Martino

di francy91
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Cesare Beccaria ***
Capitolo 2: *** Arancione ***
Capitolo 3: *** Venti personaggi in cerca di un senso ***
Capitolo 4: *** La nottola diurna ***
Capitolo 5: *** Cenere ***
Capitolo 6: *** Poison de Garce ***
Capitolo 7: *** Unghie e mandarini ***
Capitolo 8: *** Brina fra i capelli, vento sotto i piedi ***
Capitolo 9: *** Su e giù ***



Capitolo 1
*** Cesare Beccaria ***


Senza nome 1

Salve. Avrei fatto volentieri a meno di metacomunicazione - introduzioni e commenti dispersivi – ma, in questo caso, mi sembra strettamente necessario per un semplice motivo, che noterete sicuramente durante la lettura di questo capitolo e dei seguenti. Il protagonista di questa storia parla in prima persona e, dunque, molti pensieri che chiunque tacerebbe per rispetto altrui sono espressi in modo forse violento, brutale e, a volte, anche offensivo e, soprattutto, che riguardano tutti voi che leggete. Vorrei specificare che io e il mio personaggio condividiamo alcune idee, ma il suo pensiero è un’estrmizzazione distopistica, forse, delle mie concezioni. Dunque, dopo la lettura – se la completerete – non mi aspetto che voi scriviate commenti offensivi contro di me a causa di ciò che ho espresso in queste righe, perché io NON penso ciò che crede il mio personaggio, anche perché sarebbe una feroce e cattiva autocritica. Spero che abbiate capito, vi auguro una buona lettura.

 

 

1.                      Cesare Beccaria

 

 

Spensi la TV prima che un cantilenante jingle pubblicitario rovinasse quel silenzio.

Uno scatto: una scintilla rossa alla base del televisore tramontò.

Quel silenzio. Quel silenzio fatto di piatti sbattuti e porte serrate, passi strascicati in strada, filastrocche infernali, girotondi sull’asfalto, fra clacson e abbaglianti.

“Sincempompli, pololì, pololà…”

Silenzio.

Mattonelle grigie, pareti bianche.

Silenzio, nella mia stanza.

“…Sincempompli, pololììì, pololààà…”

Unf-unf-unf-unf…

Il basso di un’autoradio ansimava sotto casa, proprio accanto al cassonetto.

“…Accademi sol fa mi, sol fa mi…”

I vetri vibravano, scevri di consistenza.

Muggiva la finestra al ritmo ispanico di Pitbull.

“I know you want me, you know I want ya...”

Ma perchè non abbassava il volume di quello schifo di canzone?

“Pliff!”

Graffiai il copriletto per la rabbia e i fili sporgenti mi si impigliarono fra le unghie, come siringhe nella pelle.

“Pluff!”

Non riuscivo a pensare ad altro o, meglio, non riuscivo a pensare. L’automobile che percuoteva i vetri ripartì a volume ancora maggiore e violò con un fischio nasale la stretta barriera delle bambine che recitavano la filastrocca.

Manca il “plaff!”. Sì, hanno dimenticato di dire “plaff!”, perché è così che finisce.

Silenzio, di nuovo.

Era possibile che, in un momento del genere, il primo pensiero sensato che mi frusciasse di sinapsi in sinapsi fosse quello?

Light.

Oh, be’, almeno era il mio secondo pensiero, non c’era da lamentarsi.

Light era morto. Carne umidiccia e flaccida inchiodata precariamente a qualche gruccia d’avorio – ossa flosce –, unghie opache, pelle grassa e oleosa, vescica svuotata, cosce bagnate e fetide, bocca asciutta e accartocciata. Come tutti, insomma.

In una frazione di istante compresi cosa volesse dire Platone con il gioco di parole sema/soma – l’avevo sentito giocando a Age of Mythology e non ci avevo fatto molto caso –: il corpo era una tomba, ma non nel senso in cui la intendeva il filosofo greco. Su un cuscino rivestito di seta rossa, in una bara di carne gonfia o secca, a seconda dei vermi che vi dimoravano, giacevano cadaveri di ideali, valori, ipotesi e sogni, maestosi parassiti che pendevano come fili scuciti da un grembiule lacerato, costretti alla vita e alla morte.

Perché Dio, pur essendolo, può morire.

Non pensavo che Light fosse Dio; tutto sommato, Near aveva ragione: era solo un assassino psicopatico che si credeva padrone del mondo. Ma Dio… il Dio creatore, intendevo, poteva morire per mano del creato, come quegli enzimi che contribuivano a produrre gli inibitori che frenavano la loro attività.

Quello che mi preoccupava davvero e mi induceva a tacere era…

“Marti’, te l’ho detto l’altro giorno: quando fai le tue porcherie in bagno, almeno pulisci!”

La figura bassa e tozza di mia madre sorse e calò quasi nello stesso momento da uno stipite all’altro della porta della mia camera, sfrecciando nel corridoio via dal bagno.

Avrei dovuto dirle che avevo sentito attraverso la porta chiusa Hey hey, ningen sucker, ah ningen ningen fucker e avevo dovuto interrompere l’operazione per stendermi di fianco sul letto e assistere alle ultime tre puntate di Death Note?

Ma no, non era una giustificazione valida, per lei; anzi, avrebbe ronzato e borbottato schegge taglienti di pregiudizio contro gli anime (“Ancora quella robaccia? Marti’, devi crescere! Prenditi le tue responsabilità, ma insomma!”). Un giorno mi avrebbe spiegato la relazione esistente fra seguire una serie animata e caricarsi di responsabilità.

Tacqui e lei bofonchiò qualche parola sconcertata e offesa.

Stupido megalomane. In realtà, la rovina di Light non dipendeva unicamente dall’eccessivo zelo di Mikami – o disobbedienza? –, bensì da molti altri fattori: innanzi tutto, era stato tradito dal suo sporco e criminale desiderio di diventare un padrone, un dio. Stupido megalomane. Ma che cazzo fai? Padrone di un nuovo mondo? Chi, tu? E perché, poi? Perché l’hai creato tu, sacrificando te stesso? Allora tu non cerchi la pace, il benessere comune, l’utopia. Il potere, ecco cosa bramava. Potere pulito, giustificato da un’onesta causa, proprio come un tiranno.

Accesi il monitor con un movimento sicuro.

Tu non ti accontenti di ciò che fai, pretendi di meritare qualcosa. Se proprio esistesse un dio, non sarebbe certamente come te. Patti, compromessi taciuti… La popolazione mondiale aveva bisogno di modelli, di minacce e di libertà, non di rispettare un sovrano assoluto, seppur latore di giustizia.

Cliccai due volte sull’icona a forma di testa di asino accanto all’orario, in basso a destra, sulla barra delle applicazioni: il downloading di alcuni file era quasi completo. Ridussi a icona e aprii una pagina di Mozilla Firefox.

Proteggere una persona è un atto volontario, di cui si devono accettare le conseguenze e di cui non ci si deve vantare, altrimenti si cade nell’opportunismo; a maggior ragione, lo è proteggere sei miliardi di anime. In effetti, era proprio questo il difetto più evidente – e controproducente – di Light: la vanità.

Digitai “f” e dal browser scivolò un elenco di suggerimenti. Scelsi “www.facebook.com/home.php” e attesi che la pagina si caricasse, sollevando e abbassando con il medio gli occhiali sul dorso del naso.

Desideri solo l’adorazione, alla fine persino Mikami sembra più interessato di te alla realizzazione di un mondo privo di mele marce. Per la prima volta, Light mi fece seriamente schifo.

La pagina iniziale era affollata di messaggi firmati Mariagrazia Cozzaglia e Susanna Faretra.

 

SuSaNnA fArEtRa liiiiiiiiiiiiiiiiiiiiight! U.U il mio light… l’hanno ucciso… V.V bastardi… è_é …grrr… >:(

Mariagrazia Cozzaglia Ahahah, fatto bene! È una degna fine per l’assassino di L… Il mio piccolo, povero L… MORTE AGLI ASSASSINI, MWUAHAHAH! XD

SuSaNnA fArEtRa zitta, infedele! di’ grazie che light è morto, altrimenti ora ti rimarrebbero solo 40 secondi…

Mariagrazia Cozzaglia Tsk, come se quel bidone di Light mi facesse paura… XD

SuSaNnA fArEtRa domani a scuola ti massacro… preparati!!! lol

 

Non che la vanità non tentasse. Hai cancellato le guerre e la criminalità, il che è certamente un gran merito, ma niente è più ingannevole di una ricompensa: in primis, non è mai quella che ci si aspetta e, inoltre, pare quasi che siano i compensi a pretendere le gesta.

Sbirciai un rettangolino rosso in basso a destra contenente il numero 3 in bianco e vi posi la freccia, che subito si tramutò in una manina (un messaggio subliminale a favore del suicidio, secondo me).

A ben pensarci, Light ha tanti buoni propositi, certo, ma non sa un granché di politica. Come la maggior parte della popolazione, era convinto che la guerra fosse un male, la causa principale di milioni di morti, ma non capiva che rappresentava anche il più efficiente sostenitore di equilibrio fra gli Stati?

Lessi, disinteressato, le notifiche: un invito a Pet Society, una nuova attività di LivingSocial e 1 dei vostri amici hanno compleanni imminenti, compreso Ilaria Lumara, in italiano più che improbabile. Sbuffai. Mi ero ripromesso di non scrivere più alcun commento o post su Facebook, giacché era diventato ormai più frivolo di un festino di Capodanno organizzato da tredicenni isteriche in calore. Il mio principio era quello cantato dai Sonata Arctica:

 

I promise you: I won’t write again

‘til the sun sets behind you grave

 

Sono di certo il primo che dedica una canzone a Facebook, borbottai con orrore senza un filo di voce.

Chiusi gli occhi per fuggire il bianco cangiante dello schermo e cercai di ricordare a cosa stessi pensando. Quando li riaprii, ormai rassegnato a quell’oblio fastidioso e aggressivo, il mio sguardo fu risucchiato dall’ombra cartacea e piatta del sorriso sbieco di Light sul muro, lucido e plastificato. I am justice, recitava appena sotto quel mento appuntito e quei denti bestiali.

La guerra, rammentai sobbalzando. Già, stavo pensando alla guerra, alle sue capacità risolutive e livellatrici: tutto ciò che eccede e avanza viene investito nei conflitti, in modo da equilibrare le entrate e le uscite, il guadagno e la spesa di ogni cittadino e dello Stato, eliminando le barriere divisorie fra una classe e l’altra, le pareti economico-sociali che rendono a un proletario più auspicabile soverchiare l’imprenditore che lo soggioga. Era una questione meramente teorica che pochissimi comprendevano, tantomeno i giovani che vedevano nel ’68 un modello di cultura e comportamento: pace e amore, come no. La guerra è pace, o almeno questo avevo appreso da 1984: in fondo, il conflitto incrementava il sentimento d’amor patrio che induceva i popoli a inorgoglirsi per la vittoria e a non abbattersi per la sconfitta, acuiva la produzione agricola e industriale e la solidarietà fra i cittadini. È risaputo: le emergenze uniscono, come le disgrazie e molto più di una statica floridezza, terreno fertile per la criminalità.

Sorrisi: adoravo sentirmi capace di pensare in modo diverso e indipendente dagli altri, come gettarsi da una finestra e precipitare in cielo, morire soffocato dalle nuvole, annegato nella pioggia, carbonizzato dall’atmosfera. Mi beavo di quella solitaria personalità e dei miei ragionamenti incomprensibili; per questi stessi motivi, combattevo strenuamente affinchè rimanessero lisci e inascoltati – non che la battaglia fosse così ardua: l’istinto era di tacere.

Aprii ancora una volta l’icona a forma di testa d’asino e notai che il livello di scaricamento di cinque file era fermo al 100,0 %: si trattava di  alcuni brani di Yngwie Malmsteen, un Pay Per View della WWE di cui avevo letto su www.welovewrestling.com e il calendario di Belen Rodriguez.

Non sono i criminali le mele marce, perché, in fondo, hanno sempre un motivo per rubare, uccidere, massacrare, stuprare e questo motivo è sempre maledettamente valido e inconfutabile. Povertà, frustrazione, rabbia, maltrattamenti, legittima difesa, licenziamento, pazzia. Gli stupidi, i calunniatori, i crudeli, gli insipidi, gli insensibili, i giudici senza toga e senza martelletto, i vuoti, gli ingordi… devono essere eliminati. Ecco chi doveva essere annientato. Ripetei quel pensiero ancora nella mia mente e me ne spaventai. Mi affrettai a imbottirmi la testa di bolle scoppiate, corde cigolanti ed echi urlati: Yngwie Malmsteen – Evil Eye.

Domani il sito di EFP si riempirà di stupide fan fiction sconclusionate: i pensieri di Light prima della morte, migliaia di storie tutte uguali… E Misa! Chissà quante schifose poltiglie patetiche si accumuleranno su quelle già esistenti? Per non parlare di Mikami, e ancora il solito paragone con la Bibbia: Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? E come potrebbero mancare le Matt/Near/Mello? Altri mènages à trois ridicoli e perversi alimentati dalla morte del più inutile e del più sessualmente ambiguo dei tre. Takada sarà così pietosa da sfiorare l’isteria di una vedova siciliana nella mente di quelle fan writer coglione.

Nonostante la chitarra di Malmsteen fosse sempre risultata letale per i miei ragionamenti, l’istinto omicida, sottoforma di mano artigliata, salì dal basso intestino attraverso lo stomaco e l’esofago, fino a diramare le sue dita nel cervello, innestarle rigidamente e con un certo compiacimento in quella fanghiglia cinerea e fertile.

Alzai gli occhi al soffitto alto: due impulsi feroci nell’arco di pochi minuti, quello sì che era un record. Di solito non me ne permettevo due in un giorno solo. Sbuffai e selezionai EFP :: Il tuo sito di fan fiction! nell’elenco dei preferiti.

