the person who can be true to you
I left her when I found her
And now I wish I'd stayed
Ritrovare
in una canzone il riflesso
della tua vita è una delle esperienze più
catartiche che abbia mai provato. Per
questo, ogni volta che mi imbatto in una canzone di questo genere, non
riesco a
smettere di ascoltarla.
E’
un modo, forse un po’ infantile,
per affrontare il problema da un'altra angolatura.
Se
qualcuno ascoltasse tutte le bugie
che ho rifilato ai miei amici e alla parte più razionale di
me stessa, potrebbe
pensare che questa canzone abbia ben poco a che fare con la mia vita.
Ma
forse nessuno è tanto stolto da
lasciarsi ingannare.
Ho
paura. Ho una paura tremenda di
aver trovato l’unica persona giusta per me e di essermela
lasciata sfuggire,
come sabbia tra le dita.
Voler
cambiare il passato è un
desiderio inutile, quanto doloroso. I rimpianti non servono a nulla, se
non ha
rovinare il presente.
Senza
quasi accorgermene, ho
abbandonato il cucchiaino nella tazza, mentre quelle frasi tanto vere
si sono
fatte strada dal mio cuore alle mie labbra.
“Some search, never finding a way
Before long, they waste away”
Il
grande amore si ritrova sulle
pagine dei libri, ma nella vita reale non è altrettanto
semplice: c’è chi,
cinico, si convince che non esista proprio, per mettersi
l’anima in pace. C’è
chi invece, inguaribile romantico, continua la sua ricerca senza mai
darsi per
vinto.
Ma
la maggior parte delle ricerche
non porta ad alcun risultato, se non a qualche falsa pista: prima
ancora che un
sentimento sincero possa nascere, tutto è finito.
“I found you, something told me to
stay
I gave in, to selfish ways”
Prima
ancora che potessi rendermene
conto, il destino ha tracciato la mia strada. Mi sono innamorata.
Innamorata
davvero. E in qualche modo ho sentito che la mia ricerca era finita.
Quando
mi ha spezzato il cuore, sono
fuggita via, coprendo con il pianto e mille ragioni quella voce che mi
gridava
di restare.
Nonostante
i suoi tentativi di
parlarmi e spiegarmi cosa fosse successo, non ho mai voluto ascoltare.
Mi sono
convinta di non averne bisogno. Orgogliosa, ero convinta di sapere
tutto.
Egoista,
ho scelto la soluzione più
facile. E ho rinunciato.
“And how I miss someone to hold
when hope begins to fade...”
Quando
alzo gli occhi umidi dalla mia
tazza, mi accorgo che una silenziosa spettatrice mi osserva
concentrata, dal
muro opposto. Un’espressione piena di tristezza e
comprensione deforma i tratti
dolci del suo viso.
Sussulto
e, portando rapidamente una
mano agli occhi per controllare che le lacrime non abbiano trovato una
via di fuga,
le regalo il mio miglior sorriso di scuse.
“Mi
dispiace, non volevo svegliarti”
“Non
è stata colpa tua” mi rassicura,
facendo qualche passo nella stanza, fino a raggiungermi. Mi accarezza
piano i
capelli, prendendo un biscotto con l’altra mano “Mi
sono svegliata da sola”
Decido
di crederle e do un po’ di
tregua ai sensi di colpa, già tirati troppo spesso in ballo.
“Ancora
questa canzone?” domanda con
un finto broncio esasperato.
Alzo
le spalle, mentre lei prende
posto sulla sua sedia, alla mia destra.
“Quando
mai ti ho portato quel cd”
sospira, alzando gli occhi al cielo, prima di frugare nuovamente nel
sacchetto
dei biscotti.
“Sai
benissimo che non sarebbe
cambiato nulla: la canzone avrebbe trovato un altro modo per trovarmi
e…Hey!”
esclamo arrabbiata, tirando uno schiaffo contro il palmo della sua
mano, mentre
la mia amica intinge il biscotto nel mio caffelatte
“Giù le mani”
Con
aria di sfida, Arianna mette in
bocca il frollino inzuppato. Ci fissiamo in cagnesco per un istante o
due; poi
scoppiamo entrambe a ridere come due sciocche.
Lei
però ritorna subito seria:
“Eli…”
Scuoto
energicamente la testa,
cercando di non badare al groppo alla gola che mi ha appena colto:
“No, non c’è
bisogno di parlarne”
“Sei
sicura? Lo sai che io…”
La
guardo dritta negli occhi per
qualche istante, sperando che il mio sguardo sia meno tremulo e
più convincente
della mia voce: “Lo so. Ma non ce n’è
bisogno.”
Voglio
ancora illudermi che chi mi
sta intorno non possa guardare oltre la ragnatela di bugie che mi
avvolge:
parlarne anche solo con la mia migliore amica distruggerebbe
l’incantesimo.
Ancora
una volta Arianna sceglie di
non insistere: annuisce lentamente e poi mi abbraccia, stringendomi
forte:
“Buon compleanno tesoro” esclama esaltata.
Quando
rincontro i suoi occhi, malinconia
e preoccupazione sembrano scomparsi.
Accolgo
di buon grado il mutamento
repentino e mi lascio sopraffare dalla sua allegria.
Piano
piano, tutto ritorna alla
normalità e i miei dubbi finiscono nuovamente sepolti sotto
un velo di menzogne
ben costruite.
Non
posso tornare indietro. Quel che
fatto è fatto.
Di
certo non rinnegherò il passato:
questa storia mi ha fatto crescere, maturare, mi ha reso la donna che
sono
oggi. E di questo sarò grata per sempre.
Ma
è illudersi è inutile.
Sono più forte.
Forse.
'Cause I'm lonely and I'm tired
I'm missing you again
Oh
no,
Once again¹
Note:
¹
‘Dear God’, Avenged Sevenfold
________________________________________________________________________________
Ed eccomi qui,
come promesso!
Naturalmente non
potevo lasciare i miei due personaggi preferiti in pace per molto tempo
xD
Spero che
continuiate a seguire anche il seguito! Fatemi sapere cosa ne pensate!
Personalmente questo capitolo mi piace tanto (uno dei pochi che mi
piace anzi
xD), forse per la canzone che l’ha ispirato che è
stata la colonna sonora della
mia estate.
Aspetto
fiduciosa i commentini! Soprattutto delle mie lettrici preferite!
Buona befana in
ritardo!xD
Baci
FallenAngel aka
Mossi
|
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Capitolo 2 *** Deaf and Blind (pt1) ***
j
Chapter
2
Deaf
and Blind (pt 1)
Don’t
lose yourself in this suffering yet. Hold on.
To
me
Brief Message in a Lost Bottle
“My
dear wildcat.
Non
sono mai riuscito a
capire se il tuo soprannome ti piacesse.
Mia
dolce Venere, love metal sister, o forse semplicemente
Elisa.
Elisa.
E’
buffo considerare quante volte abbia riscritto
questa lettera, e ancora non abbia trovato un modo adatto per iniziare.
Ma in
fondo non importa, perché tu non leggerai mai
questo stupido pezzo di carta.
Perché
la sto scrivendo allora? Non lo so nemmeno
io.
Forse
è un modo per illudermi e convincermi di aver
fatto qualcosa per cambiare le cose.
La
settimana scorsa, mentre aiutavo Shon a cercare
il cavo di un microfono apparentemente scomparso nel nulla, nel
backstage del
Midnight Wish, mi è sembrato di vederti: seduta su una
cassa, con le gambe
raggomitolate contro il petto.
Ricordi
ancora quella sera, quando mi hai
autografato la camicia? Dimentico dell’oggetto della mia
ricerca, mi sono
seduto dietro alle quinte a ripensare alle tue prime parole.
Mi
è venuto in mente quel tuo strano rito, la tua
lista dei sogni impossibile. Ho sempre creduto che nella vita non ci
fosse
tempo per sognare, che era meglio sfruttare ogni istante e lavorare
duro per
realizzare i propri desideri.
Ancora
una volta hai cambiato il mio pensiero: e
così, ridendo di me stesso, ho scritto anch’io la
mia lista e l’ho ben
nascosta, onde evitare che occhi indiscreti possano esserne resi
partecipi.
Non so
se saresti sorpresa o meno nello scoprire
che nella top ten dei miei sogni il tuo nome compare almeno la
metà delle
volte.
Ora
sono qui, seduto sul davanzale della mia
finestra, davanti ai miei occhi il verde di Munkkiniemi e poi il mare.
Il vento
è forte, il movimento dei rami degli alberi oltre il mio
giardino è rapido e
convulso, come anche quello delle onde scure poco più
lontano. C’è aria di
tempesta.
Tremo.
Non
sono più sicuro se stia guardando fuori dalla
mia finestra, o se mi stia guardando dentro. E ho paura.
Quando
le prime gocce di pioggia iniziano a cadere,
prima leggere, poi più violente, non posso fare a meno di
ripensare a quella
notte.
E’
passato un anno, ma non ho mai smesso di
desiderare di poterti dare una spiegazione.
Quando
arrivai al palazzo dove era stata allestita
la serata di gala, il cielo era già da
tempo
coperto.
Mi
fermai davanti all’uscita secondaria, da solo, a
pensare, con una sigaretta tra le labbra.
“Si
prepara un bel temporale” notò una voce,
strappandomi ai miei pensieri.
Non
appena sollevai il capo, incrociai lo sguardo
di Migè, il quale procedeva lentamente con le mani in tasca.
Lasciai
cadere il mozzicone per terra,
schiacciandolo con la punta del piede.
“Sembrerebbe”
replicai atono, cercando di fare il
sostenuto.
Le
parole che i miei compagni di band mi avevano
rivolto il giorno precedente, accusandomi di essere un falso ed un
egoista,
ancora frullavano nella mia testa, lasciandomi l’amaro in
bocca.
“Già”
borbottò il bassista, facendo un altro passo
avanti “Io…beh…”
cominciò a cincischiare con il colletto della sua camicia
inamidata “Mi dispiace”
Mi
rivolse un sorriso timido, quello stupido
sorriso che mi rifilava ogni volta che litigavamo per qualche motivo,
sin da
quando eravamo ragazzi. Io ero sempre stato il bastardo orgoglioso, lui
l’uomo
conciliante, sempre pronto a scusarsi per primo. Forse per questo era
sempre
stato il mio migliore amico, l’unico in grado di sopportare
il mio brutto
carattere.
Davanti
a quello sguardo tanto noto, non riuscii a
trattenere a mia volta un sorriso: “No, avete ragione. Avrei
dovuto parlarvene
subito”
Lui mi
posò una delle sue grandi mani sulla spalla:
“Perché non l’hai fatto,
Ville?” domandò, inarcando le sopracciglia
“Non riesco
a capire”
“Ho
avuto paura” confessai “Paura di non essere
capito. Ma ti assicuro che la mia non è una semplice
sbandata” gli assicurai.
Mi
sedetti sui gradini davanti all’ingresso,
sospirando. Lui si lascio cadere al mio fianco, imprecando per la
scomodità
dell’abito che indossava.
“Ne
sei sicuro Ville?” mi domandò, dopo una pausa
troppo lunga.
Subito,
un’ondata di irritazione mi travolse e
stavo per rispondere di nuovo per le rime, ma il bassista mi
fermò con un gesto
della mano: “Ti prego, aspetta. Non fraintendermi. Ci siamo
tutti affezionati a
quella ragazza: è una persona stupenda e ha davvero tanto da
dare, ma sei
sicuro che sia la persona giusta per te? Forse hai visto in lei
un’ancora di
salvezza, ti sei lasciato affascinare dalla sua bellezza e dal suo
entusiasmo,
ma adesso? Sei davvero sicuro di poter sopportare tutto quello che
dovrete
inevitabilmente passare a causa della tua fama? E lei? Lei è
davvero pronta a
sacrificarsi in questo modo per te? Come puoi essere certo che la sua
non sia
una semplice cotta? In fondo è ancora così
giovane! Troppo giovane”
Scossi
il capo, prendendo un ampio respiro: “Non
posso spiegarti a parole, Mikko. E’ qualcosa che sento,
dentro di me. Io…io
credo di essermi innamorato di lei. E forse è passato
così poco tempo, ma mi ha
strappato un pezzo di cuore sin dalla prima volta in cui ho posato il
mio
sguardo su di lei, e quando ho incrociato i suoi occhi ho sentito
distintamente
dentro di me che non sarebbe più stato lo stesso. Mi chiedi
come faccio ad
essere sicuro anche di lei? Non posso, non ho certezze, so solo che io
mi fido
di lei”
Migè
mi fissò a lungo, soppesando ogni mia parola:
“Lo sai Ville, noi siamo solo preoccupati per te. Non
vogliamo vederti spezzare
il cuore, ancora una volta”
“Lo
so” gli assicurai, cercando di alleviare almeno
un poco i suoi sensi di colpa “Ma non voglio che lo siate. E
non voglio che
tutto cambi soltanto per la sua età: ha solo diciassette
anni, è vero, ma sulla
carta. Tu l’hai conosciuta e così anche gli altri,
sapete bene che è molto più
matura di quanto una data possa stabilire. Perché ne sareste
rimasti così
stupiti altrimenti?”
Lui
abbassò lo sguardo, non sapendo bene cosa
rispondere.
“Davvero,
lei è in grado di capirmi più di chiunque
altro” aggiunsi “Ed io ho bisogno di lei”
Il
bassista annuì piano, e poi riallacciò il suo
braccio intorno alla mia spalla: “Allora io mi
fiderò di te, piccoletto”
“Ehi”
protestai ridendo “Piccoletto potevi dirmelo
quando avevo dieci anni”
“Per
noi resterai sempre il fragile piccoletto”
intervenne Gas, il più vecchio di tutti, comparendo da chi
sa dove “Ma anche il
peggior combinacasini della storia”
Io e
Migè ci voltammo, ritrovandoci davanti al naso
la nostra band al gran completo, tutti vestiti di tutto punto e
piuttosto
imbarazzati.
Bastò
un solo sguardo e seppi che le cose tra di
noi erano tornate a posto.
Gli
abbracciai, uno per uno, chiedendo a ciascuno
scusa.
Linde
fu l’ultimo: mi strinse più forte, mi
battè
due o tre volte la mano sulla spalla. Le sue parole, il giorno
precedente,
erano state le più dure.
“Mi
dispiace” mormorò, incurvando le labbra in un
mezzo sorriso.
Scossi
la testa: “Sono stato uno stupido. Ma adesso
è tutto a posto?”
“Certo”
mormorò rapidamente, prima di aggiungere
“Entriamo? Siamo già in ritardo, tra poco tocca a
noi”
Quando
facemmo il nostro ingresso nel palazzo, gli
Apocalyptica stavano completando la loro esibizione. Facemmo appena in
tempo a
raggiungere il backstage allestito per l’occasione, che era
già il nostro
turno.
Come
stabilito, suonammo Wicked Game e subito dopo
Funeral; mentre cantavo, la mia mente si affollò con
immagini della sera prima,
lasciandomi con un sorriso: la collina, la tua voce, il tuo profumo.
Tuttavia,
d’un tratto, fui colto da un improvviso
turbamento. Le parole di Migè rimbalzavano vorticosamente
nella mia testa,
stordendomi.
Sei
davvero
sicuro di poter sopportare tutto quello che dovrete inevitabilmente
passare a
causa della tua fama? E lei? Lei è davvero pronta a
sacrificarsi in questo modo
per te?
Per
lei, per te, avrei sopportato ogni cosa ed ero
sicuro che, se solo te lo avessi chiesto, avrebbe fatto altrettanto. Ma
la vera
domanda era un’altra: era giusto chiederti
di farlo? Di sacrificarti per una persona più vecchia,
egoista, che avrebbe
potuto offrirti il suo amore, ma che poteva promettere o garantire poco
altro.
Così,
quando gli altri presero parte alla festa,
riunendosi a compagne e amici, io rimasi ancora un po’ nel
nostro improvvisato
camerino.
Presi
il cellulare, composi il tuo numero. Rimasi a
fissare per un minuto buono lo schermo senza essere in grado di avviare
la
chiamata.
“Sempre
un indeciso cronico? Non cambierai mai
Ville” mi prese in giro una voce femminile. Il mio cuore
mancò un battito:
avrei riconosciuto quella voce ovunque, eppure, non era possibile che
la sua
proprietaria si trovasse lì, in quel momento.
Sollevai
il capo, per controllare di non aver avuto
un’allucinazione uditiva in quello stato di completa
confusione emotiva in cui
mi trovavo.
Ma lei
era proprio in quella stanza, davanti a me,
i capelli castani abbandonati sulle spalle, un elegante tailleur beige
ad
avvolgere morbidamente il suo corpo, come la prima volta in cui
l’avevo rivista
in quell’hotel a Seattle, non molti mesi prima.
Lei,
la mia Tarja, o Meredith, come adesso si
faceva chiamare. Il mio primo amore, l’amore impossibile che
avevo lasciato
dall’altra parte del mondo.
Sbattei
più volte le palpebre, ancora incerto
riguardo alle mie facoltà mentali.
Meredith
sorrise di fronte alla mia espressione
stupita, facendo qualche passo avanti lentamente, stringendosi le mani
sul
grembo.
Mi
alzai in piedi di scatto, incapace di dire
alcunché, ancora sotto shock.
“Hei
Ville” mormorò lei, sempre sorridendo, quando
fummo uno di fronte all’altro, un numero esiguo di centimetri
a dividerci.
“Meredith”
boccheggiai, deglutendo a fatica “Cosa
ci fai qui?”
Lei si
passò le mani sulle braccia, a disagio, in
un gesto involontario di difesa: “Sono venuta a
trovarti”
Continuai
a fissarla in silenzio, mettendola ancora
più in imbarazzo, sebbene non fosse affatto la mia
intenzione.
“E’
così bella Helsinki” proseguì allora,
cambiando
argomento “Non mi ricordavo quanto mi mancasse fino a quando
non ho messo piede
giù dall’aereo…”
“Perché
sei qui?” domandai ancora, ignorando i suoi
tentativi di allentare la tensione.
Mosse
ancora le mani, come faceva ogni qualvolta
era agitata: fu allora che mi accorsi che il suo dito anulare era
spoglio.
Nessuna fede, nessun anello di fidanzamento.
Quando
l’avevo lasciata, soffrendo come un animale,
Meredith stava per sposarsi. L’avevo lasciata
perché sapevo che l’uomo che
l’aveva chiesta in moglie l’amava veramente, che ci
teneva davvero a lei, come
alla sua stessa vita, se non di più. E anche lei lo amava.
Afferrai
la sua mano,
bloccandola: “Perché non ti sei sposata?
Dov’è James?”
Meredith
abbassò lo sguardo a terra, tremando.
“Meredith!”
la chiamai, cercando i suoi occhi
“James sta bene, non è vero?” la
incalzai, preoccupato.
Tornò
a guardarmi negli
occhi, sospirando: “Sì, certo, lui sta
bene”
“Perché
non vi siete più sposati allora?” la
interrogai, non riuscendo a capire.
Le sue
labbra fremerono una volta: “Non potevo.
Io…”
Non la
lasciai finire di
parlare; mollai la presa, e feci un passo indietro:
“No…”
Meredith
mi seguì: calde lacrime le rigavano il
volto, ora.
“Ville”
gemette “Io non potevo…Io ti amo”
Scossi
la testa, coprendomi il viso con le mani:
“No, Tarja, è tutto sbagliato. Noi non possiamo
stare insieme, non potrei farti
felice quanto lui. Lui ti ama”
Fu
scossa da un singhiozzo, ma cercò di riprendersi
subito: “Io-io…io questo lo so”
balbettò piano “Ma…” scosto
le mie mani dal mio
volto, poggiandoci con delicatezza le sue, carezzando piano la mia
pelle “Io
voglio te”
Tenni
gli occhi chiusi, sconvolto, incapace di fare
qualunque movimento.
Perché?
Perché adesso?
Perché
quando credevo di aver trovato la mia
strada, tutti i pezzi del puzzle venivano di nuovo mescolati?
Impietrito
sul posto, non mi accorsi che Meredith
si era avvicinata ancora, alzandosi in punta di piedi.
Poi,
le sue labbra erano sulle mie.
Erano
umide, bagnate di sale. Il suo sapore era
dolce, morbido, proprio come lo ricordavo. Per un momento fui stordito
dal suo
profumo di vaniglia.
In
quello stesso momento, mi domandai se non avessi
sbagliato tutto nella mia vita. L’avevo lasciata credendo di
fare il bene di
entrambi, ma forse, forse il mio posto era sempre stato accanto a lei,
da
quando l’avevo incontrata per la prima volta, a quindici
anni, in quel bosco.
Ero
sul punto di abbandonarmi a quel bacio, quando
il volto di un ragazzo dai capelli castani e i grandi occhi azzurri, mi
sorrise
entusiasta da un luogo lontano. Come potevo fare questo a James? A
James, che
avevo imparato a conoscere in quei giorni di ospedale e di estenuante
attesa,
giorni in cui mi aveva offerto la sua amicizia, i suoi ricordi, in cui
aveva
aperto ad uno sconosciuto il suo cuore e mi aveva mostrato quanto
amasse quella
donna che adesso gli avevo portato via.
Il
ricordo di James svanì in fretta: un’altra
immagine, più vivida, più forte, soverchiante e
travolgente ogni altra cosa,
occupò ogni ansa della mia mente.
Una
ragazza dai capelli neri come la notte, due
occhi tanto profondi da potervisi perdere dentro, forse un
po’ appannati a
causa dell’alcol. Il sorriso più dolce e
struggente che avessi mai visto.
“La
vita a
volte ha dei risvolti imprevedibili, a volte il destino sembra voltarci
per
sempre le spalle e abbandonarci completamente a noi stessi, dopo averci
tolto
ciò che di buono ci rimane in questo mondo. E a volte
è davvero finita, ma in
altre occasioni può riscattarsi, offrendoci
un’altra chance. Lei ritornerà da
te, ne sono sicura.
Tu hai
il
potere di trasformare la vita delle persone, come hai trasformato la
mia con le
tue canzoni, e questo è il dono più grande:
è giusto che le preghiere degli
angeli vengano esaudite.”
Altri
riflessi, altri ricordi si susseguirono
davanti ai miei occhi chiusi, come una processione di uomini incoronati
davanti
alle pupille deliranti di Macbeth: la canzone al Midnight Wish, il tuo
corpo
disteso sulla neve, il tuo sguardo terrorizzato davanti allo slittino,
la massa
disordinati dei tuoi capelli appena sveglia, il tuo profilo
addormentato.
