ALBA DI SANGUE di Tetide (/viewuser.php?uid=68483)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1. Strane ricerche ***
Capitolo 2: *** Sorprese e batticuori ***
Capitolo 3: *** Concerto o... sconcerto? ***
Capitolo 4: *** Novantanove vite ***
Capitolo 5: *** Terra desolata ***
Capitolo 6: *** Prima che cada la notte ***
Capitolo 7: *** Nemesis ***
Capitolo 8: *** Dal tramonto all'alba ***
Capitolo 9: *** Finché spada non vi separi ***
Capitolo 10: *** L'alba di un nuovo giorno ***
Capitolo 1 *** 1. Strane ricerche ***
ALBA DI SANGUE- STRANE RICERCHE
ALBA DI SANGUE
Disclaimer: questa è
una fanfiction ispirata dall’anime “Alpen Rose” del
1986. Il diritto d’autore dei personaggi di “Rosa
Alpina”, degli eventuali avvenimenti e frasi riportati da
“Rosa Alpina” appartiene a Michiyo Akaishi, alla Flower
Comics Wide (Shogakukan) ed alla Tatsunoko Pro. Il diritto
d’autore è tutelato dalle leggi del copyright, e qui non
ne è intesa alcuna violazione. Questa storia è stata
scritta senza alcuno scopo di lucro, è solo un racconto
amatoriale. Il diritto d’autore dei personaggi originali presenti
in questa storia, che non compaiono né nel manga, né
nell’anime appartiene all’autrice Tetide.
1.STRANE RICERCHE
L’inizio dell’autunno, si sa, coincide sempre con
un’ondata di fiacca generale; o per lo meno, questo è
ciò che succede agli studenti che rientrano ai corsi.
E l’università di Ginevra non è immune da questo “contagio”.
Se ne era accorto subito il professor Lundi Cortot, docente di storia
dell’arte nella facoltà di Lettere Classiche: quel giorno,
nessuno sembrava interessato minimamente alla sua lezione.
“… Dunque, questa è l’evoluzione dello stile
Gotico nell’Italia Centrale nel corso di due secoli.
Domande?”.
Alzò gli occhi verso l’aula, vedendo soltanto volti
sonnolenti o distratti, in ogni caso privi del più elementare
interesse.
“Signori, io capisco bene che il ritorno dalle vacanze sia
traumatico per chiunque, ciononostante mi permetto di ricordarvi che
tra due mesi circa ci saranno gli esami, e che la lezione di oggi
riveste un particolare valore a riguardo. Dunque, cercate di fare uno
sforzo, nel vostro interesse!”.
Il giovane docente rimase assai deluso nel constatare che le sue parole
non avevano sortito l’effetto voluto; scosse il capo e
tornò a girarsi verso il proiettore di diapositive, con aria
sconsolata.
“Almeno mi andasse meglio con Jeudi, a casa… piangerei con
un occhio solo… ma così è! Scommetto che anche
oggi dovrò affrontare la sua gelida indifferenza, e tutto per
uno stupido errore vecchio di un anno!”, pensò.
Jeudi Brendell era la fidanzata di Lundi; i due convivevano da un paio
di anni. All’inizio, la cosa era sembrata andar bene, andavano
d’accordo e già si prospettava il matrimonio; ma
l’anno precedente, lui aveva commesso uno sbaglio. Un grosso
sbaglio: aveva avuto la classica scappatella con una ex-collega
universitaria, tale Matilda Troncan; Jeudi lo aveva scoperto, e
naturalmente era scoppiato un putiferio; lei se ne era anche andata di
casa per un po’, ma poi, un po’ per inerzia, un po’
perché voleva bene a Lundi, era tornata all’ovile,
mantenendo però un fiero atteggiamento di distacco nei confronti
di lui.
“Mi chiedo perché allora sia tornata!” continuava a
pensare l’uomo “Forse perché, se si esclude me,
è sola al mondo”.
Definire Jeudi “sola al mondo” era in effetti una grossa imprecisione.
Anche lei era una docente, di storia medievale per la precisione, e
nell’ambiente si era fatta molti amici che le volevano
sinceramente bene e la apprezzavano per le sue qualità: tra
questi, Edith, una grintosa collega dal carattere intraprendente e
spigliato, molto bella e benestante, ma tuttora single.
La sua migliore amica dei tempi dell’università, invece,
era letteralmente volata via, a Losanna, a lavorare per una casa
editrice, e tutto in seguito ad una cocente delusione amorosa; Martha,
si chiamava.
Ai tempi dell’università erano state molto amiche ed
avevano condiviso tutto, dai segreti “incoffessabili” alla
casa; così, quando Martha si era presa una solenne sbandata per
uno dei docenti della loro facoltà, il professor Tavernier,
Jeudi era stata la prima a saperlo; il brutto era che anche Jeudi aveva
preso una stratosferica sbandata per lui, come molte altre studentesse
della facoltà. E a vedere il professore, non c’era da
meravigliarsene: alto, algido, lunghi capelli biondi ed occhi
azzurrissimi dal particolarissimo taglio obliquo, abiti eleganti, mani
e viso curatissimi, voce calda ed incisiva: in meno di due mesi dal suo
arrivo, tutti i suoi corsi si erano riempiti di studenti di sesso
femminile, per non parlare degli esami.
Era Francese, ma parlava benissimo quattro lingue.
Tutte le ragazze della facoltà avevano cercato di far colpo su
di lui, perfino Jeudi, ma con scarsi risultati. Solo Martha vi era
riuscita; come, non lo sapeva neppure lei. L’unica cosa che
sapeva era che gli moriva letteralmente appresso e trovava ogni scusa
per restare sola con lui, cose tipo testi in prestito o spiegazioni su
argomenti poco chiari.
Così, un pomeriggio tardi, mentre Jeudi stava studiando, Martha
era tornata a casa con gli occhi lucidi e l’aspetto stravolto.
Jeudi era saltata letteralmente sulla sedia.
“Martha! Tesoro! Ma che ti succede?”,
“Oh, Jeudi… non lo immagineresti mai! Patrice… io e
lui… beh, sì, insomma… ci siamo baciati!”,
“Cheee??? Non dirmi che stai parlando del professor Patrice Tavernier!”,
“Invece sì! Era finita la lezione ed io ero ancora
lì a chiedergli sciocchezze senza senso… tutti se ne
erano andati… e lui mi ha guardata in un modo… dicendomi
“Ti vedo sempre qui, in prima fila… la storia
dell’Europa Orientale deve piacerti davvero o c’è un
altro motivo?”… Ed io lo guardavo, con quello stupido
libro aperto in mano, senza saper cosa rispondergli… e allora
lui mi ha afferrato per i polsi facendomi cadere il libro e mi ha
tirato a sé… e mi ha detto “Guarda che ho capito
perfettamente cosa vuoi, l’ho visto come mi guardi, e lo voglio
anch’io!”… e poi mi ha baciata, intrecciando la sua
lingua con la mia! Io mi sono sentita svenire, ma l’ho
contraccambiato, l’ho abbracciato, e quando ci siamo separati gli
ho detto “Patrice, ti amo!”, e lui ha sorriso e mi ha
chiesto se sarei tornata, domani, alla sua lezione!”,
“E tu che cosa gli hai risposto?”,
“Gli ho detto di sì, naturalmente! Ero al settimo cielo!
Oh, Jeudi, finalmente si è accorto di me, non riesco ancora a
crederci!”.
Jeudi era sconcertata; da un lato era esterrefatta e contenta ad un
tempo per l’amica, pur essendo ben consapevole di quanto una
simile relazione potesse essere irta di difficoltà;
dall’altro, invece, era un po’ delusa per sé stessa,
dato che ora l’affascinante professore sembrava aver fatta la sua
scelta.
Decise allora di toglierselo definitivamente dalla testa, dato che
Martha sembrava molto presa dal suo amore segreto, e lei, da buona
amica, non aveva nessuna intenzione di colpirla a tradimento.
Il bellissimo docente e la sua allieva avevano iniziato così una
relazione segreta, che era durata sei mesi; poi, un giorno, il
professore venne d’improvviso trasferito a Parigi; così,
si presentò da Martha dicendole che tra loro era tutto finito e
che doveva dimenticarlo. Alla ragazza andò il cuore in frantumi,
pianse per giorni tra le braccia della sua fedele amica Jeudi.
“Te lo avevo detto che non poteva durare!” era quello che
continuava a ripeterle, pensando nel frattempo fra sé:
“Meno male che l’ho lasciato perdere, visto che è
stato capace di questo! Ora, a piangere al posto di Martha potrei
esserci io!”.
Ma il colpo per Martha era stato davvero troppo forte, al punto che non
riusciva più a studiare; rinunciò a laurearsi, e se ne
andò via, a Losanna, ad accettare un lavoro presso una casa
editrice come revisore dei testi.
E da allora, non si erano più riviste.
Curioso che quel giorno Jeudi stesse pensando a lei; era quello che
Jeudi stessa si stava chiedendo seduta nella penombra della biblioteca
della facoltà, una penna in mano a mezz’aria e lo sguardo
perso nei ricordi.
All’improvviso, in un angolo della grande biblioteca deserta,
nella penombra apparve una debole luminosità, che si faceva via
via più marcata, fino ad assumere i contorni di una figura umana
nitida.
Jeudi si voltò in quella direzione, con un sorriso stampato sulle labbra.
“Mamma” disse “sei venuta a farmi compagnia, vedendo che ero sola?”.
Il fantasma sorrise di rimando alla ragazza “No, tesoro. Sono venuta ad avvertirti di una cosa”.
Jeudi si sistemò meglio sulla sedia. Sin da quando era molto
piccola aveva avuta la facoltà di vedere i morti, e di parlare
con loro; i suoi genitori ed i nonni venivano spesso a trovarla, ed in
tante situazioni le erano stati di grande aiuto, facendole evitare
pericoli o spingendola verso situazioni che le avevano recato beneficio.
Naturalmente, non aveva mai rivelato a nessuno di possedere
questa… facoltà, tranne a Lundi, il quale aveva
dimostrato di non farne un problema; a dir la verità, una volta
ne aveva parlato anche con Martha, ma poi, dopo la partenza
dell’amica, Lundi era rimasto il solo depositario del suo segreto.
La ragazza stava fissando lo spettro, ansiosa di sapere cosa avesse da comunicarle di tanto importante.
“Dunque?”,
“Tra non molto verrai convocata dal dottor Gizan, per una faccenda delicata”,
“Gizan? Non è quel famoso studioso di occultismo di Vienna?”,
“Sì, è proprio lui, tesoro. Vuole condurre una
ricerca molto particolare ed avrà bisogno di te e di altre
persone come te”;
Jeudi si sporse in avanti “Vuoi dire per le mie competenze storiche o a causa di…”,
“Per tutte e due le cose, Jeudi. Starà a te se decidere di
accettare. Ma è mio compito avvisarti che se accetterai, alla
tua vita ne verranno grandi mutamenti”,
“Che genere di mutamenti?”,
“Riguardo il tuo rapporto con Lundi”,
“E che c’entra Lundi in tutto questo?”,
“Non posso dirtelo; la scelta spetterà solo a te”,
“Grazie, mamma. Ci penserò”,
“Ti voglio bene, bambina mia” fece lo spirito, svanendo in un sospiro.
Sulla biblioteca calò di nuovo la penombra. Jeudi rimase seduta, a riflettere.
Quali cambiamenti sarebbero mai potuti occorrere al suo rapporto con
Lundi? In effetti, già da un po’ di tempo, il loro
rapporto non era eccellente: si sarebbe potuto definirlo
“logorato”; lei e Lundi si erano conosciuti appena dopo la
sua laurea; dopo una simpatia reciproca che sapeva di infatuazione, e
dopo alcuni mesi di frequentazione, avevano deciso di fare coppia
fissa, dividendo anche lo stesso appartamento; e per qualche anno,
tutto era andato bene. Ma alla prova dei fatti, Lundi si era dimostrato
molto immaturo: non gli importava nulla della vivacità di un
rapporto, si accontentava che questo fosse ripetitivo e tranquillo,
anche se senza grosse emozioni; ma è risaputo che la noia e la
monotonia sono fra le prime cause della fine di un amore, seconde solo
alla violenza ed al tradimento; e così Jeudi aveva finito per
accettare il proprio menage
con Lundi vedendo in esso una di quelle unioni che si trascinano
stancamente avanti per sola forza di inerzia e mancanza di prospettive
migliori e più allettanti, consolidati anche
dall’abitudine: delle parole “amore” e
“passione” aveva smarrito anche il significato.
La ragazza si accese una sigaretta; sorridendo, ritornò con la
mente ai ricordi del passato. Si chiedeva, ora, se le cose sarebbero
andate diversamente assieme all’aitante professor Tavernier, se
ai tempi dell’università lui l’avesse preferita a
Martha; l’amica le parlava sempre di lui come di un amante
straordinario ed instancabile, che si profondeva in amplessi a raffica
fino a sfinire la partner (e questo, Jeudi aveva avuto modo di
constatarlo quando, certe mattine, vedeva la sua coinquilina rientrare
con il trucco ed i capelli nel più totale disordine, ma con gli
occhi scintillanti per la gioia), e che la stupiva poi in modo sempre
diverso, una volta riempiendole la stanza di rose rosse, un’altra
presentandosi all’improvviso a casa per portarla a cena in uno
dei ristoranti più raffinati della città, un’altra
ancora facendole una dichiarazione in piena regola sul lungolago, poi
seguita da travolgente amplesso in macchina. Certamente, Martha era
stata molto fortunata.
Ma quanto era durata, poi, la sua fortuna?
Relativamente poco, se si pensa a tutto il tempo che la poverina aveva
poi perso dopo, tra le lacrime ed i perché: Jeudi non aveva
dimenticato di quanto la sua amica si fosse poi amaramente pentita di
essersi lasciata andare fino al punto di perdere completamente la
testa, rimanendo senza difesa alcuna al momento dell’abbandono da
parte di lui. No, alla luce dei fatti, Martha non era stata poi
così fortunata.
“Caro Lundi, se stiamo per rompere, sono contenta di farlo
collaborando col dottor Gizan!” pensò la ragazza. Quindi
spense la sigaretta, si alzò e, raccogliendo i libri ed i suoi
appunti, uscì nel corridoio.
**********
Fu poco dopo le nove, quella sera, mentre lei e Lundi sedevano nel
soggiorno a vedere la TV, che il telefono suonò
inaspettatamente; a quell’ora, in effetti, non si sarebbero mai e
poi mai aspettati una chiamata di lavoro.
Fu Jeudi a prendere il telefono.
“Pronto?” fece,
“Dottoressa Brendell?”,
“Sì, sono io. Chi parla?”,
“Buonasera, dottoressa. Mi scusi se la disturbo a quest’ora. Sono il dottor Gizan”.
Jeudi sorrise. “Che posso fare per lei?” chiese poi,
“Io avrei bisogno di parlare con lei e con il signor Cortot, domani mattina, se per voi va bene”,
“Certamente, dottore. Dove possiamo incontrarci?”,
“Venite pure nel mio studio” e le diede l’indirizzo.
**********
Il mattino successivo, Jeudi e Lundi si stavano recando
all’insolito appuntamento, lei con una curiosità che
sfiorava il morboso dettata dalle parole dello spettro della madre;
lui, invece, era tranquillo e distaccato, come al solito.
Le strade di Ginevra stavano tornando ad animarsi dopo la pausa estiva;
auto con i finestrini ancora in parte abbassati, retaggio
dell’estate appena finita, passavano loro accanto, facendo
rombare il motore; passanti dall’aria mogia percorrevano le
strade.
Jeudi si voltò verso il suo compagno, e lo vide con
quell’aria eternamente distratta, avvolto nel suo cappotto grigio
nella brezza mattutina: e si chiese cosa ci fosse ancora in lui da
attrarla tanto da continuare a stare insieme; forse era davvero la
forza d’inerzia, l’abitudine…
Varcarono un portone di pietra grigia, con due grossi battenti di legno
di mogano. Il rumore dei tacchi di Jeudi risuonò per tutto
l’androne.
Lundi indugiò un po’ sull’uscio, guardandosi intorno con aria incuriosita.
“Allora, saliamo o no?” gli chiese lei,
“Sai, stavo chiedendomi… che razza di aiuto potrà volere da noi un tipo come quello?” le rispose lui.
Jeudi fece un passo indietro e lo prese per un braccio “Se saliamo, lo sapremo, ti pare?”.
Pochi secondi dopo, erano davanti al portone d’ingresso di Gizan.
Bussarono. Una cameriera con grembiule e crestina in testa bianchi
venne loro ad aprire “I signori Brendell, immagino?” chiese;
Jeudi fece una smorfia “Sono Jeudi Brendell e questo è il
signor Lundi Cortot. Siamo attesi dal dottor Gizan”;
La cameriera fece una piccola, contrita riverenza “Scusatemi per
l’imprecisione. Prego, seguitemi. Il dottore vi aspetta”.
La donna si avviò per un lungo corridoio, illuminato su di un
lato intero da una serie di grandi vetrate; lo percorse fino in fondo;
poi bussò ad una porta.
Da dentro si sentì rispondere “Avanti!”.
“La signora Brendell ed il signor Cortot sono arrivati”,
“Bene, li faccia pure entrare!”.
“Prego”, la cameriera tornò a rivolgersi ai nuovi venuti facendo loro un cenno con la mano.
Entrarono in una stanza, luminosa quanto il corridoio, dove un anziano
signore dall’aria severa, ma amichevole, si fece loro incontro.
“Benvenuto. Sono lieto di vedervi” baciò la mano a Jeudi e strinse quella di Lundi.
“Prego, accomodatevi!”, indicò loro un paio di
poltrone vuote di fronte ad un’antica scrivania di ebano.
I nostri presero posto; l’uomo si sistemò di fronte a loro.
“Dunque, signori” l’uomo iniziò a parlare
“dato che perder tempo in convenevoli non è nel mio stile,
verrò subito al dunque. Voi conoscete, immagino, quali sono le
mie competenze”.
Fu Jeudi a rispondere “Certamente, dottore. Sappiamo che lei
è un valente occultista, che spesso collabora anche con la
polizia, ed il suo aiuto, insieme a quello dei sacerdoti della vicina
cattedrale, è stato determinante per risolvere diversi casi di
infestazione”,
“Mi sento gratificato dalle sue parole, dottoressa. Sì, in
effetti, queste erano le mie occupazioni fino a qualche anno fa. Ma
adesso, ho deciso di dedicarmi a qualcosa di più riposante,
anche se non meno impegnativo: compio studi e ricerche ed offro
consulenza”;
Jeudi accavallò le gambe “Interessante! E a che tipo di studi si sta dedicando, adesso?”,
“Mi è stato posto un caso inquietante in Romania, dalle
parti di Brasov: la scomparsa di alcune giovani donne, che sono state
poi ritrovate alcuni giorni dopo con degli strani segni sul
collo”.
Jeudi ascoltava con attenzione.
“Le autorità locali non hanno saputo che pesci prendere.
Hanno chiesto aiuto alle università dei Paesi confinanti; in
effetti, per essere un serial killer
era molto strano. Infatti, anche gli esperti delle università
non hanno trovato risposta. Così, si sono rivolti ad un
sacerdote, noto esorcista, il quale li ha classificati subito per casi
di vampirismo; ed ha contattato me. Ed è a questo punto che
entrate in gioco voi, signori”.
Jeudi corrugò la fronte “Che intende dire?”,
“Intendo dire, dottoressa, che ho deciso di metter su una task-force per lottare contro questo male oscuro che infesta l’Est”.
Lundi, che fino ad allora aveva ascoltato tutto in silenzio assoluto, a
quel punto intervenne: “E lei vorrebbe includerci nella sua task-force, giusto?”,
“Esattamente, signor Cortot”,
“E potremmo conoscere la ragione di questa sua scelta? Io e la
dottoressa Jeudi non siamo né sensitivi, né esorcisti:
quale ruolo potremmo avere in un gruppo come quello che lei vuol
mettere su?”.
Jeudi abbassò gli occhi, pensando al proprio “dono”.
Gizan si sistemò gli occhiali sul naso “Vede, signore, le
facoltà paranormali, per quanto potenti siano, da sole non
bastano a dipanare un mistero che affonda le sue radici
nell’anima stessa delle tradizioni di quelle terre; occorre anche
altro, occorre la conoscenza storica, di cui sia lei che la signora qui
presente siete profondi conoscitori”,
Non esageri, dottore” si intromise Jeudi “il mio compagno
è docente di storia, sì, ma dell’arte; quanto a me,
pur essendo specializzata in storia medievale, non ho una particolare
inclinazione per l’Europa dell’Est”,
“Di questo non dovrà preoccuparsi” riprese
l’altro “avremo un esperto in materia nel gruppo”.
Jeudi e Lundi rimasero senza parole. Di fronte a tali argomentazioni,
era difficile dir di no. Jeudi, poi, continuava a pensare alle parole
della madre: un cambiamento radicale nel suo rapporto con Lundi! Forse
che l’uomo avrebbe iniziato ad accorgersi di lei un po’
più spesso?
“Va bene, dottore. Accettiamo la sua proposta” Jeudi
rispose per entrambi, mentre Lundi si limitò a balbettare un
confuso “Ma… ma…”.
Gizan si alzò e le porse la mano “Ne sono lieto, davvero! Grazie anche a lei, signor Cortot!”.
Come un automa, Lundi stava adesso stringendo la mano dello studioso.
“Gli altri del gruppo chi sono?” chiese ancora Jeudi,
“Se avrete la gentilezza di tornar qui domani alla stessa ora, ve
li presenterò. E’ un gruppo di sette persone, in tutto, me
escluso”.
Pochi minuti dopo, i due ragazzi si ritrovarono in strada; Jeudi sorrideva, mentre Lundi aveva le idee confuse.
“Ma perché hai accettato? Potevamo parlarne prima, non credi?”,
“La cosa mi alletta. E poi, voglio proprio vedere chi sono gli
altri matti che hanno accettato un’avventura simile!”.
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Ed eccomi di nuovo con una nuova fanfic! Questa cornice che ho scelto
è un pò insolita per Alpen Rose, ma ho voluto accostare
questo bellissimo anime ad un personaggio oscuro che, dato il gran
numero di fic sui vampiri presenti in questo sito, dovrebbe piacere a
molti.
In ogni caso, non temete: i personaggi "canonici" dell'anime ci
saranno, e le loro tormentate relazioni anche; in più, troverete
momenti un pò "singolari" e (spero) divertenti.
Spero che anche questo mio lavoro vi piaccia: recensite numerosi, please!!!!!
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Capitolo 2 *** Sorprese e batticuori ***
SORPRESE E BATTICUORI
SORPRESE E BATTICUORI
La mattina seguente, alla stessa ora, Jeudi e Lundi si trovavano di nuovo davanti al grande portone grigio.
Jeudi era eccitata: per l’occasione aveva indossato un cappotto
viola ed un completo rosa, due colori che la mettevano di buon umore;
Lundi, al contrario, era mogio come al solito e borbottava più
del solito: trascinato in quell’impresa praticamente senza aver
neppure aperto bocca, non nutriva interesse alcuno per le ricerche del
dottor Gizan, anzi in cuor suo nutriva un certo timore riguardo
all’intero progetto, prevedendo l’arrivo di guai e pericoli
a bizzeffe.
Salirono le scale, lei con il passo leggero e lo sguardo sorridente,
lui, che le veniva dietro, con la testa bassa e l’espressione
seccata di chi dice “Ma chi me l’ha fatto fare?”.
Appena bussato, corse loro ad aprire la cameriera del giorno
precedente, che li condusse questa volta fino al salotto. Quivi
trovarono Gizan.
“Ben trovati, signori. Accomodatevi, prego!”.
I due ragazzi entrarono nella stanza; lo studioso li condusse fino ad
una zona conversazione con poltrone in pelle marrone, dove si trovavano
altre due persone, un uomo ed una donna, entrambi giovani come loro.
“Permettete che vi presenti: questi sono i signori Wolfgang, il
signor Johann, fisico, e la signora Liesel, parapsicologa; signori
Wolfgang, questi sono la dottoressa Brendell ed il signor Cortot,
docenti universitari di storia medievale: saranno vostri compagni
d’avventura in quest’insolita impresa”.
Jeudi porse la mano ad entrambi, presentandosi “Lieta di conoscervi!” disse;
Lundi, dal canto suo, dopo aver precisato che lui insegnava storia
dell’arte, e non storia, fece altrettanto, ma con meno calore
della compagna.
Gizan si sedette sulla poltrona di fronte a loro.
“Dunque, signori” iniziò “metà della
squadra è qui presente; attendiamo l’arrivo della
metà mancante per esporre il piano del progetto”.
Le due ragazze si erano subito date il “tu”, ed avevano
cominciato a farsi le solite domande per conoscersi meglio; i due
ragazzi, invece, avevano intavolato una discussione sul campionato
calcistico imminente.
“Davvero non capisco perché Aschenbach stia
tardando” borbottava Gizan “di solito è
puntuale!”.
In quel momento, la cameriera bussò alla porta, annunciando
l’arrivo di un altro ospite. “Era ora!” fece Gizan
alzandosi per andargli incontro.
“Leonhard! Ci stavamo preoccupando! Dov’eri finito?”,
“Chiedo scusa, ma ho avuto un contrattempo dell’ultimo minuto”.
Un uomo era entrato dalla porta, ma al momento restava coperto dalla
mole massiccia di Gizan; Jeudi non riusciva a vederlo; poteva solo
sentire la sua voce, chiara e dolce allo stesso tempo.
L’anziano studioso si girò, prendendo il nuovo arrivato
per un braccio per condurlo a sedere “Vieni, Leòn,
accomodati con noi!”.
Jeudi rimase senza fiato: l’uomo era di una bellezza
sbalorditiva, talmente perfetto da sembrare uscito da un quadro di
Raffaello; molto alto e dal fisico atletico, aveva lunghissimi boccoli
biondi che gli ricadevano sulle spalle fino a metà della
schiena; un paio di occhi blu con riflessi viola talmente perfetti da
sembrare fatti ad arte ed un sorriso disarmante completavano un quadro
d’insieme a cui pochissimi avrebbero potuto tenere il pari.
Jeudi notò che era vestito in modo alquanto provocante: portava
un paio di pantaloni a zampa d’elefante molto attillati dalla
vita alle ginocchia, ed una camicia bianca aperta fino alla metà
del petto, che molto poco lasciava all’immaginazione.
“Signore e signori, vi presento il professor Leonhard Aschenbach, criminologo di fama Europea!”;
Liesel sussultò “Quell’Aschenbach?
E’ lei? Non posso crederci, ho letto tutti i suoi articoli! Non
credevo fosse così… così… giovane!”.
E bello, pensò Jeudi.
Il biondone strinse la mano a tutti gli uomini e fece il baciamano alle
signore, cosa che per poco non spedì Jeudi in rianimazione per
collasso cardiaco.
Il bellissimo criminologo si sedette accanto a lei, accavallando le
gambe; piegò leggermente il busto in avanti, e la camicia si
aprì un altro poco.
Jeudi non poté fare a meno di contemplare lo spettacolo, mentre,
senza che lei se ne rendesse conto, il suo viso era diventato
tutt’uno col suo rossetto: fucsia!
“… Ed è per questa ragione che dovrete rinunciare a
muovervi dopo il crepuscolo. Oltretutto, da quelle parti la gente
è molto povera e cerca ogni espediente per vivere, quindi i
furti sono all’ordine del minuto. Tutto chiaro, signori?”.
Solo in quel momento, Jeudi si accorse che il dottor Gizan aveva
concluso un qualche discorso, discorso che lei, ovviamente, non aveva
neppure sentito, occupata com’era ad infilare lo sguardo sotto la
camicia del suo vicino di posto.
Si girò dalla parte opposta, rivolgendo lo sguardo al suo
annoiatissimo compagno, e tirando un forte respiro per calmarsi
“Posso accendere una sigaretta?” chiese, tanto per darsi un
contegno.
“Ma certo, dottoressa!” rispose Gizan porgendole l’accendino.
“Grazie!”, fece lei, tirando una boccata e rimettendosi a
sedere; tra le volute di fumo, finse di guardare distrattamente
Aschenbach: lui la stava osservando, o era frutto della propria
fantasia?
“Tra non molto dovrebbe arrivare il capogruppo” stava mormorando Gizan.
Jeudi continuava a fumare convulsamente; le mani le tremavano
visibilmente, mentre lei si sforzava di non voltarsi verso Aschenbach,
di cui però sentiva sempre più forte lo sguardo addosso.
“Non è il caso di aver così paura!”, una voce
ferma e forte la scosse, facendola voltare; era stato proprio
Aschenbach a parlare.
La ragazza si voltò, la sigaretta accesa nella mano tremante,
gli occhi sgranati: era sicura che si stesse rivolgendo proprio a lei?
L’uomo le fece un sorriso, e continuò: “La sua
ansietà è palpabile. La spaventa tanto il
vampirismo?”.
Cercando di darsi un contegno, Jeudi si calmò; il professore si
era, sì, accorto del suo stato alterato, ma ne aveva
evidentemente travisato la ragione.
“Un po’” gli rispose, tentando di apparire credibile; l’altro le sorrise di nuovo.
“Non è poi così terribile. Secondo alcuni studi, i
cosiddetti “vampiri” sarebbero in realtà persone
molto malate di una rara malattia denominata porfiria: vittime quindi,
e non mostri”.
La donna rispose calma, cercando di intavolare una conversazione il più possibile “normale”.
“E lei come lo sa, professore? Se non sbaglio, il suo campo è la criminologia, non la medicina”,
“Possiedo anche una certa conoscenza di medicina, con una
specializzazione in queste rare malattie che nel passato hanno
ingenerato superstizione e credenze simili: è per questo che
sono qui”,
“Professore…”,
“Leòn, se non le dispiace. E… sempre che non le dispiaccia, potrei chiamarla Jeudi?”,
“Ce… certo”,
“La tua sigaretta si è quasi spenta; lascia che te la riaccenda”.
Così dicendo, Leòn si sporse in avanti allungandole un
accendino, e nel far questo la coprì con un braccio, in un modo
tale che Jeudi non poté impedirsi di guardargli del tutto dentro
la camicia.
Certo che oltre che bellissimo nei tratti del viso, l’uomo era
anche straordinariamente ben fatto nel fisico: aveva un paio di
pettorali scolpiti e glabri, che attiravano immediatamente
l’attenzione, ed un addome piatto e tonico tipico di chi va
spesso in palestra.
Jeudi si sentì letteralmente tramortire da un’ondata di desiderio bruciante.
Le sembrò d’improvviso che il fumo che stava aspirando dalla sigaretta fosse diventato fuoco.
Si appoggiò allo schienale, pensando “Adesso
svengo!”; spostò lo sguardo verso Lundi, il quale stava
invece osservando Leonhard con malcelata invidia, ma non si era affatto
accorto di quale effetto il criminologo avesse avuto su di lei.
Quel piacevole ma imbarazzante tormento fu improvvisamente interrotto da un bussare alla porta.
“Avanti!” ordinò Gizan.
La cameriera entrò con il solito inchino di cortesia “Signore, il professore è arrivato”.
Gizan si alzò con fare entusiasta “Oh, bene! Adesso conoscerete il vostro capogruppo!”.
Jeudi si rilassò sullo schienale, sperando che da quel momento
in avanti altri argomenti ben più seri l’avrebbero
distolta dall’esplorazione del fisico di Aschenbach; ma le
sorprese, per lei, non erano ancora finite.
“Vieni, vieni, carissimo! Il gruppo ti aspettava con trepidazione!”.
Jeudi rimase senza parole quando vide, dietro a Gizan, il professor Tavernier.
“Signori, ecco a voi il vostro capogruppo in questa difficile
impresa: il professor Patrice Tavernier, esperto in storia dei Paesi
dell’Est!”.
Il bellissimo professore sorrise, passando lo sguardo dall’uno all’altro viso, e soffermandosi su quello di Jeudi.
Salutò i componenti del suo gruppo di lavoro, uno ad uno.
“Il professore” continuò Gizan “conosce alla
perfezione tutte le usanze e tradizioni di quelle terre, ed inoltre vi
ha già soggiornato, quindi sarà per tutti voi
un’ottima guida!”.
L’uomo si andò a sedere accanto a Lundi, il quale rivolse
anche a lui uno sguardo carico d’invidia “Ecco, ci
mancavano i due bronzi di Riace!” mormorò rivolto al suo
vicino, Johann Wolfgang.
“Buongiorno, signori. Sono lieto di vedere tra di voi alcuni visi
noti” e sorrise di nuovo all’indirizzo di Jeudi “mi
scuso con voi per avervi fatto attendere. Adesso, col vostro permesso,
vorrei illustrarvi il piano del viaggio”.
Tirò fuori una carta stradale, e la distese sul tavolino in mezzo alle poltrone.
“Dunque, come potete vedere questo è l’aeroporto di
Bucarest, dove atterreremo; ci fermeremo lì solo un paio di
giorni, il tempo di preparare le attrezzature e contattare gli
specialisti dell’università che hanno richiesto il nostro
intervento, quindi proseguiremo alla volta di Sibiu, in Transilvania;
laggiù, ci attende un pope che ha avuto modo di vedere casi
analoghi, una cinquantina d’anni fa; ma vi dirò ogni cosa
a tempo debito. Ah, è superfluo specificare che dovremo ricevere
delle benedizioni in chiesa per ogni città nella quale
pernotteremo: il nemico che ci apprestiamo a fronteggiare è
assai insidioso, e l’acqua benedetta è l’unico
rimedio veramente efficace contro di esso. Suppongo che tutti i
presenti siano credenti?”.
Ci fu un coro di assensi, sottolineato da Gizan “Altrimenti non sarebbero qui, professore!”.
Tavernier sorrise “Molto bene. Dunque, dov’eravamo rimasti?
Ah, sì, a Sibiu! Dunque, avremo modo di esaminare un caso
analogo; poi sarà la volta di Brasov, la città dei
ritrovamenti”.
“Scusi se la interrompo, professore. Dottor Gizan, ma non si era
detto che i partecipanti all’impresa sarebbero stati sette? Ne
manca uno, o sbaglio?” chiese Johann.
“Non sbaglia, signor Wolfgang. Ma il settimo partecipante
è al momento irreperibile: mi ha telefonato questa mattina per
avvertirmi”,
“E chi sarebbe questo fantomatico settimo partecipante?”,
“E’ una signora, una docente all’università di
Ginevra, antropologa per la precisione: la dottoressa Edith
Weiss”.
Jeudi saltò letteralmente sulla poltrona “Edith?!”,
“La conosce?”, Gizan si era girato verso di lei, come pure gli altri, compreso Tavernier.
“Ma certo che la conosco! Siamo colleghe ed anche buone amiche!
Per quale ragione ha detto di essere irreperibile, se è
lecito?”,
“Non lo ha specificato. Ha solo detto di trovarsi
all’estero, in frangenti che richiedono la sua presenza, e
basta!”.
Al sentire il nome dell’amica, Jeudi aveva avuto un tuffo al
cuore: data la situazione altamente imbarazzante in cui si era venuta a
trovare, e data l’assoluta indifferenza di Lundi, sarebbe stata
ben felice di avere accanto una spalla cui appoggiarsi e chiedere
consiglio; e poi, Edith, che sapeva leggere le carte, con i suoi
consigli le era stata di aiuto molte volte. Non poteva fare a meno di
lei proprio in questa situazione!
Sì, sarò anche
un’egoista, ma non è affatto giusto che lei se ne stia
beatamente in vacanza, mentre io lavoro come un mulo, ed ora mi trovo
anche stretta tra due fuochi, con quello schianto di criminologo da una
parte e Tavernier dall’altra!
“So ben io dove si trova!” annunciò trionfante Jeudi
“E’ in vacanza a Riccione, in Italia, dove, tra
l’altro, è previsto un concerto dei suoi amati
Pooh!”,
“Hai capito l’impegno improrogabile!” rise Gizan,
“Ah, come la capisco! Per i Pooh, questo ed altro!” fece Liesel,
“Piacciono anche a te?”, le chiese Jeudi,
“Perché, esiste qualcuno a cui non piacciono?” fu la risposta.
Gli uomini si stavano guardando interrogativi “E chi sarebbero
questi Pooh? Sembra che tutte le donne li conoscano!”.