In fondo, quelle ragazzine frustrate e complessate mi incuriosivano. Sì, come quei bonobo che scopano dietro la rete protettiva dello zoo di Rigantello, osservai; ed era vero, perché leggevo i loro profili falsamente autoironici e presuntuosi fino a sfiorare l’esasperazione, le storie insulse e scialbe, le recensioni acritiche e inespressive, le perversioni che qualsiasi individuo rispettoso avrebbe serbato fra le proprie intime fantasie sessuali, invece di dar loro titoli completi di stelline e cuoricini, introduzioni ipocrite, personaggi improbabili e commenti maliziosi.

Ma sì, quelle ragazze – e quei ragazzi, addirittura – catturavano la mia attenzione, come Alessandro; quel viso stanco, cianotico, spento e abbagliante nello stesso momento, non mi aveva ancora suggerito come si potessero organizzare e coordinare i propri tratti facciali ogni singolo secondo in maniera così artificiosa e precisa: occhi bassi, sguardo perso, sopracciglia contratte in una posa plastica e sofferente, labbra sporgenti, angoli della bocca nettamente tendenti verso il basso, piega fra bocca e mento ombrosa e pronunciata.

Effettuai il log-in.

Nickname: god_of_war92

Password: ••••••

Truccarsi ogni mattina, poi. Ci vuole molta forza di volontà anche per essere ciò che si vuole. Era il minimo.

Mi divertiva da pazzi guardare mio fratello spalmarsi le guance, il mento, il collo e l’unico minuscolo spicchio di fronte immune dalla frangia con una spugnetta rosa impregnata del fondotinta Vichy di nostra madre, calcare il profilo delle palpebre con una matita nera dall’impronta spessa e corposa e, con lo stesso strumento, marcare il profilo delle labbra, come un clown disgraziato, quelli delle maschere veneziane. Il rimmel abbondante e il rossetto viola erano facoltativi: la loro presenza variava a seconda del ciclo. O, almeno, così bollavo fra me e me i periodi più negativi e disperati in cui incorreva sempre più spesso Alessandro. Ridacchiai con un grugnito.

Controllai se l’unica storia che seguivo fosse stata aggiornata. Anime & Manga… Vediamo… Dove cazzo è Death Note? Ah, eccolo.

The Electric Metempsychosis era ferma al terzo dei suoi brevi capitoli, incastonata fra una yaoi Light/L e una volgare “intervista” ai personaggi della serie. Era ancora presto per la cena, quindi rilessi uno dei passaggi più interessanti della fan fiction, appartenente al primo capitolo:

Coloro che chiedevano aiuto non venivano più assistiti, come durante il regno di Kira I, bensì abbandonati a sé stessi, ché i più forti sarebbero dovuti sopravvivere. I malati furono reclusi in distretti specializzati nel risolvere il problema del sovraffollamento, vere e proprie città fantasma, lazzaretti contaminati dalla carne sfilacciata che si staccava dalle ossa, dalle piaghe infiammate, dai suicidi disperati, dalle sedie a rotelle arruginite e dalle protesi corrose. In pochi decenni, ovverosia dall’ascesa di Kira III all’abdicazione di Kira V, la Terra abortì circa quattro miliardi e 800 milioni di individui, morti rivendicate dalla giustizia e dalla selezione artificiale; se le donne sopravvissero ai Grandi Giudizi del 2014, del 2023 e del 2039, nonché alla Purga Kiriana, ogni settimana, esse trovarono il proprio annientamento durante le deportazioni in tali città fantasma, essendo esse più cagionevoli di salute a causa dei parti, che, secondo la legge 485 comma D, promulgata da Kira IV, non dovevano essere meno di quattro ogni cinque anni, in modo da compensare lo spopolamento dovuto ai Grandi Giudizi e alle Deportazioni Lenitive.

Il terrore e il fanatismo non si affievolirono neanche quando MIsa VIII fece giustiziare il marito, Kira VI, a causa della sua relazione con il giovane Boia Karol Czesach. A quel punto, la regina assunse il potere assoluto di Dikaia, il Regno di Kira, e proclamò sua figlia Kiyoshiko Boia Regale, destinata all’uso del quaderno – che ai sovrani era proibito sin da Kira II, per far sì che essi amministrassero il Paradiso alla loro morte – per l’eliminazione dei neonati e dei bambini malati, malformazioni della razza umana e veri e propri parassiti della società. In seguito, si propose – e venne approvata – persino la Deportazione delle coppie responsabili della nascita di tali abomini.

La morte periva ogni giorno sotto i tratti di una penna, di una mano di un Boia nato per uccidere, nato per il vuoto. “Nulla in vita e nulla in morte”, avrebbe commentato Bukowski. E la nostra storia si inarcherà proprio sulle dita di una giovane Boia, madre di morte eppur sterile, la seconda del regno di Kira VIII: Dana Ørssen. Chi ha mai detto che il sangue raggrumato non può uccidere?

Come ogniqualvolta leggevo quel passo, mi inebriai della frizzantezza apocalittica di un seguito, di una degenerazione del già corrotto pensiero di Kira: era tutto così plausibile. Pareva quasi una fusione fra nazismo e Socing, il socialismo inglese di 1984, la sua ambigua duplicità e la sua brutalità osannata e giustificata.

Godetti di quella sensazione, come bollicine di una bevanda gassata versata sulla pelle. B-brividi… incontrollabili. Piacere perverso e puro.

“Marti’, per favore, fa’ uno squillo a tuo fratello. Sono le undici e mezza e ancora non si ritira, mamma ha cucinato, porco demonio!”, sbraitò mio padre dalla cucina.

Istinto omicida. Un’altra volta?! Ma era dettato dal fastidio, non c’era da preoccuparsi.

“Sììì.”, sospirai urlando.

E in quel momento, mentre selezionavo Alex-emo – avevo scoperto che essere preso in giro rimuoveva per un attimo la sua patina di apatia, il che era uno spasso totale – e premevo il pulsante verde giocherellando con gli occhiali, quello stesso ansimante istinto omicida mi contrasse fra le sue zampe artigliate e selvagge.

Light ha massacrato il mondo e il mondo ha massacrato Light.

Gli individui erano abbastanza potenti da resistere, proprio come le grandi congreghe.

Ma le piccole società?Quelle sono impotenti, ibride e fragili.

Dallo sguardo spietato di Light colava sangue.

Sembrava volermi concedere un nullaosta.

Pronti?

Partenza…

Via.


 

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Capitolo 2
*** Arancione ***


Senza nome 1

Per la seconda volta, salve, lettori. Sono lietissima di aver ricevuto commenti intelligenti e analitici, ma, soprattutto, di aver cambiato qualcosa, benché minuscola, nella vostra giornata. Felice di avervi incontrati sul mio cammino virtuale, senza dubbio. Spero, dunque, che la lettura del capitolo precedente non sia stato per voi totalmente inutile; mi piacerebbe se avesse mosso qualcosa, o, almeno, se l’avesse fatta solo vibrare. Mmh, ringrazio i due gentili recensori: a Bael rispondo che tali sbalzi di ritmo – studiati o meno che siano XD – derivano spesso dal mio stesso ritmo respiratorio, che si rilassa o si elettrizza a seconda del coinvolgimento emotivo della sottoscritta. Davvero, non sto scherzando! Tendo a inserire molto di mio nelle mie storie, anche in questo senso. Insicurezza? Mancanza di creatività? Egocentrismo? A te l’ardua sentenza.

Per quanto concerne Fissie: sono onorata di questa tua considerazione del primo capitolo e, soprattutto, mi entusiasma immensamente il fatto che tu abbia compreso ciò che intendevo trasmettere: angoscia, paura, alienazione, ma allo stesso tempo immedesimazione. Come succede con Light, alla fine. Spero di incontrarti ancora su questa pagina, nonostante i pregi e i difetti della storia.

Infine, specifico che il libro L’eleganza del riccio, qui citato, esiste davvero, ma per ora non approfondirò a riguardo: in seguito tornerà nella storia. La canzone che ascolta Martino, inoltre, s’intitola Mr. Crowley, di Ozzy Osbourne, ma io preferisco quella interpretata da Yngwie Malmsteen e qualche altro dato anagrafico impronunciabile che mi sfugge, perdonatemi.

Buona lettura.

 

1.                   Arancione

 

L’eleganza del riccio.

Avevo letto questo titolo su un’anonima copertina di cartone e l’avevo trovato essenzialmente ridicolo. Cercai di ricordare quando fosse successo, Mi pare che sia stato ad aprile, quando ho accompagnato Aldo a Bari per comprare quegli orribili occhiali da sole. Eravamo passati da La Terza per dare un’occhiata alle novità librarie – Aldo, naturalmente, si era fermato a sbavare sulla copertina equivoca e poco discreta di Diario di una ninfomane. Cercavo La storia infinita da qualche settimana, quindi camminavo ingobbito per poter leggere i titoli di ogni copertina da circa mezz’ora.

L’eleganza del riccio.

Ecco, m’imbattei proprio in quel libro. Che titolo idiota. Ormai l’arte del sunto – compendiata nel titolo, appunto – era diventata un’asettica e frenetica prassi del marketing: surroga un dizionario e ottieni un libro, surroga un libro e ottieni una quarta di copertina, surroga una quarta di copertina e ottieni un titolo – che fosse bizzarro, ma nel limite della neutralità, era chiaro. Scopo di coloro che, nel temibile arsenale delle case editrici, guadagnavano più di un minatore che rischiava la vita ogni secondo era sottoporre all’occhio borghese del lettore un titolo serico ma incline all’assurdo, provvisto di termini setosi e riferimenti brutali, ossimori commercializzati in tot virgola novantanove centesimi di euro e codici a barre, accostamenti tendenti al baroccheggiante sfrontato e perverso.

Ebbene, quel titolo poteva essere perfettamente scomposto secondo tali criteri: eleganza - riccio, poesia e bruttezza, nobiltà e volgo, finezza e rusticità. Non che l’accorgimento semantico non fosse apprezzato, ma era del tutto privo di significato, come una campagna pubblicitaria da novecentomila euro per un pacchetto di chewing gum da cinquanta centesimi. Vuoto, uno spreco.

Mentre guardavo Alessandro coprire con sensibile successo la pelle unta e olivastra con il fondotinta, benché fosse già in ritardo di dieci minuti per la seconda campanella scolastica, si risvegliò in me il rimorso provato solo pochi mesi prima.

Che titolo idiota, avevo continuato a ripetermi, come un lamento puerile, come quando era sufficiente schiacciare i miei genitori a colpi di parole reiterate all’infinito, imperniando la mia ribellione sulla loro limitata pazienza, solo per ottenere sberle o vittoria, ma fuga in entrambi i casi.

Che titolo idiota che titolo idiota che titolo idiota che titolo idiota che titolo idiota che titolo idiota che titolo idiota che…

Un autoconvincimento sotto il giogo dell’autosoddisfazione. Un circolo vizioso, preludio dello squilibrio.

Era stato guardando le auto rimbalzare e galoppare sulle buche della statale 98 Bari-Rotunno che l’autosoddisfazione si era tramutata in autoironia: quel titolo era perfettamente sensato. Non logico, ma sensato.

L’eleganza del riccio.

Mi ero vergognato di non aver compreso la sottigliezza di quella metafora, ma le auto avevano continuato a trotterellare riflettendo la luce del sole come flash di una macchina fotografica. Non era la fine del mondo.

Frush… flash!

La bellezza si nasconde dovunque.

La bellezza è dovunque, intendendo è sia come predicato verbale che come copula.

Era questo il semplice significato nascosto – e, per questo, bello – del titolo e io l’avevo compreso troppo tardi.

Frush flash!

Ricordavo un’auto più veloce.

Mentre mi infilavo le scarpe senza allacciarle, ignorando il nodo ormai allentatosi, mi sovvenne un altro stralcio di ciò che avevo pensato allora: In effetti, i ricci appaiono brutti e irregolari, mentre sono gli esseri più completi e criptici del mondo animale.

Frush flash frush flash!

Anche la vecchia che spazza la strada sotto casa rovesciando secchi di acqua e detersivo sull’asfalto potrebbe risultare bella, in qualche modo. Quella speranza era stata un habitué della mia mente per qualche settimana, per poi isterilirsi, come qualsiasi aspettativa non adeguatamente nutrita.

Basta distaccarli dal loro rifugio e i ricci mostrano l’altro lato della loro esistenza, l’interno, la bellezza. La parte commestibile.

Già, schiodarli e aprirli. Attenzione alle spine, mi raccomando! Sembrava una squallida televendita di apri-ricci in plastica di bassa qualità – sempreché esistessero gli apri-ricci.

Bastava separare le persone dal loro ambiente naturale e queste diventavano belle, immaginai.

Bastava aprirle con le parole.

Proprio come i ricci.

Se stacchi i ricci da uno scoglio, dopo un po’ muoiono.

Bastava… ucciderle.

No, quel pensiero non apparteneva alle riflessioni di due mesi prima. Scacciai quel mormorio disobbediente, senza compiacermi, stranamente, delle mie riflessioni scombinate e devianti, e cominciai a giocherellare con gli occhiali, sentendo la nuca come strofinata da cartavetrata. Dei ringhi sommessi, una belva mal ammansita, catene… cigolano.

Scaraventai il diario, una penna, l’ottavo volume di Death Note, la PSP e il lettore MP3 nel mio logoro zaino Seven nero e celeste e, senza salutare mia madre che gridava contro mio fratello già alle otto e dieci di mattina, mi avviai verso l’istituto tecnico commerciale “Cesare Beccaria”, la mia fatiscente scuola arancione.

Attraversai la strada fra il cofano di un’Ape verdognola e la ruota anteriore di un motorino giallo, immobili per il traffico, e continuai a camminare placidamente per due isolati.

