Una giornata al Ministero

di Ely79
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Dalle 8:00 alle 11:00 ***
Capitolo 2: *** Dalle 11:00 alle 13:00 ***
Capitolo 3: *** Dalle 13:00 alle 14:30 ***
Capitolo 4: *** Dalle 14:30 alle 17:30 ***
Capitolo 5: *** Dalle 17:30 in poi ***



Capitolo 1
*** Dalle 8:00 alle 11:00 ***


Dalle 8 alle 11
Odio la metropolitana. Non so che farci, a parte sopportare questo supplizio per cinque giorni a settimana. Una folla indistinta di facce, corpi, voci, odori, che si muove senza coscienza apparente. La massa di pendolari, studenti, turisti, semplici passeggeri occasionali farebbe la felicità di qualunque antropologo che decidesse di venire a vivere qui sotto, ma io non faccio questo mestiere. Né ho intenzione di prendere domicilio nelle viscere di questo biscione metallico. Alzo il volume dell’i-Pod. Phil Collins canta “Another day in paradise”. Lo avessi davanti lo strozzerei. Questo è tutto fuorché il paradiso.
In questo marasma accaldato e compresso emergo a malapena. Un caschetto castano piuttosto ordinario se paragonato ai due punk all’altro capo della carrozza, con le creste azzurro slavato e le punte rosso fuoco. Sto in piedi, accanto alle porte scorrevoli. Cerco di respirare più a fondo che posso, ignorando il misto di olezzi che arriva dallo scompartimento. Spezie, dopobarba, intrugli di cucina, profumi scadenti, fritto, pelle di bambino, medicine, fumo, naftalina. Ormai conto le fermate, non guardo più le indicazioni. Era una mossa inutile: c’era sempre qualcuno troppo alto a coprire il panello informativo.
Finalmente ci siamo. Schizzo fuori e punto alle scale mobili. In pochi minuti sono in strada. Il marciapiede offre uno spettacolo simile alla metropolitana, con la sola differenza che l’aria è più fresca. Settembre è arrivato, dolce e tiepido. Ancora non accenna a piovere, come se il cielo volesse trattenere l’estate.
Raggiungo la cabina telefonica e frugo nella borsa mentre l’i-Pod è passato su un brano di Enya. Appropriato per l’ingresso in ufficio. Già, perché questa banalissima cabina rossa, come ce ne sono tante in tutta Londra, immancabile nelle foto dei turisti, è una delle entrate al mio posto di lavoro. Curioso? Non tanto. Dopo anni che fai su e giù, l’unica cosa che ti stupisce è l’assoluta cecità della gente che ti passa accanto. Inserisco il gettone, scrutando dai vetri sporchi il viavai di persone. Nessuno mi guarda, e se lo fa, non mi vede.
Digito il codice. Sette-sette-due-quattro-uno-quattro-tre. Una voce femminile e metallica mi saluta.
«Benvenuti al Ministero della Magia. Per favore dichiarare nome, ufficio di appartenenza e mansione».
«Jillian Taylor, Ufficio Rapporti con le Creature Magiche, Assistente Responsabile».
La cabina ha un lieve tremito ed il pavimento comincia a scendere. La cosa non dovrebbe affatto piacermi, ma ho imparato da tempo che non è il caso di agitarsi. La prima volta ho pensato sarei morta.
Le porte si spalancano sul grande atrio.
È presto. Poca gente sbuca dai camini. Il Ministero è lindo e splendente, una gioiosa luce piove da tutte le finestre e dai lampadari di cristallo, parquet e marmi luccicano sui pavimenti, ed una grande fontana zampilla nell’atrio, ma nel Novantotto non era così. Ho assistito personalmente, appena assunta, alla rimozione della vecchia statua: un obbrobrio che è sparito in mezzo secondo, sostituito da una scultura astratta.
«Bacchetta, prego» sbadiglia l’addetto alla sicurezza ad dietro il tavolo.
«Ma santo cielo, Frank!»
Ridacchiamo. Lo fa apposta tutte le mattine. Sa che non ce l’ho. È il solito siparietto idiota col quale ci salutiamo.
Non ho la bacchetta per un motivo molto semplice: sono quella che loro chiamano Babbana. Giusto pochi mesi prima della mia assunzione, al termine di una guerra di cui noi comuni mortali non avevamo avuto il minimo sentore, il Ministro della Magia Shacklebolt prese una decisione storica: decretò fosse giunto il momento per mettere a parte dell’esistenza dei maghi alcuni membri della popolazione. A questo punto, ci si sarebbe dovuti aspettare che il Ministero si rivolgesse a personaggi altamente selezionati della società. Invece, dal cilindro del Ministro uscirono i nomi più improbabili della terra, tra cui il mio. Cos’avevamo di tanto speciale per essere scelti? Semplice. A vent’anni credevamo ancora nelle fate, nelle leggende di Re Artù, negli unicorni e via discorrendo. Ed avevamo la faccia tosta di andare a sbandierarlo ai quattro venti passando per deficienti. Immaginarsi quando venni contattata dal Ministero. Una lettera portata da un gufo reale che faticai non poco a nascondere ai miei. Sulle prime pensai ad uno scherzo molto ben architettato, ma quando incontrai gli emissari dell’Ufficio Relazioni con i Babbani, mi convinsi in un batter d’occhi. Accettai prima ancora che me lo chiedessero.
Così presi il mio posto all’Ufficio Rapporti con le Creature Magiche, dove lavoro tuttora. Dicono che mi hanno messa lì perché ho una buona capacità di relazionarmi con chiunque, umano e non.
Entro nell’ascensore. Le griglie dorate stanno per chiudersi quando sento dei passi frettolosi. Allungo una mano e le fermo.
«Grazie! Oh, Jill, cara! È parecchio che non ti vedo!» esclama un uomo dagli spessi occhiali tondi tra un respiro e l’altro.
«Buon giorno, Arthur. Tutto bene?»
Arthur Weasley è una bravissima persona. È uno dei pochi maghi di mia conoscenza che non guarda con orrore o sufficienza gli indispensabili orpelli tecnologici di cui mi circondo. Questo suo apprezzamento nei confronti degli esseri meno dotati è ammirevole, ma anche terribilmente pericoloso. La prima volta che ha avuto a che fare col mio portatile abbiamo rischiato di finire sotto indagine: come spieghi ad un mago che ti ha vista trafficare per ore con un notebook inoffensivo, che non è assolutamente vero che lo stesso ha cercato di addentargli l’avambraccio? Con otto zanne da quindici centimetri per giunta? Non ce l’ho con Arthur. Stava solo cercando di rendere la batteria perpetua, per consentirmi di lavorare senza problemi qui dentro, dove non esiste una presa di corrente a pagarla oro. Ma era la prima volta che tentava quell’incantesimo e i risultati sono stati, diciamo, imprevedibili. Al secondo tentativo il computer si è coperto di pelo verde mela e ha cominciato a saltellare come un coniglio. Evito di raccontavi tutte le versioni fino a quella risolutrice. Credo fosse la ventesima o giù di lì.
«Sì, grazie. Oh! Ma che meraviglia!»
Accidenti. Beccata con l’i-Pod in mano.
«È una di quelle scatole musicali, vero? Il… Il… Lappòt!»
«L’i-Pod…» lo correggo mesta, aggiustandomi gli occhiali.
Non azzecca mai un nome al primo colpo. Deve trafficarci per qualche tempo prima d’impararlo.
Sale un’altra persona. Un tipo sulla trentina, occhiali cerchiati di corno, capelli rossi.
«Buon giorno, papà. Taylor».
Ah, bene! Fantastico! Pentola-di-fagioli Weasley, in arte Percy! Ieri mi ha fatto venire mal di testa con le sue tiritere sul perché non è corretto che sui documenti di trasporto degli oggetti magici venga riportato solo lo stato di provenienza e non la zona di produzione. Mi chiedo come possa Arthur aver cresciuto questo tizio, senza mai provare il desiderio di sparargli o di strappargli le corde vocali. Ho giurato a me stessa che non mi fermerò mai più a pranzare nell’atrio, cascasse il mondo! Se il rischio è di avere alle spalle questa mitragliatrice di scemenze, meglio pioggia e ghiaccio!
Stamattina sembra assonnato. É diventato padre da un paio d’anni, e pare che la figlia seguiti a non dargli tregua la notte. Tifo per lei, se significa avere un po’ di pace.
Arrivo al quarto piano. Saluto Arthur e suo figlio e mi avvio all’ufficio.
Tutte le stanze sono ancora chiuse, solo lo Sportello Consulenza Flagelli è attivo. Sento squittire Honoria Goldwing. Quanto la detesto, quella vecchia befana! Deve sempre lamentarsi del lavoro degli altri mentre se il suo fa pena, nessuno può dir nulla. Megera. E zitella! Ma di che mi lamento? Pure io sono uccel di bosco…
Arrivo in fondo al corridoio. Su una porta di quercia spicca una targa d’ottone.

UFFICIO RAPPORTI CON LE CREATURE MAGICHE
Responsabile Hermione Granger
Assistente Jillian Taylor