I
battiti nel mio petto si fecero più frequenti,
quasi incontrollabili e fu allora che tutto divenne chiaro.
Il
primo amore non si scorda mai. Avrei amato Meredith per tutta la vita,
avrebbe
sempre occupato una parte del mio cuore, fino alla fine.
Ma
c’è qualcosa che è ancora
più potente. Qualcosa che non credevo potesse
esistere davvero, qualcosa che invece ho trovato quasi per caso.
La mia
anima gemella.
E
questo amore è qualcosa che va oltre ogni altro
sentimento, piccolo o grande che sia.
Mentre
finalmente riuscivo a comprendere ciò che il
mio cuore già sapeva da tempo, un rumore mi fece sussultare.
Scostai
le labbra da quelle di Meredith, aprii gli
occhi e mi voltai verso la porta e la fonte di quel suono.
Quando
ti vidi, furono gioia
e desiderio le prime sensazioni a
sopraffarmi. Ma quando incrociai i tuoi occhi lucidi, colmi di
delusione e
sofferenza, mi resi conto della situazione dalla quale il tuo ricordo
mi aveva
allontanato e il sangue mi si gelò nelle vene.
Fu un
secondo, o forse meno. Ma lasciò un marchio
indelebile nel mio cuore.
Il
terrore di averti perso, mi tolse la voce e le
forze: quando ti abbassasti a raccogliere la tua borsa e poi scappasti
veloce
senza voltarti indietro, guardai senza battere ciglio, immobile, mentre
dentro
mi sentivo morire.
Passarono
secondi, minuti,
ore. Non lo so dire.
Meredith
sfiorò il mio braccio, riportandomi alla
realtà.
“Ville”
pronunciò il mio nome con sgomento e
confusione “Ville chi era?”
Mi
lasciai cadere su una poltrona, scuotendo la
testa.
Feci
qualcosa che non facevo da tempo.
Senza
riuscire a trattenermi; piansi.
“Ville!”
mi chiamò di nuovo, inginocchiandosi ai
miei piedi.
Allungai
una mano, per sfiorare le sue guance, per
asciugare quelle lacrime che avevano ricominciato a scivolare anche dai
suoi
occhi.
“Tu
appartieni alla mia vita Tarja, ne farai sempre
parte. Ma le nostre strade si sono divise molto tempo fa. Tu hai
trovato Jamie,
io ho incontrato un’altra persona. Tutto questo è
sbagliato”
Mi
guardò con gli occhi spalancati, scrollando il
capo, ma senza dire una parola, perché in fondo, sapeva che
io avevo ragione.
Glielo potevo leggere in viso, la conoscevo abbastanza.
Sempre
in silenzio, si spostò all’indietro,
abbandonandosi sul pavimento. Dopo pochi attimi, anche le sue dita si
staccarono dalle mie ginocchia. E fu come se una catena si fosse
spezzata.
Piansi
il mio ultimo addio, e mi misi a correre,
senza prestare attenzione alle persone che mi guardavano con
un’espressione
curiosa e interrogativa.
Mentre
stavo per abbandonare il palazzo, incrociai
Linde.
Il mio
amico osservò il mio viso sconvolto e ne
rimase fortemente turbato: “Dio, Ville, che cosa è
successo?” la sua voce
tremava, sembrava avesse paura di chiederlo.
“Dov’è
andata? L’hai vista? L’hai vista?”
continuavo a ripetere, fuori di me dalla rabbia e dalla paura.
“Ville
calmati, ti prego” mi strinse le spalle,
costringendomi a guardarlo negli occhi.
“Linde”
gemetti, mentre altre lacrime rigavano il
mio viso “L’hai vista? Sai
dov’è andata? Dimmelo ti
supplico…”
“Chi?”
mi chiese, sovrastando i miei lamenti.
“Elisa”
sussurrai, in un soffio.
Lui
fece un passo indietro, come se si fosse
scottato. Fece segno di no con la testa, fissandomi mesto
“No, Ville, non lo
so”
Non
persi un altro secondo. Uscii fuori, sotto un
temporale assurdo, e senza ascoltare le grida del chitarrista che
chiamava il
mio nome, mi misi a correre, cercando un taxi.
“Kainopuisto”
ordinai al tassista, dicendo il primo
posto che mi frullò nel cervello. Dopotutto dovevo pur
iniziare da qualche
parte.
Quando
ti trovai davvero, seduta e tremante su
quella all’altalena, quasi non riuscivo a credere ai miei
occhi; fui ancora più
certo di quello che provavo. Certo che i nostri destini fossero
indissolubilmente legati.
Cercai
di parlarti, di spiegarti, gridando come un
folle. Ma tu non volesti ascoltare, convinta che il mio amore fosse
soltanto
una bugia.
Tentai
un ultima carta, la sincerità più assoluta.
Una dichiarazione esplicita e incontrovertibile. E per un attimo, la
tua
incertezza mi fece sperare nell’impossibile.
La
ripetei ancora, facendo un passo avanti.
Trattenni
il respiro, aspettando quella risposta
che non venne.
“No.
Non è
così. Per quanto mi piacerebbe crederlo, per quanto lo
desideri con tutta me
stessa, questa non è la verità. Ciò
che c’è stato fra noi è
finito”
“Finito,
Ville,
capisci? Per sempre”
“Esprimi
un
desiderio”
E
prima ancora che il ciondolo che ti avevo
regalato toccasse il terreno, era davvero tutto finito.
Questa
è la verità. Questo è quello che
è successo.
Ma tu
non lo saprai mai ed io resterò soltanto l’uomo
che ha spezzato il tuo cuore. Distruggendo nello stesso momento anche
il mio.
Per sempre.
Ville”
__________________________________________________________________________
Salve donzelle!
Eccomi qui con
il nuovo capitolo! No, in realtà, solo la prima parte del
nuovo capitolo xD in
questa storia i capitoli sono decisamente troppo lunghi xD
Fatemi sapere
cosa ne pensate ^.^ Qui c’è la spiegazione del
brutto fattaccio dell’altra
storia xD
Grazie mille a
chi ha letto e soprattutto a chi ha commentato!
@Angel Of Death:
picci scusa xD Adesso mi ricorderò sempre di aggiornare xD
Grazie mille per il
commentino ^-^ Anche me ti ama tanto!
@Queenrock:
Siiiii sono tornata in fretta! A dire il vero ormai, questi due poveri
personaggi sono diventati parte della mia vita, e faccio davvero molta
fatica a
lasciarla andare xD Poveri xD Sono davvero tanto felice di saperti
così
contenta per la mia storia e spero continuerò a non
deluderti! Grazie mille *-*
Bacini!
@Puzzolinda:
quello che io so xD
aiutooooooooo xD
Grazie mille mio piccolo tortino di pesca! Che spreco di carta
però xD Ci
sentiamo dopo! Intanto Mossi piange T.T
@Lux:
wiiiiiiiiiiii sono così felice di risentirti! Mi sei mancata
tanto tanto! E
sono contenta che ti sia piaciuta ^^ E come hai preso il finale
dell’altra
storia? xD Credo che questa canzone sia diventata una delle mie
preferite in
assoluto *-* Non mi stancherei mai di ascoltarla. E’ anche la
canzone che mi ha
fatto conoscere gli Avenged, quindi le sono doppiamente affezionata, e
poi è
decisamente troppo bella, sia la musica che le parole! Spero di
sentirti
presto. Bacini
Alla
prossima!
FallenAngel aka
Mossi
|
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Capitolo 3 *** Deaf and Blind (pt2) ***
Chapter
2
Deaf
and Blind (pt 2)
Don’t
lose yourself in this suffering yet. Hold on.
To me
1
Luglio
Appoggio
il mento, sulle braccia piegate. Sbuffo,
lanciando un’altra occhiata allo schermo di Frankie e alla
pigna di libri
sparpagliati sul tavolo della cucina.
La mia
tesina è completa, sebbene non ne sia
completamente soddisfatta: d’altra parte, sono per natura una
persona
incontentabile per quanto riguarda ogni cosa che faccio, quindi non mi
lascio
turbare troppo dal problema.
Il vero
problema è il chilometrico programma di quinta a cui dovrei
dare un’altra
ripassatina. Ma la mia voglia di studiare al momento è
finita sotto le scarpe,
anzi, diciamo 666 metri
sotto terra.
Giro
la testa su un fianco, incontrando a colpo
sicuro con lo sguardo la mia dolcissima Angi.
Angi
è la mia chitarra, una stupenda Ibanez MBM1-BK
MATT BACHAND (per essere precisi xD NdA) nera come un abisso oscuro e
profondo.
Sì,
tra i tanti difetti, sono anche affetta da una
malata mania di dare un nome a tutti gli oggetti a cui sono
affezionata. Ma in
fondo, chi può davvero affermare che anche questi strumenti,
a loro modo, non
abbiano un’anima? Di certo hanno un motivo di esistere, e
questo è già
abbastanza. Perché non dovrebbero avere anche un nome?
Trattengo
languidamente i miei occhi sopra la sua
forma slanciata e le sue corde così invitanti e sogno
già ad occhi aperti di
provare quel nuovo riff che mi gira in testa da due giorni.
Ancor
prima che me ne possa accorgere, ho
dimenticato l’esistenza dei libri e di un esame di
maturità, e mi sto alzando
dalla sedia per raggiungere Angi.
Non ho
fatto nemmeno un passo verso la sospirata
meta, che la porta di casa si apre di scatto, facendomi sussultare.
Sentendomi
colta in flagrante e, d’un tratto,
terribilmente in colpa, mi affretto a risedermi al mio posto davanti al
computer, e fingo di sfogliare il testo di storia.
Non
che Arianna potrebbe davvero sgridarmi
trovandomi a suonare la mia chitarra invece che chinata sui libri;
anzi, ha
iniziato anche a prendermi in giro chiamandomi ‘maniaca dello
studio’. Il mio è
più che altro un atteggiamento quasi involontario: lei
rappresenta la mia
coscienza, che ne sia conscia o meno, e solo la sua presenza mi mette
in
agitazione quando sto facendo qualcosa che, so, non è
propriamente corretto.
“Cosa
diavolo pensi di fare?” la sento urlare alle
mie spalle, arrabbiatissima, mentre si fa strada nel corridoio a passo
sostenuto. Salto sulla sedia, mordendomi il labbro inferiore. Ha
iniziato anche
a leggermi nel pensiero adesso?
Mi
volto lentamente per affrontare la sua furia.
“Ti
ho già detto milioni di volte che non puoi
decidere tutto tu e informarmi all’ultimo momento!”
continua a gridare.
Scopro
ben presto che la sua rabbia è rivolta a
qualcuno a qualche chilometro di distanza, dall’altra parte
di una
comunicazione telefonica. E a giudicare dal suo tono, posso tirare a
indovinare
chi sia l’uomo misterioso…
“No,
Luke, ascoltami bene: la mia risposta è NO!”
Yeah,
I got it.
Entra
in cucina come una fiera, con il cellulare
ben assicurato tra la guancia e la spalla; lascia cadere con poco garbo
i
sacchetti della spesa sulla credenza, insieme ad un mucchietto bianco
di
buste.
Liberatasi
da quei pesi, recupera il telefono prima
di essere colpita da una paralisi al collo, e prosegue con la sua
filippica.
Quando
si volta, le faccio un timido segno con la
mano, cercando di trattenere le risa davanti alla sua espressione
concentrata e
arrabbiatissima.
Come
risvegliandosi da una trance, si batte la mano
libera sulla fronte, e si avvicina rapida per posare un fugace bacio
sulla mia
fronte.
Sfortunatamente,
non ho nemmeno il tempo per
ricambiare, perché, invasata da un altro attacco
d’ira, sparisce nella stanza adiacente,
lanciando un’altra serie di improperi.
Ah,
l’amore…
Canticchiando
a bassa voce e ridendo sotto i baffi,
mi faccio strada verso la credenza, raccogliendo la scatola di cereali
che
Arianna non si è nemmeno accorta di aver fatto volare dal
sacchetto. Prima di
mettermi a sistemare i viveri al loro posto, do una rapida occhiata
alla posta,
scostando le buste con le dita.
Pubblicità,
pubblicità, catalogo di un negozio di
vestiti da cui nessuno ha mai comprato nulla ma che inspiegabilmente ci
continua a mandare la lista dei nuovi arrivi ogni due mesi,
pubblicità,
un’immancabile bolletta, un CD…
Mi
blocco di scatto, inarcando un sopracciglio.
Lascio perdere le altre lettere e mi rigiro il CD tra le mani: sembra
un CD
ancora vergine, se non per il fatto che non c’è
più la pellicola di plastica
trasparente a ricoprirlo, ma la custodia è completamente
bianca.
Lo
apro, cercando qualche indizio della sua
provenienza, senza però avere maggior fortuna: anche il
compact disc appare
completamente intonso.
Un
terribile desiderio di sapere mi assale: vorrei
chiedere alla mia amica, ma, a giudicare dalle grida che mi giungono di
tanto
in tanto, Arianna sembra ancora impegnata nell’altra stanza.
Dovrei
aspettare il suo ritorno, ma il mio occhio
cade casualmente sullo stereo a pochi passi di distanza, e mi rendo
conto di
non riuscire a resistere: la curiosità è troppo
forte.
Mordicchiandomi
il labbro inferiore e mandando in
ferie, ancora una volta, la voce della coscienza, faccio scattare
l’apertura
del lettore e tolgo il cd che ha passato lì gli ultimi due
mesi.
Sorrido
tra me e me, mentre ripongo ‘Avenged
Sevenfold’ nella sua custodia, riflettendo che la mia ultima
passione è infine
stata spodestata per un cd ignoto e forse assolutamente insignificante.
Premo
il tasto play e ritorno saltellando alla mia
solita sedia.
Per
almeno una trentina di secondi, il silenzio
regna sovrano nella stanza, interrotto soltanto dal brusio causato da
Arianna.
Appoggio la testa al braccio, fissando il lettore con malcelata
delusione, e,
afferrata una penna, picchio impazientemente la punta sul tavolo:
inizio a
pensare che il cd sia effettivamente vuoto e che il mio entusiasmo di
poco
prima sia stato assolutamente immotivato.
Sto
per alzarmi e riporre il mio amore al suo
legittimo posto e, per farmi perdonare, dare un altro ascolto alla
track numero
10, quando sento uno strano suono provenire dalle casse.
Forse
ho le traveggole, ma mi sembra proprio il
rumore di un accendino acceso e l’inconfondibile sfrigolio
della fiamma intorno
alla cartina infiammabile di una sigaretta. Con la fronte corrugata,
pongo
ancora più attenzione nell’ascolto, e le mie
orecchie colgono un altro suono
altrettanto particolare che, prima ancora di essere correttamente
registrato
dal mio cervello, mi lascia senza respiro. E’ poco
più di un sospiro, un breve
e rapido sospiro che però il mio cuore riconosce
immediatamente, quasi
inconsciamente.
Le
bacchette di una batteria battono veloci su
tamburo e piatti, introducendo una canzone che credo di non aver mai
ascoltato:
eppure, quando anche basso e chitarra si uniscono al primo strumento,
mi rendo
conto che la melodia non mi è completamente sconosciuta.
E’ legata ad un
ricordo lontano, sebbene diversa, forse più veloce?
Le
stesse note si ripetono per tre volte, poi, all’improvviso,
capisco.
La
penna mi scivola tra le dita, mentre parole mai
davvero dimenticate sdrucciolano lentamente contro di me.
Leave all behind now to watch her crawl
Through our dark gardens of insanity
She'll be the light to guide you back home
Just give her a kiss worth dying for - and open your arms
Una
stanza d’albergo, un letto
disfatto, un blocco per gli appunti e una chitarra classica.
Tutto
riaffiora dal buio del passato,
riempiendo la mia mente.
La
sua espressione concentrata, il
suo sorriso, la sua risata. Sembra tutto così vero,
d’un tratto così vivido,
quasi fosse il presente.
Watch me fall
For you
My venus doom
Hide my heart
Where all dreams are entombed
My venus doom
Una
lacrima scivola sul mio viso,
senza il mio permesso, mentre mi ritrovo a pensare che le stupide frasi
messe
insieme quel giorno, quasi per gioco, sono diventate una canzone
suonata da
tutta la band, registrata addirittura in studio.
Grieve all your hearts out as she'll
arrive enthralled
in
tragic,
ecstatic agony
And in her flames we will die some more
Just show me a life worth living for – light of the dark
Ma
è una bugia. Il nostro non era
stato un gioco ed io in fondo ne sono consapevole.
Espressione
di un sentimento profondo
che aveva allacciato e legato i nostri cuori in un modo così
strano.
Ciò
che avevo provato, ciò che ancora
provo, è di certo amore. Un amore molto più
profondo di quanto mai abbia
sentito per qualcuno.
Per
lui non era la stessa cosa, il
suo grande amore l’aveva già trovato, eppure sono
sicura che almeno un poco mi
abbia voluto bene.
Watch me fall for you –
My venus doom
Hide my heart where all dreams are entombed –
My venus doom
[ all dreams are of you – my venus doom ]
Quanto
vorrei essere la tua Venere,
quanto vorrei essere l’oggetto dei tuoi sogni.
Davvero
quella canzone era dedicata a
me? Poteva essere vero?
La
passione, l’alchimia dei corpi,
talvolta può essere scambiata per amore.
Ma
se fosse stato di più?
Perché
aveva lasciato che quelle
parole divenissero una canzone vera e propria, anche dopo che me ne ero
andata
via?
I
pensieri si fanno più fitti, più
confusi, la testa inizia a farmi male.
Stringo
i pugni, quasi
inconsapevolmente, respirando più forte.
Quando
sento di non poterne più, la
musica d’un tratto cambia, si fa più dolce.
La
canzone non è finita, non è
rimasta come l’avevamo lasciata.
Mi
accorgo con sorpresa che Ville ha
aggiunto altre frasi, e sembra quasi che non le canti, ma le reciti,
con un
timbro di voce ancora più basso, che mi dà i
brividi e mi congela sul posto.
Hold me inside your infernal offering
Touch me as I fall
Don’t lose yourself in this suffering
yet
Hold on
Hold me inside your infernal offering
Touch me as I fall
Don’t lose yourself in this suffering
yet
Hold
on
To
me
Un
astruso sentimento mi pervade:
ogni parola si adatta perfettamente al mio stato d’animo.
Sembra
quasi un messaggio, lasciato
apposta per me.
Scuoto
la testa, come per scacciare
lo stupido pensiero e mi alzo, muovendomi rapida verso lo stereo e
quasi
inciampando nei miei stessi piedi.
Ma
quando mi trovo davanti al lettore
non ho davvero la forza di spegnere; senza preavviso, le mie dita
scelgono da
sole la loro strada.
Indietro,
poi ancora avanti.
Il
brano ricomincia, di nuovo,
dall’inizio.
E
resto ascoltare ancora, fissando il
pavimento, illudendomi di essere ancora in quella camera
d’albergo, mentre
Ville canta per me la mia canzone.
D’un
tratto
altri ricordi. Altre ferite.
“Voglio
un posto” mormorò Ville, mordendosi un labbro, con
lo sguardo perso nel vuoto,
perso nei suoi pensieri “voglio un posto dove custodire il
mio cuore, senza
soffrire ancora”
Lo
guardai, dal basso verso l’alto, con la testa appoggiata sul
suo grembo, mentre
lui passava, senza rendersene conto, la mano tra i miei capelli.
“Conosco
un posto” dissi timidamente, ma ottenni immediatamente la sua
attenzione.
Rivolse
i suoi occhi accesi di curiosità verso il mio volto.
“Davvero?”
sorrise, spostando lentamente le sue dita sulla mia fronte, fino alla
punta del
mio naso.
“C’è
un posto segreto” mormorai, giocando con la sua mano
“Dove ogni sogno e
desiderio più recondito resta prigioniero, fino a quando non
giunge l’occasione
giusta per realizzarlo. E’ lì che avevo celato il
mio povero cuore spaurito”
recitai con sentimento, aggrappandomi al suo braccio e cominciando a
sollevarmi
Ville
mi porse il suo aiuto, senza bisogno che proferissi parola. In pochi
attimi ero
seduta sulle sue ginocchia.
“Avevo?”
mi fece notare, tirandomi ancora più vicina a sé.
Annuii,
spostando indietro i suoi capelli dalla spalla destra e piegando il
capo, fino
a toccare con le labbra il suo collo.
“Adesso
è qui, nelle tue mani. Non lo senti battere per
te?”
“Stupida,
stupida, stupida” mi ripeto
un milione di volte, asciugandomi il viso con un gesto deciso.
Una
goccia salata fugge ancora la mia
volontà, scivolando oltre la guancia, e poi il mento. Cade
più giù, senza un
suono.
Abbasso
lo sguardo, accorgendomi che
quell’odiosissima prova della mia debolezza è
andata a bagnare una delle
lettere della nostra posta.
Prendo
in mano il pezzo di carta e mi
rendo conto che non c’è nessuna busta, nessun
mittente.
Rimango
a fissarla per qualche
istante, percorrendone i bordi con le dita, ancora e ancora, fino quasi
a farmi
male.
Sono
le mie stesse dita a schiudere i
lembi del foglio, troppo velocemente perché possa davvero
pensare a quello che
sto facendo, mentre il nodo che mi stringe le viscere diventa sempre
più saldo.
Sollievo
e delusione mi colgono
insieme, in un ossimoro potente e devastante, quando i miei occhi
incontrano
lettere e inchiostro uniti in una calligrafia che non conosco.
Sbircio
le prime parole e scopro che
il breve messaggio è indirizzato a me. Non sono sicura di
voler veramente
leggere, ma in fondo si dice che la curiosità è
femmina, non è vero?
Bene,
sono una donna.
Hey
Liz,
qui
è Linde che scrive. Beh, come stai? Ho saputo che stai per
prendere il tuo diploma; in bocca al lupo.
Come
sai non sono una persona molto loquace, nemmeno di persona,
e, beh, con le lettere sono ancora peggio – sì, se
te lo stai chiedendo, è
possibile -.
Non
so esattamente quello che debba o possa dire, quindi,
salterò tutti i preamboli e spero scuserai la mia scortesia.