Godetti del suono dei clacson, tutti diversi, urlanti come ragazzine straziate… O entusiaste alla vista di occhiali da sole con la montatura rosa e lilla, fiere del proprio buon gusto e consapevoli del proprio fascino. Il mio piacere cessò quasi subito quando mi accorsi che, effettivamente, fra le pernacchie, i fischi e le grida nasali dei clacson, il normale limite dei decibel sopportabili da un comune essere umano era violato da urletti e risolini acutissimi, laceranti.

“Ilariaaa! Zaaao!”, gridò una voce femminile e infantile sul marciapiede opposto al mio. Non ci si poteva sbagliare: tono suadente e carezzevole, z al posto della c e della g dolci – dislessia? Malformazioni gutturali? Danni permanenti alla sezione della corteccia cerebrale adibita al linguaggio? O, semplicemente, desiderio patologico di apparire piccola, indifesa e vulnerabile per suscitare tenerezza, attrarre la propria preda e distruggerla? –, s morbosamente sibilante – idem –, emicrania imminente. Sì, si trattava proprio di Costanza, alias Cosssty. Sbuffai e mi ficcai bene le auricolari nelle orecchie per coprire il suo ciarlare finchè non sentii i timpani vibrare in modo decisamente malsano.

MISTER CROWLEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEY!, ululò il lettore MP3 con mio immenso sollievo; l’intro musicale mi riportò a un’atmosfera da Arancia meccanica: ultraviolenza, molova milk bar, raffinatezza, musica classica, contorsione... Statue di donne inginocchiate che versano latte + dalle tette, rammentai sognante. Per qualche secondo, il tempo di calpestare le strisce pedonali e scostare il cancello grigio scuro della scuola – ruggine o tinta naturale del ferro sporco di escrementi di piccione? Comunque fosse, faceva pendant con la strada macchiata di benzina – mi sentii come Alex DeLarge, alias 655321, che divorava con il suo sguardo bramoso e nevrotico Cosssty e Ilaria, le mie compagne di classe così graziose e insopportabili, mentre si abbracciavano e si baciavano sulle guance in modo da non toccarsi, per non rovinare il fondotinta roseo e stampare un paio di labbra vermiglie sul viso dell’altra. Mi vidi camminare languidamente, attraversare la strada con gli occhi chiari e spalancati di Alex, dissanguarle con un solo sorriso, circondare loro le spalle con le braccia e sussurrare: “Dolcezze, venite con lo zio Marty, vi divertirete!”. Le avrei portate nel sottoscale del mio condominio, nella stanza in fondo, quella in cui tutti gli inquilini conservavano le biciclette, le avrei stuprate allegramente, goduto dei loro strilletti patetici… Sì, le avrei ammirate, tremanti per il dolore, la paura e il freddo, il sangue che faceva bruciare loro gli occhi, il sangue annacquato dal sudore, il sangue assorbito dalla pietra porosa del pavimento… Avrei riso dei loro spasmi, della loro nauseante nudità, del loro cupo pallore. Sarei scoppiato a ridere sfigurandomi il volto, proprio come Light – o, magari, in modo leggermente più discreto, tanto per non essere sentito anche al quarto piano. Avrei inspirato l’odore acre della terra bagnata, della lordura liquida, del metallo, del colpo di grazia: le avrei annegate nella benzina, gliel’avrei fatta bere a sorsate dalle lattine da dieci litri sparse sulla pietra polverosa, gliel’avrei sparsa sulle ferite, come ne Le Iene di Quentin Tarantino, e poi… Poi avrei dato loro fuoco sul viso. Forse così avrebbero smesso di emettere quei risolini penosi.

Burn your face upon the chrome!, avrei urlato sulla loro pelle imbrunita e lucida imitando alla perfezione James Hetfield. Quasi sbavai per l’estasi.

A risvegliarmi fu un evento sinistro, quasi un presagio: un raggio di sole seghettato, filtrato attraverso le sbarre del cancello, m’infiammò a strisce la pelle del viso, bollente come non avrei mai immaginato: nonostante fosse il 10 giugno, il clima era squisitamente primaverile, sembrava marzo. Quasi per confermare le mie percezioni, la luce s’ingrigì sempre di più, impallidì fino a incupirsi in uno sbilenco riflesso lattiginoso. Come fuoco che muta in cenere.

Nel piccolo piazzale asfaltato, che fungeva da vassoio sudicio e pericolante al bignè all’arancia candita marcia che era la mia scuola, fra gli scooter usati degli studenti, il SUV bordeaux del preside e le automobili bisunte dei professori, scorsi circa tre centinaia di ragazzi e ragazze sedute sugli scalini, nelle rientranze del muro esterno, in piedi in cima alla rampa per i disabili, ciondolanti davanti alle porte d’entrata ingombre di avvisi scritti a mano su fogli A4. Almeno la metà fumava e gesticolava con ira, scherno, tenerezza o tutte e tre le cose contemporaneamente; alcuni ragazzoni portavano sulle spalle corpi puerili con vestitini che, piuttosto, parevano T-shirt un po’ troppo lunghe del normale, reggiseni frivoli resi magistralmente visibili dalla scollatura corrompente, con voci che strillavano: “Vaffanculo! Mettimi giù!”, ma con le gambe ben strette attorno alla vita dell’altro, in modo da incollare tutto l’incollabile alla sua schiena; infine, notai, procedendo verso l’entrata, che la maggior parte dei presenti esibiva un nutrito arsenale di bottiglie di plastica vuote. I gavettoni, riuscii a pensare senza vomitare la crostata alle ciliegie quietamente sbocconcellata a colazione.

Chi diceva che i riti non esistevano più? Anzi, erano anche troppi. L’ultimo giorno di scuola si doveva tornare a casa necessariamente fradici. Sbuffai freneticamente appena percepii le voci di Cosssty e Ilaria alle mie spalle.

“Zoè, ma hai visssto Franzesssco e Zovanni con tutte quelle bottiglie?! Zoè, mica ho intenzione di tornare a casssa tutta bagnata…”

“Infatti! Mi sa che mi firmo una giustifica falsa e esco alla seconda…”

Non era difficile immaginarle entrambe nel bagno delle ragazze mentre riempivano febbrilmente dieci damigiane da venti litri durante la ricreazione: era una ricostruzione più che veritiera, considerati i precedenti.

“Zao…”, mi salutò con voce distaccata e nasale Cosssty.

“Ciao.”, mormorò diffidente Ilaria, fingendosi spontanea, con una smorfia da scimmia quasi totalmente nascosta dalla kefiah. Mi passarono accanto descrivendo una curva abbastanza larga da evitare il contatto anche con l’aria che respiravo. Il ticchettio dei tacchi sull’asfalto mi parve quasi assordante e, per un istante, la visione dei loro due scheletri bruciacchiati e incastrati fra i cassettoni di un enorme armadio decrepito nel sottoscale mi tentò in modo quasi perverso.

Cercai di controllarmi, di interrompere definitivamente quella serie sempre più selvaggia e animalesca di… orgasmi… istantanei: mi resi appena conto di quanto fosse difficile arginare quei pensieri, quei colori così limpidi e luminosi, quei suoni esilaranti ed euforici, il sapore amaro e balsamico della cenere, la sua tonalità spenta e brillante, la sua fragranza rivoltante e soporifera… Come smettere di ascoltare una musica infernale, bella.

MISTER CROWLEEEEEEEEEEEEEEEEEEEY! mi proibì di origliare il mio stesso pensiero attraverso le corde e le urla del cantante: Ma che cazzo mi succede oggi?

“Ciao.”, masticai con la bocca impastata, ma Cosssty e Ilaria erano già a diaci metri da me, si separarono con un gesto quasi studiato, armonioso e affascinante, di cui, ovviamente, nessuno, men che meno esse stesse, si accorse; salutarono poche ragazze e una trentina di ragazzi dallo stile completamente opposto, ma accomunati dalla finzione, da un incartamento floreale e setoso e un nastrino liscio che ne assicurava la ferrea stabilità.

Le vidi fumare, sculettare e saltellare, meritarsi pacche sul sedere, lamentarsene e compiacersene nello stesso momento, fingersi stupide e diventarlo, imbronciarsi per essere consolate, incaponirsi per capricci infantili e ricompensare con premi che con il mondo bambinesco non avevano nulla in comune. Le vidi rendermi immensamente triste e imbarazzato al loro posto.

Sospirai: Provare pena per la gente serve solo a inorgoglirsi di sé stessi; che facciano le troie, è una loro scelta.

Raggiunsi la porta marrone di compensato della III D: era socchiusa, quindi la scostai e scaraventai lo zaino sul banco verde scuro; mi sfilai le auricolari e le scagliai con il lettore MP3 nella tasca anteriore della cartella. Infine, mugugnai un debole “Ciao” senza aspettarmi una risposta. Mi sedetti su una sedia dondolante e ipnotica, al primo banco laterale, proprio di fronte alla soglia e a ridosso del muro, ogni giorno più rigato da crepe mal celate dal reimbiancamento annuale. L’odore di varechina era insopportabile, benché mitigato da quello di polvere depositata da settimane sulla superficie di legno sotto il banco.

Davanti alla finestra, sulla parete opposta a quella a cui si poggiava il mio banco, si ergeva un’eterea barriera perforata in mille punti, una nube a tratti livida e cinerea: polvere di gesso emanata dal cassino e fumo proveniente dalle sigarette che alcuni ragazzi consumavano sul davanzale della piccola finestra, accalcati come numerosi criceti che cercano di uscire da un’apertura minuscola della gabbia. Quella nuvola brizzolata faceva apparire il cielo bigio persino più sporco di quanto fosse; mi pulii gli occhiali unti all’orlo della maglietta e mi guardai intorno.

Susanna Faretra (o, meglio, SuSaNnA fArErRa) torreggiava nella nebbiolina color pioggia acida come un obelisco egizio, con la sua stessa snellezza oblunga e dinoccolata; teneva una mano poggiata alla cornice lignea della lavagna, dondolandola lievemente, sovrappensiero: rimirava, con la schiena leggermente inarcata nella zona lombare, il disegno appena ricalcato con un minuscolo gessetto sulla superficie opaca, chiazzata da polverose macchie pallide. Finsi di fissare i faggi fuori dalla finestra e mi concentrai meglio per decifrare quella che, da lontano, sembrava un’indistinta nebulosa sulla lavagna. Pareva… un volto, forse. Mi alzai, dirigendomi verso la finestra semiaperta posta proprio accanto alla lavagna; il fumo mi faceva lacrimare gli occhi, come anche la polvere di gesso, a cui ero lievemente allergico. Mi grattai distrattamente il labbro superiore e sollevai gli occhiali sul dorso del naso con fare noncurante. Se avessi fischiettato con gli occhi per aria, forse, sarei stato anche più convincente. Sbuffai.

Quando fui abbastanza vicino alla lavagna da leggerne le curve ritratte, mi soffermai per un istante poggiando morbidamente il piede a terra e, dopo quell’attimo, procedetti al raggiungimento della finestra stranamente deserta e senza più aloni del solito.

Quasi magicamente, mi ritrovai a pensare, le particelle di gesso, da un caos  atavico, erano state… scosse da un ordinato Big Bang, le nebulose vacue si erano disgregate per ricombinarsi in tratti precisi e perfettamente sensati: un viso, un naso appuntito e ombreggiato al lato, una forma raffinata e fresca, occhi semichiusi, espressione affranta e rassegnata.

Light.

Avrei dovuto immaginarlo – e intuirlo – dalla faccia imbronciata e pallida di Susanna – o, almeno, più del solito.

Voltai le spalle alla finestra e alle tapparelle storte e poggiai i gomiti sul davanzale, fingendo di tenere d’occhio la porta. Roteai lo sguardo verso la lavagna: il volto disegnatovi galleggiò quasi tremolante – ma, forse, era solo l’effetto del gesso – sulla superficie, con qualche imperfezione nella distribuzione dei capelli sulla fronte di Light, appesantita dal poderoso fardello della vittoria incompresa.

Era semplicemente… un dio moribondo ed esausto. Come Prometeo, come Gesù Cristo. Come Bukowski e Giovanna D’Arco.

Susanna si stropicciò gli occhi con le mani ceree, ricordandosi troppo tardi del mascara; sbuffò: una nuvola di gesso si attorcigliò a spirale librandosi dalla lavagna, come foglie secche al vento d’autunno.

La maledissi mentalmente e tossii per via della polvere, ma, per fortuna, non ci fece caso e continuo a perfezionare il disegno con aria smarrita. Boku ga shinsekai no kami da, tratteggiò lentamente sotto il mento sottile di Light.

Strinsi il lobo dell’orecchio fra pollice e indice e riflettei sul probabile significato di quella frase, improvvisamente interessato. Boku ga vuol dire io, se non sbaglio. Ma certo, se Boku ga Kira da stava per Io sono Kira, era logico. Da era il verbo essere, quindi: Io sono. Sebbene mi sforzassi di recuperare altre frasi ascoltate negli stralci di puntate di Death Note visionate in lingua originale, oppure nelle mie brevi e noiose sessioni di gioco di FInal Fantasy, non fui capace di continuare.

Notai ancora alcuni piccoli caratteri accanto alla guancia destra di Light: は正義た. Riconobbi quasi subito i primi due ideogrammi, zpesso riproposti nei volumi del manga: Ki-ra.

Kira.

Distinsi anche l’ultimo carattere: da. Verbo essere.

Kira è, annotai mentalmente.

Gli altri due, escludendo la posposizione ga che determinava il soggetto della frase e, quindi, seguiva direttamente Kira, mi erano del tutto estranei; del resto, la mia conoscenza del giapponese si limitava, oltre a Death Note e a Final Fantasy, solo alle conferenze della Sony su Eyepet e God of War III e altri videogiochi provenienti dal Paese del Sol Levante, in cui i rappresentanti della società illustravano le caratteristiche dei loro prodotti in lingua originale.