Entro. Sulla finta finestra alle spalle della mia scrivania c’è una spiaggia di ciottoli bagnata da un mare calmo. Avanzamenti tecnici della magia! Fino ad un paio d’anni fa poteva avere al massimo una luce diffusa o un cielo limpido. Ora delle immagini in presa diretta! Quando penso che mi trovo ad almeno una quindicina di metri sottoterra e vedo cose simili, provo una strana sensazione. Mi manca l’aria, eppure sento i polmoni che scoppiano come per un respiro troppo energico.
Giusto il tempo di sistemare il computer e la borsa, che un paio di promemoria interpiano planano accanto a me. Uno è dell’Ufficio Trasporti: un elfo domestico ha imparato ad incantare le scope dei padroni, creando non pochi problemi. L’altro è di Tonks, che chiede per la centesima volta se l’appuntamento per il pranzo di oggi è alle tredici. Ha distrutto di nuovo l’agenda. Quella donna mi fa morir dal ridere. È uno spasso! Se dove passava Attila non cresceva più l’erba, dove passa lei non si sa avanza qualcosa! Alto che Uragano Katrina!
«Buon giorno, Jill» sbadiglia una voce svogliata.
È il mio capo, Hermione. Ad essere precisi è un pancione con il mio capo al seguito. È al settimo mese avanzato di gravidanza e, nonostante insista ogni santo giorno perché si prenda una pausa, si ostina a restare. Non sa stare con le mani in mano.
«Buon giorno? Io magari avrò una buona giornata, ma tu… hai un’aria peggiore del solito».
I suoi capelli abitualmente sembrano un rovo indisciplinato, stamattina una trincea tedesca. Per non parlare delle occhiaie viola che stanno malissimo sotto i suoi occhi nocciola.
«La bambina ha deciso che stanotte voleva fare la lotta».
Da figlia di normali esseri umani, ha fatto un’ecografia. Così sappiamo che sta arrivando la piccola Rose. Ci sono già regalini sparsi in giro per l’ufficio.
«Vuoi una tisana intanto che è tutto calmo, bimba inclusa?» propongo.
Hermione getta uno sguardo disperato all’orologio sul muro. Sembra illuminarsi di una timida speranza.
«Pensi di riuscire…?»
«Io non faccio magie!» protesto, con le tisaniere autoriscaldanti nelle mani. «Ma posso provarci».
In cinque minuti e grazie alle modifiche di Arthur, gli infusi sono pronti. Non ringrazierò mai abbastanza il suocero di Hermione per questo pensierino. Parliamo del programma della mattina. Ci sono un pochi appuntamenti, oggi è venerdì. Quel che vale per il lavoro dei Babbani, spesso vale per quello dei maghi: week-end in arrivo.
«Non vedo l’ora, sono a pezzi» sospira lei.
Non le credo. Dice sempre così e poi porta a casa le pratiche, anche quando non ne abbiamo in arretrato. È una stacanovista, ma solo perché vuole davvero aiutare le persone che vengono qui. L’ammiro per questo suo attaccamento, per il rispetto che ha verso gli emarginati. Lei ha sopportato insulti e diffidenza, ma c’è chi lotta con cose ben peggiori.
Alle otto e quarantacinque precise bussano. Fine della tranquillità. Il lavoro deve pur cominciare, no?
Vado ad accogliere i nuovi arrivati. Edward Thompson e suo figlio Luke, entrambi accomunati da un alone di grande tristezza. Il signor Thompson è molto trasandato, non si fa la barba da giorni e gli abiti avrebbero bisogno di una bella lavata. Luke avrà otto o nove anni, cammina curvo con lo sguardo fisso sulle scarpe, le braccia strette al petto. Non ho avuto tempo di visionare la pratica, anche se è abbastanza evidente che riguardi il bambino.
«Jill?» Hermione, sulla porta della sua stanza, mi allunga la copia della pratica. «Và a chiamare Remus, per favore».
Non ho bisogno di leggere. Se devo chiamare Remus può voler dire solo una cosa: mannari. Fermo lo sguardo un attimo di troppo sulla testa di Luke. Un paio di lunghe cicatrici passano fra i capelli corti. Ce n’è una anche sulla nuca. Sono recenti. La luna piena è passata solo da tre o quattro giorni. Provo una gran pena. Luke dev’essere spaventato a morte, chissà se riesce a capire cosa gli è successo.
Remus Lupin è stato uno dei professori di Hermione ed è un suo carissimo amico. Anche lui è un lupo mannaro e per anni è stato ingiustamente discriminato. Lavora tre porte più in là, chiaramente preposto ai rapporti con i licantropi. Busso.
«Avanti!»
È l’unica persona al mondo che riesce ad avere una voce allegra ad ogni ora del giorno, in quella gabbia di matti. Lo dico sempre: non ha la luna dalla sua, ma ha il sole nel cuore! Saprebbe metterti di buon umore in ogni momento, ed è ancora più incredibile considerando quanto ha sofferto.
«Remus?»
«Buon giorno, Jill! Qual buon vento?» mi domanda, chiudendo rapidamente il coperchio del suo acquario.
In realtà si chiama acquario solo perché un tempo lo era. Adesso ospita a turno le creaturine più bislacche che gli riesca di catturare. Ogni tanto gliene porta qualcuna suo figlio Teddy. Oggi però non sono in vena di disquisire sul suo ultimo pensionante, una cosa viscida munita di tentacoli pallidi. L’immagine di quel bambino mi ha colpita molto. Sento il cuore ancora stretto.
Gli porgo la cartellina.
«Hermione ti vuole subito, se puoi» dico nervosa.
Legge la prima pagina e il suo viso s’incupisce. Credo riviva quanto gli è accaduto. Anche lui era solo un bambino quando è stato morso, per quanto ne so. Mi guarda, recuperando solo in parte la sua giovialità.
«È già arrivato?»
Annuisco. Lui fa altrettanto, poi gira intorno alla scrivania. Prende qualcosa e torna da me, facendomi cenno di precederlo. Lo sento sfogliare la pratica mentre ci avviamo. Mormora qualcosa.
«Tieni» dice sulla porta, ficcandomi in mano delle caramelle.
La carta colorata luccica e scricchiola fra le dita.
«Grazie Remus, ma non mi vanno».
«Dalle al piccolo».
Mi do della stupida. È chiaro che il bambino non potrà restare nell’ufficio per tutto il tempo. Alcune cose non sono per le sue orecchie. Non ancora. Una caramella può essere un buon modo per rompere il ghiaccio e fare in modo che si tranquillizzi mentre è solo con me.
Remus entra alle mie spalle, salutando con gentilezza. Vanno tutti e quattro nell’altro ufficio. Un attimo prima che la porta si chiuda alle loro spalle, mi sorride. Credo di indovinare il motivo. É adulto, sposato, padre, ha un bel lavoro ed ha combattuto tre guerre: due tra maghi e una con sé stesso, con quello che è. Ed ha vinto. Anche per Luke c’è speranza.
Torno a dare le spalle al mare, su cui ora brilla il sole. Sulla scrivania si sono posati altri aeroplanini di pergamena. Li apro e comincio a prendere appunti sulla tastiera. In breve, un’intera schermata si copre di richiami a varie pratiche, appuntamenti, circolari informative, semplici avvisi.
Solo uno rimane com’è. Sul bordo è scarabocchiata una faccina lentigginosa e sorridente. É la corrispondenza personale di Hermione, non mi sognerei mai di aprirla. Arriva dall’Ufficio degli Auror, da suo marito Ron. Lo smile -il suo ritratto- è un modo simpatico per avvisarmi di non leggere. Posso immaginare però il contenuto. Herm me l’ha mostrato in più occasioni. Sono le preoccupazioni tipiche del futuro padre: “La bambina sta bene? Scalcia o è tranquilla? Si è mossa? Tu come ti senti? Sei stanca? Vuoi che ti accompagni a casa? Passo a prenderti qualcosa da mangiare?”. È molto apprensivo, ma non invadente. Per un periodo lo è stato, piombava qui con tutto il codazzo di colleghi prima o dopo le missioni. Il che significava in qualunque momento del giorno. Al che, all’ultima visita, Hermione l’ha innaffiato da capo a piedi con un getto da idrante. Ha smesso subito. Mi ha fatto tenerezza mentre la salutava bagnato fradicio. Da allora, manda foglietti e si palesa solo dietro espressa richiesta della moglie.
Sento la maniglia abbassarsi. Compaiono Remus e il bambino. Sorrido a entrambi. Luke non mi guarda.
«Luke, ti presento Jill. Ti farà compagnia per un pochino, finché papà non finisce di annoiarsi con le nostre inutili cartacce!» ma lui non reagisce.
Tiene la testa bassa, fissa il parquet con le mani dietro la schiena. Remus mi si avvicina e, fingendo di trafficare nei cassetti della scrivania, bisbiglia:
«È come se cercasse di creare una barriera intorno a sé. Quello che non vede non gli può fare del male. Ha paura persino della sua ombra».
Sembra molto preoccupato, ma c’è una sfumatura nella sua voce che mi dice che quella situazione può andare. Ho sbirciato nel fascicolo. Luke è licantropo da meno di un mese. Non può aver già assimilato il trauma.
«Come faccio a calmarlo?»
«Hai già le tue armi» e mi strizza l’occhio. «Bene, trovato» esclama, portandosi via un rotolo di magiscotch che certamente non gli serviva. «Luke, scommetto che se fai due parole con questa signorina resterai molto soddisfatto. Almeno… tre volte!»
«Magari anche quattro» suggerisco io, contando le caramelle.
«Quattro? Accidenti, così finirò sul lastrico!»
Rido. Lo osservo scomparire dietro la porta, non prima di avermi rivolto un altro dei suoi melanconici sguardi  azzurri.
Resto sola con il bambino.
«Ti va di sederti? Sai, questa poltrona vengono sempre a rubarla dagli altri uffici perché dicono che è la più comoda di tutto il Ministero» e gli allungo quella accanto alla mia. «Fossi in te non aspetterei che vangano a chiederla» suggerisco.
Si siede, rigido e silenzioso. Porta una felpa più grande della sua taglia, e che ha visto tempi migliori. Alza il cappuccio, vuol essere certo che non violerò il suo spazio. Allungo il collo oltre la scrivania. Mi è sembrato di averlo visto girare gli occhi verso di me, nascosto dal tessuto verde scuro. Appena mi avvicino, li rimette sul pavimento, allarmato.
«È interessante, vero? Il legno, dico» e allungo il braccio fin quasi a sfiorare terra, nel suo campo visivo. «Ha un bel disegno. Nessun mago saprebbe farlo con la magia».
Non risponde. Aspetto. Tiene le mani strette fra le ginocchia, le spalle curve. È un minuscolo gomitolo di ansia. Non riesco a immaginare come si possa sentire. Dev’essere terribile.
Si sente un trillo. Lui sobbalza, finalmente cerca intorno, spaventatissimo. Ansima.
«Calma, calma! Stai tranquillo, è solo la mia mail» cerco di tranquillizzarlo.
I suoi occhi, gonfi e arrossati, vagano nella stanza e si posano sullo schermo del portatile, dove lampeggia una busta gialla. Non sembra stupito.
«Sai cos’è?»
Fa segno di sì. Un impercettibile, minuscolo sì.
«Davvero? Finalmente! Sono stufa di parlare con gente che non ha idea di cosa sia un computer!» esclamo allegra. «Hai appena guadagnato cento punti! E una caramella».
Gliele porgo. Non so se le prenderà, ma intuisco il suo desiderio. Un tremito, la lingua che passa nervosa sulle labbra screpolate, una mano si sfila dalla stretta dei pantaloni stropicciati. Le vorrebbe, ma non osa.
«Scegli da quale cominciare. Sono tutte per te».
Si domina, con uno sforzo titanico. La mano si rituffa tra le gambe. Non mi ero illusa di smuoverlo al primo colpo, è già molto quel che ha fatto.
«Che giochi fai? Io gioco sempre a Tetris, lo conosci?»
Certo, come no! Parliamo di preistoria dei videogames… Infatti scuote il capo.
«Eh… hai ragione, roba vecchia. Non sono aggiornata. Tu potresti dirmi con cosa si gioca adesso. Su, ti ascolto».
Ssi rannicchia ancora di più, si nasconde facendosi piccolo contro il bracciolo, sfugge a qualunque relazione. Devo stare attenta a non esagerare. Non voglio farlo sentire come una bestia allo zoo, perché è proprio questo che prova. Remus me l’ha raccontato una volta: da bambino si era sentito prigioniero del suo stesso corpo e della cattiveria delle persone. E non solo allora.
«Beh, in effetti non hai tutti i torti. Ti starai chiedendo che diamine voglio da te, perché non ti lascio stare. In fondo sono affari tuoi, i giochi che fai. Mi sto impicciando troppo, scusami. Ma le caramelle ti aspettano qui» e gliele indico, sullo spigolo della scrivania.
Ricomincio a sistemare i documenti che ho preparato. Ogni tanto mi volto, cerco di capire se si sta rilassando ora che non gli parlo. Il cappuccio gli avvolge la testa e cade in avanti, floscio e cupo. Gli dà un’aria da Fantasma dell’Opera. È triste pensare che tanto dolore debba gravare su un bambino.
L’orologio segna le dieci e quarantacinque. Hermione ha appuntamento al garage per le undici, per andare al Victoria Park. Non vorrei andarmene. Non vorrei lasciarlo solo, ma Hermione non riuscirà ad andare all’incontro, sono sicura.
Mi alzo e busso. Dentro l’atmosfera è molto pesante. Il signor Thompson è in lacrime, Remus gli tiene una mano sulla spalla per confortarlo. Hermione è stanca, si vede.

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Capitolo 2
*** Dalle 11:00 alle 13:00 ***