Fu Jeudi a rispondere “Sono un gruppo musicale Italiano, uno dei migliori nel loro Paese!”,
“Mi sa che qui ci scappa un intermezzo balneare!” rise
Tavernier, ammiccante “Non possiamo partire senza uno del gruppo,
vi pare?”,
“Ottima idea!” risposero in coro Lundi e Liesel
“Andiamo in Italia a riprenderci la nostra antropologa!”,
“Ed a farci un paio di bagni di mare e di sole” aggiunse Johann, ridendo sotto i baffi,
“Mi sa che ci scappa anche una serata musicale” si
intromise Leonhard, rivolto a Tavernier “se Edith è
là per il concerto, difficilmente riusciremmo a convincerla a
venir via prima. Non trovate?”,
“Perché no? Io non sono mai stata ad un concerto dei Pooh!” fece Jeudi con aria estasiata,
“Allora, è deciso! Si va tutti in Italia!” concluse Tavernier,
“Signori… un momento! Questa spesa non era preventivata
nel budget della missione! Non penserete…” Gizan era
saltato su,
“Noi non pensiamo niente” riprese Tavernier “faremo
una colletta tra di noi, e ce lo pagheremo da soli!”,
“Proposta approvata!” fu un coro di voci.
“Okay, allora propongo di brindare alla buona riuscita della missione!”, fece Johann.
Sospirando, Gizan chiamò la cameriera perché portasse da bere.
**********
“Alla buona riuscita della nostra impresa!” Leonhard alzò il bicchiere,
“Auguri a tutti!” fecero eco, in coro, gli altri.
Tutti erano adesso in piedi, davanti alla grande porta a vetri che immetteva nel balcone.
In un angolo, Jeudi sorseggiava svogliatamente il brandy.
Non riusciva a togliere gli occhi di dosso a Leonhard: quel giovane attirava la sua attenzione come una calamita.
Si sentì prendere per un braccio; si girò e vide Tavernier.
“Debbo parlarti”,
“Cosa vuole, professore?”,
“Non sembri molto felice di lavorare con me!” lui le lasciò il braccio,
“E che si aspettava? Ha distrutto il cuore alla mia amica!”.
L’uomo fece un fischio “Caspita! Quella è roba
vecchia, ormai! Te la sei legata al dito, a quanto vedo!”.
Jeudi non rispose; si limitò a guardarlo, con uno sguardo per nulla amichevole.
“E dov’è, adesso, la tua amica?” riprese lui,
“Lavora in un’altra città. Ma in quale, non glielo dirò mai!”,
“Guarda che non la voglio mica mangiare, sai!”,
“Non faccia lo spiritoso! Lo sa che per colpa sua non è riuscita neanche a laurearsi?”.
L’uomo restò interdetto “Che?”,
“Sì, proprio così. L’esaurimento che ha avuto l’aveva messa al tappeto del tutto!”.
Il professore si sentì mortificato “Non lo sapevo, mi dispiace. Non credevo di aver fatto… questo!”,
“Però lo ha fatto!”.
Gli occhi chiari dello studioso assunsero un’espressione
più dolce “Mi dispiace davvero, Jeudi. Potessi almeno
incontrarla per chiederle scusa…”,
“No, la lasci in pace, è meglio!”,
“Senti, perché continui a darmi del lei? Dobbiamo lavorare assieme o no? Chiamami Patrice, e basta!”.
Jeudi sorrise, anche lei addolcita “Hai mai assistito ad un concerto di musica pop?”,
“No, finora ho assistito solo a concerti di musica classica. Com’è?”,
“Lo vedrai!” rise Jeudi.
“Jeudi, ascolta: sai perché tu sei qui?”,
“Perché il dottor Gizan mi ha convocata, è ovvio!”,
“No: lui ti ha convocata perché gliel’ho chiesto io”.
Jeudi sobbalzò “Cosa vuoi, provarci anche con me come hai
fatto con la povera Martha? Guarda che non abbocca, sono fidanzata,
io!!”.
L’uomo rise “Ma no, che ti viene in mente! Il motivo per cui ti ho voluta con noi sono i tuoi… poteri”.
Jeudi fece un altro sobbalzo “Ma… tu come…”,
“Come lo so? Semplice: me ne parlò Martha, la tua amica”.
La ragazza abbassò gli occhi “Già, dovevo
immaginarlo… ti diceva sempre tutto… lei ti amava,
Patrice!”.
Il professore socchiuse gli occhi per un attimo “So che mi amava,
Jeudi; solo non potevo credere che mi amasse…
così!”,
“E ti ha raccontato di me!” la ragazza mandò giù un altro sorso,
“Sì, proprio così! Ma, scusa una domanda: visto che
sai di avere questi “poteri”, perché non apri uno
studio di parapsicologia?”.
Jeudi lo guardò, gli occhi infuocati.
“Vacci piano, Patrice! Innanzitutto, quelli che tu chiami
“poteri” sono un dono del Cielo che viene riservato a
pochi, di solito negli anni dell’infanzia; secondo, di un simile
dono non si fa merce da vendere, ma lo si usa semmai per aiutare se
stessi e gli altri; infine, gli spiriti si fanno vedere quando vogliono
e mi dicono quello che vogliono loro: non sono al mio comando!”.
Patrice Tavernier si lasciò scivolare le braccia lungo i fianchi; il ragionamento di Jeudi non faceva una piega.
“Però” ricominciò “ne avrai bisogno in missione”;
la ragazza sospirò “Saranno loro a venirmi in aiuto, se si
renderà necessario; d’altronde, mi avevano avvisato anche
di quest’impresa”.
Dopo un’ora circa, tutti i componenti della spedizione uscivano
dall’atrio della casa del dottor Gizan, salutandosi e scherzando
amichevolmente fra di loro.
“Allora ci si vede, eh?”,
“Naturalmente! Non dimenticate a casa lo spazzolino da denti!”,
“Per quando è fissata la partenza?”,
“Per dopodomani mattina, alle 9”,
“A dopodomani, allora!”.
Leonhard si avvicinò a Jeudi, mentre Lundi era occupato a scherzare con il suo nuovo amico Johann.
“Jeudi…”.
Lei si voltò, di scatto: la sua voce le dava sempre i brividi.
“Dunque, stiamo insieme…”,
“Ehhhh???” lei arrossì fino alle orecchie,
“In quest’impresa, dicevo”,
“Oh… sì… certo, Leòn”,
“A dopodomani” le fece un altro baciamano.
Mentre lo guardava allontanarsi, di spalle, Jeudi stava pensando
seriamente di indossare un paio di guanti di gomma per evitare che la
brezza del tardo mattino portasse via dalla sua mano quel senso di
delicato ed umido sfioramento che il tocco delle labbra di lui le aveva
lasciato.
_________________________________________________
Secondo capitolo per i nostri eroi! Prima a Riccione e poi a
Bucarest... dalle stelle alle stalle, si può dire! Per come la
ricordo io, Bucarest è... lo leggerete presto! Tutti i luoghi
che incontrerete nel racconto esistono realmente, e li ho visitati di
persona.
Ninfea 306: grazie
tesoro, sei una vera amica ed è un piacere sapere che sei una
mia affezionata lettrice, mi sproni ad andare avanti ed a migliorarmi
sempre; spero che ti piaccia anche questo capitolo!
Tonksis: la scena del
conte che ti ho preannunciato sarà nel prossimo capitolo, ma
già da ora la si intuisce... ne succederanno delle belle!
Vitani: eccomi qui con
un'altra Jeudi/Leòn. No, stai tranquilla, il nostro boccolone
preferito non finirà tra le grinfie del vampiro!
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Capitolo 3 *** Concerto o... sconcerto? ***
CONCERTO O... SCONCERTO?
CONCERTO O… SCONCERTO?
Primi di Ottobre 2008: un aereo si abbassava sulla pista dell’aeroporto di Rimini.
Sull’aereo, sei passeggeri provenienti da Ginevra.
Il professor Tavernier si tolse gli occhiali da sole con aria distratta, scoprendo il suo irresistibile sguardo di ghiaccio; la hostess
che stava ritirando i bicchieri vuoti non riusciva a staccargli gli
occhi di dosso. Seduto accanto a lui, Johann sbadigliava e si
stiracchiava dopo un sonno strappato ai tempi del viaggio.
Sul sedile posteriore sedevano Jeudi e Lundi; lui stava borbottando,
come al solito, mentre lei si stava letteralmente storcendo il collo
dalla partenza per cercar di carpire quello che veniva detto sul sedile
posteriore, dove erano seduti Liesel ed il professor Leonhard
Aschenbach.
Guarda che fortuna ha avuto!, pensava Jeudi, perché quell’idiota del check-in non ha messo me vicino a lui? In questo modo, Liesel ha avuto la possibilità di conoscerlo davvero bene, come avrei voluto fare io!
Anche se non lo avrebbe ammesso neanche sotto tortura, Jeudi si sentiva
terribilmente attratta da Leonhard: i suoi modi gentili ed
affascinanti, i suoi occhi blu-viola e la sua voce calda si erano
insinuati in lei come un dolce veleno.
“Jeudi, tesoro, ma che ti prende, una buona volta? E’ da
quando siamo partiti che te ne stai in quella posizione assurda!”
Lundi le si rivolse,
“Te l’ho già detto, mi sembra!”, sbottò
lei, imbarazzata, “Ho il torcicollo, e quest’aria
condizionata mi dà fastidio!”,
“Bah!” fece lui, tornando a voltarsi verso il finestrino, osservando la pista farsi sempre più vicina.
“Allora, come andiamo? Fatto buon viaggio?” Tavernier si
era avvicinato a loro, ed in particolare a Jeudi che sedeva sul
corridoio.
“Abbastanza, Patrice, grazie. E tu?”,
“Non c’è male. Ottima linea aerea, davvero!”.
Attenzione, prego! Stiamo per
atterrare all’aeroporto Federico Fellini. Preghiamo tutti i
passeggeri di rimanere seduti con le cinture allacciate.
“Sarà meglio che torni a sedere. Scusate”,
“A dopo, Patrice!” fece Lundi.
Venti minuti dopo, erano tutti e sei all’uscita
dell’aeroporto. Liesel tirò fuori una cartina della
città.
“Dunque, questo è l’albergo dove abbiamo prenotato, l’Hotel Des Bains; come lo raggiungiamo?”,
Johann le prese la carta “Ma dove l’hai avuta questa? Ci
sono indicati tutti gli alberghi ed i principali monumenti!”,
“All’ufficio informazioni dell’aeroporto. C’è un tizio che parla Tedesco”.
Jeudi si avvicinò per vedere “Patrice, ma… sei
matto? Qui c’è scritto che è l’albergo
più esclusivo della città!”,
“E allora? Non vi ho detto che avrei offerto io? Un piccolo
regalo d’amicizia per suggellare l’inizio della nostra
collaborazione!”,
“Ma Patrice… io non sono abituata a posti simili… temo che mi sentirò in imbarazzo…”,
“Sciocchezze, ci si abitua facilmente a fare i signori! Allora, prendiamo un taxi, o volete rimanere qui?”,
“Ci penso io!” fece prontamente Leòn, e si
allontanò in direzione di una fila di taxi parcheggiati;
parlò a gesti per qualche minuto con l’autista, quindi
chiamò il gruppo “Venite! Ce la caviamo con venti
euro!”.
Salirono su una grossa monovolume dai vetri oscurati, e partirono.
“Accidenti, che posto!” fece Lundi scendendo dal taxi di
fronte all’albergo “Patrice ha gusti… non proprio
modesti!”.
Liesel e Johann erano già entrati, seguiti da Tavernier, tutti e
tre ridendo e lanciandosi spiritosaggini; Jeudi aveva sceso i bagagli
assieme a Lundi, ma quest’ultimo, adesso, non le rivolgeva
neppure uno sguardo, impegnato com’era a rimanere a bocca aperta
davanti all’elegante facciata dell’albergo.
Si mosse anche lui e seguì gli altri.
“Lundi!! Mi lasci qui sola con i bagagli?” Jeudi gridò esasperata.
“Dài qua, ti aiuto io!” una voce alle sue spalle: era Leonhard.
Jeudi arrossì; lui era ancora più bello in quel luogo,
con i lunghi boccoli biondi che il sole ancora caldo dell’Italia
faceva rilucere, e quel profumo muschiato che per tutto il tempo in
aereo prima, ed in taxi poi, le aveva ispirato pensieri… non
proprio corretti nei confronti del povero Lundi!
Con il suo fisico asciutto e scolpito, l’uomo sollevò la
valigia di Jeudi e quella di Lundi oltre alla propria, e le pose sul
portabagagli che il fattorino dell’albergo stava portando loro;
poi, porse il braccio alla ragazza “Prego, madame” le disse.
Sempre più estasiata, Jeudi lo accettò, ed insieme entrarono nell’albergo.
Mi sento una regina, pensava, al braccio di un cavaliere bellissimo in questo palazzo incantato…
Si trovò immersa in un ambiente che aveva potuto conoscere solo
nei film ambientati all’inizio del Novecento: dappertutto, marmi,
stucchi e vetri di Murano; in un angolo in fondo alla sala,
un’orchestrina suonava la versione acustica di
“Tornerai”, la celebre canzone degli Anni Trenta.
Per un attimo, immaginò sé stessa al braccio di Leonhard
in quell’epoca lontana, lei che indossava un completo di seta
chiffon con lunga gonna e cappello a falde larghe, e lui con uno
smoking chiaro, in tinta coi suoi capelli biondi.
Che bella coppia saremmo stati!
Scosse la testa.
Ma che vado a pensare! Là c’è il mio compagno, ed io sono qui per motivi di lavoro!
Raggiunsero gli altri al bancone.
Tavernier stava distribuendo le chiavi.
“Ecco, questa è la vostra” fece a lei e Lundi
“mi raccomando, appuntamento al ristorante “Le
colonne” tra mezz’ora!”.
Entrambi si volsero verso l’ascensore; Tavernier afferrò Jeudi per un braccio “Jeudi”,
“Cosa c’è?” si voltò lei,
“Dato che siamo qui per questo… in che albergo è alloggiata la tua amica? Tu lo sai, vero?”,
“Credo… all’hotel Concord, se non sbaglio”,
“Molto bene”.
Lundi si era avvicinato “Che intenzioni hai, Patrice?”,
“Vado a parlarle oggi pomeriggio e la convincerò a far
parte della nostra squadra; voi, intanto, restate pure a godervi
l’albergo”.
Dopo mezz’ora, erano tutti riuniti al ristorante.
Un cameriere versava loro il vino .
“La vostra com’è?” stava chiedendo Liesel a Jeudi,
“Indescrivibile! Definirla “camera” è riduttivo!”,
“Non ero mai stata in un posto simile! Certo che Patrice ha gusti raffinati!”.
Jeudi guardò verso l’entrata del ristorante e fece un sobbalzò “Guarda! Quelli sono i Pooh!”.
Liesel la imitò “Caspita, è vero! Guarda, quello è Dodi Battaglia! Adesso svengo!!”,
“Non fare la sciocca, Liesel: se svieni, non potrai parlargli. A proposito, parli l’Italiano?”,
“Un po’… però so come si dice autografo!”,
“Allora andiamo!”.
Sotto gli sguardi sbigottiti degli uomini, le due ragazze si alzarono e
si diressero al tavolo all’angolo opposto della sala.
I quattro rimasti al tavolo si guardavano, interrogativi “Vorrei
proprio sapere che hanno di tanto speciale quei quattro!”, stava
dicendo Lundi,
“Boh! Vai a capire gli amanti del pop!” rispose distrattamente Patrice ingoiando un boccone di involtino di pesce.
Poco dopo, le due ritornarono con espressioni estasiate.
“Patrice!!! Grazie, grazie, davvero!!! Prima questo bel posto, ed
ora i miei idoli! Questo è il giorno più bello della mia
vita!” Liesel, gongolando, andò ad abbracciare Tavernier;
Jeudi, dal lato opposto, gli strinse una mano nelle sue “Grazie, Patrice, davvero! E’ un magnifico regalo!”,
“Ehi, ehi, frenate!! Io non lo sapevo mica che quei quattro erano qui!”.
Inutile dirlo, per tutto il resto del pranzo le ragazze mangiarono
pochissimo, occupate com’erano a guardare di continuo i loro
cantanti preferiti.
Gli uomini, di contro, cercavano di capire cosa quei quattro avessero di tanto speciale.
Fu dopo pranzo, mentre Johann e Liesel erano in camera a riposare, e
Lundi discuteva col professor Tavernier al bordo piscina sul da farsi,
che Jeudi si appressò al bancone del bar per provare il famoso
caffè Italiano.
In un angolo, un pianista suonava Champagne, di Peppino di Capri; le luci gialle soffuse conferivano all’ambiente un che di intimo.
Mentre beveva il nero e forte liquido, sentì dietro di sé una voce che la fece sobbalzare.
“Intenso, vero? Dicono che sia una specie di droga, da queste parti”.
Le mancò l’aria; era così sempre, ogniqualvolta sentiva la voce di lui.
Si girò; Leòn le sorrise.
“Sì, è possibile” gli rispose “a me sta facendo uno strano effetto”.
Ma non è il caffè a farmi sentire così: sei tu!
“Devi bere più piano! Sei tutta rossa in viso!”,
Ed ora che lo hai notato, arrossirò ancora di più!
Una folata di profumo muschiato la investì in pieno; la mano che reggeva la tazzina tremò.
“Forse… forse hai ragione. Questa roba non mi fa bene”, l’appoggiò sul bancone.
Lui le sorrise.
Abbracciami!
Lei gli sorrise, di rimando.
Ma cosa vado a pensare!
Prese il portasigarette, e nervosamente ne accese una.
“Anche quello non ti fa bene”;
Jeudi abbassò gli occhi, con un risolino “Ha altre raccomandazioni, signor dottore?”.
Anche Leòn rise. Una risata fresca e cristallina, eppure smaccatamente virile.
“Come dottore non sono granché, vero? Eppure, ho accettato questa follia!”,
“Perché lo hai fatto?”,
“Per sfida, volevo cambiare aria; e per amicizia, Gizan mi
è molto amico”. Si ravviò i lunghi capelli “E
tu, perché lo hai fatto?”,
“Per provare qualcosa di nuovo, la solita vita mi annoiava”,
“Chi parla così, sta fuggendo da qualcosa!”,
“Forse. Il bello è che non so da cosa” aveva rivolto lo sguardo a terra, ora.
“Sai, tutti noi abbiamo qualcosa da cui fuggire; anche se, a
volte, non ce ne rendiamo conto: è il nostro animo che maschera
ciò che tanto ci ripugna, al punto da sfuggirlo”,
“Anche tu, Leonhard?” alzò la testa,
“Può darsi…” l’uomo aveva girato le
testa in direzione della piscina; Jeudi seguì il suo sguardo, e
vide Lundi che stava esaminando attentamente una carta con Tavernier.
Certo che di me non gliene importa proprio nulla…
“Quanti altri modi di fuggire conosci?” tornò a rivolgersi a Leòn,
“Non molti. Ma il migliore, è sicuramente questo!”.
La prese per mano, alzandosi, ed insieme si avviarono al pianoforte, da
dove, nel frattempo, il pianista si era alzato, dopo aver finito il suo
turno.
Leòn si sedette al piano; iniziò a suonare Mai più noi due, di Dolcenera.
… Ma sono condannata a pensarti per sempre!(1)
Questa canzone parla per me!
Jeudi si perdeva negli occhi di lui. Era incantata a guardare ogni suo
movimento, ogni espressione del suo viso, ogni suono della sua voce: e
fu allora che capì.
“Viviane se n’è andata un anno fa” disse,
all’improvviso, Leòn “da allora, cerco di far di
tutto per dimenticare”.
Jeudi era esterrefatta: lui le stava facendo le proprie confidenze, di
sua spontanea volontà! E si conoscevano solo da pochi giorni!
“Perché mi racconti questo?” gli chiese,
“Perché sento di potermi fidare” fu la risposta
“ tu sei la compagna inattesa di una fuga felice!”
Fuga felice! Che bella espressione! Anche io vorrei tanto scappare dalla mia routine, ma non posso farlo!
Alzò gli occhi a guardare Lundi fuori, che sedeva ancora col professor Tavernier.
Leòn finiva di cantare il suo pezzo improvvisato; lei lo
guardava ancora, ma gli occhi, adesso, non esprimevano più
estasi, bensì una sorta di desiderio, di richiesta
supplichevole, muta.
“Sei stanca, Jeudi. Vuoi che ti accompagni in camera tua, a riposare?” l’uomo si alzò dal piano.
“Io, ecco… no… volevo dire sì, grazie!”.
Salirono per le scale; quando furono davanti alla porta della stanza di lei, Jeudi si voltò bruscamente verso di lui.
“Vuoi entrare?”.
Leòn le sorrise, socchiudendo gli occhi “E’ meglio di no, Jeudi. In questo momento, tu hai bisogno di riposare”, e, salutatola, si allontanò.
Jeudi entrò in camera.
Cosa mi succede? Che accidenti mi
succede? Fino a stamattina lo guardavo con l’espressione beata di
una ragazzina che guarda il suo idolo, ed ora… ora l’ho
sentito vicino! Tanto, troppo vicino. Anche lui vuol fuggire da
qualcosa. Qualcosa di più doloroso del mio qualcosa. Ho sentito
che fra di noi c’è un’empatia fortissima; una
spiritista non si sbaglia su queste cose: noi siamo, o potremmo essere,
assai più che colleghi, assai più che amici, assai
più che attratti fisicamente…
Iniziò a disfare la valigia, che giaceva ancora intatta sul letto, tanto per distrarsi.
La sua voce…
Stropicciò un po’ una gonna.
Lo ha sentito anche lui?
Perché non ha voluto entrare? “Hai bisogno di
riposare”: cosa avrà voluto dire? No, non prenderti in
giro, Jeudi! Lo hai capito benissimo che aveva un doppio senso, dietro
a quelle parole! Tu stavi morendo dal desiderio di lui, e lui lo ha
capito! Per questo non ha voluto seguirti! Per non far finire tutto in
una squallida avventura erotica!
Perché tu gli piaci, Jeudi!
Strinse la gonna che teneva ancora in mano, così forte da
conficcarsi le unghie nel palmo; si sentì mancare l’aria;
corse verso il balcone, e lo spalancò; respirò con forza.
Rientrò in camera. In un angolo, la solita luminosità azzurrina.
“Ciao, mamma. Ti piace qua, vero?”, Jeudi diede le spalle
allo spettro tornando verso la valigia; la madre la seguì.
“Sei tu che devi dirmelo, tesoro. Come ti senti?”.
Senza voltarsi, Jeudi rispose “Beh, è un posto bello,
elegante… ho anche conosciuto i miei cantanti preferiti…
cosa posso volere di più?”,
“Non scherzare, Jeudi! Ai morti non si può mentire! Sai bene di cosa parlo!”.
La ragazza sospirò, poggiando sulle gambe accovacciate le mani
che ancora reggevano la gonna “Mi piace…”,
“E…?”, insistette il fantasma,
“Non lo so, mamma. Qui c’è Lundi…”,
“Ti avevo avvertita al riguardo, mi sembra. E quindi, non hai
scuse…”, lo spirito si avvicinò alla figlia
“Ammettilo, Jeudi! Coraggio, ammettilo!”,
“Mi… mi sto… innamorando di lui…”
**********
“O.K.! Andiamo in due! E cerchiamo di convincerla!
Chiaro?”, Tavernier stava usando un tono che non ammetteva
repliche,
“Sissignore, signor professore!” Lundi rispondeva usando un tono scherzoso.
I due si stavano recando all’hotel Concord, per rintracciare il
membro fuggiasco della spedizione, Edith; Tavernier in quanto
capogruppo, Lundi come amico di vecchia data: insieme contavano di
farcela.
Attraversarono il lungomare, dove gruppi di giovani cercavano di rubare
gli ultimi scampoli d’estate; Lundi guardava tutto, senza vedere
niente.
Ed eccola, l’ennesima scusa che
ho trovato per sfuggire da Jeudi: perorare la causa della spedizione
con l’amica di vecchia data! Che assurdità! Non la
berrebbe neanche un cretino!
Ho paura, Jeudi: paura di restare da
solo con te, paura di affrontare il silenzio che c’è tra
noi. Perché fra noi si è creato un muro altissimo: da
quel giorno, il giorno maledetto in cui ho ceduto ad una mia stupida
debolezza ed agli occhi da triglia di Matilda, niente è stato
più come prima; tu hai perduto la fiducia che riponevi in me, e
non te la sei più ripresa. Non so nemmeno perché sei
tornata; è vero, i primi tempi è stata una gioia riaverti
con me, credevo mi avessi perdonato! Solo dopo, ho capito che non era
così.
Mi ignoravi, e mi ignori ancora: ci trattiamo come due estranei. Sei tornata per punirmi? E’ questa la tua vendetta?
Ma la cosa peggiore è che io
non faccio assolutamente nulla per cambiare le cose: temo, anzi sono
sicuro, che qualunque mia azione non farebbe che peggiorare le cose,
aumentando il divario che si è creato fra noi; e così,
non mi muovo: mi basta averti vicino, per illudermi che sia tutto come
prima, che tu mi ami.
Ma so bene che non è più così.
Ti sento lontana, ti sento distante.
Non sei più mia. Perché continui a stare assieme a me?
Perché non trovi di meglio, hai paura della solitudine? O vuoi
solo vendicarti?
“Eccoci arrivati!” fece Tavernier spingendo la porta a battenti del piccolo albergo.
Si diressero al bancone; il biondo professore scambiò alcune
parole in Italiano con l’uomo al banco, e quello prese la
cornetta di un interfono e compose un numero di camera.
“Signora Weiss? Ci sono due signori per lei. Scenda, prego!”.
I due uomini si accomodarono sulle poltroncine in pelle scura in fondo
alla sala; poco dopo, ecco arrivare Edith, in tutto il suo splendore: i
lunghi capelli rossi erano lasciati sciolti, ad incorniciare un viso
appena truccato sopra l’abbronzatura appena dorata; indossava un
top attillato e senza spalline su un paio di jeans, anch’essi
attillati.
A Tavernier brillarono gli occhi.
“Lundi! Ma che bella sorpresa! Cosa fai da queste parti?”, corse subito ad abbracciare e baciare l’amico.
Lui si alzò e le andò incontro “Ciao, Edith: sono lieto di trovarti bene!”,
“E come non esserlo in questa città? Ho tutto quello che
si può desiderare: sole, mare e divertimento a volontà!
Che vacanza, quest’anno!”.
Patrice era rimasto un po’ in disparte, in attesa che Lundi lo presentasse; ma Edith lo notò.
“Chi è quel tuo affascinante amico?”.
L’uomo si avvicinò; “Edith, ti presento il professor
Patrice Tavernier, esperto in storia dei Paesi dell’Europa
dell’Est” fece Lundi.
“Professore?” fece lei, tendendogli la mano “Un collega? Il lavoro mi perseguita anche qui!”,
“E’ un vero piacere conoscerla, dottoressa!”,
“Il piacere è mio!”.
Edith si sedette su una delle poltrone “Allora, a che devo il
piacere di questa visita? E dov’è Jeudi? Non dirmi che
è rimasta a Ginevra!”.
“Lasci a me il gravoso compito delle spiegazioni” esordì Tavernier, mentre anche lui e Lundi si sedevano.
Una mezz’ora dopo all’incirca, la situazione era stata
esposta brevemente alla potenziale settima partecipante
all’impresa; questa, che non aveva aperto bocca durante tutto il
tempo, stava continuando a fissare Patrice Tavernier con interesse
sempre crescente.
Alla fine disse: “Devo dire che la cosa mi attira, e molto anche.
Però, vedete, io sono qui per prender parte ad un concerto, e
prima di avervi assistito non intendo partire”,
“Ne siamo al corrente, Edith” si intromise Tavernier
“ed a proposito di questo, vorrei farle una proposta: sarebbe
disposta ad unirsi al gruppo se pagassi io stesso i biglietti per il
concerto a lei ed ai suoi amici?”.
La donna lo osservò con fare divertito “Non male come
idea. Ma vorrei aggiungere una postilla, se a lei non dispiace”,
“Dica pure”,
“Ecco, vorrei chiederle di accompagnarmi a quel concerto. Vede,
Patrice, sarei l’unica persona sola del gruppo, e prender parte
ad un concerto da soli è una cosa un po’… come dire
imbarazzante!”.
Tavernier la guardava, sornione “Sarà un vero piacere, dottoressa!”.
Poco dopo, i tre erano in cammino verso l’hotel Des Bains, per
raggiungere il resto del gruppo. Tavernier aveva acquistato i biglietti
per tutti, per poter assistere al concerto nei posti migliori; Lundi ed
Edith camminavano tenendosi a braccetto.
“E dov’è adesso Jeudi? In piscina? Non vedo
l’ora di rivederla!” Edith era davvero su di giri, forse
grazie al concerto, forse a causa dell’avventura che le si era
presentata.
O forse a causa di qualcos’altro.
Il bel professore la guardava sorridendo.
Giunsero in albergo intorno alle cinque; il resto della spedizione si
trovava nella sala bar. Subito, Edith andò incontro a Jeudi e la
abbracciò.
“Tesoroooo! Tutto mi sarei aspettata, tranne che di incontrarti
qui! Ma come ci sei entrata, in questa follia?”, le chiese. Jeudi
sorrise.
“E’ stata una cosa improvvisa” disse.
L’altra si accese una sigaretta. “E dimmi, chi è
quella statua vivente che mi è venuto a cercare assieme al tuo
uomo? E’ uno schianto, fa girare la testa!”
E non è il solo, pensò Jeudi.
“Quello? Oh, dài retta a me, Edith: stacci lontano!”,
“Perché mai?” la ragazza aspirò una boccata,
“E’ uno sciupafemmine; non cerca davvero una storia
stabile: ragion per cui, se non vuoi piangere, lascialo stare”,
“E’ da verificarsi. E poi, chi ti ha detto che io voglio una storia stabile?”;
Jeudi sospirò. “Fa come ti pare; ma non dire che non ti avevo avvertito!”.
Alle nove in punto, tutto il gruppo al completo uscì per recarsi al concerto.
Edith si era appiccicata come una cozza a Tavernier, che, dal canto
suo, non disdegnava la sua compagnia; Liesel non stava più nella
pelle, mentre Johann e Lundi erano allegri come chi va ad assistere ad
una conferenza di filosofia; seduta accanto a lui, Jeudi non smetteva
un attimo di guardare di nascosto Leonhard, voltato verso il finestrino
aperto del taxi, i lunghi capelli scompigliati dalla brezza e gli occhi
tesi a guardare le luci della sera.
Il teatro all’aperto era gremito di gente fino
all’inverosimile. I nostri si recarono subito verso la tribuna,
dove erano i posti migliori.
Una folla scalmanata stava già riempiendo l’aria di
schiamazzi e grida festose; grandi riflettori illuminavano il palco,
per ora vuoto.
Patrice Tavernier si volse indietro: c’era gente fin sulle
gradinate superiori, lo si poteva capire dalla marea colorata
ondeggiante che riempiva gli spalti del teatro.
“Ma guardali, ‘sti matti… che ci sarà da fare tanto chiasso qui?” pensò.
Si sedettero in quest’ordine: Patrice ed Edith vicini (altra
richiesta personale dell’intraprendente rossa), poco più
in là Liesel con Johann, e poi Lundi e Jeudi, con Johann e Lundi
gomito a gomito. In fondo a destra, accanto a Jeudi, ma un po’
spostato, stava Leòn.
“Sei mai stato ad un concerto come questo, Patrice?” gli chiese Edith,
“Mai. Solo a concerti di musica classica, e non c’era
questa agitazione”, Tavernier cominciava a pentirsi di essersi
imbarcato in quell’avventura musicale.
Jeudi e Leonhard erano seduti l’una accanto all’altro:
ciascuno dei due poteva percepire la presenza dell’altro, anche
se non si voltava a vederlo.
“Cominciamo, su! Così finiamo presto!” diceva Lundi a Johann; questo annuiva.
Il concerto ebbe inizio: gli artisti furono accolti da un urlo
fragoroso, urlo che fece letteralmente sobbalzare Patrice Tavernier.
“Sì, sì, mitici!!!” urlava Edith.
Roby Facchinetti, alle tastiere, attaccò La casa del sole, con la sua irraggiungibile, altissima voce; fu poi la volta di Dammi solo un minuto e di Cercando di te.
Il pubblico era in delirio generale; la platea e la gradinata esplosero letteralmente quando sempre Facchinetti intonò Pensiero.
Il concerto proseguiva. Tavernier si sentiva in qualcosa di sempre più simile ad una gabbia di matti.
… C’è il silenzio tra di noi… sì…(2)
Jeudi non poté fare a meno di guardare Lundi.
…perché sei andata via in silenzio,
e la colpa è stata mia!(2)
Anche lui la guardò.
La successiva canzone fu Noi due nel mondo e nell’anima.
Jeudi la sentì un po’ troppo sua.
Ed io dovrei comprendere
se tu da un po’ non mi vuoi…(3)
Guardò fissamente il suo uomo ufficiale, il quale seguiva il concerto con aria annoiata.
Basta così, e guardami!
Chi sono io tu lo sai!(3)
Si volse allora verso Leòn. La distanza fra di loro si era accorciata.
Noi due nel mondo e nell’anima,
la verità siamo noi… (3)
Lui corrispose al suo sguardo intensamente, i grandi occhi viola in quelli di lei.
Lo amo!!!
Leòn le strinse la mano; senza chiedersi il perché, lei strinse quella di lui, a sua volta.
…Così ti vorrei…
dai miei pensieri non te ne vai
ti sei aggrappato alla mia pelle… (4)
Perché, adesso, le sembrava che quella canzone fosse stata scritta per lei?
Cercami, nei mari che non traversammo mai
nel vento del primo mattino… (5)
Cercami, nel sole che scoppia di rondini
sul fiume che porta lontano…(5)
Ma che mi prende?Perché accidenti mi vengono queste immagini in testa, adesso?
Leòn che si spoglia a ritmo di musica! Stai davvero esagerando, Jeudi! Lundi è accanto a te!
… Ma è nascosto agli sguardi
questo amore perfetto!
Quattro muri e un letto… (5)
A sentir questo, le guance di Jeudi avvamparono: la sua immaginazione
era andata decisamente troppo oltre. Si coprì il viso con le
mani.
Il professor Tavernier, invece, era occupato in altri pensieri.
Turandosi le orecchie, in mezzo alla selva di braccia e di visi urlanti, si voltò verso Edith.
“Ma quando finiscono?!?”,
“Ma se hanno appena cominciato!!!” gli rispose l’eccitatissima ragazza.
Questi quattro sono incredibili! Se
li ascolto ancora per cinque minuti, rischio che mi venga voglia di
suicidarmi!!! Tutte storie di amori disperati, impossibili, sofferti!!
Possibile che li abbiano tutti loro? E guarda la folla, come si
scalda!! Perfino i miei compagni! Meno male che non parlavano
l’Italiano! Sembra, però, che queste canzoni le conoscano
tutte a memoria!! E guarda le ragazze!!! Quella laggiù, sotto al
palco: “Red, ti amo!”: deve essere in piena tempesta
ormonale, quella! Certo che non è male, quasi quasi mi verrebbe
voglia di farla sfogare io…
Il concerto proseguì per circa tre ore; i Pooh tirarono fuori
tutte le canzoni più belle del loro repertorio. Ad ogni parola,
Jeudi ebbe la certezza sempre maggiore del suo nuovo sentimento per
Leonhard.
All’uscita dal teatro, Tavernier era il bersaglio dei motti di tutto il gruppo.
“Ma Patrice! Non dirmi che non ti è piaciuto!”, faceva Edith,
“Piaciuto??? Mi sembra di stare dentro la campana del Big Ben, con me al posto del batacchio!!!”,
“Patrice!! Non puoi negare che anche a te hanno regalato emozioni stupende!”, incalzava Jeudi,
“Con tutto il rispetto, Jeudi, il mal di testa non è un’emozione!”.
Tutti risero. Ma il riso non era uguale per tutti.
Lundi, infatti, rideva di sollievo, per tutto il tempo non aveva visto l’ora di uscire; la stessa cosa Johann.