Quanto
è passato? Più di un anno? Non lo so
più, ho perso il
conto. Ma sono sicuro che Ville ricordi il numero di giorni, forse
anche di
ore, esatto, da quando sei partita ad adesso.
Quando
te ne sei andata, ho pensato che fosse la cosa migliore.
Per entrambi.
Di
certo non lo è stata per Ville; non credo di aver preso un
granchio peggiore nella mia vita.
Mi
dispiace.
E’
passato un anno e non è giusto che io adesso ti chieda di
fare qualcosa: avrai una nuova vita adesso, e dopo quello che hai
sofferto, non
vorrai sicuramente riaffondare nelle sabbie mobili del passato.
Ma
ancora una volta, mi ritrovo qui, ad intromettermi ed
egoisticamente domandarti di pensare a quello che hai lasciato indietro.
Lui
non ti ha dimenticato. E’ sempre qui ad aspettare.
Ti
ho mandato un cd. Vi è registrata un’unica
traccia, una
piccola anteprima del nostro nuovo album. Da quanto ci ha detto Ville,
dovresti
conoscerla molto bene.
Ti
lascio nuovamente il mio numero di cellulare, e quello di
Ville, nel caso in cui tu non li abbia più: spero possano
servirti.
Un
abbraccio sincero da Manna, Luisa e tutti i ragazzi.
Linde
***
Le
note ancora ristagnano nella
stanza; accompagnano ogni mio respiro, ogni battito accelerato del mio
cuore.
Poi,
dei passi famigliari risuonano
sul pavimento della cucina, modificano quella ripetitività,
sciogliendo anche
lo stato di trance al quale mi sono incautamente abbandonata.
“Scusami
Ell, ma Luke mi avev– “
Arianna comincia a raccontarmi, sospirando profondamente, ma non appena
mi
raggiunge le parole le muoiono in gola.
“No”
riesce soltanto a sussurrare,
scuotendo piano la testa, mentre nelle sue iridi celesti si riflettono
le fiamme
azzurre di un fuoco debole, ma abbastanza forte da consumare un
più fragile
pezzo di carta.
Lascio
cadere quel che resta: un
ultimo frammento annerito, che si accartoccia su se stesso, con un
orribile
sfrigolio di morte. Poi è solo cenere.
Alzo
gli occhi verso la mia amica,
ormai asciutti e rossi, senza più lacrime.
“Non
posso tornare indietro”
__________________________________________________________________________________________________________
Ecco qui l'altro pezzetto!
Grazie alla mia pulcetta e anche a chi ha solo letto lo scorso capitolo!
Alla prossima, baci
FallenAngel aka Moss
|
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Capitolo 4 *** Pay me attention, I'll pay your soul back ***
Chapter 3
Pay
me attention, I’ll pay your soul back (pt1)
Do
you want the real story or do you prefer the lie?
Per
tutta la settimana successiva il cd è rimasto
abbandonato sul piano di marmo della cucina, accanto allo stereo. Non
l’ho più
ascoltato, e Arianna ha troppa paura per farlo.
Il mio
primo impulso è stato quello di gettarlo
via, distruggerlo, come la lettera.
Ma ho
scoperto di non essere abbastanza forte. Così
ho deciso di seguire il proverbio: vivi e lascia vivere.
Ho
finto che nessun meteorite fosse caduto
all’improvviso nella mia orbita. Ho finito di prepararmi per
la maturità e il 4
Luglio, mentre gli Americani festeggiavano la Dichiarazione di
Indipendenza, io
ho sostenuto il fantomatico esame.
E
adesso che non ho più pensieri per la testa,
tutto appare così complicato…
***
8
Luglio
Torno
a casa, tentando di camminare lentamente, ma
già sull’ascensore ho cominciato a saltellare: uno
stupido sorriso preme per
irrompere sul mio viso e faccio davvero fatica a nasconderlo.
Giro
la chiave nella toppa ed entro
nell’appartamento: non ho fatto nemmeno a tempo a chiudermi
la porta alle
spalle, che Arianna spunta di corsa dalla cucina.
“Cosa
ci fai qui?” le chiedo, strabuzzando gli
occhi per la sorpresa. Sono appena le 11 e mezza del mattino e lei
dovrebbe
essere al negozio di CD.
Fa un
gesto con la mano, per liquidare la domanda:
“Mi sono presa un giorno di ferie”
Alzo
gli occhi al cielo, scuotendo la testa. E poi
viene ancora a dirmi che Francesco, il proprietario del negozio, non si
sia
preso una cotta colossale? Quale datore di lavoro ti permette di
prenderti dei
giorni liberi, così, a buffo?
“Ehhh,
cosa vuoi che sia!” sbuffa. Poi cambiando
espressione e argomento, mi interroga concitata: “Ma allora?
Dimmi come è
andata!”
“Beh…”
faccio qualche passo avanti, aspettando un
istante o due per far crescere la sua curiosità. Ma io
stessa non riesco a
resistere a lungo.
Quel
sorriso pieno di soddisfazione si dipinge
finalmente sulle mie labbra e la voce esce dalla mia gola quasi in un
grido:
“E’ un 89!”
“Ottantanove?”
ripete lei incredula. Subito dopo
corre ad abbracciarmi stretta stretta “Sei un
mostro!”
Rido
insieme a lei, mentre come due bambine ci
mettiamo a ballare nel corridoio, rischiando di inciampare
più di una volta nei
nostri stessi piedi.
Sono
così contenta: per la prima volta nella mia
vita, sono riuscita a portare a termine qualcosa di buono.
Arianna
mi conduce in cucina, dove un’altra torta
al cioccolato ci aspetta, esposta in bella vista sul tavolo.
‘Congratulazioni
maturanda’ c’è scritto sopra a carattere
cubitali, con la pasta di zucchero.
“Ero
sicura che li avresti stesi tutti!” commenta
orgogliosa, con la mano sulla mia spalla.
“Un’altra
torta?” borbotto, prendendomi la testa
tra le mani “Ri, ma vuoi farmi diventare obesa?”
“Ohh
ma smettila” mi rimprovera, spingendomi verso
il mio premio “Che tra un po’ mi scompari sotto gli
occhi”
“Si,
certo nei tuoi sogni” ribatto, facendo un
rapido calcolo di tutti i dolci che ho ingollato nell’ultima
settimana tra
feste e non feste per il mio compleanno.
D’altra
parte il profumo è troppo invitante per
poter opporsi. Dannata donna, perché deve essere sempre
così brava in tutto?
Ci
sediamo entrambe al tavolo, dopo aver tirato
fuori dalla credenza un paio di piattini.
Prima
ancora che la prima fetta sia stata tagliata,
strappo con le mani un pezzo di pasta di mandorle che ricopre, in
parte, la
superficie della torta.
“Ehi!”
esclama Arianna contrariata, guardandomi
torva.
Alzo
le spalle, leccandomi le dita: “E’ il mio premio dopotutto, giusto?”
ridacchio
malignamente, sfruttando a mio favore le sue stesse parole, in modo che
non
possa replicare alcunché.
Mentre
il coltello affonda lentamente nel soffice
dolce di cioccolato, il campanello di casa suona
all’improvviso, facendoci
sussultare. E’ un trillo breve, ma deciso.
“Aspettavi
qualcuno?”
Le
sopracciglia di Arianna si sollevano,
nascondendosi sotto i boccoli rossi: “No, non mi pare. E
tu?”
Dopo
aver fatto rapidamente mente locale, scuoto la
testa “Nemmeno”
“Beh,
vai a vedere chi è comunque” suggerisce,
agitando il coltello, in un gesto che, seppure non volutamente, appare
ai miei
occhi alquanto minaccioso.
“Vado,
vado, ma tu tieni le mani a posto” osservo,
fuggendo dalla cucina.
“Idiota!”
la sento gridare da lontano, mentre mi
avvicino, sempre ridendo tra me e me, alla porta.
Non
appena metto a fuoco, un ragazzo sulla trentina
entra nel mio campo visivo.
“Hei
Liz” mormora timidamente con il suo accento
nordico, facendo un cenno con il capo e toccandosi la fronte in segno
di
saluto.
La
voglia di saltellare si è dileguata d’un tratto
nel nulla: i miei piedi sono incollati al pavimento, il sorriso muore
lentamente sulle mie labbra.
***
Three
days before
Manna
entra piano nella stanza, portando in
equilibrio su un vassoio due tazze fumanti di caffè.
“Grazie”
le sorrido nella semioscurità, mentre me
ne porge molto gentilmente una.
“Figurati”
replica, ricambiando il sorriso. Poi, le
sue sopracciglia spariscono all’improvviso sotto la frangia,
mentre la donna
scuote il capo, osservando la bambina che si è beatamente
addormentata contro
il mio petto.
“Ville,
avresti dovuto dirmelo!” mi rimprovera,
appoggiando sul tavolino il vassoio “L’avrei
portata a letto prima”
“Ma
non mi è nemmeno passato per l’anticamera del
cervello” ridacchio, cercando di non parlare troppo forte per
non svegliare la
piccola Olivia “E’ da così tanto tempo
che una bella ragazza non si addormenta
tra le mie braccia”
“Anche
se ultimamente ne hai fatte addormentare
tante con le tue chiacchiere interessanti” interviene Linde,
spaparanzato sulla
poltrona accanto, mentre si solleva per recuperare il suo
caffè.
Fingo
di non averlo sentito, piegandomi per posare
un ultimo bacio sulla fronte della bambina, prima che la madre la
prenda in
braccio.
Olivia
biascica qualcosa di incomprensibile, ma si
lascia spostare senza proteste, allacciando le braccia sottili al collo
di
Manna.
“Buonanotte
ragazzi” ci saluta la cantante,
stringendo con attenzione la sua piccola “Vedete di non fare
troppo tardi” ci
ammonisce dopo, agitando un dito contro la schiena di Olivia che, in
tutta
risposta, gira la testa dall’altra parte.
“Sì
mamma!” annuiamo insieme, scoppiando subito
dopo a ridere.
“Divertente”
borbotta lei, avviandosi verso la
scala “Io lo dico per voi…”
Restiamo
a ridere per un po’, sorseggiando piano la
calda bevanda.
“Lily”
mormoro, interrompendo il momentaneo
silenzio.
Lui
distende le gambe, voltando il capo nella mia
direzione: “Mh?”
“Ti
darebbe fastidio se io fossi innamorato di tua
figlia?” gli domando cautamente, con molta serietà.
Immediatamente,
un’ombra di orrore cade sui suoi
occhi e il suo viso sbianca.
Quasi
rischio di sputacchiare ovunque il mio sorso
di caffè: “Hey man, stavo scherzando!”
esclamo, tirandogli una pacca sulla
gamba.
Un
po’ di colorito torna a macchiare le sue guance:
“Certo, lo sapevo” dichiara, tossicchiando e
riappoggiandosi allo schienale
della poltrona, dalla quale è saltato senza accorgersi.
“Comunque”
prosegue, cercando di dimenticare
rapidamente la figura da idiota che ha appena fatto “Se
Olivia un giorno –
molto lontano, sia chiaro – mi portasse a casa un tipo come
te, Ville, di certo
verrebbe diseredata all’istante”
Non mi
premuro nemmeno di fingermi offeso “Credo
che farei la stessa cosa” ghigno, posando la tazza sul
tavolino e tendendo il
braccio per afferrare posacenere e blocco degli appunti.
“Ma
adesso bando alle ciance” esordisco,
accendendomi una sigaretta “Vediamo di finire in fretta,
così io posso levare
le tende e tu tornare dalla tua mogliettina”.
Terminiamo
di decidere gli ultimi cambiamenti della
set-list, rispetto all’ultimo festival. Non ci sono grandi
differenza,
tralasciando il piccolo particolare che inseriremo due pezzi
completamente
sconosciuti dal pubblico: i primi due brani inediti del nuovo cd.
Abbiamo
scelto, o meglio, sono stato io a scegliere,
che la prima canzone che i partecipanti al Ruisrock avranno
l’onore di
ascoltare sia Dead Lovers’ Lane, incastrata tra Poison Girl e
Join Me, più o
meno a metà del concerto.
Migè
ha a lungo cercato di convincerci a suonare
Sleepwalking Past Hope, la sua preferita di tutto l’album, ma
eravamo tutti
d’accordo sul fatto che sorbirsi un brano di 10 minuti mai
sentito prima poteva
non essere una cosa gradevole per ciascuno dei 20 mila spettatori.
“Allora
Funeral sempre per ultima?” chiede conferma
Linde, grattandosi la testa.
Ci
penso sopra qualche istante: “Mh, direi di sì.
Ormai è diventato quasi un must”
“Ah
Ville, stai diventando prevedibile” mi prende
in giro, lasciandosi scappare uno sbadiglio.
“E
tu stai diventando vecchio” lo rimbecco, non
riuscendo a trattenere una risata “Non riesci a stare
più sveglio oltre
mezzanotte?”
Lui
assume un’espressione strana, un misto tra
l’imbarazzato e lo scocciato: “Non è
colpa mia” mugola piano “Ieri notte Olivia
aveva mal di pancia, e non abbiamo dormito affatto!”
“Ah
beh…” lo stuzzico, sbirciandolo con uno sguardo
non molto convinto, che lo fa indispettire ancora di più.
“E
comunque sono sveglissimo” aggiunge,
raddrizzandosi sulla poltrona e sbattendo una volta le palpebre.
Questa
volta mi trattengo saggiamente dal
ridacchiare, e torno a posare la penna sul foglio.
“Bene,
allora per l’encore abbiamo Razorblade Kiss
e Bleed Well” scandisco bene, mentre trascrivo i titoli delle
canzoni. Linde
posa una mano sul mio braccio, per fermarmi.
“Sei
sicuro?” domanda con circospezione.
Davanti
al suo quesito, ma soprattutto al vero
significato che sta dietro a quella semplice frase, tentenno un istante.
Quando
avevamo a iniziato a programmare la scaletta
per il festival, il mio primo pensiero era stato quello di cantare
‘Venus
Doom’: era la canzone che dava il titolo all’album,
il brano che lo teneva
insieme, la chiave di volta per comprendere tutti i miei sentimenti e
le
emozioni che avevo messo in quel nuovo lavoro. Ma era anche la nostra canzone: non ero sicuro di
poterla cantare senza di lei, non ero sicuro di averne la forza.
La
lotta interiore era stata lunga ed estenuante:
una parte di me, quella più ingenua e sognatrice, la parte
più immatura,
credeva che cantare quella canzone me l’avrebbe fatta sentire
vicina, su quel
palco insieme a me, e forse, forse, lei, ascoltandola, in qualche modo
avrebbe
potuto capire, forse sarebbe tornata da me. Ma erano troppi forse e
troppe
speranze, che la parte più razionale del mio io aveva saputo
sopprimere: non
sarebbe cambiato nulla, avrei sofferto solo un po’ di
più.
E i
ragazzi si sarebbero divertiti molto di più a
suonare Bleed Well.
Annuisco,
abbozzando un sorriso: “Ne sono sicuro.
Faremo fare un bel giretto all’inferno alla nostra
Ruissalo!”
Il
chitarrista non sembra completamente soddisfatto
dalla risposta, ma cerca di non darlo a vedere “Allora siamo
a posto, no?”
“Sì”
confermo, alzandomi dal divanetto e
infilandomi sigarette e accendino in tasca “Domani ci
sistemiamo con i ragazzi
e Seppo per l’ultima prova: al Finnvox alle 4 e mezza,
puntuale”
Mentre
mi segue verso la porta, mi lancia
un’occhiata in tralice: “IO sono sempre
puntuale” assicura, incrociando le
braccia “Non scaricare sugli altri i tuoi stessi peccati,
Rakohammas!”
“Quanto
siamo permalosi” commento con un ghigno.
Adoro farlo arrabbiare, le sue reazioni sono sempre esilaranti.
Forse
non ha torto chi sostiene che la mia mente
sfiori il sadismo.
Linde
mi ha già praticamente spinto fuori da casa
sua, quando una lampadina si accende nella mia testa.
“Ah!
Prima di essere buttato fuori” esordisco,
voltandomi di scatto indietro e allungando un piede, per evitare di
ritrovarmi
la porta sbattuta in faccia “C’è una
cosa che volevo chiederti”
“E
sarebbe?” mi sprona Linde, alzando un
sopracciglio.
“Mi
ci porti tu a Turku?” lo prego, sbattendo le
ciglia “Avevi intenzione di partire Venerdì
giusto? O addirittura Sabato?
Perché io…”
“No,
aspetta Ville” mi interrompe, guadagnandosi
uno sguardo di incomprensione.
“E’
meglio se chiedi a Migè”
Mi
gratto la testa, continuando a non capire: “E
come mai?”
Sembra
piuttosto a disagio; sposta il peso del suo
corpo da un piede all’altro, appoggiandosi allo stipite della
porta “Beh…”
incomincia “Manna e Olivia vanno insieme a Burton,
perché io devo fare una cosa
prima…”
Vorrebbe
lasciare cadere il discorso, ma io sono
troppo curioso per accontentarlo: “Una cosa?”
“Uffa
Ville, sei mia madre?” sbuffa, alzando gli
occhi al cielo “Devo…andare a trovare un amico a
Tampere”
“Adesso?”
“Sì,
Ville adesso. Sta male e quindi mi sembra il
minimo, considerando che poi saremo in tour tutta l’estate in
America”
“Uh”
borbotto, facendo un passo indietro, quasi in
procinto di andarmene.
Linde
non ha il tempo di tirare un sospiro di
sollievo, che sono tornato a girarmi: “Ma chi
è?”
Si
batte una mano sulla fronte, spazientito: “Non
lo conosci”
La
cosa mi sembra alquanto strana, considerando che
io e Linde siamo praticamente cresciuti insieme e abbiamo un sacco di
amici in
comune. Ma evito di contraddirlo.
“Vuoi
che ti accompagno?” accenno un sorriso a
trentadue denti.
“Molto
gentile da parte tua, ma non ce n’è
bisogno”
mi liquida rapidamente, prendendo saldamente la maniglia tra le dita.
“Buonanotte
Ville” mi saluta con un tono che non
vuole replica.
“Notte”
ridacchio, agitando la mano, mentre la
porta sbatte effettivamente a pochi centimetri dal mio naso.
***
8
Luglio
D’un
tratto il tempo sembra essersi fermato.
No,
sembra tornato indietro, ad un anno prima, o
poco più.
Guardo
i lunghi dreads che gli ricadono sulle
spalle e ancora una volta mi domando se quella sia davvero la
realtà.
Eppure
non può essere un sogno. Ho detto addio ai
sogni molti mesi fa.
Linde.
Linde
è davanti alla mia porta, e aspetta paziente
e in silenzio una risposta. Il sorriso continua a piegare le sue labbra
sottili, senza lasciarsi sfiorare dal mio comportamento forse non
troppo
coerente con le regole dell’ospitalità.
Me lo
fa notare, con leggerezza, sempre sorridendo:
“Hai deciso di lasciarmi fuori dalla porta? O ti sei
già dimenticata del tuo
chitarrista e maestro preferito?” domanda poi, allargando le
braccia.
Mi
lascio contagiare involontariamente dalla sua
allegria.
Scuoto
piano il capo, facendo un passo avanti
mentre lui mi viene incontro; ci abbracciamo forte e mi accorgo di
quanto mi
sia mancato. Di quanto mi manchi la vita che ho lasciato ad Helsinki.
Il suo
profumo scatena mille ricordi, la sua
stretta è famigliare e accogliente.
“E’
bello rivederti” gli confesso, sebbene nella
mia voce ci sia ancora una nota malinconica che proprio non riesco a
sopprimere.
“Già.
E’ passato tanto di quel tempo” Linde si
stacca piano, scrutandomi da capo a piedi “Sei sempre la
stessa, e allo stesso
tempo sei cambiata così tanto. Sei sempre più
bella” commenta, strizzandomi
l’occhio.
Scuoto
la testa davanti alla sua affermazione,
sospirando: “Certo che lo sono. Mh, anche tu non sembri messo
male”
“Oh
grazie” ridacchia, facendo un mezzo inchino.
Mi
trattengo dal sollevare gli occhi al cielo.
Tutta quella teatralità. E’ proprio uguale a
Ville, mi ritrovo a pensare senza
accorgermene.
A
Ville…
Scaccio
l’immagine, concentrandomi sul viso del
chitarrista.
“Ora
che ci siamo salutati e complimentati, vuoi
che me ne vada via?” mi chiede, alzando un sopracciglio
“O posso entrare un
minuto?”
Sono
consapevole che stia scherzando, ma una parte
di me vorrebbe davvero mandarlo via. Stare con lui,
ricordare…fa male. Un
presentimento potente continua a gridare nella mia testa, ancora e
ancora: non
ascoltare, non parlare.
Ma
come potrei fare una cosa del genere? Mi
sorprendo di me stessa: faccio immediatamente qualche passo indietro,
lasciandogli libero il passaggio.
“Prego”
mormoro semplicemente.
Proprio
mentre Linde fa il suo ingresso nel nostro
modesto appartamento, la voce di Arianna si fa sempre più
forte, come i suoi
passi rapidi sul pavimento.
“Ma
chi è alla porta Liz? Perché ci stai
così tanto
e…” quando arriva nell’ingresso le
parole si fermano sulle sue labbra. Fine
della corsa.
Guardo
i suoi occhi sgranarsi per la sorpresa,
mentre scuote la testa incredula.
“Oddio
non è possibile!” borbotta con un filo di
voce. Poi, in un istante, è già al collo del
chitarrista, sulle punte dei suoi
piedi scalzi.
“Oddio
Linde cosa diavolo ci fai qui?” gli urla
quasi nell’orecchio, stritolandolo in uno dei suoi
superabbracci.
Quasi
temo che Linde possa spaventarsi di quel comportamento.
Ma in fondo è Arianna, non è vero? Mi sbaglio: il
chitarrista ricambia
l’abbraccio, battendo qualche volta la mano sulla sua spalla:
“Anche io sono
contento di rivederti” scherza lui, fingendosi offeso.
“Oh
certo, anche quello” ride lei, un tantino
imbarazzata.
Osservo
la reazione di Arianna dal mio angolino,
senza capire: non appena ho visto Linde ho subito pensato che fossero
d’accordo, un altro accordo alle mie spalle.
La mia
amica mi aveva infatti svelato di essere
rimasta in contatto con il chitarrista per tutti quei mesi, cosa di cui
in
fondo non ero rimasta affatto sorpresa: chi dopo essere diventata amica
dei
suoi idoli avrebbe potuto rompere così di punto in bianco i
rapporti, senza un
motivo? Beh solo io, ma mi illudo di aver un motivo abbastanza valido.