Dalle 11 alle 13
Le inferriate dorate dell’ascensore si aprono. Mi sento uno straccio. Uscendo dall’ufficio ho salutato Luke. Non si è mosso. Non avrei voluto lasciarlo solo. Gli ho detto che può giocare tranquillamente col mio portatile, ma non credo proprio lo farà. Vuole solo andarsene a casa.
Qualche collega di passaggio mi saluta. Ricambio cercando di sorridere.
Non ho voglia di andare al Victoria Park, ma forse un po’ d’aria fresca mi farà bene.
Attraverso l’atrio e raggiungo l’entrata della rimessa. Non c’è una porta, ma un grande quadro del vecchio autista del Nottetempo, morto un paio d’anni fa.
«Salve, Ernie!» strillo.
Negli ultimi anni era diventato duro d’orecchi. Si aggiusta gli occhialoni spessi e pieni di ditate, mi squadra e sorride. Il quadro si apre, girando sulle cerniere.
La rimessa si trova esattamente sotto un parcheggio multipiano, a cui è collegato attraverso passaggi occultati con la magia. Di solito i maghi non usano le auto, ma la zona dove dobbiamo recarci è in prossimità di alcune case, è molto aperta e frequentata. Non è il caso di sbucare dal nulla, grazie al cielo.
Nella luce bassa, vedo due persone. Oltre a me e loro dovrebbe essercene una terza che, a quanto pare, è in ritardo.
Mi avvicino. Una è Benevola Dippet, una strega degna di questo nome. Per noi Babbani le streghe sono brutte e cattive, lei ne è il ritratto sputato. Ha capelli lunghissimi e stopposi, color grigio topo, occhi porcini ed un orrendo naso a banana, lungo e ricurvo da qualunque parte lo si osservi. Dice che è colpa di uno Schiantesimo se è così, ma quando le si domanda perché non l’abbia fatto sistemare, cambia discorso. Vorrei sapere chi ha scelto il suo nome quando è nata. Ha un carattere insopportabile, è una lunatica nevrastenica che non sa farsi andar bene niente. E infatti, mi accoglie con un simpatico:
«Sei-in-ritardo-dov-è-quell-altra-non-dovevi-esserci-tu-perché-nessuno-mi-ha-informata-di-questo-cambio-non-stiamo-giocando».
«Andiamo, Benny!» esclama ridacchiando l’altra persona. «Non è così tardi!»
Si chiama Harry Potter e, come Benevola, è un Auror. Per i maghi è un autentico eroe: pare abbia salvato il mondo otto anni fa, dopo essersi sorbito un’infanzia infelice e sette anni di scuola durante i quali ha rischiato di lasciarci continuamente la pelle. Non so perché, ma quando Hermione mi ha fatto leggere la sua biografia, mi è parso di venir catapultata in uno di quei libri che leggevo abitualmente prima di lavorare qui. Invece era tutto vero, e mi fido della sua parola: era con lui.
«Bene» faccio io, già stufa di sopportare la Dippet. «Andiamo?»
«Aspettiamo l’autista» dice Harry indicando dei fari in movimento.
I maghi che sanno guidare un’auto sono pochi. Che la sanno guidare bene poi, sono una rarità. Sto per offrirmi come conducente, quando la macchina si ferma davanti a noi. Il finestrino si abbassa e il mio umore migliora.
«Ehilà!» saluta l’uomo al volante.
«Ehilà!» rispondo entusiasta.
Sono letteralmente in brodo di giuggiole. Al volante c’è Philip Cross, un Obliviatore. È simpatico, carino, divertente. Stravedo per lui.
«Prego, le signorine davanti».
«Cross, ne abbiamo due qui» osserva Potter sogghignando.
«Ah, davvero?»
Si sporge e guarda perplesso la Dippet. Lei lo fissa inferocita.
Mi viene da ridere, Harry nemmeno si trattiene. Benevola sbraita, ma davanti mi siedo io.
«Questa-la-paghi-brutto-maleducato-mio-nonno-non-avrebbe-mai-permesso-che-uno-come-te-mi-parlasse-così-e-tu-non-ridere-Potter-o-ti-faccio-rapporto-poi-vedremo-se-trovi-ancora-divertenti-queste-battute».
È persino peggio di Percy Weasley.
La luce di Londra ci abbaglia per un momento mentre ci immettiamo nel traffico. Non ho visto il passaggio dal Ministero al parcheggio interrato. Lo ammetto, ero concentrata sul Philip. Jeans, camicia azzurra e maglione beige di cotone. Per strada lo si potrebbe scambiare per un impiegato qualunque. Guida con una certa disinvoltura, qualcosa di molto distante dalla media dei maghi.
«Hermione non sta bene?» chiede una voce dal sedile posteriore.
Mi volto quel tanto che mi consente la cintura di sicurezza.
«No, Harry. Non esattamente. Stamattina abbiamo avuto un caso… spinoso. Gli interessati non erano ancora andati via, così sono venuta io».
Non so trovare parole migliori per non dover dipingere la cosa come l’autentica tragedia che è.
La faccia di Harry non cambia, eppure dal suo sguardo so che ne ha compreso la gravità. Lui e Hermione si conoscono da anni, sa che non molla l’ufficio per un motivo non meno che serio.
«Capisco» risponde, e si mette a guardare la gente sui marciapiedi fuori del finestrino.
Ogni tanto mi chiedo se è davvero l’eroe che tutti dicono. Dennis Canon, il fotografo ufficiale del Ministero, lo elogia in toni degni di Jimmy Olsen quando parla di Superman. Non voglio mettere in dubbio le parole del mio capo ma, parlando francamente, a vederlo è un tipo piuttosto insignificante. Non farebbe paura ad un bambino, con quell’istrice in testa e gli occhiali rotondi. Non è uno spaccone dalla voce tonante, né una persona carismatica, di quelle che ascolti per ore a bocca aperta anche quando sparano stupidaggini a tutto spiano. Non è neanche dotato di clericale modestia. Harry è la quintessenza della normalità. Mister Anonimato e lasciatemi lì per favore perché è da una vita che lo aspetto.
A me sembra il perfetto vicino di casa. Quello a cui lasceresti il gatto per andare in ferie, certa di ritrovarlo felice e contento al tuo ritorno. Quello che non si lamenta se tieni lo stereo troppo alto per un paio di minuti. Quello di cui noti l’esistenza solo durante la partita della squadra del cuore, perché al primo gol abbatte i muri di casa per festeggiare.
Nel frattempo, Benevola ha ricominciato a sproloquiare. Se la sta prendendo col motivo della nostra visita al Victoria Park. Un gruppo di gnomi ha assalito due vecchiette, la cui unica colpa è di aver portato i nipotini a fare una passeggiata troppo vicino ai cespugli dove questi omuncoli vivono. I malcapitati hanno riportato solo dei graffi e qualche livido, per fortuna. Il problema è che non si può farli andare in giro a sbandierare l’accaduto.
Obbiettivamente, in quanti crederebbero a due anziane ottantenni che raccontano di un attacco da parte di persone alte poco meno di trenta centimetri? Nessuno. Nessuno che non fossi io, chiaro. Purtroppo qualche mente aperta è sempre disposta ad ascoltare, creando più danni del necessario.
«Come interveniamo?» m’informo.
Siamo quasi arrivati e ancora non abbiamo parlato del piano d’azione.
«Li Schiantiamo tutti!»
«Benny, non mi pare il caso. Al Victoria c’è sempre gente» obbietta Harry, stiracchiandosi.
Uno a zero per lui. Considerando che chi ha perso è il suo diretto superiore, aggiungerei un ulteriore punto. Molti dicono che l’anno prossimo passerà lui alla guida degli Auror.
«Alle nonnine penso io. Mi dicono sempre che ho l’aria del bravo ragazzo che non hanno i nipoti!» sghignazza Philip.
Gli credo sulla parola. Ha l’aria furbetta di un bambino che sta ficcando le mani nel barattolo dei biscotti ed ha già la scusa pronta per giustificarsi. Ammicca. Ha gli occhi color caramello.
Ci siamo conosciuti quattro anni fa, sull’ascensore. Io ero sommersa da una decina di faldoni alti un metro l’uno, e non l’ho visto salire. Appena ripartiti, la sua faccia ha fatto capolino a lato delle scatole. Era convinto che le gambe che vedeva sbucare al di sotto fossero finte: secondo lui nessuno sano di mente avrebbe portato a spasso tutta quella roba in una volta sola. Ha usato un Incanto Locomotor, permettendomi di mantenere le braccia attaccate alle spalle. Ci siamo incrociati altre volte, quasi sempre sull’ascensore o nelle sue immediate vicinanze, parlando come se ci conoscessimo da sempre. Questa però è la prima volta che passo tanto tempo con lui.
«Bene, allora Phil pensa alle signore. Inventati qualcosa di credibile per i loro ricordi» suggerisce Harry.
«Pensavo ad una discesa di ufo…»
«Phil!»
Non lo sta sgridando. Potter sta ridendo perché probabilmente la faccia di Benevola sta virando al magenta. Non credo abbia voglia di sentirla riattaccare con le sue solfe.
«Okay, okay!» si scusa Philip, sbirciando nel retrovisore interno. «Pensavo che un paio di gatti poco amichevoli potrebbero giustificare i graffi. Che ne dite? E poi i bambini non possono contraddire le nonne, dovrebbero avere uno o due anni, no?»
«Non sbagli» conferma, aggiustandosi gli occhiali. «Ottimo. Jill?»
«Cercherò di far capire loro che non possono restare in quei cespugli, sono troppo vicini ai percorsi pedonali. Farò leva sul loro desiderio di quiete e presenterò la nostra proposta».
«Parli gnomico?»
La voce della Dippet ha un suono che non mi piace. Non è sorpresa, sembra schifata.
«Non è difficile. Speriamo che vogliano ascoltarmi…»
«Se io fossi uno gnomo, ti ascolterei di sicuro» sentenzia serissimo Philip.
Gli sorrido grata. È uno splendido incoraggiamento. Vorrei essere capace di farne di simili. Luke ne avrebbe davvero bisogno.
«Io-non-capisco-come-sia-possibile-che-una-come-te…» attacca la megera, ma viene interrotta dal collega spazientito.
«Siamo arrivati».
L’auto si ferma dietro un gruppo di case a Iveagh Close. Scendiamo e ci addentriamo nel parco. C’è parecchia gente, nonostante sia una giornata lavorativa. Persone che fanno jogging, che portano a passeggio il cane o i bambini, turisti che fotografano il parco, un senzatetto rannicchiato su una panchina, netturbini e giardinieri all’opera…
Arriviamo al luogo dell’appuntamento, nei pressi di un laghetto. Due vecchie signore, avvolte in pesanti giacche, ci osservano di sottecchi. Hanno i capelli bianchi e la faccia tonda. Mi fanno venire in mente certe vecchie pubblicità di detersivi e merendine.
«Merlino, quella sembra la Cooman » bisbiglia perplesso Harry.
Non so chi sia questa Cooman, mai sentita nominare.
Ci avviciniamo, presentandoci come gli inviati dell’Ufficio Rapporti col Pubblico.
«La signora… Cartman e la signora Miller, dico bene?» domando incerta.
«Emily Cartman e Stephany Miller, signorina» precisa una, stizzita.
«Mi perdoni, dall’Ufficio ci sono stati forniti solo i cognomi. Una deplorevole mancanza» mi scuso.
Ho già capito che sarà una lagna. Queste due hanno l’aria odiosa, tipica di certe donne vecchio stile. Mi ricordano mia nonna.
«Signore, volete dirci cos’è accaduto?»
«Per cosa vi mandano? Pubblica Sicurezza? Sanità?» s’informa sospettosa la Miller, aggiustando gli enormi occhiali sul naso.
«Siamo una equipe interministeriale» mente Philip, convincente. «Per certi interventi un Ministero solo non basta. Abbiamo il compito di fornire un miglior servizio al contribuente».
«Da quali Ministeri?» insiste l’occhialuta vecchina, i bulbi oculari delle dimensioni di due tinozze per via delle lenti.
«Sanità e Interni» spiega Harry. «Segnalazioni come la vostra sono prese in seria considerazione…»
«A chi vuol darla a bere, eh giovanotto?»
Lui ammutolisce, non sa più che dire. La Dippet (che potrebbe essere la sorella minore di quelle arpie) non spiccica parola. Persino Philip è interdetto.
«Voi siete qui per tenerci buone! Perché non andiamo in televisione a raccontare cosa avete fatto!»
«Noi?» chiedo perplessa indicandoci.
«Sì! Voi! Voi del Governo! Fate esperimenti segreti su di noi, senza dirci nulla! Diglielo! Diglielo Fanny!»
«Certo! Quelle cose che ci fate prescrivere dai medici non sono per guarirci! Il mio sciroppo per la tosse non me l’ha fatta passare, mi ha fatta restringere! Vede? Vede come mi sta larga la giacca? Sono esperimenti per modificarci geneticamente! E li date anche a quei barboni là e li riducete così, piccoli piccoli per nasconderli ai turisti e alle autorità! Poi ci saltano addosso dai cespugli, perché diventano matti! Il cervello si stringe troppo e non entra l’aria!»
Ci scambiamo un’occhiata tutti e quattro. Neppure Benevola trova il coraggio di ribattere. Queste due sono davvero le donne più assurde che abbiamo mai incontrato.
«E poi» riprende la Cartman imperterrita, «chi ce lo dice che voi non siete qui per ridurci peggio di quelli? Eh? Magari ci volete far diventare due dementi, di quelle che stanno a ciondolare in giro senza meta, che perdono la bava dalla bocca, che gli dicono che hanno l’Alzheimer! Ah, ma noi non ci facciamo prendere in giro, noi! Basta guardare che facce avete! Non c’è da fidarsi di quelli che fanno i vaghi, che fanno discorsi senza senso! Per me voi non siete di nessun Ministero, vi manda il Primo Ministro perché così dobbiamo stare zitte! Eh, ma quel buono a nulla…».
Improvvisamente sia lei che l’amica perdono tutta la grinta e sembrano stare in piedi appese ad un filo invisibile.
Spazientito dalla giaculatoria, Harry gli la lanciato un incantesimo. Non so quale, ma le mie orecchie ringraziano. Dovrebbe usarlo anche su Benny.
«Peggio di zio Vernon!» sbuffa, riponendo la bacchetta nella giacca. «Riesci a obliviarle anche così o devo liberarle?»
«Se ci provi, ti Crucio!» lo minaccia Phil. «E tu? Non dici niente?»
«Uh?» replica sommessa l’Auror.
«Paura di far la stessa fine?» la stuzzica.
«Io?!? Io-non-ho-proprio-paura-di-un-bel-niente-men-che-meno-di-uno-come-te-che-non-si-merita-l-onore-di-far-parte-di-una-istituzione-come…».
«Bene, tutto normale!» sospiro io. «Cerchiamo quei piccoli teppisti, così la facciamo finita».
Mentre Philip modifica i ricordi delle due insopportabili, ci spostiamo in cerca degli gnomi. Seguiamo la pista che gira intorno al laghetto, aguzzando la vista sulle sponde. Non si vede nulla, così, all’ansa nord, Benevola decide che non c’è miglior soluzione di affatturare le creaturine perché rivelino la loro presenza saltando in aria come pop-corn. Non riusciamo ad impedirglielo.
Ci guardiamo attorno terrorizzati. Io sono verde dallo spavento. Non so chi abbia potuto metterci una pezza, guardando dall’alto: in quel momento non passava nessuno.
«Benny! Ma ti sembrava il caso di… Yehoo! Lasciami!»
Uno gnomo piuttosto agguerrito ha addentato il polpaccio di Harry. É seguita l’offensiva di una ventina di altri omini, tutti delle dimensioni di statuette da giardino. Riuscire ad evitare di diventare il loro chewing gum è stata dura. Sono partiti incantesimi a raffica per bloccarli o renderli immuni. A nulla è valso che chiedessi  agli Auror di fermarsi.
Dopo dieci minuti, un folto gruppo di gnomi era impastoiato ai nostri piedi.
«E adesso che faccio?» protesto. «Non mi daranno mai retta dopo questo!»
Benny attacca con una delle sue paternali sul perché io non dovrei essere lì, che gente come me dovrebbe starsene dietro una scrivania, e via discorrendo. Inviperita, le do le spalle e mi inginocchio di fronte a quello che sembra essere il capo banda.
Faccio un profondo respiro, escludendo la voce stridula della strega dalla mia mente e ripasso le presentazioni. Sono fondamentali. Almeno, è quanto ha detto il dottor Scamandro alla conferenza di Linguistica Magica due mesi fa.
Parlare gnomico non è una questione di vocabolario o grammatica. In effetti non esistono corsi specifici. Gli gnomi percepiscono i pensieri. Gli squittii sono solo un accompagnamento. Quindi, la cosa importante è pensare in maniera molto chiara.
«Vi domando scusa per questa buffonata. I miei compagni hanno usato la mano pesante» inizio, augurandomi che comprendano quanto sono dispiaciuta.
«Mano pesante? Vorrai scherzare, razza di fattucchiera buona a nulla!» tuona nella mia mente una voce esageratamente possente.
«Io non sono una strega. Sono Babbana. Mi chiamo Jill» penso, allungando un dito verso di lui.
Lo gnomo mi squadra sospettoso prima di rispondere al saluto. Un altro cerca di dargli di gomito. Parlottano. Altri si uniscono. Nella testa li sento bisbigliare che mi hanno sentita gridare agli altri di fermarsi, peggio di quelli là non posso essere.
La discussione dura almeno tre quarti d’ora. Non hanno la minima intenzione di andarsene da lì: hanno scelto quei cespugli come nuova casa dopo che quelli che occupavano in precedenza sono stati sradicati dai giardinieri comunali. Per fortuna, quando faccio notare loro che le nuove abitazioni sono degli arbusti stagionali prossimi ad essere rimossi, decidono che, forse, la proposta del Ministero può essere ascoltata.
«Allora?» domanda Harry, quando mi alzo da terra.
«Andranno a stare in quel terreno dietro la chiesa di Godric’s Hollow. Se li liberate, partiranno subito».
Tanto per cambiare, la Dippet non è d’accordo. Strepita come una forsennata che bisognerebbe farli sparire per sempre quei mostriciattoli, così non dovremmo aggiustare tutti i loro guai. Un secondo dopo gli gnomi si spargono per il prato, uno ha la forza di spiccare un salto e farle una linguaccia orrenda.
«Grazie!» esclamo mentalmente fra le loro urla di battaglia.
«Possiamo rientrare? Comincio ad aver fame» chiede Philip, che intanto ci ha raggiunti.
Si tiene un dito in bocca.
«Che t’è successo?»
«La mia versione degli eventi è stata talmente realistica, che c’era davvero un gatto nevrotico nei cespugli!» e mi mostra un brutto graffio sull’indice sinistro.
Frugo nella tasca della borsa e ne tiro fuori un cerotto, che avvolgo subito sulla ferita. Lo guarda divertito. È azzurro, punteggiato di carote e coniglietti bianchi. Lo appoggia tra camicia e maglione, orgoglioso.
«Ditemi un po’, quanti possono vantarsi di avere una medicazione in tinta con i vestiti?»
«Il bello di avere per fratello un esperto di puericultura» spiego.
«Pediatra?» s’informa Harry speranzoso.
Pare che il primo figlio, James, sia una peste bubbonica, ed ha solo un anno. Ed è in arrivo il secondo. Ha tutto il diritto di essere scoraggiato.
«No. Ha un negozio di articoli per l’infanzia a Ashford».
«Ah. Peccato… Cioè, bene per lui! Peccato per me… Sentite, noi rientriamo subito, così teniamo d’occhio se arrivano segnalazioni dell’arrivo gli gnomi a Godric’s Hollow. Voi riportate la macchina».
Io e Philip torniamo a Iveagh Close per recuperare la BMW.
Resto inchiodata a pochi passi dal mezzo. Quella è l’auto con cui siamo arrivati? Sembra un’auto presidenziale da tanto è grossa!
«Non sapevo che avessimo macchine simili…»
«Non ti piace?»
«Eh? Sì, mi piace, mi piace! Solo… Da quando il Ministero…?»
«Non esci spesso, eh? Questa avrà un anno».
Vero. Di solito non me ne vado a spasso per l’Inghilterra coi maghi, per ottimi motivi.
«Sai, c’è uno al Ministero, un Natobabbano, che è figlio del proprietario di una concessionaria su a Rochdale. Quando ha saputo con che macchine giravano quelli del Ministero, si è prodigato a farne avere di nuove».
«Bravissima persona! Mi piacerebbe conoscerlo» dico salendo in macchina.
Allacciamo le cinture, ma Phil non avvia il motore.
«Il padre o il figlio?» fa lui pensieroso.
«Magari tutti e due» scherzo.
«Beh, tanto piacere allora! Io sono il figlio!» e allunga la mano.
«Tu?» chiedo stringendogliela.
Non ci credo. Mi sta prendendo in giro.
«Esatto! Dai, vada la Smaterializzazione e le scope, ma vuoi mettere andare in giro con una di queste?»
Non ha tutti i torti. Carrozzeria blu scuro metallizzata, cromature, interni in pelle chiara e radica, full optional. Questa berlina è favolosa e deve costare un capitale. È sprecata in mano ai maghi.
Philip mi racconta che è praticamente cresciuto in mezzo alle auto. Ed è nella concessionaria del padre che ha scoperto di poter usare la magia, quando sotto gli occhi del genitore ha rimesso in sesto un finestrino, sbriciolato da un maldestro impiegato. Ecco spiegato perché al volante ci sa fare.
«Tu, invece?»
«Io sono Babbana» mi giustifico, quasi fosse una colpa.
«Lo so. Dico, come ci hai scoperti? Sei stata vittima di qualche squinternato durante la guerra?» chiede, stranamente serio.
Deduco che per lui, gli squinternati devono essere i Mangiamorte e compagnia bella. Una manica di delinquenti razzisti e senza cervello, se ben ricordo.
«Veramente mi ha chiamata il Ministero, appena cessate le ostilità. Mi hanno scelta tra “diverse e selezionatissime figure, spiccatamente ricettive, del mondo Babbano”. Almeno, questa era la loro versione».
«Chissà che colpo t’è preso!»    
«Ti dico solo che il mio film preferito è sempre stato “La storia Infinita”».
Lui fa una smorfia divertita, svoltando in Essex Road.
«Ah, quindi nessuno spavento o scene isteriche… Bellissimo film, comunque. Hai letto il libro?»
«Ho dovuto ricomprarlo. La prima copia l’ho distrutta» ammetto.
Cominciamo a parlare di cinema e libri. La strada fila via veloce e in un baleno siamo a pochi passi dal Ministero.
Dallo stereo, la voce di George Michael canta “Fast Love”, filtrando in strada dai vetri abbassati:

So why don’t we make a little room in my BMW babe?
Searching for some peace of mind
I help you find it*

«Che dici, faccio andare in tilt tutti i semafori e ce ne stiamo qui a chiacchierare? Non ho voglia di tornare al lavoro» propone.
Dopo quello che ha cantato George Michael? Vorrebbe chiacchierare? Solo chiacchierare?
«Ti do la mia benedizione!»
A quelle parole però, vengo afferrata e qualcosa tenta di trascinarmi fuori dell’abitacolo con una forza spaventosa. Ad impedirmi di essere risucchiata fuori, solo due cose: la cintura di sicurezza e le mani di Philip strette sulle mie.


*  Allora perchè non ci prepariamo un bel posticino
nella mia BMW, tesoro?
Cercando un po' di tranquillità.
Ti aiuterò io a trovarla


Cosa posso dire, dopo queste prime pagine? Innanzitutto un grazie a chi sta leggendo questa fan fiction. E un grazie anticipato a chi vorrà farmi avere il suo parere! Buona continuazione!
Per Rodelinda: non mi aspettavo una tua recensione tanto presto! Mi ha fatto un immenso piacere la tua analisi del primo capitolo. In effetti, Jillian vede i maghi ed il loro mondo da una prospettiva diversa. Una prospettiva piena di stupore sia in senso negativo che positivo. 

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Capitolo 3
*** Dalle 13:00 alle 14:30 ***


Dalle 13 alle 14:30 Finalmente, con uno strattone, Philip mi libera e finisco contro la sua spalla ansimando.
«Stai bene, Jillian?» mi domanda, un po’ preoccupato.
Tossisco annuendo, passandomi la mano sulla gola mentre lui slaccia la cintura di sicurezza. Da quanto tempo non mi sento chiamare per nome?
«No, dico? Parlare costa troppa fatica? Bisogna fare per forza la Seppia del Lago Nero?» sbotta, prendendosela col mio aggressore.
«Ma signore! Io voleva solo prendere la signorina Jill signore! Lei è in ritardo per il Paiolo Magico signore! E comunque non è una seppia quella del Lago di Hogwarts» piagnucola una voce familiare.
«No, hai ragione, è un calamaro!»
Sta ricominciando a ridere, allora la cosa non è così grave.
Mi volto. Un’enorme testa di elfo domestico, col naso dritto quanto una strada di montagna e due occhi grandi come di pompelmi, mi fissano. Le orecchie gigantesche quasi non entrano nell’abitacolo e dal loro interno vedo spuntare dei ciuffi di peli rosa bubblegum. Senza volerlo, scrollo le spalle, appoggiando la fronte contro il petto di Philip. Fingo di non essermene accorta, ma sono arrossita.
«Signorina Jill signorina, io lo so che lei preferisce star qui a limonare con il signor Obliviatore signore -e io la lascerebbe pure fare, che è sicuramente più divertente che andare a mangiare-, ma lei ha promesso!»
Bene, ora so per certo di non volermi più schiodare dal corpo di Philip.
«Certo che preferisce star qui, piuttosto che andare in giro con una bruttona come te!» e mi stringe.
Per un attimo, l’idea di mandare a monte il pranzo diventa molto concreta. Poi penso ad Hermione, che ha impiegato mesi a far coincidere gli impegni di tutta la compagnia. Non posso farle questo. E non posso neppure tirarla tanto per le lunghe: con quel pancione non può stare in piedi per troppo tempo. A malincuore, mi allontano da Philip.
«Uffa, Tonks, sei insopportabile! Ha ragione Remus, quando dice che se qualcuno trova qualcosa di divertente da fare, tu ti metti in mezzo!» protesto.
Tonks ritorna ai suoi soliti connotati e si volta verso il marciapiede, dando una memorabile testata al tetto dell’auto.
«Cos’hai detto in giro tu, Spelacchiotto
Non riesco a sentire la risposta, un’altra voce al mio orecchio mi domanda di nuovo se sto bene.
«Sì, tutto bene. Almeno adesso respiro».
I suoi occhi si abbassano. Per un attimo ho l’impressione che guardi le mie labbra, invece mi accorgo che sta puntando la bacchetta verso il mio collo.
«Ferma» ed un attimo dopo avverto un leggero formicolio. «Non ti potevo mandare in giro con quel graffio, o Tonks avrebbe raccontato a tutti che abbiamo fatto sesso selvaggio in mezzo alla strada!»
«Ti sarebbe dispiaciuto?» domando serissima, sperando di spiazzarlo.
Potrebbe essere la volta buona che si riesca ad andare oltre l’ascensore.
«Non mi piace vantarmi di cose inventate».
La sua voce è bassa e calma, quasi mi sembra di scorgervi una punta d’incertezza.
Fuori Remus e la moglie discutono così forte che fatico a sentire i miei pensieri.
«Meglio se vai. Il tuo capo sembra impaziente» osserva Philip, indicando fuori dell’auto.
«Chi? Ah, Hermione!»
Me ne stavo dimenticando! La poveretta è appoggiata al muro con l’aria di chi sta portando a spasso una palla di piombo da dieci tonnellate. Spalanco la portiera e faccio per saltare giù, ma resto ferma a metà. Mi volto. È un’idea assurda, però…
«Vieni a pranzo con noi?» propongo, incurante della prenotazione per otto persone.
Insomma, una in più non può essere una tragedia!
«Mi spiace, devo stendere il rapporto. Il mio capo non è un tipo così… malleabile. Sarà per un’altra volta».
Sembra davvero dispiaciuto. Scommetterei qualunque cosa che avrebbe voluto dirmi di sì.
«Magari senza elfi tra i piedi?» azzardo, strizzando l’occhio mentre scendo sul marciapiede.
«Senza elfi. A presto, Jillian».
«Ci vediamo, Philip».
L’auto riparte, diretta al garage. Da qui vedo l’insegna con l’indicazione “completo” appena sotto., cosa che non riguarda le nostre auto.
«Andiamo!» strilla Tonks afferrandomi per il braccio.
Ho giusto una frazione di secondo per capire che non mi sta trascinando in linea retta, ma in circolo. Non riesco a fermarla. La luce del mezzogiorno svanisce. Il caldo. Il rumore del traffico. La berlina blu che sta svoltando sulla rampa. Il muro di mattoni del Ministero. La cabina telefonica. Tutto affoga nel nero più cupo. Mi si tappano le orecchie. Mi manca l’aria.
Fa freddo. Un freddo strano. Lo sento dentro di me, ma non sulla pelle. Ecco, lo sapevo che sarebbe finita così. Trovo il ragazzo giusto e muoio prima di dirglielo. Perché non mi sono sbrigata prima? Sono quattro anni che conosco Philip!
«Jill?»
Qualcuno mi chiama, da un posto che potrebbe essere dall’altra parte di Londra o della galassia. Non riconosco la voce. So di avere gli occhi aperti, ne sono sicura, ma non vedo nulla. Cerco di muovermi, non so esattamente cosa sto facendo. Ogni parte di me è intorpidita. Poi, nel nero piatto e informe, inizia ad aprirsi un piccolo squarcio azzurro.
«Oh, il cielo!»
Sento la voce lontanissima, insieme ad un suono che somiglia a delle risate o dei sospiri. Qualcosa viene spinto a forza nella mia bocca.
«Forza, Jill, mastica. Andrà meglio!»
All’azzurro si mescola del grigio. Sottili fili ondeggianti. Comincio sentire qualcosa. Una sensazione amarognola e allo stesso tempo piacevole. Cioccolato?
Sbatto le palpebre. Capisco tutto. La voce, l’azzurro, il grigio, quel sapore… Remus, mio salvatore!
In capo a qualche minuto riesco a riprendermi. Sono in una stanzetta piccola e luminosa. Da fuori arriva ovattato il caos della città. Mi metto a sedere sul divanetto consunto, sostenuta da diverse paia di mani. Con noi ci sono altre persone. Alla mia destra c’è Hermione, decisamente sollevata. Dall’altra parte Remus, a cui regalerò una scorta almeno decennale di cioccolato e caramelle. Poi ci sono Harry, Ron con uno dei suoi fratelli, Luna Lovegood e, dietro tutti, Tonks che si rigira le dita.
«Come ti senti? Caramella?»
«Tieni giù quelle manacce da Jill! E lontane quelle Pasticche Vomitose!» ringhia Hermione al cognato.
Proprio non è il caso di sperimentare ora i rinomati prodotti Weasley.
«Ma cosa t’è successo?» mi domanda perplesso George.
«Nargilli. Possono essere molto fastidiosi per i Babbani».
Abbozzo una risatina, cercando di fermare la stanza che oscilla.
«No, Luna. Magari fossero Nargilli».
«Io…» inizia Tonks, con l’aria confusa e colpevole. «Non sapevo che le Smaterializzazioni facessero quest’effetto ai Babbani… Era la prima vola che ne Smaterializzo una. Dove ho sbagliato?»
«Non è questo il problema, Dora» risponde Remus, facendola avvicinare. «Jill è stata Smaterializzata almeno un altro paio di volte, non è così?»
Non faccio in tempo a rispondere che subito Tonks balza avanti strattonandomi.
«Non ti avrò mica Spaccata?!» urla, controllando gambe e braccia, preoccupatissima.
«No, no! Calmati!» tenta di fermarla Hermione.
«Forse è meglio dirglielo» borbotta distrattamente Ron.
«Dirmi cosa?»
Ha uno sguardo omicida e un paio di corna da diavolo le spuntano dalla fronte.
«Sono claustrofobica» rantolo.
«Claustro… Cioè non ti piacciono i  posti stretti? Ma che centra con la…»
Si zittisce di colpo, le mani premute sulla bocca. Ha capito. I capelli da rosa scolorano nel giallino, poi virano ad un verde acqua imbarazzato e riccio. Il passaggio nel Canale di Migrazione, per una come me, è a dir poco devastante. La prima volta che Hermione mi ha Smaterializzata sono rimasta priva di sensi per più di un’ora. Oggi è andata bene, abbiamo superato solo due isolati.
«No, alt. Perché nessuno me l’ha detto? Io non lo sapevo!»
«Se non avessi fatto saltare in aria tutte le ultime cinque agende che ti ho comprato, lo avresti letto, annotato subito sotto l’appuntamento di oggi» obbietta Remus, facendole una carezza. «Purtroppo non ne è sopravvissuta nessuna…» sospira affranto, come se parlasse di eroici caduti.
Recriminare su queste cose non serve a niente. Questo mio problema dovrebbe essere di dominio pubblico, ma c’è gente al Ministero (la Dippet, ad esempio) che la troverebbe un’ottima scusa per farmi cacciare e rintuzzare le vecchie polemiche col Ministro e le sue idee progressiste. Proprio non mi va di essere la pietra dello scandalo.
Qualcosa di caldo e piuttosto pesante frana sulle mie gambe. È la testa di Tonks, o quello che ne resta, visto che ora somiglia a quella di un coniglio con gli occhioni lucidi e lunghe orecchie a penzoloni, delle dimensioni del muso di un cavallo.
«Sembri tuo cugino Felpato…» ridacchia Remus, nascondendo la faccia con la mano. «Due ruffiani senza ritegno!»
«Dille che la perdoni, o non mangeremo più… Tom si sta innervosendo» s’intromette Harry, sbirciando fuori dalla porta.
Ormai più di uno stomaco ha cominciato a farsi sentire nella stanza.
«Okay, okay. Basta così, perdonata!»
Rialzandosi in piedi, Tonks inciampa in un’asse del pavimento dandomi un sonoro schiaffone con l’orecchio ancora ciondolante, rovescia la borsa di Hermione, precipita sul piede di Ron e dà una gomitata nello sterno a George. Si guarda intorno, innocente.
Mai visto un coniglio arrossire.
Una volta seduti a tavola, Tom sembra decisamente più tranquillo e comincia a portare i piatti.
Lo ammetto, la cucina dei maghi talvolta si rivela di difficile digestione. Mangiare della ghiaia sarebbe molto meno problematico. La prima volta che sono venuta qui, mi aspettavo di trovare nel piatto -e lo dico non senza un po’ d’imbarazzo- cose tipo “coda di drago arrosto”, “fegato di unicorno con purè”, “polpette di occhi di rana” e via dicendo. Ipotesi sostenuta da un elenco d’ingredienti per una pozione che mi era capitato tra le mani. In effetti, ho poi costatato che cose di quel genere si servono solo sui deschi delle nostre fiabe. Rimane il fatto che alcune portate della gastronomia magica siano piuttosto “importanti” e del tutto inadatte a chi deve digerire lavorando in ufficio. Oggi per fortuna andiamo sul classico, e dalla cucina emergono piatti di roast beef e patate arrosto, pasticcio d’agnello e piselli. In un attimo compaiono diverse bottiglie di Burrobirra, idromele e giusto un paio di acqua. Non fosse che una è destinata ad Hermione, verrei guardata dai presenti come una pazza, ma quel nettare un po’ viscido non è di mio gradimento. E l’alcol mi fa un brutto effetto, specie dopo una crisi.
Per i primi dieci minuti, si sente solo il rumore di coltelli e forchette. Siamo tutti troppo affamati per chiacchierare. Ron riempie il piatto in maniera così abbondante da meritarsi le occhiatacce della moglie, ma poco dopo la quantità di cibo è drasticamente ridotta. Deve avere una fame da lupi. E, a proposito di lupi, molta gente rimarrebbe sbigottita nel vedere con quanta grazia possa mangiare un licantropo. Remus saprebbe insegnare il galateo anche ai sassi. Accanto a me, Luna gusta con calma olimpica le portate. L’ho conosciuta un paio d’anni dopo aver cominciato a lavorare al Ministero. Era venuta per una conferenza sulle specie magiche in via d’estinzione, in veste di assistente del padre. Parlarono del Ricciocorno Schiattoso, me lo ricordo ancora. È talmente strampalata per i maghi, da essere un tipo perfettamente normale per me. Abbiamo fatto subito amicizia e ci scriviamo spesso. È grazie a lei che ho imparato a parlare gnomico e un paio d’altre lingue magiche. All’improvviso, noto una novità nel suo look.
«Caspita Luna, che bel diadema!»
Sembra un ramo di edera a cui sono appesi dei frutti oblunghi di un bel viola acceso, intervallati da schegge di ambra e squame bianche di qualche animale imprecisato.
«Oh, questo?»
«Davvero carino. Un altro Diadema di Corvonero?» scherza George.
«Non questa volta» sospira. «Me l’ha regalato Rolf».
«Rolf chi?» chiede Harry, allungandosi verso un’altra Burrobirra.
Io conosco una sola persona che abbia a che fare con Luna e che porti quel nome. Possibile?
«Scamandro?»
«Sì».
«E come mai? Mi avevi detto che non è un tipo da regali».
«Beh, quando ti sposi dovrai pur fare un regalo a tua moglie» risponde semplicemente, interessandosi alla fetta di roast beef che non vuol farsi accalappiare dai rebbi della forchetta.
Metà dei presenti sputa nel bicchiere quello che stava bevendo, l’altra metà lascia precipitare sul tavolo le posate.
«Hai… sposato il professor Scamandro?» domando incredula.
Annuisce, nel silenzio di tomba. Sembra che persino dagli altri tavoli ascoltino col fiato sospeso. Solo lei sembra non farci caso.
«Quando?» m’informo cautamente.
Con Luna c’è da aspettarsi di tutto, con il professore è pure peggio.
«L’altro ieri».
C’è l’eco nella sala. Tutti sono allibiti. Tutti tranne me, che l’abbraccio entusiasta.
«Congratulazioni, Luna! Che bella notizia!»
Certo, hanno dodici anni di differenza, ma sono due personaggi talmente bizzarri che questa loro distanza passa in secondo piano.
«Ma non ci hai detto niente…» mormora Ron offeso.
Eccetto Remus e sua moglie, tutti gli altri hanno frequentato Hogwarts insieme.
«Lo abbiamo deciso martedì sera, così al mattino abbiamo fatto tutto».
«Ma… perché?»
La domanda di Harry è quantomeno idiota, ma dalla sua faccia capisco che la cosa lo ha letteralmente tramortito. Lui ha impiegato quasi due anni a pianificare il suo matrimonio, il tempo di una notte deve sembrargli troppo breve. Fulmineo.
Per un po’ le domande piovono casualmente, a distanza di minuti, dandoci il tempo di finire il pranzo. Arrivati al dolce, però, tutti si rianimano e i discorsi s’infittiscono. Chi parla di quidditch, chi dei programmi del week-end, chi del matrimonio di Luna, chi dei bambini in arrivo a casa Weasley e Potter.
Nessuno parla di lavoro, è la regola di questi pranzi: dentro il Paiolo Magico, le nostre attività non ci devono seguire.
«E così» fa d’un tratto Tonks, scuotendomi per un gomito, «te la spassi con quel Cross…»
«Non me la spasso affatto con Philip!» rispondo, un po’ troppo sulla difensiva.
«Oh, sai anche il suo nome! Che dolce!» pigola. «Andiamo, si vede dalla Torre di Astronomia che ti piace».
«E allora?»
Mi preoccupa la sua faccia, troppo ammiccante. Mi sta mettendo in difficoltà. Solo Hermione sa del mio interesse per Philip e si è ben guardata dall’andare a raccontarlo a tutti. Invece ora ci sono sette paia d’orecchi non invitati che stanno ascoltando le congetture di Tonks riguardo i miei rapporti con l’Obliviatore. Vorrei sprofondare. O diventare trasparente.
«Qual è la tua prossima mossa?»
«Eh?»
«Sì! Dopo esserti fiondata tra le sue forti braccia per sfuggirmi, avrai pure un’altra mossa in programma!»
«Io non mi sono…»
«Sì, sì, come no. Ha fatto tutto lui! “Oh, vieni Jill, ti salvo io da questa splendida e bravissima Metamorfomagus”» e si stringe nelle braccia, mimando la scena che ha visto in macchina. «Però, se posso darti un consiglio…»
«Dora, credo che Jill possa farcela da sola, se è davvero intenzionata a farsi avanti con quel ragazzo» interviene Remus, fingendosi interessato al suo riflesso in un cucchiaino.
«Zitto, tu! Che se fosse stato per te, starei facendo i funghi a casa mia, sola e senza figli! E molto, molto annoiata…» rimbrotta maliziosa. «Dunque, dicevo. Potresti prendere una scusa, scendere al suo ufficio e cadergli di nuovo addosso, cercando di prende meglio la mira questa volta. Una volta sul pavimento il gioco è fatto. Devi solo star attenta a chiudere prima la porta. Ah, e a non buttarti con troppa foga o rischi di romperti un dente!»
«Mi ricorda qualcosa» s’intromette di nuovo Remus, passandosi un dito sulle labbra.
«Sì, lo so. Era il mio piano di battaglia numero uno, ma con te mi è toccato arrivare fino al nove prima che cedessi! Faceva il prezioso, il mio Pelucco!» sorride, scompigliandogli i capelli.
«Non chiamarmi Pelucco!» protesta imbarazzato il marito.
«Pelucco! Pelucco
«Ni-ni-ni-ni-ni…» canticchia lui, a voce alta.
Tutti sghignazzano. Tonks odia essere chiamata per nome. Eppure trovo che Ninfadora sia molto originale, perché vergognarsene?
«Non ti azzardare!» e, all’occhiata eloquente del mannaro, cambia tono. «Okay, tesoro. Ma Jill ha bisogno di una mano, è evidente che con l’altro sesso non ci sa proprio fare».
Sgrano gli occhi. Va bene, ho avuto solo un paio di storie di poco conto, ma darmi dell’impedita è un po’ eccessivo. Meglio passare all’attacco.
«Dora, tu quanti ragazzi hai avuto prima di incontrare Lupin?» le chiedo, aggiustandomi gli occhiali con una mossa da ispettore di polizia durante l’interrogatorio.
«Ah, ecco io… Sì, direi cinque o sei» replica tranquilla.
«Quanti seri? Ufficiali? Effettivamente significativi?»
«Q-questo non conta» e già la voce vacilla.
Nessuno le porge un appiglio. Stanno aspettando di capire come ne verrà fuori. Sanno che quando mi ci metto posso spillare informazioni anche ai troll.
«Quanti?» insisto, minacciandola col coltello sporco di salsa.
«Oh! Il dolce!» cinguetta, artigliando una ciotola, incurante della temperatura della porcellana, che viene istantaneamente sganciata tipo ordigno nucleare su Hiroshima.
Salvata da un provvidenziale crumble che, inspiegabilmente, non è esploso in mille pezzi a contatto col tavolo. Non ho visto se qualcuno ha usato la bacchetta per evitare lo scempio. Meglio così, sarei stata nel raggio d’azione dei frammenti.
«Oh, ma è ai lamponi!» protesta, dopo aver affondato il cucchiaio nella pasta croccante, sbriciolando ovunque. «Tom, io lo volevo alle pesche!»
L’oste non risponde, inghiottito dalla porta della cucina. Lui decide il menù e sistema la sala, tu mangi e paghi. Non si accettano reclami al Paiolo.
«Non ne hai mangiate abbastanza quest’estate? Ti verrà la pelle a buccia di pesca!» ridacchia Ron, dando di gomito al fratello.
«Appunto, è bellissima, no?» ribatte, facendo una smorfia.
«Bella? La pelle a buccia di pesca noce è bella: è liscia, lucida… A buccia di pesca è orrenda, è pelosa! Oh, ma forse hai un motivo per volerla così…» osserva George, impassibile.
È davvero il re degli scherzi. La donna ammutolisce un secondo, poi gli tira un pezzo di pastafrolla, mancandolo e colpendo in pieno Harry sugli occhiali. Tutti scoppiano a ridere.
Lo sketch è già di per sé molto buffo, immaginarselo poi con Tonks che si ricopre istantaneamente di una sottile lanugine è persino peggio. Abbiamo il mal di stomaco e le lacrime agli occhi dal troppo ridere.
«Basta, basta! Voi due insieme non venite più!» ride Hermione, entrambe le mani sul pancione ed un’espressione strana sul viso.
Ron si precipita, scavalcando letteralmente l’amico del cuore. La prende tra le braccia, cominciando tempestarla di domande ansiose.
«Tutto bene? Rose si agita? Ti fa male qualcosa? Vuoi uscire a prendere aria?»
«No, Ron, no! Ma ridere sta cominciando a diventare difficile… Credo di avere i suoi piedi proprio sotto lo stomaco».
Lo sguardo del futuro padre illumina di colpo, balza in piedi e annuncia estasiato ai commensali:
«Avete sentito? Mia figlia ha i piedi!»
Per un attimo lo fissiamo allibiti. Mi fa una gran tenerezza. È talmente felice all’idea di diventare padre che non capisce più niente.
«Oh, Ron! Che splendida notizia!» sospira Luna beata, ma un attimo dopo stiamo ridendo come pazzi un’altra volta.