Jeudi, al contrario, rideva per scacciare i pensieri che le si affollavano prepotentemente nella mente.
Lo amo, lo amo! Le emozioni hanno
invaso, nude, il mio animo, mentre ascoltavo le canzoni, e le emozioni
non mentono! Cosa devo fare, adesso? Oh mamma, aiutami!
“Ah, che sogno!!! Ancora non mi sembra vero, è stato
fantastico!!!(6) Vi prego, se è un sogno, non mi
svegliate!!” sospirava Liesel.
Arrivarono davanti all’albergo; Patrice riprese il suo ruolo di capogruppo.
“O.K., gente! Abbiamo ancora un ultimo giorno di vacanza qui, poi
la festa è finita, e dovremo metterci al lavoro!”.
Un coro di mugugni fu il commento generale.
Tutti si ritirarono in camera, dandosi la buonanotte; Jeudi e
Leòn non riuscivano a staccare le loro mani ed i loro sguardi.
Lundi le si avvicinò “Andiamo, amore?”,
“Sì, certo. Buonanotte, Leonhard”,
“Buonanotte”.
Al separarsi delle mani, provarono quasi dolore.
“Mi accompagna al Concord, professore?”, chiese Edith a Tavernier,
“Veramente avrei un’idea migliore!”.
____________________________________________________________
(1) Credits: Mai più noi due, Dolcenera
(2) Credits: In silenzio, Pooh
(3) Credits: Noi due nel mondo e nell’anima, Pooh
(4) Credits: Così ti vorrei, Pooh
(5) Credits: Cercami, Pooh
(6) Come darle torto??
Nota dell’autrice:
ed eccomi qua! Un po’ lungo questo capitolo, vero? Ma è
stato un omaggio ai miei cantanti preferiti; ho cercato di inserire,
come meglio potevo, i miei ricordi dei loro concerti dove sono stata
presente; dal prossimo capitolo, però, si fa sul serio: si entra
nel vivo della storia (dopo un’ultima scena idilliaca). E adesso,
passiamo ai ringraziamenti:
Ninfea 306:
allora, che te ne pare del concerto? L’ho reso bene? Fammi
sapere, e dimmi se finalmente hai visto Leòn su You Tube!
Vitani:
grazie dei tuoi apprezzamenti, mi hanno fatto davvero piacere; e grazie
soprattutto di aver messo questa storia tra le tue seguite: spero di
non deluderti.
Tonksis:
come ti avevo promesso, ecco qui la scena del conte al concerto: che te
ne è parso? P.S.: mi sono limitata al rating arancione
(anziché rosso) in seguito alla tua richiesta; questo significa
che su alcune scene (soprattutto quelle dei vampiri, ma anche
altre) dovrò trattenermi un po’… ad ogni modo,
fammi sapere se ti piace.
Un bacione a tutti, al prossimo capitolo. Tetide.
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Capitolo 4 *** Novantanove vite ***
NOVANTANOVE VITE
NOVANTANOVE VITE
Il mattino dopo.
Jeudi si era svegliata di buon’ora, e subito si era affacciata
sul balcone per godere delle ultime ore di sole di quella eterna estate
del Mediterraneo: quella sera stessa, infatti, si sarebbero imbarcati
sul volo che li avrebbe portati nel cuore delle nebbie
dell’Europa dell’Est.
Guardò giù in piscina: alcuni bagnanti mattinieri, forse
Tedeschi, erano già a mollo, e si lanciavano reciprocamente
frizzi e lazzi; altri sedevano invece sulle sdraio sorseggiando
colorati drinks, leggendo riviste o beatamente distesi al sole.
Abbassò lo sguardo; troppi erano stati gli avvenimenti
importanti di quei giorni per potersi definire senza pensieri: aveva
scoperto di essere innamorata di Leonhard, perdutamente e follemente, e
forse anche lui provava un qualcosa di simile nei suoi confronti;
naturalmente, non aveva detto niente al suo fidanzato ufficiale,
né sapeva come comportarsi con lui, ma questa era una cosa che
prima o poi avrebbe dovuto affrontare. Ma come?
Era questa la sua principale preoccupazione, sì; per il resto,
avrebbe potuto definirsi piacevolmente eccitata, anche se non
tranquilla.
C’era poi la missione che tutti loro stavano per intraprendere: e
certo non sarebbe stata senza rischi, nonostante le alte competenze del
professor Tavernier e di tutti loro; di certo, la madre o qualcun altro
da lassù avrebbe potuto avvertirla, ma era chiaro che la scelta
finale sarebbe toccata a lei soltanto; e lei, per carattere, non
avrebbe mai abbandonato i suoi colleghi e nuovi amici nel pericolo, lo
sapeva bene.
Rientrò in camera; Lundi giaceva ancora beatamente addormentato
nel letto: aveva l’aria di un ragazzino indifeso. Sorrise e gli
si avvicinò.
Come avrebbe potuto dirgli che adesso amava un altro? Gli avrebbe di
sicuro spezzato il cuore! Ma continuare a vivere in quella menzogna per
sempre, non sarebbe forse stato peggio? Continuare a vivere accanto a
lui, con Leòn nel cuore per sempre?
Gli sfiorò i capelli con una mano. Ed abbassò la testa.
Non lo amava, è vero, ma si sentiva comunque colpevole nei suoi
confronti a spezzare un legame tanto duraturo.
Decise di scendere a fare colazione, per non pensare; o almeno, per provare a non farlo.
Si alzò ed andò in bagno a vestirsi; dopo pochi minuti, uscì dalla camera, badando di non svegliare Lundi.
Lungo il corridoio incontrò una coppia di bagnanti: apparivano
così sorridenti, innamorati, felici! Perché a loro, da
troppo tempo, non era più dato di essere così?
Già, Matilda! Era cominciato tutto con lei! Il giorno in cui
Lundi l’aveva rivista, qualcosa fra di loro era morto. Per sempre.
Arrivò in sala colazione, dove trovò Edith; questa la
salutò con la mano e Jeudi si andò a sedere con lei.
“Allora, passata bene la notte?”, fece, col suo solito tono scherzoso e un po’ irriverente,
“Abbastanza, grazie. Ma tu che fai qui? Non avresti dovuto essere al tuo albergo?”.
L’altra le sorrise. “Veramente, c’è stato un
cambio di programma. Patrice ha insistito affinché restassi a
fargli compagnia, ieri sera”.
Jeudi la guardava, allibita. Lei riprese.
“E non immagini che notte è stata! Erano anni che non me la spassavo così!”,
“Edith!!!”,
“Patrice… che uomo! Meno male che aveva una scorta di preservativi!”,
“Edith!!! Ma ti pare il caso di parlare di queste cose in pubblico??”;
l’altra ingoiò un sorso di
caffè “Guarda che tanto questa notte ci ha sentito tutto
il piano!” alzò tre dita “Tre volte!”.
Jeudi si coprì il viso con le mani
“Oh, povera me! Che amica scostumata che mi ritrovo!”.
Edith sorrise “E tu con Lundi? Come va? State approfittando della vacanza?”.
Jeudi si incupì “A dire la
verità… ecco vedi… avrei bisogno del tuo
aiuto…”.
L’amica si accese una sigaretta “Dimmi! Se posso aiutarti…”,
“Dovresti leggermi le carte!”,
“Ehh?? Va bene, se è questo… Andiamo di là, però!”.
Le due ragazze uscirono dalla sala colazione e si diressero al salone
da gioco; Edith si fece dare dal banco un mazzo di carte; andarono a
sedersi; nel solito angolo, il solito pianista suonava Wonderful life, di Black.
“Allora” cominciò Edith “vuoi sapere dell’esito della missione, immagino!”,
“No. Voglio sapere di me e Lundi”.
L’altra abbassò lo sguardo sul mazzo, poi mescolò
le carte e le depose sul piano del tavolo “Scegli un numero ed
una carta” disse.
Dopo che Jeudi lo ebbe fatto, Edith scoprì le carte, e rimase a guardarle con aria preoccupata.
“Ho buone e cattive notizie: quali vuoi prima?”,
“Le cattive”,
“Tra te e Lundi non c’è più niente da un
pezzo. Restate insieme solo per comodità, perché non
avete altre storie e non ne volete cercare: lui non riesce più a
parlarti, ed ha paura di farlo; tu, invece, perduta la fiducia in lui,
non sei più disposta a concedergliela; ciononostante, ti senti
in colpa a lasciarlo, così resti con lui!”,
“Sai che novità mi hai comunicato! E le belle?” ,
“Beh… le belle sono che c’è un’altra
storia che sta iniziando, magari proprio in questi giorni, ma, proprio
a causa del senso di colpa che ti ho detto prima, tu non sai che pesci
prendere!”.
In quel momento, entrò Tavernier.
Il pianista, nel frattempo, aveva finito la canzone, ed attaccò Crazy, di Julio Iglesias.
“Buongiorno, signore!”,
“Ciao, Patrice. Edith mi ha detto che avete fatto una bella dormita, stanotte!” Jeudi lo guardò in tralice,
“Ah, questo ti ha detto? Beh, forse è meglio che sia stata
tu la prima a saperlo: posso pregarti di non parlarne con gli altri,
almeno per ora?”,
“Ed io posso pregarti di non… dormire con lei come hai fatto con qualcun altro in passato?”.
Edith non la lasciò finire: si alzò e buttò le
braccia al collo di Tavernier, baciandolo con passione; lui
ricambiò, al punto che Jeudi poté vedere i due che si
davano la lingua.
“Da non credere!” Jeudi sibilò, voltando la testa dall’altra parte.
La coppia iniziò a ballare lentamente al ritmo della canzone,
sulla pista vuota; si tenevano stretti e si accarezzavano l’un
l’altra.
Ma non gli è bastata la maratona di stanotte?, pensò Jeudi.
Fortunatamente, almeno, Edith non è romantica come Martha!
Crazy, I’m crazy for crying,
crazy for trying,
and I’m crazy for loving you(1)
Ma perché i cantanti riescono
sempre a vedere dentro di noi meglio di noi? Questo me le sta proprio
cantando, non c’è che dire! “Sono pazza a piangere,
a tentare, ad amare te”! Quant’è vero, Leonhard! Ma
non può andare avanti in questo modo, proprio non può!
Devo trovare un senso a questa situazione, anche se un senso non ce
l’ha!(2)
In quel mentre, ecco arrivare Leòn.
Magnifico, adesso siamo a posto!!!
“Buongiorno”,
“Buongiorno”,
“Dormito bene, stanotte?”,
“Abbastanza, grazie. E tu?”,
“Non tanto. Ho continuato a canticchiare per un bel pezzo quelle canzoni, senza riuscire a prender sonno”.
Jeudi sorrise.
E tu turbi i miei sonni, ed anche la mia veglia!
La ragazza si guardò attorno: Edith e Patrice non c’erano più, dovevano essere usciti.
“Posso sedermi?”,
“Prego”
Non desidero altro che di averti accanto!
“Sai,… pensavo di fare un bagno. Mi fai compagnia?”,
“Perché no? Tanto non ho mangiato nulla! Però, dovresti aspettare che salga a mettermi il costume”,
“O.K.! Ti aspetto qui”.
Con passo leggero, Jeudi si diresse verso la camera che divideva con Lundi.
Che gioia, poter stare con lui! Mi sento un’adolescente alla sua prima cotta!
Aprì la porta, canticchiando, ed entrò.
Nell’aria, si respirava la solita aria di fiori e di pulito
tipica degli alberghi in località di mare, con qualche spruzzo
di caffè che veniva dal bar della piscina sottostante.
Lundi si era già fatta la barba e vestito. Lei lo salutò:
“Buongiorno!”,
“Ciao”, lui si voltò appena. Jeudi si smontò.
“Cos’è quest’aria triste?”,
“E tu dove sei sparita, così presto?”,
“Ero a fare colazione con Edith, di sotto”,
“Avresti anche potuto aspettarmi!”,
“Scusa, ma stavi dormendo e non ho voluto svegliarti…”,
“Dì piuttosto che non avevi voglia di avermi tra i piedi!”,
“Ma che accidenti stai dicendo, Lundi?”,
“Dico quello che vedo! Hai deciso di fare tutto questo tu, senza
neppure consultarmi: di venire qui, di imbarcarci in questa
assurdità!”.
Lei avanzò di qualche passo “Ah, sì? E sai
perché l’ho fatto? Perché volevo vivacizzare un
po’ il nostro rapporto! Perché, caso mai non te ne fossi
accorto, ultimamente siamo diventati due estranei!!”,
“Cos’ha che non va il nostro rapporto? Stiamo bene insieme,
siamo tranquilli, avevamo deciso anche di sposarci tra qualche anno!
Che altro vuoi da un rapporto a due?”,
“Certo che sei diventato proprio un vecchio imbecille! Dài
tutto per scontato! E ti comporti come se io fossi trasparente!!!
Neanche mi vedi, a casa, non ti curi di me!!! A stento dividiamo la
casa e le faccende domestiche ed economiche: in sostanza, fai lo
stretto indispensabile! Un rapporto va vivacizzato, dovresti farmi
sentire ogni giorno che mi ami, come facevi all’inizio!!! Ma a
te, adesso, basta la facciata di una relazione!”
“Certo che siamo diventati pretenziosi! Cosa vorresti, rose rosse e gioielli di Cartier ogni giorno?”,
“Vorrei che ogni tanto, quando siamo a casa, smettessi di
guardare il giornale o la TV, e guardassi un po’ anche me!”,
“Ma sentitela!! Adesso si dà arie da grande attrice!! Sai
cosa penso, invece? Che a te non è ancora andata giù la
faccenda di Matilda, ed ora tu abbia bisogno di continue conferme da
parte mia!!!”.
Jeudi strinse gli occhi a due fessure “Sei ignobile! Come puoi
dire questo? Eppure dovresti sapere che è proprio a causa sua se
siamo diventati due estranei!”,
“Ci ho preso, allora!!! Non l’hai proprio mandata
giù! Sai che ti dico? Avrei dovuto restare con lei, forse adesso
starei meglio!”.
Lundi ebbe appena il tempo di finire; Jeudi gli assestò in
faccia un sonoro schiaffone. Poi andò a chiudersi in bagno, e
scoppiò in lacrime.
In un angolo, comparve la madre.
“Te lo avevo detto, bambina mia. Il vostro rapporto è alla
frutta; lui non è mai stato l’uomo adatto a te, avresti
dovuto capirlo da tempo, ormai”, le si avvicinò,
chinandosi su di lei,
“Da quando mi ha tradita?”.
Lo spettro fece cenno di sì con la testa.
“Cosa devo fare, allora?”,
“Segui il tuo cuore!”, così dicendo, svanì.
Jeudi si asciugò le lacrime: era troppo orgogliosa per
permettere a Lundi di vederla piangere; poi si spogliò,
indossò il costume ed il pareo ed uscì dal bagno.
Trovò Lundi con un’espressione affranta sul viso.
“Jeudi…”,
“Lasciami in pace!”, gli gridò lei, ed uscì dalla camera.
“Sai che ti dico? Fa come ti pare!!!” le gridò dietro lui.
Leòn, Leòn… meno male che ci sei tu!
Cercò di calmarsi.
Arrivando in piscina, lo vide: era bellissimo, anche lui in costume. Le sorrise, accendendole il sole all’improvviso.
Lei gli ricambiò il sorriso.
“Scusa se ti ho fatto aspettare”.
Leonhard si tuffò in acqua; posato il pareo su di una sdraio, lei lo seguì.
“Ah, che bello!!! Meglio godercela, domani saremo nelle nebbie!”, improvvisamente, si sentiva meglio.
Con due bracciate, lui la raggiunse.
Si guardarono negli occhi, intensamente.
“Posso chiederti una cosa?”, Jeudi, in quel momento, sentiva che non c’erano barriere, tra loro.
“Certo, dimmi!”, lui le passò un braccio dietro le spalle.
“Perché tu e Viviane… sì, insomma… perché avete rotto?”.
Leonhard abbassò lo sguardo, in quell’espressione di malinconia viola che tanto piaceva a Jeudi.
“Eravamo troppo diversi. Lei… si accontentava di poco”,
“In che senso?”,
“Voleva far coppia, sì, ma non aveva entusiasmo: sin dal
principio, mi disse subito che voleva accasarsi, e basta. Le bastava
andare in giro in due, per forma, come io fossi stato il suo autista od
il suo accompagnatore”.
Jeudi si sentì aprire un cancello nel cuore.
“A me, invece, quella vita falsa e regolata dava sui nervi. Mi
sembrava di sprecare i giorni che abbiamo su questa Terra, che non
sappiamo quanti siano, e cosa ci porteranno; mi sembrava di sprecare il
nostro amore. E non sapevo se ne avrei avuto un altro”.
Avvicinò il viso a quello di lei “Non abbiamo novantanove
vite! Per questo, non possiamo, né dobbiamo, sprecare neanche un
attimo della nostra esistenza”.
Ora, erano vicinissimi. Troppo vicini.
Le loro labbra si accostarono, fin quasi a sfiorarsi…
“Jeudi!!! Dove sei? Ah, sei qui!”
Patrice Tavernier era maestro ad arrivare nei momenti meno opportuni.
“Cosa c’è, Patrice?”, si allontanarono di nuovo.
“Io sto andando a saldare il conto: è quasi mezzogiorno, e
tra poco dovremo lasciare le stanze. Tu e Lundi avete preso qualcosa
dal frigobar?”,
“No, io no. Di Lundi non so nulla”,
“Va bene, allora vado a chiederlo a lui. Scusa se ti ho disturbato”.
L’incanto si era rotto. Leonhard si era allontanato un poco da lei; ora stava nuotando un poco più in là.
Jeudi uscì dalla piscina “Visto che stiamo per
partire” disse “è meglio che vada a rifare la
valigia!”,
“Certo! Ci vediamo dopo”.
Risalì in camera, sperando di trovarvi Lundi, e di chiarirsi con lui.
Non abbiamo novantanove vite, non
abbiamo novantanove vite! E l’unica che abbiamo è troppo
complicata per complicarcela ancor di più con stupide
recriminazioni!
Aprì la porta, ed entrò. Ma la camera era vuota.
Si avvicinò alla scrivania e vide un biglietto.
Vado a fare quattro passi. Ci vediamo dopo. Lundi.
No, di me non gli importa davvero più nulla! Vuole solo “andare in giro con la fidanzata”!
Come sospinta da una forza superiore, si cambiò, indossando un
vestito di seta rosa ed arancione che scendeva fin sotto le ginocchia;
si sciolse i capelli; poi, prese la porta ed andò nella camera
di Leonhard.
Bussò. Lo trovò che era appena rientrato, e si stava rivestendo: aveva ancora la camicia aperta.
Gli amici adesso avranno tante cose da parlare e poi
mi riempiranno di consigli e di rimproveri
perché adesso sto con te...(3)
Si guardarono negli occhi, senza dirsi una parola; poi si abbracciarono e si baciarono con passione.
Noi due avevamo fino a ieri i nostri amori veri
sembravano per sempre, adesso invece siamo qui(3)
Iniziarono a spogliarsi l’un l’altra, freneticamente.
E nessuno capirà che sto con te
e nonostante tutto e tutti, io corro da te
controcorrente, contro la gente…(3)
Il vestito di Jeudi e la camicia di Leòn caddero a terra, mentre
lui la sollevava, sempre baciandola, e la deponeva sul letto.
C’è la mia vita che sta cambiando itinerario ed io
fino a un momento fa, lo giuro, neanche lo sapevo
ci siamo entrati lentamente nella pelle e poi
ci siamo combattuti fino in fondo,
fino a farci male(3)
Leòn si sfilò i pantaloni.
E alla fine hai vinto tu,
e io sto con te
ed è solamente amore, se corro da te(3)
Jeudi gli strinse le gambe intorno alla vita, e gemette.
Ci siamo presi, ci siamo arresi…(3)
“Leonhard…”,
“Ti amo, Jeudi!”,
“Anch’io… anch’io ti amo, Leòn!”,
Stare senza di te, io no
stare senza di te, non si può
anche se poi qualche parte del cuore
ci scoppia di dolore(3)
Iniziò la danza dei corpi sul letto, una danza che si faceva ad
ogni istante più frenetica, quasi volessero sfogarsi insieme
delle rispettive frustrazioni e degli anni perduti.
Stare senza di te, io mai
stare senza di te, non potrei
noi ci vogliamo, e non ne ha colpa nessuno…(3)
Leonhard la strinse più forte, ed i gemiti di lei divennero grida di piacere. Infine, un ultimo grido.
Si lasciarono, sfiniti, e si abbandonarono sul letto.
Oggi abbiamo consumato le nostre novantanove vite in una volta sola!
Jeudi sorrideva con le lacrime agli occhi.
Leòn l’abbracciò da dietro “Sei pentita?”,
“Niente affatto!”.
**********
Dopo una breve e sconclusionata passeggiata per le vie del centro,
Lundi era rientrato in albergo, ed ora sedeva al bar, un bicchiere di
vodka davanti ai suoi rimorsi.
…E di nuovo! Ci risiamo di nuovo!
Non riesco a parlarle. Non più.
Quando provo a farlo, questo è il risultato. Possibile che fra di noi si sia alzato un muro simile?
Mi manchi, Jeudi. Mi manca il nostro
amore spensierato e leggero che ci faceva volare come due adolescenti;
ed odio il fatto che sono stato proprio io ad assestargli il colpo di
grazia, col mio sconsiderato gesto di una volta sola prima, e col mio
torpore poi: col mio torpore, io ho ammalato il tuo entusiasmo!(4)
Ma che male c’è, in
fondo, a volere una vita tranquilla e regolata? E perché Jeudi
è così convinta che, non manifestandolo di giorno in
giorno, l’amore cessi di esistere? “Dài per scontato
che io ti ami, e che anche tu mi ami!”, mi ha detto; e non
è così, forse? Non è scontato, dopo tanto tempo
assieme? Perché vuole continue conferme?
Il ghiaccio dentro al bicchiere si spostò, sciogliendosi un
poco; l’uomo trasse un profondo sospiro, quindi prese il
bicchiere ed ingoiò un sorso.
Si sentì toccare da una mano sulla spalla “Allora, siamo pronti?”.
Si girò. Era Patrice.
“Non so. La mia valigia è già in deposito; dovresti
chiedere a Jeudi se la sua è ancora in camera”,
“No, non più. La tua ragazza è seduta di là,
con la sua valigia, in compagnia del professor Wolfgang; siamo tutti di
là, con i bagagli”.
Lundi sorrise di traverso “Va bene. Un momento e vengo anch’io!”.
Seduta sull’elegante divano del salone, Jeudi ascoltava, o meglio
fingeva di ascoltare il racconto di Johann con interesse.
“… Ed avresti dovuto vedere che razza di libri avevano
là dentro! Parola mia, quella non è una libreria,
è una biblioteca!”,
“… Interessante…”, Jeudi teneva gli occhi
bassi. Ogni tanto, li rialzava per incrociare lo sguardo blu-viola di
Leonhard, seduto di fronte a lei assieme ad Edith e Liesel.
Come al solito, era Edith a tenere banco. “Certo che la moda
Italiana è sempre la migliore… ineguagliata ed
irraggiungibile! Però, che prezzi! Non ho potuto comperare
niente!!!”,
“Certo che quella boutique che abbiamo vista era elegante…”, faceva eco Liesel.
Jeudi sorrise, all’indirizzo di Leonhard; lui la ricambiò, in un tacito messaggio d’intesa.
Non si erano più rivolti la parola da quando Jeudi aveva
lasciata la camera di lui, ed avevano deciso di non farlo troppo spesso
per non dare nell’occhio; d’altronde, si sentivano sotto
gli occhi di tutti, specie dopo che Tavernier li aveva visti in piscina
mentre stavano quasi per baciarsi…
Quindi, almeno in presenza agli altri, era preferibile parlare il meno possibile, limitandosi agli argomenti di lavoro.
“Dunque!”, Patrice Tavernier entrò con la sua solita
aria trionfale “Ho fatto chiamare il taxi; fra poco sarà
qui e ci condurrà all’aeroporto; sbrigate le
formalità, vi illustrerò il percorso. Mi raccomando,
dobbiamo essere tutti pronti all’azione!”.
Due ore più tardi, erano in aeroporto. Patrice aveva illustrato
alla perfezione il percorso di viaggio, ed ora tutti sapevano bene che
non si sarebbe trattato di una gita di piacere: quasi tutti i luoghi
del loro soggiorno erano assai poveri, e frequentati da borsaioli e
spacciatori di denaro falso, per non parlare del clima, molto rigido in
quel periodo dell’anno.
Jeudi e Lundi sedevano vicini, con i bagagli ai loro piedi; a vederli,
sarebbero sembrati la tipica coppia borghese di ritorno a casa dopo le
ferie.
Ad un occhio più attento, però, non sarebbe sfuggita la
freddezza che passava tra di loro, ciascuno girato dalla parte opposta
all’altro.
“Ehi!”, Edith si avvicinò all’amica “Siamo sedute vicine sull’aereo, o sbaglio?”,
“Non sbagli”,
“Lundi, tu sei con Patrice, giusto?”,
“No, con Johann; Liesel è accanto a Patrice”,
“Accidenti, sono gelosa!” disse Edith sottovoce, rivolta a
Jeudi “Andiamo a farci un caffè prima del decollo?”,
“Ottima idea” Jeudi si alzò.
Lundi la trattenne per un polso “Jeudi…”,
“Cosa vuoi?”,
“Scusa… per stamattina”,
“Scuse accettate!”, disse e si liberò dalla presa di lui.
**********
Quando atterrarono a Bucarest era ormai buio. Il piccolo aeroporto
aveva un’aria di fatiscenza e trascuratezza tale da non dare
davvero il miglior benvenuto.
“Qui tutto risale all’epoca del dittatore Nicolaj
Ceausescu” stava dicendo Patrice mentre trascinava la sua valigia
e portava quella di Edith, che gli camminava a fianco “e dato lo
stile delle dittature, non potevamo aspettarci nulla di ridente. Mi
raccomando, attenzione alle valige, da queste parti sono considerate
merce preziosa!”.
Uscirono dallo squallido salone arrivi; ad attenderli sulla banchina
c’era un uomo sulla quarantina, capelli castano chiaro e
corporatura abbastanza imponente.
“Benvenuti!” disse in perfetto Francese “Sono
Jean-Jacques, il vostro accompagnatore. Venite, raggiungiamo la
macchina!”.
La “macchina” era in realtà un arrangiatissimo
pulmino che doveva risalire ad un ventennio prima all’incirca;
era infangato ed ammaccato in diversi punti.
L’uomo aprì il cofano ed iniziò a metter dentro i bagagli; Tavernier gli si fece vicino.
“Non ci presentiamo, prima?”,
“No, prima mettiamo al sicuro i bagagli, è meglio!” rispose quello senza alzare la testa.
Quand’ebbe finito, chiuse il portellone e chiese “Chi è il capogruppo?”,
“Io” rispose Tavernier “felice di fare la sua conoscenza, dottor Piquet”,
“Il piacere è mio!”, i due si strinsero la mano.
Poi venne il turno delle altre presentazioni.
“Il dottor Piquet è Francese, ma da anni ormai vive e lavora qui”,
“Con mia moglie, che ha una farmacia, a Brasov. Io sono il
medico, ed ho uno studio ed un piccolo laboratorio dietro la
farmacia”.
“Interessante…” fece Liesel “E da quanto vive qui?”,
“Da circa dieci anni, da quando ho conosciuto mia moglie”,
“Così, ha lasciato per sempre la Francia?”,
“Sì. Amo questa terra, anche prima la amavo. Ma la vita qui non è per nulla facile”,
“A che si riferisce, dottore?” la voce di Leòn,
“Prima di tutto, alla povertà: la maggioranza dei miei
pazienti sono poveri, non hanno la possibilità di pagare un
medico, ed io li curo gratuitamente, tanto mi sovvenziona il vicino
ospedale”.
Erano sul pulmino, in viaggio verso il centro di Bucarest; ai lati
della strada, Jeudi osservava la desolata distesa dei campi grigi e
marroni, punteggiati qua e là da qualche cascina o da qualche
stabilimento industriale abbandonati. Il manto stradale era un vero
disastro, sobbalzavano continuamente. Quando entrarono a Bucarest, la
situazione non migliorò poi di molto: viali periferici senza
fine, larghi e deserti, dove regnava incontrastata la solitudine, che
sfociavano in immense piazze con al centro una statua colossale di
Ceausescu, di Stalin o di qualche altro dittatore; fredde luci gialle
ai lati delle strade, case fatiscenti, stradine sporche che
serpeggiavano tra di esse, percorse da ragazzini laceri e sporchi e da
cani randagi.
Raggiunsero quello che doveva essere il centro, dove regnava
incontrastato lo stesso squallore monumentale della periferia, ma si
vedeva qualche anima in giro in più.
Gli edifici del dopoguerra, costruiti in tutta fretta dal regime, erano
fatti di cemento grigio ed immense vetrate, anch’esse grigie e
fredde, che contribuivano al conferimento di quell’aria di
desolazione ed abbandono che aleggiava su tutta la città.
“Siamo arrivati!” il pulmino si fermò davanti all’insegna sporca e mezza spenta di un albergo.
Tutti scesero, girando la testa in aria, con aria sconcertata; solo Tavernier fece una fragorosa risata.
“Un bel salto da Riccione, vero? Certo, qui non ci sono cantanti!
Ve lo avevo detto che non sarebbe stata una gita!”.
“Patrice, ma tu… ci sei già venuto?” chiese Jeudi,
“Sì, altre tre volte. Ma non è poi così scioccante: basta farci l’abitudine, credimi!”,
“Ma non potevamo andare là?”, Johann indicò
col dito un albergo di fronte, che sembrava molto più elegante,
“Ah, non t’illudere! Tutta apparenza! All’interno, non è poi tanto meglio di questo!”.
L’ingresso era molto buio, tappezzato alle pareti di legni scuri
che mangiavano tutta la poca luce che emanava dalle lampade giallastre
e dal paralume di vetro sporco che illuminavano l’ambiente; anche
i mobili erano fatti di quel legno consunto e scuro, privi di forma e
tormentati dai tarli; i divani in velluto marrone presentavano buchi e
strappi, ed erano affiancati da portacenere che non venivano puliti da
chissà quanto; dietro il bancone stava un uomo con occhiali
dalle spesse lenti e dall’aria annoiata, che stava sfogliando un
registro. Jean-Jacques gli si avvicinò e gli rivolse alcune
parole.
Edith si aggrappò al braccio di Tavernier.
“Patrice… io non ci dormo da sola, qua dentro!”; lui
rise divertito.
“Ne hai voglia anche stasera?”,
“Non scherzare! Questo posto mi fa paura, non è per nulla raccomandabile!”.
Lui le accarezzò il viso “Va bene, allora vorrà
dire che dormirai tra le mie braccia tutta la notte, ed io ti
scalderò col mio corpo finché non smetterai di avere
paura! Va bene?”.
Edith gli sorrise.
“Signori, ascoltate” fece poi Patrice, a voce alta
“dato che Edith ha paura di star da sola, io e lei dovremo
occupare una delle due camere matrimoniali prenotate, quindi una coppia
dovrà separarsi. Coraggio: chi si offre volontario per dormire
da solo, stanotte?”,
“Ci dormo io!” Jeudi alzò la mano.
Magnifico!, pensò Lundi.
_______________________________________________________
(1)Credits: Crazy, Julio Iglesias
(2)Credits: Un senso, Vasco Rossi
(3)Credits: Stare senza di te, Pooh: la mia preferita!!! Ninfea 306: qual è la tua?
(4)Credits: Mi manchi, Pooh
E rieccomi, con un altro
capitolo! Come vi sembra la descrizione di Bucarest? Lo so che non
è bella, ma purtroppo è questa l'immagine che ne ebbi io,
al mio arrivo, quell'estate di alcuni anni fa. Magari, adesso è
cambiata... spero! E adesso, il momento dei messaggi...
Vitani:
Non posso ancora dirti cosa succederà a Lundi, ma, purtroppo per
lui, non sarà una cosa piacevole... così impara a far
soffrire in silenzio "tesoruccio nostro" per tutta la durata
dell'anime! XD
Ninfea 306:
ero sicura che Leòn ti sarebbe piaciuto, così come il
concerto dei "nostri" Pooh; adesso, come vedi, il tono cambia di
parecchio.
Tonksis: se ci sei, batti un colpo!
Un grazie anche a chi sta leggendo senza recensire.
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Capitolo 5 *** Terra desolata ***
TERRA DESOLATA
TERRA DESOLATA
Il pulmino procedeva speditamente sui lunghi viali deserti della città nuova.
“Questi edifici li ha fatti costruire il regime: tutta questa
zona, intendo. Nelle loro intenzioni, avrebbero dovuto essere
monumentali; ma, come potete vedere, il risultato è stato assai
diverso!” diceva il dottore.
Stavano attraversando quello che, nelle intenzioni del feroce
dittatore, avrebbe dovuto essere il “quartiere di
rappresentanza” del regime: viali larghissimi di cui non si
intravedeva la fine, percorsi al centro da aiole semivuote e fontane
grigie e dall’acqua ferma; ai lati, enormi casermoni tutti
tristemente uniformi, che ad occhio e croce dovevano contenere migliaia
di appartamenti ciascuno, e che avevano un aspetto moderno, anche se
anonimo; ma, avvicinandovisi, si vedeva chiaramente che essi mostravano
i segni del tempo e dell’incuria: intonaco scrostato, crepe nei
muri, balconi in rovina.
I viali si incrociavano tutti tra di loro, fino a confluire in quello
che sembrava il viale principale, in fondo al quale si apriva una
enorme piazza, più deserta delle altre perché dominata da
un unico, immenso edificio.
“Quello è l’ex palazzo presidenziale” fece
Jean-Jacques, indicandolo, “per costruirlo, e per costruire tutto
questo quartiere, Ceausescu ha fatto letteralmente buttar giù
molte delle vecchie e fatiscenti case del centro storico, e sfrattare
la gente, che però, poi, ha trovato un nuovo alloggio in questi
palazzi; ma la cosa peggiore è che molte di quelle case
distrutte avevano un giardino, dove stavano i cani; cani che, al
contrario dei loro padroni, non hanno trovato posto nelle nuove
abitazioni, e sono rimasti randagi per le vie della città
vecchia: se ne vedete qualcuno, stateci lontano, molti di essi hanno
l’idrofobia!”.
“Ah, ecco! Ora mi spiego!” esclamò Leòn
“Ieri sera ero uscito per una breve passeggiata, ed ho visto
molti di questi cani; un paio li ho anche accarezzati. Ma non riuscivo
a spiegarmi il perché della loro presenza, liberi, per le vie
della città. Ho creduto ci fosse lo sciopero degli
accalappiacani!”.
Tutti risero, tranne Jean-Jacques.
“Non deve uscir da solo qui, signor Aschenbach. Nessuno di voi
deve farlo. E’ pericoloso: oltre ai cani, ci sono diversi
borseggiatori in giro!”.
Jeudi sentiva e non sentiva la conversazione; era occupata a tenere il
suo sguardo, perso, al di là del finestrino. Tra gli enormi
palazzi si intravedeva qualche vicolo, più simile ad una favela
Brasiliana che ad una città dell’Europa dell’Est,
dove ragazzini sporchi e malvestiti giocavano sguazzando nel fango
insieme ai cani, o chiedevano l’elemosina agli angoli di strada.
Il suo pensiero corse alla cena della sera precedente.
La camera singola che le avevano assegnata (che sarebbe dovuta toccare
ad Edith) era squallida e sporca; l’unica finestra dava in un
cavedio interno stretto e buio, tappezzato di nidi di uccelli; le tende
e le coperte odoravano di polvere, non venivano sbattute da
chissà quanto tempo; il bagno aveva una squallida tendina di
plastica a fiori blu che celava alla vista la vasca, vasca che non era
poi così pulita… C’era perfino un piccolo
frigorifero, sgangherato e vecchissimo, che nelle loro intenzioni
avrebbe dovuto fungere da frigobar…
Jeudi si era piegata e l’aveva aperto, vedendone il contenuto:
alcune bottiglie d’acqua ed un paio di alcolici; aveva sorriso,
pensando a quella gente ingenua e volenterosa che cercava di dare il
meglio a quegli stranieri venuti dal ricco Ovest.