E
così lettera e cd erano stati mandati al negozio
di Arianna, in modo che fosse la mia amica a portarmeli: le cose non
erano poi
esattamente andate come avevano pianificato.
Ma
adesso, mentre li vedo insieme salutarsi e
parlare del più e del meno con quei grandi sorrisi stampati
sul viso, non posso
credere che sia soltanto una farsa.
Forse
nemmeno Arianna sapeva che Linde sarebbe
venuto.
Peccato,
niente capro espiatorio.
Ci
spostiamo tutti in cucina, essendoci accorte che
il salotto è poco presentabile: altro segno che la visita
sia stata
inaspettata.
“Hey,
ma siete delle streghe voi due? Mi avete
preparato una torta di benvenuto?” ci interroga il rasta con
le sopracciglia
aggrottate e la testa piegata da un lato per osservare
l’immenso dolce.
“Eh
no” lo informa Arianna, muovendo in segno
negativo il dito indice “Quella era per Elisa!”
sposta il suo sguardo su di me
e afferma con orgoglio “Oggi ha ricevuto i risultati del suo
esame: diplomata
con ottimi voti”
“Che
esagerata” ribatto, scuotendo la testa
“Diciamo buoni”
“Smettila
di fare la modesta come tuo solito” mi
sgrida contrariata, mentre Linde si avvicina per darmi una rapida
stretta alla
vita.
“Congratulazioni
Sweetie”
“Grazie”
balbetto, un po’ scossa, quasi
pietrificata. Nuovamente l’immagine del chitarrista si
è sovrapposta a quella
di…
Smettila
Elisa, è ridicolo, continuo a ripetermi:
Linde e Ville non si assomiglia nemmeno, non hanno la stessa voce o lo
stesso
atteggiamento, eppure ogni gesto o ogni parola del rasta rendono la sua presenza
reale.
Sto di
certo diventando matta.
Restiamo
a parlare a lungo, mangiando torta e
bevendo spremuta.
In
verità sono Arianna e Linde a parlare, io cerco
di ascoltare i loro discorsi, tenendomi aggrappata alla
realtà con tutte le mie
forze.
E
così il loro nuovo album uscirà a Settembre:
un’improvvisa curiosità mi assale, ma tento di non
darlo a vedere. Nuove
canzoni, nuove poesie, nuove melodie: quali altre emozioni
sarà riuscito a
regalare a tutti i suoi fan? Quali passioni avrà deciso di
condividere?
Quasi
mi strozzo con la mia fetta di torta, quando
vengo a sapere che ‘Venus Doom’ sarà
anche il titolo dell’album: la mia amica
non sembra particolarmente meravigliata questa volta. Probabilmente ero
l’unica
fan degli HIM ad esserne ancora allo scuro.
L’unica
fan degli HIM a conoscere il segreto
racchiuso dietro a quelle due parole.
“Ancora
due mesi” sospira Arianna, lo sguardo
sognante.
“Beh,
voi avete avuto una piccola anteprima”
ammicca Linde “Anche se per Liz non era proprio un pezzo
ineditissimo. Vi è
piaciuta?”
Arianna
abbassa lo sguardo sul suo piatto,
imbarazzata.
Finalmente
mi costringo a parlare, attirando
l’attenzione del chitarrista su di me: “Certo. La
realizzazione è stata
perfetta. E’ così diversa dagli altri album, ogni
volta riuscite a stupirci”
Il
sorriso di Linde si allarga sul suo volto, fino
a raggiungere i suoi occhi: “E’ bellissimo sentirlo
dire. E’ qualcosa che porta
sempre una soddisfazione incredibile in un musicista, è la
ragione del nostro
lavoro” Si riscuote dai suoi pensieri filosofici
all’improvviso, sospirando:
“Peccato che tu non sia proprio super parte, eh
Liz?”
Super
parte? Forse no. Come potrei non amare quella
canzone con tutta me stessa?
“Ma
no” lo contraddico, cercando di essere il più
autorevole possibile “Siete sempre più bravi,
è un dato di fatto”
Ancora
racconti. Mi lascio trasportare anch’io dai
sorrisi e dalle risate. Per lunghi attimi, mentre ascolto le ultime
avventure
di Olivia, o i meravigliosi primi mesi di Heartta, quasi mi sembra di
essere
ancora avvolta in quel mondo.
Ma
riesco sempre a riscuotermi.
Una
tempesta di sentimenti si combatte nel mio
cuore, ma l’esercito delle illusioni è ancora
troppo debole per sopravvivere.
Si
sono quasi fatte le tre: presi dai nostri
discorsi e dal rinvangare il passato, ci siamo dimenticati di pranzare.
L’occhio
di Arianna cade sul suo orologio da polso
e la rossa sussulta, incredula: “Oddio ma è
già così tardi? Io sono una gran
chiacchierona, ma non pensavo che il taciturno chitarrista degli HIM
potesse
parlare così tanto” scherza, scuotendo la testa.
Ma è davvero sorpresa, lo
leggo in quel suo volto che ormai conosco come le mie tasche.
Linde
si abbandona ad una risata argentina:
“Avevamo molto da raccontare”
“Già”
concorda la mia amica. Poi la sua fronte si corruga
all’improvviso: “Ma non ci hai ancora detto
perché sei qui”
Il
rasta si irrigidisce impercettibilmente sulla
sedia e il suo viso si contrae in un espressione più seria,
sebbene un dolce
sorriso continui ad increspare le sue labbra.
“Beh,
io avevo bisogno di parlare…con Elisa”
Arianna
balza in piedi di scatto, quasi
spaventandoci.
“Perché
non me lo hai detto subito?” lo sgrida,
lanciandogli un’occhiataccia di rimprovero, più
rivolta a se stessa in realtà
che al finlandese stesso “Ti ho fatto perdere un sacco di
tempo con la mia
lingua lunga…”
“Ma
smettila” ribattiamo entrambi, quasi insieme, e
la nostra sincronia scioglie per un attimo la tensione, mentre
scoppiamo tutti
a ridere.
“Comunque
sia, adesso devo andare al lavoro” ci
informa, avvicinandosi a Linde per abbracciarlo ancora una volta
“Così vi
lascio parlare. Mi raccomando però, prima di andare via
passa a salutarmi in
negozio!”
“Certo”
promette, lasciandola delicatamente andare.
Prima
di abbandonare la cucina, Arianna ci lancia
un ultimo radioso sorriso dalla porta: nei suoi occhi risplende,
chiara, una
nuova speranza.
|
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Capitolo 5 *** Pay me attention, I'll pay your soul back (pt2) ***
Chapter
3
Pay
me attention, I’ll pay your soul back (pt2)
Do
you want the real story or do you prefer the lie?
Dopo
la sua partenza, il silenzio nella stanza
diventa qualcosa di fisico e opprimente, denso quasi come la nebbia
d’inverno.
Aspetto,
appoggiata appena appena allo schienale
della sedia, gli occhi fissi sulle briciole rimaste nel mio piatto, le
mani
attorcigliate in grembo: l’immagine del relax, insomma, penso
tra me e me,
senza divertimento.
Anche
Linde non sembra più sicuro di voler
parlarmi, adesso. Lascia vagare lo sguardo nella stanza: il suo respiro
è lento
e regolare, mi rimbomba quasi nelle orecchie.
All’improvviso,
con la coda dell’occhio, mi accorgo
che si è alzato in piedi. Seguo curiosa i suoi movimenti: si
sposta dall’altra
parte della cucina e si ferma ad ammirare la mia Angi, accostata al
muro.
Le sue
dita scivolano sulle corde, come in una
carezza: la osserva attentamente con un sorriso che fa sciogliere, poi
si volta
nella mia direzione.
“E’
tua?”
Annuisco
brevemente, ancora a disagio.
“E’
una bella Ibanez” commenta, ma poi aggiunge con
un piccolo ghigno “Anche se le Gibson sono le mie preferite.
Quando ero ragazzo
però…”
“Linde”
lo fermo con un sospiro, sollevando una
spalla e incassando la testa nel collo “Ti prego, poniamo
fine a questo
tormento. Perché sei venuto? Sai che non cambierà
nulla”
Lui
riabbassa gli occhi sulla mia chitarra, il suo
viso così diverso.
“Non
appena ho imbucato quella lettera” esordisce a
voce alta, sempre evitando di guardarmi, quasi stesse parlando ad Angi,
piuttosto che a me “Subito mi sono reso conto che era stato
stupido. Un errore.
Che effetto avrebbero potuto sortire due misere righe? Avevo mandato
anche il
cd con la canzone, è vero. Ma non sarebbe stato abbastanza.
Così, quando non ho
ricevuto alcuna risposta scritta, nè alcuna chiamata, e
potevo essere certo che
lo stesso valeva per Ville, non mi sono meravigliato poi molto.
Chissà
cos’avrai pensato di me, leggendo quella lettera: cosa
diavolo vuole questo?
Perché non pensa agli affari propri? Immagino quale sia
stata la fine di quella
lettera”.
Solleva
il capo all’improvviso, imprigionando i
miei occhi sconvolti. Sento le mie gote in fiamme per la vergogna,
vorrei
parlare, ma non trovo la voce.
“No,
Linde, ascolta…” cominciò a balbettare,
così
fievolmente che mi quasi mi stupisco di riuscire a sentire io stessa
qualche
sillaba.
Lui
scuote la testa, interrompendomi con un gesto
della mano: “No, avevi ragione. Quella lettera è
stata un’idea penosa. E’ solo
che” chiude gli occhi un momento, inspirando forte, mentre
sul suo volto si
fanno visibili segni di indicibile tristezza “io non potevo
più vederlo in quel
modo, dovevo fare qualcosa. E’ passato un anno, e giorno dopo
giorno continuavo
a ripetermi che sarebbe stato migliore. Ma non è stato
affatto così: dopo che
te ne sei andata, Ville si è richiuso completamente in se
stesso, ha cancellato
le date dei tour, ha smesso di scrivere, ha smesso di suonare. Poi non
è più
uscito di casa e quasi non ci permetteva di andare a trovarlo: quante
volte mi
sono ritrovato la porta chiusa in faccia, la strada inaccessibile.
Stava sempre
da solo, l’alcol come unica compagnia”.
Parla
lentamente, lasciando scivolare ogni parola
con fatica. E’ come una pioggia leggera, una di quelle piogge
primaverili che
bagna e dà vita ai fiori appena risvegliati dal sonno
dell’inverno. Questa
lieve pioggia di parole, tuttavia, non porta vita, ma uccide:
è come una
pioggia di aghi acuminati, che entrano uno ad uno nella mia pelle,
facendosi
strada verso il mio cuore.
Lacrime
bollenti rigano il mio viso, mi accecano.
“No,
non voglio ascoltare” gli grido, coprendomi la
faccia con le mani.
Ero
riuscita a superare quell’anno, tutto quel
dolore, soltanto confidando nel fatto che lui stesse bene; che la sua
vita
fosse, se non felice, almeno piacevole.
Non
posso credere il contrario. Non avrei mai
potuto sopportarlo.
“Lasciami
finire” mi supplica: la sua voce è
vicinissima,tanto da farmi sobbalzare. Quando lascio cadere le mani,
scopro che
si è fatto avanti, e adesso accarezza dolcemente i miei
capelli “Ti prego”
Inghiottisco
con difficoltà e, con un sospiro, gli
assicuro la mia attenzione.
Linde
si siede di nuovo di fronte a me e ricomincia
a raccontare: “Poi, a d’un tratto è
cambiato, dal giorno alla notte. Con nostra
grandissima sorpresa, ci ha chiesto aiuto: lo abbiamo accompagnato in
un centro
di riabilitazione, dal quale è uscito più in
salute e perfettamente sobrio. Ha
ricominciato a uscire con gli amici, a suonare, ha sistemato le bozze
delle sue
canzoni e ha tirato fuori un nuovo album spettacolare: ha ricominciato
a
vivere, insomma. Mi sono illuso che fosse guarito del tutto, che stesse
bene.
Ma ci sono delle ferite che ancora non si sono rimarginate, e sono
quelle del
suo cuore”
La mia
testa sta per scoppiare: posso ancora ascoltare?
Devo.
Sta
bene, mi dice. E poi si rimangia tutto. Fino a
quando riuscirà a resistere il mio, di cuore?
“Perché
lui è ancora innamorato di te. Lo è
davvero, molto più di quanto avrei potuto pensare”
Il
sangue è freddo nelle mie vene. Sta ancora scorrendo?
Il battito è lento, non ne sono poi tanto sicura.
“Linde,
no” mi lamento, ma lui non ascolta. E’ come
se non avessi detto nulla.
“Sapevo
che dovevo fare qualcosa: così ho scritto
la lettera, perché sono un codardo, perché avevo
paura di affrontarti, di
affrontare Ville” il suo tono è più
concitato ora, soffuso di rabbia disperata,
ma non contro di me, o contro l’amico, ma verso se stesso.
“Perché
non pensa agli affari propri, avrai
pensato. Ma vedi” rivela, tornando a guardarmi fisso negli
occhi, con un
ironico sorriso “In fondo sono un po’ anche fatti
miei, dato che la colpa di
tutto quello che è successo è mia”
Le
ultime parole galleggiano a lungo nell’aria,
cullate dal silenzio.
Io
ricambio il suo sguardo, senza riuscire a
comprendere il significato di quella frase.
“Linde”
mi sforzo infine di sussurrare, poggiando
una mano sulla sua, davanti alla maschera di rimorso che lacera il suo
viso “Ma
cosa stai dicendo?”
Stringe
le mie dita, una volta, ritraendo subito
dopo il braccio.
Comincia
a raccontare, gli occhi bassi e spenti.
Mi
confida di come fosse stato profondamente
turbato dalla notizia della mia età: si era molto
affezionato a me, certo, e mi
reputava una ragazza molto dolce, ma sapeva anche che io e Ville non ci
conoscevamo neanche da un mese ed io ero così giovane. Ero
una loro fan,
affascinata dal mio cantante preferito, come poteva essere sicuro che
la mia
non fosse soltanto una semplice cotta? Ville aveva sofferto tanto, per
Jonna.
Poi era partito: era andato in America, aveva ritrovato il suo primo
amore, la
ragazza che aveva cercato di rintracciare per anni, e quando
l’aveva ritrovata,
aveva scoperto che questa stava per sposarsi; cosicché, per
la felicità di lei,
si era fatto da parte. Il suo cuore non avrebbe retto
l’ennesima delusione.
Linde voleva proteggerlo, salvarlo prima che fosse troppo tardi.
Quel
giorno stesso, Tarja lo aveva trovato: gli
aveva chiesto aiuto, aveva bisogno di parlare con Ville; era convinta
di aver
commesso un errore, permettendo al darkman di andarsene, e adesso
volevo
sistemare le cose. Linde, pur intuendo dall’espressione del
suo volto che fosse
sincera, aveva a lungo esitato: quale poteva essere la scelta giusta?
Forse
Ville avrebbe sofferto rivedendola. Forse però era la
persona giusta per lui,
l’unica che lo avrebbe potuto rendere felice. Aveva avuto
più fiducia in lei
che in me, ma in fondo non ho proprio nulla da rimproverargli,
probabilmente
anche io avrei puntato sulla donna di 30 anni, matura, innamorata di
Ville sin
dall’infanzia, piuttosto che sulla ragazzina diciassettenne
conosciuta due
settimane prima, di cui si sapeva davvero poco o nulla. E poi sembrava
proprio
che il destino avesse voluto metterla sulla sua strada.
Così
Linde aveva combinato il loro incontro alla
festa di beneficenza. Ma soprattutto, cosa di cui andava ben poco
fiero, aveva
fatto in modo che io lo venissi a scoprire direttamente.
“E’
stata una cosa tremenda, meschina, orribile”
geme, continuando ad agitarsi sulla sedia per la vergogna
“E’ solo che ero
convinto che un taglio netto avrebbe troncato più facilmente
le cose, meno
dolorosamente. Se ci ripenso, è stato un ragionamento
assolutamente incoerente,
stupido. Non so davvero cosa mi sia passato nel cervello. Ma ti
giuro” mi
assicura, afferrando la mia mano inerme, mentre io resto silenziosa e
rigida
come una statua “non avrei mai voluto fare del male
né a te, né a Ville.
Pensavo di fare la cosa migliore, ma ho sbagliato tutto. Lui ti ama,
più di
quanto abbia mai amato chiunque altro probabilmente. Tu lo ami,
Elisa?”
Resto
impassibile. Ferma, zitta, immobile, senza
quasi respirare.
Potrei
mentirgli? Potrei dirgli che non mi importa
assolutamente nulla di lui, che ormai è finito tutto?
Non
sono mai stata una grande attrice.
Lo
amo? Oh Linde, io lo amo più di quanto non
dovrei, più di quanto credevo di essere capace.
Nessuna
di queste parole esce dalle mie labbra. I
miei pensieri restano chiusi nella mia testa, come i sentimenti nel mio
cuore,
nelle mie vene, in ogni millimetro cubo del mio essere.
Ma non
c’è bisogno di parole. Se gli occhi sono lo
specchio dell’anima, in questo momento non ho di certo la
forza per oscurare o
proteggere con imposte quella finestra sul mio cuore.
“Se
ne sei innamorata, non fargli pagare tutto
questo per un mio errore” mi prega, allungando una mano per
asciugare
delicatamente le lacrime che non ho sentito scivolare dai miei occhi.
Ancora
silenzio.
Vorrei
rispondere, ma mi sembra di essere
intrappolata in un incubo: uno di quegli incubi in cui vorresti
gridare,
urlare, chiedere aiuto, ma la voce non esce mai dalla tua gola.
La mia
mente lavora veloce, i muscoli non riescono
a seguirla.
Linde
attende paziente una qualunque reazione, ma
invano.
Con un
sospiro, spinge indietro la sedia e si alza
in piedi.
“Domani
sera suoniamo a Turku, al Ruisrock. Io
riparto domani mattina con l’aereo delle dieci e
mezza” mi informa, mettendo
una mano nelle tasche dei jeans. Ne estrae una busta bianca, che
appoggia sul
tavolo di fronte a me: “Qui dentro ci sono altri due
biglietti, sia dell’aereo
che per il festival. Sono per te e Arianna, nel caso abbiate voglia di
venire.
Io torno indietro: e forse questa volta, troverò il coraggio
di dire la verità
a Ville. Ma almeno adesso ci sei anche tu a conoscerla”
Si
piega in avanti per posare un leggero bacio
sulla mia fronte e stringermi un’ultima volta, teneramente:
“Mi dispiace, mi
dispiace davvero così tanto. Spero che penserai a quanto ti
ho detto. So che
farai la scelta giusta e non seguirai i miei sbagli” ripete,
con malinconia “Ti
aspetterò, domani”
Si
allontana da me, e lo spostamento d’aria,
sebbene non faccia affatto freddo, mi fa rabbrividire.
Sta
quasi per andarsene, quando d’un tratto si
ricorda di qualcos’altro nascosto nella sua tasca destra.
“Volevo
anche darti questo”
Mi
porge una scatolina rettangolare e trasparente,
contenente un cd di dimensioni molto ridotte. Lo afferro, quasi senza
pensarci,
spinta dalla curiosità e dallo stupore.
Visto
che le mie corde vocali non sembrano ancora
avere intenzione di rientrare in servizio, gli rivolgo un sguardo
interrogativo.
“Perdonami
le dimensioni” sorride timidamente “Ma
non mi piace muovermi con borse o sacchettini: questo almeno entrava
nelle
tasche”
E
senza nessun’altra spiegazione, mi saluta per
l’ultima volta e lascia il mio appartamento.
***
E’
passata forse un’ora. Ed io sono ancora seduta
al tavolo della mia cucina, rigirandomi la piccola custodia fra le dita.
Le
parole di Linde riecheggiano senza posa nella
mia testa. Ancora e ancora.
Cosa
devo farne di quelle rivelazioni? Cambiano
qualcosa?
Forse
niente.
Forse
tutto.
“Some search, never finding a way
Before long, they waste away”
“I found you, something told me to
stay
I gave in, to selfish ways”
“And how I miss someone to hold
when hope begins to fade...”
Stupida
canzone.
La
verità di quelle parole torna a bruciare dentro
di me. Ho paura, non voglio ascoltare: per la prima volta nella mia
vita, provo
risentimento verso quel brano che mi ha dato tanto.
Prendo
tra le dita il piccolo cd e lo posiziono sul
disco rotante del lettore.
Ho
come il presentimento che finirò dalla padella
alla brace. Ma scossa, disperata o sotto shock, la curiosità
resta sempre il
mio peggior difetto.
Una
melodia dolce, sconosciuta.
Ma
anche senza averla mai sentita posso dire a
colpo sicuro chi ne sia l’autore.
Brace.
Brace ardente.
Quelle
poche note, unite con abile maestria per
stringere il tuo cuore fino a fargli lacrimare sangue, si susseguono
ripetutamente per quattro volte. Ad ogni giro mi sento più
debole e una
risatina isterica mi sfugge dalle labbra, considerando che la canzone
non è
nemmeno davvero iniziata e solo l’introduzione mi fa
quell’effetto.
Should've known how hard it’s to stop
tearing each
other apart
Separating souls entwined in all these labyrinthine lies
La
musica è straziante, la sua voce è
perfetta.
Ma
non è quello a lasciarmi senza
fiato. O meglio, non soltanto quello.
C’è
qualcosa di più, che non riesco
immediatamente a cogliere.
I am dead to you, a shadow doomed
My love, forever in the dark
And of all untruths the truest is you
Too close to my heart
Ed
è così che mi sento. Come morta, come
un’ombra perduta.
Sta
cantando una canzone o mi sta leggendo dentro?
This emptiness I've made my home
Embracing memories of dreams long gone
One last caress from the corpse of love is all I want
Underneath the cyanide sun
Un
sole di cianuro.
Un
sole di cianuro.
Il
nostro sole di cianuro.
“E
se domani
ti stufassi di me? E se domani non fossi più
abbastanza?” gli avevo chiesto,
stringendo la sua mano, quel mattino nel parco, davanti a casa sua.
“Non
so dirti
cosa succederà domani. Adesso mi risulta difficile pensare
ad un domani senza
la tua presenza. Ti vorrei con me anche se la terra diventasse quadrata
o il
sole diventasse blu”
Avevo
alzato
un sopracciglio: “Blu?”