Grazie a chi sta seguendo questa fiction.
Per fri rapace: beh, grazie! Speriamo che altri vogliano farmi sapere come vedono i personaggio che si muovono nel mondo di Jill!


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Capitolo 4
*** Dalle 14:30 alle 17:30 ***


Dalle 14:30 alle 17:30
Ci salutiamo nell’atrio del Ministero. È tutto un gran vociare, darsi pacche sulle spalle, fare gesti idioti. George scompare in un camino, non prima di aver gettato qualcosa nella fontana. Tutto sembra tranquillo, e stiamo per allontanarci, quando un gorgoglio dice chiaramente che qualcosa non va: l’acqua scorre al contrario e dalla vasca ritorna agli ugelli, che chiaramente non riesce più a centrare correttamente, finendo sul pavimento.
«Manutenzione!» strilla Harry, scuotendo la testa.
«Non provare mai più a convincermi ad invitare tuo fratello a questi pranzi!» brontola Hermione.
«Ma che colpa ne ho, se si porta dietro quelle robe? Io neanche lo sapevo!» risponde il marito, grattandosi la testa abbattuto.
Proprio non c’è verso di tener buono quel clown patentato.
«Ron? Stiamo parlando di George! Quello che ha mandato in infermeria mezzo Grifondoro con le Merendine Marinare
«Non era solo».
I volti cambiano. Poco tempo fa ho scoperto che il gemello di George, Fred, è morto nella battaglia di Hogwarts. Erano inseparabili e creavano divertissement con la stessa tranquillità con cui le persone normali leggono un’insegna pubblicitaria. Avevano mollato la scuola per aprire un negozio di scherzi e, dopo la guerra, George ha continuato l’attività aiutato da un amico, Lee Jordan. Dicono che ora George faccia tutte le cose moltiplicate per due, per non far sentire l’assenza di Fred. Infatti ha avuto due gemelli qualche anno fa. Il maschio porta il nome dello zio scomparso.
Certe volte mi stupisce il tasso di natalità dei maghi. Sono prolifici come cavallucci marini.
«Deve imparare che qui, queste cose, non si portano!» insiste il mio capo.
«Ti conviene dirlo ad Angelina, allora. Non deve averlo perquisito a dovere stamattina» risponde Ron, incrociando le braccia in un’imitazione della cognata.
Intanto sul pavimento è comparsa una scritta liquida: “GorgoSpruzzoli”, l’ultima trovata della Tiri Vispi Weasley per far ammattire le mamme che obbligano i figli alla tortura cinese del bagno.
All’arrivo degli addetti, ci dirigiamo ognuno al proprio ufficio. Luna passerà più tardi, prima deve andare all’Ufficio Approvazione Strumenti Magici.
Saliamo in ascensore, tutti e quattro. Un momento. C’è una persona di troppo.
«Non dovresti andare anche tu?» chiedo.
«Turno di notte, pomeriggio libero» replica Tonks sbadigliando. «Lupetto, posso…»
«E Ted?» domanda Remus accigliato.
«Ci pensa mia madre. Merenda e compiti. Se finisce presto può andare a giocare».
«Ah, Andromeda, se non ci fossi tu!» sospira lui, sollevato.
Ted ha otto anni e, per quanto sia molto indipendente, sempre bambino rimane.
«Allora, posso?» ripete, strusciando uno scarpone logoro sui pantaloni perfettamente stirati.
«Ma sì, Dora, oggi non ho visite. Puoi dormire sul divano».
«Dormire sul divano? Io pensavo alla tua scrivania» dice, appoggiandosi alla sua spalla e facendomi l’occhiolino.
Mi sta mostrando il suo armamentario di approcci conturbanti, come ha minacciato uscendo dal Paiolo Magico. Insite a ritenermi digiuna di rapporti con l’altro sesso. A nulla è servito tentare di farla desistere lungo il tragitto di ritorno, fatto rigorosamente a piedi.
«Temo la troveresti un po’… Dora!» esclama, intuendo all’ultimo secondo il doppio senso. «Mi farai morire, prima o poi».
«Oh, ma tu sei un vecchio e pericoloso mannaro, non dovrebbe mancarti molto, vero?» lo stuzzica.
«Sapevo che i licantropi hanno una vita piuttosto lunga. O sbaglio?» mi intrometto, schivando un promemoria interpiano che vola a quota eccessivamente bassa.
«Non è la sola cosa che hanno…»
«Ninfadora!»
È arrossito in maniera preoccupante e l’azzurro delle iridi sembra più intenso. Vira quasi al verde.
«Okay, okay… però ci siamo capite, eh Jill?»
Un ringhio la richiama all’ordine. Sta arrivando al limite e la luna piena c’è stata da pochi giorni. Remus è ancora un pochino suscettibile.
Quando le porte si aprono sferragliando scorgiamo una figura, immobile davanti alla nostra porta.
«Oh, no. Ci mancava il Principe del Foro!» sbuffa Hermione.
«Chi?» domanda Tonks, incuriosita.
Evidentemente non ha spesso a che fare con certi personaggi.
«Blaise Zabini, l’avvocato di quella piaga di tuo cugino» bisbiglia irritata.
«Cugino? Ah! Lo strizzapuffole? Ma dai…»
Tonks ha sempre dei modi di dire piuttosto buffi, che usa per nascondere delle definizioni molto poco cordiali. “Strizzapuffole” sta per “rompicoglioni”. E suo cugino e il suo avvocato sono due autentici strizzapuffole.
«Zabini» salutiamo distaccate.
«Granger. Signorina».
Ecco, lui è un altro stile Dippet, che preferirebbe Babbani e Mezzosangue fuori dal Ministero. Non mi ha mai chiamata per nome, cognome o con qualsiasi appellativo che non fosse quel suo stizzoso “signorina”. Una volta l’ho visto in compagna del suo assistito: un manico di scopa coi capelli stinti. Il loro disprezzo mi aveva fatto venir voglia di prenderli per il collo e passargli la faccia su una grattugia da formaggio. È stato solo un attimo. Non ne vale la pena, quando ti trovi ad avere il coltello dalla parte del manico. Tutte le cause intentate da questo Malfoy sono tornate al mittente con un bel timbro rosso fuoco a sottolineare il più ferreo diniego. Il diniego di due persone che detesta e contro cui non ha armi.
Entriamo in ufficio mentre i coniugi Lupin si allontanano verso un’altra porta.
Andiamo nella stanza di Hermione. La sua faccia non fa presagire nulla di buono. Un grosso sbalzo ormonale incombe all’orizzonte.
«Cosa c’è questa volta?»
Dal suo tono si capisce perfettamente che è tutt’altro che ben disposta nei suoi confronti.
Zabini apre con lentezza la borsa, e fruga tra le pergamene.
«Non sarei qui se il motivo non fosse…»
«Poche storie. Cosa vuole?»
Ci siamo. La versione dolce e pacata di questa mattina ha lasciato il posto a quella battagliera e arcigna. Ho quasi pena di Zabini. C’è gente che rifiuta di mettere piede da noi per timore di essere aggredita verbalmente dalla signora Granger in Weasley. Forse torneranno, una volta che avrà partorito.
Qualcosa mi distrae. Il quadro del professor Silente, alla mia destra. Volto appena la testa e vedo il vecchio preside farmi un cenno. Me lo ripete un paio di volte, per esser sicuro che abbia capito. Seguo la direttiva e, mentre sta montando la tempesta di Grifondoro, intervengo.
«Avvocato, sta bene? Gradisce qualcosa da bere?»
Ha una faccia orribile. Pur essendo di colore, e di carnagione davvero scura, riesco a scorgere delle inquietanti ombre sotto i suoi occhi. Ha pure delle borse spaventose e la sclera è arrossata. E che dire delle labbra screpolate? Sembra una prugna secca. Ci sono una miriade di piccoli dettagli in lui che denotano qualche problema.
«Oh? Ecco, sì, grazie… se non è troppo disturbo… signorina».
Non è un grande passo avanti, almeno ha detto grazie. Cosa che ora non mi direbbe Hermione, che mi guarda in cagnesco, nemmeno le avessi fatto il peggior torto del mondo. Fraternizzare col nemico, che insulto!
Un bicchier d’acqua è sufficiente a stabilire una tregua.
«Il mio assistito ha un problema con i Vermicoli» spiega impacciato.
«Strano, sono così simili!» esclama la futura madre, attuale isterica.
«Granger, non mi pare il caso» cerca di calmarla, inutilmente.
«Ah, no? Sai che ti dico…»
«Che problema ci sarebbe, scusi? Sono troppi?»
Si gira. Ho quasi il sospetto che oggi sia contento della mia presenza. Meglio non illudersi, non cambierà idea su di me con tanta facilità.
«A dire il vero… il problema non sono i Vermicoli. A Villa Malfoy non ce ne sono».
«Ce n’è uno solo! E bello grosso!» tuona Hermione.
«Dottore, mi scusi, temo non abbia chiarito la situazione. Questi Vermicoli ci sono, sì o no?»
«No. Ma il mio cliente insiste a dire il contrario» sospira distrutto. «Il giardino è pieno di buche, è evidente che si tratta di talpe, ma non mi ascolta! Non so più come convincerlo del contrario. Siete la mia ultima speranza» e copre il viso tra le mani per nascondere uno sbadiglio.
Possibile che abbia perso il sonno per questa sciocchezza?
«Bene, dammi la sua stupidissima richiesta, così posso rigettarla immediatamente!»
Zabini è curvo in avanti, suppongo immagini le ire di Malfoy al suo rientro. Ed Hermione sta davvero dando i numeri.
Sbircio tra i documenti dell’avvocato. Vedo una fotografia e un ciuccio azzurro. Ho un’illuminazione. Zabini non è sposato, la foto lo ritrae con quel biondo ed un vivace neonato.
«Come sta il bambino?»
«Eh?»
«Il figlio del suo cliente» e indico la borsa. «È per lui che sta così?»
Dopo un attimo di perplessità, spinto probabilmente da una crisi di nervi, cede, annuisce e vuota il sacco.
«Sta bene, anzi, benissimo. Fin troppo bene! Scorpius è esageratamente attivo. È già finito tre volte al San Mungo per aver tentato l’impossibile per uno della sua età. Ha solo sei mesi…»
Sembra che qualcuno abbia spalancato la finestra. L’aria è cambiata all’improvviso.
La mia titolare si è trasformata in una donna tenera e comprensiva. Potere della maternità.
«Oh, Zabini! Perché non l’hai detto subito? Cielo! È terribile! Povero piccolo… ma tu che c’entri?»
«Praticamente vivo da Draco. Sono uno dei pochi amici che gli è rimasto e sono il padrino di Scorpius. Spesso sto alzato la notte a cercare di farlo dormire. Draco e Astoria non ce la fanno più, sono a pezzi. E poi lui se ne esce con queste scemenze!» e getta la pergamena sulla scrivania.
La esamino. Riconosco a stento la calligrafia. La porgo a Hermione che la legge a sua volta. Ci scambiamo lunghe occhiate, poi, la vedo prendere la penna. Non è la solita, quella d’aquila. È una penna diversa, più sottile, blu. Comincia a scrivere fitto fitto al termine della richiesta. Poi prende un biglietto e appunta qualcosa.
«Ecco. Avvisa il tuo caro socio che manderemo qualcuno ad occuparsi della cosa entro una settimana» e porge il documento.
«Delle talpe?» domanda incredulo.
«Sì, ma tu assecondalo. Non credo noterà differenza tra talpe e Vermicoli. Non ha mai amato Cura delle Creature Magiche».
«Già. Bene».
«Passa a Diagon Alley o dove preferisci, e prendi queste cose» aggiunge, allungando il biglietto. «È una pozione per il bambino. Non è un bene che sia iperattivo a quest’età. Lo aiuterà a calmarsi».
Zabini è senza parole. Legge e rilegge la lista di ingredienti e le poche note in calce.
«Guai a te se dici a Malfoy che te l’ho dato io» sottolinea, come se ce ne fosse bisogno.
Riprendendo improvvisamente la solita vuota e distaccata formalità, l’avvocato si alza e si congeda.
«Sei stata grande» esclamo.
«Anche tu. Come ti è venuto in mente di guardare nella borsa?»
Indico il quadro. Lei sorride riconoscente.