La cena non era stata da meno: un enorme stanzone, addobbato in modo un po’ kitsch per conferirgli un’aria meno squallida, con festoni dorati e specchi alle pareti.
Per tutta la durata della cena, lei e Lundi si erano ignorati; lei era
seduta vicino a Leonhard, da un lato, e Liesel dall’altro, mentre
Lundi chiudeva la fila ed aveva Patrice alla sua sinistra.
Avevano mangiato come due estranei, senza guardarsi, se non per brevi
istanti; poi, mentre gli altri chiacchieravano nel dopocena o
prendevano da bere al bar, Lundi le si era avvicinato.
“Abbiamo intenzione di continuare ancora per molto, a fingere di essere due estranei?”,
“Stà a te, non a me; e poi, guarda che non stiamo
fingendo: noi VIVIAMO da estranei da un po’ di tempo, te
l’ho detto!”,
“Jeudi, io… mi dispiace! Mi dispiace di aver nominato
Matilda, di averti ferito dicendo quelle cose orribili! Non le pensavo,
non le pensavo affatto, credimi! E’ stata la mia ira a parlare
per me!”.
Lei aveva soffiato fuori una nuvola di fumo ed era rimasta a guardarlo;
poi aveva detto: “Cosa dovrei fare adesso, dimmi? Abbracciarti e
dirti “Ti perdono amor mio!”? E’ questo che vorresti
che io facessi? Mi spiace per te, Lundi, ma io non sono quel genere di persona!”,
“Ma Jeudi! Non ci amavamo, ricordi? Stavamo insieme! Dovevamo sposarci! Che ti sta succedendo, tutto ad un tratto?”.
Altra nuvola di fumo “Il tuo comportamento: mi sembra di avertene
già parlato. Se vuoi continuare un rapporto, non puoi darlo per
scontato!”,
“Se è solo questo… ti prometto che al nostro ritorno le cose cambieranno, in meglio. Mi spiace di averti deluso, Jeudi!”.
Le mani di lei stavano tremando “E di avere avuto una storia con lei, ti dispiace anche?”.
Lui l’aveva guardata, senza sapere cosa rispondere. Sapeva bene
che la storia con Matilda era stata più di una semplice
avventura, che era durata troppo tempo e l’aveva coinvolto
troppo, al punto da spingere Jeudi a lasciarlo.
“A chiunque capita di sbagliare, Jeudi” fu tutto ciò che era riuscito a rispondere.
“Certamente! Un piccolo errore di solo quattro settimane può capitare a chiunque!”,
“Guarda che neppure tu sei perfetta! Ho visto come guardi
quell’Aschenbach, sai? Sei l’ultima persona che può
farmi delle lezioni in merito!”.
Jeudi aveva sussultato; era rimasta a fissarlo con aria sbigottita, la
sigaretta ancora fumante in mano.”Sei sorpresa? Credevi che non
me ne fossi accorto? Credevi che fossi cieco?”.
Questa volta era stata lei a non rispondere; aveva tirato
un’altra boccata, poi, senza guardarlo, aveva spento la sigaretta
e raggiunto Edith al bar.
Il gruppo stava ora passeggiando tra le strette e sporche vie che Jeudi aveva osservato dal pulmino.
“Dove stiamo andando, dottor Piquet, se è lecito?” chiedeva Tavernier,
“Da una persona esperta di certi argomenti. Abita da queste parti”.
Si aggiravano tra le poche casette antiche rimaste in piedi, infilando spesso i piedi in pozzanghere di fango.
Entrarono ad un tratto in quello che sembrava essere un antico cortile
nobiliare; a paragone dell’intera zona, quello era veramente ben
tenuto, un piccolo gioiello di tempi andati e lontani: si trattava di
un grande edificio medievale, costruito nel più puro stile
dell’Est, con lunghi ballatoi disposti su più piani da cui
si accedeva a delle porticine in legno ben curate, il tutto intorno ad
un grande cortile. In un angolo del cortile campeggiava un antico carro
di fieno, all’angolo opposto si trovava un grande pozzo, ormai
chiuso e coperto da vasi di fiori.(1)
“Come può essere che in mezzo a tanto squallore ci sia un
posto come questo?” si stava chiedendo Edith, mentre si guardava
attorno.
Seguendo Piquet, presero a salire per le scale in legno che conducevano
ai ballatoi; Jeudi notò che era tutto ben curato ed abbellito da
fiori di mille colori diversi.
Salirono tre piani all’incirca, poi il dottore si
incamminò lungo il ballatoio e raggiunse una porticina, alla
quale bussò.
Poco dopo, la porticina si aprì, ed una figura comparve dietro
di essa. Si trattava di una vecchia curvata dagli anni, piccola di
statura, con il viso completamente coperto da rughe profonde, ed un
fazzoletto colorato in testa; indossava uno scialle, degli stessi
colori del fazzoletto.
Jeudi, che chiudeva la fila, restò interdetta. “Quella mi sembra una fattucchiera” mormorò.
La ragazza vide materializzarsi accanto a sé la familiare luce
azzurrognola; dentro di essa, stavolta, stava un uomo biondo di
bell’aspetto.
“Papà!” sussurrò Jeudi, voltandosi “Perché ora?”,
“Per dirti che ti puoi fidare di lei! Vi aiuterà!”.
La ragazza sorrise “Grazie, papà!”.
Lo spirito sorrise, svanendo.
Il gruppo entrò nella stanza; il dottore fece cenno di sedersi
sulle sedie che stavano sparpagliate, poi si sedette anche lui.
“Farò da interprete” disse. La vecchia prese a parlare.
Jean-Jacques traduceva.
“Voi tutti siete emissari del Bene, posso sentirlo: la vostra
presenza riempie questa stanza di energia positiva; ma state andando
incontro ad un nemico insidioso: gli esseri che dovrete combattere
vivono nella notte, vivono per uccidere, vivono per sempre. Tenete ben
salda la vostra Fede, e non vi separate mai, per nessuna ragione: per loro, sarebbe troppo facile attaccarvi, uno alla volta. Portate sempre con voi uno specchio: loro
non possono specchiarsi, e questo vi aiuterà a riconoscerli;
fatevi dare delle croci benedette, e tenetele sempre con voi: la Santa
Croce è l’unica arma che loro temono veramente; non invitate mai degli estranei che conoscerete lungo il cammino a seguirvi: loro possono introdursi tra di voi, solo se invitati. Prendete queste!”.
Dicendo queste parole, la vecchietta aveva estratto da sotto allo
scialle un piccolo fagotto, che porse a Piquet; questi lo porse a
Patrice Tavernier, che lo aprì.
Tutti gli si fecero intorno per vedere di cosa si trattasse: dentro al
fagotto stavano dieci proiettili fatti d’argento purissimo.
“Altra arma efficace, ma solo se prima benedetta” aggiunse Piquet.
La vecchia impartì loro il Segno della Croce, dicendo: “Ora andate!”.
Tutti iniziarono ad alzarsi per uscire;la vecchia mormorò
qualcosa al dottore, e lui raggiunse Patrice ed Edith “Sarete
felici, non temete!”, disse loro.
I due si guardarono, interrogativi “Scusi, ma chi è quella? Una specie di maga, o che?” fece lei,
“E’ una veggente. Ed ha combattuto molte volte, in passato,
contro questo terribile nemico che ci apprestiamo a combattere. Conosce
troppo il male, per non sapere vedere anche il bene: e da voi, lo ha
visto immediatamente!”.
Anche adesso, Jeudi era rimasta in fondo alla fila; si stava
affrettando a raggiungere i compagni, quando sentì una mano che
la tratteneva per un braccio; si voltò, e vide la vecchia.
“Signora…” le disse; quella mormorò alcune parole, ma lei non la capì.
Chiamò allora Jean-Jacques, perché traducesse, e lui lo
fece. “Non aver paura del tuo cuore” fu ciò che le
disse.
Il mattino successivo, partirono per raggiungere Sibiu, la prima tappa del loro percorso.
Le campagne, nel pieno dell’autunno e lontano dalle autostrade,
mostravano in pieno l’abbandono di quella terra: una terra
desolata.
Intorno alle due, si fermarono a mangiare in una cittadina di nome Tirgoviste.
Mentre si trovavano al ristorante, il dottor Piquet fornì loro alcune interessanti delucidazioni.
“Questa città è la vera sede di Dracula”, disse a sorpresa.
“Che?!? Il Conte Dracula?!?” fecero quasi tutti, in coro. Lui sorrise.
“Professor Tavernier” si rivolse a Patrice “vuole
essere così gentile da spiegare ai suoi colleghi perché
lei non ha espresso stupore?”,
“Con vero piacere, dottore. Innanzitutto, il Conte Dracula non
era un conte, ma un principe, Vlad Dracul, vissuto nel XV secolo”.
Tacque per un istante; vedendo che tutti i volti erano fissi, muti, sul suo, continuò.
“Dracula era, in realtà, un uomo dei suoi tempi che aveva
due sole caratteristiche, una buona e l’altra cattiva, espresse
alla massima potenza: il senso di giustizia e la crudeltà.
Aveva, infatti, liberato queste terre dagli invasori Saraceni, che
avevano seminato morte e distruzione e si erano macchiati di efferati
massacri, ma al contempo aveva usata nei loro riguardi pari
crudeltà: era infatti suo uso offrire agli amici un banchetto
con annesso spettacolo; e questo spettacolo consisteva nella lenta
tortura a morte dei nemici catturati”.
Detto questo, Tavernier iniziò a spiegare i raccapriccianti
sistemi di tortura usati dal famigerato personaggio “Dicono che
questo fu una conseguenza della sua prigionia presso i Saraceni,
quand’era ancora ragazzo, prigionia durante la quale fu
più volte violentato ed assistette alla morte, tramite
squartamento, della ragazza di cui si era innamorato, una delle ancelle
del sultano”.(2)
Tavernier interruppe il racconto e fissò l’uditorio; le
facce erano abbastanza sconvolte e disgustate, per prima quella di
Edith.
“Ed è… per questo che gli è stato attribuito il vampirismo?” fu proprio questa a parlare;
“Sì, esattamente. La fama della sua crudeltà
oltrepassò i confini del suo principato, in parte aumentata
anche dal risentimento degli sconfitti Saraceni; poi, nel XIX secolo,
Bram Stoker scrisse il suo famoso romanzo(3), mischiando la fama
sinistra di Vlad alle leggende sui non-morti che popolavano il Paese da
tempi immemorabili, ed è così che è nato il famoso
vampiro”.
“Grazie molte, professore. Era qui che si trovava il palazzo del
vero Dracula; dopo, vi porterò a vedere le rovine”,
concluse Jean-Jacques.
“Una domanda… allora i vampiri non esistono?” Johann aveva abbassato la voce fino quasi ad un sibilo,
“Non è esatto. I vampiri fanno parte della cultura di
queste terre, praticamente da sempre. Solo che, alla luce dei recenti
fatti, è molto difficile continuare a credere che si tratti
soltanto di una leggenda”, gli rispose il dottore.
Al termine del pranzo, si recarono alle rovine del palazzo: non vi era
rimasto granché, se si eccettua, un colonnato che un tempo
doveva aver fatto parte di una galleria; il resto, erano solo muri
franati e resti di fondamenta.
Al ritorno sul pulmino, Jeudi si sentì mancare; fu Leòn a sostenerla.
“Jeudi! Ma che hai?”,
“Nulla, nulla di importante. Non preoccuparti Leòn”,
gli rispose tenendosi la fronte. Lui continuava a sorreggerla per la
schiena.
“Vieni, ti accompagno”,
“Non… non è necessario”.
In realtà, Jeudi conosceva quel senso di malessere: lo conosceva fin troppo bene.
Poco avanti a lei, infatti, iniziò a materializzarsi la solita
luce azzurrognola; dentro di essa, comparvero due anziani e distinti
signori: erano i nonni di Jeudi.
“Attenta! Stai attenta Jeudi!” fece la donna, mentre
l’uomo la osservava gravemente “Sei in pericolo, in grave
pericolo! Quando sarete a Brasov, non rimanere da sola, mai!”.
Anche l’uomo le si avvicinò “Qualcuno dal passato
vuol farti molto male: noi intercederemo per te, affinché il
buon Dio ti assista!”.
Jeudi aveva fissato la visione, muta e con gli occhi sgranati; ora la vide scomparire.
Leonhard la stava osservando, un’espressione incuriosita sul viso; Jeudi si voltò verso di lui.
“Stai bene, Jeudi?”,
“Sì”,
“Molto bene; allora raggiungiamo gli altri”.
Quella sera, in albergo in una località a metà strada verso Sibiu, stavano facendo il punto della situazione.
“La leggenda del vampiro è molto antica” Patrice
stava tenendo banco, come al solito “ed è originaria
dell’antico Medio Oriente: dell’Assiria, per la precisione;
da lì, si è poi trasmessa a tutto il mondo, trovando un
terreno particolarmente favorevole nell’Europa dell’Est. In
realtà, l’idea che i morti ritornino per completare
ciò che hanno lasciato in sospeso quando erano in vita è
insita in tutte le culture: ecco allora comparire l’essere
mostruoso che, per poter tornare, seppur per breve tempo in vita, deve
succhiare la vita ai viventi; ed ecco le innumerevoli pratiche, a dir
la verità sacrileghe, per scongiurare questa
“piaga”, tipo disseppellimento dei morti ed esecuzioni
postume, con paletti piantati nel cuore. Alcuni cadaveri venivano anche
decapitati e bruciati”.
Patrice tacque. Tutte le facce della comitiva erano sconcertate; nessuno osava proferire parola.
Jean-Jacques prese la parola “Ma queste, come avrete avuto modo
di capire, sono solo fandonie, assurdità di gente un po’
troppo superstiziosa, condannate persino dalla Chiesa. Il vampiro
moderno, in realtà, ha ben altre caratteristiche: è, di
solito, un raffinato gentiluomo (o gentildonna, a seconda dei casi),
conduce una vita agiata senza bisogno di lavorare, e quando caccia le
sue vittime, lo fa per piacere, non per fame. Il suo è una sorta
di gioco raffinato; le vittime sono di solito persone che egli ha prima
attirato a sé od anche persone che gli sono legate da affetto.
Il vampiro non conosce sentimenti: una volta attirata a sé la
vittima, sia questa o meno affezionata a lui, la avvince sempre
più fino a prenderne la linfa vitale”.
“Allora, tutto chiaro?” concluse Tavernier “Avete
ascoltato le due versioni della storia, quella più antica (con
relative conseguenze), intrisa di superstizione e quindi non credibile,
e quella attuale, che invece trova d’accordo la maggior parte
degli studiosi di occultismo di oggi. Ed è quest’ultima
che noi dobbiamo seguire”.
“E adesso” riprese Piquet “passiamo alla nomenclatura: la parola vampiro deriva da wempti, abbinato al suffisso –pi,
che in lingua Slava significa “stregone che beve”. Poi,
ogni Paese ha le sue varianti linguistiche e tipologiche: qui in
Romania, è conosciuto il vampyr, o dampyr, appunto, un non-morto che succhia sangue; in Polonia, abbiamo l’upir, una figura analoga, come pure il Croato vurkolak; in Grecia, invece, abbiamo il vrikolakas,
una figura di vampiro del tutto particolare: non si limita a succhiare
il sangue alla vittima, ma arriva anche a mangiarla”.
Tutti inorridirono.
“Infine, in Russia, abbiamo le figure dei risurgenti,
che si legano a concetti della teosofia di difficile
credibilità. Ma questa è un’altra storia, che non
ci riguarda”.
“Se permettete, signori” si intromise Leonhard
“vorrei esprimere la visione della scienza in merito: i vampiri
altro non erano che poveri infermi, afflitti da una rara malattia, la porfiria.
Orbene, questa malattia causa dissoluzione dei globuli rossi, ed il
risultato è un pallore mortale con occhi quasi vitrei; queste
pelli temono il sole, dato che ne ricaverebbero estese scottature, e
devono quindi rimanere nell’ombra; sarebbero inoltre allergiche
ad un componente contenuto nell’aglio: da qui, ecco derivare
tutte le storie sui vampiri. E’ naturale che in passato, in
epoche cioè in cui la scienza aveva fatto pochi passi avanti e
la superstizione, al contrario ne aveva fatti troppi, persone affette
da questo male dovevano apparire come stregoni, perché
“diverse”; venivano, allora, perseguitati
dall’Inquisizione e dai tribunali ecclesiastici, e non di rado
torturati: ecco perché i simboli religiosi incutevano tanto
timore in questi individui”.
Tavernier annuì “Ottima spiegazione, professor Aschenbach.
Ma gli individui che stiamo cercando noi non corrispondono a queste
caratteristiche; ho dimenticato di dirlo, ma il vampiro moderno non
teme la luce del sole: può andar in giro anche di giorno, anche
se non con gli stessi poteri che ha durante la notte”;
Leonhard lo osservava di sbieco “Le porto un profondo rispetto,
professore, a lei ed alle sue teorie; ma ciò non toglie che la
scienza parli chiaro, ed in questo il dottor Wolfgang mi può
venire in valido aiuto. Molte superstizioni, nel passato, nascevano da
malattie all’epoca ancora sconosciute: è il caso della
porfiria per il vampirismo e della sensibilità ai raggi lunari
di alcune persone per la licantropia; ma queste credenze hanno causato
veri e propri massacri: ed io non permetterò che un essere umano
innocente venga ucciso solo per una stupida superstizione, per di
più spiegabile scientificamente”.
Patrice sospirò “Noi non siamo qui per uccidere qualcuno,
professore, ma solo per liberare queste terre da un male e sciogliere
un mistero. Ad ogni modo, mi sembra prematuro parlarne adesso: prima
sarebbe più opportuno vedere la scena del misfatto, non
trova?”,
“Saggia osservazione!”, concluse Leòn.
Jeudi si guardò intorno. Si trovavano a pernottare in una
località di montagna, e l’albergo che li ospitava era in
tema. Ma a ben vedere, forse più là che a Bucarest si
avvertiva il senso di solitudine.
L’albergo era tappezzato da pannelli in legno alle pareti; sempre alle pareti, stavano sospese delle appliques
in stile antico lume a petrolio, che spandevano intorno una
confortevole luce attraverso il paralume opalino; il salone dove si
erano seduti a fare il punto della situazione era grande ed
accogliente, arredato con divani e tavolini, mentre i corridoi erano
stretti e lunghi; su tutto, predominava il legno.
Quel posto era una piccola, confortevole oasi in quel luogo sperduto.
Ma, appena fuori, ecco che riappariva la triste e cruda realtà:
dalle finestre della camera di Jeudi e Lundi si poteva vedere un
cortile popolato da alberi, roulotte e ragazzini laceri che giocavano nel fango.
E Jeudi era preoccupata: le parole dei nonni a cosa alludevano?
Qual’era il pericolo la cui lunga ombra si proiettava su di lei?
Tutto questo non le permetteva di concentrarsi sui discorsi dei suoi
compagni di lavoro.
Sentì una mano posarsi sulla sua spalla e si girò. Era Leòn.
“Jeudi, andiamo a cena?”.
Lei gli sorrise.
“E’ da oggi che mi sembri triste. Che cos’hai?”,
Fidati del tuo cuore!, le avevano detto in tanti.
“Ecco… io… ho un po’ di paura, Leòn!”.
Lui rise. “Paura? E di cosa? Hai appena sentito che cosa è
realmente il vampirismo(4). E poi” aggiunse, avvicinando il
proprio viso a quello di lei “i vampiri colpiscono
prevalentemente le persone vergini. Sbaglio, o ti ho amata?”.
A sentir dire questo, Jeudi arrossì fino alle orecchie, ed
immediatamente si alzò per raggiungere gli altri in sala
ristorante.
Si sentì invadere dai sensi di colpa, che si concretizzarono quando vide Ludi, che, vicino al buffet, si serviva una fetta di arrosto.
Ufficialmente, è ancora lui il mio uomo!
Ma di fatto, si ignoravano, anche se erano tornati ad occupare la
stessa camera; lui aveva compreso l’attrazione che c’era
tra lei ed Aschenbach, e la cosa non gli piaceva. Ma, almeno fino ad
impresa ultimata, avevano stipulato un tacito armistizio.
A cena, tutti scherzavano.
“Almeno qui la cucina è ottima! Altro che a Bucarest!” esclamava Liesel,
“A chi lo dici!” faceva eco Patrice.
Jeudi non riusciva a partecipare; si limitava a guardare ed a sorridere, distante; accanto a lei, Lundi mangiava in silenzio.
Jeudi sospirava di tanto in tanto; seduto accanto a lei, Leòn le
prendeva la mano senza parlare, e le sorrideva per confortarla.
“O.K.! E ora, tutti a letto! Domani ci aspetta un’altra giornata pesante!” fece Tavernier, stiracchiandosi.
Tutti si ritirarono nelle loro camere.
Leonhard trattenne Jeudi ancora per un polso “Buonanotte, Jeudi” le baciò la mano,
“Buonanotte Leonhard” rispose lei; poi corse dietro a Lundi
che si era già avviato, sbadigliando, verso la loro camera.
__________________________________________________
(1)Il posto esiste veramente; la vecchietta, invece, no.
(2)I particolari storici sono reali: mi sono stati raccontati dalle guide del posto.
(3)Chi di voi ha letto Dracula? Io l’ho trovato avvincente.
(4)Nella realtà sì; nella nostra storia, invece…vedrete!
Ecco a voi il nuovo capitolo,
dove ho cercato di fornire qualche particolare in più sui
vampiri e le storie che li riguardano; quanto ai posti, sono reali, ma
purtroppo non riesco proprio a ricordare il nome della località
di montagna dove passai la notte: scusatemi!!!!
Ninfea 306: Sì, purtroppo Bucarest è davvero brutta (o dovrei dire era?
Ci sono stata ben otto anni fa!), ma adesso vedrete borghi e cittadine
che, se fossero più curati, sarebbero dei veri gioielli: peccato
che, quando io li vidi, non lo erano granché; ma la gente
è cordiale e dignitosa nella sua povertà (se si
eccettuano i borseggiatori sempre in agguato). Ho dimenticato di
segnalarti, la volta precedente, un'altro brano dei Pooh che adoro: Cosa dici di me: mi fa venire i brividi!
Vitani:
Così, sei stata a Budapest? Ma lì stanno in Paradiso, a
paragone della Romania!!! L'Ungheria è, a mio parere, il
più bello tra i Paesi dell'Est; magari, qualche volta mi
racconti del tuo viaggio?
Quanto a Leòn, si dimostrerà uomo fino in fondo (come nell'anime), mentre invece, il povero Lundi... vedrai!
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Capitolo 6 *** Prima che cada la notte ***
PRIMA CHE CADA LA NOTTE
PRIMA CHE CADA LA NOTTE
“Altro giorno, stesso schifo!”, sbottò Edith.
“Perché dici questo?” fece Jeudi, voltandosi verso di lei,
“Questo Paese non mi piace per nulla: povero, sporco e freddo. E per di più, pieno zeppo di brutta gente!”.
Il pulmino era ripartito di buon’ora, alla volta di Sibiu.
Jeudi ed Edith sedevano vicine, sperando così di riempire le
lunghe ore di viaggio facendo due chiacchere tra amiche; tanto, il
paesaggio, fuori, non cambiava mai: desolazione e solo desolazione.
“A me sembra che tu esageri, Edith. In fondo, qui ci sono anche
tante brave persone e dei particolari interessanti, se solo ti soffermi
a vederli”,
“A cercarli, vuoi dire!” rise l’altra.
“Guarda che proprio tu
avresti tutte le ragioni di esser felice di stare qua!”, Jeudi si
era girata verso l’amica “E sono delle gran buone
ragioni!”,
“Come un bel paio di occhi azzurri obliqui?”, rispose Edith cogliendo appieno l’allusione dell’amica,
“Esattamente”.
La rossa sospirò “Sono un po’ confusa, al momento,
Jeudi. Tutto ciò che ti posso dire è che la cosa si sta
rivelando ben diversa da un passatempo. Credo… credo sia una
cosa seria, ecco!”.
Jeudi si portò una mano sulla faccia “Proprio tu? Wow! Da non credere!!”,
“Sì, ridi quanto ti pare, eppure è proprio
così! Ed ho avuto parecchie occasioni per accorgermene!”,
“E sarebbero?”,
“Beh, ad esempio stamattina, dopo la benedizione. Quando siamo
usciti dalla chiesa, lui mi è venuto a porgere la mano per
scendere i gradini, perché diceva che con quei tacchi troppo
alti mi sarei fatta male: ti sembrerà assurdo, ma era proprio
ciò che stavo pensando io un attimo prima! E’ come…
è come se mi avesse letto nel pensiero, in qualche modo. E
l’altra sera, a Bucarest, quando abbiamo dormito insieme nella
stanza tua e di Lundi… mi credi se ti dico che non abbiamo fatto
nulla?”,
“No”,
“E invece mi devi credere, perché è andata proprio
così! Io ero terrorizzata dall’idea che qualcuno potesse
entrare in camera di notte mentre dormivamo per farci del male, e
continuavo ad avere paura nonostante tutte le spiegazioni di Patrice,
che qui ci era già venuto, e non c’era nulla da avere
paura, e via dicendo; ma vedendo che non mi calmavo, ha preso quella
sgangherata teiera e mi ha preparato una camomilla; e poi, non
soddisfatto, mi ha preso tra le braccia ed ha continuato ad
accarezzarmi i capelli finché non mi sono addormentata! E la
mattina dopo, svegliandomi, mi ha detto che non aveva mai coccolato una
donna a quel modo, e gli sarebbe piaciuto continuare a farlo per tutte
le sere della sua vita! Roba da non credere: anche stavolta mi aveva
letto nel pensiero, era il mio stesso desiderio!”,
“E tutto questo non ti fa piacere?”,
“Oh, sì, certo che me ne fa! E’ solo che è
strano, non ci sono abituata; tutti gli uomini che ho avuto erano delle
gran canaglie, facevamo sesso e poi stavamo sempre a rimbeccarci, ci
tenevamo sulla corda a vicenda, ed io credevo che questo tipo di menage
fosse l’unico che si addiceva ad un tipo come me… mai,
prima d’ora, avevo provato cosa significasse avere accanto un
uomo che mi amasse davvero, e si prendesse cura di me! Credevo che solo
i rapporti burrascosi fossero adatti a me, capisci?”.
Jeudi sospirò “Così, avere scoperto il contrario ti
ha un po’ spiazzato; ma al contempo, ti ha fatto anche piacere,
correggimi se sbaglio”,
“Non sbagli”,
“Ed allora, perché continui ad avere questi dubbi? Hai
appena avuto l’inaspettata fortuna di trovare l’uomo della
tua vita, ed ancora tentenni? Fossi in te, la smetterei subito di
sottostimarmi, considerandomi degna solo di bastardi da letto, ed
inizierei a godere di ciò che la vita mi ha voluto regalare, e
che, a quanto pare, realmente mi merito!”.
Edith fece un sorriso a trentadue denti “Ci sto provando…
ma perdere l’abitudine, dopo tanto tempo… è un
tantino difficile, sai?”,
“Prova a fare uno sforzo!” rise Jeudi.
Anche Edith scoppiò a ridere.
“E poi” continuò Jeudi “vorrei sapere come ha
fatto Patrice a prepararti una camomilla, dato che nella mia stanza non
c’erano teiere!”,
“Privilegio delle camere matrimoniali!”.
“Tutto bene, signore? Il viaggio è di vostro
gradimento?”, la voce di Patrice Tavernier giunse alle loro
spalle.
Edith si voltò e gli sorrise; Jeudi gli rispose “Abbastanza, grazie. E tu?”,
“Non c’è male, grazie”, l’uomo
passò accanto ad Edith e le fece una carezza sulla guancia; lei
sorrise, socchiudendo gli occhi.
“Quanto manca a Sibiu?” fece Jeudi, tanto per distogliere
l’attenzione degli altri dall’intimità della coppia,
“Tra poco siamo arrivati”.
Fin dall’arrivo, Sibiu apparve loro come una città
particolare: il centro storico, infatti, era, sì, in evidente
rovina (come molti altri centri della Romania, del resto), ma in esso
fervevano una vita ed un’attività tali che mai ci si
sarebbe aspettati in quella che aveva tutta l’aria di essere una
città in abbandono.
La piazza principale era molto grande; in fondo ad essa, sorgeva una
chiesa con un’alta, svettante guglia grigia; al suo interno,
qualcuno stava suonando l’organo.
Non appena entrati, tutti si guardarono, con inquietudine; quel luogo aveva un che di spettrale.
Tavernier e Piquet sparirono in una porticina laterale, per poi
ricomparire poco dopo in compagnia di un pope vestito di un lungo saio
nero, e di una donna sui cinquant’anni.
Piquet li presentò al gruppo.
“Questo è padre Nonescu, testimone di alcuni insoliti
avvenimenti qui a Sibiu; e la signora è la dottoressa Hanna
Wroklava, studiosa di occultismo”.
Dopo che furono fatte le presentazioni, uscirono tutti dalla chiesa,
seguendo il prete; questi si incamminò per le vie più
strette e deserte del quartiere, dove le strade erano poco più
che lastricati di ciottoli, senza legante; qua e là spuntavano
ciuffi d’erba dal terreno e dalle crepe dei muri delle vecchie
case che costeggiavano il sentiero; alcune di queste case erano in
totale abbandono, gli ultimi piani e gli abbaini avevano le finestre
dai vetri sfondati, ed erano abitati soltanto dai rapaci, di cui si
poteva udire chiaramente il gracchìo.
Leonhard camminava vicino a Jeudi, tenendole la mano; Lundi era qualche
passo più avanti, discuteva animatamente con Johann e Liesel.
Leòn notò che le case alla loro sinistra costeggiavano le
antiche mura; osservò i tetti delle case, che erano cosparsi da
diverse file di abbaini ciascuno.
“Sembrano occhi… sono davvero sinistri…” disse;
“E’ così, infatti” si sentì rispondere
da Tavernier “qui li chiamano proprio “occhi”;
è una caratteristica di questa città(1)”.
“Che cosa strana!” fece Jeudi, rivolta a Leòn.
Il pope aprì un cancelletto che immetteva in uno stretto
cortile, e fece loro cenno di entrare. Poco dopo, si ritrovarono tutti
in una grande stanza dai muri anneriti dalla fuliggine, con un tavolo e
delle sedie al centro, dove presero posto.
Il religioso, invece, rimase in piedi, affiancato da Jean-Jacques.
Iniziò a parlare, mentre il medico traduceva.
“Circa cinquant’anni fa, in questo luogo, vennero rinvenuti
dei corpi, all’apparenza intatti; in realtà, non avevano
più neanche una goccia di sangue nelle vene. Le autorità
dell’epoca liquidarono la cosa come “assassinio compiuto da
ignoti, per oscuri esperimenti”; la Curia, invece, fu di diverso
avviso, ed incaricò me, che all’epoca ero un giovane
sacerdote appena ordinato, di fare delle ricerche. Mi rivolsi
così ai genitori della signora qui presente, che erano entrambi
occultisti, ed esaminammo i corpi: notammo che sul collo presentavano
due piccoli fori ravvicinati. Allora, facemmo delle ricerche sui
proprietari di questa casa dove ora ci troviamo, e scoprimmo che era
appartenuta ad una ricca famiglia di calzolai, di cui restavano in vita
due sole persone, due fratelli, che ora abitavano sopra la loro bottega
e che evitavano volontariamente la gente: in pratica, non piacevano a
nessuno, in paese. Avevano un che di indisponente, ed un aspetto
impressionante: barba e capelli bianchissimi su di una pelle
scurissima, ed occhi penetranti e smorti al tempo stesso.
Ci credo che la gente li evitava! Solo a vederli, mettevano i brividi!
E poi non li si vedeva mai, né in giro, né alla bettola,
e nemmeno alle funzioni in chiesa, la Domenica. Ci si chiedeva tutti
cosa mangiassero, dato che né il macellaio, né la
verduraia, né la casara li avevano mai visti tra i loro clienti.
Un giorno, una ragazza scomparve misteriosamente; riferirono di averla
vista da queste parti, vicino la casa degli antenati di quei due;
così la cercarono per queste vie, per giorni: niente! Poi, un
giorno, un gruppo di bambini che giocava a nascondino nella casa
abbandonata trovò per caso il corpo.
A quella sparizione ne seguirono altre, e tutti i corpi venivano
regolarmente ritrovati qui, interrati nel cortile od in cantina; a
questo punto, la polizia andò a prendere quei due per
interrogarli, ma non li trovò: erano scappati chissà
dove! Solo dopo giorni di ricerche, una notte, alcuni abitanti del
paese raccontarono di aver visto uno dei due fratelli che entrava in
questa casa con un corpo in braccio; e dissero che aveva gli occhi che
brillavano di una strana, sinistra luce. Così mi mandarono a
chiamare, e tutti ci recammo dentro la casa, dove trovammo il vampiro
che compieva i suoi rituali di sangue su di un ragazzino; gli saltammo
addosso, con croci e paletti, e lo uccidemmo; poi, bruciammo il corpo
in mezzo alla campagna. L’altro vampiro non fu mai trovato”.
Tutti avevano ascoltato con silenziosa attenzione le parole del pope; ora, la signora si alzò e si mise al suo fianco.
“Ciò che avete udito è vero, ed è accaduto
in questa casa dove ora ci troviamo. Nelle stanze ai piani superiori
sono rimaste le suppellettili appartenute a quella famiglia malvagia;
tempo addietro, le ho esaminate, e vi ho trovato dei chiari segni di
vampirismo. Prestate attenzione!”.
Detto questo, la studiosa si avvicinò al tavolo, srotolandovi
sopra un grande cartone con delle foto attaccate a formare una sorta di
collage.
Tutti si avvicinarono per vedere meglio.
“Ecco, guardate questa”, la donna stava indicando una foto
in alto, a destra: raffigurava l’interno di una stanza, spoglia e
disadorna, con mucchi di polvere e ragnatele negli angoli; vicino a
quello che sembrava esser stato il telaio d’una porta, si
intravedeva una strana ombra svolazzante.
Edith si piegò sulla foto “Che strano! Si direbbe un pipistrello!”,
“Ma che dici? E’ soltanto un’ombra! Come fai a vedere
un pipistrello, lì?” la rimbeccò Johann,
“In effetti, l’immagine è un po’
sfocata” intervenne Lundi “è una macchia, e potrebbe
essere qualsiasi cosa!”.
Fu la Wroklava a metter fine alla disputa. “La signora ha visto
giusto: è proprio un pipistrello, ma non uno normale; è
un pipistrello vampiro!”.
Tutti si diedero in smorfie di sconcerto.
“E adesso guardate qui!” la studiosa puntò il dito
su di un’altra foto,questa volta in fondo alla pagina: si vedeva
una coperta vecchissima, con una chiazza rossa al centro.
“Che cosa è?” chiese Liesel,
“Secondo lei, dottoressa? Chi è il fisico, tra di voi?” chiese poi, alzando la testa,
“Io!” rispose prontamente Johann,
“Molto bene. Vuole cortesemente seguirmi di sopra, signor fisico?”,
“Perché di sopra?” chiese Tavernier,
“Questa prova la vedrete “in diretta”. Ma dobbiamo
affrettarci: il sole sta già tramontando, ed entro il
crepuscolo, al massimo, dobbiamo lasciare la casa; non è
prudente restare qui quando è calata la notte”.
La dottoressa, seguita da Jean-Jacques, Patrice, Edith e Johann si
avviò verso l’interno della casa, dove si trovava una
scala.
Lundi e Liesel, invece, preferirono rimanere lì, cercando di comunicare a gesti con il bravo sacerdote.
Jeudi, sulle prime era molto combattuta: salire con loro oppure no? Una
voce la chiamò alle sue spalle: “Jeudi!”. Si
girò e vide il padre.
“Vai con loro!” le disse. Lei annuì.
Fece per incamminarsi lungo il corridoio, ma la luce rossastra che
filtrava dalle finestre coperte da vetri scuri dava un’aura
sinistra a tutto l’ambiente; il piccolo gruppo era già
lontano, su per le scale; Jeudi tentennava, scossa da un leggero
fremito.
“Papà… sei qui con me, vero?”
sussurrò, sperando di vedere da qualche parte la luce
azzurrognola; ma non vide nulla.