Susanna si scosse la folta capigliatura riccia con una mano totalmente ricoperta di gesso e imprecò a bassa voce per essersi sporcata i capelli; in effetti, il risultato fu parecchio divertente: una ciocca che le ricadeva sulla fronte sembrava proveniente dalla barba di Silente. Immaginai l’incrocio genetico e grugnii ridendo.

Il lato posteriore della lavagna era affollato di frasi di polvere, lettere grandi e disordinate che si rimpicciolivano e accavallavano in modo sempre più frenetico verso i bordi e la sezione inferiore della superficie oscura.

 

Kimotsukete kami-sama wa miteru
Kurai yomichi wa te o tsunaide kudasai
Hitori de tooku ni ite mo
Itsumo mitsukedashite kureru
Shitteru koto wa
Zenbu oshiete kureru
Watashi ga oboete nakute mo
Nando de mo oshiete kureru
Demo zenbu wakatte shimattara
Dou sureba ii no?

 

Oh, Cristo. Patetico!

Mi affrettai ad allontanarmi e a ritornare alla mia sedia a pendolo – come la chiamavo, per via del movimento oscillatorio – liquidando quel momento d’interesse con un sospiro. Calma, non è il caso di infuriarsi per questo, mi sforzai di generare quel pensiero vibrante nella mia mente, come costringere i poli uguali di due calamite a toccarsi.

Scorsi Francesco e Giovanni entrare con zaini colmi di bottiglie – evidentemente chiuse alla bell’e meglio, visti gli aloni scuri che rendevano il tessuto rosso bordeaux – e osservai Khadija legarsi i capelli scurissimi – o, almeno, così apparivano controluce – nella fila centrale, attenta a non impigliare l’elastico ricoperto di sottili piume celesti e arancioni fra le mezzelune pendenti dalle orecchie, che sfioravano persino le sue spalle calde e nude. Sì, calde: quel colore ligneo riluceva di un calore genuino sulla sua pelle, simile ad una larga e soffice distesa di campi arati sotto un tiepido sole o al deserto marocchino all’imbrunire, proprio quello da cui proveniva Khadija, a quanto pareva.

SI voltò intercettando il mio sguardo con i suoi occhi della stessa tonalità della pelle, legno nudo della corteccia arrostito dal sole.

Gli occhi più belli che avessi mai visto: quelli di una traditrice, una corruttrice, una sporca provocatrice. Non mi sarei stupito di vederla inginocchiata sotto una cattedra con la testa ondeggiante solo per intascare un voto elevato da esibire ai genitori, o semplicemente per orgoglio personale. Ghignai a quel pensiero maligno e scostai il mio sguardo micidiale dal suo viso, che, in quel momento, mi parve lurido e imperfetto.

Quasi profeticamente, in quel momento giunse Aldo e poggiò le bottiglie poco discretamente cullate fra le braccia nude sul banco accanto al mio.

Ecco, appunto, pensai così violentemente che temetti di averlo borbottato.

“Ciao, Marti’!”, mi salutò con la sua grande mano affusolata.

“Ehi.”, mi limitai a ricambiare, quasi un sospiro, in realtà.

Volse il viso verso Khadija, come ogni mattina, che, intenta a prelevare dall’astuccio e selezionare o scartare i ventisette bracciali che avrebbe abbinato alle braccia color sabbia bagnata quel giorno, lo ignorò, compiaciuta. E, sempre come ogni mattina, Aldo virò verso la propria sedia, più stabile della mia, ma con la base pericolosamente concava verso il basso.

“Allora, quest’anno ci onorerai della tua presenza?”, domandò palesemente infastidito dalla frangia unta che gli pungeva le palpebre. Notai che il suo entusiasmo era precipitato, ma non me ne preoccupai, sorvolando su quel ridicolo pluralis maiestatis.

“Eh?”

“I gavettoni.”, m’informò. “Esci sempre dall’uscita secondaria della palestra ogni anno! Non credere che non me ne accorga.”, aggiunse facendo mostra di una spiccata varietà lessicale. Almeno i congiuntivi sono sopravvissuti al naufragio, pensai. Prepariamoci a commemorare i defunti.

“Direi di no. Se li ho evitati ogni anno, non vedo perché non dovrei farlo ora.”

“Perché è l’ultimo giorno di scuola!”, sgranò gli occhi grigi – lenti a contatto colorate usa e getta, complimenti – sinceramente sconcertato.

Sbuffai: odiavo discutere le mie decisioni.

“Lo era anche l’anno scorso e due anni fa. Senti, non mi piace questo genere di divertimenti, OK?”, chiarii, purtroppo consapevole che non sarebbe servito a niente.

“Tu non capisci.”. Si fermò per ammiccare a Cosssty, che trotterellava con le braccia stese in avanti come una sonnambula – la migliore delle ipotesi era che stesse facendo asciugare lo smalto rosa confetto sulle unghie. La ragazza gli sorrise mostrando un canino sfumato di rosso – la peggiore delle ipotesi per lei, in questo caso, era che si fosse sporcata con il rossetto e che, incredibilmente, il dettaglio le fosse sfuggito.

“Anch’io ero come te: non uscivo mai e mi rifugiavo nella vita virtuale e nei videogiochi, ma ora sono cambiato! Sono diverso e mi sento meglio!”, riprese Aldo con slancio, percorrendo il seno – per giunta esiguo – di Cosssty con gli occhi, producendo un buffo effetto pendolo, mentre le iridi grigie aderivano sempre più strette alla curva nera che le delimitava, come l’eclissi di un sole di fumo.

“Io non mi rifugio proprio da nessuna parte. Non mi piacciono questi giochetti coglioni e basta.”, sbottai esasperato e sfogliando il mio volume di Death Note.

“Che cazzo dici? Vedi che ora ti stai rifugiando in un manga stupido e infantile? E poi dici che…”.

Decisi di non ascoltarlo più. In realtà, mi sembrava più che sorprendente, dato che Aldo – Aldo De Pucci, quell’Aldo De Pucci, l’unico che, solo un anno prima, era riconosciuto come mio migliore amico, benché le classificazioni di quel tipo non mi si confacessero - disprezzasse non solo i manga – che aveva collezionato fin dalle elementari –, bensì persino Death Note, che mi aveva consigliato personalmente quasi con le lacrime agli occhi per l’ammirazione. Ma, ormai, non mi meravigliavo più del dovuto nei suoi riguardi: era la prova deambulante e – si presumeva – pensante che i cambiamenti radicali non erano solo fantasie di pubblicità di pillole dimagranti o serie TV basate su psicologi fasulli. Purtroppo, quanto ad Aldo, il mutamento era scivolato nel vuoto più abietto.

Ricominciai a giocherellare nervosamente con gli occhiali.

 

***

“Se ti ferma qualcuno all’entrata, digli che ti ho accompagnato io.”

Dopo una curva, che, sicuramente, aveva lasciato sulla strada le impronte scure e seghettate degli pneumatici, e qualche scossone, la Fiat Brava azzurra di suo padre si fermò vibrando nel cortile asfaltato della scuola.

“Mah, non credo che l’ultimo giorno di scuola segnino anche solo due minuti di ritardo.”, constatò Mariagrazia osservando i ragazzi che indugiavano a varcare la soglia dell’edificio. A malapena lo fanno durante il resto dell’anno scolastico, pensò con amarezza e gratitudine.

“E poi”, aggiunse aprendo la portella con uno scatto anomalo, “ho fatto ritardi peggiori. I professori mi conoscono.”, sorrise.

“Ciao, Pino!”, lo salutò.

“Ciao, pigna.”. Gli occhi di Giuseppe Cozzaglia si sollevarono verso lo specchietto retrovisore e le sue mani callose e abbronzate si posarono l’una sul volante, l’altra sul cambio dalla testa consunta e umidiccia.

Dopo due tentativi falliti, la portella, finalmente, si richiuse.

Tanto aspetterà che io entri e poi farà retromarcia, rimuginò Mariagrazia mentre si avviava verso il lato aperto delle porte.

Mentre si affrettava meccanicamente sulla rampa per i disabili, quasi scivolando sulla superficie liscia e ascendente che, a ben pensarci, sarebbe risultata più fatale di una serie di scalini senza strisce antiscivolo per qualsiasi individuo sulla sedia a rotelle, notò il professor Recchia proprio appoggiato al lato chiuso della porta, contro i fogli colmi di avvisi scritti a mano dal segretario.

“Buongiorno.”, lo salutò con un sorriso imbarazzato.

Il docente abbassò lo sguardo per individuare la sorgente di quel mormorio e allontanò dalle labbra sottili un bicchierino di carta colmo di caffè, per quanto si potesse notare dall’ombra nerastra sul fianco curvo della stoviglia improvvisata.

“Mariagra’, anche l’ultimo giorno di scuola sei in ritardo? Entra in classe prima che arrivi io, muoviti.”. Tossì con enfasi e ricominciò a bere mordendo rumorosamente il bordo del bicchiere.

“Grazie!”, rispose Mariagrazia sistemando più in basso l’orlo inferiore della maglietta sulla schiena. Emise un ridicolo risolino di gratitudine e sfrecciò via, accorgendosi appena dell’auto azzurra che sostava ancora nel parcheggio e che, proprio in quel momento, si mosse sinuosamente verso l’uscita.

Attraversò il corridoio di corsa, benché sapesse che Recchia sarebbe entrato solo quando fosse stato sicuro che lei fosse già in aula. Adoro quell’uomo! e lo ringrazio ancora una volta mentalmente.

In fondo al corridoio, la porta della III D era ancora aperta e, dallo squarcio rettangolare che offriva sull’aula, individuò la testa di Martino Manonera china su un volume dalla copertina morbida, di cartone sottile; scorse la sua espressione seria e contrariata, per qualche motivo, e sorrise: Come fa ad avere sempre quella faccia? Non si arrabbia mai? Non trova niente di divertente da nessuna parte? Certo che organizzare i propri tratti facciali in modo così litico e preciso dev’essere proprio faticoso…, rifletté come ogni mattina. In tre anni di scuola trascorsi nella stessa classe, l’aveva visto poche volte ridere e sorridere, ma non se n’era mai preoccupata: era un ragazzo silenzioso e riservato, sicuramente troppo timido e insicuro per esprimere tutto il piacere che provava a contatto con gli altri, soprattutto con la sua classe.

Sì, doveva essere così.

E, infatti, lo capiva perfettamente, perché anche lei si riteneva introversa e piuttosto schiva e comprendeva che le forzature e la compassione altrui non facevano  che acuire il suo imbarazzo.

Varcò l’uscio e voltò la testa a destra: era sicura di trovare Susanna davanti alla lavagna e, infatti, la individuò proprio lì.

 

***

Istinto omicida, un’altra volta. Sì, proprio come quella puntata di Death Note. Rabbrividii di rabbia. Più del solito.

Cazzo, pensai.

Già, cazzo! Cosa mi stava accadendo? Avevo sopportato così bene i miei intollerabili compagni di classe per tre anni, non avrei potuto distruggere tutto in un giorno.

Tutta colpa di Aldo.

Continuai a sfogliare il volume del manga con nonchalance e placidità, mentre la testa mi girava per la furia che minacciava di strapparmi via gli organi dall’interno. Mi ritrovai a pensare che avrei dovuto ucciderli tutti con un qualche cazzo di quaderno magico, se fosse esistito.

Deglutii mordendomi la punta della lingua.

Per fortuna, non esisteva nulla del genere.


 

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Capitolo 3
*** Venti personaggi in cerca di un senso ***


Senza nome 1

Salve a tutti i lettori, taciturni o recensori! E un saluto particolare a Bael, alla cui recensione rispondo subito. Innanzi tutto, l’allitterazione della f non è casuale come potrebbe sembrare. Insomma, non si tratta di una semplice sega retorica, come, secondo me, la chiamerebbe Martino (mi avvalgo della facoltà di citarlo XD): rimanda al futuro (ma neanche tanto) fastidio che porterà il personaggio sull’orlo di una nevrosi, quel brusio non dolce e accomodante, ma violento e brutale, che ti trascina nei suoi sprizzi e spruzzi (???) di isteria. Secondo me, questa sensazione quasi… claustrofobica, ecco, è ben incarnata dalla lettera f (sarà per questo che mi chiamo Francesca?).

Inoltre, immaginavo che avresti gradito quella parte; in effetti, mi sono divertita molto nello scriverla. Inoltre, temevo che i personaggi inseriti fossero eccessivamente fumettistici e archetipici: l’amico sedotto, le frivole, la falsa, l’infame, gli immaturi etc. Spero che non sia insorte anche in te quest’impressione (deduco di no, da ciò che hai scritto). Sono sempre molto soddisfatta delle tue recensioni e ti ringrazio con sincerità.

Buona lettura a tutti i lettori, taciturni e… Be’, lasciamo perdere.

 

                  3. Venti personaggi in cerca di un senso

 

Un missile?! Hanno caricato il quaderno su un missile?!

Chiusi il volume imprigionando fra le pagine il volto sbigottito di Light e il ghigno divertito di Ryuk.

Un piacevole brusio ronzava in classe come una vespa: un sussurro farfugliato e, un attimo dopo, un boato infernale. In quel momento, forse, era l’unico dettaglio piacevole.

Mi carezzai distrattamente la barba corta e appuntita, percependo solo il vago solletico sul palmo e un gradevole bruciore sulla pelle. Mi piaceva molto la confusione ovattata dei luoghi affollati: conferiva alla vita un senso di perfetta inutilità, favorendo il ragionamento.

Bene.

Tentavo di non concentrarmi sulle singole voci per non forzare il bozzolo che mi emarginava, quella placenta invisibile e fredda che mi sfiorava la pelle. O, forse, era solo merito dell’umidità che rendeva i vetri opachi non solo per il gesso e gli aloni, ma anche per le particelle d’acqua condensatevi.

Due voci urlanti e dal timbro femminile vanificarono il mio tentativo di annullare i belati individuali e rifugiarmi in quel ronzio anonimo.