«Professor Silente, non so come ringraziarla!»
«Di nulla mia cara. Sai, ieri mi sono incontrato con Severus nei nostri quadri a Hogwarts, e mi raccontato dei problemi di Draco e della visita che vi avrebbe fatto Blaise. Ho solo dato una mano» risponde. «Se però volete proprio sdebitarvi, mi andrebbe qualcuno di quei deliziosi cioccolatini alla menta».
Sono la mia scorta anti-crisi depressiva personale, li tengo chiusi a chiave nell’ultimo cassetto della scrivania. É uno dei pochi a saperlo. Gliene abbiamo già passati un paio contro il parere di altri illustri ritratti, che reputano le richieste di Silente alquanto inappropriate.
Una volta presi, farli passare nel quadro è piuttosto semplice: li si preme sulla tela con la punta della bacchetta, finché non emettono il suono di una bolla di sapone che scoppia. È il segnale che sono diventati parte del quadro. Mi rimane il dubbio che, in quella mutazione, il loro vero sapore vada perduto per sempre, ma Silente insiste a dire che non è così.
Torniamo al lavoro, su quelle pratiche di poco conto, tutte scartoffie burocratiche e poca sostanza. Ogni tanto si sente il rumore della carta di un cioccolatino che viene aperto.
Nella cornice dietro di me, lo sciabordio delle onde prosegue placido sotto un cielo punteggiato di gabbiani. L’orologio all’angolo dello schermo segna le quattro. Tra un’ora e mezza inizierà ufficialmente il fine settimana.
Riprendo a digitare l’elenco di dati e nominativi della pratica Fox. Dovevo finirla ieri sera, accidenti a me. Sullo schermo ho aperti ben sei modelli di documenti diversi, nessuno dei quali più corto si dieci pagine: Dichiarazione di Tutela delle C.M.N.U. (Creature Magiche Non Umane), Iscrizione all’Albo di Tutela A.D.S. (Animali Domestici e Semidomestici), Certificato di Verifica Sanitaria, Domanda di accesso alla graduatorie di assegnazione Aree Protette, Convenzione e Regolamento di Attività di Allevamento e Addestramento, Autorizzazione Ministeriale all’attività di Allevamento C.M.N.U. e A.D.S.. E non sto tenendo conto delle relazioni generali e specialistiche, dei documenti personali del richiedente, della lista degli esemplari capostipiti con relativi pedigree, del progetto delle strutture per accoglierli,... persino le lettere con le proposte economiche dei fornitori di mangimi! Ma questo Fox, non aveva niente di meglio da fare che mettere in piedi un allevamento di Crup? E in pieno Cheshire? D’accordo, è una zona prettamente agricola, non ci sono grossi pericoli di essere scoperti, ma grazie a lui ho decimato intere greggi per avere abbastanza pergamena per questi incartamenti.
Finalmente arrivo in fondo alla pagina e digito l’invio alla stampante. Il nostro ufficio è l’unico che produce documentazione con mezzi Babbani. Modificati con appositi incantesimi, ma pur sempre Babbani. Non è ammesso comunque l’uso di normalissima carta, tutto su cartapecora filigranata dalle stamperie del Ministero. Può pure essere stata stregata per durare nei millenni, per quanto mi riguarda continuo a preferire le care, vecchie, candide risme di cellulosa -magari riciclata- alla pelle di un animale.
«Oh!» esclama una vocina eccitata dal corridoio. «Un Grattogocciolo
La porta si spalanca e Luna entra di volata, accovacciandosi ai piedi della mia scrivania, con gli occhi, se possibile, ancor più sporgenti del solito.
Non mi spiegherò mai come sia possibile che dei maghi, che hanno la facoltà di viaggiare per il mondo e vedere cose a noi precluse, prendano per esseri mitologici (o irreali, dipende) quei pochi oggetti non magici di cui la sottoscritta si è dotata per svolgere al meglio il proprio lavoro.
«No, Luna. Si chiama stampante. E non è viva. A meno che non ci abbia rimesso le mani Arthur a mia insaputa…» commento, chinandomi ad osservare il cassetto della carta.
No, sembra tutto perfettamente normale. Niente occhi, zanne, zampe, squame… È solo una banalissima stampante che funziona senza elettricità.
«Ma quanti ne hai qui dentro?» chiede, picchiettando con un dito sulla scocca di plastica.
«Di cosa?»
Ovviamente non è stata a sentire.
«Di Grattogoccioli! Di solito amano riunirsi in gruppi di dieci o venti esemplari nelle scatole di cartone o nei crepacci dei ghiacciai, per fare poi le loro danze sociali e lasciare questi segni…» e indica il foglio che ho appena finito di stampare.
«Ehm, no, Luna. Non ci sono Grattogoccioli qui dentro. È semplicemente una stampante a getto d’inchiostro».
«I Grattogoccioli emettono inchiostro» puntualizza lei, serissima. «Solo non sapevo potessero essere ammaestrati per fare queste cose! Stupefacente, non trovi?»
«Jeca bineca tonn» sospiro, indecisa se ridere o piangere.
È lepricano. Ho iniziato a studiarlo da pochi mesi. Significa “Voglio andare a casa”.
«Sei così stanca?» mi domanda Luna, assolutamente indifferente al mio sfoggio linguistico. «E comunque, si pronuncia “Jecca b’neca tönn”».
Dovevo immaginarlo. Cosa ti puoi aspettare dalla moglie del professor Scamandro, nonché giornalista ed amministratore delegato del Cavillo? Che non parli il lepricano? Andiamo! Può non sapere il francese o lo spagnolo -lingue che parlo piuttosto bene-, ma non il lepricano o lo gnomico! E deve anche correggermi, dopo le innumerevoli ore passate a torturare il lepricano che se ne stava mezzo anchilosato nell’acquario di Remus.
«Va bene, maestra! Jecca b’neca tönn» gemo alzando gli occhi. «È stata una giornataccia, fidati».
«Oh, anche per me. Pensa, non volevano rilasciarmi l’autorizzazione per questo» e indica la coroncina.
«Scusa, ma che autorizzazione ci vuole per un regalo?»
«Sai com’è fatto Rolf! Per lui una cosa deve avere un senso, un’utilità pratica».
«E quale utilità avrebbe?» fa una voce dall’altra stanza.
«Hermione! Come stai? Digerito bene? Mi dicono che la gravidanza può dare gli stessi sintomi di un morso di Doxy».
«Non so chi ti abbia detto una stupidaggine del genere, ma sto benissimo» risponde comparendo sulla soglia.
«Sì, dopo aver quasi fatto a fette Zabini stai una favola…» ridacchio da dietro la pratica Fox.
Le raccontiamo della visita dell’avvocato e lei contraccambia con le presunte potenzialità del dono. Dovrebbe rendere le persone più ricettive e, di conseguenza, più propense ad acquisire conoscenze direttamente dall’ambiente circostante. Il tutto, s’intende, per via osmotica o via etere.
«Eh, già! Come si può fare altrimenti, a farsi raccontare la storia dai mattoni di un muro?» sghignazza nervosa Hermione.
Conosce Luna da molti anni, ma le sue stramberie non mancano mai di farla dubitare della sua sanità mentale. Figuriamoci ora che, oltre alle sue e a quelle del padre, si sono aggiunte quelle di Rolf.
Chiacchieriamo a lungo, senza accorgerci del tempo che passa. Quasi non noto l’enorme pila di pergamene che si è ammonticchiata accanto al computer. Con un bip esausto, la stampante mi ricorda che sarebbe il caso di liberare il carrello.
Ancora estasiata dal suo incontro con il mezzo di riproduzione Babbano, Luna se ne va. Anche per me è quasi ora di andare a soffrire nella metropolitana. La cosa non  mi alletta, nonostante significhi oltrepassare la soglia che divide le giornate lavorative da quelle di riposo.
La pratica di quello dei Crup finisce nell’armadio, le altre nei cassetti, pronte per essere smistate con la posta di lunedì. Spengo stampante e portatile, riponendo il secondo nella borsa. Intaso il portapenne di ogni oggetto scrivente o macchiante. Tento di impilare alcuni promemoria arrivati nel pomeriggio, che si agitano e fremono mentre provo a ridar loro un assetto bidimensionale.
Qualcosa cade a terra con un suono lieve. Mi chino a raccoglierlo.
Una carta di caramella appallottolata.
Una caramella al latte.
Luke.
Lo sguardo corre alla sedia, ancora piazzata vicino alla mia. Rigiro quel piccolo scarto tra le dita. Mi sento in colpa. Non ho più pensato a quel bambino. Non ho nemmeno domandato ad Hermione come sia andato l’incontro. Una volta solo non si è sentito più in pericolo ed ha mangiato una delle caramelle, come gli avevo chiesto.
Avvilita, mi affaccio all’altro studio.
«Sto andando. Ci vediamo lunedì».
Nessuno risponde. Alzo la testa dall’incarto e la vedo fissarmi da dietro la tisaniera, a metà fra l’incuriosito e il dispiaciuto. La pratica Thompson è ancora lì, sul tavolo.
«Non è il primo, e purtroppo non sarà neanche l’ultimo. Lo sai».
«Sì. È che… è solo un bambino» sospiro, franando sulla sedia di fronte a lei, incurante dell’impatto a terra del computer.
Tolgo gli occhiali, massaggiandomi gli occhi e il naso.
«Riuscirà ad avere una vita normale, vedrai» cerca di rassicurarmi, sorseggiando l’infuso. «Non ci siamo battute tanto per l’integrazione dei mannari nella società civile, per vedere chiudere le porte in faccia ai Thompson. E poi c’è Remus».
Già, c’è Remus. Eppure sento che avrei potuto fare di più. Avrei voluto strappare almeno un sorriso o un saluto a Luke. Solo per sapere che aveva la forza di reagire.
«Era così triste. Non voleva restare solo, ma nemmeno voleva avere gente intorno. È ingiusto» obbietto. «I bambini non dovrebbero soffrire. Avranno tutto il tempo da adulti per diventare matti e dolersi per un miliardo di cose. Non dovrebbero cominciare a quell’età».
«É vero. Però su una cosa stai sbagliando, Jill».
«Su cosa?»
«Per Luke è un bene che sia accaduto ora».
Le sue parole mi lasciano di stucco.
«Non essere assurda».
Cerco di non alzare troppo la voce, anche se è ovvio che quella frase mi ha disturbata parecchio.
«Pensaci bene. È orribile quello che gli è capitato, ma ha tutto il tempo per accettarlo e superarlo. Ha l’elasticità mentale per farlo. Un adulto non potrebbe mai adattarsi a quella vita da un giorno all’altro. Impazzirebbe, nel migliore dei casi. Ne abbiamo visti tanti in questi anni».
Non riesco a ribattere, indignata e consapevole che è la verità. Ho letto i rapporti del San Mungo. Un licantropo ha maggiori probabilità d’integrazione se viene trasformato in una fascia d’età fra i sette e i ventidue anni, perché riesce ad riprendersi più rapidamente dai postumi delle lune piene e, col tempo e la nuova Pozione Antilupo, gli effetti di quelle notti possono diventare trascurabili. Questo, unito alla possibilità di frequentare normalmente Hogwarts, che ora dispone di un’infermeria con stanze dedicate a chi soffre di “mal di luna”, garantiscono ottime possibilità di condurre una vita normale. Gli adulti invece reagiscono male, faticano ad integrare il lato umano e quello animalesco. In molti casi fuggono, dandosi alla macchia. Altre volte diventano violenti, dei mostri sanguinari come il famigerato Greyback.
Scuoto la testa, cercando di allontanare quei pensieri.
«Comunque è inaccettabile» insisto ottusamente.
«Concordo» dice, tornando alla tisana. «Su, vai adesso. Hai un bel po’ di strada da fare».
«Okay. A lunedì».
Sto chiudendo la porta alle mie spalle, quando mi richiama.