Deglutì, si fece coraggio e mosse due passi avanti; ma
immediatamente, percepì qualcosa di strano, come una grande
malvagità che la scrutava dagli angoli bui.
Si fermò, terrorizzata.
Sentì una mano sulla sua spalla e sussultò, senza riuscire ad emettere un suono; si girò, e vide Leonhard.
La tensione che aveva accumulata dentro di sé crollò in
un attimo; si lasciò andare, appoggiando il viso al suo petto
caldo “Leòn…”.
Lui le accarezzò la schiena “Vuoi che venga con te?”, le chiese,
“Ho… ho paura…”.
Per tutta risposta, lui le sollevò il viso e la baciò con
passione; Jeudi si sentì sciogliere, ed invadere da uno strano
calore.
Si separarono e lui la guardò negli occhi “E’ passata, adesso?”; lei fece cenno di sì col capo.
Si incamminarono verso la scala e salirono; arrivati in cima,
Leòn chiamò: “Ehi, dove siete? Ci siamo anche
noi!”;
Patrice Tavernier uscì dal vano di una porta, muovendo un braccio “Qui!”.
Li raggiunsero; entrati nella stanza, videro Edith e Johann chini su
quella che pareva una branda, di fianco a loro la dottoressa con Piquet.
“E’ assurdo… nessun tipo di sangue umano, per
modificato che sia, può rimanere di questo colore a distanza di
cinquant’anni… una cosa del genere non esiste presso
nessun consorzio umano!” stava dicendo Edith,
“…Ed il rosso, dopo qualche ora si ossida, tramutandosi in
marrone! Questo sangue va contro ogni legge dell’ottica”
aggiungeva Johann.
“Allora, signori, ne convenite?” aggiunse la Wroklava.
“Certamente! Questo sangue non è umano! Ha qualcosa di strano”, disse Edith.
“E’ sangue di vampiro: una delle vittime riuscì a
ferirlo ad un orecchio, prima di morire: lo videro coloro che lo
catturarono. Il sangue di un vampiro è sempre fresco, dato che
è attinto continuamente dalle sue vittime”.
“Scusi, dottoressa” disse Patrice “ma la sagoma del pipistrello dov’era?”,
“In quella stanza in fondo al corridoio, a destra, vicino alla scala. Venite!”.
Tutti si incamminarono verso il punto indicato, anche Jeudi e Leòn.
Mentre camminava, l’inquietudine della ragazza continuava a
crescere; quando furono davanti alla stanza indicata, avvertì di
nuovo quel senso di malvagità che aveva già percepito al
piano di sotto, e vide un’ombra svolazzante che le passava
davanti.
“Ahhh!”, gridò, coprendosi gli occhi; Leòn la
prese tra le braccia “Jeudi! Cosa c’è?”;
lei tremava “Leòn… qui c’è
qualcosa… qualcuno… che vuol farci del male, a tutti
quanti!”.
Patrice Tavernier si era avvicinato alla sua ex-allieva e le aveva
sollevato la fronte, per vedere se fosse ferita “Fa vedere! No,
non hai nulla, Jeudi, stai tranquilla”; poi si volse alla
studiosa “Ha detto che l’altro vampiro non è mai
stato preso, vero?”,
“Esatto”,
“Bene, allora usciamo di qui. Forse lui non caccia più le
vittime come un tempo, ma torna spesso in questo che era il suo
territorio, e non ha gradito la nostra invasione di campo!”,
“Ma che sta dicendo, professore?” chiese il medico,
“E’ vero. Si racconta che anche gli stregoni delle
più feroci tribù di cannibali lo facciano: è una
pratica comune presso chi fa della morte e del dolore degli altri la
propria ragione di vita: presidiare il proprio “territorio
d’azione””, si era intromessa Edith.
“La dottoressa la sa lunga; è vero. Quindi, è
meglio se ce ne andiamo, tanto più che è quasi buio,
ormai”.
Poco dopo, l’intero gruppo di temerari era fuori dal vecchio edificio.
Lundi, incredulo per quanto gli era stato raccontato, reggeva Jeudi da
un lato; Leòn le teneva la mano libera dall’altro.
Ma lei aveva capito: quel senso di malvagità opprimente, quegli
occhi invisibili nel buio sarebbero stati il segnale della vicinanza
del vampiro.
Più tardi, in albergo, dopo avere accompagnato padre Nonescu
alla sua canonica e la studiosa a casa sua, i nostri stavano cenando.
Patrice sorseggiava del vino. “Com’è che quella
signora parlava così bene il Tedesco?” chiese a
Jean-Jacques,
“Il suo ex-marito era di Amburgo. Se ne andò quando non
riuscì più a reggere l’angoscia per le sedute
spiritiche che lei era costretta a fare a casa”,
“Ci credo!” il professore rise.
Jeudi era ancora sconvolta, e non aveva mangiato quasi nulla.
Pensò che quella notte avrebbe voluto trascorrerla tra le braccia di Leonhard.
Il mattino successivo, stessa storia: partenza all’alba, percorso
noioso, fermata per il pranzo. Ma fu un pranzo davvero particolare,
quello(2).
Lasciata la strada, il pulmino si incamminò per un sentiero
sterrato, nella boscaglia; d’improvviso, ecco comparire davanti
ai loro occhi un cerchio di case, tutte affiancate da fienili: una
piccola comunità rurale ferma nel tempo, che sembrava uscita da
un quadro.
Scesero giù.
“E’ un’azienda agricola; ma è molto diversa da
quelle che siete abituati a conoscere! Lo vedrete!” disse
Jean-Jacques, chiudendo a chiave il pulmino.
Per prima cosa, si diressero verso la piccola chiesa che sorgeva in un
angolo del cortile, per la consueta benedizione(3); poi visitarono la
chiesa, un vero piccolo gioiello di ori e pietre preziose, come tutte
le chiese di fede Greco-ortodossa, in più impreziosita da molte
icone in argento(4), sulle cui superfici lucide si riflettevano le
fiammelle dei tanti piccoli lumi appesi al soffitto ed alle pareti: era
una visione incantata.
Poi, usciti dalla chiesa, si diressero verso quello che sembrava
l’ingresso di un cortile, chiuso da un alto muro, con al centro
un portone, sulla cui soglia li attendeva una coppia di anziani coniugi
sorridenti.
Jean-Jacques gli si avvicinò, stringendo loro le mani con calore, e dicendo alcune parole; poi presentò gli altri.
I due padroni di casa sorrisero a tutti, dando il benvenuto; poi, fecero loro cenno di accomodarsi.
Superato il portone principale, ed entrati in un portoncino laterale,
salirono su per una larga e ripida scala; giunsero ad un corridoio, con
luminose pareti dipinte di bianco alle quali stavano appoggiati diversi
mobili in legno scuro, pieni di suppellettili di ogni forma e
dimensione. Sul corridoio si aprivano numerose porte; il padrone di
casa guidò gli ospiti verso la prima porta sulla sinistra.
Entrarono in quella che doveva essere una stanza da pranzo; era molto
ben arredata, con lo stesso gusto decorativo, classicheggiante ed un
po’ confusionario che contraddistingueva anche il corridoio:
mobili in legno scuro, probabilmente ciliegio, molti dei quali avevano
delle ante a vetri, che esponevano oggetti di vario genere: statuine di
animali e figurine umane, in porcellana e vetro, vasi, portacenere;
alle pareti era appeso un gran numero di quadri, per lo più
paesaggi, ma vi erano anche ritratti e quadri di soggetto religioso.
Dappertutto, un’aria di pulito, calore ed accoglienza.
A Jeudi quel posto piacque subito.
“Scusa, Patrice, ma… che ci siamo venuti a fare, qui?”, Edith si era avvicinata al compagno,
“Ma a pranzare, che domande!” fece lui, di rimando,
“Eh?”,
“Esattamente” intervenne Piquet “vedete, in questo
Paese sono previsti degli sgravi fiscali per le aziende agricole che
fungono anche da agriturismo; solo che qui non sono attrezzati come
all’Ovest, non hanno sale ristorante; così, mettono a
disposizione la loro stessa casa”,
“Curioso!” fece Edith,
“Se vorrete, dopo pranzo, potrete anche acquistare dei prodotti di loro produzione”.
Si avvicinarono alla tavola imbandita: Jeudi notò che i
tovaglioli e la tovaglia erano bianchissimi, e presentavano un fine
ricamo in rilievo; i bicchieri, per la verità piuttosto
semplici, erano fatti in cristallo, ed i piatti in un materiale bianco
simile alla porcellana; davanti ad ogni commensale stavano dei
segnaposto fatti di cartapesta colorata.
Dopo che si furono seduti, entrò il padrone di casa, recando una
bottiglia in mano, e riempì loro il bicchiere più
piccolo, a forma di calice; poi, pose al centro del tavolo un piatto
contenente dei pezzetti di formaggio molto duro.
“Mangiate, coraggio!” li incitò Jean-Jacques
“Questo formaggio è di loro produzione; poi, dovremo
brindare tutti insieme e bere tutto d’un fiato quel bicchierino
di grappa di prugne”,
“Cosa? Grappa?” Liesel era a bocca aperta,
“Sì. E’ il saluto di benvenuto agli stranieri”.
E lo fecero; a Jeudi sembrò di ingoiare fuoco condensato e
liquefatto, tanto forte era il liquore, ma tant’era…
Dopodiché, ebbe inizio il pasto vero e proprio.
Fu un pasto semplice, ma gustoso, per lo più a base di carne
magra; ma la vera sorpresa arrivò all’incirca a
metà pasto.
La padrona entrò nella stanza, recando in braccio alcune
bottiglie che parevano di vino(5); sistemandole sulla tavola, disse
alcune parole, che Jean-Jacques tradusse come “produzione
nostra”. Immediatamente, Patrice prese una bottiglia e ne lesse
l’etichetta. “Questa, poi!” esclamò.
“Che cosa c’è, Patrice?” chiese Leòn,
“Guarda questo vino: si chiama “Dracula”. Ed il suo colore è il rosso sangue!”,
“Vaaaii!! Proviamolo subito!”, Edith si riempì un
bicchiere dall’altra bottiglia; lo stesso fecero gli altri.
“Com’è forte!” Johann fece una smorfia,
“Ma è buono, però!” aggiunse Jeudi.
Patrice rimase a rigirare per un po’ il vino nel suo bicchiere
“Rosso come il sangue… inebriante come la vita…
hanno trovato il nome giusto, veramente! Mi sa che ne acquisterò
una bottiglia, dopo!”.
Naturalmente, alla fine del pranzo, erano tutti mezzi alticci, d
eccezione di Jean-Jacques, che dovendo guidare si era limitato ad un
solo bicchiere.
Risalirono sul pulmino nell’ilarità generale: Johann e
Lundi si davano pacche sulle spalle, Patrice prese in braccio Edith e
Jean-Jacques cercava di sostenere Liesel, la più brilla di tutti.
Jeudi e Leòn si guardarono negli occhi per un lungo,
interminabile istante; poi, si scambiarono un bacio, dietro al pulmino.
L’alcol aveva rotto i loro freni interiori.
Dopo un paio di ore di sonno filato, Patrice fu il primo a svegliarsi.
“Ohi, ohi, che mal di testa!”,
“Bentornato, professore!” fece Piquet “Devo dirle che
il suo comportamento non è stato degno di un docente di
storia”, scherzò. Lui sorrise.
“Comunque, le sorprese non sono finite: vedrete stasera!”, aggiunse, ridendo sotto i baffi, che non aveva,
“Che intendi dire?” Tavernier era tornato serio,
“L’albergo dove alloggerete(6)!”.
Non aggiunse altro.
______________________________________________________
(1)Gli innumerevoli abbaini che costellano i tetti delle case di Sibiu
sono detti proprio “occhi” dalla gente locale; quelli ben
curati delle vie principali sono davvero pittoreschi, ma quelli in
rovina dei palazzi abbandonati, vicino le mura perimetrali
dell’antico centro storico… beh, avete letto come sono!
(2)Questo episodio che state per leggere è reale: un’esperienza unica e gradevole che ho fatto in Romania.
(3)Noi, in realtà, (eravamo un gruppo di quattordici persone,
compresi la guida, suo figlio e l’autista) siamo stati accolti da
un pope che ci ha raccontato la propria vita sotto il regime e gli
orrori da questo commessi: preferisco non ripetere qui quello che ci ha
raccontato, sennò il rating della storia salirebbe al rosso.
D’altronde, basta fare un giro da quelle parti per avere
un’idea, seppur vaga, della crudeltà di quel regime.
(4)In molti Paesi dell’Est, tra cui la Romania, acquistare
un’icona d’argento di valore e cercare di portarla
all’estero senza un permesso speciale costituisce un reato di
furto di opera d’arte punibile con la carcerazione.
(5)Questo vino di cui ora leggerete esiste davvero: l’ho bevuto
quel giorno, in quell’agriturismo improvvisato, e garantisco che
è davvero buono, ma ad alta gradazione.
(6)Altra esperienza personale!
E rieccomi qua! Questo capitolo vi
mostra alcune delle mie esperienze personali in quel singolare Paese
che è la Romania: non fa tutto schifo, ci sono anche delle cose
belle, a cercarle... se solo le tenessero un pò meglio!
Vitani:
grazie per i complimenti, fanno sempre piacere ;-) Per vedere i vampiri
dovrai aspettare ancora un pò... ma garantisco che ci saranno
molti colpi di scena!
Ninfea 306:
grazie anche a te per i complimenti, sono contenta dell'interesse con
cui state tutti seguendo la storia! Riguardo al vampiro... vedrai! XD
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Capitolo 7 *** Nemesis ***
NEMESIS
NEMESIS
I boschi, in quella regione del Paese, erano tanto cupi, da apparire
quasi impenetrabili alla luce; o forse, era la fioca luce
dell’ora che precede il tramonto a conferire loro
quell’aspetto.
Sfumato l’effetto del vino, sul gruppo era calata una cappa di
apatia, quella stessa apatia che ci prende quando ci domandiamo
all’improvviso cosa ci ha spinto a fare ciò che stiamo
facendo, e ci accorgiamo che la nostra scelta non ha poi avuto molto
senso.
Seduta, più addosso che accanto, a Patrice Tavernier, Edith
sorrideva beata; dal suo posto, Jeudi la guardava, invidiandola: Lundi
era troppo assorto nella lettura di un libro per curarsi delle sue
malinconie; si volse allora indietro, a guardare Leonhard, e le apparve
bellissimo, come sempre, con quegli occhi viola grandissimi immersi nel
nulla sempre uguale del paesaggio.
Fu solo in quel momento, che si decise a dare un’occhiata anche
lei al paesaggio: le pinete si erano infittite, e già da un
po’ stavano inerpicandosi su una montagna; ma Jean-Jacques sapeva
bene quel che faceva: il suo atteggiamento di sicurezza era la garanzia
di tutti loro.
Il pulmino proseguiva la sua strada, ed ora che stava calando la notte
sembrava procedere in mezzo a montagne scure come alte onde di un mare
in tempesta; non si vedevano luci, nemmeno in lontananza: il senso di
solitudine si andava facendo sempre più intenso.
Ognuno di loro era immerso nei propri pensieri: Leòn soffriva di
un muto senso di colpa nei confronti di Lundi, Jeudi affogava nella sua
solitudine e nello struggente desiderio di Leonhard, Lundi, bloccato
dalla sua impacciataggine, teneva dentro di sé tutte le parole
che avrebbe voluto dire alla fidanzata.
Perché, perché non
riesco a dimostrarle quanto l’amo? E perché lei non riesce
a leggerlo nei miei sguardi? Da quella mattina a Riccione, dormiamo
come due estranei, parliamo lo stretto indispensabile perché
dobbiamo dividere la stessa camera, non ci guardiamo neppure.
Cosa siamo diventati, Jeudi?
“Guardate!” esclamò ad un tratto Edith “Guardate lassù!”.
La donna stava indicando un grappolo di luci lontane, perse
nell’amaranto scuro del tramonto, che scomparivano ad ogni curva
del percorso per poi ricomparire dietro la curva successiva.
A ben vedere, Edith e Patrice erano i soli davvero felici, e che
pertanto avrebbero ricordato quel viaggio a lungo, e con piacere:
superate le reciproche resistenze iniziali, entrambi avevano trovato
l’amore, dopo anni di scelte sbagliate e di errori. Quanto a
Liesel e Johann, si stavano annoiando sul serio.
“Che c’è lassù, Jean?” fece Patrice,
“Il vostro albergo!” rispose quello,
“Così sperduto? Ma non c’era posto nella città più vicina?”.
Il medico rise “Certo che c’era, ma vi avrebbe allontanato
di molto dal percorso; e poi, questo è un posto speciale,
vedrete!”.
Se ne accorsero quando giunsero davanti all’edificio, una grande
costruzione di pietra dipinta di intonaco bianco, che nelle intenzioni
voleva riprodurre un castello medievale; ma si vedeva chiaramente che
era nuovo di zecca.
“Che roba è?”, chiese Lundi, sceso dal pulmino, a
Piquet, che stava scaricando i bagagli; l’altro rispose:
“Investimento degli Inglesi: dopo tutto, il romanzo
“Dracula” è nato in terra loro, no?”.
Si avviarono all’ingresso, ed arrivati sulla porta, si fermarono, tutti a bocca spalancata.
Sul portone, campeggiava infatti la scritta “CASTELUL DRACULA”.
“Ed ecco la sorpresa che vi avevo promesso: ricalca, almeno nelle
forme, il castello del romanzo; dentro, c’è perfino
un’antica cripta ricostruita, con un attore che impersona
Dracula; ma la parte più interessante, a mio avviso, è
quella folcloristica!”.
Salirono. La scala era stretta e tortuosa, proprio come quella di un
castello vero; mentre saliva, Jeudi si sentiva sempre più
oppressa da un senso di dolore, di perdita.
Che mi succede? Non mi starò
facendo influenzare da questa sorta di teatro vivente? E’ solo
una ricostruzione! No, non è questo. E’ piuttosto la
sensazione che stia per succedermi qualcosa di molto brutto, ma cosa?
Si guardò in giro, sperando di vedere gli spettri dei genitori,
pronti a darle un’indicazione; ma restò delusa, non
vedendo niente. Sospirò, e riprese a salire.
I suoi compagni di viaggio l’avevano già distanziata di un
bel po’; affrettò il passo su per le scale; ad una curva
della tortuosa scala, da una feritoia, poté vedere
l’ultimo spicchio del sole che tramontava; ma non era un tramonto
romantico: non aveva nulla di struggente; era piuttosto sinistro, con
quel rosso che inondava un cielo scuro come la paura, e
quell’ultimo spicchio di sole che sembrava lo sguardo di una
persona morente: un grido silenzioso, un tramonto di sangue.
E quella che la aspettava l’indomani, forse, era un’alba di sangue.
Giunse nel salone principale, raggiungendo gli altri; Tavernier stava già distribuendo le chiavi, come al solito.
“… Aschenbach, stanza 25; Wolfgang, stanza 23; Edith tu
sei alla 21; Brendell e Cortot, alla 26. La mia stanza è la 20.
Va bene, andiamo. La cena è di là, tra mezz’ora.
Siate puntuali, mi raccomando”.
“Anche perché non potete assolutamente perdervi lo spettacolo di stasera” aggiunse Jean “e poi, dulcis in fundo, faremo tutti un bel giro nella tomba del conte Dracula!” rise.
Jeudi aprì la porta, mentre Lundi reggeva le valigie. Entrò ed accese la luce.
“Non c’è male! Si vede che qui c’è
passato capitale straniero!”, fece poi, indicando la stanza al
compagno.(1)
La stanza, sebbene molto spoglia, era arredata con gusto: due lettini
separati, appoggiati a due pareti diverse, ciascuno con una spalliera
in legno a formare un angolo; la spalliera era decorata da motivi di
stampo medievale, racemi marroni su fondo verde scuro; lungo il lato
più lungo, stava appesa sul letto una piccola lampada da notte,
in forma di torcia di ferro battuto con fiamma libera.
“Beh, a quanto pare stanotte ci hanno separati…” osservava distrattamente Jeudi,
“E a te la cosa non dispiace, vero?” Lundi la guardò intensamente.
Jeudi atteggiò il viso ad una smorfia di stanca rassegnazione “Non perdi occasione per litigare, tu!”.
L’uomo tirò un sospiro e si sedette su uno dei due letti, quello vicino alla finestra.
“Ascolta, Jeudi: mi dispiace per quanto è successo tra
noi; mi dispiace di averti detto quelle cose; ma, ti prego, non
continuare a tenermi su il muso: è da Riccione che mi tratti
così!”.
Lei abbassò gli occhi “Ti rendi conto che siamo diventati due estranei?”,
“Sì, me ne rendo perfettamente conto, ma non è stato per colpa mia: io ti amo, Jeudi”,
“Ah, non è stata colpa tua? Allora sarebbe colpa mia?
Certo, è colpa mia, se tu ti sei convinto che io sia ormai un
qualcosa che ti appartiene, e che niente e nessuno potrà mai
portarti via!”,
“Jeudi… ascolta, lo so che ho sbagliato. E so anche che
quella Matilda ha iniziato a distruggere il nostro rapporto: non avrei
mai dovuto permetterlo, mai! Ma ti prometto che, al nostro ritorno, le
cose cambieranno. Però, per favore, almeno per la durata del
viaggio, interrompiamo le ostilità!”.
Jeudi sospirò, intrecciando le braccia “Le cose
cambieranno? Non ti credo affatto, Lundi. Tu sei convinto che io debba
stare con te perché debbo stare con te;
è una cosa che dài per scontata, e niente e nessuno te lo
potrebbe togliere dalla testa; in quanto tale, continuerai a
comportarti come hai fatto sinora. Persino quella Matilda faceva parte
di questo tuo indolente modo di agire: eri convinto che, anche
tradendomi con lei, io non ti avrei mai lasciato, proprio
perché, ormai, dovevo stare con te! Lei non è stata la causa della fine del nostro rapporto; semmai, è stato il colpo di grazia”.
Lundi scattò in piedi “Cosa vuoi dire con “la fine
del nostro rapporto”? Intendi dire che il nostro rapporto
è finito? Vuoi lasciarmi, una volta tornati a casa?”,
“Non lo so, Lundi. Non so più che cosa voglio. Ho le idee molto confuse, ultimamente”,
“Immagino chi te le stia
confondendo!” fece l’uomo con aria severa. Ma Jeudi fece
finta di non aver inteso “Non so di che parli. Vogliamo scendere
a cena? E’ tardi, gli altri si staranno chiedendo dove siamo
finiti”. Così dicendo, prese la porta ed uscì.
Lundi rimase solo nella stanza “Non vede l’ora di correre
da lui, si capisce!”, fece, i pugni stretti, impotente.
Il grande salone aveva un aspetto accogliente e festoso; i tavoli erano
imbanditi nei toni del verde, gli stessi colori delle divise
tradizionali dei camerieri; in un angolo, stava un piccolo complesso
folcloristico, anche loro con indosso i costumi tradizionali della
regione; il suono dei loro strumenti che venivano accordati si alzava
appena dal sottofondo di voci e risa.
Il gruppo era stato sistemato in un angolo, al riparo dalla confusione
e dal viavai dei camerieri in mezzo alla sala; anche fra loro
c’era un’ilarità palpabile.
Tavernier era particolarmente su di giri, e continuava a raccontare
barzellette, fermandosi solo, di tanto in tanto per avvolgere Edith in
un appassionato bacio: oramai, il loro legame era noto a tutti, nel
gruppo, e non avevano più motivo di tenerlo nascosto.
Jeudi li guardava sospirando, piena di amarezza.
E’ finita, Lundi. Al nostro
ritorno a Ginevra, me ne andrò da casa, che Leòn mi
voglia con sé oppure no. Non ti amo più: mi hai ferito
troppo, quel giorno. Vai pure da lei, se ti vorrà ancora!
Lundi, come al solito, si era seduto accanto a Johann per fare due
chiacchere, lontano da lei. Leonhard, invece, le sedeva accanto, e le
teneva la mano, sorridendole.
Fu servita la cena: degli strani salsicciotti, sorta di wurstel dalla
forma irregolare e tozzi, fatti di carne di manzo e di coniglio,
accompagnati da vino. E, naturalmente, dall’allegra musica del
gruppo folcloristico.
La sala si era riempita di battiti di mani a tempo e di canti:
c’era davvero una grande allegria; l’ambiente era festoso,
molto diverso dalle precedenti tappe. Si unirono anche loro alla sala,
battendo le mani.
Al termine della cena, Piquet li condusse in un corridoio laterale,
accompagnato da una delle cameriere; il corridoio era assai buio, e da
lì partiva una scala.
“Scendiamo nella tomba di Dracula! Allora, siete pronti?”.
Un coro di approvazioni seguì le parole del medico; iniziarono a
scendere tutti, ad eccezione di Edith e Patrice che si appartarono in
un angolo per darsi un appassionato, lungo bacio.
“Si vede che questo posto li eccita!” disse Liesel
all’orecchio di Jeudi “Certo, non capisco come facciano a
fare del petting in un posto simile: guarda, lui le ha messo una mano tra le gambe!”,
“Liesel, andiamo!” Jeudi la tirò per un braccio.
Arrivarono in fondo: era un ambiente piccolo e semibuio, con le pareti
coperte di ritratti di Dracula ed una piccola bara al centro; era un
teatrino vistosamente artefatto.
La cameriera disse alcune parole, subito tradotte dal dottore; poi fece
per aprire la finta bara, ed immediatamente ne sbucò fuori un
altrettanto finto Dracula, troppo giovane e magro per impersonare il
conte; da sotto alla parrucca nera, sbucavano ciuffi di capelli biondi;
gli occhi azzurri stridevano con i bianchi canini di plastica.
Scese dalla bara, avvicinandosi ai presenti e facendo qualche smorfia,
che più che paurosa, era divertente; tutti risero, divertiti, e
poi fecero una bella foto di gruppo col “vampiro”.
Ritornati di sopra, videro Edith e Patrice che si scambiavano coccole seduti su uno dei divani della reception; lei appariva rilassata e felice.
Beata lei!, pensò Jeudi.
“Signori, se non avete ancora sonno, vogliamo scendere giù
nel cortile?”, Jean si stava rivolgendo proprio alla coppia
“Il meglio inizia adesso!”.
Tutti scesero.
Jeudi rimase senza parole: il cortile, che poche ore prima aveva visto
spoglio e deserto, quasi spettrale, era adesso pieno di gente fino
all’inverosimile. Tutti, o quasi, portavano quegli stessi costumi
che aveva visti a cena; c’era un’allegria incredibile.
Si fece contagiare da quell’allegria, dimenticando il suo litigio con Lundi e l’amarezza che ne era seguita.
Allungò il passo, appendendosi al braccio di Leòn.
Attraversarono il cortile, arrivando nel parcheggio: le vetture, tra
cui il loro pulmino, erano state sgombrate per far posto ad un immenso
falò, tanto grande che il suo calore riscaldava quella gelida
notte dell’Est, e scintille di fuoco salivano, guizzando, verso
il cielo, quasi volessero salutare le stelle lontane.
Jeudi guardò verso il cielo, e si meravigliò di quante
stelle ci fossero in quella notte, che fino a poco prima le era
sembrata tanto spettrale.
L’allegria continuava; in un angolo, il solito gruppo
folcloristico stava suonando, con strumenti pittoreschi, strane musiche
di tempi lontani; i camerieri passavano tra la folla, con vassoi colmi
di quegli strani salsicciotti serviti a cena, e bicchieri di punch bollente.
Fu allora che, finalmente, Jeudi si rilassò. E sorrise.
Si appoggiò beatamente al braccio di Leòn; non sapeva
dove fosse Lundi, e non le importava: c’erano solo loro due,
quella notte.
Anche lui la abbracciò, e le sussurrò parole d’amore all’orecchio.
“Vieni da me, stanotte”.
Lei gli sorrise, stringendoglisi di più al braccio e
socchiudendo gli occhi; poi, li riaprì, e guardò verso
l’alto, osservando le scintille salire verso il cielo lontano di
quella notte incantata.
Rimasero così per un tempo infinito.(2)
Lontano, alle loro orecchie, giungeva il clamore della festa.
Più tardi, quando furono nelle rispettive camere, Jeudi si rigirava nel letto.
Attendeva che Lundi prendesse sonno; si alzò e gli si
avvicinò: sembrava dormire. Allora prese la chiave, aprì
la porta ed uscì, diretta alla camera di Leonhard.
Ad ogni passo, sentiva il cuore scoppiarle sempre più forte dentro al petto.
Arrivò davanti alla porta e rimase ferma, non riuscendo a bussare; la sua mano era alzata a mezz’aria.
Un ultimo pensiero ancora, rivolto a Lundi.
L’ultimo rimpianto.
Poi, la mano si abbassò sul legno della porta.
Poco dopo, la porta si aprì; e con essa, anche il cuore di Jeudi.
E si richiuse, dietro di lei.
Lundi, in realtà, non dormiva affatto.
Aveva solo finto di dormire, per permettere alla ragazza di allontanarsi dalla camera.
Sapeva perfettamente dove sarebbe andata. E sapeva anche che lui non avrebbe fatto nulla per fermarla.
La amava, e voleva che fosse felice. Anche se questo avrebbe significato perderla.
Non sono in grado di amarti. Non io. Non sono uomo quanto lui. Perdonami, amore mio!
E pianse lacrime amare, la faccia premuta contro il cuscino.
Alle prime luci dell’alba, Jeudi rientrò in camera. La
stanza era avvolta nella penombra; si sdraiò nel letto, e si
perse nei ricordi appena nati.
Leonhard l’aveva amata con una passione indicibile, e lei
l’aveva ricambiato con altrettanto slancio: era innegabile che
fossero fatti l’uno per l’altra!
Mai, nella sua vita, si era sentita così protetta ed amata!
Perché, perché non c’era lui al posto di Lundi?
Perché a Lundi doveva spettare il ruolo di compagno ufficiale,
mentre lui era e restava “l’altro uomo”?
E’ lui l’altra
metà di me stessa: solo con lui mi sento completa, amata,
felice! Ti amo, Leonhard! Ti amo, ti amo, ti amo: sono pazza di te!
E’ assieme a te che voglio
vedere il mio futuro; Lundi per me è un caro amico, un fratello,
e basta; è te che amo!
Io e te che siamo la stessa cosa, faremo insieme la nostra casa!(3)
Le lacrime presero a scenderle giù per le guance, brucianti.
Aveva scoperto i suoi veri sentimenti da poco, ma Leonhard la
ricambiava. Ma come poteva distruggere così il cuore di Lundi?
Lei che amava, e che sapeva cosa significasse amare, non avrebbe mai
potuto infliggere un dolore simile ad un altro cuore innamorato! La
sera prima, per un fugace attimo, aveva creduto di poterlo fare, ma
ora…
Cosa devo fare, papà? Aiutami, aiutami, ti prego!!!
Vide comparire ai piedi del suo letto la solita luce azzurrognola; poi
vide il padre che le sorrideva dall’Eternità.
La figura avanzò verso di lei, fino a sedersi sulla sponda del letto; fece per accarezzarle il viso.
“Non piangere, bambina mia. Anche se adesso non ci puoi credere,
tutto si sistemerà per il meglio; il tuo cuore sarà
felice. E’ del pericolo che incombe su di te che devi
preoccuparti, piuttosto!”.
Lei girò il viso inondato di lacrime verso lo spettro
“Papà, ma… c’è Lundi…”,
“Devi seguire la voce del tuo cuore, sempre e comunque. Diversamente, renderesti infelici tutti e due!”,
“Sempre e comunque” ripeté Jeudi “sempre e comunque, sempre e comunque…”.
Il fantasma si alzò, svanendo lentamente.
Con quelle parole sulle labbra ridotte ormai ad un sussurro, si addormentò.
Per svegliarsi poche ore dopo.
A colazione erano tutti parecchio abbattuti dalla stanchezza, persino
l’appagatissima Edith; sedevano rimescolando meccanicamente i
cucchiai nelle tazze, sbadigliando; oppure fumavano, gli occhi
socchiusi.
“Dammi solo un minuto, un soffio di fiato, un attimo ancora…(4)”, canticchiava sommessamente Edith,
“Beata te, che hai voglia di cantare!” le faceva eco Jeudi,
“Stavo solo ricordando il concerto dei Pooh… e poi, questa
è la frase che avrei voluto dire a Patrice, quando, stamattina,
è venuto a svegliarmi, bussando alla porta della mia
stanza!”,
“Tu sei riuscita a dormire?”,
“Io sì, e tu?”,
“Molto poco. Oh, Edith, non ce la faccio più! Devo parlarne con qualcuno, o scoppio!”.
L’amica si dispose ad ascoltarla.
“Lo amo… e lui ama me! Ma Lundi…”.
Edith la guardava con fare interrogativo.
“Leonhard Aschenbach. Me lo avevi detto tu, ricordi, che una storia stava per cominciare per me, no?”,
“Lo avevo intuito”, abbassò lo sguardo sulla sua tazza, svogliatamente.
Jeudi riprese “Abbiamo fatto l’amore. Due volte”,
“E Lundi lo sa?”,
“Credo di no. Stava dormendo”,
“Ti sei andata a ficcare in un bel casino, bella mia!”,
“Tu cosa faresti, al mio posto?”,
“Gli direi ogni cosa, e romperei subito con lui, se è
Leonhard che ami!”, la ragazza si alzò, andando incontro a
Tavernier che entrava. I due si abbracciarono e si baciarono
appassionatamente.
Jeudi li guardò, un sorriso malinconico sul viso; quanto li invidiava!
“O.K. Stiamo per arrivare a Shigsoara” fece Jean-Jacques
“è la città natale di Dracula, sapete?”.
Nessuno, sul pulmino, gli aveva prestato la minima attenzione.
Johann e Liesel avevano dormito dalla partenza, Patrice ed Edith
avevano continuato ad esaminare una carta stradale, Jeudi era persa nei
suoi pensieri come Leòn, e Lundi fingeva di leggere un libro.
Il pulmino raggiunse quello che sembrava essere un parcheggio;
rivolgendo lo sguardo verso l’alto, si vedevano delle possenti
mura, inframmezzate da torri: il tutto aveva un aspetto molto ben
curato. Camminando lungo la via che entrava nell’antico centro
storico, potettero accorgersi che l’ambiente era molto diverso
dalle cittadine che avevano visitato nei giorni passati: sebbene
permanesse la stessa povertà, infatti, le strade e le facciate
delle case erano pulite; queste ultime, anzi, presentavano intonaci
colorati che, assieme ai fiori alle finestre, conferivano al tutto
un’aria di allegria; numerosi bar e locali si aprivano lungo le
stradine, ed in essi ferveva l’attività di camerieri e
clienti che prendevano posto; un gran numero di turisti affollava le
strade.
Risalirono lungo le viuzze che portavano alla torre
dell’orologio, dove avevano appuntamento con il dottor Du Bois,
il corrispondente di Tavernier, che li avrebbe istruiti sugli unici due
casi di morte sospetta avvenuti in quella città.
Era una bella giornata di sole; i nostri otto temerari raggiunsero la piazza principale dell’antico centro storico.
“Quella è la casa natale di Dracula” fece Patrice,
indicando un grazioso edificio a due piani intonacato di giallo, di
stile medievale; al pianterreno, stava un piccolo ristorante
all’aperto, con una sagoma un po’ ridicola del famoso conte
vampiro.
“Bene arrivati!”, una voce li fece girare di scatto.
Era il dottor Du Bois, un uomo sui settant’anni, con occhiali e
cappello a bombetta; il suo sguardo aveva un che di serioso ed intenso
insieme.
Tese la mano a Tavernier “Venite pure nel mio studio, vi mostrerò il materiale di cui sono in possesso”.
Di nuovo, si rimisero in cammino per le viuzze della città.
L’uomo che li guidava si fermò davanti ad un’antica
torre; estrasse dalla tasca un mazzo di chiavi con cui aprì un
portone, ed invitò gli altri a seguirlo su per le scale.
“Prego!” fece, spalancando il portone su una scala ripida.
Mentre salivano, Jeudi si accorse di quanto stretta e tortuosa fosse
quella scala; ed inoltre, non finiva mai: era una spirale continua,
faceva mancare l’aria. Non le sembrò vero di arrivare in
cima(5).