“… E non pensi all’altra gente? A tutte quelle persone che hanno trovato vantaggioso il piano di Light? L’hai ascoltato ieri sera, vero? Hai sentito cos’ha detto a proposito di suo padre e del fatto che gli onesti muoiono proprio per colpa dei…”

“Ma quella era solo una scusa! Light sapeva bene che non era necessaria la morte di suo padre, ma l’ha ucciso lo stesso! Ha ucciso un innocente, capisci? Uno dei miliardi di persone che dichiarava di proteggere. E non ti sembra una contraddizione questa?”

“Al contrario: questo dimostra che Light si è sacrificato fino a provocare la morte di Soichiro per il bene comune. Ma sai cos’è la ragion di Stato? Ne hai mai sentito parlare, eh? Le regole del governo sono diverse da quelle umane. La morale non esiste nello Stato!”

“Stai scherzando?!”

“Nessuno può capirlo quanto lo capisco io. Light ha ragione ed è morto proprio per l’ottusa moralità della polizia e del governo.”

“Tu sei pazza!”, boccheggiò Mariagrazia ridendo nervosamente.

Mi voltai: lo sguardo di Susanna era duro e distaccato, sembrava fissasse i balconi del palazzo di fronte alla finestra.

Nonostante tutta la classe le fissasse, sputando commenti maligni e divertiti, Susanna e Mariagrazia non abbassarono il tono di voce.

“Sono davvero inopportune.”, sentii sussurrare alle mie spalle ormai fradice di risolini.

Frasi di assenso ed espressioni irritate.

“Pensa a come sarebbe la nostra classe se Light eliminasse tutti gli elementi di disturbo che contiene. Pensaci, pensaci!”, aggiunse Susanna, vedendo l’amica pronta a ribattere.

Nessuno si accorse di quell’affermazione evidentemente provocatoria: dimentichi dell’episodio, erano tornati tutti a dissertare sulle novità del gossip scolastico, sui fantomatici gavettoni e, naturalmente, sulle vacanze programmate (di cui solo lo 0,3%, per dirla alla L, si sarebbe effettivamente concretizzato).

“Ne abbiamo già parlato.”, puntualizzò, irritata, Mariagrazia.

“Ma certo, secondo te questa classe è perfetta! Margie, tutto questo… non ha senso e non so come tu faccia a pensarlo! Tu vedi? Senti quello che dicono?”

“Stai esagerando. Non ho mai pensato che la nostra classe fosse perfetta, però, vedi, io noto nella gente cose che tu non immagini e non riesco a capire come tu, che io reputo la persona più intelligente che conosca, faccia a non vedere ciò che vedo io. Tutti devono avere la possibilità di vivere per dare al mondo ciò che di buono ha. Perché non…?”

“Margie, tu sei inge…”

All’improvviso, il sibilo di Susanna venne sovrastato da una canzone, probabilmente proveniente da un cellulare, che si rincorreva da sola, si affrettava sulle poche note alternate che stendeva e sollevava; impiegai un secondo per riconoscerla: era l’ultima hit di cui erano stati pubblicati migliaia di video su YouTube con una dozzina di ragazze che si esibivano nel ballo di gruppo inventato sulla base di quella musica – se così poteva essere indicata –, meritandosi anche un servizio su Studio Aperto. Il fenomeno del momento, la litania di ogni discoteca italiana… Si prevede che sarà il tormentone di questa estate 2009… Si balla dappertutto, dalle scuole agli uffici, dalle strade agli stabilimenti balneari che, nonostante le condizioni atmosferiche inclementi, si sono riempiti sin dai primi di giugno…

Sbuffai.

Sbuffai.

Sbuffai.

Sbuffai. Sbuffai. Sbuffai.

Era incontrollabile, non riuscivo a fermarmi e le orecchie rombavano come un motorino in curva. Mi sfilai definitivamente le auricolari, rassegnato al limite di decibel delle cuffie giapponesi.

Sospirai. E sbuffai. Un’altra volta.

Ronzii dappertutto.

Mi guardai intorno per passare il tempo – erano le otto e mezza e il professore non era ancora entrato in classe, essere naturali era ancora più difficile in quei casi –: Cosssty e Claudia erano sedute in braccio a Fabio e Francesco, che coglievano l’occasione per palparle e ricevere patetici pugnetti sulle spalle e pigolii come reazione; Luigi e Michele, ululando euforicamente, ballavano tecktonik con movimenti scoordinati e maldestri persino per quella danza; Giovanni, Daniele e Savino ripetevano a memoria una poesia di Pietro Aretino barrendo dalle risate ad ogni potta o bischero, sfogliando stancamente il registro quando mancavano riferimenti espliciti nel componimento, immaginai dai loro visi muti e insipidi; Ilaria, ben visibile dalla mia posizione, ascoltava la musica con un paio di cuffie enormi – i capelli tinti di nero melanzana abbandonati dietro le spalle, china sul banco, il piccolo seno che ricadeva sul quaderno che stava scarabocchiando – dimenava la testa come in preda alle convulsioni e muggiva qualcosa in spagnolo. All’improvviso, forse per osservare l’opera terminata sul foglio, sollevò il busto in posizione quasi eretta e notai, sotto la kefiah che le camuffava il viso, una maglietta nera con la scritta Infernum e qualche parola in tedesco, immaginai, stampata in rosso con il carattere Old English Text MT, come tracciata con una bomboletta spray su una parete annerita e ruvida.

Ma la kefiah è il simbolo del comunismo per eccellenza. Fino a questo punto Ilaria…?

Sbarrai gli occhi, perplesso, senza accorgermi che, effettivamente, qualcosa aveva attratto la mia attenzione in quel brusio strascicato, un sussurro in confronto alla musica metallica proveniente da un cellulare anonimo.

Mi alzai facendo strofinare la sedia sul pavimento. Ssstriiidette.

L’incoerenza di Ilaria era risaputa: mutava stile e genere musicale quasi ogni giorno, sfoggiando un trucco da Jeffrey Star per uns sera e atteggiandosi a goth qualche ora dopo; ma queste erano solo due delle migliaia di alternative… forzatamente alternative di cui si copriva, si vestiva, si copriva e si vestiva senza spogliarsi: essere tutti – e nessuno – nello stesso momento, farsi notare da chiunque, essere particolare ma non diversa. C’era chi lo avrebbe trovato curioso. Gente con diecimila lauree studiavano tipi come lei, li hanno impacchettati e ci hanno messo una bella etichetta: SCHIZOFRENIA.

Io lo trovavo semplicemente stupido.

In quel momento, il professor Recchia sbattè rumorosamente il volume di economia aziendale sulla cattedra per segnalare la propria presenza. Non che mi dispiacesse, ma l’uso della parola era sconosciuto a tutti?

Accanto al professore, che intanto urlava per reclamare il silenzio, notai Enrico Bossoli e i suoi sottili baffi da gatto.

“Ma quello non è Enrico della quinta D? Che cazzo di capelli si è fatto?! Stava meglio quando li portava come Riccardo Scamarcio…”

Dopo aver discusso qualche attimo con il professore, Enrico si voltò per uscire dall’aula ed entrare nella sua classe e, in quel momento, notai una stampa familiare.

Ah, già: Mussolini.

Il duce di Alessandro Bruschetti, per la precisione. L’avevo vista sul libro d’italiano del biennio, sì, nella sezione dedicata al maschilismo e al femminismo.

“Quello è un fascista di merda! Mi fa schifo, cazzo! FASCISTA, SEGUACE, DI MUSSOLINI, TANTO, SAI FARE, SOLO POM…”, cominciò a starnazzare Ilaria con ritmo da marcia militare, sventolando la kefiah.

Enrico la fissò per un attimo e si mosse per andarsene, ma io lo chiamai a bassa voce, felice che il professore avesse distratto tutta la classe con una battuta demenziale.

“Ehi, Marti’”, mi si avvicinò Enrico. “Senti, per quanto riguarda i libri del quarto, quest’anno potrei anche farti uno sconto del 50%, ma il libro di diritto non posso vendertelo, visto che servirà a mia sorella che sta al biennio. Però per il resto non c’è problema, potrei darteli anche ora, tanto per gli esami non mi servono a un cazzo. Quindi…”

Lo interruppi, sempre a bassa voce.

“No, va be’, non è questo…”, esitai fissandogli la cintura di pelle bruna, tanto per posare lo sguardo su qualcosa. Di solito compravo i libri di scuola da Enrico a giugno, avrei già dovuto contattarlo prima.

“Senti, gli Infernum che genere di musica fanno?”, chiesi con naturalezza.

Non ci pensò nemmeno. “Nazi metal”, sbottò incrociando le braccia al petto e accarezzandosi i bicipiti villosi.

Ah, ecco.

“Mmh, ho capito. Era solo per conferma.”, spiegai sul punto di congedarlo.

“Quando guardo certe persone mi chiedo perché dovrei lottare anche per loro”. Tirò su col naso raffreddato e si passò una mano sulla nuca.

Percependo che il discorso sarebbe morto lì, mi affrettai a salutarlo, prima che si cristallizzasse il silenzio. “Be’, allora ciao. Ti faccio sapere per i libri, tanto il tuo numero ce l’ho.”

“Sì, sì. Ci vediamo”, mi guardò un’ultima volta, sempre con quegli occhi massacranti e impietositi, come un messia, e se ne andò accostando la porta dalla serratura difettosa.

Light mi fissava contrito, imprigionato in un riquadro caotico del manga.

I neon mi facevano venire il mal di testa e, per di più, mi stavo annoiando. Non che fossero novità, mi succedeva automaticamente nove mesi all’anno.

“Manonera, devi giustificare le assenze dal quattro al nove giugno”, mi informò il professore mordendo il tappo della penna.

“Ah, sì…”, mormorai esitando. “Ho dimenticato il libretto delle assenze”. La bocca impastata e la voce roca davano l’impressione che mi fossi appena svegliato.

Tutti frinivano, i banchi frinivano, frinivano le sedie, frinivano i fogli. Persino i neon frinivano, se mi concentravo meglio. E l’occhio destro mi pulsava.

“E quando me la vuoi portare ‘sta giustifica, Marti’?! A settembre? Ma tu vedi un po’…”, cominciò a borbottare il professore giocherellando con la cravatta.

Mello sgranocchiava cioccolato e ghignava.

Aldo iniziò a mugugnare.

“Mmmmm.”

Forse due, forse cento persone cominciarono ad imitarlo. L’aula sembrava un tempio induista. Ancora quel gioco idiota.

E il mio mal di testa aumentava.

E Khadija provocava Aldo. Lo derideva.

E Ilaria squittiva.

E tutti ronzavano.

E il vento soffiava.

E… e che altro?

Ah, sì: e il mio mal di testa aumentava.

No, non questo. Ah, ecco.

E volevo ucciderli tutti. Tutti quanti.

E mi venivano le lacrime agli occhi per l’emicrania.

E li amm…

“Ragazzi, in quest’ora andiamo nel laboratorio d’informatica!”, tossì Recchia.

Alleluia.

Come tori, come capre si precipitarono tutti verso la porta, mentre io avevo già superato la soglia per arrivare prima in sala computer e occupare la postazione elettronica migliore, la numero quattordici. Sempre meglio di restare in classe a sopportare l’intermittenza dei neon. Come se il problema fossero i neon.

Avrei controllato se l’autore avesse aggiornato The Electric Metempsychosis. Ormai era diventato un pensiero fisso: era la prima fanfiction che mi entusiasmava in quel modo, non avevo mai atteso con tanta impazienza un aggiornamento. Rabbrividii senza un motivo preciso.

“Vuoi?”. Aldo mi porse una bustina di patatine, mentre cercava di sgranocchiarne una manciata consistente senza apparire ridicolo. Invano, forse, ma non ero del tutto oggettivo nei miei giudizi ultimamente.

Mormorai un ringraziamento ed estrassi dal sacchetto una patatina ghiacciata e ondulata.

Silenzio.

Continuammo a camminare nel corridoio; le mie scarpe da ginnastica cigolavano e fischiavano. Dietro di noi il professore ringhiava e schiamazzava paradossalmente contro i ringhi e gli schiamazzi del resto della classe, sempre più somigliante a delle bestie accecate dall’improvvisa libertà.

Silenzio, fra me e Aldo.

“Ah, ehm…”. Lo sfrigolio delle patatine fra le sue mandibole funse da intercalare alla frase. “Eh, sai che forse organizzano una pizza di fine anno? Con tutta la classe e forse qualche professore.”. Rise. “Speriamo di farcela quest’anno… Cioè, sai che gli anni scorsi o se ne sono dimenticati, o ci sono venute solo due o tre persone, oppure si sono messi a litigare per il posto e il giorno.”. Tirò su col naso e spostò una ciocca scura e sporca di capelli dalla fronte. “Ma quest’anno la facciamo sicuramente, cazzo! La nostra è una classe fantastica, non possiamo non festeggiarla!”.

Deputai al retrogusto delle patatine il sapore amaro che mi balenò sulla lingua.

“Mmh.”, annuii.

Silenzio.

Intravidi la porta del laboratorio, spalancata e ingombra dei soliti avvisi, questa volta, almeno per coerenza, scritti a macchina.

“E poi Khadija forse ver…”

“Senti, sai a che ora si esce oggi?”, lo interruppi. Immersi le dita nel pacchetto impiastricciato di olio e ne cavai un’altra patatina gelida, per via del distributore che conteneva anche le barrette di cioccolato; questa volta ne scelsi una più grande, per lenire il retrogusto amaro in bocca.

Era più salata.

“Ah, boh… Mi sa che facciamo cinque ore invece di sei, ma non so se saranno tutte di lezione. Forse dopo la ricreazione andiamo in palestra per il discorso del preside, boh.”

“Ah, OK.”