“Sì
blu. Un
sole di cianuro” aveva aggiunto pensoso.
Finalmente
comprendo cosa ci sia di veramente
speciale in quella canzone. Non sono parole e accordi, sono un pezzo
della mia
vita. Il disegno della mia anima.
We've sailed the seas of grief on a raft built
with
our tears
Looking for a way to disappear for a moment from our deepest fears
I'll be drowning you in this river of gloom
Forever in my heart
This emptiness I've made my home
Embracing memories of dreams long gone
One last caress from the corpse of love is all I want
Underneath the cyanide sun
Sì,
sono la rappresentazione della mia anima. Ma
anche della sua.
Adesso
ne sono sicura e quella consapevolezza mi
riscuote.
Scoppio
in sighiozzi: come una bambina, non riesco
a trattenermi. E tra le lacrime copiose e salate, quella strana smorfia
è un
sorriso?
Underneath
the
cyanide sun
Scusate
davvero per la mia assenza: in assenza di commenti, non ero
più sicura che
questa storia interessasse e un po’ per mancanza di tempo, un
po’ per pigrizia
non ho mai finito di postare.
Ma sono
stata un po’ stupida. Terminerò di postare in ogni
caso.
Scusatemi
ancora, davvero.
Un
ringraziamento particolare a chi non ha perso la speranza (la prossima
volta
siete super AUTORIZZATE a mandarmi email minatorie XD)
E per le
recensioni all’ultimo capitolo, grazie a:
@SomethingSpecial:
scusami davvero tanto e grazie infinite per i complimenti! Sono davvero
felice
che sia riuscita ad emozionarti, è la cosa più
bella che un lettore possa dire.
Spero davvero che la tua euforia perduri! Sisi, bravissima, ci avevi
azzeccato
in pieno! Ma adesso la domanda è, cosa farà
Elisa? Sono io a ringraziare te ^_^
@LittlrShady:
sono davvero felice che tu mi abbia scritto, è sempre
stupendo sapere se il tuo
lavoro piace a qualcuno o riesce a farlo emozionare *_* anche se mi
sembra
sempre così strano. Grazie mille dei complimenti e
assolutamente non trovo le
tue parole banali, mi fanno solo immensamente felice. Grazie ancora
@6Vampire6girl6:
grazie mille ^_^ spero che anche i prossimi capitoli non ti
deludano…chissà
come andrà a finire eheheh. Baci
|
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Capitolo 6 *** Choises and Mistakes (pt1) ***
Chapter 4
Choices
and mistakes (pt1)
Looking
for the key to my heart-shaped lock
9
Luglio
Ogni
persona ha il suo ‘posto segreto’.
Il
luogo preferito, dove si sente perfettamente a
suo agio, qualunque cosa accada, che sia al settimo cielo, o 666 metri
sotto terra.
Una
grotta, una baita sperduta tra i monti, una
casetta sull’albero, o semplicemente la propria camera da
letto. Una volta ho
conosciuto una ragazza che, ogni volta che sentiva di non riuscire
più a
sopportare il mondo esterno, troppo duro e insensibile, si chiudeva per
ore
nella sua cabina armadio, al buio, e restava a pensare, con le braccia
intorno
alle ginocchia, avvolta dal profumo della naftalina.
Di
solito è un luogo nascosto, a volte poco
accessibile, dove restare lontano da tutto e da tutti.
Sin da
ragazzo, ho sempre avuto il bisogno di
distinguermi. C’è chi mi ha dato del pazzo, chi
dell’alternativo, chi
dell’attore: ma non è qualcosa che ho mai
controllato veramente. Seguire il
gregge non è nel mio DNA.
E
così anche il mio posto segreto è un
po’
bizzarro. Perché non è poi tanto segreto, visto
che sono circondato da migliaia
di persone. Non sono nemmeno sicuro che possa essere definito un posto,
visto
che raramente è lo stesso, ma cambia ogni volta,
ciclicamente.
Ma non
esiste un momento in cui mi senta così
dannatamente me stesso, come quando sono su un palco, cantando le mie
canzoni
davanti a tutte quelle persone che sono lì per noi.
L’agitazione
è sempre tanta, ma è parte del
pacchetto.
Suonare
la mia musica, il lavoro di una vita,
accompagnato dalla voce di migliaia di sconosciuti, è un
esperienza catartica.
Mi fa dimenticare il mondo, o almeno lo trasforma in un luogo un
po’ meno
temibile.
Spesso,
durante i lunghi tour in giro per l’Europa,
o in qualche altro continente, salire su quel palco è
qualcosa di davvero
faticoso: un letto sarebbe molto più appetibile. Eppure,
anche quando il corpo
e la mente sono obliati dalla stanchezza o dal fastidio, un
po’ di quella magia
riesce sempre ad insinuarsi in me.
I
festival estivi sono i miei preferiti: hai il
tempo di riposarti per una settimana e poi il weekend fai quello che ti
piace,
senza particolare sforzo, soltanto per il gusto di farlo. Semplicemente
perfetto.
Ho
anche una particolare preferenza per i festival
che hanno luogo in Finlandia: puoi visitare anche città
meravigliose, capitali
da sogno, ma, come Dorothy insegna, non c’è posto
come casa.
Quest’anno,
la nostra performance al Ruisrock, è
volata proprio in un soffio. Senza quasi accorgermene, siamo
già arrivati a The
Funeral Of Hearts. Canto lentamente, a occhi chiusi, perdendomi in
quella bolla
di note e bassi. Una collina illuminata dalla luna si stende davanti
alle mie
pupille cieche, un vento leggero le scompiglia i capelli scuri,
sparpagliandoli
sul mio petto. Le sue dita tormentate dal freddo sono sul mio viso
adesso, il
suo tocco è leggero sulla mia pelle.
“The heretics seal beyond divine, a
prayer to a God who’s deaf and
blind,
the
last rites for souls on fire,
three little words and a question, why?”
Faccio
un respiro e poi do l’attacco: “Love’s
the…”
Schiudo
le palpebre e sbircio attentamente la folla
che mi sta davanti: la mezzanotte è passata da tempo e il
cielo è ancora
chiaro, ma il palco è troppo illuminato e per contro il
pubblico appare
sfuocato davanti ai miei occhi. Colgo qualche volto nelle prime file,
qualche
sguardo perso, qualche sorriso. La loro voce giunge invece forte e
chiara,
mentre completano la frase della mia canzone.
“Funeral
of Hearts!”
L’avrò
sentito milioni di volte, ma ogni santa
volta mi stupisco di quanto possa adorare tutto questo. Mi sento un
dio. Okay,
forse dovrei tenere a freno Mr Ego.
Termina
il brano e, uno ad uno, torniamo nel
backstage. Gas è l’ultimo: mi soffermo a
sbirciarlo mentre lancia le bacchette
e i fan si accapigliano per riuscire ad acchiappare il bastoncino di
legno; come
al solito non riesco a trattenermi dal ridere.
“A
te tocca sempre la parte più divertente” mi
lamento, non appena il batterista ci raggiunge dietro le quinte.
Lui
sbuffa, recuperando un asciugamano per tamponare
le perdite d’acqua. Dio, se suda quell’uomo.
“Non
hai idea che male alle spalle” ribatte,
facendo scrocchiare quella sinistra “Ti lascerei volentieri
il testimone, se
non avessi paura che ti si strappasse uno di quei tuoi
braccini”
Lascio
perdere, alzando gli occhi al cielo.
Evidentemente lui si diverte un mondo.
Mi
guardo in giro, alla ricerca di un Red Bull,
mentre oltre le transenne la gente disperata ha iniziato a chiamare a
gran voce
un encore.
“Ma
è finito tutto da bere?” domando spazientito ad
uno dei tecnici, che mi passa davanti macchinando con un cellulare.
Il
ragazzo non solleva nemmeno la testa per
guardarmi in faccia; mantenendo l’attenzione fissa sul suo
apparecchio
elettronico, mi fa un cenno con la mano, indicando una direzione molto
vaga:
“Prova di là”
Mi
volto verso il punto segnalato, immaginando che
il tizio si riferisca a quello che sembra un piccolo magazzino.
Non ho
fatto nemmeno un passo, che Migè mi si para
davanti, con un’espressione sconvolta, e mi mette sotto al
naso la sua birra
già aperta.
“No
Ville, prendi la mia!” mi ordina, agitando
pericolosamente la bottiglia.
Alzo
un sopracciglio, confuso: “Ehm, apprezzo il
pensiero, Mikko, ma lo sai che non posso”
“Oh”
borbotta, ricordandosi all’improvviso che sono
in astinenza completa da alcol da mesi, e ritrae velocemente il
braccio,
imbarazzato “Scusa Ville, hai ragione”
“Non
importa” ridacchio, divertito da quel suo
strano comportamento.
“Hey
tu!” blocca un altro povero impiegato
gracilino del festival, prendendolo per un braccio “Andresti
a prendere una
coca al mio amico?”
“Ma
veramente io…” balbetta il ragazzotto, ma non
riesce nemmeno a finire la frase.
“Ho
detto una coca” ribatte Migè, facendo una
faccia davvero perfida che, unita al suo look non proprio
raccomandabile, fa
tremare di paura il malcapitato.
“V-va
bene” assicura, sparendo rapidamente dalla
circolazione, per poi ritornare pochi istanti più tardi con
la mia bottiglia.
Assisto
alla scena, grattandomi la testa: “Ma, cosa
diavolo ti è preso? L’hai spaventato a morte
poveraccio”
Conosco
Migè da davvero tanto tempo e, nonostante
la corporatura massiccia, lui non era mai stato un bullo…
Il
bassista ride nervosamente, trangugiando la sua
birra: “Eh, bisogna far capire a questi giovani chi
comanda”
C’è
qualcosa di strano, ma non posso soffermarmi su
dubbi e speculazioni, perché è già ora
di tornare sul palco.
Accompagnati
dalle grida del pubblico, ci
riposizioniamo al nostro posto e iniziamo a suonare Razorblade Kiss.
Eseguito
il pezzo, faccio un segno con la mano agli
spettatori, per frenare i loro applausi e le loro urla. Quando penso di
aver
ottenuto abbastanza attenzione, mi riavvicino al microfono per
presentare la
nuova canzone.
Ruissalo
sembra aver apprezzato molto Dead Lovers’
Lane: sono curioso di conoscere la reazione davanti a Bleed Well.
Sto
per aprire bocca, quando mi accorgo
dell’ennesima stranezza: Linde e Migè si sono
avvicinati un po’ troppo,
sventolando animatamente i loro strumenti.
“Aspetta
un momento Ville” mi dice Lily, sorridendo
impercettibilmente.
Poso
una mano sulla cima del microfono, allungando
il collo verso di loro.
“Ma
che diavolo avete stasera? Siete tutti
ubriachi?” sbotto, spalancando le palpebre.
“Senti,
so che avevamo deciso di suonare Bleed
Well, e avevamo fatto le prove per quella” esordisce il
rasta, soppesando ogni
parola “Ma noi abbiamo preparato anche un altro pezzo, nel
caso avessi cambiato
idea”
Non mi
sfugge l’espressione gongolante di Migè:
“Volete suonare Sleepwalking?” tiro a indovinare,
scuotendo la testa davanti
alla loro testardaggine: ma in fondo sono molto fiero di quella canzone
e i
loro assoli sono sempre stupefacenti.
“No,
no” mi smentisce il bassista “Veramente
stavamo parlando di Venus Doom”
Sbatto
le palpebre, due o tre volte: “Che cosa?”
domando incredulo.
Linde
mi batte una mano sulla spalla: “Sappiamo che
in fondo è quello che volevi fare sin dall’inizio,
anche se poi qualcosa ti ha
bloccato. Ma è giusto così, senza quella canzone
probabilmente non ci sarebbe
tutto l’album”
Rimango
a fissarli senza parlare, mentre gli
ingranaggi del mio cervello si muovono sin troppo velocemente. Hanno
ragione,
hanno dannatamente ragione, ma io…
“Non
so se posso farlo” biascico, facendo una
strana smorfia.
“Certo
che puoi Ville” mi incoraggia Migè “E se
vuoi posso darti una botta in testa con il mio basso per darti una
mano!”
Reclino
l’offerta con un ghigno e poi annuisco,
ancora un po’ incerto.
I miei
compagni tornano tutti contenti ai miei due
lati e aspettano fiduciosi che io presenti il brano.
La
prossima volta che qualcuno mi accusa di essere
strano, gliene dico quattro.
“Scusate
l’interruzione” attacco a parlare, ma
ancora una volta vengo interrotto dal vecchio bassista.
“No
Ville, parla in inglese!” mi ammonisce,
muovendo su e giù la testa con fare concitato.
“Perché?”
Quei
ragazzi mi stanno mettendo un’ansia terribile
addosso.
“Perché
stai presentando il nuovo brano” mi spiega
pazientemente “E’ giusto che capiscano tutti! E poi
anche prima lo hai fatto”
Ah
sì? Non riesco a ricordare esattamente. Ho
rivolto al pubblico straniero sparso tra la folla qualche frase, ma non
riesco
a rammentare esattamente quando.
Comunque
il suo discorso ha un senso, quindi
ricomincio, cambiando idioma.
“Scusate
per l’interruzione. Io e gli altri ragazzi
abbiamo avuto bisogno di una piccola riunione dell’ultimo
minuto. Siamo
arrivati all’ultima canzone per questa sera e abbiamo deciso
di proporvi
un’altra anteprima del nuovo album”
Gli
applausi si fanno più forti, l’adrenalina
cresce.
“Questo
è il brano che dà il titolo al nuovo album.
Per la prima volta dopo tanto tempo, il testo e la melodia non sono
tutta
farina del mio sacco” mi blocco un istante, inspirando
profondamente. Sento
l’impulso di accendermi una sigaretta, ma poi cambio idea e
riprendo a
spiegare. Sto diventando logorroico “La canzone è
stata creata in
collaborazione con un’ottima poetessa” sorrido tra
me e me, considerando quanto
le stia bene quell’appellativo “La quale
sfortunatamente non è qui stasera” Che
non sarà mai qui “Il suo nome è Elisa
Bonizzi e quest’ultimo brano lo dedico a
lei”
Mentre
Gas dà il via alle prime battute di
introduzione, il sorriso si allarga ancora di più sulle mie
labbra, questa
volta con un po’ di malizia. Domani, il suo nome
sarà di nuovo su tutti i
giornali e presto la notizia girerà anche in rete.
Chissà se la mia piccola
uscita, forse poco felice, tornerà ancora a sfiorarla anche
a casa sua, a
chilometri di distanza.
Una
fiammella di speranza si accende, incontrastata,
nel mio cuore e questa volta non ho né la forza,
né la voglia, di sopprimerla.
Ripongo
la mia attenzione sulle note della canzone,
socchiudendo le palpebre e stringendo con entrambe le mani il microfono.
“Leave all behind now to watch her
crawl
Through our dark gardens of
insanity…”
I
ricordi sono come un mare in tempesta e restare
concentrato è davvero difficile.
Tuttavia,
cantare la nostra canzone è meno doloroso
di quanto potessi pensare. E’ davvero come se fosse qui con
me: se ascolto
attentamente la burrasca, riesco anche a sentire la sua voce che ripete
le
medesime parole, nella mia testa.
“She’ll be the--- ”
“She'll be the
light to guide you back home”
E
poi, accade qualcosa.
Qualcosa
che non mi succedeva da
davvero molto tempo, o che almeno non era più successo da
quando avevo smesso
definitivamente di bere: la gola si fa secca, le parole non riescono ad
uscire.
Il
ricordo diventa così potente da
stordirmi, da lasciarmi completamente ko. La sua voce non sembra
più solo nella
mia testa, è nelle mie orecchie, mi sfiora la pelle come una
brezza leggera. Ma
non posso davvero credere che sia reale!
Forse
non è stata affatto una buona
idea lasciarmi persuadere ad eseguire quel pezzo. Avrei dovuto dar
retta al mio
primo istinto di sopravvivenza. Ora è tardi, ed io sto
completamente perdendo
il senno.
Chissà
cosa starà pensando il pubblico,
chissà cosa staranno pensando gli altri, mi domando
scuotendo la testa: forse
crederanno che mi sia dimenticato le parole e immagino quanto sia
imbarazzante
quel silenzio! Perché nella mia testa la voce continua a
cantare, ma per tutte
quelle persone sono solo note.
Mi
volto indietro, verso Gas, pronto
a chiedergli di ricominciare tutto daccapo.
E
quando il sangue mi si gela nelle
vene, comincio a domandarmi se quello non sia un sogno, o se la mia
coca sia
stata drogata. Perché ho iniziato ad avere anche delle
allucinazioni visive.
Dalla
sinistra di Gas, procedendo
nella mia direzione, si fa avanti con passo leggero la mia Venere. La
luce dei
riflettori bagna la cascata di lunghi capelli corvini, che le ricadono
morbidamente sulle spalle nude, tingendoli di un viola innaturale e
ammaliante.
Dietro alle sue mani avvolte intorno ad un microfono, si intravede un
timido
sorriso, le sue gote rosee sono accese dall’emozione e
contrastano con la
carnagione pallida del collo e dello sterno. I suoi occhi…i
suoi occhi non
possono essere descritti, perché non ho mai trovato nulla
che potesse essere
loro comparato, se non l’abisso. Il Nulla e il Tutto, uniti
insieme in un
improbabile e prodigioso legame.
“Just give her a
kiss worth dying for…”
Continua
a cantare, continua ad
avvicinarsi.
Impossibile,
non smetto di ripetermi,
le braccia abbandonate contro il busto, incapace di qualsiasi movimento.
Ormai
è così vicina che posso
distinguere ogni particolare del suo viso, posso perfino percepire il
suo
inconfondibile profumo: è quasi cannella, ma più
pungente.
Bisognerà
ammettere che la mia
fantasia di certo non fa economia di dettagli. Terribilmente
realistici, tra parentesi.
A
dividerci è solo un passo.
Il
sorriso si fa più sicuro sulle sue
labbra, sebbene mi accorga anche che una lacrima è sfuggita
ai suoi occhi.
Allunga una mano, sfiorandomi delicatamente il volto.
Sussulto,
chiudendo per un istante
gli occhi, involontariamente.
Quello
non può non essere reale.
“…and open your
arms”
Eccomi di nuovo qui in tempi abbastanza ragionevoli, no? XD
Grazie mille per i commenti e anche a
chi ha solo letto.
@ 00glo00: uhhh allora per fortuna
che sei passata! Grazie
mille per il commento, fammi sapere cosa ne pensi anche degli altri, se
ne hai
voglia ^:^ Ehh, si sa, a volte le persone sono stupide…ma
chissà se Ville ha le
allucinazioni oppure qualcuno ha deciso di non essere poi
così stupido… Un
bacio
@SomethingSpecial: noooo, non volevo
assolutamente farti
piangere. Evviva, allora tua madre può associarsi alla mia e
ricoverarci
insieme tra le pazze che piangono e ridono davanti al pc! Non ti
preoccupare,
ti capisco anche troppo bene. La differenza di età in
effetti è sempre in
apparenza un grande ostacolo, ma penso anche io che dipenda molto dalla
personalità delle persone: capita a volte di non trovarsi
per niente con i
propri coetanei. Anche la storia dei punti di vista diversi mi piace un
sacco,
sai. Hai proprio ragione. Alla prossima e grazie per continuare a
seguire la
storia!
@Ladynotorious: quando ho aperto la
mail quasi non ci
credevo, pensavo di avere le allucinazioni. Sono davvero emozionata.
Grazie
mille, davvero, per avere inserito questa storia tra le scelte, spero
non
deluderà nessuno fino alla fine. Sono contenta che ti
piaccia ^_^ Grazie
ancora, è una cosa bellissima.
|
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Capitolo 7 *** Choises and Mistakes (pt2) ***
Chapter 4
Choices
and mistakes (pt2)
Looking
for the key to my heart-shaped lock
Se
ancora due minuti fa mi chiedevo
se, prendendo quello stupido aereo, avessi fatto la
scelta
giusta
o meno, adesso non ho più alcun dubbio: non avrei mai potuto
perdermi la sua
faccia, quell’espressione così assurda e stupita.
Sembra quasi che abbia visto
un fantasma e forse non dovrei esserne tanto contenta, ma non posso
fare a meno
di sorridere: sono tanto spaventevole? Probabilmente.
Ecco,
è proprio da me perdermi in tali
pensieri in momenti del genere. Devo avere qualche problema mentale, ma
questa
non è una novità. Forse ho detto addio
all’ultimo neurone quando mi sono fatta
accompagnare da Arianna all’aeroporto.
E
a giudicare dal mio battito
cardiaco, tra molto, molto poco, dovrò dire addio anche al
mio cuore. Niente
cuore, niente cervello. Dovrei far visita al mago di Oz appena
avrò un attimo
di tempo. Anche ad un po’ più di coraggio non
direi di no.
Si
passano minuti, ore, giorni interi
a fantasticare su come potrebbe essere un bacio, un incontro, un solo
sguardo.
Ma, chissà come, la realtà è sempre
diversa.
A
volte può deludere, a volte
stupire.
Non
è passato giorno, durante tutto
quest’anno in cui, nel sonno o nella veglia, non abbia
immaginato come sarebbe
stato rincontrarlo, sebbene fossi certa al 101 per cento che questo non
sarebbe
mai successo. Perché avevo preso una decisione, e non me la
sarei rimangiata.
Oltre
ad avere scoperto che la
fermezza nei propri propositi non è la mia principale
caratteristica, mi sono
resa conto che il ricordo non rende affatto giustizia: ero convinta di
rammentare ogni particolare del suo viso, ogni piccolo dettaglio o
imperfezione, ma non è così. La
profondità di quello sguardo, la curva di
quelle labbra, non sono immagini che un impulso nervoso possa
riprodurre senza
l’ausilio di due occhi. La sua bellezza mi lascia senza
respiro e non riesco
proprio a spiegarmi come la voce possa ancora uscire dalla mia gola.
Lascio che
una lacrima scivoli via dalle mie ciglia, sopraffatta
dall’emozione.
Allungo
una mano, per toccare il suo
volto, senza riuscire a fermarmi. Lo sento sussultare al lieve
contatto, mentre
le sue palpebre si serrano per un istante.