“Accomodatevi pure, signori” indicò loro dei divani, dove si sedettero tutti.
Jeudi si sedette accanto a Piquet “Scusi dottore, ma chi è quello?”,
“Un altro Francese trapiantato, come me. E’ uno spiritista.
Lui ed il vostro capogruppo, a quanto mi è stato detto, si sono
conosciuti alcuni anni fa; Patrice aveva avuto una storia con la
sorella di Du Bois, Françoise mi pare si chiamasse, e per un
certo tempo avevano abitato tutti e tre qui, a Shigsoara; poi, la
storia tra i due si era esaurita, e Patrice era ritornato a Ginevra; ma
non ha mai interrotto i contatti con lui”;
Jeudi stava guardando Edith, pensierosa “E la sorella è qui, ora?”.
Jean-Jacques lesse nei suoi pensieri “No, non devi preoccuparti di quello”
rise “lei, ora, vive e lavora a Bucarest, dove ho sentito dire
che si è anche sposata. L’aveva presa molto male, a quanto
ne so”, aggiunse poi, riferendosi alla separazione da Tavernier.
Jeudi guardò il suo ex-professore, indispettita: possibile che
avesse fatto una carneficina simile tra i cuori femminili? E di che ti stupisci, Jeudi? Per un certo tempo, ci eri cascata anche tu!, si disse.
Osservò l’oggetto dei suoi pensieri, ora intento a
scambiarsi tenerezze con Edith “Speriamo che abbia messo la testa
a posto” sospirò “certo è che così
preso non lo avevo mai visto!”.
Poco dopo, Du Bois rientrò, tenendo uno scatolone tra le mani.
Lo depose su di una scrivania e lo aprì. “Qui
c’è tutto quello che può interessarvi: riguarda il
vampiro”.
Aprì la scatola, iniziando a tirarne fuori gli oggetti, mentre gli altri gli si facevano intorno.
Sulla scrivania comparvero diverse boccette piene di campioni di
chissà cosa, alcuni pezzi di stoffa e quello che sembrava un
referto.
Edith prese in mano una delle boccette “Che roba è?” disse,
“Quello lì è un campione di unghia ritrovato sullo
stesso luogo dove si trovava il cadavere; vi sono annessi alcuni
frammenti di pelle”.
Edith guardò meglio “Sì, l’unghia la
vedo… ma questi pezzettini qua… sembrano carta bruciata.
Non può essere pelle umana!”,
“Invece lo è, dottoressa”, Du Bois le prese di mano
la boccetta “solo che, dopo una ventina d’anni non
può essere ancora giovane e fresca, non crede?”,
“E l’unghia?” s’intromise Tavernier,
“Quella, come vedete, è intatta. Con tutta probabilità, apparteneva al vampiro”.
Leonhard prese un’altra boccetta in mano “Cos’è questo? Sembra sangue!”,
“Lo è!” fece Du Bois “Anche quello è del vampiro, ed è ancora fresco”,
“Chi ha refertato il ritrovamento, dottore?”, Liesel lo fissava.
“Se mi date un attimo, vi dirò tutto”, rispose l’uomo sedendosi alla scrivania. Poi iniziò:
“Dunque,” si sistemò gli occhiali sul naso
“circa vent’anni fa, due ragazzini sparirono nel nulla in
una notte d’autunno; la sorella, preoccupata, si diede a cercarli
per giorni e giorni, finché non sparì anche lei. Ed il
brutto è che i due ragazzini vennero ritrovati, un paio di
giorni dopo, in un vecchio casolare dove si erano nascosti per fare una
bravata; la ragazza, invece, non venne più ritrovata. Viva,
almeno.
Poi, mesi dopo, scavando in un campo che aveva da poco acquistato, una
coppia di contadini ritrovò uno scheletro, con brandelli di
abiti ancora addosso; vicino al cadavere si trovarono tracce di sangue,
che al contrario dello scheletro sembrava essere fresco, e resti di
tessuti umani, tra cui quell’unghia. Furono portati tutti al
laboratorio, ed analizzati. Ah, alle analisi erano presenti anche due
sacerdoti, i quali, mandarono letteralmente in polvere alcuni pezzi di
stoffa ritrovati sul terreno, quando li toccarono con una croce.
Ora, la gente si ricordava bene che, nei giorni della sparizione della
ragazza, era stato visto aggirarsi in città uno strano tipo, uno
straniero con capelli bianchi incolti ed occhi lucidi da matto”,
“Il calzolaio!” esclamarono all’unisono Jeudi e Lundi,
“E c’è dell’altro: nei giorni che avevano
immediatamente preceduto la scomparsa della ragazza, alcune persone del
posto avevano accusato strani sintomi”,
“Tipo?” fece Tavernier,
“Smania febbrile senza avere la febbre, incubi ricorrenti; alcuni
lamentavano anche una debolezza estrema e mancanza totale di appetito.
Ma ci fu anche chi disse di avere avuto delle allucinazioni:
raccontò di aver avuto l’impressione che due lunghi aghi
gli penetrassero simultaneamente nel collo, all’inizio causando
dolore e senso di oppressione, ma poi, il dolore si tramutava sempre
più in torpore, e faceva cadere in un sonno innaturale. Al
risveglio, la vittima era priva di forze e tormentata da dolori alla
testa”,
“Chi sono queste persone? Potremmo parlare con loro?”, Tavernier era tutt’orecchi,
“Con la vittima delle allucinazioni no: era un povero vecchio
malato, e morì poco dopo. Degli altri, non è rimasto
quasi nessuno, ad eccezione di una contadina, che adesso è mezza
rimbambita (qui la conosciamo bene). E poi, sarebbe inutile, non vi
potrebbero dire nulla di più di quanto vi ho detto io”.
Patrice rifletteva, il mento poggiato su una mano; Edith gli si
avvicinò “Amore… cosa c’è?”,
“Ecco… stavo pensando… le prime sparizioni
risalgono a circa cinquant’anni fa… qui, invece,
l’episodio si è verificato una ventina di anni fa…
mi sa dire l’anno esatto, dottore?”,
“Certamente: era il 1981”,
“Sono più di vent’anni, quasi trenta… ed i
casi di Brasov sono recenti, risalgono a pochi mesi fa… è
come se il vampiro avesse bisogno di nutrirsi ogni trent’anni
circa; ma, dato il lungo lasso di tempo a digiuno, una sola vittima non
gli basta…”.
Edith gli poggiò la testa su una spalla; lui le accarezzò
i capelli “Non temere, a Brasov dormiamo insieme. Tanto, ormai
non dobbiamo più nasconderci!”.
Per tutto il tempo, Jeudi se ne era rimasta muta, in un angolo.
Perché aveva sentito emanare da quegli oggetti inanimati un fortissimo senso di malvagità, di minaccia.
Un’ombra che la guardava da un luogo ed un tempo indefiniti,
eppure sempre presenti… un destino che l’attendeva al
varco? Ma dove? E perché solo lei? Le sembrò quasi di
udire una lontana risata stridula, querula come il gracchìo di
un uccello.
La sua nemesi.
Un brivido ghiacciato le percorse la schiena, come se… qualcosa
di gelido l’avesse toccata! Le mancò il fiato, e si
alzò di scatto, per ricadere giù immediatamente dopo.
“Jeudi! Cos’hai?” Lundi l’aveva vista, ma il primo a sorreggerla, come al solito, era stato Leòn.
“Va meglio, adesso?” le chiese. Lei alzò gli occhi
fino ad incontrare quelli di lui “Ho paura… di
nuovo… stammi vicino, ti prego!” gli sussurrò
all’orecchio.
Poco dopo, salutato il dottor Du Bois, tutti erano sulla via per il parcheggio.
“Che ne dite se ci fermiamo a mangiare qualcosa
lì?”, Jean aveva indicato il ristorante nella casa di
Dracula,
“Per ritrovarci a bere un altro vino color del sangue? No, grazie!” rise Patrice, cingendo Edith con un braccio.
“Io un pò di sete l’avrei!” fece Johann
“Entriamo almeno a prenderci un gelato! Siamo sempre così
di corsa!”.
L’idea fu approvata.
Entrarono, e si sedettero tutti ad un tavolo.
C’era allegria; seduta vicino a Lundi, adesso Jeudi si sentiva un po’ meglio.
“Sicura che non vuoi niente?” le stava chiedendo lui,
“No, tranquillo!”.
“MA GUARDA CHI SI VEDE!!!”.
Una voce alta e querula dietro a loro li fece voltare di botto.
Lundi scattò in piedi “Matilda?!? Ma che ci fai tu qui?”,
“Vacanza, mio caro!” la nuova venuta lo aveva preso per la
mano che lui le aveva tesa, e gli si era avvicinata, baciandolo
sonoramente su di una guancia “Mio zio Armand ha acquistato un
vecchio castello, e l’ha riadattato. Sapete che dicono fosse il
castello del conte Dracula(6)? Ciao, Jeudi”,
“Lundi, non ci presenti la tua amica?”, al sentire nominare
il castello di Dracula, Patrice Tavernier era scattato in piedi,
“Naturalmente. Signori, questa è Matilda Troncan, una mia
ex-collega dei tempi dell’università. Prego, Matilda,
accomodati pure con noi!”.
Dopo che Lundi ebbe fatte le presentazioni, Matilda attaccò a
parlare, cercando di guadagnare subito il centro dell’attenzione
con i suoi modi da civetta e la sua voce che squittiva.
“Il “castello di Dracula”, in realtà, non
è mai appartenuto alla famiglia Dracula: era un avamposto di
frontiera in origine, e passò in mani reali, poi”,
spiegava Patrice
“Però è conosciuto come “castello di Dracula” da molto tempo”,
“Quella è una conseguenza della diffusione del romanzo
omonimo. Lei si lascia suggestionare un po’ troppo,
signorina”,
“Perché, lei no?”,
“Da studioso qual sono, non potrei mai!”,
“E come mai siete qui, se è lecito?”,
“Stiamo conducendo delle ricerche, signorina”, Tavernier la guardava senza sorridere,
“Davvero? E su cosa?”,
“Sull’attività di un presunto vampiro”,
“Davveeeero? Che fortuna! Allora mio zio potrà senza
dubbio aiutarvi: sapete, vive qui da alcuni anni, e di questi posti
conosce tutto, proprio tutto!”,
“Molto gentile da parte sua, signorina. Ma suo zio è anche lui d’accordo?”,
“Ma certo! Anzi, perché non venite nel nostro castello,
visto che sapete già dove si trova? Sareste nostri
ospiti!”,
“La ringrazio davvero, anche a nome dei miei colleghi, ma abbiamo le stanze prenotate in albergo a Brasov”,
“Insisto. Sarebbe un piacere”,
“Le prometto, però, che verremo a farvi visita”,
“Beeeene! Mio zio sarà contento, davvero!”.
Matilda si aggrappò spudoratamente al braccio di Lundi,
ignorando la presenza di Jeudi “Così mi racconterai un
po’ di cose, caro! E’ da tanto che non ci vediamo!”.
Lanciò un’occhiata maligna a Jeudi, che la contraccambiò con uno sguardo glaciale.
“Quella non mi piace neanche un po’!” stava dicendo Patrice all’orecchio di Edith,
“Neanche a me. Ma se suo zio può aiutarci, sarebbe una
gran cosa per noi: è qui da più tempo di noi, e conosce
molte più cose. Magari, è stato anche testimone dei
ritrovamenti, chissà!”,
“Bah! Vedremo!”, concluse lui.
Più tardi, Matilda li riaccompagnò al pulmino.
“Peccato che non possa portarvi tutti sulla macchina di mio zio: ha l’autista, sapete!”, diceva.
Per tutto il tempo, al ristorante prima e lungo la strada poi, non
aveva fatto altro che stare appiccicata a Lundi, il quale, per contro,
mostrava chiari segni di insofferenza e cercava di continuo lo sguardo
di Jeudi, in una muta richiesta di aiuto; ma lei, per reazione, si era
aggrappata al braccio di Leonhard, e continuava a fingersi molto
interessata alla conversazione che lui aveva intavolata con Patrice ed
Edith.
“Ci vediamo a Brasov, allora!” li salutò alzando una mano, mentre il pulmino ripartiva.
____________________________________________________
(1)Durante quel viaggio, quello è stato l’albergo migliore, il solo davvero elegante e dotato di tutti i confort
(2)A parte i personaggi e le loro vicende, tutto ciò che avete
letto è stata mia esperienza personale (compreso il tramonto di
sangue!!!). Che ve ne pare della “tomba di Dracula”?
Personalmente, ho preferito la serata folcloristica, molto meno
“costruita”!
(3)Credits: L’altra donna, Pooh
(4)Credits: Dammi solo un minuto, Pooh
(5)Questa della torre me la sono inventata, ricordando un’alta
torre della cinta muraria della città, e l’interno di
altre torri che, al contrario di quella, ho realmente visitato
(6)Il castello, in realtà, è proprietà statale, e non è abitato: è un museo
E
rieccomi con voi! Scusate il ritardo nell'aggiornare, ma ho avuto una
settimana molto pesante. Che ve ne pare di questo capitolo? La
cittadina di Shigsoara è forse la più bella tra tutte
quelle che ho avuto modo di visitare in Romania: se andate da quelle
parti, fateci un giro, garantisco che ne vale la pena (e salite sulla
Torre dell'orologio per guardare il panorama dall'alto, è
bellissimo!).
Ninfea 306: è
vero, tutti i posti che descrivo in questa storia li ho visitati
realmente (salvo qualche interno con personaggio...), ma non
racconterò tutto il viaggio: la Transilvania finisce a Brasov.
Comparirà solo un'altro luogo da me visitato, il monastero, che
però si trova in un'altra regione del Paese.
Vitani: credo che la
storia dovrebbe esser lunga una decina di capitoli, ma se ci fossero
delle variazioni, sarebbero minime. Dimmi se anche questo capitolo ti
piace!
Un grazie anche a tutti coloro che stanno leggendo senza recensire!
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Capitolo 8 *** Dal tramonto all'alba ***
DAL TRAMONTO ALL'ALBA
DAL TRAMONTO ALL’ALBA
Sebbene fosse ancora pieno pomeriggio, in quella stanza la luce del
sole veniva quasi totalmente assorbita dai pesanti pannelli di legno
scuro che rivestivano le pareti; l’uomo seduto alla scrivania
rimaneva quasi totalmente in ombra, mentre i suoi occhi erano fissi
sulla coppia che gli stava davanti.
Patrice Tavernier lo guardava in tralice, senza parlare, fissandolo dai
suoi gelidi e bellissimi occhi azzurri, la bocca atteggiata ad una
piega sospettosa; Edith, invece, non nascondeva la sua inquietudine,
una luce di allarme che le brillava negli occhi, e teneva la mano del
compagno, sotto il legno del pesante mobile davanti al quale stavano
seduti.
Armand Troncan parlava con voce bassa e ferma, intervallando le parole
con frequenti pause di silenzio, che facevano salire la tensione,
già alta, di quell’ambiente cupo.
“Signori, per me è stato un piacere avervi come miei
ospiti nel mio castello; ma sinceramente, ascoltando queste
stupidaggini, potrei sentirmi offeso”;
Tavernier accavallò le gambe “E per cosa, se è
lecito? Per averle esposto la situazione di quanto sta avvenendo in
città?”,
“Signore, con tutto il rispetto, è la prima volta che
sento queste storie sulla città vicino alla quale ho comprato
casa!”,
“In questo caso, mi rammarico di essere stato il primo ad informarla”,
“Le sue sono favole!” l’uomo sbattè un pugno
sulla pesante scrivania di legno, facendola tremare “Io non ho
mai, dico mai, sentito nulla di simile qui! Se ci sono stati dei
ritrovamenti di cadaveri, sarà stata opera del solito maniaco
sessuale, e la paura popolare avrà fatto il resto!”,
“Il suo ragionamento è lineare; senonché, lei
trascura un particolare importante: ci sono le prove! I cadaveri sono
stati esaminati da tre autopsie diverse, e tutte e tre hanno dato gli
stessi risultati: i referti, corredati di foto, non sono invenzioni del
timore popolare, signore!”.
L’uomo si tirò indietro sulla poltrona “Se anche
fosse, perché la causa dovrebbe essere soprannaturale? Il sangue
di quelle donne potrebbe essere stato aspirato con delle
siringhe!”,
“Come no! E quelle se ne sarebbero rimaste buone e tranquille ad
aspettare che l’assassino terminasse i suoi
“prelievi”, togliendo loro lentamente la vita! Signor
Troncan, credo che lei non voglia ammettere l’evidenza, e
basta”.
Troncan si fece ancora più indietro sulla sua poltrona,
emettendo una specie di sommesso sibilo; Edith, che fino a quel momento
non aveva aperto bocca, lo guardò e sobbalzò:
quell’uomo le metteva addosso i brividi!
Il suo aspetto, certamente, non era quanto di più rassicurante
si desiderasse: occhi inespressivi, piccoli e vicini, sotto ad una
fronte lucida con un inizio di calvizie; una bocca con labbra
inesistenti e baffi neri, ed una voce nasale e bassa.
Guardava tutti in tralice, con l’espressione di chi vuol mettere
il prossimo sotto attento e minuzioso esame, squadrando da capo a piedi
chiunque gli si presentasse davanti; così aveva fatto anche con
i suoi ospiti, presentatisi quel pomeriggio, appena dopo il loro arrivo
a Brasov.
Lo strano padrone del castello si alzò, dirigendosi verso una
delle librerie che stavano accostate ai due lati della scrivania;
iniziò ad armeggiare sugli scaffali.
“Patrice, ma perché siamo venuti qui?” fece Edith
sottovoce al compagno, stringendogli ancor di più la mano,
“Perché speravo che potesse esserci di aiuto, ma a quanto
pare mi sbagliavo: è indisponente come sua nipote!” le
rispose lui,
“Io ho paura! Questo posto non mi piace per niente! Andiamo via da qui! Torniamo in albergo!”.
Il biondo professore fece un sorriso alla ragazza rossa, portandosi la
mano di lei alle labbra per baciarla “Non possiamo, lo sai.
Dobbiamo almeno aspettare che tornino gli altri”.
In quel mentre, il resto del gruppo, sotto la guida di Matilda, stava facendo il giro del castello.
Johann e Liesel, immediatamente dietro, si guardavano intorno con aria incuriosita.
“Signorina, scusi…”, chiese Johann
“Matilda, se non le dispiace!”,
“Matilda… come mai non avete servitù? Il castello
è molto grande, chi si occupa di tutte le faccende?”,
“Oh, sì che abbiamo servitù! Abbiamo tre cameriere,
il cuoco e l’autista; ma arrivati alle cinque e mezzo, staccano e
se ne vanno. L’unico che resta è Jan, il guardiano, che fa
anche il turno di notte”,
“E chi si occupa della cena? Ve la lasciano in frigo?”.
Matilda rise nel suo modo querulo “No, naturalmente. Ci pensa
Jan; sa fare di tutto, è insostitubile!”.
In fondo alla fila, Jeudi camminava al braccio di Lundi; anche lei non
si sentiva affatto tranquilla, là dentro; sentiva un senso di
oppressione, di insicurezza che mai aveva provato prima; poi, il
ricordo delle parole dei suoi cari estinti, che le avevano
preannunziato la presenza di un grave pericolo a Brasov e dintorni, non
faceva che aumentare la sua inquietudine.
Allora, si girava alla sua sinistra ad incrociare i grandi,
rassicuranti occhi viola di Leonhard; e bastava il suo sorriso a
riportare un po’ di luce dentro al proprio cuore angosciato.
“Matilda, scusa… cosa c’è oltre quella
porta?” fece ad un tratto Lundi, indicando un pesante uscio
sprangato,
“Quello? Oh, niente! E’ soltanto un magazzino di vecchi mobili in disuso!”,
“Allora dovete averne parecchi, di mobili in disuso: è
già la quarta porta chiusa che vedo!” aggiunse Jeudi.
Matilda la guardò in tralice, oltre la spalla, e la sua voce si
fece ancor più querula, se possibile “Complimenti, sei
un’acuta osservatrice! In effetti, in questo castello ci sono
stanze vuote che non usiamo più”.
Salirono una stretta e buia scala, in fondo alla quale Matilda
aprì una porta cigolante; entrarono in quella che sembrava una
grande stanza da letto, non più in uso da tempo.
Addossato ad una parete, ma così grande da raggiungere in
lunghezza il centro della stanza, stava lo scheletro di un letto a
baldacchino, le cui colonne, spesse ed alte, erano fabbricate nello
stesso legno scuro che era il materiale primario del mobilio
dell’intero castello: un legno scuro, quasi nero, che risucchiava
la luce, fino a mangiarla, e che rendeva tutti gli angoli ugualmente
oscuri e sinistri.
Anche gli altri, per la verità pochi, mobili di quella stanza
erano fabbricati nello stesso materiale: un cassone per gli abiti posto
ai piedi del letto, due vecchie cassettiere ed un’antica
scrivania.
“E questa” Matilda si girò con una piroetta
“è il pezzo forte di tutto il castello: è la stanza
del conte Dracula!”(1).
“Questa???” Lundi era esterrefatto “Me la aspettavo
diversa! E’ così… insignificante!”.
Matilda rise in quel modo querulo che tanto infastidiva Jeudi “E
che ti aspettavi? I corpi dissanguati delle sue vittime? Le tracce di
sangue sull’impiantito(2)?”,
“Bé, no, ma… qualcosa di più… angosciante… terrificante…”;
Matilda rise di nuovo; si avvicinò a Lundi, cingendolo con un
braccio e parlandogli sottovoce: i due intrapresero una conversazione
che sembrava sfacciatamente intima.
Johann e Liesel si guardavano in giro, con la faccia per aria.
Jeudi non se ne era nemmeno curata; in realtà, per tutto il
tempo del giro all’interno del castello, aveva sentito la sua
angoscia aumentare sempre più; invano, aveva sperato di veder
apparire qualcuno dei suoi cari in suo aiuto; ma nessuno si era fatto
vedere, e lei capiva cosa questo significasse: quel luogo nascondeva una qualche forza malefica, ragion per cui le anime in pace non potevano entrarvi.
Ma quale poteva essere questa forza? Per quanto si guardasse attorno,
non vedeva nulla di palese a riguardo; forse si nascondeva dietro una
di quelle porte chiuse… nessuno poteva saperlo.
Lundi si era completamente dimenticato di lei, preso nella
conversazione con la sua vecchia amica; quella, di contro, le lanciava
continue, trionfanti occhiate.
Oh, tientelo pure!, pensava Jeudi; lei aveva ben altro di cui preoccuparsi, purtroppo.
Devo scoprirlo! Devo scoprirlo! Devo
trovare il male per distruggerlo! E’ la missione per cui sono
venuta qui! “Stai attenta! Un grave pericolo incombe su di
te!”, mi hanno detto. Ma io DEVO stanare questa bestia!
Si incamminò giù per la scala percorsa poco prima assieme
agli altri, questa volta da sola, addossandosi alla parete; sentiva
spifferi provenire da chissà dove, come sussurri misteriosi che
si chiamavano dai due lati del corridoio.
“Jeudi! Aspetta!”. Leonhard la raggiunse “Non andare da sola. Lascia che venga con te”.
Lei gli sorrise; si sentiva più sicura con lui accanto, anche se
non avrebbe voluto coinvolgerlo; ma averlo vicino era una sensazione
meravigliosa!
Le prese la mano, ed iniziarono a scendere insieme; la scala si faceva
sempre più buia, ora che il tramonto era vicino, e più di
una volta Jeudi rischiò di cadere; ma fu sempre sostenuta dalle
forti braccia di Leonhard.
Ritornarono nell’atrio che avevano lasciato poco prima, adesso
ovviamente vuoto; la ragazza giunse le mani e si guardò attorno,
smarrita.
“Cosa cerchi, amore?” le chiese Leonhard,
“Non lo so… sento che qui c’è
qualcosa… di indefinibile, vago… è come se mi
chiamasse… ma non è una cosa buona!”,
“E allora perché la segui?” le si fece più vicino,
“Ecco… non so neanche questo, a dire il vero!”.
La donna tese l’orecchio: nel silenzio riuscì ad avvertire
di nuovo quel senso di minaccia, di occhi che la osservavano
dall’oscurità, che già aveva percepita nella casa
abbandonata a Sibiu. Iniziò a tremare, scossa da un terrore
senza nome.
Leòn se ne accorse e la prese tra le braccia, stringendola per
farle coraggio con il proprio calore; ma lei non accennava a smettere,
anzi tremava sempre più.
Occhi invisibili, occhi dal
buio… mi vedono, lo sento. Un nemico invisibile mi
minaccia… ed io sono in suo potere! E’ qui, da qualche
parte, non posso sbagliare!
Quegli occhi… dove si trovava il loro proprietario? Lo sentiva
vicinissimo, seppure invisibile. Da qualche parte, lontano nel
castello, percepì il cigolio di una porta, stridulo come una
risata sinistra che si allontanava.
Ed il suo cuore mancò un battito.
“Jeudi! Che hai? Jeudi!” Leòn la stava scuotendo.
Lei mugolava, come in trance.
Lui l’abbracciò di nuovo, posandole piccoli baci sul viso,
sui capelli “Amore mio, Jeudi… non aver paura, ci sono io
con te…”.
Lentamente, si riebbe dalla trance;
si appoggiò meglio col viso sulla spalla di lui, che ora la
cullava dolcemente; il respiro di Jeudi divenne pian piano più
regolare.
“Va meglio?” le chiese Leòn accarezzandole i capelli. Jeudi annuì.
“Prendi un po’ d’aria, su!” le indicò una finestra aperta.
Si affacciarono entrambi: la finestra dava sul cortile, un quadrato
irregolare con un pozzo in un angolo: non c’era assolutamente
nessuno, né c’era alcunché di sospetto.
Ma lei aveva capito che la cosa era lì dentro, da qualche parte.
Udirono delle voci avvicinarsi: gli altri stavano tornando.
Lundi era al braccio di Matilda; poi venivano i Wolfgang; Liesel era visibilmente scossa.
Non appena furono giunti nell’atrio, Matilda li vide “Volevate prendere aria?”,
“La signora Brendell non si sentiva bene” le rispose Leonhard, secco.
Poi, si incamminarono tutti insieme verso il salone centrale, dove li aspettavano Patrice ed Edith.
Liesel corse incontro a Tavernier “Patrice… andiamo via di qui, subito!”,
“Che ti prende, Liesel? Hai incontrato il conte Dracula?” cercò di sdrammatizzare lui,
“Andiamo via, per il bene di tutti noi!” incalzò lei. Il professore si stupì.
“Va bene. Come vuoi. Signor Troncan” si rivolse allora al
loro ospite “noi togliamo il disturbo. Grazie lo stesso per la
gentile collaborazione” disse, non senza sarcasmo.
“Permettetemi almeno di invitarvi a cena, domani sera. E’
il minimo che possa fare per scusarmi con voi!” insistette
l’altro,
“Non mi sembra il caso”,
“Insisto” fece quello con un tono che, più che una richiesta, era un ordine.
Patrice si sentì sfidato “Va bene. Come desidera. A domani, allora”,
“Alle otto e mezzo va bene?”,
“Sì”.
Si congedarono e Matilda accompagnò gli ospiti fino in cortile e
poi fuori, dove Jean li stava aspettando a bordo del loro pulmino.
Mentre si avviavano all’albergo, Tavernier cercò di calmare Liesel.
“Perché hai insistito a quel modo? Il signor Troncan si sarà offeso!”,
“Non potevo fare altrimenti!” tremava ancora
“Là c’è… una grande malvagità,
l’ho percepita chiaramente! Non voglio tornarci, né
domani, né mai!”,
“Lo stesso vale per me, Patrice” fece eco Edith,
“Dunque, fatemi capire: quanti saremo, domani sera, a parte me?”,
“Io ci vengo” fece Lundi “la mia vecchia amica mi ha
invitato espressamente; e l’invito vale anche per te, Jeudi: non
puoi rifiutare!”.
No, non posso rifiutare! Ma non per la ragione che credi tu!
“Noi non veniamo”, fecero eco, in coro, Liesel e Johann,
“Io sì, invece” rispose Leòn,
“No, Leòn: stanne fuori!”, gli intimò Jeudi, sottovoce,
“Ma Jeudi…”,
“Niente ma! Non voglio che tu corra rischi per me!”.
L’uomo tacque.
Jeudi deglutì. Sarebbe stata da sola, lo sapeva bene: Lundi non
si sarebbe certo occupato di lei, né tantomeno Patrice,
sicuramente impegnato col signor Troncan. Ma questa, d’altronde,
era la sua missione. Ora lo sapeva.
Lei era stata chiamata per questo, ed avrebbe adempiuto al suo dovere,
a qualsiasi costo. Strinse la piccola croce che portava al collo.
L’indomani sera, avrebbe stanato quel mostro, e gli avrebbe
piantato un paletto nel cuore.
“Dunque, siamo io, Lundi e Jeudi, finora. Ci farà
compagnia, dottore?” la voce di Patrice la risvegliò,
“Con vero piacere!”.
Più tardi, a cena, tutti esibivano facce tese ed angosciate, chi
più, chi meno: ognuno aveva da pensare alle proprie
preoccupazioni.
In albergo, c’era una gran confusione: era infatti in corso una
festa di matrimonio(3), e la sala ristorante più grande era
stata totalmente occupata dagli invitati di questo.
Edith fumava, la testa bassa sul piano del tavolo, mentre Patrice
Tavernier si era versato più di un bicchiere di vino; Lundi non
aveva mangiato quasi nulla, ad eccezione di un’insalata mista di
verdure locali; Jeudi e Leonhard, ai due capi opposti della tavola,
continuavano a scambiarsi occhiate preoccupate a vicenda.
Perché, perché non vuoi che ti accompagni, che venga con te?
Non ti fidi più di me? Non mi
ami più? Stai correndo un pericolo mortale, e soltanto io
posso aiutarti, in questo frangente; di certo, non lui! Perché
non vuoi che sia io ad accompagnarti in questo momento delicato e
terribile?
Mi hai chiesto di restare: vuoi proteggermi o vuoi liberarti di me? E proteggermi da cosa, poi?
Lei lo guardava, gli occhi socchiusi.
Non posso portarti con me: perdonami, perdonami, Leonhard!
E’ me che ha attirato laggiù! E’ me
che vuole! E non so cosa potrebbe accadere: non voglio che tu corra dei
rischi, amore mio! Per quanto ne so, io potrei anche morirne, e tu non
devi subire la mia stessa sorte: tu devi vivere, amore!
Non reclinerò la testa,
mostro! Non conosco ancora il tuo volto, ma chiunque tu sia, ti
distruggerò, in nome di Dio! Mi hai sfidato, ed hai fatto molto
male: sarò la tua nemesi!
“Buonasera a tutti!”, Jean-Jacques entrò in quel
momento nel cortile, accompagnato da una donna dall’aspetto
giovanile, alta e mora, con un’espressione sorridente sul viso.
“Signore e signori, voglio presentarvi mia moglie Helena”,
“Piacere di conoscervi” disse quella; aveva un ottimo Francese.
Jeudi le porse la mano, sorridendole; lo stesso fecero gli altri.
Poi, Jean fece sedere la moglie, sedendosi a sua volta.
Jeudi la osservò: aveva due occhi scuri brillanti, di quello
stesso brillìo tipico di chi possiede una naturale fermezza ed
una forte carica di autostima. Decise che le piaceva.
“Così, abbiamo il piacere di sedere assieme ad un medico!” fece Tavernier,
“Troppo buono, signore! Il medico è mio marito; io sono solo la farmacista!”,
“Ed un farmacista non è forse un medico? Non sia modesta, dottoressa!”.
La donna abbassò gli occhi e sorrise, arrossendo. Jean le pose una mano sulla spalla.
“Non è facile essere medici, qua” disse “e
noi, come gli altri, non ci sentiamo dei privilegiati, ma riteniamo
solo di fare il nostro dovere, anche quando esso potrebbe costarci
molto caro”,
“Che intende dire? Ci sono ancora nostalgici del passato regime in giro?”,
“Sì, ma non solo; la gente, qui, è naturalmente
diffidente, e, come avrete avuto modo di notare, anche parecchio
superstiziosa. Non si rivolge facilmente al medico, ed anche quando lo
fa, lo fa di nascosto”,
“Da non credere!”, Tavernier esclamò a bocca aperta.
La donna rise.
“Sì, suppongo che molte nostre… abitudini possano
sembrare un tantino… barbariche a voi. Ma anche questa,
purtroppo, è un’eredità lasciata dal passato, e non
soltanto da quello recente”,
“A che si riferisce?” Johann aveva intrecciato le braccia, tirandosi indietro sulla sedia,
“Al feudalesimo medievale: da noi, qui all’Est, è
durato assai più a lungo che da voi, e pertanto, i suoi danni
sono stati più persistenti e duri a morire”,
“Ma non ditemi che non li state sradicando!” sbottò Liesel,
“Ci stiamo provando, signora. Ma non sempre è così
facile: richiede molto tempo, e soprattutto dedizione”,
“Come il vostro lavoro: non è così, forse?”,
“E’ diverso: quello richiede innanzitutto amore”,
“E lei ne ha molto, suppongo” Tavernier la guardò intensamente,
“Non lo potrei fare, altrimenti. Molti dei nostri pazienti non possono pagare, sapete?”,
“La stimo molto, dottoressa: nutro una grande ammirazione per
coloro che hanno una vera abnegazione per il proprio lavoro e lo
giudicano una missione, sacrificando ad esso anche la famiglia e gli
affetti, a volte”, aggiunse Patrice.
Tutti annuirono.
Jeudi aveva preso parte poco o nulla alla conversazione; poco dopo l’arrivo della dottoressa, infatti, qualcos’altro aveva attirata la sua attenzione, suo malgrado.
Gli occhi… gli occhi misteriosi nel buio che aveva chiaramente
avvertito al castello, adesso erano lì, da qualche parte. Non
avrebbe saputo dire perché, né come, ma quella silenziosa
ed invisibile presenza l’aveva raggiunta e le stava addosso, come
fa un giaguaro con la sua preda, in silenzio.
E nessuno poteva aiutarla. Nessuno lo sapeva.
Ricordò gli avvertimenti dei familiari estinti, di non rimanere
mai sola quando fosse stata a Brasov, ed adesso ne capiva perfettamente
la ragione.
Un nemico presente ed invisibile, che avrebbe potuto essere ovunque.
Più tardi, mentre si incamminavano verso le camere da letto, Leonhard le stava vicino e la sorreggeva, come sempre.
“Sei sicura della tua decisione?” le stava chiedendo,
“Assolutamente”,
“Io ho paura per te. Permettimi di insistere”.
Lei sentì una fitta al cuore: quanto avrebbe voluto averlo
vicino! Ma si scosse, e si fece più dura: non voleva che lui
capitasse nel suo stesso pericolo.
“No, Leòn: fallo per me! E poi,”, si sforzò
di sorridere, per tranquillizzarlo “non vedo che pericolo ci
possa essere: è soltanto una cena! Nella peggiore delle ipotesi,
mangeremo male!”. Rise.
Senza convinzione, Leòn cercò di imitarla.
Ma se non c’è pericolo, perché stasera mi hai parlato di rischi?
Decise di chiederglielo; lei rispose: “L’unico rischio che
posso correre è quello di farmi prendere da un’altra crisi
isterica come quella che hai visto; e non voglio che tu debba prenderti
uno spavento inutile!”,
“Ma al castello mi parlavi di una cosa, oggi pomeriggio!”.
Jeudi si rabbuiò.
“Leonhard… io non ho idea di che cosa potesse essere quella… cosa
che ho sentito; ma qualunque cosa fosse, sembra che non abbia
intenzione di farmi niente, a parte spaventarmi. E poi, non sarò
mai da sola, rimarrò sempre con Patrice e gli altri”.
Mentiva. E lo sapevano benissimo tutti e due.
“Leòn, ti prego… rimani qui, domani. Se mi ami, promettimelo!”.
L’uomo esitò un poco; poi, le affondò le mani tra i capelli, ai lati del viso.
“Va bene, come vuoi. Ma tu promettimi che rimarrai sempre vicino a Lundi”.