Varcando la soglia, percepii l’odore distinto e asettico delle ventole dei computer. Sospirai: quella fragranza così surreale mi rendeva sempre soddisfatto, come i neon candidi e potenti della stanza, che non mi causavano mai mal di testa, e le tapparelle che lasciavano filtrare solo un lascivo flutto d’aria.

Finalmente a casa, mi ritrovai a pensare e subito scagliai via quella frase da fumetto.

Ma l’amaro sulle labbra e sulla lingua, posatosi così dolcemente, non accennava a neutralizzarsi.

Accarezzai il case della postazione quattordici, poroso, gelido, metallico. Lo grattai con le mie unghie corte e sfrangiate: la superficie nera frinì. Vi posai il palmo e godetti del passaggio di calore dalla mia mano al piano quasi tiepido. Sorrisi felice.

OK, ora controlliamo su EFP. Se non ha aggiornato la ammazzo quella troia di Headache… Non si può non postare un capitolo dopo una settimana intera, cazzo!

Il mouse era leggermente viscido e più caldo del case. Sbuffai.

D’accordo, se non ha aggiornato me ne torno in classe, non voglio stare qui ad ascoltare questi coglioni che mettono musica house su Youtube e vanno su Facebook a frignare, cazzo santo!

Risi a bassa voce: non comprendevo il compiacimento che mi percuoteva appena pronunciavo una parolaccia pesante o formulavo una riflessione profonda e deviante, ma mi intrigava fino al malessere.

Mi carezzai le palpebre, infilando le dita fra gli occhi e le lenti, sfiorandomi le ciglia e muovendo le pupille come avevo imparato a fare da Gregory House. Diagonale-destra-in basso-diagonale-destra-sinistra.

Il tepore meccanico del computer, come un cagnolino fedele, mi sbavava sulle mani, mi imbeveva le dita e le scaldava fra le sue zampe sporche e tristi. Forse fuori pioveva: sentivo le gocce sibilare sulle tapparelle, sussurrare e sputare. Così vivida e umida, la pioggia. Mi sembrava di affogarci, di piombare nelle profondità ovattate di un oceano, di un prato di neve.

Troppo vivida.

Non mi spaventai nemmeno quando sentii le narici infiammate dall’acqua e i capelli vibrare come alghe, verdi, scure, molli, filiformi, dita di sguattera, dita di pianista, dita di puttana, ghirlande di Natale…

Listen, listen

“Margie, senti che carina ‘sta canzone.”

“Sei lunatica fino alla paranoia! Due secondi fa mi stavi per sbranare viva e adesso mi parli così?! Susa’, fai proprio paura.”

“Ma smettila, ché qui la paranoica sei tu! È bella, vero? È degli Evanescence, si chiama Listen to the rain.”

Listen, listen

Listen, listen

Listen to each drop of rain

“Stupenda… Me la devi passare! Che cazzo di gruppo sono gli Evanescence… Sono proprio bravi, a parte All that I living for.

“Ancora con questo fatto? Basta! Sei tu che non capisci niente!”. Risa.

“Ma dài, la cantante sembra un’assatanata tipo borderline quando canta quel pezzo!”

“Ma tu che ne puoi sapere, povera Margie, che sei figlia di un povero commerciante di articoli per la casa… Che triste triste condizione la tua!”. Altre risa, tante, cristalline.

“Ma smettila! Razzista di merda!”

“Dài, ché scherzo!”

Listen, listen

Finsi comunque che fosse la pioggia a frusciare e ad appannare i vetri e non qualche megabyte su un lettore MP3.

Ecco, ecco la storia! C’è scritto: [Capitoli: 4] Ha aggiornato!

Listen, listen

Desintonizzai i suoni del laboratorio, a parte il ronzio della ventola, il suo odore elettrico. E il fruscio… No, il fruscio non riuscivo ad eliminarlo.

Listen, listen

Pazienza, non era così sgradevole, anzi.

Ultimo capitolo. Bene, cliccai sul link.

Listen, listen

Listen, listen

Listen, listen

Aghi di pino fra le cosce. Fu quella la sensazione. Il cuore si liquefece, gocciolò copiosamente per un istante.

Goccia…

Listen, listen

… a…

Listen, listen

… goccia.

Listen, listen

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Capitolo 4
*** La nottola diurna ***


Senza nome 1

Salve. Specifico solo che la malattia citata in questo capitolo, la FFI, esiste davvero e comporta l’impossibilità di dormire per lunghi periodi (fino ai sei mesi) e porta inevitabilmente alla morte. Il soggetto affetto da questa patologia vive di allucinazioni, spossatezza lacerante e continua, ma non può dormire – esperienza che non augurerei a nessuno (o forse a qualcuno sì).

Buona lettura.

 

 

La nottola diurna

 

Non è una malattia, le dissero. Certo, certo che non lo era: era morta prima ancora di nascere.

Dana era stata scelta a caso fra i bambini che sarebbero nati nel 2087 – non che ne fossero rimasti molti, per la maggior parte erano stati macellati dai morbi diffusi dalle multinazionali farmaceutiche, dai virus-insetti creati da Lev Cvotyshova e dai ricercatori finanziati dal Ministero della Sanità ucraino, sotto l’ordine di Utako Kejimoto, ministro degli affari esteri di Dikaia. In verità, dire che Dana fu scelta a caso è un errore di lacerante profondità: le schede cliniche di ognuno dei genitori dei candidati e delle loro rispettive famiglie furono accuratamente esaminate dalla squadra dell’NRO statunitense, che, come si è detto, soffocò parzialmente il patriottismo con cui gli Dèi giapponesi (da Kira I all’attuale Kira IX) avevano promosso non nei confronti di Dikaia, bensì dell’antico Impero del Giappone, indifferentemente debole e arrendevole come prima della rivoluzione di Kira.

Dana fu l’unico feto considerato totalmente sano, senza alcun pericolo di contrarre malattie genetiche in una terra che per i malati riservava un ricovero eterno su un letto di cadaveri. Fu questa, dunque, la sua sfortuna: era ancora un’informe gelatina nel suo fragile mondo di placenta quando fu deciso che sarebbe diventata Boia.

Non sapeva che i lisosomi stavano ponendo la croce sulla sua tomba, divorando le membrane interdigitali di quei pochi centimetri di vita, di suoni taciuti, di occhi chiusi e ignoranti, di piedini zuppi di umori fecondi. Era quella Dana: un viso fluorescente sullo schermo di un ufficio dell’Ospedale di Stato di Kakyo.

E ora, signori miei, che testimoniate questa mia confessione rea e rancorosa, entra in scena colui che vi parla, che ascoltate con insaziabile sete, che vi tiene in braccio e vi fa un po’ male con le sue mani ossute, ma non importa, perché voi state bene fra le mie braccia. Voi mi volete bene, lo so, e io vi odio. Vi odio perché state bevendo da me tutto ciò che so, mi salassate senza pietà, attendete che io termini il mio racconto per poi dar fuoco alla mia lingua. Per voi sarà tutto come prima, mentre io sentirò il sapore amaro di bruciato sulle papille gustative.

D’accordo, inchioderò il camice al muro, impiccherò lo stetoscopio, amputerò le siringhe, perché non sono quelle le mie armi. Io non sparo, non soffoco, non avveleno. Io penso, dunque uccido.

La prima volta che incontrai Dana ero un grasso genetista, laureato in psicologia infantile nel tempo libero. Un grasso genetista e un grasso psicologo, insomma, mentre lei pullulava di corpuscoli in un utero umidiccio e unto. Il mio singolare modo di salutarla fu aprire uno spiraglio gelido e accecante nel suo buio e cocente letto di carne, trasferendola in provetta. Eccola lì, mentre si riproduce nel tepore di un tubo, eccola mentre muove una manina forse ancora palmata…

Mese per mese, la nutrii come un criceto e fui tentato di effettuare qualche esperimento sulla possibilità di anticipare il periodo di fecondità dell’utero femminile, fino a renderlo fertile non dalla nascita, bensì anche da prima, dal periodo fetale! Quanta esaltazione provai e fui costretto a reprimere in quei macabri mesi di piastrelle bianche, di leninismo intellettuale, di notti quotidianemante abbaglianti, di ronzii e cifre sonnolenti.

Fu in prossimità del settimo mese che utilizzai le cellule staminali.

Dopo aver modificato il loro materiale genetico, sostituendo un allele recessivo di un particolare gene con uno dominante, misi tali cellule in contatto con il corpo gommoso ed etereo della piccola Dana sfruttando in senso inverso le proprietà delle staminali: come si era venuti a conoscenza già agli inizi del XXI secolo, esse, in prossimità di un particolare tessuto, si mutavano nello stesso. Dunque, come ho accennato, io invertii tale proprietà delle cellule staminali, in modo che qualsiasi tessuto, in contatto con loro, avrebbe assunto la loro stessa natura.

Il primo gene che modificai fu quello che determinava la Fatal Familial Insomnia (FFI) e, successivamente, imposi all’argenteo corpicino, che, cieco, mi fissava, una costante introduzione di ormoni potenzianti l’attività mentale e fisica, in modo da anticipare la sua nascita e da non causarle la morte per FFI.

Quando Dana fu cotta a puntino nella provetta, il suo capo era perfettamente liscio e glabro. Appena “nacque”, ricordo, le sfiorai la fontanella, soffice e fatale, le premetti le dita su quella anteriore, la più grande, mentre Dana apriva gli occhietti marroni.

No, non fraintendete: non fu tenerezza, né senso paterno. Fu clemenza, consapevolezza del mio potere. Il regno di Kira non era mai stato governato dai politici, dai giornalisti, dagli imprenditori. No. Il regno di Kira era degli scienziati e degli Dèi. Kira era stato l’unico, sì, l’unico in assoluto a coniugare definitivamente scienza e dio; Kira non era solo un giustiziere, un abile statista, uno straordinario prodigio. Kira era… giusto. Semplicemente.

Gli effetti della FFI su Dana furono immediati e, l’11 Novembre del 2087, nacque la seconda Boia del governo di Kira VIII, colei che nei registri di Dikaia assunse il nome di Esperimento Lithium4-0103-5728-2092-8483-7381-92, ma sull’etichetta della sua provetta avevo scarabocchiato DANA e l’avrei chiamata sempre così. Dana Ørssen.

 

°°°

Dana Ørssen. Fu così che venni chiamata per i miei undici anni di vita da Ivano Glissani.

Non so nient’altro, a parte qualche miliardo di nomi e di visi.

Una sola voce, a parte la mia.

E poi… Poi non so nient’altro.

Ah, no: qualcos’altro c’è. So che Ivano mi ha cresciuta e che lui fa cose diverse rispetto a me. Lui dorme, per esempio.

Poi, so che gli scienziati cercano di sfruttare le malattie in modo intelligente e parsimonioso; io non sono malata, mi hanno detto. Ops, mi ha detto. No, non sono malata, perché Ivano dorme e io no. Il mio è un vantaggio, perché, mi dice, il resto degli uomini passa quasi un terzo della propria vita dormendo. Io no: io non spreco nemmeno un’ora, dice lui, e senza rischi, perché le vitamine e gli ormoni che assumo mi riabilitano all’istante. Una volta gli ho chiesto: “E nel resto della loro vita, cosa fanno?”. Non mi ha risposto, mi ha solo detto che ognuno nasce per qualcosa: lui, ad esempio, è nato per fare ricerche e per farmi nascere. Non capivo.

Poi mi ha spiegato che anch’io sono nata per qualcosa, il che mi ha sbalordita. “Tu”, ha esclamato poggiandomi una mano rugosa sulla spalla, “sei nata per scrivere. Capisci?”. Capivo.

Questo significava che scrivere era una mia specialità e che gli altri non lo facevano. Io scrivevo, scrivevo da quando… Da quanto? Non ricordo. Ivano mi ha detto che chi nasce per fare qualcosa, la fa da sempre e per sempre. Io scrivo da quando sono nata, mi ha spiegato. Non avevo ben chiaro come sentirmi, quindi continuai a scrivere, a guardare lo schermo e scrivere, a fissare Ivano e scrivere, ad ascoltare la sua voce e scrivere, a lamentarmi del mal di schiena e scrivere, a prendere pastiglie e scrivere.

Non sapevo cosa fossi, come fossi, benché Ivano mi indicasse i capelli asserendo che fossero corti e castani. “Corti? Che significa?”, gli aveva chiesto. “Che… che non sono lunghi”, aveva esitato. “Cioè?”. Avevo commesso l’errore di poggiare la penna sul foglio e di stiracchiarmi. Mi bastò un suo sguardo gelido per riprendere subito a guardare lo schermo e scrivere, fissare Ivano e scrivere, ad ascoltare la sua voce e scrivere… sempre.

Potevo fare tutto ciò che volevo, mi aveva spiegato molto tempo prima, a patto che continuassi a scrivere.

“Io ho i capelli corti, per esempio. Ma i miei sono grigi, mentre i tuoi sono del colore di… di questo tavolo”, affermò poggiando il palmo sul piano, accanto al Quaderno e alla mia mano, piccola e sudata. Annuii.

Donnie Rotten, Emilia Pennetta, Jakobo Unkani, Nicholas Coupliniatos, Moriko Kinoshiyo, Rafael De Fiona, Frie Suchtze, Ina Axhosa, Vincent Fleur…

Frie Suchtze, nella foto, aveva i capelli lunghi, notai. Ivano annuì. “I suoi capelli sono biondi; i tuoi sono come quelli di Vincent Fleur.”

“Sono belli”, sorrisi.

Spesso gli avevo chiesto perché dovessi scrivere: sì, ero nata per quello, ma perché?

“Ne abbiamo bisogno. Il mondo… No, cioè, noi due ne abbiamo bisogno, perché ci sono persone nate per fare del male e noi dobbiamo eliminarle. E sai perché? Perché siamo nati anche per questo. È semplice”. No, non mi convinceva affatto, ma non mi potevo permettere di non credere a Ivano.