L’immaginazione,
in questo caso, non
può decisamente reggere il confronto con la
realtà.
D’un
tratto, non mi ricordo più
nulla. Non mi ricordo perché me ne sono andata, non mi
ricordo perché non ho
fatto marcia indietro all’istante, non mi ricordo quasi chi
sono.
Tutto
quello che sento è che, per
quanto giusto o sbagliato, sono nata per quel momento. Solo per vederlo
tremare
al mio tocco, e sentirlo vicino, e rendermi conto che i sentimenti non
sono
qualcosa che possa essere soppresso o nascosto: perché
quando sono veri, sono
molto più forti del migliore proposito, più forti
di noi stessi.
Sto
per abbassare il mio braccio, ma
Ville mi sorprende, afferrando repentinamente la mia mano con la sua e
tenendola premuta contro la sua guancia. Spalanca gli occhi,
imprigionandomi
con il suo sguardo, così dolce e incredulo, da farlo
sembrare un bambino.
Resto
immobile, a sorridere e
piangere, e vorrei dirgli tutto e nessuna parola esce dalle mie labbra.
Il
mondo esterno è perduto e sembra tutto uno strano e
improbabile film degli anni
Trenta, dove c’è lei, e c’è
lui, e tutto lo sfondo non ha senso. In bianco e
nero, ma con i suoi occhi verdi.
“Non
vorremmo disturbare, ma sareste
su un palco” Migè mette la pausa al nostro film,
avvicinandosi all’improvviso e
facendoci saltare per lo spavento “Ed è la terza
volta che suoniamo il
ritornello, quindi immagino che tutti l’abbiano
già imparato a memoria, ma
potrebbe essere carino aggiungere anche le parole” mormora a
voce bassa,
cercando di rimanere serio.
“Oh
cavolo” borbotto, mentre la
gravità della situazione mi coglie impreparata, come la
marea senza preavviso.
Rido leggermente di me stessa, arrossendo vistosamente. Ville sembra
ancora
parecchio sconvolto, non riesce nemmeno a reagire.
Continuo
a stringere le sue dita, ma
riavvicino il microfono alle labbra, aspettando il momento giusto per
attaccare
con il ritornello.
“Watch me fall
For you
My venus doom
Hide my heart
Where all dreams are entombed
My venus doom”
Il
frontman degli HIM è rimasto
davvero senza parole, per la prima volta da quando lo conosco. Da
quando è nato
probabilmente.
Approfittando
delle poche note di
intermezzo prima dell’inizio della seconda strofa, mi
appoggio piano al suo
braccio e avvicino il capo al suo, di lato, vicino
all’orecchio sinistro.
Lo
sento respirare più velocemente,
mentre il suo inconfondibile odore pizzica le mie narici: “Ti
prego, non
lasciarmi cantare da sola” bisbiglio quelle parole con
timidezza, in un
sussurro “Sai che rischiamo i pomodori marci
altrimenti”
Mentre
mi ritraggo indietro,
percepisco il suo petto sussultare, scosso da una piccola risata.
“Grieve all your hearts out as she'll arrive
enthralled
in
tragic, ecstatic agony”
Mi
fermo, incoraggiandolo con gli
occhi e aspettando fiduciosa. Ed ecco arrivare la sua voce: ho seguito
tutto il
concerto, dietro, nel backstage, sospirando ad ogni nota. Ma sentirlo
cantare
così vicino, ad un passo, cambia completamente la situazione.
“And in her flames we will die some
more
Just show me a life worth living for…”
Ripenso
alla prima canzone che
cantammo insieme, sul palco del Midnight Wish, quando, ritrovandomi a
duettare
con Ville Valo sulle note di Summer Wine, mi ero domandata come una
tale
fortuna potesse essere capitata proprio a me; me, una fan qualunque, su
un
milione di donne e ragazze. Certo, non avrei mai potuto prevedere
quello che
sarebbe successo dopo.
Ottenere
le complete attenzioni del
frontman degli HIM e lasciarselo scappare.
“Light of the dark”
Luce delle tenebre.
Penso
che il suo cognome sia
perfettamente azzeccato. Rivederlo è come ritrovare la luce
alla fine di un
tunnel buio e solitario, lungo un anno. E non importa se sono stata io
stessa a
fuggire da quella luce e a trovare rifugio nella galleria, forse troppo
spaventata dalla sua intensità.
Adesso
la luce è così attraente e
bellissima: spero soltanto di resistere più a lungo a quel
calore, senza
scottarmi. Ho paura: le bruciature pungono ancora, segnano la mia pelle
delicata e pallida. Per ora resterò
all’imboccatura del tunnel, avvolta
dall’ombra, ma abbastanza vicina per poter contemplare il mio
Sole.
Finalmente,
per quell’ultimo ritornello,
riusciamo a intonare le parole all’unisono.
Watch me fall
For you
My venus doom
Hide my heart
Where all dreams are entombed
My venus doom
[ all dreams are of you – my venus
doom ]
Mentre
i ragazzi suonano l’intermezzo
musicale, Ville torna a concentrare tutta la sua attenzione su di me:
mi scruta
minuziosamente, con una certa apprensione dipinta sul viso, forse
aspettandosi
il mio dissolvimento improvviso da un momento all’altro.
Gli
sorrido e poi abbasso subito lo
sguardo, imbarazzata, accorgendomi che le nostre dita sono ancora
allacciate.
E’
il suo turno di fare un solo passo
avanti, per coprire la poca distanza che ci divide.
“Sei
davvero qui?” mormora, il suo
respiro accelerato sull’incavo del mio collo.
Stringo
più forte la sua mano,
rispondendo con un ‘forse’ sibillino.
“O
forse è solo un sogno” aggiungo
subito dopo, prima che il cantante torni alla sua performance.
Appoggia
la mano sinistra sulla cima
del microfono, formando una piccola conca per rendere ancora
più basso
l’effetto della sua voce, ma non si azzarda a lasciare la
presa con la destra,
intorno alle mie dita.
Sono
così vicina quando canta, quasi
mi sembra di essere dentro al suo microfono. Per un istante desidero di
essere
quel microfono e il pensiero mi fa ridere di me stessa.
Hold me inside your infernal offering
Touch me as I fall
Don’t lose yourself in this suffering
yet
Hold on
Hold me inside your infernal offering
Touch me as I fall
Don’t lose yourself in this suffering
yet
Hold
on
To
me
Un
ultimo ritornello e la canzone è
finita.
Quasi
come se un incantesimo si fosse
rotto, le nostre mani sciolgono il loro nodo ed entrambi ci voltiamo
verso il
pubblico, che applaude e chiama il nome di Ville a gran voce.
Dopo
un breve saluto con la mano,
scivolo silenziosamente indietro, mentre il frontman è
occupato con gli
ultimissimi saluti.
Arrivo
rapida dietro le quinte, e
nella fretta quasi finisco addosso ad un omino della security.
“Tutto
okay?” mi domanda premuroso,
aiutandomi a recuperare l’equilibrio.
“Sì,
certo” lo rassicuro, prendendo
un respiro profondo.
“Strano
concerto” ridacchia lui,
sfiorandosi con indice e pollice il pizzetto sul mento.
Beh
sì, non è stata una gig troppo
normale.
“Spero
non sia sinonimo di terribile,
anche se quando mi ritrovo a cantare io…”
“No,
assolutamente” scuote la testa
con vigore, mettendosi una mano sul cuore “Posso giurarti che
la tua voce è--”
“Perfetta”
completa la sua frase una
voce alla nostra sinistra.
“Decisamente”
concorda il ragazzo,
irrigidendosi davanti alla comparsa del cantante degli HIM
“Beh, io devo
andare”
Si
dilegua rapido, sparendo verso la
scaletta che conduce sotto al palco.
Mi
sembra quasi di sentire
distintamente ogni passo che Ville compie, lentamente, nella mia
direzione. Ma
forse è soltanto il mio cuore che martella contro il mio
petto e rimbomba nelle
mie orecchie.
Ha
le mani nelle tasche dei jeans ed
è come se dondolasse leggermente, mentre procede. O forse
è soltanto il mio
mondo a tremare.
Quando
è appena mezzo metro a
separarci, si ferma, sistemandosi meglio il cappello di lana sulla
fronte
sudata.
“Ciao”
esordisce impacciato, gli
occhi ancora un po’ sgranati.
“Ciao”
Anche
la mia voce non è perfettamente
pulita, piuttosto uno squittio da topo.
Si
avvicina ancora ed io mi costringo
a non indietreggiare, sebbene la tentazione sia tanta.
“Niente
vestito da Venere questa
volta” osserva, cercando probabilmente di allentare un
po’ la tensione,
impostando una finta espressione contrariata.
“Non
ho avuto il tempo di cambiarmi”
“Pensavo
che le dee potessero
cambiare sembianza o ancor più facilmente abito, con un solo
schiocco delle
dita” continua, l’ombra di un sorriso a tirare gli
angoli delle sue labbra.
Alzo
le spalle, le braccia strette al
petto “Anche le divinità dell’Olimpo
hanno scoperto che non esiste alcun capo
di vestiario più comodo dei jeans”
Si
lascia scappare una piccola
risata, che però non raggiunge i suoi occhi.
“Sei
qui” sussurra, tornando serio e
grave.
Non
rispondo, rimango in silenzio a
guardarlo, stringendo più forte il bordo del top nero.
Allunga
un braccio per raggiungermi,
ma lo ritrae di scatto, quando voci rumorose ci informano che non siamo
più
soli.
“Sei
stato grande Linde! Credevo ti
si stessero per staccare le dita” commenta Burton, tirando
una pacca sulla
spalla al chitarrista.
“Qualcuno
mi passi una birra, ho
ancora una sete tremenda!” riconosco la voce di Gas
proclamare mentre si lascia
cadere su una delle poltrone sparse per il backstage.
“Avete
visto che facce? E’ stato un
live indimenticabile”
Alla
fine qualcuno si accorge della
nostra presenza: Migè mi corre incontro, abbracciandomi
prima che possa
compiere alcun movimento.
“Complimenti!
Sei stata grandissima
Liz. La tua voce ci era mancata molto. Un’altra sorpresina,
eh Valo?” ammicca
poi, rivolto nella direzione di Ville, il quale sembra però
molto preso dal
braccio che il bassista tiene ancora legato alla mia vita.
“Già”
mormora infine, accennando un
sorriso.
“Abbiamo
dovuto nasconderla qui
dietro per tutta la durata del concerto” spiega
Migè, ridacchiando sotto i
baffi “E poi quando c’è stato
l’encore si è dovuta rifugiare nel magazzino.
Spero non sia stato troppo scomodo, principessa”
“No,
affatto” mi affretto ad
informarlo, scuotendo il capo con decisione “C’era
una famiglia di topini che
si sono rivelati dei perfetti compagnoni”
Ricordo
ancora il brivido che mi ha
percorso la schiena quando il nostro ben elaborato e segretissimo piano
ha
rischiato di naufragare perché nell’ingresso del
backstage non era rimasto più
nulla da bere di non alcolico, e Ville era stato indirizzato da un
impiegato
verso la stanzetta dove mi ero nascosta proprio per la pausa dopo
Funeral.
“Topini?”
sghignazza Burton,
aprendosi una lattina di birra.
“Esatto”
confermo, guardandomi
intorno “Ma sapete dove è finita
Arianna?”
“Credo
che la
Rossa sia da qualche parte
con Manna e Olivia, probabilmente nel parco interno alla ricerca di
qualche
personaggio famoso da tampinare” si inserisce subito nel
discorso Linde,
indicando una direzione imprecisata alle mie spalle.
Un
genuino sorriso si apre
immediatamente sulle mie labbra: “C’è
anche Olivia?”
Linde
annuisce, facendo una piccola
smorfia: “Quella bambina non dorme mai, non è vero
Ville?”
Il
darkman fa un distratto cenno del
capo, e nessuno capisce se abbia davvero inteso la domanda. I suoi
occhi sono
ancora fissi su di me, posso sentirli seguirmi in ogni istante, sebbene non abbia il coraggio di
affrontarli.
Il
rasta si avvicina, porgendomi una
Heineken: “Adesso andiamo a cercarle, solo due minuti per
riprenderci”
“Anche
dieci” replico sempre
sorridendo, rifiutando però con un gesto la bibita
“No, grazie”
Lui
mi osserva stupito per un
istante, ma poi si immerge nuovamente nei commenti a caldo del live
appena
finito ed io riesco a defilarmi per un momento, ritornando a quel
piccolo
magazzino che si era gentilmente prestato ad essere il mio rifugio
quella sera.
Nel
ritornare indietro, ritrovo Ville
isolato dal gruppo, appoggiato ad una parete con gli occhi chiusi.
“Qualcosa
di fresco?” domando piano,
facendolo sussultare. Socchiude le palpebre, dando una rapida occhiata
alla
bottiglia di coca cola che stringo nella mano destra, forse un
po’
spasmodicamente.
“Certo”
sorride, prendendola dalle
mie dita e indugiando per un lunghissimo istante sul dorso della mia
mano. E’
allora che nota che anche l’altra mano è occupata
da una bottiglia identica.
“Addirittura
due?” ridacchia “Mi hai
preso per un cammello?”
“Mh,
in effetti penso che tu e i
cammelli abbiate molto in comune” gli confido, arricciando
maliziosamente le
labbra “Ma in realtà questa l’ho presa
per me” aggiungo, sollevando la
bottiglietta e agitandola piano.
“Volevo
quasi meravigliarmi quando ho
scoperto che la mia idea di dire per un po’ no
all’alcol non fosse poi tanto
originale. Poi mi sono ricordata che noi due condividiamo un cervello e
lo
stupore è svanito immediatamente”
Ville
scoppia in una roca risata, ma
i suoi occhi sono ancora troppo seri: “L’importante
è che la tua scelta non sia
stata maturata dopo mesi di oblio e alcolismo sfrenato”
Anche
le mie labbra perdono il
sorriso, quando mi accorgo di quanto poco felice sia stata la mia
uscita. In
quelle iridi insondabili e profonde percepisco un dolore terribile e
mai
dimenticato, una sofferenza di cui sono stata la principale causa e
ragione, un
supplizio a cui probabilmente il mio non potrà mai essere
paragonato.
“Volevo
essere più padrona delle mie
scelte” torno ad esporre le mie valutazioni, cercando di
deviare la sua
attenzione dai propri tristi ricordi “O forse è
stata solo l’influenza della
mia lontana pigna gemella”
La
bibita quasi gli va di traverso
alle mie parole: “Te lo ricordi ancora?” mi
interroga curioso, mentre il suo
viso si trasfigura nuovamente in un modo dolcissimo, che mi fa
stringere il
cuore.
“Sì”
sussurro piano, arrossendo
lievemente.
Ricordo
ogni istante, ogni parola. Ma
non ho il coraggio di farglielo sapere.
“Siete
pronti?” esordisce Migè,
recuperando la sua giacca “Andiamo a cercare le donzelle in
fuga e a recuperare
le altre dolci metà!”
Io
e Ville ci scambiamo un ultimo
sguardo, prima di annuire alla richiesta del bassista.
“Devi
assolutamente conoscere
Vedrana!” continua lui, con un sorriso a trentadue denti
“Ti adorerà
sicuramente”
“E
anche Niina!” interviene Gas, con
gli occhi luccicanti, mentre decanta tutte le qualità della
sua nuova ragazza.
“L’unica
che non ci sarà è Luisa, è
rimasta a casa con la piccola Heartta” mi informa Burton,
accendendosi una
sigaretta e precedendomi già per le scale “Ma
appena torniamo a Helsinki la
devi vedere”
Continuo
a sorridere a destra e a
manca, ma dentro mi sento morire.
Solo
adesso riesco veramente a
rendermi conto di come possa sentirsi Ville, l’unico rimasto
da solo. Non posso
credere che abbia rinunciato, abbia smesso di cercare per colpa mia.
Ero
convinta di averlo lasciato tra
le braccia della persona che amava davvero, invece lo avevo abbandonato
tra le
braccia della solitudine.
Se
solo non fossi stata così stupida
ed egoista…
***
Nonostante
il concerto fosse
terminato davvero tardi, abbiamo trascorso diverse ore insieme, in un
delizioso
ristorante di Turku, costruito su una nave d’epoca ormeggiata
in mezzo alla
lunghissima striscia di mare che attraversava l’intera
città.
Io
e Arianna ci siamo reinserite
perfettamente nel gruppo, ed è quasi come se non ce ne
fossimo mai veramente
andate. Come se quello fosse stato da sempre il nostro posto. O almeno
il mio.
La
sorpresa più grande ed emozionante
è stato forse scoprire che la dolce Olivia non si era
dimenticata di me, ma
serbava ancora un ricordo del nostro primo incontro. Per lei ero ancora
l’amica
di zio Ville con i capelli da fata.
Lei
invece è davvero cambiata: l’ho
trovata cresciuta molto più di quanto potessi aspettarmi, le
ciglia più lunghe,
i tratti del viso più definiti, ma la stessa dolcezza nello
sguardo e nelle
parole. Anche il suo inglese ha fatto notevoli progressi, cosa che non
si può
dire invece del mio finlandese.
Arianna,
naturalmente, è entrata
subito nelle sue grazie. Anzi, si può dire che quando le
abbiamo finalmente
trovate alla tenda dei Sonata Arctica, la piccola fanciulla mi aveva
già
rimpiazzato con la mia best friend. Ma in fondo la capisco:
è impossibile non
innamorarsi di Arianna, appena la si conosce. Almeno, però,
la mia chioma da
fata resta la sua preferita.
E’
stata una serata, o forse dovrei
dire nottata, piacevole e divertente, ma il disagio e la tensione sono
state
mie compagne tutto il tempo.
Non
sono riuscita a rivolgere a Ville
che poche parole, troppo superficiali per avere davvero un senso, prima
di
rifugiarmi in altre conversazioni dove il numero dei partecipanti fosse
ben più
vasto.
E
lui è rimasto fermo, impotente. Ad
aspettare.
Ogni
volta che ho incrociato il suo
sguardo, mi sono sentita morire.
Ogni
volta che ho sfiorato il suo
profilo con gli occhi, mi sono sentita di nuovo in un sogno.
Così irreale. Così
stranamente famigliare, ma allo stesso tempo spaventoso.
Non
sono sicura che sia giusto
staccarmi ancora così tanto dal mondo reale. Ma forse non ho
veramente scelta.
Qualcuno
una volta ha detto che siamo
destinati a ripetere sempre gli stessi errori. E’ la nostra
natura. Chiedere di
essere l’eccezione temo sia qualcosa che va ben oltre le mie
possibilità.
Può
darsi però che l’unico vero
errore di cui un essere umano possa macchiarsi è di non
saper mettersi in gioco
al momento giusto.
“Di
cosa stai filosofeggiando?” mi
chiede Arianna, comparendo all’improvviso alle mie spalle e
sfiorandomi con
dolcezza i capelli.
Si
siede accanto a me, sul comodo
divanetto della stanza d’albergo che Linde aveva prenotato in
anticipo per noi.
La
luce dell’alba filtra già
attraverso le finestre, bagnando con un caldo e intangibile velo le
pareti
candide ed un piccolo tavolino da caffè. Il vento scuote
forte le fronde di un
albero, così vicino, che i rami toccano a intermittenza il
vetro con un sordo
ticchettio.
“Filosofeggiando?”
rispondo con
un'altra domanda, inarcando le sopracciglia.
“Sì”
conferma lei con un risolino.
Poi atteggia il suo viso in una buffa espressione, indicandola al
contempo con
l’indice “Questa è la tua faccia quando
la tua mente macchina pensieri
filosofici”
Una
risata esplode immediatamente dal
mio petto: “Non è assolutamente vero!”
“Sì
invece” mi assicura lei, ridendo
ancora più forte.
Poi ritorna seria, cercando i miei occhi per poter leggere
ciò che le parole
non possono esprimere: “Come stai Ell?”
Mi
lascio scappare un sospiro,
tentando di non abbassare lo sguardo
“E’…è molto più
difficile di quanto
potessi immaginare”
Arianna
avvolge un braccio intorno
alla mia vita, tenendomi stretta stretta: “Certo che lo
è” sussurra piano,
posando un leggero bacio sulla mia fronte “Qualunque
esperienza è molto più
difficile e piena di ostacoli di quanto possiamo mai aspettarci. Ma ci
porta
sempre qualche cosa in dono che va oltre il sogno più
fervido: per questo vale
la pena di essere vissuta”
Il
sorriso torna ad aprirsi sulle mie
labbra, mentre mi scosto un pochino da lei per poterla scrutare in
viso: “Sei
tu la vera filosofa. Lo sei sempre stata”
“Non
per niente era l’unica materia
in cui andavo bene quando ero a scuola” scherza lei,
facendomi l’occhiolino. E’
allora che mi accorgo di quanto appaiano stanchi i suoi occhi.
“Forse
sarebbe meglio dormire un po’”
le faccio notare, sebbene la fatina del sonno sembri essersi
dimenticata di
spruzzare un po’ della sua polvere magica su di me.
“Potrebbe
essere un’idea” annuisce,
raddrizzandosi sul divanetto, con indosso il suo pigiama preferito,
già pronta
per il letto “Anche se è da tanto che non
condividiamo lo stesso letto, non so
se mi lascerai dormire”
“Certo”
sbuffo, alzando gli occhi al
cielo.
Ridacchia,
scuotendo la testa e con
essa i suoi bellissimi riccioli.
“La
filosofa vuole darti solo
un’ultima perla di saggezza” le sue parole sono
ancora spiritose, ma il tono
con cui le pronuncia attira immediatamente la mia completa e sincera
attenzione
“Posso?”
“Naturalmente”
la sprono a
continuare, con un cenno del capo.
Solleva
piano le ciglia, permettendo
al riflesso delle sue pupille ancora vigili, nonostante la spossatezza,
di
penetrare piano dentro, insieme a quell’ultimo consiglio.
“Tu
sai che io non ho mai voluto
spingerti in nessuna direzione” comincia, pronunciando ogni
parola lentamente
“Ci sono sempre stata, come ci sarò sempre, ma non
ho mai cercato di forzare le
tue decisioni, anche quando pensavo che fossero sbagliate.
Perché non sono io a
vivere la tua vita, e per quanto ti possa conoscere bene, solo tu
stessa puoi
individuare davvero la risposta giusta, scritta nel tuo destino. Ma
c’è
qualcosa che non posso permettere” fa una pausa, volgendo il
suo sguardo a
terra. Io resto immobile, quasi senza respiro. Dopo pochi attimi,
riprende con
più passione “Ed è che tu ti lasci
frenare dalla paura. Guarda dietro ad essa.