Lei gli sorrise “Va bene, stà tranquillo. E porterò
con me questo”, così dicendo, gli mostrò il piccolo
crocifisso che portava al collo.
La mattina successiva trascorse abbastanza tranquilla; Tavernier diede
istruzioni precise a coloro che lo avrebbero accompagnato quella sera,
poi arrivò il capo della polizia accompagnato da padre Rabonu,
il pope responsabile della parrocchia situata nel quartiere in cui
erano stati rinvenuti alcuni corpi dissanguati, e tutti iniziarono ad
esaminare gli indizi: era un caso di vampirismo, senza ombra di dubbio.
Si decise che, la notte successiva, il gruppo si sarebbe diviso in due
ronde che avrebbero battuto la zona dove erano scomparse le vittime.
“Il vampiro è abitudinario: di solito, preferisce cercare
le sue vittime negli stessi posti che già conosce” aveva
detto il poliziotto.
Poi, alle otto all’incirca, la “spedizione” di
temerari si radunò nell’atrio dell’albergo per
recarsi al castello.
Tavernier, in smoking bianco, era una visione mozzafiato: Edith non riusciva a togliergli le braccia dal collo.
“Amore… mi devi promettere che starai attento… e che tornerete presto!”,
“Non stare in pensiero, tesoro: il tuo Patrice sa quel che fa! E stanotte, ce la spasseremo un po’!”,
“E piantala di scherzare! Io sto crepando di paura! Continuo a
chiedermi cosa succederà se quello cercherà di
trattenervi là con la forza!”,
“La mia principessa ha paura!” scherzava lui; poi le
spostò i capelli e la baciò sul collo
“Tornerò presto!” disse.
Johann e Liesel stavano distribuendo consigli a Jeudi e Lundi.
“Stai attenta ai trucchi elettronici: quella Matilda è
capace di farvene un paio, per divertirsi a vedervi impauriti”
diceva Johann,
“Non preoccuparti, terremo gli occhi aperti”, Jeudi gli teneva una mano tra le sue,
“Lundi, stai vicino alla tua donna: lì c’è
qualcosa che non va, e non è l’umidità!”,
Liesel manifestava terrore già nel parlare,
“Allora non preoccuparti: la sola cosa che non sopporto è
proprio l’umidità; a tutto il resto posso
resistere!” scherzava lui.
“Che farete, stasera?” chiedeva Jean-Jacques a Leòn,
tenendo una mano in una tasca e l’altra a reggere la giacca
poggiata su una spalla,
“Magari, ne approfitteremo per dare un’altra occhiata agli
indizi che ci ha portato la polizia oggi” rispondeva lui.
“Signori, è ora di andare!” fece Tavernier a voce alta.
Tutti gli si fecero intorno; poi, si mossero verso l’uscita, salutati dagli altri.
Leòn e Jeudi si scambiarono un’interminabile, tacita occhiata.
Ritorna, amore! Non posso vivere senza di te, ora che so di amarti!
Non so come andrà a finire, per me; ad ogni modo, grazie per avermi amata tanto, Leòn! Ti amo!
Piquet mise in moto, e si allontanarono nella sera.
Le strade di Brasov erano deserte, abitate dai soli lampioni
illuminati: la paura del mostro aveva sortito un effetto coprifuoco.
Attraversarono la piazza principale, con la sua Cattedrale Nera: anche
lì, era deserto. Poi, il pulmino prese ad inerpicarsi sulla
strada extraurbana.
Percorsi alcuni chilometri, raggiunsero il castello(4). Nel cortile, c’era Matilda ad aspettarli.
“Bene arrivati! Vi stavamo aspettando!” fece.
Tutti scesero.
“Prego, da questa parte! Accomodatevi pure!”.
Entrarono e si diressero al piano superiore, attraverso il percorso che già conoscevano.
Troncan li stava aspettando, pure lui in abito da sera; li accolse con
il suo solito fare distaccato e superiore, e li fece accomodare in una
grande sala da pranzo illuminata soltanto da candele.
“Come mai questo risparmio sull’energia elettrica?” chiese Patrice, sarcastico,
“E’ più d’atmosfera. Non trovate, signori?”.
Presero posto. Matilda si era seduta accanto a Lundi.
“Vieni pure, Jan!” gridò con la sua insopportabile voce querula.
Una porticina laterale si aprì, ed uno strano ometto
entrò nella stanza, recando in mano una specie di vecchia,
grossa pentola; era vestito totalmente di nero, e portava una parrucca
grigia, di stile settecentesco; aveva due mani ruvide e coperte di
calli, ed emanava uno strano odore, un odore di fogli vecchi ammassati
ad ammuffire in un vecchio baule.
Lundi fu colto da un attacco di nausea.
Lo strano ometto iniziò a servire una specie di brodo nei
piatti, dentro al quale si vedevano galleggiare alcune verdure. Patrice
Tavernier storse un sopracciglio, limitandosi a mescolare il brodo col
cucchiaio.
Piquet mangiò di vero appetito; Jeudi, invece, rimase ferma, senza toccare nulla.
Aveva osservato già da un po’ che l’ometto non
lasciava trasparire il suo volto: teneva sempre la testa bassa,
in modo che i ciuffi di capelli della parrucca gli coprissero il viso;
l’odore nauseabondo che emanava, poi, costringeva a voltarsi
dalla parte opposta.
Ma adesso, d’improvviso, sentiva nuovamente gli occhi muti addosso: e capiva che la cosa era lì vicino.
Alzò lo sguardo verso Matilda, e vide che la guardava, sogghignando lievemente.
E fu allora che capì.
Avrei dovuto capirlo prima, strega!!
Patrice aveva appena piluccato qualcosa: quella sorta di zuppa proprio
non gli aggradava; ed ancor meno gli aggradava l’atteggiamento
del padrone di casa, il quale invece di mangiare, continuava a fissarlo
sogghignando; il suo volto sinistro, reso ancor più sinistro
dall’irreale riflesso delle candele, era inquietante.
“Signor Troncan, il vostro cuoco ha fallito questa sera, o devo
pensare che non avete fame nemmeno lei e sua nipote?”.
L’uomo allargò il suo sogghigno “Infatti, è
così. Abbiamo fatto un pasto abbondante, oggi. Vi preghiamo di
scusarci”.
Tavernier si adombrò: Questo individuo, più lo conosco e meno mi piace!, pensò.
Lundi aveva mangiato ed ora conversava con Matilda, la quale non gli
toglieva gli occhi di dosso un istante; solo di tanto in tanto,
lanciava occhiate in tralice a Jeudi.
La seconda portata fu a base di carne, un po’ meglio della prima; poi fu servito uno strano dolce di noci.
Al termine della cena, Troncan invitò i tre uomini a bere un whisky nel suo studio.
“Perché non anche la dottoressa?” Tavernier era sempre più alterato,
“Perché ciò che vi debbo comunicare è roba
da uomini; la signorina ne resterebbe troppo impressionata!”,
“La signorina, come la
chiama lei, è una docente di storia medievale, che conosce
benissimo certe usanze di qua!” Patrice aveva alzato la voce,
“Veramente vorrei mostrare a Jeudi la mia collezione di romanzi storici!” s’intromise Matilda.
Superbo, maleducato e pure sessista! Che schifo di individuo!!!, pensava Patrice.
Jeudi lanciò un’occhiata a Lundi, una disperata richiesta di aiuto.
“Vai pure, cara! Io ti aspetto qui” le rispose lui.
Matilda le porse il braccio “Vogliamo andare?”; Jeudi fu costretta a seguirla.
Piquet stava per andar loro dietro, quando Troncan lo prese per un
braccio “Dottore, l’invito è rivolto anche a
lei!” e lo tirò nel suo studio.
Le due donne si incamminarono lungo i corridoi bui del castello; Jeudi
osservava a destra ed a sinistra: non c’era anima viva, e quei
vecchi mobili mettevano davvero paura! Sembravano stregati, pronti a
spostarsi al loro passaggio, per poi ammucchiarsi di nuovo per seguirle
con lo sguardo.
Non restare mai sola, non restare mai sola!, le riecheggiarono nella mente le parole dei suoi cari.
Jeudi strinse il crocifisso.
“Allora, mia cara” Matilda le si rivolse “sembra che
tu e Lundi non andiate più d’amore e d’accordo come
una volta, o mi sbaglio?”, il suo tono, da caramelloso che era
stato fino a poco prima, si era fatto sarcastico.
“Piantala con questa commedia, e dimmi dove stiamo
andando!” fece Jeudi, in cui la paura stava cedendo il posto alla
rabbia.
“In un posto dove capirai alcune cosette!” rise l’altra.
Percorsi altri interminabili corridoi, entrarono in quella che pareva
una libreria; Matilda chiuse la porta, ma senza girare la chiave.
“Stai bene a sentire, ficcanaso: Lundi è mio solamente!
Quando mi lasciò per tornare da te, giurai che mi sarei
vendicata, e adesso è arrivato il momento! Non uscirai viva da
qui: non tornerai a Ginevra con lui!” gridò Matilda.
Jeudi la guardava, gli occhi pieni d’odio “Strega! Avrei
dovuto capire subito come stavano le cose! Sei stata tu a fare tutto,
per attirarci qui! Era solo me che volevi! Non è
così?”.
L’altra rise “Sì, è proprio così! Non
mi è stato difficile fare fuori quelle stupide ragazzette e poi
contattare la polizia affinché loro contattassero Gizan; sapevo
che lui si sarebbe rivolto a voi! Non mi importa nulla degli altri: sei
tu quella che voglio!”,
“E così, hai sguinzagliato i tuoi “amici” perché uccidessero quelle povere ragazze!”,
“Sei perspicace, vedo! Sapevi già che non ero io il vampiro!”,
“No, infatti: perché il vampiro è tuo zio!”,
“Hai indovinato! Lui è il signore di questo castello, il
signore di noi tutti! Ma c’è anche chi gli ha dato la
non-morte perenne; e tu lo conosci bene!”.
In quel momento, una porticina si aprì dietro una libreria
addossata ad un muro, ed un’ombra comparve nella stanza. Jeudi
riconobbe l’ometto misterioso che li aveva serviti a cena.
L’individuo alzò lo sguardo per la prima volta; e fu solo
allora che Jeudi poté vedere i suoi occhi vuoti e vitrei, occhi
morti da secoli.
Occhi che mi spiano dalle tenebre,
occhi invisibili… mi sta seguendo da Sibiu, da quando mi ha
predestinato come sua preda! E’ lui!!
“Il calzolaio!” gridò Jeudi.
La ragazza indietreggiò di qualche passo, mentre l’uomo dagli occhi morti le si faceva sempre più vicino.
“Ed è un bene che io sia ancora umana” Matilda le si
era avvicinata con un balzo “perché altrimenti non potrei
toglierti questa!”, disse, strappandole il crocefisso dal collo.
Sono senza difese! Sono perduta!
“Lundi! Lundi, aiuto!”, gridò. Matilda rideva; il vampiro le si faceva ancora più vicino.
“Và via, via da me!” gridava Jeudi, disperata e terrorizzata.
Quello allungò una mano adunca e lei si abbassò di
scatto, sfuggendo alla sua presa. Immediatamente, il vampiro
indietreggiò, cambiando espressione: i suoi occhi, ora,
brillavano di una cupa luce rossastra.
Alzò le braccia e sembrò svanire; un attimo dopo, un grosso pipistrello svolazzava per la stanza.
Jeudi prese a correre su e giù, come impazzita; ma sapeva bene
che era inutile: trasformato in pipistrello, il vampiro avrebbe potuto
esserle addosso in qualunque momento: era solo questione di tempo.
E’ finita, finita! Addio,
Leonhard! Addio, Lundi! Papà, mamma, nonni… tra poco
sarò con voi! Fate almeno che non soffra troppo a lungo!
In un estremo istinto di autodifesa, Jeudi muoveva le braccia in aria
con gesti convulsi, tentando di allontanare l’orrido volatile da
sé; ma fu inutile, come aveva immaginato: approfittando di un
attimo di distrazione, il pipistrello le si infilò tra le
braccia, aggrappandosi al suo collo.
“Ahhhh!” la donna gridò di dolore, sentendo
d’improvviso due lunghi, affilatissimi aghi che le si
conficcavano nella gola; sentì grossi sorsi del suo sangue, che
veniva risucchiato via da una forza incontrastabile, non umana; le
forze le vennero meno.
L’orribile volatile si staccò da lei, ed uscì da
una finestra aperta, svolazzando via nella notte; Jeudi cadde a terra,
mentre poteva sentire il suo sangue colare giù per il colletto
del suo abito rosa in grossi fiotti, che uscivano dalla ferita seguendo
le pulsazioni regolari del cuore.
Si accasciò sul pavimento, gli occhi aperti.
Matilda, che si era gustata tutta la scena ridendo, le gettò il
piccolo crocefisso a terra, vicino la mano aperta “Questo te lo
restituisco, ora! Non ti può aiutare più!”.
Le diede le spalle, allontanandosi verso la porta; la aprì e
rimase sulla soglia “E adesso dormi per sempre,
sgualdrina!” le gridò; poi uscì.
Ma l’acuto grido di Jeudi non era passato inascoltato:
all’udirlo, Jean-Jacques era scattato in piedi, nonostante le
proteste di Troncan (che stava illustrando loro alcuni metodi di
tortura medievali usati da quelle parti), ed aveva spalancato la porta,
fiondandosi come un fulmine nella direzione da cui era provenuto il
grido.
A quel punto, Troncan aveva cercato di rincorrerlo, ma Patrice gli era
stato addosso subito, armato di una croce; il vampiro era balzato
all’indietro, terrorizzato.
“Lo sapevo!” aveva gridato Patrice “Non mi ero
sbagliato sul suo conto, Troncan! Lo avevo già capito ieri che
era lei il colpevole delle morti! I suoi occhi rossi, che brillavano
nell’ombra… ma adesso hai finito di rompere,
mostro!!!”.
Gli si era rapidamente avvicinato, la croce nelle mani; ma
l’altro si era trasformato in un pipistrello, ed era volato via
da una finestra lasciata aperta.
Durante tutto il tempo, Lundi era rimasto pietrificato.
“E’… era lui? Oh, mio Dio…”,
“Dio ci ha risparmiato, ragazzo. Ma temo che alla tua donna non sia andata troppo bene”,
“Jeudi! Dove sei?” aveva gridato, affacciandosi nel corridoio.
Entrambi, erano corsi dietro a Piquet.
Questi, nel frattempo, aveva raggiunto Matilda che usciva dalla stanza dove giaceva Jeudi.
“Che le hai fatto, vampira?”, l’afferrò per le
spalle, senza alcuna paura; lei, invece, ne fu molto spaventata.
Il medico tirò fuori un paletto di legno, puntandoglielo alla
gola “Ti ammazzo, puttana! Che cosa hai fatto alla dottoressa
Brendell?”,
“Fermo, Jean!” Patrice stava arrivando, trafelato “Lei non è un vampiro!”,
“Come fa a saperlo?”,
“Guarda i suoi occhi: sono crudeli, ma non sono come quelli di
suo zio! E poi, guarda!” e la toccò con la croce.
Piquet si calmò ed allentò la presa “Comunque, lei
sa dov’è Jeudi. Parla: dov’è?”.
Un flebile lamento proveniva da dietro una porta chiusa. Patrice e Lundi lo sentirono e si precipitarono in quella direzione.
“Jeudi!!” Tavernier spalancò la porta e rimase pietrificato per lo spavento.
La ragazza giaceva a terra, in un lago di sangue che si allargava di
più ad ogni istante; “Leo… nha…
rd…” mormorava, con voce appena udibile; il professore le
si inginocchiò accanto, seguito da Lundi.
“Amore! Cosa ti ha fatto?”, piagnucolava questo, tenendole una mano fra le proprie.
Non ho saputo proteggerla! Perché? Perché? Perché?
Tavernier le esaminò il collo: presentava due grossi fori
sanguinanti, da cui il sangue usciva a flusso continuo, senza
arrestarsi; poco più in giù, vi era uno squarcio,
probabilmente lasciato dagli artigli del pipistrello, che buttava
sangue anch’esso.
Il sangue aveva già abbondantemente inzuppato il collo ed il
busto dell’abito; nel tentativo di fermarlo con le mani, la
ragazza si era anche imbrattata il viso, intorno alla bocca e sotto al
naso. Respirava debolmente, con la bocca aperta.
“O.K, Jeudi, non preoccuparti! Adesso siamo qui noi; il Cielo ti
ha voluto riguardare, mantenendoti in vita: ancora un sorso di
più, e ti avrebbe uccisa! Adesso ce ne andiamo da qui!”.
Si sfilò il cravattino dal collo, e lo usò per fermare il sangue, premendolo forte sulla ferita della donna.
La prese in braccio, sollevandola.
“Professore… lasci che la porti io…!” fece Lundi, debolmente,
“No, ragazzo! Tu sei sotto choc: ci penso io. Dottore!”.
Entrando nella stanza attigua, videro Piquet che teneva ancora bloccata Matilda.
“Andiamocene, presto!” gli intimò Tavernier,
“Va bene” rispose quello.
Matilda si accasciò sul pavimento, piagnucolando; Lundi le si accovacciò accanto.
“Perché, Matilda?”,
“Perché… perché tu l’ami più di me!” e pianse.
Lundi scosse la testa “Sì, è vero, io l’amo. E’ lei che non mi ama più!”,
“Cosa?!?” Matilda alzò la testa, gli occhi pieni di lacrime.
“E’ proprio così!” disse lui, prima di andarsene.
Poco più tardi, un pulmino correva veloce per le vie deserte di Brasov, diretto al piccolo ambulatorio del dottor Piquet.
__________________________________________________________________________________
(1)La stanza esiste davvero: ma il conte Dracula vi pernottò
solo una notte, essendo in realtà, quel castello, di
proprietà reale; la vera sede del principe (non conte) Dracula
era il suo palazzo di Tirgoviste
(2)Antico pavimento di legno
(3)Anche questo è vero: gli invitati erano talmente tanti che
tutti gli altri ospiti dell’albergo fummo spediti a cenare nel
ristorante all’aperto, nel cortile; ma anche da là,
riuscivamo a vedere benissimo la festa, e quelli hanno fatto un gran
baccano, ed un banchetto che è durato circa cinque ore!
(4)In realtà, il castello è un poco più lontano: si trova in località Bran
Rieccomi
qua, sono tornata!!! Mi scuso profondamente per il ritardo, ma sto
passando un periodo un pò pesante; ad ogni modo, ecco qui il
nuovo capitolo; che ve ne pare?
Ninfea 306: come avrai
letto, questo capitolo è un tantino... truculento! Ma che ci
vuoi fare, il vampiro qualche danno doveva pur farlo! O no? :-)
Vitani: siamo arrivati
nel vivo della storia! Scusa se ti ho fatto attendere ;-) Dimmi se ti
piace: aspetto i tuoi commenti, dato che so che sei un'esperta del tema
"vampiri"
Un bacione anche a tutti coloro che stanno leggendo senza commentare
(però, sarei ben felice di sentire anche la vostra voce...)
|
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Capitolo 9 *** Finché spada non vi separi ***
FINCHE' SPADA NON VI SEPARI
FINCHE’ SPADA NON VI SEPARI
Jean inchiodò bruscamente davanti al portone chiuso
dell’ambulatorio; scese a precipizio, cercando le chiavi nella
tasca.
“Ecco fatto, entrate!” fece rivolto agli altri.
Tavernier non se lo fece ripetere, con Jeudi semisvenuta in braccio; un
passo dopo veniva Lundi, con il viso contratto ad una smorfia di dolore.
Non l’ho protetta, non ne sono
stato capace! Come, come ho potuto? Sono un mezzo uomo, lei non mi
perdonerà mai! E forse neanche Dio lo farà!
Patrice depose la ferita su di un lettino, accanto al quale si precipitò subito anche Lundi.
“E’ meglio far chiamare un prete” disse Patrice
“non sappiamo di quali malefici sia stato capace quel mostro!
Potrebbe averla posta sulla strada della non-morte, come lui!”,
“Professore… quel pope, stamattina… mi pare si chiamasse Rabanu…”,
“Rabonu” lo corresse Tavernier “e dobbiamo mandarlo a
chiamare, subito! Ma dov’è andato il dottore?”.
Piquet si era precipitato su per le scale, in cerca dell’aiuto della moglie.
“Helena!” gridava “Helena, svegliati, per favore! C’è bisogno di te!”.
La donna gli venne incontro, in vestaglia.
“Che hai da urlare tanto, caro?”.
Lui la prese per un polso ed immediatamente la condusse giù, nell’ambulatorio.
Entrarono nella squallida e fredda stanzetta, illuminata da anonime
luci al neon, dove tante vite erano state salvate. La donna si
avvicinò a Jeudi, che giaceva sul lettino.
Senza perder tempo, le prese delicatamente il collo tra le mani,
aggrottando le sopracciglia. “Mandate a chiamare gli altri”
ordinò.
“Dottore, è meglio chiamare anche padre Rabonu”,
Tavernier lo aveva trattenuto per un braccio; l’uomo annuì.
“Faccio in un attimo: torno subito con gli altri ed il prete”, ed uscì, dirigendosi al pulmino.
I quattro rimasero soli nella stanza.
“Professore, adesso deve dirmi ogni cosa: come è successo,
tutto! Per il bene della sua collega, non tralasci niente!”, fece
la dottoressa, continuando ad esaminare le ferite di Jeudi.
Patrice si mise a raccontare di come l’avevano trovata e di
quanto era successo; Lundi, la testa reclinata, piangeva come un
bambino, mormorando.
“E’ colpa mia… è solo colpa mia… non
ho saputo proteggerla… se Jeudi morirà, è solo
colpa mia, e di nessun altro!”,
“Basta ragazzo, calmati!” Tavernier cercò di
allontanarlo dalla branda “Nessuno poteva prevederlo, dato che
quella era una vostra conoscente: ci si tende a fidare dei
conoscenti!”,
“No, lei non capisce, professore: Matilda odia Jeudi! Io lo
sapevo! Avrei dovuto immaginare che non le avrebbe fatto nulla di
buono!”, Lundi aveva alzato la voce ed il viso, rigato dalle
lacrime,
“Ragazzo… potresti essere mio figlio, e come tale voglio
parlarti: anche se avessi ragione, questo atteggiamento non servirebbe
a nulla: non servirebbe a salvare Jeudi! Dunque, la sola cosa che
possiamo fare è stare qui, e cercare di essere d’aiuto
alla dottoressa; tutti gli altri atteggiamenti, compresi quelli
isterici, non farebbero che peggiorare la situazione!”.
Poi si volse verso la signora Piquet “Com’è la situazione, dottoressa?”,
“Molto confusa, al momento. Sto cercando di pulire il sangue per capirci qualcosa, poi potrò dirvi”.
Nello stesso momento, Jean, caricato il bravo sacerdote sul pulmino,
stava correndo a tutta velocità verso l’albergo.
Arrivati che furono, scese, dicendo “Mi aspetti qui, padre; io farò il prima possibile”.
Entrò nell’androne, trafelato; non c’era quasi
nessuno, ad eccezione di una coppia di amici mezzi ubriachi che
parlavano forte.
Attraversò la sala, e si diresse in sala televisione, dove, in
un angolo, trovò Leonhard ed Edith, seduti ad un tavolino che
parlavano; questa, non appena lo vide, scattò in piedi.
“Dottor Piquet! Cosa è successo? Perché è da solo? Dove sono gli altri?”,
“Dovete venire con me, subito. Dove sono i signori Wolfgang?”.
L’altra lo incalzò “Dov’è Patrice? Gli
è… accaduto qualcosa?” aveva gli occhi lucidi,
“No, lui sta bene, dottoressa. E’ la dottoressa Brendell
che non sta bene affatto”, aggiunse, guardando Leòn, che
era rimasto immobile in piedi, in un angolo; a questo punto, si
avvicinò.
“Cosa… cosa è successo a Jeudi?”.
Piquet abbassò lo sguardo “Il vampiro l’ha morsa, purtroppo!”,
“Cosa?!?”, Leòn l’aveva afferrato per la giacca “Come sta? E’ viva? Mi risponda!”,
“Sì, è viva” rispose l’altro,
liberandosi dalla presa “adesso è affidata alle cure di
mia moglie. E’ lei che mi ha detto di chiamarvi tutti. Dove sono
i signori Wolfgang?” chiese di nuovo.
Leòn si calmò un poco “Johann e Liesel sono andati
a dormire poco fa. Vado a chiamarli, forse sono ancora alzati!”,
“No, vado io!” fece Edith, e sparì su per le scale.
I due uomini rimasero soli.
“Come è successo?” Leonhard aveva i pugni stretti,
“Non lo so. Le abbiamo lasciate sole per pochi minuti, lei e
quella Matilda, ed è successo tutto in un attimo; io l’ho
sentita gridare, sono accorso, e l’abbiamo trovata a terra, nel
sangue”.
“Oh, mio Dio!” Leòn si era coperto il viso con una mano,
“Professore… se ci fosse stato lei con noi, non sarebbe
mai accaduto. Io le auguro… le auguro che la dottoressa ce
la faccia, e possiate essere felici, come meritate!”, Jean gli
pose una mano su di una spalla.
Leòn frenò un singhiozzo “Se ne è accorto anche lei?”,
“E’ impossibile non vederlo: due sguardi così
innamorati sono inconfondibili. Ma adesso dobbiamo andare, la signora
ha bisogno di lei”.
L’altro annuì.
Poco dopo, Edith scese giù con i Wolfgang, malamente rivestiti
in quanto già in pigiama; si avviarono tutti al pulmino.
In pochi minuti, furono di nuovo davanti al laboratorio dei Piquet.
Edith scese di corsa, e spinse la porta; vide immediatamente Patrice,
imbrattato del sangue di Jeudi, e si gettò nelle sue braccia.
“Amore! Stai bene?”.
Lui le diede un bacio sulla fronte “Io sì; la tua amica, invece…”.
Entrarono anche gli altri, il pope in testa, guidati da Jean-Jacques.
Subito, il bravo pope si avvicinò al lettino e pose una mano sulla fronte della ragazza.
“Fuori tutti!” intimò. Gli altri non se lo fecero ripetere.
Patrice e Johann trascinarono letteralmente un isterico Lundi, e lo fecero sedere su una delle panche della sala d’attesa.
Leòn aveva avuto appena il tempo di vedere la sua amata distesa
sul lettino, pallida come la morte e con tre grosse ferite sul collo:
gli occhi gli si erano riempiti di lacrime; si sedette anche lui,
mettendosi a pregare.
“Che le hai fatto, Helena?” stava chiedendo Jean alla moglie,
“Per l’intanto, le ho pulito le ferite, scongiurando
un’infezione; poi, ho cercato di arrestare l’emorragia,
cosa che è più difficile del previsto, a quanto
sembra!”,
“E’ chiaro!” intervenne Patrice “Il morso del
vampiro non è una semplice ferita: il mostro cerca di arrivare
all’anima per succhiarla via dal corpo, uccidendo la sua vittima;
di fronte al sovrannaturale, la medicina può fare poco”,
“Ma è venuto il prete, no?”, fece Edith, con un filo
di voce, un braccio intorno alle spalle di Lundi che lacrimava,
“Infatti: questo tipo di emorragie si ferma con l’acqua benedetta, a quanto ne so” rispose l’uomo.
Rimasero fuori per circa mezz’ora; per quasi tutto il tempo
udirono una sommessa litanìa, sicuramente recitata dal
sacerdote; poi, lo sentirono chiamare “Dottoressa Piquet!”.
La brava donna si alzò e lo raggiunse.
La porta dell’ambulatorio si richiuse.
Silenzio. Altri interminabili minuti.
Infine, la porta si riaprì.
“Potete entrare, ora” fece Helena.
Gli altri non se lo fecero ripetere, ed in un istante si accalcarono per entrare, Lundi sempre sorretto da Johann.
Trovarono Jeudi col collo fasciato, pallida come prima, ed ancora svenuta.
“State tranquilli, non è stata mutata in un vampiro”
disse loro il prete sorridendo “Il morso non era così
profondo, e poi le modalità in quel caso sono altre; mirava
piuttosto ad ucciderla, ma non vi è riuscito: la signorina
è fragile fisicamente, ma è molto ben assistita: ho
percepito la presenza di almeno due presenze angeliche, mentre ero qui
con lei”.
Lundi annuì col capo.
“Cosa le ha fatto, padre?” chiese Leonhard,
“Ho ridato alla sua anima la pace che il contatto con il vampiro le aveva portato via; e ho allontanato eventuali presenze di quel tipo che potrebbero ancora insidiarla; almeno per ora”,
“Che significa “almeno per ora”?” chiesero all’unisono Lundi e Leonhard,
“Vedete, signori, questo tipo di entità malvagia ha un modus operandi
molto caratteristico: prima punta la sua preda, e la aggredisce;
successivamente, se non l’ha uccisa subito, la insidia
finché non torna per finire la sua opera”.
Tutti trasalirono.
“Questo significa… che potrebbe anche tornare?” chiese Leòn,
“Sì, signore. E’ proprio così. Ragion per
cui, dovrete vegliare la signorina notte e giorno, senza lasciarla
neanche per un minuto”. Il prete fece una pausa “La sua
anima è salva, adesso. Della sua salute fisica, risponde la
dottoressa Piquet”.
Terminato il suo compito, il brav’uomo si andò a sedere accanto a Lundi, per consolarlo.
“Padre Rabonu mi ha aiutato anche a suturare le ferite con
l’acqua benedetta: come vedete, l’emorragia si è
arrestata. Ma adesso c’è bisogno di voi tutti; anzi, di
noi tutti”.
Tutti i presenti drizzarono le orecchie.
“La dottoressa ha perduto parecchio sangue. C’è bisogno di una trasfusione”.
Ognuno guardò in faccia il proprio vicino, interrogativo.
Lundi balzò subito in piedi “Glielo do io! E’ la mia donna, spetta a me!”,
“Si calmi, professor Cortot. Dobbiamo prima vedere chi di noi
è compatibile ad una trasfusione. La signorina è un B
negativo; chi di voi ha questo gruppo sanguigno?”.
Nessuno dei presenti seppe cosa rispondere.”Orbene, adesso faremo
così: coloro che si offrono volontari per donare il sangue alla
signorina vengano qui, ed io preleverò loro un po’ di
sangue per verificare il gruppo; poi, vi farò sapere”.
Inutile dirlo, si offrirono tutti, compreso il sacerdote; anche la
dottoressa e suo marito prelevarono un poco del loro sangue e lo
chiusero in delle provette.
“Accomodatevi pure fuori” disse Piquet indossando il camice
“non appena avremo i risultati, vi chiameremo!”.
Tutti si incamminarono verso la porta, ad eccezione di Leòn e
Lundi che si avvicinarono prima al lettino dove giaceva Jeudi.
“Amore mio…” Lundi la guardava, con gli occhi lucidi;
con gli stessi occhi lucidi la guardava Leòn, in silenzio.
“Leòn, amico mio” Lundi gli prese all’improvviso una mano “devi promettermi una cosa”,
“Dimmi” l’altro si voltò,
“Se a me dovesse accadere qualcosa… di grave, promettimi che veglierai su di lei. Per sempre”.
Leonhard era esterrefatto “Ma che vai dicendo, Lundi? Accaderti
qualcosa di grave? Perché mai? E poi cosa dovrebbe
accaderti?”,
“Promettimelo, Leòn!”.
Leòn vide che il tono dell’altro non ammetteva repliche.
“Va bene, Lundi. Te lo prometto”.
Raggiunsero gli altri in sala attesa.
“Non conosco il mio gruppo, ma di sicuro sono un Rh positivo”, stava dicendo Tavernier,
“E allora, perché ti sei offerto?”, gli chiese Liesel
“Dobbiamo tentare! Tutto per la nostra Jeudi!”,
“Lo stesso vale per me” intervenne Johann “soffro
dalla nascita di una sorta di anemia, quindi il mio sangue è
inservibile. La dottoressa se ne accorgerà subito, ma ho voluto
fare un tentativo”,
“Devo farlo io” sussurrava Lundi rivolto a Leòn,
sedutogli accanto, “almeno questo! Già una volta non sono
stato in grado di proteggerla! Che razza di uomo sono?”.
Il tempo passava lentamente; la tensione nel gruppo era palpabile;
Patrice Tavernier raccontava barzellette cercando di sdrammatizzare e
di alleviare l’angoscia della sua compagna, in pena per
l’amica.
“Giuro!!! Ieri sera nella nostra stanza ci abbiamo trovato un
millepiedi! Aveste sentito che puzza faceva!” , diceva Johann,
“Ma chissà perché poi i millepiedi devono puzzare tanto!”, aggiungeva Liesel;
a questo punto interveniva Patrice: “Ma è ovvio: non si lavano mai i piedi, e dato quanti ne hanno…”.
Ma la sua battuta, seppur spiritosa, non suscitò che qualche sorriso.
Finalmente, la porta si aprì.
“Dunque, ecco i risultati” fece Jean,
“Abbiamo esaminato il sangue di tutti”, continuò la
moglie “e solo due persone sono risultate compatibili con quello
di Jeudi”.
Lundi si rizzò a sedere.
“Una” riprese Helena Piquet “è la signora Wolfgang”,
“E l’altra?” chiese Lundi,
“E’ il signor Aschenbach”.
Lundi si accasciò contro lo schienale.
Non posso darle il mio sangue! Non posso fare niente per lei!
“Dunque, chi si offre?” chiese il dottore,
“Io!” fece prontamente Liesel.
Ma Leonhard non la lasciò avvicinarsi ai Piquet; si alzò, e, raggiungendola, la scostò leggermente.
“Faccio io, signori. La signora qui è molto magra e
potrebbe risentirne. E poi, mi sento responsabile” soggiunse,
guardando Jean.
Questo ricambiò il suo sguardo. “Va bene. Venga” disse.
I tre entrarono nell’ambulatorio.
Lundi era ancora seduto sulla panca, raggelato.
Il pope lo guardava, preoccupato “Tutto bene, figliolo?”.
Lui si limitava ad abbassare la testa, lentamente e meccanicamente.
Leonhard fu fatto accomodare su di un lettino, sistemato apposta per l’occasione da Jean.
“Si salga la manica, prego”, gli disse questo.
Helena Piquet aveva preso un grosso tubo collegato a due lunghi e
sottili aghi; ne inserì uno nel braccio di Jeudi e l’altro
in quello di Leonhard.
“Quanto dovremo restare così?” chiese lui,
“Fin quando lo riterremo necessario” rispose Jean.
Leòn guardò Jeudi: era di un pallore mortale, uno
spaventoso grigiastro talmente cupo da sembrare blu: la perdita di
sangue era evidente.
Ma lei non sentiva nulla. La sua coscienza era altrove, lontano.
Seduta in un infinito corridoio inondato di luce, di fronte a lei due figure fin troppo familiari.
“Papà, mamma… perché non posso venire da voi?”,
“Perché devi vivere, Jeudi. Verrai quando sarà il momento, ma ora no” faceva il padre,
“E poi,” aggiungeva la madre “di là
c’è qualcuno che ti aspetta con ansia, che aspetta il tuo
ritorno: non puoi deluderlo”,
“Lundi?” chiedeva lei,
“No, tesoro mio. L’uomo con cui dividerai la tua vita
è colui che sta mescolando il suo sangue al tuo”, la donna
sorrideva alla figlia,
“Svegliati, Jeudi!” faceva il padre “E guardalo!”.
Jeudi aprì gli occhi.
La prima cosa di cui si accorse fu un bruciore al braccio, e la
sensazione di freddo sulla pelle; si girò, e vide che aveva un
ago conficcato sotto la pelle.
Seguendo con lo sguardo il lungo tubo inondato dal liquido scarlatto
arrivò fino all’altro lettino. E vide Leonhard.
“Bentornata, amore!” le disse lui “Non sai quanto
sono stato in pensiero: siamo tutti in pensiero per te!”,
“Leòn…”,
Stà tranquilla, amore: sei fuori pericolo. Questa trasfusione
è necessaria per rifonderti il sangue che hai perduto”.
E tu, prontamente, mi hai dato il tuo, pensò Jeudi.
L’uomo le sorrise; lei ricambiò il sorriso.
E fu solo allora, che si rese conto.
Loro due erano più che amici. Più che amanti. Più che una coppia. Erano una cosa sola.