Ehi, c'è nessuno? Mi piacerebbe sapere cosa ne pensate di questa fiction... ma continuate a leggere e tacere! Forza!

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Capitolo 5
*** Dalle 17:30 in poi ***


Dalle 17:30 in poi
Attraverso l’atrio soprappensiero. Sono da poco suonate le cinque e trenta del pomeriggio. Molti maghi si affollano ai camini della Metropolvere. Fiammate verdi riverberano sul soffitto blu e oro. La fontana ha ripreso a zampillare nel giusto verso e il pavimento è asciutto. Intravedo facce conosciute qua e là. Brevi saluti, talvolta solo un cenno. Mi infilo nella cabina, appoggiandomi con la schiena ad una delle pareti. Lo scossone finale arriva con quello che mi pare un largo anticipo. Stesso dicasi per lo sferragliare soffocante della metropolitana che svanisce alle mie spalle.
Dovrebbe essere trascorsa quasi un’ora da quando ho lasciato l’ufficio, non me ne sono resa conto. Ho la mente inchiodata su quell’ultima conversazione con Hermione. Mi sento infelice. È uno di quei momenti in cui la mente comincia a galoppare come un kelpie impazzito, e mi dico: se fossi una strega, darei il sangue pur di trovare un modo per guarire i mannari. Almeno quelli che non desiderano esserlo.
Se avessi una bacchetta.
Se sapessi usare la magia.
Involontariamente allungo una mano, imitando quei gesti che ho visto fare tante volte dai colleghi, rischiando di urtare i passanti intorno a me.
Oltre i vetri dell’autobus che mi porta a destinazione, i palazzi cambiano aspetto. Tutto si fa meno imponente, meno Londra turistica. Basse case e giardini prendono il posto dei palazzi storici e dei Docks.
Scendo e attraverso la strada. Sulla veranda accanto all’ingresso, i signori Higgins mi salutano cordialmente, come ogni sera. Sono i proprietari dello stabile, nonché maghi. Già, perché esistono palazzinari anche tra i maghi. Chi l’avrebbe mai detto? Io no di certo. Pensavo che maghi e streghe vivessero in castelli incantati con segrete traboccanti di topi e draghi e soffitte invase dai pipistrelli.
«Buona sera, Jill».
«Buona sera, Agnes. Samuel».
«’sera» risponde l’uomo, indaffarato a sfoltire un cespuglio di bosso a colpi di Tagliuzzanti.
«Sei un po’ in ritardo oggi» sorride lei, aggiustandosi il golfino sulle spalle.
«Sul serio?» e cerco l’orologio al polso, rendendomi conto solo in quel momento di non averlo indosso. «Non me ne sono accorta. Pensavo di essere addirittura in anticipo».
Mi sorride  indulgente. È una donna molto gentile e premurosa.
«Sembri stanca, mia cara. Qualcosa da bere? Un po’ di the magari?»
«Grazie, ma penso che una doccia mi farà bene. Ah, stasera ho gufi in arrivo» avverto, armeggiando con le chiavi del portoncino.
«A che ora?» s’informa sbrigativo il marito, intento ad esaminare la precisione della potatura.
«Credo entro le nove. Buona serata».
Mentre m’infilo nelle scale, la voce di Agnes mi avvisa che c’è posta per me. Raccolgo le tre lettere ed il giornale arrotolato posati su una mensola dell’ingresso, ficcando tutto in borsa senza guardare.
Quattro brevi rampe di gradini mi dividono dal mio appartamento. Vivo in un bilocale nell’attico. Posto eccezionale, per diversi motivi. Innanzitutto, ho una piccola terrazza da cui si gode la vista sul parco di quartiere, di cui fa parte un grosso centro sportivo. Secondo, basta alzare solo di poco lo sguardo per vedere il cielo. E poi, con dei maghi per vicini, non posso non godere di ottima compagna. E di riparazioni d’urgenza, come quella volta in cui il rubinetto della cucina ha deciso di allagarmi casa: la sera, al mio rientro, c’era una gigantesca bolla liquida che galleggiava a mezz’aria in mezzo al soggiorno. Opera di Alfred, o meglio Alfie, il vicino del piano di sotto, e di suo nipote Neville. Sam ci ha annaffiato il giardino per due giorni con tutta quell’acqua.
Appena entrata, riprendo il portatile e lo accendo, posandolo sul tavolino davanti al divano, poi spalanco la portafinestra del terrazzo, in attesa che arrivi il gufo di Hermione. Deve portarmi degli appunti per una pratica nuova, a nome di un imprecisato signor B.W.
Decido di non aspettare oltre e mi butto sotto la doccia. La speranza è che si porti via la stanchezza e l’amarezza che mi assillano. Non ricordo di aver notato nulla di particolare per strada, cosa che di solito succede sempre. A dire il vero ho realizzato di aver percorso l’intero tragitto solo quando ho sentito la voce della signora Higgins.
La radio in sottofondo passa un vecchio pezzo dei Pet Shop Boys, “Liberation”:

Take my hand,
Don't think of obligations
Now, right now,
Your love is liberation *

Liberation. Liberazione. Mi scappa un sospiro doloroso. Appoggio la fronte alle piastrelle mentre il getto bollente mi scorre sulla schiena. Sento le spalle di cemento, che mi spingono giù. Ron una volta mi ha detto che non è bene portarsi il lavoro a casa (sperava che convincendo me, anche Hermione avrebbe fatto altrettanto). Di solito seguo il suo consiglio e, una volta varcata la porta del Ministero, mi concentro su quel che accade fuori. Leggo libri, vado al cinema, viaggio, mi vedo con i colleghi con le identiche modalità del Paiolo Magico. Qualche volta incontro i miei vecchi amici di scuola, a cui ho raccontato di lavorare per un ufficio interministeriale, che ancora non ha né un nome preciso né una vera sede, ma ha dei capi intransigenti che non ammettono visite durante gli orari di lavoro.
Oggi però non mi riesce. Quella forma curva e minuscola, ripiegata su sé stessa, mi ricompare davanti ogni volta che le palpebre si abbassano. Ho nascosto nei jeans l’incarto della caramella, continuando a farla scorrere sui polpastrelli, cercando di non schiacciarla o appiattirla. Volevo farla restare esattamente come Luke me l’aveva lasciata.
Un brivido mi scuote. Scivolo in basso, fino a sedermi. L’acqua mi cade addosso come una pioggia leggera.
Luke ha mangiato la caramella.
Quella caramella che aveva rifiutato inizialmente.
Ha lasciato la carta sul tavolo, nonostante il cestino fosse proprio lì accanto, in bella vista.
Non poteva non averlo visto.
Ma allora…
Possibile…
Alzo la faccia, lascio che l’acqua ci cada sopra, ridisegnando le pieghe d’uno sciocco sorriso.
«Stupida» mi dico, allungando la mano a prendere il bagnoschiuma. «Jillian Taylor, sei ufficialmente la più grande stupida di tutto il Ministero della Magia!»
Ero così presa dal dolore che avevo letto sul volto di quel bambino, da ostinarmi a vedere in lui la vittima di un destino infame, e non riuscire a scorgere in quella pallina grinzosa il suo “grazie”. La reazione che avevo tentato di far scattare.
Nascondo il viso tra le mani, vergognandomi e provando allo stesso tempo un gran sollievo.
«Stupida! Stupida-stupida-stupida-stupida-stu-pi-da!» cantileno battendo i piedi sulla ceramica.
Per un po’ rimango lì, accoccolata nell’angolo, a bilanciare l’euforia di quella rivelazione e il dubbi che si tratti solo di una mia interpretazione per rendere meno dura la realtà. Penso e ripenso fino a stabilire che, sì, quella è inequivocabilmente una risposta. A chi e perché, non importa. Lunedì ne parlerò con Hermione o con Remus.
Alla fine decido che non è il caso di dilapidare le riserve idriche di Londra. Mi alzo e, finalmente, riesco a rilassarmi. In venti minuti termino di sprecare liquidi preziosi.
Abiterò pure in una casa di maghi, ma non esiste incantesimo abbastanza forte da rimediare agli sprechi globali. A meno che Arthur Weasley non abbia intenzione di cimentarsi nel risparmio delle risorse non rinnovabili. Farebbe fortuna. O grandissimi disastri, dipende.
Esco dal bagno gettando uno sguardo alla cucina. L’aria fresca della prima sera si sta diffondendo nella zona giorno. Dietro di me una serie di impronte umide, che di sicuro mi faranno scivolare alla prima occasione. Apro il frigo e, dopo una rapida ricognizione, mi verso un bicchiere di succo d’arancia prima di affacciarmi alla finestra. Nessuna traccia del gufo.
I lampioni cominciano ad accendersi. Sul marciapiede c’è gente che corre. Dal giardino arriva l’odore pungente delle foglie recise dai Tagliuzzanti di Sam. Auto passano lente in direzione opposta al centro città. La fuga per il riposo è iniziata.
Sorseggio il succo, stringendomi nell’accappatoio. Sono passate le sette. Dovrei cominciare a pensare a cosa mettere nello stomaco. Torno ad esaminare il frigo e i pensili. Per fortuna ho fatto spesa mercoledì, o dovrei ricorrere a qualche ristorante, e stasera non mi va di uscire. E poi, da sola? Se lo avessi immaginato, avrei potuto invitare Tonks, visto che sembrava così desiderosa di istruirmi riguardo l’altro sesso.
Philip. Ora che sento la stanchezza salire e i pensieri amari scivolare lungo i tubi di scarico, mi torna in mente il suo abbraccio. Non aveva un odore particolare. Niente profumo, dopobarba, pozioni respingenti… No. Aveva solo il suo odore, quello della sua pelle. Mi viene l’assurda idea di riprendere la camicia che indossavo stamattina. Torno in bagno e la recupero dalla cesta della biancheria sporca, che mi fissa impietosa. Sì, questa volta ha ragione lei, ho aspettato un po’ troppo per il bucato. Ho vestiti sparsi sul pavimento dall’altro ieri che gridano vendetta. Vorrà dire che aspetteranno altri cinque minuti. Porto la camicia al viso e respiro piano. Non è rimasto nulla di quella stretta. Peccato.
Carico la lavatrice, infilando a malincuore anche quell’indumento, ormai affine ad una reliquia.
Superata la fase delle incombenze domestiche senza ausili magici (altra cosa per cui invidio moltissimo le streghe), passo in camera da letto. Spengo la radio e faccio partire lo stereo. A quest’ora ci sono solo radiogiornali e non m’interessano le disgrazie mondiali, ne ho già abbastanza di quelle che mi passano sotto mano in ufficio. C’è il Greatest Hits degli Abba sul piatto. Mio padre li adora. La musica di Dancing Queen comincia a diffondersi in casa.
Traffico un po’ col solito cassetto che non si vuole aprire. Presa da quel misto di felicità e struggimento per quanto accaduto la mattina, indosso quel completino che ho comprato mesi fa. Mi guardo allo specchio, ripensando quel giorno, travolti dal custode di Hogwarts, Rubeus Hagrid,  in visita proprio al mio capo, quando ci siamo trovati pigiati l’uno sull’altra. Quattro piani ad una distanza così ravvicinata che avremmo potuto essere una cosa sola. Se ci fossimo baciati allora, nessuno l’avrebbe potuto vedere: il fisico mastodontico di Hagrid occupava tutto il resto della cabina, insieme alle sue ripetute scuse. Ero così su di giri, che all’uscita mi sono infilata nel primo negozio di intimo per celebrare quel momento. Ed eccomi con indosso quei capi sbarazzini, non eccessivamente sexy, neri con i nastrini rossi. Come i colori della maglietta che Philip indossava quel giorno. Mi stanno d’incanto. Sarà che, nonostante il fisico non filiforme, so portarli molto bene. Insomma, diciamoci la verità, sono quanto di più distante da un Veela si riesca ad immaginare: non molto alta, fisico prosperoso, capelli a caschetto castani, occhi verde muschio astigmatici da quando avevo tredici anni. Andassero a farsi un giro quelle megere dell’est europeo, con i loro corpicini da cannuccia di Coca-Cola!
Parte “Gimme gimme gimme” e sul ritornello mi permetto di inserire un ardito “gimme Philip after midnight” anziché le solite parole. E lo vorrei lì anche prima di mezzanotte, se possibile.
Un rumore mi distrae. Arriva dal soggiorno. Inforco gli occhiali e mi affaccio. Una volta Hermione è venuta di persona a consegnarmi gli appunti, possibile l’abbia fatto di nuovo? Ormai sono le otto, dovrebbe essere già a casa. Conoscendola, potrebbe essere appena uscita dall’ufficio, facendo andare su tutte le furie il povero Ron. Faccio per chiamarla quando vedo qualcosa appiccicato alla porta d’entrata.
Mi avvicino. È una lettera. La apro e dentro trovo un biglietto. È scritto da quattro mani diverse.