“Vedi, ci sono persone che impediscono alle altre di fare ciò per cui sono nati. Non lo fanno per loro volontà… Ecco, questi individui lo fanno perché sono nati così, insomma. È un dovere. Tu devi scrivere, io devo educarti, loro devono distruggere i nostri propositi, noi, insieme, dobbiamo eliminarli.”

“E questo cosa c’entra con il fatto che io debba scrivere i loro nomi guardandoli in faccia?”. La mia voce trillò fra le pareti e mi si aggrappò sulle spalle, arrampicandosi timidamente.

“Non lo so”, rispose. Scoppiai quasi a ridere scagliando via la penna. Ivano rispondeva sempre alle mie domande, non era mai schivo ed evasivo. Rispondeva sempre, sebbene le sue repliche fossero assurde e io me ne accorgevo, pur non sapendo.

Non lo sapevo, non sapevo cosa c’entrassi io in tutto quel piano di eliminazioni e predestinazioni e, sinceramente, non mi importava: mi andava bene anche solo scrivere, guardare lo schermo e scrivere, fissare Ivano e scrivere, ascoltare la sua voce e scrivere, lamentarmi del mal di schiena e scrivere, prendere pastiglie e scrivere.

Scrivere.

Ultimamente le nostre giornate erano silenziose e lugubri: Ivano sonnecchiava guardando la penna muoversi, preparandosi a porgermene un'altra in caso che la mia terminasse. Un attimo di pausa, impercettibile e stridulo. A tre anni dalla mia nascita avevo già capito che il suo scopo era rendermi occulto il riposo, in modo che la mia autocoscienza non urtasse contro lo specchio. Scrivere, scrivere e nient’altro.

“Da quanto tempo sei vivo?”, gli avevo domandato quando ancora non riuscivo a tenere bene la penna in mano. “Quarantasei anni.”

“È tanto?”. Avevo sgranato gli occhi per la curiosità e i pixel dello schermo si erano sciolti insieme, fusi nella mia cornea. “I tuoi anni per ventitré”. Le mie pupille, se possibile, si restrinsero. Sentii quasi dolore. “E io vivrò così tanto?”.

“No”.

Rimasi sconvolta da quella risposta e non gli posi più domande di quel tipo. Ero avvezza alle diversità fra me e Ivano, ma quella… proprio non riuscivo a sopportarla.

Che vita era quella? Non sapevo dove mi trovassi, cosa fossi, chi fosse Ivano per me, come avessi fatto a trascorrere undici anni nutrendomi di pastiglie, mentre lui sbucciava pesche, disossava polli, soffiava su risotti bollenti, spolpava lische di pesce. E io masticavo dischetti amari e plastici. Perché? No, quello lo sapevo. “Tu non capisci che sei fortunata: la gente sa tutto su sé stessa, a parte il motivo per cui è al mondo. Muore per saperlo, fino a perdere quel minimo di consapevolezza che ha. Tu sei qui e ora per salvare te e me, non la gente. Mettila su questo piano: se tu non scrivessi centinaia di nomi al giorno, io non sarei con te. Non saremmo insieme.”

E quello, giuro, mi atterriva a morte. Benché le sue affermazioni fossero minimizzazioni riduttive – i nomi che annotavo erano migliaia – no, io non potevo lasciarlo. Ivano… Ivano era mio padre, il mio maestro, la mia finestra, le mie scale – sebbene non sapessi bene cosa fossero questi ultimi due oggetti, dato che non li avevo mai visti –, il mio specchio rotto – altrettanto sconosciuto ai miei occhi. Ivano mi aveva acquietata in quell’anno fra quelli che lui aveva chiamato menarca e menopausa. Mi aveva abbracciata stringendomi le spalle ricurve, mentre scrivevo e morivo, lì, sotto i pantaloni. Mi bruciava, mi premeva… Era orribile. E lui mi faceva delle cose… Che non ha più fatto.

“Stai meglio?”, mi chiedeva ogni volta che sentivo, sentivo quelle bizzarre e sofferenti vibrazioni. Avevo quattro anni, ricordo. Contavo le pagine del quaderno da quando Ivano si svegliava al momento in cui si addormentava con la testa poggiata al tavolo. Era quello che Ivano chiamava giorno, supponevo. Ogni giorno occupava circa quattrocentocinquantadue pagine.

Non ricordo, sinceramente, un attimo della mia vita in cui Ivano si fosse allontanato da me; certo, dormiva, ma controllava sempre che scrivessi almeno duecento pagine durante quelle pause. Mentre la sue testa grigia posava sulle braccia incrociate, io scrivevo e lo guardavo. Una volta gli accarezzai una tempia. Fu meraviglioso.

E, sì, mi sentivo meglio quando mi sfiorava quella specie di botte che mi sosteneva il collo, quella parte morbida sotto la pancia, quella curvetta compressa fra le cosce molli e flosce. E non riuscivo a scrivere con chiarezza, mi si appannava lo sguardo, ma non m’importava, continuavo a registrare volti e trascrivere nomi: non volevo che smettesse per rimproverarmi. Non volevo che smettesse.

 

°°°

Non doveva smettere.

Ero orgoglioso di Dana, della sua pazienza e del suo coraggio; non faceva troppe domande, soprattutto negli ultimi tempi, e aveva sopportato bene le dosi di ormoni somministratele per anticipare il menarca e la menopausa, in modo che non intaccassero il suo corpo nel periodo adolescenziale, quando il progesterone avrebbe potuto reagire contro gli ormoni che assumeva. La sua breve pubertà non le aveva cambiato l’aspetto in maniera drastica: a quattro anni il seno crebbe poco, mentre il resto del corpo ingrassò, soprattutto in prossimità dei fianchi e dell’interno coscia. Il sangue mestruale fu il problema principale, all’inizio, ma il dottor Xavier Surinho, con cui ero sempre stato in contatto mediante le fibre ottiche, mi consigliò di utilizzare lo stesso sistema creato per raccogliere l’urina: una lavanda turbinante estremamente potente e precisa che risucchiava il liquido denso in modo esaurientemente efficiente.

Sapevo che sarebbe comparso l’impulso sessuale, che l’avrebbe distratta. Signori, non datemi del perverso, non mi sembra il caso. Dovevo curarla in tal modo, in quanto gli inibitori dell’istinto sessuale erano ancora sotto sperimentazione e i risultati ottenuti non erano esaustivi. Il periodo di fertilità sarebbe durato un solo anno e toccarla non mi dispiaceva: era bella, pallida e malaticcia, flaccida e… tutta pelle. Era una bimba intelligente, adulta, moderata, che sapeva quando reprimersi e fermarsi, ma il sesso non rientrava nelle coercizioni umane. Non ancora, almeno.

Avvolgerle la vita era come governare Dikaia: ero un privilegiato e, signori, ne godevo fino all’osso. Inoltre, nonostante avessi condotto decine di esperimenti su esseri umani totalmente isolati dalla società sin dalla nascita, per comprendere quale fosse effettivamente l’origine dei comportamenti devianti e correggerli, Dana stimolava continuamente il mio desiderio di forzare le pareti, elasticizzarle e perforarle: di varcare i limiti della conoscenza, nonché di collaborare per cancellare quel mondo brulicante di individui latori delle peggiori intenzioni, stolti, maliziosi, ipocriti, passivi, vanitosi, eccessivi sia nelle attività corporali che in quelle cerebrali, presuntuosi e arroganti. O, almeno, il mio obiettivo era rettificare tali naturali deviazioni.

Poggiai la fronte al palmo della mano e strinsi l’apparecchio delle fibre ottiche in tasca, premendo il secondo tasto della quarta colonna.

“Sono le: quindici e trentanove minuti”, recitò la solita, accomodante voce femminile. Premetti il tasto successivo.

“Ti trovi a: Giappone, regione di Kyushu, prefettura di Okinawa, città di Naha, coordinate: 26°12′″di latitudine Nord, 127°40′″ di longitudine Est; superficie di 39,23 kilometri quadrati, popolazione di 532 individui. Sede del Ministero della Giustizia, piano sotterraneo meno otto, reparto cinque, corridoio ventiquattro, stanza uno. Se si desidera conoscere le condizioni atmosferiche, premere il tasto viola.”

“Piogge diffuse su tutto il territorio di Naha, con improbabili schiarite. Innalzamento delle temperature. Percentuale di umidità nell’aria: 91%. Press…”

Spensi l’apparecchio. Era quello che mi interessava sapere.

Le condizioni atmosferiche erano ideali per il mio progetto: il virus si sarebbe diffuso in maniera sistematica, attaccando il talamo e l’ipotalamo sottoforma di vaccino per qualche malattia stagionale. Il fago XD-360 sarebbe penetrato nel tessuto cerebrale attraverso il DNA e, se l’esperimento fosse riuscito, i Boia non sarebbero più serviti a nulla: la stoltezza, la stupidità, il crimine avrebbero abbattuto coloro che ne erano gli artefici. Autocombustione.

No, signori, no! So cosa state pensando – altrimenti i miei sette anni di corsi e specializzazioni in psicologia sarebbero stati vani. No, ascoltatemi bene: la vita di Dana mi era cara, ma non è per proteggerla che ho creato il suddetto virus. Non date sfogo – vi prego – ai vostri animi romantici e passionali ora.

Naturalmente, l’aiuto di Xavier si era rivelato fondamentale per lo studio della diffusione delle comuni patologie virali e io mi ero sempre premurato di farglielo notare, benché il progetto fosse ancora in fase di preparazione. Ma, ormai, era questione di settimane.

Mi sfilai l’auricolare dall’orecchio per un attimo, osservando Dana e i suoi unti capelli appiccicati alla fronte e al collo. Avrei dovuto tagliarglieli.

E lei? Cos’avrebbe fatto Dana? Se si fosse verificato un problema la cui risoluzione esigesse la mia presenza, io cos’avrei fatto? L’avrei lasciata… sola? Seppur per poche ore? Il suo corpicino dolce e stantio inchiodato a quella sedia… solo. La sola immaginazione della scena mi avviluppò nel suo nastro di terrore e delirio. Mai. Mai l’avevo abbandonata e mai l’avrei fatto, a costo… a costo di… sacrificare tutti i miei sforzi? No, quello era troppo.

L’avrei uccisa.

Liberata e uccisa, in modo che conoscesse almeno ciò che l’aveva incatenata per undici anni. L’avrei sollevata, le avrei insegnato a camminare come lei, da me, aveva imparato a parlare e a scrivere. Scrivere.

Non avrebbe più scritto, solo per qualche giorno. Poi, sarebbe morta. Uccisa. Purtroppo, per via della patologia che io stesso le avevo iniettato, avrebbe sofferto, perché non sarebbe morta nel sonno. Forse… un gas? Ma sì, poteva andar bene. Come lo chiamavano lì in Dikaia? Ah, seppuku.

Ucciderò gli stolti che le hanno fatto questo. Ucciderò gli stolti, non per la giustizia, non per misurare la mia genialità, non per vendetta, non per essere il dio di un nuovo mondo. Perché non volevo più registrare le loro figure al mio passaggio, perché non volevo più vederli, perché preferivo che non fossero mai nati.

Perché non potevano vivere.

E dovevano morire.

 

 

 

Perché non potevano vivere.

E dovevano morire.

Perché non volevo più vederli… Le loro figure… Ucciderò gli stolti che le… Al mio passaggio… Perché preferivo che non fossero mai nati… Ucciderò gli stolti.

Oh, sì che lo farò.

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Capitolo 5
*** Cenere ***


Salve. Vi avverto: tutte le scorrettezze grammaticali e le aberrazioni linguistiche (compresi gli errori di battitura), se scritte in caratteri diversi da quelli normalmente utilizzati nella narrazione, sono volontari (o frutto di uno spietato autolesionismo).

Inoltre, devo delle spiegazioni al mio caro (e unico, ma, come vedrete, non lo dico mariagrazianamente) recensore, Bael: innanzi tutto, la mia concezione di metafora è sfasata e incoerente, ma io uso questo accorgimento proprio per distrarre o, meglio, per deviare il continuo (e forse anche monotono) svolgimento narrativo, per “staccare”, insomma. Spero che Susanna e Mariagrazia ti piacciano anche in questo capitolo, benché la loro amicizia non sia molto manifesta, almeno qui. Vedrai, ma ti prego di non fraintendere: il loro non è un rapporto casuale o di convenienza; si chiarirà con il tempo. Ti ringrazio per le tue recensioni, sono davvero piacevoli, complete e divertenti!

Poi, dal prossimo capitolo credo di schiacciare l’interruttore “Azione”, sul cui tasto fino ad ora si è posato uno spesso velo di polvere. Le incoerenze narrative sono delle brutte belve!

Infine, due precisazioni: capirete leggendo che il titolo del capitolo era alquanto scontato (nonché nauseante, se riuscirete ad arrivare al termine della pagina senza maturare un intenso istinto omicida di martiniana memoria XD); inoltre, la frase citata nel capitolo, riportata a penna su una sedia, proviene da Mama dei My Chemical Romance.

Buona lettura.

 

Cenere

 

Non riuscii proprio a ricordarmi come fossi arrivato in bagno.

E da quant’è che mi sto facendo una sega?

Sentivo la fronte gelida, cristallizzata in un limpido torpore.

Liscio…

Le mattonelle.

Il bagno.

La porta difettosa.

La luc…

Cazzo, la porta!

Quel sottile rettangolo verde opaco era socchiuso.

Cazzo cazzo cazzo cazzo!

Per fortuna i corridoi erano deserti.

Nessuno aspettava che si liberasse una cabina.

Nessuno si lavava le mani con il sapone annacquato della scuola.

Come ero potuto rimanere mezzo nudo con la porta semichiusa?

Senza staccare la fronte dalla mattonella celeste, afferrai la maniglia e feci schioccare la porta sullo stipite, come una frusta. Continuai a stringere la gelida maniglia.