Trova la tua chiave”
Mi
stringe forte la mano e poi si
solleva dal divano, lasciandomi a fissare il vaso di fiori poggiato sul
tavolino.
Avranno
forse un giorno. Sembrano
ancora freschi, ma in realtà stanno già
appassendo e appaiono così rassegnati
al loro fato. Non sperano più nella pioggia, non sperano
più in un miracolo.
Mi
alzo di scatto, come una molla.
Afferro il vaso e lo porto in bagno, dove, dopo aver aperto il
rubinetto,
cambio l’acqua ai quei fiori.
Mi
sembra quasi di udire il loro
respiro di sollievo.
Niente
pioggia, niente vita eterna o
sogno senza fine. Ma c’è ancora un po’
di speranza, ancora qualche giorno da
vivere adesso.
Ripongo
i fiori sul tavolino, con il
cuore che batte con nuova energia.
Arianna
è sdraiata sul fianco,
intenta a scrivere un messaggio con il suo piccolo cellulare argentato.
“Io
esco” la informo un po’ titubante,
appoggiata allo stipite della porta.
Quando
alza lo sguardo, non vi è
sorpresa nei suoi occhi. Tutto ciò che posso scorgere
è un sorriso sardonico e
insieme trionfante che le increspa le labbra: “Ah
sì?”
“Hai
visto quanto è bello il parco
qui fuori?” continuo a giocare “Deve essere
stupendo a quest’ora, con tutto
questo silenzio. Non pensi?”
“Niente
di più vero” replica
sfrontata, abbandonandosi poi ad un ampio sbadiglio.
“E
mi raccomando” aggiunge poi con
noncuranza “Conta i fiori del prato qui dietro. Linde
sostiene che siano 212,
ma se hai voglia di controllare…”
“Potrei
anche farlo” le regalo un
ultimo ghigno, prima di lasciarla di nuovo al suo apparecchio
telefonico e,
probabilmente, al suo eterno amore.
Fluttuo
lenta nel corridoio, come su
una piccola nuvola. Abbandono il mio terzo piano, tradendolo per quello
inferiore.
Ancora
qualche passo, e sono al mio
prato. Il mio prato nero e liscio di vernice. Con i suoi 212 fiori,
incisi in
oro.
Per
un attimo le gambe mi tremano, ma
non è il momento di perdere quel briciolo di coraggio che
sono riuscita a
racimolare.
Stringo
le dita della mano destra in
un morbido pugno e picchio più volte contro la porta del mio
destino.
E
con il cuore in gola aspetto di
scoprire se la chiave che ho scelto è quella giusta.
Heilà
^_^
Eccomi qui
tornata con la fine del quarto capitolo!
Un
ringraziamento a tutti quelli che hanno letto e soprattutto a chi ha
commentato
^_^
@Vampire666:
beh,
Linde si doveva far perdonare in fondo! E’ stato strano farli
rincontrare,
nella mia testa era passato davvero un anno XD Alla prossima!
@00glo00:
era
tutto reale XD Non sono ancora così cattiva, povero Ville!
Grazie mille! Sono
contenta che ti sia piaciuta! In fondo la loro storia ha sempre girato
molto intorno
alla musica, quindi da quando li avevo fatti lasciare ho subito pensato
che
questo fosse il modo più giusto per farli ritrovare! Temo di
avervi lasciato di
nuovo un po’ sulle spine XD Ci risentiamo tra poco, promesso!
Baci
@maricapin:
Ciaaaao
Marica! Sono davvero felice che tu sia approdata alla mia storia! Certo
che
puoi chiamarmi Mossi ^_^ Ormai il mio vero nome è un
optional XD (e lo so, il
mio nick è chilometrico). Wow, sei riuscita a leggerli
tutti? Ti ammiro per la
tua costanza! Mmm, non che i primi capitoli fossero scritti
granchè bene… XD
era tipo due anni fa sì, e avrebbero bisogno di una bella
risistemata (ma ho
troppe storie in ballo XD). Sono contenta che ci sia una persona in
più a voler
loro bene *_* Per me ormai sono come i miei vicini di casa XD Non ti
preoccupare. Finirò di postare tutta la storia! Che forza
per Funeral! E’ il
Grande Demone celeste che controlla tutto (una specie di
divinità superiore che
ha inventato una mia amica XD). Immagino che tutti conosciamo molto,
troppo
bene quel Lovely! Ahahah. A presto, baci
@eupraxia:
grazie
mille per i complimenti, sei un angelo *_* Sono davvero felice che ti
siano
piaciute! Sì, è decisamente un Ville adorabile
(quasi sempre XD) e scrivere di
questo mondo parallelo mi ha sempre aiutato a tirare avanti nei momenti
più
difficili! Sono così contenta che possa aiutare anche altri,
facendoli
appassionare. Spero di risentirti! Un bacio
|
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Capitolo 8 *** Love only matters (pt1) ***
Chapter 5
Love
only matters, when it comes to the end (pt1)
All
I want is that you love me
as I am
La
sera dopo un concerto sono solitamente agitato e
il sonno arriva sempre con fatica. Ma questa notte, non credo proprio
riuscirò
ad addormentarmi.
Sono
sdraiato sul letto, nella mia camera
d’albergo, fissando il soffitto in cerca di chi sa quale
risposta.
Le
note di una canzone dei Led Zeppelin scivolano
piano nelle mie orecchie, ma non sono in grado di porvi attenzione.
Solo la sua
voce riempie la mia mente.
Una
parte di me ha continuato a sperare, che un
giorno, anche se lontano, l’avrei rivista.
Ma
questa parte era ormai tanto piccola da non
avere più realmente potere di persuasione in me.
Ritrovarla
su quel palco a pochi passi da me,
perdermi ancora una volta nei suoi occhi, assaporare il leggero tocco
delle sue
mani sul mio viso è stato come morire e rinascere in una
sola volta.
Ripenso
al testo di quella mia canzone che è la sua
preferita: l’ho scritta molti anni prima di incontrarla,
eppure sembra fatta
apposta per la nostra storia. Forse era scritto nel nostro destino.
Probabilmente
non riesco ad addormentarmi perché ho
paura: paura che quando mi risveglierò, domani,
scoprirò che è stato solo un
sogno e dovrò ricominciare tutto, senza di lei.
Quando
tornerò ad aprire gli occhi, potrei anche
scoprire che lei se n’è di nuovo andata. Che me la
sono lasciata sfuggire
un’altra volta, senza averle detto quello che davvero provo
ancora adesso per
lei.
La
serata è passata troppo velocemente. Non
c’è
stata nessuna occasione per parlare, mi ripeto, ma la realtà
è che nessuno dei
due l’ha davvero cercata.
Quando
passi un mese in un centro di
riabilitazione, hai molto tempo per leggerti dentro. Ed io ho scoperto
di
essere un codardo.
Non ho
avuto il coraggio di seguirla quando è
fuggita. Ancora oggi non ho avuto il coraggio di affrontarla.
Lei
è tornata. Il destino mi ha regalato un’altra
occasione, magari soltanto a breve termine, e sto buttando tutto a mare
per
paura.
Stringo
i pugni, lasciando fluire dentro di me la
rabbia. La scossa di adrenalina mi spinge ad alzarmi: resto seduto a
lungo,
elaborando un piano folle e irrazionale per poterla raggiungere, per
risolvere
i nostri problemi, per rendere per una sola volta nella mia vita le
cose più
semplici. Prima che sia troppo tardi.
If
I
ran away, I'd never have the strength
To go very far
Canta
Madonna nelle mie orecchie, riuscendo a
raggiungere una parte del mio cervello ancora attiva. Basta scappare,
scappare
non serve a nulla.
Se
continui a fuggire dai tuoi problemi, prima o
poi inciamperai e questi ti sommergeranno. Come mi è
già successo d’altronde.
Sospiro,
spegnendo l’mp3. Mi piego sul letto,
recuperando la mia chitarra acustica appoggiata al comodino. Ho bisogno
di più
chiarezza, quella chiarezza che solo la musica è in grado di
darmi.
Pizzico
piano le corde, senza seguire un motivo
preciso. Lascio scorrere l’indice su un filo teso dopo
l’altro, senza sentire
dolore alle dita, perdendomi in quello strano gemito.
Poi,
all’improvviso, un altro suono. Un rumore più
forte, poco melodico, ma al tempo stesso dotato di un suo ritmo.
Ci
impiego qualche secondo per rendermi conto che
qualcuno sta bussando alla mia porta.
Abbandono
Sylvester tra le lenzuola, scivolando giù
dal letto e toccando con i piedi nudi il pavimento freddo della stanza.
Pregando
che Migè non sia stato colto da un altro
attacco di coliche come l’ultima volta, mi avvicino
rapidamente all’ingresso,
stringendo un po’ gli occhi, per prepararmi al prossimo
cambiamento di
luminosità.
Aperta
la porta, non sono sicuro che l’immagine
colta dal mio povero cervello stanco sia reale e non il frutto di
un’altra
illusione.
Forse
è soltanto un deja-vu: Elisa
è proprio davanti a me, un poco
tremante, insicura, con quello sguardo implorante, lo stesso che aveva
quella
notte di Maggio di un anno prima, quando era venuta a scusarsi per
azioni che
non avrebbe voluto commettere.
Ma non
è un semplice ricordo: il suo sguardo è il
medesimo, ma il suo volto è diverso, più maturo,
più deciso. Indossa ancora i
vestiti del concerto, coperta da un maglioncino nero troppo leggero:
per un
momento desidero rivederla con addosso i pantaloncini sbiaditi del suo
pigiama
e la sua canottiera di quel colore indefinito.
“Ciao
di nuovo” sussurra piano, la
testa piegata leggermente verso la spalla
destra.
“Buongiorno”
sorrido, dando una rapida occhiata al
mio orologio da polso che segna le 4 e mezza, minuto più,
minuto meno.
Le sue
guance prendono un po’ di colore, quando
ricambia il sorriso, imbarazzata “Scusa se sono venuta qui a
quest’ora. Ti ho
svegliato?” domanda, mordendosi un labbro.
Scuoto
la testa, rassicurandola: “No. Non riuscivo
a dormire” le confesso, osservando una ciocca di capelli che
le ricade
fastidiosa sopra ad uno dei suoi occhi a mandorla.
Come
se avesse intuito i miei pensieri, Elisa si
scosta indietro la frangia, con un gesto deciso: “Nemmeno io.
Forse perché,
come i fantasmi, non posso lasciare cose in sospeso”
Faccio
due passi indietro, spalancando la porta:
“Ti va di entrare?” le domando un po’
incerto, lasciandole libero il passaggio.
Lei
annuisce, senza parlare.
Quando
mi passa accanto il suo profumo torna a
colpire le mie narici, ancora più forte che quella sera
stessa. Allungo una
mano per accendere la luce nella stanza, ma Elisa mi ferma, sfiorando
la mia
mano.
“No,
aspetta” mi intima, ed io ubbidisco. La guardo
mentre si avvicina rapida alla finestra, scostando le tende.
La
luce del mattino si posa su di lei dolcemente,
quasi avesse timore di sciuparla.
“Così
è meglio, non pensi?” mi domanda con quella
sua adorabile ingenuità, mentre lascia scivolare lo sguardo
sui fiori colorati
del giardino.
“Certo”
le concedo, rimanendo fermo davanti alla
porta.
Potrei
restare anche ore immobile a guardarla,
senza bisogno di parole. Siamo stati lontani così tanto,
è come se desiderassi
riprendermi tutto il tempo perduto, tutto il tempo in cui non ho potuto
tenere
il mio sguardo fisso sui suoi capelli d’ebano, sulle linee
morbide del suo
corpo.
Intraprendente
come sempre, si sposta verso il
letto, accomodandosi sul bordo.
“Hei
Bellissima” bisbiglia alla mia chitarra, lo
stesso sorriso dolce che le avevo visto rivolgere alla piccola Olivia,
come se
sentisse che anche quell’oggetto di legno e metallo possiede
un’anima.
“Non
sei proprio cambiata allora” commento, andando
a raggiungerla. Mi siedo di fronte a lei, seguito dalla sua espressione
incuriosita.
“In
che senso?”
Allungo
le mani sullo strumento, mentre lei ritrae
per un riflesso involontario le sue. Fingo di non essermene accorto,
sollevando
la chitarra sul mio grembo: “Sempre convinta che il mondo sia
governato dal
gentil sesso. Bellissima? Il suo nome è Sylvester”
la informo, lasciando
scorrere le dita sulle corde “Non è una
lei”
La
mora scoppia a ridere, incapace di trattenersi:
“Non volevo offenderla. Cioè, offenderlO”
“E’
una chitarra molto permalosa, ma potrebbe anche
perdonarti” la rassicuro, prima di appoggiare lo strumento in
questione per
terra, contro il comodino.
Lei
decide di stare al gioco: “Che cosa dovrei
fare?”
“Rimangiarti
quella famosa frase” rispondo
semplicemente, per stuzzicarla. Per constatare se anche per lei
quell’anno
trascorso è come se non fosse mai davvero passato.
“Oh”
sospira, alzando le spalle “Allora temo di
essermi fatta un nemico. Non posso proprio rimangiarmi nulla. Le donne
governano
il mondo, affermare il contrario sarebbe una bugia”
Le mie
labbra si aprono in un sorriso di vittoria,
nonostante, ancora una volta, abbia perso la battaglia dei sessi. Ma
lei
ricorda, ricorda ancora.
“La
conservo ancora sai?” mormora d’un tratto, con
un tono diverso, non più ironico né pungente
“La maglietta che mi autografasti
quella notte. Non ho mai avuto il coraggio di disfarmene”
Ogni
segno di esultanza scompare dal mio viso.
Resto in silenzio, incerto su cosa rispondere, gli occhi bassi sulle
sue mani
che ricalcano nervosamente le decorazioni geometriche della coperta.
“Tu…”
aggiunge poi timidamente, forse facendo uno
sforzo su se stessa “Tu l’hai buttata
via?”
Sollevo
di scatto il capo, incontrando i suoi
occhi: “No” esclamo, quasi indignato dalla domanda
“Certo che no”
Elisa
rimane un attimo scossa dalla mia reazione ed
io, rendendomene conto, arrossisco:
“Io…scusa…”
“Scusarti?
Di che cosa?” mi rimprovera dolcemente
“Non devi scusarti. E’
così…difficile, non è vero?”
mi domanda poi, con una risata
nervosa “Mi sento molto più piccola di quanto
già non sia. Ma forse non è una
questione di età, anzi: se fossimo dei bambini tutto questo
non sarebbe
successo…”
C’è
così tanta malinconia nel suo sguardo: mi
sembra di guardare in uno specchio. Ma la sua sofferenza brucia
più di una
qualunque ferita ricevuta direttamente.
Forse
è un gesto puerile, ma tento banalmente di
cambiare argomento.
“Dovremmo
prendere qualche lezione da Olivia”
Lei
sorride, quasi involontariamente: “Lei avrebbe
tanto da insegnare. Mi ha fatto così piacere rivederla. E
rivedere tutti quanti
voi. E la
Finlandia. Mi
è mancato tutto questo. Ormai era diventato un pezzo di
me…”
Mi
siedo meglio accanto a lei, incrociando le
gambe.
“Anche
questo mondo ha sentito la tua mancanza. Ma
ho sentito che ti sei fatta valere anche lontano da qui”
“Hai
sentito?” inarca le sopracciglia, lanciandomi
un’occhiata che è un misto tra il divertito e
l’incredulo.
“Sì,
beh, io…” cerco di inventarmi una scusa su due
piedi, traballando sulle gambe di bugie troppo fragili “Linde
mi ha raccontato
qualcosa…cioè col viaggio e…”
Elisa
ha la pietà di fermare i miei deliranti
tentativi: “E con Arianna parlavi degli uccellini che
cinguettavano sugli
alberi e dei gatti che miagolavano ai passanti”
La
guardo spalancando le palpebre e arrossendo,
mentre un poco di risentimento mi invade: “Te lo ha
detto?”
Scuote
la testa e il suo sguardo disilluso, venato
di matura ironia, la rende ancora una volta troppo grande per la sua
età: “No,
non me lo ha detto lei. Ma quando mi ha confessato di essere rimasta in
contatto con Linde tutto questo tempo, ho capito che la stessa cosa era
successa con te” fa una piccola pausa, stirando le gambe,
perdendo lo sguardo
lontano, per poi riposarlo su di me “E in realtà
una parte di me l’ha sempre
saputo”
Continuo
a fissarla senza parole, senza capire
“Sì,
io sapevo” sembra che parli più a se stessa
che a me “Povera Ri, le persone nascondono la testa sotto la
sabbia, come gli
struzzi. Crediamo di fare la cosa giusta, e non vogliamo che nessuna
causa
esterna possa contraddire la nostra debole convinzione. L’ha
fatto lei, l’ho
fatto io. Ma le mie ragioni erano molto meno nobili”
“Quindi…”
domando, piegandomi su me stesso, ancora
più confuso “Tu sapevi…”
“No”
mi contraddice e al contempo contraddice se
stessa “Io non sapevo nulla. Non ho mai voluto sapere nulla.
Né da lei, né dai
giornali, né da internet. Nella mia testa tu stavi bene,
felice, insieme alla
donna che amavi veramente”
Dopo
quella frase, un silenzio terribile cade tra
di noi, ma è solo un silenzio apparente, che non fa altro
che rendere la
situazione più insopportabile, mentre la stanza trema per la
tensione.
“Tu
non volevi tornare” sono io il primo a parlare,
e non c’è nota interrogativa nella mia
affermazione. Il dolore, in un sistema
malato di autodifesa, si tramuta passo passo in rabbia “Tu
non vorresti essere
qui”
Lei
rabbrividisce, stringendosi le spalle con le
braccia “Non è così. E’ molto
più…”
“Difficile?”
la anticipo, in un misto di scherno e
frustrazione “Non fai che ripeterlo”
Annuisce,
e poi scuote il capo: “Vorrei poter
trovare qualcosa di diverso da dire. Ma è davvero complicato
per me, Ville. Su
una cosa forse hai ragione, ero convinta che non sarei tornata. Non
sono pronta
per tutto questo. Non lo sarò mai”
Si
lascia andare ad un sospiro, scostandosi con un
gesto deciso la solita ciocca di capelli.
“Ci
sono storie che leggi nei libri, così
melodrammatiche da farti bagnare le pagine di lacrime. E poi accade
qualcosa,
nella tua stessa vita” i suoi occhi brillano, il nero
sovrasta i contorni
appannati della stanza “Che è molto più
di quanto avresti mai potuto
immaginare. Ma forse il nostro problema è sempre stato che
la nostra” si ferma
un attimo, insicura delle parole da usare
“storia…non è mai stata davvero
reale. E’ stato un sogno. E doveva finire”
“Questa
è una cazzata” la smentisco, alzando la
voce, senza riuscire a trattenermi “E’ sempre stata
una tua stupida idea, sin
dall’inizio. Come puoi dire che non sia stato vero quello che
c’è stato tra
noi?”
“Oh,
andiamo” ribatte, senza farsi intimidire per
un solo istante “La fan anonima e normalissima e la rock star
bella e famosa? E’
una cosa irreale, da film!”
“Ed
io sono solo questo?” ciò che mi esce dalle
labbra è poco più che un sussurro questa volta
“La rock star, il frontman di
una band? Pensavo di essere anche una persona. Credevo, o forse mi ero
illuso,
che fossi andata oltre quella facciata e che provassi qualcosa per me e
non per
l’idea di Ville Valo”
Si
morde le labbra, trattenendo il respiro per un
momento. Trattenendo le lacrime.
“Non
è quello che intendevo” mi dice con voce rotta
“Lo sai che…”
“Lo
so? No, non lo so” la interrompo bruscamente
“Ed è proprio quello che hai detto
adesso”
Elisa
scuote la testa, stringendo tra le dita un
lembo di coperta, fin quasi a farsi male. Poi si alza di scatto dal
letto,
spinta da un irresistibile impulso di scappare, ancora una volta.
So
già che non la lascerò andare, e forse lo sa
anche lei stessa, perché dopo pochi passi si ferma e resta
in piedi, immobile.
E’ rivolta verso la finestra, ma anche dal profilo del suo
corpo, dalle sue
spalle, riesco a capire che sta tremando.
“Non
era quello che intendevo” ripete ancora, e
ogni sillaba porta ancor più sofferenza.
Scivolo
anch’io giù dal letto e lentamente la
raggiungo. Le tocco la spalla destra e faccio scorrere piano la mia
mano lungo
tutto il suo braccio, fino a prendere la sua e costringerla a voltarsi,
con più
delicatezza possibile.
Non
oppone alcuna resistenza, ma tiene la testa
bassa, il viso rigato di lacrime.
“Ti
prego” la supplico “Guardami in faccia”
Sento
che non vorrebbe ubbidire alle mie parole, ma
reprime l’orgoglio e posa i suoi occhi grandi su di me.
Davanti
a quello sguardo inquieto e triste, sono io
a voler fuggire. Ma so che senza spiegazioni non si potrà
mai risolvere nulla.
Paura,
distanza, vergogna, fierezza. Quanti ostacoli
da lasciare indietro per rimettere a posto i tasselli di un puzzle.
“Io
sono un uomo come gli altri, forse solo più
spaventato e insicuro di altri, che ha incontrato una persona che ha
sconvolto
completamente la sua vita, le sue convinzioni, i suoi tabù.
Dopo essere stato
ferito più di una volta, ho abbassato le mie difese molto
prima di quanto avrei
potuto credere possibile, e tutto ciò che chiedevo era di
essere amato per
quello che semplicemente sono, per i miei difetti e non per il mio
nome”
Cerca
di ribattere, ma io la fermo, accostando un
dito all’angolo della sua bocca: “E non credo
davvero quello che ho detto, non
credo che tu sia rimasta attaccata alla fama, l’ho capito dal
nostro primo
incontro. Mi sono fidato dal nostro primo incontro. Ma tu non hai mai
davvero
avuto fiducia in me. E non c’è amore senza
fiducia”
Una
nuova lacrima scorre veloce, sfiorando la mia
mano che Elisa scosta con un gesto deciso.