Ed ora che il sangue di lui iniziava a scorrere nelle proprie vene,
Jeudi percepiva chiaramente che non avrebbe più potuto fare a
meno di lui, in futuro. Mai più.
La loro unione stava venendo suggellata dal sangue, dal caldo, rosso liquido della vita.
Uniti dal sangue. Uniti per la vita.
Dopo un tempo interminabile, i dottori Piquet entrarono nella stanza;
Jean tolse l’ago dal braccio di Leòn, mentre Helena fece
lo stesso con Jeudi.
“Come si sente, Leòn? Le gira la testa? Posso darle delle
vitamine, se vuole”, Jean gli stava richiudendo il braccio,
“No, grazie, dottore. Non ce n’è bisogno”.
“Può alzarsi adesso, dottoressa” stava dicendo
Helena Piquet a Jeudi “ma badi bene di non fare troppi sforzi: il
suo corpo è ancora molto provato”,
“Grazie, dottoressa Piquet. Le devo la vita” rispose Jeudi.
“Possiamo entrare?” Patrice Tavernier si affacciò sull’uscio.
“Certo!” rispose Jean-Jacques.
Leòn si alzò, e poi aiutò Jeudi a fare altrettanto.
Lundi li raggiunse “Jeudi, amore… come ti senti?”,
“Meglio, Lundi, stai tranquillo! I dottori Piquet si sono presi cura di me in modo impeccabile!”.
Padre Rabonu le si fece vicino.
“Figliola… devi stare attenta, da ora innanzi. Il mostro
ti ha puntato come sua preda, e finché non sarà stato
annientato, tu correrai pericolo; per questa ragione, non dovrai mai
allontanarti dai tuoi compagni: loro sapranno proteggerti. E in quanto
a voi” si girò verso gli altri “dovete stanare il
mostro, ad ogni costo, ed ucciderlo. Solo così la vostra amica
sarà per sempre fuori pericolo”.
Rientrarono in albergo, Jeudi sorretta da Lundi e Leonhard. Erano le
quattro del mattino, e per le strade iniziava a sorgere un’alba
grigio-violacea, che faceva impallidire i lampioni accesi e conferiva
alle strade un aspetto ancor più desolato.
Il custode notturno fu meravigliato nel vedersi arrivare quella strana
combriccola a quell’ora così tarda (o così presto,
fate voi).
Salirono ognuno nelle loro camere, facendo bene attenzione a non
lasciare mai indietro Jeudi, la vittima segnata dal vampiro. In
particolare, Leòn e Lundi si alternarono sempre nel proteggerla.
In camera, messa a letto Jeudi, Lundi rifletteva.
Non ho saputo proteggerla. Non ho potuto donarle il mio sangue. Cosa ho fatto per lei? Nulla! Nulla! E’ lui che ha fatto ogni cosa, al mio posto. E’ lui il primo volto che ha visto al risveglio. E lei lo ama.
Devo rinunciare a lei, dunque? Se
l’amo veramente devo lasciarla andare con la sua
libertà, con lui? Sarebbe giusto, sì. Ma non posso. Non
ci riesco. Perché io l’amo.
Come si può rinunciare per sempre a chi si ama, proprio perché la si ama?
Si sedette sul letto accanto a lei, accarezzandole i capelli.
La osservò dormire, tranquilla. Poi, udì bussare sommessamente alla porta.
Era Leòn.
“Vengo a darti il cambio, così potrai riposare un po’ anche tu: sarai stanco”.
Lundi gli sorrise “Non quanto te, però: tu le hai dato il sangue”.
Leonhard accavallò le gambe “Lundi, ascolta…”,
“No, non dire nulla. Ho già capito. E’ giusto
così. Sei tu l’uomo adatto a lei, non io. Ed io voglio che
sia felice. Che siate felici”.
Leonhard chiuse gli occhi “Grazie, Lundi. Di cuore”.
Fece un sospiro.
“Che farai, ora?”,
“Una volta che saremo tornati a Ginevra, me ne andrò di
casa. Voglio trascorrere questi ultimi giorni con lei; voglio che serbi
un buon ricordo di me”,
“Di questo, non devi dubitare”,
“Sì, invece. In fin dei conti, cosa ho fatto per lei? Ero
là, e non ho mosso un dito! Se ci fossi stato tu…”,
“Ah, piantala, Lundi! Chi poteva immaginare quali fossero le
intenzioni di Matilda? Anche io non avrei potuto far nulla!”,
“Ma tu le hai dato il tuo sangue! Io, nemmeno questo!”.
Lundi gli si avvicinò “Ricordati quello che mi hai promesso: le starai sempre accanto!”.
Leòn annuì “Stanne certo, amico!”.
La mattina successiva, o meglio qualche ora dopo, Leòn
svegliò Lundi e poi andò via, prima che si svegliasse
Jeudi e lo vedesse lì.
Per tutto il giorno, Jeudi fu sempre circondata dai suoi amici e
compagni: Lundi le sedeva sempre accanto, Leòn
l’accompagnava a far due passi in cortile quando aveva voglia di
prendere aria, sorreggendola dato che lei era ancora molto debole,
Patrice ed Edith le portavano spesso da bere, perché, diceva
lui, “doveva rifarsi il sangue”, i Wolfgang le avevano
portate delle riviste di parole crociate per distrarla; intorno a
mezzogiorno venne anche il dottor Piquet a controllare il suo stato di
salute, assieme a padre Rabonu: entrambi furono lieti nel constatare
che la ragazza si era ripresa bene.
Fu solo intorno alle cinque, quando iniziava ad imbrunire, che si
verificò un episodio allarmante: Jeudi era seduta nel cortile,
mentre Leòn era andato a prenderle un altro cordiale, e gli
altri erano momentaneamente assenti; da dietro la vetrata dove si
trovava, Patrice Tavernier poteva vedere Jeudi seduta in cortile,
mentre lui discuteva con padre Rabonu e Piquet sul da farsi per
acciuffare il vampiro; si guardarono e si sorrisero, da vecchi amici.
Fuori era quasi buio, non fosse stato per i lampioni del cortile; ad un
tratto, Jeudi sentì di nuovo quegli occhi tanto sinistri e
familiari su di sé: alzò la testa e vide un grosso
pipistrello che stava picchiando su di lei.
Spaventata, si alzò immediatamente; Patrice la vide e corse
fuori, seguito dal prete; Jeudi scappò via, verso la porta
aperta della vetrata, coprendosi la testa, e finendo nelle braccia di
Tavernier; il pipistrello la mancò per poco.
I nostri tre eroi entrarono nel salone dell’albergo; Jeudi
tremava, e Leòn le si fece incontro, con un bicchiere in mano.
“Jeudi! Che è successo?”, chiese
“Il vampiro l’aveva puntata di nuovo” fu Patrice a rispondere.
Leòn impallidì.
“Dobbiamo risolvere questa faccenda una volta per tutte”
aggiunse ancora Tavernier a bassa voce “dopo tutto, siamo qua per
questo!”.
Un paio di ore dopo, tutto il gruppo era seduto nella sala riunioni
dell’albergo, ed aveva elaborato un piano d’attacco. Era
necessario tornare al castello.
Della “spedizione punitiva” avrebbero fatto parte Patrice,
Edith (che dopo quanto era successo non lo avrebbe più lasciato
da solo), Jeudi (che in quanto vittima del vampiro avrebbe fatto da
esca), Lundi e Leonhard (che l’avrebbero accompagnata e seguita
ovunque); Liesel e Johann Wolfgang preferirono rimanere: lei era ancora
terrorizzata, e lui, da bravo marito, preferì farle compagnia.
“Dobbiamo distruggerlo, non possiamo fallire!”, diceva ad
alta voce Patrice Tavernier “Il piano è chiaro: bisogna
accerchiarli, uno ad uno, per non concedere loro via di fuga alcuna:
solo così riusciremo ad aver ragione di loro. Avete tutti una
croce?”,
“Sì!” risposero gli altri in coro,
“Mi unirò anch’io al gruppo, se permettete” aggiunse padre Rabonu,
“Sarà il benvenuto, padre” gli ripose Patrice
“il suo aiuto è la cosa migliore che potevamo
sperare”,
“Ma i vampiri sono due!” disse Leòn “Come
faremo ad accerchiarli tutti e due contemporaneamente?”,
“Non lo faremo, infatti” fu la risposta di Patrice “come ho detto, dovremo prenderli uno alla volta”,
“O dividerci in due squadre” concluse Jeudi “quanti siamo?”;
Patrice si portò una mano al mento, con espressione meditabonda
“Dunque… io, tu, Lundi, Leonhard, Edith, padre
Rabonu… sei in tutto!”,
“Due squadre da tre?”,
“E’ possibile. Ma dovremo rimanere compatti; e poi,
cerchiamo di non guardare mai il vampiro negli occhi: il suo sguardo
è ipnotico”,
“Come le dividiamo, le squadre?” chiese Leonhard,
“Nella prima andiamo io, Edith e padre Rabonu: staneremo Troncan;
nella seconda, invece, tu, Jeudi e Lundi, che vi occuperete del
calzolaio”.
E di Matilda, pensò Lundi.
“O.K.! Partiamo!”.
Jean li stava già aspettando vicino al pulmino; Tavernier gli si avvicinò.
“Sarà dei nostri, dottore?”,
“No, grazie. Preferisco aspettarvi sul pulmino”.
Poco dopo, un pulmino rischiarava coi suoi fari accesi il buio della strada verso il castello.
Jeudi era ancora un po’ debole, ma molto battagliera e
determinata a non cedere; Lundi era ansioso di dimostrarle, forse per
l’ultima volta, il suo amore.
Quando giunsero, il cortile del castello sembrava deserto.
“Sembra che non ci sia nessuno” fece Jean,
“Non lasciamoci ingannare” gli rispose Patrice “con
tutta probabilità, adesso, ci stanno osservando da dietro le
finestre del castello!”.
Jeudi alzò lo sguardo: anche le finestre apparivano buie, come occhi chiusi.
E la solita sensazione di occhi invisibili si impadronì di lei.
Tavernier si avvicinò al portone “E’aperto! Che strano!”,
“E’ un segno che ci stanno aspettando” aggiunse il pope,
“Allora andiamo a cercarli, e vediamo chi ha la testa più
dura!” Patrice spinse del tutto la porta ed entrò seguito
dagli altri.
“Dunque, dividiamoci in squadre: noi tre nello studio di
Troncan” disse Tavernier “e voi, invece…”,
“… Nella libreria dove mi avete trovata!” Jeudi concluse per lui.
Sentiva che era là che si sarebbe concluso tutto. Tutto.
“Buona fortuna!” disse Leòn,
“Che il Cielo vi assista!” gli rispose Patrice.
Jeudi e gli altri due salirono le scale in silenzio, un silenzio gonfio di minacce non dette, ma non per questo meno spaventose.
Arrivati in cima, videro una luce a mezz’aria, che si rivelò essere una candela.
Jeudi strinse le palpebre in un gesto di stizza: aveva visto chi reggeva la candela.
Siamo alla resa dei conti, megera!
Dal fondo del corridoio, Matilda li aspettava sogghignando.
“Per di là!” gridò Jeudi, guidando il gruppo;
Leòn le si avvicinò “Non da sola! Ricorda cosa ha
detto il prete!” e le prese un braccio.
Lundi li seguiva immediatamente dietro.
In fondo al corridoio si stupirono di trovare la luce accesa.
“Dunque, Jan non ha saputo finirti!” Matilda era appoggiata ad un tavolo di legno scuro, con le braccia conserte.
“Ci speravi, vero?” le chiese Jeudi, protetta dal braccio di Leòn.
L’altra rise “Lundi, sei davvero uno sciocco! Preferisci a
me questa sgualdrinella che ti tradisce con quel capellone!
Cos’hai sugli occhi, il prosciutto?”.
Lundi non rispose; si limitò a guardarla, con occhi carichi d’odio misto a compassione.
“Ad ogni modo” proseguì “c’è sempre una seconda occasione: ed a questa occasione non falliremo!”.
Mentre lo diceva, il suo sguardo, da sarcastico che era, si era mutato
in minaccioso e tagliente; sentirono uno sbatter d’ali che si
avvicinava.
Jeudi alzò la testa, riconoscendo il pipistrello; ma stavolta non ebbe paura: solo tanta rabbia.
Si allontanò dal braccio di Leòn, alzando la croce in
aria “Adesso morirai, mostro! Vedremo chi è la
vittima!”.
Rimase sola al centro della stanza, in attesa, mentre il pipistrello le si avvicinava.
Toccò terra e si materializzò nella sua forma umana.
Leòn si avvicinò al mostro da dietro.
Quello se ne accorse, e si girò, la bocca aperta grondante saliva.
“No, bastardo!” gridò Jeudi “Lascialo stare! Sono io la tua preda!”.
Gli passò vicinissima, distogliendo l’attenzione del vampiro da Leòn.
Tu mi hai salvato la vita: ora tocca a me salvare la tua!
Il mostro si girò verso di lei, ed in un balzo le fu addosso,
mentre Matilda tratteneva Lundi dall’intervenire, e Leonhard era
talmente esterrefatto da non essersi neanche reso conto di quanto
stesse accadendo.
La donna ed il vampiro stavano lottando ferocemente: lui la
fronteggiava, cercando di strapparle la croce che teneva in mano e di
sfondare le sue difese, ma Jeudi era molto agile, e schivava i suoi
assalti.
L’uomo dagli occhi morti sbavava saliva dalle labbra inesistenti;
i suoi occhi spenti fissavano Jeudi con malefica intensità.
Papà! Mamma! Nonni! Aiutatemi! Dio, aiutami!
Con un grido altissimo, la ragazza si lanciò sul vampiro,
riuscendo a schivare i suoi denti per pochi centimetri dal proprio
braccio, ed a toccarlo con il piede della croce sulla testa.
Immediatamente, il non-morto prese fuoco.
Iniziò a contorcersi a terra, tra orrende grida.
Jeudi, posata la croce nelle mani di Leonhard, afferrò quello
che sembrava un lungo pezzo di legno abbandonato ed appuntito, forse la
gamba di una vecchia sedia, e si avvicinò al corpo in fiamme.
“Ed ora, muori davvero, mostro!”, così dicendo fece
un balzo in avanti e gli conficcò la punta del lungo pezzo di
legno nel cuore, schivando le lingue delle fiamme che si andavano
consumando; uno spruzzo di sangue uscì, altissimo e scuro, dalla
ferita: il sangue di tutte le vittime che il calzolaio aveva
vampirizzato per anni.
In breve, del vampiro non rimase che una traccia scura e bruciacchiata sul pavimento.
Jeudi si girò verso Leonhard e Lundi; gli occhi le brillavano.
Matilda tremava dalla rabbia, stringendo i pugni. Con uno scatto felino
si staccò da Lundi, andando ad afferrare un’antica spada
appesa al muro.
Si avventò su Jeudi “Sgualdrina! Lo farò io, al posto di Jan!”.
La punta dell’arma si avvicinava minacciosamente al petto della ragazza.
Ma non riuscì a colpirlo.
Perché qualcosa la fermò.
Il corpo di Lundi.
In un lampo, l’uomo si era frapposto fra la lama e la sua amata, ricevendo in pieno petto il colpo destinato a lei.
Cadde in ginocchio sul pavimento, che si andava riempiendo di sangue.
Matilda era rimasta paralizzata, la spada ancora in mano. Aveva colpito l’uomo che amava!
“Lundi!” Jeudi e Leonhard si gettarono su di lui, che si stava accasciando a terra.
“Amore… l’ho fatto… alla fine ce l’ho
fatta…ti ho protetto… ho fatto il mio dovere… come
avrei voluto da tanto… ti amo… Jeudi… ora lo
sai…”,
“Non parlare, Lundi” Jeudi piangeva “Vado subito a
chiamare Patrice… ti porteremo dalla dottoressa
Piquet…”,
“No, Jeudi, è finita” ad ogni parola, il poveretto
sboccava sangue; si rivolse a Leonhard “Ricordati quello che mi
hai promesso, amico mio: occupati di lei!”,
“Non parlare, Lundi; non affaticarti!” Leòn piangeva,
“Ricordatelo!” furono le ultime parole di Lundi, prima che reclinasse la testa per sempre.
Jeudi scoppiò in un pianto dirotto.
Leòn le fece una carezza, e si alzò: sapeva bene che
quello non era il momento ideale per abbracciarla: doveva lasciarla da
sola.
Si avvicinò invece a Matilda, che era rimasta priva di forze e di volontà sul pavimento.
“Andiamo, signorina Troncan. Questo giochetto le costerà
un bel po’ di anni di galera!”, le disse, facendola
rialzare.
Jeudi era ancora a terra, lacrimante, riversa sul corpo senza vita di Lundi.
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Capitolo 10 *** L'alba di un nuovo giorno ***
L'ALBA DI UN NUOVO GIORNO
L’ALBA DI UN NUOVO GIORNO
Tavernier ed Edith si erano immediatamente lanciati su per le scale,
seguiti dal pope; con una croce in mano, Patrice era più che mai
determinato a farla finita con quel mostro in sembianze umane.
Teneva la mano della fidanzata con la propria mano libera; e dentro di
sé, giurava a sé stesso che mai e poi mai avrebbe
permesso che il mostro facesse a lei quello che aveva fatto a Jeudi.
In cima alle scale, regnavano il buio ed il silenzio più
assoluti; i corridoi che si dipartivano da lì erano deserti,
chiuse le porte; ma loro sentivano che presenze misteriose li stavano osservando, nascoste nel buio.
Imboccarono il corridoio di sinistra, che come ricordavano portava allo
studio di Troncan; superata una fila di porte chiuse, qualcosa
attirò la loro attenzione: quella che sembrava la coda di uno
strascico di un lungo abito da donna d’altri tempi, che
s’infilava velocemente dentro una porta aperta, sparendo.
“E’ là!”, gridò Patrice agli altri, e
si diressero verso la stanza buia dove era entrata la strana visione.
Appena entrati, dapprincipio, non riuscirono a vedere nulla: il buio
era troppo fitto; col tempo, però, i loro occhi si abituarono
all’oscurità; e fu allora che riuscirono a scorgere un
mucchio di vecchi mobili, disseminati qua e là, e coperti da
pesanti lenzuoli ingialliti dal tempo.
Senza perder tempo, Patrice si avvicinò ad uno di essi, la
croce stretta nella mano destra, e con l’altra mano
sollevò il lenzuolo; ma tutto ciò che trovò fu un
tavolo vecchio e tarlato.
Allora, anche gli altri due iniziarono a fare lo stesso con gli altri mobili, ottenendo i medesimi risultati.
“Qui non c’è niente, accidenti!” gridava Patrice, esasperato,
“Ma dove può essere andata quella… cosa?” si domandava Edith,
“I vampiri tendono tranelli mortali: dobbiamo stare attenti, molto attenti!” diceva padre Rabonu.
All’angolo opposto della stanza rispetto a dove si trovava
Patrice, iniziò a comparire una debole luminosità
rossastra, che si faceva sempre più vivida; al suo interno, una
indistinta sagoma dai contorni umani si andava facendo nitida.
Apparve una donna, i lineamenti contratti per il dolore, grosse lacrime
che scendevano lungo le guance, i capelli raccolti in una bassa coda.
La donna si rivolse a Tavernier “Perché, perché, Patrice? Guarda cosa mi hai fatto!”,
“Martha!!”, lui fece un passo indietro.
Il sacerdote gli afferrò una mano “E’
un’illusione ottica creata dal vampiro! Non la guardi a lungo, o
ne rimarrà ipnotizzato, e cadrà in suo potere!”.
Il biondo professore distolse immediatamente lo sguardo.
L’immagine scomparve; una risata sinistra riecheggiò, alta e forte, per le altissime volte della stanza.
“Ma cosa credete di fare, vermi? Siete solo dei vermi! Io sono un grande signore!!!”.
Patrice si tese in avanti, la croce stretta in pugno “Dove sei, mostro? Fatti vedere, vigliacco!”.
A sentir quelle parole, il vampiro si materializzò;
contemporaneamente, tutto intorno nella stanza si accesero numerose
fiammelle, in fila, grigiastre e smorte, che tuttavia spandevano luce,
una luce sinistra come il loro colore.
Troncan e Tavernier si trovarono faccia a faccia.
“Sapevo che sareste venuti!” sibilò il primo; Tavernier non rispose.
“E adesso vorreste uccidermi! Non è così?”,
“E’ così!!” tuonò Patrice.
“Voglio proprio vedere come ci riuscirete!”, disse Troncan,
trasformandosi all’istante in un pipistrello; prese a svolazzare
sopra di loro, descrivendo ampi cerchi.
Patrice cercava di toccarlo con la croce, sollevandosi sulle punte dei
piedi, ma era inutile: il mostro era sempre più furbo e veloce
di lui.
Poi, atterrò, seduto sulla sua scrivania.
“Allora, omuncolo? Eri così sicuro di avermi preso?” rise.
Patrice non ci vide più dalla rabbia: si slanciò verso di lui, gridando.
“Ora vedremo!!!”.
Ma il suo balzo in avanti finì nel vuoto, dato che il vampiro scomparve, per riapparire poco più in là.
Vide gli altri due, e tentò di avvicinarsi ad Edith, ma padre
Rabonu gli mostrò la croce, e quello indietreggiò,
sibilando.
Tornò a volgersi verso Patrice.
“Forza, omuncolo! Vediamo cosa sai fare!!”, si lanciò su di lui.
Il professore ed il vampiro iniziarono una lotta corpo a corpo: Troncan
cercava di mordere il professore, Patrice cercava di schivare i denti
del suo avversario e di colpirlo invece con la croce.
Durò solo pochi minuti, ma ad Edith parvero lunghi secoli.
“Amore…” mormorava, tremante.
Patrice sentiva ad ogni istante di star per perdere la lucidità:
i movimenti del vampiro erano velocissimi, somigliavano a quelli di un
pipistrello in volo, ed inoltre doveva stare ben attento ad evitare il
suo sguardo ipnotico.
Per un istante, i canini aguzzi del mostro sfiorarono il suo viso; poi,
Troncan lo afferrò per un polso.”E’ finita,
omuncolo!” gridò.
A quel punto, Edith non si trattenne più: sfuggì via
dalle mani del sacerdote che cercava di tenerla ferma e distante dal
vampiro, e gli si buttò quasi addosso, gridandogli:
“Prendi me! Lascialo! Prendi me!”.
Troncan si distrasse un attimo; quell’attimo che fu sufficiente a
Tavernier per rimettersi in equilibrio e ruotare il braccio con la mano
che reggeva la croce; in meno di un secondo, prima che il vampiro
potesse accorgersene, aveva alzato la mano e l’aveva toccato con
il piede della croce sulla pelle viscida del suo orecchio.
Subito, quello prese a bruciare.
Lasciò andare Patrice, e si tirò all’indietro, girando su sé stesso; emetteva urla orribili.
“Ahhh…. O… mun… co… li… mi avete sconfitto! Come avete potuto!?!”,
“Non puoi nulla contro il Bene Supremo, né contro la
ragione umana e l’amore! Torna nel regno ancestrale da cui sei
venuto!” Patrice ancora tremava.
Si piegò sulle ginocchia, stringendo a sé Edith che era scoppiata a piangere.
Il vampiro bruciò del tutto, come il suo simile; ancora tenendo
alta la croce, Patrice aveva reclinato la testa, sfinito, con Edith
appesa al suo collo; il buon sacerdote si avvicinò e gliela
sfilò delicatamente tra le dita.
“Nulla può fermare o distruggere l’amore” disse sommessamente, impartendo una benedizione ai due.
Pochi minuti dopo, tutti e tre erano usciti in corridoio. Sfiniti, ma in pace. Soddisfatti.
Edith era a dir poco stravolta; più di una volta si appoggiò al muro, sempre sostenuta da Patrice.
“Amore… sei stanca… forse è meglio se ti
siedi e ci aspetti qui… tanto, non c’è più
pericolo, ormai… questo è solo un vecchio castello vuoto.
Hai avuto troppe emozioni”,
“No” rispose lei “non ce n’è bisogno,
stà tranquillo” lo accarezzò sulla fronte. Lui si
accorse che la mano di lei tremava; gliela prese a mezz’aria.
“Edith! Ma che hai? Sembra che tu abbia i brividi della febbre!”,
“Oh no, amore! Non è febbre! E’ paura: prima, quando
quel mostro ti stava puntando, quando ho rischiato di perderti,
io… avrei voluto morire, avrei fatto qualunque cosa per
salvarti! Perché non posso fare a meno di te: io ti amo,
Patrice! Ti amo davvero! E non voglio mai più correre il rischio
di perderti. La vita è così fragile… potrebbe
accadere qualunque cosa… non possiamo essere sicuri del
futuro…”.
Durante tutto il tempo, padre Rabonu se ne era rimasto discosto dalla
coppia, leggendo un breviario, mentre ogni tanto si voltava verso
l’angolo del corridoio e vedeva i due che confabulavano; ad un
tratto, vide che si stavano guardando negli occhi, sorridendo; poi,
subito dopo, Patrice si staccò ed andò verso di lui.
“Abbiamo un favore da chiederle, padre. Se a lei non dispiace, naturalmente”,
“Certo!” l’uomo chiuse il breviario “Dite pure”,
“Ecco… sarebbe libero domani pomeriggio?”.
Dieci minuti dopo all’incirca, tutti e tre si trovavano in cima
alle scale, dove si erano lasciati con l’altra squadra; ridevano,
stanchi ma felici.
Attendevano l’arrivo dell’altra squadra, come convenuto,
alla fine della sua missione; non avevano ricevuto richieste di aiuto,
quindi era chiaro che anche dall’altra parte era andato tutto
bene; da un momento all’altro, quindi, si aspettavano di vederli
ritornare.
Ed infatti li videro; ma non tutto era come prima.
Videro, infatti, Leonhard e Jeudi, in lacrime, reggere il corpo
inanimato di Lundi, lui per le gambe e lei per la testa; accanto a
Leonhard, camminava una spiritata Matilda dagli occhi vitrei e vuoti,
ormai priva chiaramente di qualsiasi volontà.
La squadra di Tavernier vide e capì subito.
“Temo che domani l’attenda un doppio lavoro, padre” mormorò Patrice, con gli occhi bassi.
Il prete annuì.
Alcune ore dopo, in albergo, tutti erano rientrati.
Jeudi sedeva su di un divano, in lacrime; accanto a lei, angeli consolatori, Leòn, Edith e Liesel.
Johann parlava sommessamente con Patrice e Jean-Jacques.
“… Non posso crederci… eravamo appena diventati amici… povero Lundi!”,
“Padre Rabonu celebrerà i funerali domani mattina stesso” rispondeva Patrice,
“Chi sta peggio, adesso, è Jeudi” aggiunse Jean.
E quest’ultima, infatti, era preda del rimorso più atroce.
L’ho ucciso… l’ho
ucciso io! Lundi… amico, fratello… per tanto tempo anche
compagno… cosa ho fatto? Come ho potuto?
L’ho ucciso allontanandomi da
lui, sbattendogli in faccia i suoi errori nei miei confronti…
anche se era la verità, non avrei mai dovuto! In questo modo,
l’ho spinto ad esporsi per riconquistare la mia fiducia, il mio
affetto: e l’ho ucciso! UCCISO!
Lundi! Lundi! Cosa ho fatto?!?
Dovevo rimanere con lui, dovevo mentirgli! Forse, adesso, sarebbe ancora vivo!
“Jeudi…”, una voce la fece voltare. Era Leonhard, che si era seduto accanto a lei.
Le prese le mani tremanti; lei abbassò lo sguardo.
“Oh, Leonhard… cosa abbiamo fatto… l’ho ucciso, lo abbiamo ucciso!”, e scoppiò di nuovo in lacrime.
Lui le accarezzò i capelli “No, Jeudi. Non è come credi”,
“Ah, no? E com’è, allora?”.
Leòn si sistemò meglio accanto a lei e la cinse con un braccio intorno alle spalle.
“Vedi, Jeudi… avevo promesso a Lundi di non dirti niente,
ma a questo punto è giusto che tu lo sappia”,
“Sapere cosa?” la ragazza tirò su con il naso,
“Lundi… aveva già deciso di lasciarti, amore. Di
lasciarti libera, dimodoché tu potessi scegliere chi amavi
davvero”,
“Che???”, spalancò gli occhi; Leòn annuì con la testa.
“Proprio così. Lui aveva oramai capito di essere solo un
caro amico per te, e proprio perché ti amava non voleva forzarti
a fingere a te stessa un sentimento che non esisteva più: se ne
sarebbe andato via da casa una volta rientrati a Ginevra: me lo
rivelò la notte dopo la tua aggressione, quando eravamo
rientrati in albergo. Aveva fatto questa scelta liberamente, e col
cuore, quindi non avrebbe mai cercato di riaverti con un gesto estremo
o, peggio, di vendicarsi per il tuo abbandono lasciandoti un rimorso a
vita”.
La donna spalancò gli occhi.
“Quello che ha fatto, lo ha fatto solo perché lo sentiva:
è stato il suo ultimo atto d’amore, ed è stato
istintivo, per lui. Se lo volevi bene, devi apprezzarlo e ringraziarlo
per quello che ha fatto e per tutto quello che ha saputo darti in
questi anni; e devi salutarlo serenamente, domani, ai funerali”.
Jeudi aveva ascoltato tutto con grande attenzione, sentendo il suo
cuore aprirsi di più ad ogni parola del suo amato; senza
rendersene conto, le sue labbra si erano allargate in un bellissimo
sorriso, un sorriso che sembrava ancora più bello perché
illuminava un viso ancora rigato di lacrime.
Sapeva bene che Leòn non sapeva mentire, e che non era capace di azioni meschine.
Lo abbracciò.
“Grazie, grazie, amore mio!”.
Leòn la strinse, socchiudendo i suoi grandi occhi viola.
Il mattino successivo, in una piccola chiesa di Brasov, padre Rabonu celebrò i funerali di Lundi.
Anche se con gli occhi ancora pieni di lacrime, Jeudi salutò per
sempre il suo ex-compagno, col cuore finalmente in pace. Leòn,
seduto accanto a lei, le teneva la mano.
“Che intende fare, adesso, signora? Vuole seppellirlo qui?”
le chiese padre Rabonu alla fine della cerimonia; lei scosse il capo.
“No, padre. Desidero che il mio caro Lundi venga seppellito nella
nostra città: tornerà con noi a Ginevra”,
“E’ la decisione migliore, Jeudi” le disse Tavernier. Liesel e Johann le sorridevano amichevolmente.
Dopo aver sistemato temporaneamente la bara nella cripta, in attesa
della partenza, uscirono dalla chiesa, alla volta dell’albergo.
Edith si avvicinò a Jeudi, mentre Patrice era dietro di lei.
“Jeudi…” le prese una mano,
“Cosa c’è, Edith?”,
“Ecco… io… noi vorremmo chiederti un favore”,
“Quale favore?”;
i due si guardarono “Vedi, Jeudi… io e Patrice abbiamo deciso… di sposarci!”.
Quella restò basita “Quando?” le domandò,
“Oggi pomeriggio, qui stesso: sarà padre Rabonu ad
officiare la cerimonia. E… so bene che non è il momento
adatto, ma… vorremmo che tu ci facessi da testimone! Vuoi? Ne
saremmo molto lieti!”.
Jeudi era rimasta di sasso; si volse a guardare Patrice che mostrava un imbarazzato sorriso.
“Così… vi siete decisi, alla fin fine! Certo che
sì, accetto!” rispose, abbracciando l’amica,
“Grazie, grazie Jeudi!”.
E quel pomeriggio, indossando un semplice completo già indossato
la sera del veglione folcloristico nel “Castelul Dracula”,
Edith sposò il suo amato Patrice, in smoking bianco, lo stesso indossato per quella fatale cena nel castello del vampiro.
A Jeudi brillavano gli occhi quasi più della sposa, mentre
osservava la sua amica di sempre sorridere raggiante, tenendo per mano
il suo uomo, finalmente felice, dopo anni di delusioni.
Patrice aveva chiesto a Leòn di essere il suo testimone, cosa
che lui aveva accettato volentieri, ed ora anche lui guardava
l’amico ex-capogruppo tremare impercettibilmente per
l’emozione di quel momento.
I due si guardarono negli occhi da lontano, sorridendo.
Alla fine della cerimonia, Edith diede il suo mazzolino di azalee e fresie a Jeudi.
Patrice invece, ringraziato il buon sacerdote per tutto il suo aiuto in
quei giorni difficili, non appena usciti dalla chiesa invitò
tutti a casa sua.
“A Ginevra vi voglio come miei ospiti al banchetto del
matrimonio, che si terrà lì: ci sarà una bella
grigliata di cacciagione. Naturalmente, l’invito è rivolto
anche a lei, padre!”,
“Oh no, la ringrazio ma non posso accettare davvero! Non posso
lasciare la mia parrocchia! E poi” sorrise “ così
eviterò di commettere un peccato di gola! Sapete, devo essere
morigerato!”.
Tutti scoppiarono a ridere, più per il sollievo di essere usciti
vivi da quell’avventura che per la battuta di spirito del pope.
Anche Jeudi sorrise; ma subito dopo, rivolse un’occhiata amara
alla scala che conduceva alla cripta, dove giaceva ancora il corpo di
Lundi.
“Un ultimo consiglio, signori” aggiunse il sacerdote
“temo che il rito di fede Russo-ortodossa dalle vostre parti non
valga, soprattutto legalmente; quindi, vi consiglio di informarvi, per
evitare sorprese”,
“Naturalmente, padre. Ho un’amica che lavora all’anagrafe, non si preoccupi” fece Edith.
Il pope sorrise; poi si avvicinò a Jeudi.
“Sento profondamente il tuo dolore, figliola. Ma ricordati che
non sei mai sola: i tuoi amici ci saranno sempre, e loro hanno
dimostrato di amarti davvero, dato che ti hanno salvata la vita; e poi,
mi sembra di capire che Dio ti abbia voluto mettere accanto qualcuno di speciale, per sostenerti nel tuo dolore: qualcuno che ti vuole bene”.
Circondata da una luminosità azzurrognola, la madre di Jeudi si materializzò accanto alla figlia.
“E’ proprio così” le disse, indicando Leòn.
Dopo un’ultima benedizione, li congedò.
Patrice diede una vigorosa stretta di mano a Jean-Jacques.
“Grazie di tutto, dottore. E faccia i nostri complimenti a sua moglie, è davvero un bravo medico!”,
“Non mancherò, professore. Buon ritorno a casa!”.
Il giorno successivo, poco prima dell’alba, dopo molte ore di
volo, erano atterrati a Ginevra, dove c’era il dottor Gizan ad
attenderli.
Scesero e si ritrovarono nella sala arrivi.
Il dottore si fece loro incontro, e strinse le mani di Patrice ed Edith “Ho saputo: congratulazioni!”.
Johann e Liesel gli si fecero vicino. Jeudi, invece, si avvicinò
alla vetrata, per osservare la bara di Lundi che veniva scaricata
dall’aereo.
Le scappò una lacrima; ma immediatamente, sentì una mano sulla propria spalla.
“Leòn…” disse,
“Sono qui, Jeudi. Ci sarò sempre”.
Lei si asciugò la lacrima, e guardò di nuovo verso la bara.
Addio, fratello dell’anima!
La voce di Leonhard la riportò alla realtà.
“Guarda!” le disse “Sta sorgendo l’alba!”,
“Sì” gli ripose “è l’alba di un nuovo giorno!”.
E con questo capitolo, la fic è conclusa! Spero vivamente che vi sia piaciuta; ed ora, i messaggi personali:
Vitani:
in questa fic, ho cercato di "salvare la faccia" al povero Lundi, che
di solito, nelle mie storie fa una figura non molto bella; ho anche
trasformato, per esigenze sceniche, il padre di Matilda in uno "zio";
Ninfea 306:
ammetto di avere alcune conoscenze sulle leggende che riguardano i
vampiri (poiché ho viaggiato molto all'Est), ma certe cose le ho
inventate, come ad esempio quella del potere di creare allucinazioni:
il vampiro è creduto avere uno sguardo ipnotico, ma nulla
più.
Un grande GRAZIE anche a tutti coloro che hanno letto senza recensire: spero di avervi ancora come mio pubblico, in futuro.
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