“Perdonami, perdonami, perdonami! So che di solito preferisci che ti dica tutto dei miei piani, ma questa volta proprio non potevo. Divertitevi e B-uon W-eekend!
Hermione”

«B-uon W-eekend? Oh, no… che diamine ha combinato?» mi domando a mezza voce.

“Regola numero uno: non ci sono regole! Saltagli addosso e fatela finita di rincorrervi! Sfodera la mannara che è in te!
Tonks

Lascia perdere l’ultima parte di quel che ti ha scritto Dora. Pensa solo a divertirti.
Remus

Buona fortuna e, per favore, ricorderesti a Philip che mi deve un favore grosso come una casa per aver convinto Sebastian a cambiargli turno stamattina?
Harry”

Mi tremano le mani. Ma di cosa stanno parlando? Sono impazziti tutti e quattro? Non ho appuntamento con Philip! Magari fosse così! Deve essere opera di Tonks, chissà cosa si è inventata.
Mi volto e vedo due occhi castani letteralmente sgranati su di me. Seduto sul mio divano c’è lui. Philip Cross, Ufficio Obliviatori. Mi cade la lettera. Lui deglutisce a vuoto, continuando a guardarmi. So perfettamente di essere in una situazione imbarazzante, ma non riesco a muovermi. Dovrei coprirmi, dirgli di girarsi. E invece che mi viene di dire?
«Come faccio a sapere che sei tu e non Tonks?»
Sembra riprendersi, guarda intorno spaesato poi mi mostra l’indice sinistro, ancora avvolto nel cerotto azzurro a coniglietti. È lui per davvero.
«A-accogli sempre i t-tuoi ospiti così?» mi chiede perplesso.
«Da quanto sei qui?» replico io, senza ascoltarlo.
Abbassa gli occhi un attimo, sembra molto imbarazzato. Non è da lui. Ti prego, dimmi che sei appena arrivato, che non hai sentito niente!
«Ecco… io… dal tuo “stupida-stupida-stupida-stupida-stu-pi-da” delle sei e quaranta».
Come non detto.
«Perché sei qui?»
Ci pensa su. Fa per dire qualcosa. Si interrompe. Prende un profondo respiro prima di rialzare la testa.
«Jillian mi piaci da impazzire, se aspettavo un altro po’ sarei morto. Non potevo continuare a sognarti la notte e a vederti di giorno nei corridoi del Ministero senza dirtelo!» dice tutto d’un fiato.
Non riesco a rispondere. Lo fisso incredula.
«Sono stato un pochino diretto, eh?»
«Se questa è la tua idea di “pochino”…» faccio io, «chissà quando lo sei per intero!»
Mi avvicino e gli siedo accanto, incurante del fatto che, con la portafinestra aperta dietro di me e quasi niente addosso, sicuramente mi prenderò un accidente.
«Io ti piaccio?»
Lui annuisce e, in breve, mi spiega di non essersi mai fatto avanti direttamente perché dietro quell’aria da burlone, da compagnone, in realtà si cela una persona piuttosto timida. Ed è vero: non alza lo sguardo dalle ginocchia ed ha il respiro accelerato. I capelli scuri e cortissimi, gli scorrono tra le dita, mentre cerca di darmi più spiegazioni che può. Ha preso per sfinimento Hermione, che non voleva dargli il mio indirizzo. Ha torturato Harry perché gli desse una mano a farsi cambiare il turno per venire al Victoria Park. Remus lo ha sostenuto passandogli informazioni sulle mie abitudini, dopo che è accidentalmente venuto a conoscenza delle sue mire su di me. Tonks gli ha proposto di bloccare l’ascensore con dentro noi due soli, per saltarmi addosso indisturbato.
«Aspetta… Come sarebbe che lo sapeva?»
«Beh, sì. Non ho potuto negare. Quel giorno che c’era Hagrid con noi sull’ascensore… Insomma, mi sono trovato con te addosso, che mi respiravi all’orecchio… Stavo collassando!»
«Io ho comprato questo per festeggiare…» mi lascio scappare. Devo essere pazza, e dal suo sguardo capisco che non afferra il nesso. «Sì, ecco, io… anche io ero felice di quell’imprevisto… e così ho comprato… No, dai, lascia perdere. Che c’entra Tonks?»
«È salita quando tu e Hagrid siete scesi».
«E allora?»
«Ero rosso, non respiravo, sembravo in paradiso e… sentivo i pantaloni stretti» spiega, tornando per un attimo il solito Philip. «Per fortuna c’era la tua borsa tra di noi, o te ne saresti accorta pure tu. Capisci che era impossibile controbattere alle sue domande in quello stato! Così, le ho detto… che mi piacevi. Un casino. Da un pezzo» ammette.
Per un tempo indefinito resto senza parole. Tonks sapeva. Harry sapeva. Remus sapeva. Hermione sapeva. Solo io ero all’oscuro di tutto!
Mi avvicino.
«E tu, saresti qui per…?» domando, accennando un sorriso.
«Io…» comincia, in difficoltà.
«Senti, e se... ti levassi questa?» dico, prendendo fra le dita un lembo della sua camicia.
Philip sembra spaventato. Ne approfitto per prenderlo per mano.
«Calmati, sto scherzando. Il fatto è che, la nostra cara amica Tonks, mi ha tartassato sul come avrei dovuto fare per irretirti! Solo che, ora che mi hai detto che si trattava di una farsa, mi sono domandata se, per caso, anche le sue idee fossero solo invenzioni. Volevo verificare se avrebbero funzionato comunque».
Philip si rilassa e ride, ricambiando la stretta.
«Non penserai che sia qui per portarti a letto come ho detto stamattina!»
«No? Allora puoi anche andartene!» scherzo, indicandogli la porta.
Ormai siamo talmente vicini che se allungasse quel benedetto braccio potrebbe stringermi. Quasi mi avesse letto nel pensiero, mi abbraccia. Io faccio altrettanto. I nostri visi si sfiorano.
«Mi cacci via se ti bacio?»
«Ti caccio se non lo fai» sussurro.
Il tocco delle sue labbra è delicatissimo. A poco a poco ci lasciamo andare, e ci ritroviamo stesi sul divano, io su di lui. Non sta cercando di fare il gradasso, il playboy. No. Vuole mostrarmi chi è.
«Pensi di fermarti per cena?» chiedo, tra un bacio e l’altro.
«Dipende» risponde, mettendosi a sedere.
Rabbrividisco. L’aria si è fatta più fredda, le stelle fanno capolino sopra il terrazzo.
«Da cosa?»
«Dal dolce» risponde, avvolgendomi nel suo maglione.
«Dal dolce?» ripeto incuriosita.
«Sì. Lo vuoi prima o dopo la cena?» ammicca, accarezzandomi le braccia.
So a cosa allude il furfante. Fingendo di pensarci su sbircio la sua camicia ormai sbottonata. Ringraziando il cielo, lo stampo Babbano ha lasciato su di lui una bella impronta. Ho notato che parecchi maghi hanno la tendenza ad avere corpi magri e glabri come bambini di cinque anni. Lui no.
«Non potremmo fare il bis?» propongo, passando le dita sulla peluria del suo torace.
«Non staremo correndo troppo?»
Forse ha ragione, ma giochiamo a far finta di niente da un’eternità. Ed è da un tempo infinitamente lungo che devo arrangiarmi con l’immaginazione.
«Per colpa della nostra timidezza siamo in arretrato di diversi mesi. E poi, l’hai detto tu che non ti piace lodarti di cose inventate».
Mi prende il viso tra le mani e questa volta il nostro bacio si fa più prepotente. La sua lingua cerca la mia, mentre gli sfilo la maglia.
Un frullo d’ali ci interrompe.
Un gufo si è appollaiato su una sedia. Lo osservo incerta.
«Philip? Non avevi detto che quella degli appunti era solo una scusa di Hermione, perché lasciassi aperta la porta?»
«Sì, infatti» conferma lui.
Mi alzo e sciolgo il laccio che lega la pergamena alla zampa dell’animale. Non di è certo qualcosa che riguarda il lavoro: è piena zeppa di macchie.

“Dimenticavo di dirti che sapevo tutto già da un pezzo, ma non dirlo a Remus, lui è convinto che ti stia aiutando solo per spirito altruistico. Quindi, regola numero due: se dovesse capitare che…”

Non leggo oltre. Meno male che non c’erano regole. Da un lato vorrei strangolarla per averci interrotti, dall’altro mi vien da ridere. Prendo una penna e rispondo, nel poco spazio subito sotto. Lego di nuovo la missiva alla zampa del gufo e bisbiglio l’indirizzo, cambiando destinatario. L’uccello decolla e svanisce nella sera.
«Che succede?» mi domanda Philip, avvicinandosi con la camicia in mano e la cintura slacciata.
«Oh, nulla. Remus e Tonks avranno di che discutere stasera» rispondo con un ghigno perfido mentre chiudo le ante.
«Gli hai scritto che sono qui mezzo svestito e pronto a farmi violentare da te?»
«No. Ho scritto a Remus che la sottoscritta “mannara latente” ringrazia molto per l’incoraggiamento, ma pregherebbe il signor Lunastorta di adoperarsi affinché la moglie provi analoghi piaceri, di modo che non condivida troppo della loro intimità con… il pubblico!» spiego, tenendolo per mano e puntando alla camera da letto.
«Mannara latente?» ridacchia.
«Sì. Vuoi vedere come so trasformarmi?»
E per sottolineare quanto sia probabile questa mia mutazione lo afferro per la cinta dei pantaloni, facendo un verso che somiglia ad un ringhio.
«Non ti serve la luna piena?»
«No. Solo un ragazzo molto carino e molto…»
«Innamorato?»
Sorrido, alzandomi sulle punte dei piedi per baciarlo.
Per la cronaca, io e Philip non abbiamo cenato. Il dolce è stato più che sufficiente. Un dolce a base di un Obliviatore tenero e passionale, e di un’Assistente Ai Rapporti con la Creature Magiche molto felice e partecipe.
Ho mai detto che adoro lavorare al Ministero della Magia?

*    Prendi la mia mano
Non pensare ad un obbligo
Ora, proprio ora
Il tuo amore è liberazione


E con questo capitolo si conclude Una giornata al Ministero.
Un grazie a tutti coloro che hanno letto questa fic e, se vi è piaciuta, non temete! Credo proprio che Jillian e amici faranno ritorno al più presto!
Per PiperHG: credo anch'io che sarebbe davvero bello poter gettare un occhio dal nostro mondo in quello dei maghi, criticarli, ammirarli e... invidiarli!
Per Rebecca Lupin: sono contenta di sapere di aver reso bene Dora e Remus. In effetti sono una coppia molto spassosa!
Per arylupin: leggere la tua recensione mi ha fatto molto piacere. Spero che altri, inizialmente scettici, si uniscano a te!

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