“E
quando ho provato a fidarmi?” grida d’un tratto,
colpendomi il petto “Cosa è successo? Non posso
fidarmi di nessuno. Ogni volta
che cedo, sono respinta”
“Non
avrei mai voluto farti del male”
“Ma
lo hai fatto!” geme, scuotendo la testa “Con
quel bacio hai distrutto speranza e fiducia, in me stessa e in una
storia senza
futuro” Si allontana di nuovo, facendo qualche passo, avanti
e indietro: “Ed io
non ti incolpo di avermi tradito, non è stato quello il
problema. Io sapevo che
non avrei dovuto lasciarmi andare, che il tuo affetto era sincero, ma
che il
tuo cuore apparteneva ad un'altra. E forse è stato meglio
così, che arrivasse
così presto e che mi levassi di scena prima di perdere
completamente ogni
possibilità di scampo”
Si
muove troppo in fretta, non riesco a fermarla.
Si muove e parla così rapidamente da non avere quasi il
tempo di respirare: “E
pensavo di aver fatto la cosa giusta. Ho abbandonato il mio egoismo, ho
messo
davanti la tua felicità. E ho sofferto per un fottutissimo
anno. Per poi
scoprire che è stato tutto inutile”
Si
blocca all’improvviso, dandomi una spinta,
colpendomi con la forza di un dolore e una rabbia soppressi per
così tanto
tempo: “Io ti odio, ti odio per questo. Perché non
sei rimasto con lei? Perché?
Perché quando hai ottenuto finalmente ciò che
volevi te lo sei lasciato
scappare?”
Aspetto
che sfoghi tutta la sua collera, fin quando
le grida non si trasformano in pianto e singhiozzi, immobile,
accogliendo ogni
pugno ad occhi chiusi, moltiplicandolo nel mio animo, detestandomi
ancora per
averla fatta soffrire. Non riesco però a tacere a lungo: le
afferrò i polsi, la
attiro a me e la stringo, incurante delle sue proteste e i suoi
tentativi di
liberarsi.
“Perché
non era ciò che volevo davvero” le sussurro
all’orecchio, cercando di rassicurarla al contempo
“Anche io ho tentennato: ho
dubitato che la nostra relazione potesse avere un futuro. Tu eri
così giovane,
come lo sei anche ora, ed io non potevo rubarti la tua vita,
offrendotene in
cambio una piena di incognite, continuamente invasa da problemi e
interferenze.
E proprio quando ho ero più turbato è arrivata
Tarja, cogliendomi di sorpresa.
Per pochi attimi ho pensato che quello fosse un segno, un indizio per
farmi
capire quale piega doveva prendere la mia vita. E forse è
stato proprio così:
ma quel bacio a tradimento che il fantasma del mio passato mi ha
strappato
quella notte, mi ha spinto su una strada totalmente opposta a quella
che
pensavo. Con quel bacio ho compreso che, per quanto Tarja avesse un
posto
importante nel mio cuore, perché negarlo sarebbe una bugia,
quello che provavo
per te era diverso e molto più forte. Quel bacio mi ha fatto
capire ciò che già
sapevo, ma che non avevo il coraggio di affrontare: che ti amavo e che
eri
l’unica persona in grado di completare questo mio stupido
cuore malato”
Elisa
è ora immobile tra le mie braccia: ormai non
grida più, né cerca di divincolarsi, non ne ha
più le
forze. Continua a tremare e la sento così
fragile, ho la sensazione che se allentassi anche di poco la presa,
potrebbe
scivolare e infrangersi, come una statua di cristallo.
“Ma
tu sei scappata via prima che potessi spiegare
ed io sono stato così stupido da non provare a fermarti
davvero. Nella mia vita
ho scelto sempre la strada meno complicata e ho perso. E adesso forse
è troppo
tardi?” mormoro piano, stringendo più forte,
assaporando il suo profumo.
Non
c’è risposta alla mia domanda, solo un silenzio
assassino e assordante.
“E’
troppo tardi?” ripeto in un lamento, senza
riuscire a staccarmi da lei, senza riuscire a incontrare i suoi occhi,
per paura
di trovarvi ciò che più temo.
E’
lei ad allontanarsi, traendosi lentamente fuori
dal mio abbraccio. Allunga una mano per sfiorare il mio mento, posa le
dita sui
miei occhi, non mi permette di guardare il suo volto, cancella le
lacrime che
non mi sono nemmeno accorto di versare.
“Io
non lo so”
Sposta
la mano tra i miei capelli ed incrocio, alla
fine, le sue iridi di petrolio: “Pensavo che venendo qui
avrei trovato la
risposta, ma ho scoperto invece un’altra verità.
Hai ragione tu: è sempre stata
una questione di fiducia. Forse non sono capace ad amare. Io non sono
capace a
fidarmi di nessuno. E’ colpa mia”
“Non
era certo darti la colpa il mio intento. Io…io
ero arrabbiato, non volevo dire quelle cose…”
cerco di spiegarle, ma lei scuote
la testa.
“No,
hai ragione. E’ la verità. Se io fossi stata
in grado di fidarmi non sarei scappata via in quel modo, non mi sarei
nascosta
per un anno intero”
“E
adesso?”
Nessuno
di noi sa più cosa dire. Ci si da la colpa
a vicenda, ma non si raggiunge una soluzione. Non era così
che me l’ero
immaginato. No, non era così.
“Forse
dovrei tornare nella mia stanza” è Elisa
questa volta a rompere il silenzio, ma le sue parole portano nella
direzione
sbagliata.
“Ti
prego, resta ancora un po’ con me” la imploro,
sfiorando la sua mano “Non c’è bisogno
di parole, né di gesti. Voglio solo
averti ancora accanto, anche per poco”
Forse
mi sto facendo solo del male, ma non riesco a
sopportare l’idea di vederla uscire da un’altra
porta.
Sembra
tentennare per lunghi secondi, ma alla fine
acconsente, probabilmente solo per pietà. Ma non mi
interessa.
La
accompagno al letto, la guardo distendersi al
mio fianco in silenzio. Non la tocco, non la sfioro nemmeno,
né le domando di
girarsi nella mia direzione. Mi cullo ascoltando il suo respiro,
desiderando di
poter raggiungere almeno la sua anima. Pregando che quella non sia la
fine.
Hey
^^ Scusate il ritardo, è
stata una settimana strana!
Grazie
mille a chi ha letto
il capitolo precedente e soprattutto ad Ale e eupraxia per il commento.
Siete
dolcissime, come al solito!
Spero
che il capitolo vi sia
piaciuto! E se avete voglia di lasciare una recensione mi farebbe
davvero
felice!
Ci
siamo quasi!
Bacini
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Capitolo 9 *** Love only matters (pt2) ***
Chapter 5
Love
only matters, when it comes to the end (pt2)
All
I want is that you love me
as I am
Quando
mi sveglio la luce che entra dalla finestra
non è più così tenue, e il letto getta
strane ombre contro la parete che ho di
fronte. Non avrei mai creduto di potermi addormentare, non in quelle
condizioni. Ma è successo.
Ed ho
dormito più sicura di quanto non abbia più
fatto da tanto tempo. Forse per quel braccio che avvolge la mia vita,
per quel
corpo che riscalda la mia schiena, per quel respiro che accarezza i
miei
capelli.
Non so
in quale momento della notte Ville mi abbia
abbracciato, se il suo sia stato un gesto volontario o meno. Non so
nemmeno se
sia giusto, ma so di certo come mi sento.
Protetta.
E tremendamente bene, come un pesce
restituito al mare, come se quei fiori recisi
nel vaso della mia camera avessero trovato di nuovo la
loro terra.
E so
anche che, se solo lo volessi, potrei mettervi
le mie radici in quella terra. Ma le parole di Ville mi hanno scosso la
notte
scorsa: senza volerlo, quasi senza accorgersene, ha colto il vero
nocciolo
della questione. La mia paura, la mia incapacità di
affidarmi completamente ad
una persona.
Adesso
che ho ascoltato la storia dalle sue labbra,
capisco a quanti errori l’orgoglio e la presunzione possano
portare, anche
quando si è convinti di fare del bene. Ma per quanto
desideri dimenticare
tutto, una parte di me, che si autodefinisce razionale, vuole
sotterrare
qualunque buon proposito.
Forse
chi non è stato amato non potrà mai essere in
grado di amare.
E’
un destino ben triste. Come si fa ad accettare
una cosa simile?
Cerco
di ricordare il dolore provato nel vedere
Ville baciare un’altra donna. Lo comparo alla
felicità e alla dolcezza di
baciarlo io stessa.
E mi
rendo conto, che per quanto possano far male,
per quanto possano essere numerosi, anche mille ricordi tristi non sono
nulla
di fronte ad un unico ricordo veramente felice.
Le sue
labbra, il caldo spirito che fluisce da un
cuore innamorato, di bocca in bocca, fino all’altro estremo
di un filo
invisibile. Quanto vorrei assaggiare di nuovo il sapore di quelle
labbra…
Senza
più pensare, mi giro lentamente nel suo
abbraccio, stando attenta a non svegliarlo. Mi fermo ad osservare il
profilo
del suo viso, le ciglia che sfiorano le gote rosee, la bocca
leggermente
socchiusa.
Mi
sento come una ladra, ma non riesco a resistere.
Un solo, piccolo bacio. Non se ne accorgerà nemmeno.
Tremando,
mi sporgo in avanti per toccare le sue
labbra. Il lieve contatto mi fa rabbrividire e perdo inevitabilmente
ogni
contatto con la realtà.
E’
solo una bocca, solo un respiro. Ma è la sua
bocca e il suo respiro, ed io non riesco a ricordare
nient’altro.
E poi
non sono più solo quelle labbra di marmo:
sono un braccio che mi avvolge più stretta, una mano che
accarezza piano la
pelle del mio viso, è il battito di due cuori che tornano a
battere con la
stessa accelerata e inquieta frequenza.
Non so
più cosa accade realmente: ogni volta che
sto insieme a lui riesco a perdere il filo, non riesco più a
discernere ciò che
è frutto della mia immaginazione da ciò che
è reale.
Quelle
labbra si muovono insieme alle mie, e come
le mie chiedono di più.
Mi
scosto, prima che sia troppo tardi.
Guardo
quegli occhi verdi foschi di desiderio e
aspettative, cerco di imporre a me stessa un po’ di giudizio,
di tornare a
pensare con la testa, di non abbandonarmi schiava dei sentimenti.
Ma,
per mia sfortuna o meno, ho perso il controllo
su qualunque parte del mio corpo.
Allaccio
il braccio al suo collo e mi spingo di
nuovo verso la sua bocca, baciandolo con più foga adesso,
come se fosse la mia
unica riserva d’aria.
Ville
mi stringe a sé, ricambia il mio bacio con
ardore, e il tempo e ricordi non sembrano avere più molto
senso.
Giusto?
Sbagliato? Non ero in grado di formulare
una risposta di qualche valore.
Dopo
minuti, o secoli, o anche istanti, è lui ad
interrompere il contatto, con un ultimo piccolo schiocco, lasciandomi
boccheggiante e perduta, riportandomi troppo bruscamente alla
realtà.
Rimane
a scrutare il mio volto confuso,
ripercorrendone con i polpastrelli ruvidi ogni piccolo tratto.
Pian
piano comprendo di essere stata troppo
impulsiva, di aver contraddetto ogni parola e pensiero in un singolo
istante.
“Una
volta hai detto” mormora piano, con la sua
voce bassa e roca “che non si possono risolvere tutti i
problemi con un bacio”
Mi
mordo le labbra, ricordando molto bene
l’occasione.
Deglutisco,
lasciando che le parole trovino da sole
la strada: “Forse mi sbagliavo. Forse in alcuni momenti
è più che abbastanza.
Forse l’unico modo”
Mi
lancia uno sguardo stupito e domanda insicuro:
“Lo pensi davvero?”
“Sì”
bisbiglio “Io non ho altro da dire. Hai paura?”
“Sì”
risponde sinceramente, dopo un attimo di
esitazione “E tu?”
“Sì”
Passa
più volte le dita sulle mie labbra, da un
angolo all’altro della bocca: “Sei sicura di quello
che stai facendo?”
Ancora,
evito di pensare, di inventare problemi
anche dove non esistono. Dico addio alla parte pseudo-razionale. Lascio
rispondere la mia anima.
“Sì”
ripeto, accennando un sorriso.
A
giudicare dalla sua espressione, non ho stupito
soltanto me stessa con la mia affermazione decisa.
“Forse
non ne sono capace. Forse sarò un completo
disastro. Ma questa volta ne sono consapevole. Questa volta voglio
fidarmi
davvero”
Ville
resta zitto, anche il suo sguardo è
indecifrabile.
“Ti
prego, dì qualcosa” lo supplico, cominciando ad
avere paura senza un motivo preciso.
I suoi
occhi sono i primi a sorridere, così
brillanti e luminosi come ancora non li avevo visti dal mio ritorno.
La sua
risposta non è fatta di lettere o fonemi. Le
sue labbra mi giurano in altro modo silenziose promesse.
“E’
abbastanza?” sussurra, scendendo dalla bocca al
collo.
“No”
Lo
sento sussultare tra le mie braccia e non posso
fare a meno di sorridere. Prendo il suo viso tra le mani, mi avvicino
al suo
orecchio.
“Voglio
fare l’amore con te”
Le
parole galleggiano nell’aria, alimentando il
desiderio.
“Vuoi
accontentarmi?”
Le sue
labbra si piegano in una smorfia divertita,
mentre scuote la testa e mi bacia la punta del naso: “Non ero
indeciso.
Soltanto meravigliato di come la vita ti possa stupire ad ogni
passo”
Ripercorre
con la bocca il profilo del mio viso, la
mandibola e poi il mio collo; le sue mani tornano lentamente a prendere
confidenza con il mio corpo, i miei sospiri si fanno ad ogni bacio
più
profondi.
Tutto
è nuovo e insieme famigliare. Il tocco freddo
delle sue dita ha l’effetto di fuoco sulla mia pelle, mi
riporta lentamente in
vita, come se ogni parte del mio corpo, così come il mio
cuore, avesse atteso
ibernato per tutto quel tempo.
I
nostri vestiti giacciono ormai abbandonati ai
piedi del letto. Non sento più freddo, avvolta nel suo
abbraccio.
“Io…”
sussurra alla fine di un lunghissimo bacio,
litigando con le parole “Io…da
allora…insomma non ho…”
“Nemmeno
io” lo sottraggo all’imbarazzo,
scostandogli una ciocca di capelli dalla fronte, mentre mi sovrasta con
il suo
corpo “Sarà come un’altra prima
volta”
“La
nostra terza prima volta” mi fa notare, con un
sorriso divertito e amabile allo stesso tempo.
“Sì,
la nostra terza prima volta” confermo,
accogliendolo dentro di me.
E
avrei vissuto ogni volta come se fosse stata la
prima, perché ogni volta scoprivo che l’amore che
provavo era molto più forte e
più intenso di quanto ritenessi possibile.
“Ti amo”
bisbiglia ad un tratto, con il fiato corto, con quel suo accento
nordico.
Ancora
una volta utilizza la mia lingua madre, che
non mi è mai sembrata tanto dolce prima. Ancora una volta
riesce a strapparmi
qualche lacrima, ma di felicità.
“Minä
rakastan sinua” replico in un soffio,
nascondendo la testa nell’incavo del suo collo.
***
Per la
seconda volta in un giorno, mi sveglio in
quel letto. Forse un po’ più sfatto adesso.
Le mie
palpebre sono ancora chiuse, ma
dall’intensità della luce indovino che sia ormai
molto tardi, pomeriggio
inoltrato probabilmente.
Cerco
il braccio di Ville intorno alla mia vita, e
quando non lo trovo spalanco immediatamente gli occhi, terrorizzata. Ma
lui è
proprio accanto a me, la testa appoggiata contro il palmo della mano,
che mi
studia con un sorriso sornione.
“Buongiorno”
mi saluta, riavviandomi indietro i
capelli spettinati.
Inarco
le sopracciglia, perplessa: “Buongiorno?”
“Okay,
forse buonasera” si corregge, carezzandomi
distrattamente un braccio, non perdendo un secondo il contatto con i
miei
occhi.
Il mio
cuore sembra essere aumentato di qualche
taglia, temo che non ci sia più spazio nel mio petto. Ho
come la sensazione la
sensazione che sia diventato tutto più pesante e la
percezione è così forte che
non posso fare a meno di portare una mano poco al di sopra del seno,
sullo
sterno.
Mi
accorgo così che dal mio collo pende una
catenina e, alla fine di questa, un grande ciondolo d’argento.
“Ville…”
il suo nome è tutto ciò che riesco a
mormorare, sopraffatta dall’emozione.
“L’avevi
perso per strada” mi ricorda con fare
molto diplomatico, ma davanti al mio mezzo sorriso sistema la frase
“O meglio,
hai deciso di perderlo per strada. Io l’ho ritrovato. Vuoi
che me lo riprenda?”
“Certo
che no” ribatto prontamente, stringendo più
forte il pendente nel mio pugno, quasi per paura che possa dissolversi
nel
nulla.
Il mio
personalissimo heartagram. Il primo segno
del suo passaggio nella mia vita.
Lo
rigiro, controllando la scritta incisavi sopra.
To
my LoveMetalSister and sweet wildcat. Ville
E’
ancora lì, è tutto come prima. E’ tutto
come se
non fossi mai andata via.
Ma
è davvero così? D’un tratto la paura mi
attanaglia le viscere.
“E
adesso?” gli domando a bruciapelo, dando voce a
dubbi e timori “Adesso potrà tornare tutto come
allora?”
Ville
raccoglie i pensieri per qualche istante,
forse cercando le parole adatte.
“Non
ti so dire se sarà mai lo stesso. Forse sarà
ancora meglio. Possiamo solo crederci. Tu credi in questa realtà, Elisa?”
Accentua
con forza le ultime parole, per ricordarmi
che non è solo un sogno. Ma per me stare con lui
sarà sempre un sogno. Forse
però esistono anche i sogni senza fine. O possiamo crederci
insieme.
Annuisco
con decisione, incrociando le sue dita con
le mie.
Tuttavia
non è ancora tutto a posto, le leggo dal
suo sguardo, dal modo in cui la sua mano si stringe alla mia.
“Cosa?”
lo sprono a parlare, cercando i suoi occhi
ora sfuggenti.
“Mi
aspetteresti due mesi?” mi chiede a voce così
bassa che quasi stento ad udire la sua domanda.
“Due
mesi?” ripeto senza capire.
“Sì,
due mesi” mi spiega, riversando con fatica
ogni parola “Sarò negli Stati Uniti, abbiamo
accettato di partecipare ad un
progetto che ci terrà impegnati per i prossimi due
mesi”
Due
interi mesi?
Non so
se sono in grado di resistere tanto. Non
adesso.
“Fammi
venire con te!” esclamo di getto. Ormai non
ho più il controllo sul mio cervello, non sono mai stata
così impulsiva in
tutta la mia vita.
“Cosa?”
Cerco
di riparare in estremis: “Cioè, se è
una cosa
possibile. Altrimenti aspetterò naturalmente”
Scivola
sul letto, fino a raggiungere l’altezza del
mio volto: “Tutto è possibile. Dobbiamo solo
organizzarci. Ma tu puoi farlo?”
“E’
l’estate del diploma. Posso tutto” rispondo con
un sorrido a trentadue denti.
E
così ci ritroviamo a parlare dell’America e di un
tour chilometrico chiamato ‘Project Revolution’, al
quale, scopro,
parteciperanno anche i miei piccoli Chimici.
“La
mia teoria non era poi così malsana” mormora
Ville all’improvviso, giocherellando pensoso con il mio
heartagram.
“In
che senso?”
“La
teoria della fine e dei desideri. Si è avverato
tutto. Il desiderio che ho espresso quella notte è diventato
realtà. Sei
tornata da me. C’è solo una postilla da fare al
mio perfetto ragionamento
filosofico”
“Cioè?”
domando curiosa, affascinata come sempre
dalla sua mente contorta.
“Tutto
muore. Ma qualcosa rinasce.”
***
Un
tempo Nietzsche scrisse:
“Sebbene
delle due metà della
vita, quella della veglia e quella del sogno, la prima ci appaia senza
paragone
come la preferibile, la più importante e degna, quella
maggiormente meritevole
di essere vissuta, anzi la sola vissuta, io vorrei, però,
nonostante qualsiasi
sospetto di paradosso, sostenere proprio l’opposta
valutazione del sogno, in
rapporto a quel misterioso fondo della nostra essenza, del quale noi
siamo
apparenza”
E
così ho deciso di cedere al sogno, nonostante i
luoghi comuni, nonostante il pensiero del mondo, nonostante una parte
di me
continuerà a considerare la mia scelta irrazionale e
sconclusionata.
La mia
vita non è iniziata come una fiaba, ed io
non sono di certo una principessa.
Ma il
finale della mia storia posso scriverlo da
me.
The end
(Almeno
per adesso…)
Here
we are.
E
così si conclude anche la
seconda parte di questa storia. Lo so che vi ho fatto penare un sacco,
ma
almeno è finita bene questa, no? Hehe
In
ogni caso, come potete
intuire, questa non è ancora davvero la fine.
Lo
so, forse sarebbe anche
ora di lasciarli in pace questi due poveri personaggi… ma
proprio non riesco a
staccarmi.
Avevo
iniziato a scrivere la
terza parte, ma poi sono stata presa dentro ad un'altra storia (che
doveva
essere breve e invece mi ritrovo a pagina 225 e ancora lontana dalla
fine -.-‘’)
così non so bene quando mi rimetterò al lavoro.
Ogni
tanto scrivo qual cosina…quindi
non si sa mai. Potrebbe presentarsi presto un capitolo!
Ah,
potrei anche postare un
paio di one-shot che stanno nel mio computer da un po’!
Spero
che vi sia piaciuto il
finale. Considerando che è l’ultimo capitolo, mi
piacerebbe davvero sapere cosa
ne pensate ^_^ Anche un commento piccolo, piccolo e veloce veloce.
Colgo
l’occasione per
ringraziare tutti quelli che hanno letto e recensito nel corso della
storia. Grazie
Grazie.
Un
altro ringraziamento
particolare alle commentatrici dello scorso capitolo: sweetevil,
eupraxia e
maricapin *_* Siete dolcissime.
Un
abbraccio a tutti quanti.
See ya soon.
Moss aka FallenAngel
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