Leccai languidamente con lo sguardo il cerchietto metallico dello scarico, le scritte sulla superficie ruvida della porta:

 

Sukkiamelooo!

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ANTIFA FINO ALLA MORTE

Caterina 6 bona

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Cominciai ad ansimare prima di iniziare, come facevo sempre.

Il pavimento bagnato tramontò sotto le mie palpebre. Polvere e vento. O polvere al vento?

Ah.

Frammenti di foglie, forse. Foglie cadute. Ma è quasi estate, non cadono le foglie! Qualcosa doveva essere: la polvere non nasce così, all’improvviso.

Peli, piccoli gomitoli di peli, di gatti e di cani, di pubi e capelli. No, no, no, nononono, Non va!

Ah…

Il rumore mi disgustava, ma era meraviglioso solo perché lo producevo io.

Sangue, sangue, sangue che si muove. Scorre, fruscia, fluisce, mesce, scande, scende, scivola, scia… Scia di polvere sul pavimento pisciato.

Polvere, ancora polvere? Di che cazzo è fatta la polvere? ‘Fanculo alle mie domande del cazzo.

Polline. Api. Friniscono, frullano, vibraaa…no. Polline, fiori, petali tremano al vento e… Cazzo!

Ah!

È il vento che porta la polvere? No, polvere e vento. La congiura delle polveri, come V per vendetta. Polvere e vento. E fuoco nel Parlamento. Urla, urla ridicole. Lagne. E fuoco dappertutto. Legna bagnata che brucia. E fuoco sulla polvere. E polvere sul fuoco e vento infuocato e polvere di vento e fuoco ventoso e fuoco e fuoco e fuoco e fuoco e fuoco e fuoco e fuoco e fuoco…

Aaah…

E polvere bagnata e acqua in polvere! E pioggia di vento e vento liquido! Liquido… Fuoco liquido, spugnoso, denso e spumeggiante, dolce fuoco effervescente, corposo e leeento, magma amalgamato, torrente di crema… Infuocata. E… E… E no, nonono, acqua no… E polvere di fuoco. È polvere di fuoco. È polvere. È fuoco.

È cenere.

AAAAAAAAAH!

Rauco, come se avessi ingoiato sacchi di polvere. Cenere bollente.

Cenere!

Ecco, cenere. Polvere di fuoco: cenere.

Ecco. E-ecco, sì.

Riaprii gli occhi e strinsi di più la maniglia, sibilando.

Espirai pesantemente.

Percepii il sudore sulla fronte solo quando la sentii tesa per l’attrito contro la parete. Incastrai l’unghia dell’indice nella fessura fra una piastrella umida e ghiacciata e l’altra e grattai via lo sporco.

Stridette.

Mi dolevano le orecchie e i tendini dell’avambraccio destro sussultavano appena stendevo il braccio.

Mi accovacciai poggiando la parte superiore della testa e i palmi sudati sulle piastrelle, cercando di asciugarmi le mani sulla parete bagnata.

Richiusi gli occhi.

Cenere.

Mi sentivo come drogato, allucinato: colori abbaglianti, sensazioni amplificate, urla metalliche, narici infiammate, come se respirassi cenere.

Non riuscii a calcolare quanto tempo trascorse prima che mi sollevassi e capissi. Come le campane, superai il mio stesso pensiero, concentrandomi su quello successivo prima ancora di aver formulato il precedente. Può succedere, può succedere che non esistano più! La fan fiction, il capitolo quattro… Senza manie di grandezza, posso eliminarli tutti. Non si tratta di fingere che non esistano, io posso ELIMINARLI.

Non avrebbero avuto più nome, viso, voce, vista, appartenenza, azione, storia, sensazione… Neanche la più elementare intuizione.

Senza geni, senza rivalità megalomani, nessuna vendetta, nessun piano narcisistico.

Eliminarli.

Non vederli mai più, non ascoltare le loro lagne sullo sfondo di cieli color cenere, il suono dei tacchi sull’asfalto, i risolini, pareti brulicanti di aspiranti parassiti, soffocamenti di finestre chiuse, arie fumose e vetri appannati, sbarre, sbarre alle finestre, alle sedie, ai banchi, alla lavagna… Silenzio.

Un nuovo mondo, piccolo ma nuovo.

Ma quale nuovo mondo!

No, d’accordo: non era una spedizione punitiva contro le folle di giovani diversi da me che si accalcavano nei loro accampamenti, come tanti leziosi Hänsel e Gretel che leccano pomelli e appendiabiti.

Non era la pace umana universale che cercavo: era la mia; il mio piacere. Spingerli uno per uno dal punto più alto dei binari delle montagne russe, ognuno nel suo carrellino, verso un tunnel, magari verso un forno crematorio. Risi.

No, neanche questo era esatto: non era il gesto soddisfacente, ma il risultato: morti, spenti, mai esistiti. Chi avrebbe mai potuto asserire che, una volta, molto o poco tempo prima, fossero vissuti? Prove non ce ne sarebbero state. No no, tutto pulito.

La cerniera dei jeans fluì tranquillamente e la cintura scorse flessuosa fra i passanti. La fibbia era ghiacciata e mi gelava la pancia; puzzava di sangue. Sarà l’odore del metallo.

Mi riordinai i capelli canticchiando a bocca chiusa una strana melodia che, mi accorsi in seguito, altro non era che Unforgiven II dei Metallica.

 

Come lay beside me

This won’t hurt I swear

She loves me not

She loves me still

But she’ll never love again

 

Tutto fottutamente pulito e non li avrei più visti, mai più. Mai più. Sembrava una frase da Ugo Foscolo: Ne più mai toccherò le sacre sponde… O era “Né mai più”? Oppure Primo Levi, Se questo è un uomo. Non bastava lavorare nel fango, collezionare vermi e sporcizia, uccidere per un pezzo di pane, non scaldarsi davanti al focolare domestico, darsi al martirio perenne per dubitare se questo o quello fosse un uomo: la dignità era cenere in un setaccio dai buchi troppo larghi.

 

She lay beside me

But she’ll be there when I’m gone

Black heart starring darker still

But she’ll be there when I’m gone

Yes she’ll be there when I’m gone

Dead sure she’ll be there!

 

La dignità sfuma di botto, come porte pesanti. Sbattono e lo schiocco implode.

“Voi non avete capito niente! Ragazzi, regolatevi, fra dieci giorni avete gli esami e io non voglio fare figure portandovi con il sei quando la sufficienza vi repelle completamente!”

Che dignità può avere una ragazza che si svende per evitare la demolizione?

“Prof, per favore, non mi mandi fuori… Dài, prof, veramente! E che cazzo, però… Stavano parlando tutti, perché punite solo me?”

Che dignità può avere un ragazzo che strascica i piedi nella melma per vedere quanto si sporcano?

“Raga’, queste patatine sanno di merda… Ma che cazzo ci mettono nel distributore, gli avanzi di tre anni fa?!”

La dignità è usare bene sé stessi.

“Ora pure le femmine hanno il pisello? Com’è che il bagno delle ragazze è tutto pisciato?! Ma tutto in questa scuola capita, io non lo so…”

Il proprio corpo, la propria mente. Usarsi in modo intelligente e utile.

“Sono tutti occupati i bagni?”

Utili a sé stessi, perché, in fondo, viviamo per quello.

“Penso di sì… Forse quello è libero.”

Spinsi definitivamente via la porta solo quando mi resi conto che aveva strillato la campanelle e le urla si accavallavano, una in groppa all’altra, galoppavano, frenetiche, di classe in classe, di corridoio in corridoio, di gola in gola.

Io… io non ce la faccio. Non riesco a vivere sapendo che sono vivi, che la loro pelle potrebbe sfiorarmi, le nostre ceneri mischiarsi, i nostri capelli annodarsi insieme, gli uni agli altri.

Non avevo mai inteso così profondamente il mio odio nei loro confronti: ovattato, pacato, monotono, come attutito da un cuscino, come se ci fossimo trovati in un letto enorme, l’uno sopra l’altro, raggomitolati, rotolanti su migliaia di cuscini e materassi, uno sopra l’altro. Come cadaveri.

Tanto fra un po’ mi passa. E poi era l’ultimo giorno di scuola: non li avrei visti per tre mesi, sarei dovuto essere felice.

Ma no, no, no, no! Perché mi illudevo? Non era questione di vicinanza o lontananza: si trattava della semplice esistenza.

Mi sarebbe passato comunque quell’entusiasmo: era troppo, non riuscivo a sopportare quella mancanza di apatia. Sì, magari dopo mi sfogo un po’ giocando alla Play Station 3, magari a… Anzi, no! Ho portato la PSP.

Quando tornai in classe, mi accorsi che l’aula era ancora vuota: probabilmente erano ancora tutti in laboratorio. Un’atmosfera surreale mi strappò via dal mondo, luce su luce, grigio su grigio, notte su notte. È così bella un’aula vuota. Provavo la stessa sensazione che infonde un teatro deserto, un palco ticchettante di piedi invisibili, rombante di canti muti, cangiante di colori insipidi; una sala di danza, il parquet ammaccato da scarpette vaghe, le pareti specchiate che riflettono sé stesse all’infinito… e altro, la frenesia dell’eco di una radio spenta all’improvviso o di un CD che sta per girare nel lettore… Un letto sfatto impregnato di saliva, sudore, capelli, unghie e fantasie, le piaghe grinzose delle lenzuola accoccolate sulla sagoma di un corpo in un materasso.

Sarebbe bello se rimanesse tutto così. Carte sui banchi, legno colorato, ferro, cemente, mattonelle e nostalgia. No, non nostalgia: non mi mancava nulla di passato, semmai ero lieto che fosse trascorso. Cos’era? Malinconia? No, non mi ero addormentato in mare – era questa la sensazione che mi allagava il cervello quando pensavo alla malinconia. E non si tratta di questo.

Camminai lentamente fra i banchi, osservai i bicchierini di caffè dal fondo bruno per i residui di bevanda rimasti, la striscia nera del banco impiastricciata di bianchetto; decifrai un Camilla in caratteri gotici e, su un altro banco, L, nella calligrafia speciale del manga, seguito da IGHT. Mi concentrai sulla superficie marroncino della sedia incastrata fra le gambe del banco e notai un tratto fino sullo schienale:

 

Well, Mother, what the war did to my legs and to my tongue

You should’ve raised a baby girl

I should’ve been a better son

 

Un diario spalancato su un banco, il segno tenuto da una penna; schiacciai le pagine che si aprivano a ventaglio per leggere una scritta che avevo intravisto attraverso la coda di pavone della carta: Oggi, un’altra affollata solitudine di scuola: l’ultima. E penso a quando mi riporterà la scarpetta quel principe bastardo contro cui l’ho scagliata. Riccioli intrecciati con un pennarello doppio e arancione.

Boccette e giornali di moda su un altro sottobanco rivestito di chewing-gum. Mi morsi un polpastrello e raccolsi una bottiglietta di profumo a forma di spirale che confluiva in una sfera dentata blu cobalto, facendola scivolare sulla superficie liscia del banco. Frusciò nel silenzio cimiteriale della classe.

I resti di corpi mai esistiti

(mai esistiti mai esistiti mai esistiti mai esistiti)

rendevano quell’arido squallore una viscida fanghiglia, appiccicosa e umana: auricolari imbrigliate, incisioni nel legno, libri spiegazzati, astucci rovesciati, sciarpe esanimi, gocce e aloni, puzza di disinfettante.

Passai il dito su un’iscrizione di chissà quale epoca, seguendone i contorni distrattamente, senza accorgermi di cosa fosse. Grattai via i trucioli di gomma imprigionativi con l’unghia.

 

y – y0 = m (x – xo)

decifrai alla fine.

Tante gracili grucce spoglie, magari qualcuna era protetta da un velo di plastica trasparente, ma era evidente che anche quelle erano nude; ossa, ossa gettate su marciapiedi umidi, coperti di gomme da masticare indurite.

Non c’erano più.

Non esistevano.

E, sì, era splendido.

Era come respirare polvere soporifera o cocaina: era tutto perfetto e se fosse rimasto così…?

Tremai.

Era come...

Chiusi gli occhi.

Come se… Come se fossi su uno scolapasta gigante, in altomare, e vedessi da lontano L’isola che non c’è, il punto più alto dell’isola… E ci sto arrivando, cazzo, ci sto arrivando, remo con le mani, ma ci arrivo. E gli squali non mi prenderanno, non esisteranno perché io vorrò così.

Era un’idea pazzesca: ucciderli tutti? Tutta la classe? Tranne me, ovviamente: e i sospetti piomberanno su di me. Come, poi? Come ucciderli? Prenderli uno per uno, sottoporli ad una tortura diversa e straziante, facendomi chiamare The Punisher…?

No, eliminarli.

Non sarebbero più esistiti.

La sofferenza era sempre un sensazione che faceva capo all’esistenza e, no, no no no, non l’avrebbero avuta.

Annullamente.

Le vostre tracce non incresperanno l’acqua.

Che pensiero assurdo. Eppure sorrisi per averlo formulato.

Azzeramento.

Niente, il nulla. Il Mu, avrebbe commentato Ryuk.

Oh, ma certo! Voglio uccidere ventitré tizi e non ho nessun dio dalla mia parte… Non ce l’avrebbe fatta Light, figuriamoci io.

La solita crisi, sempre la solita crisi: pensare rendeva incoerenti, l’avevo sempre sostenuto.

No, l’avrei fatto: senza alibi, senza dèi, senza genialità li uccido. Li uccido tutti quanti insieme, avvelenandoli come parassiti con… con… con diserbanti o… che ne so…?

Lasciai perdere: non avevo bisogno di ufficializzare nulla, né di spiegare la mia decisione: l’avrei fatto e basta, a costo di ammuffire in una cella umida e ghiacciata. Mi bastava che morissero, che i loro germi andassero in malora con loro.

Urtai l’angolo di un banco con la coscia.

“Good morning!... Ehi, Blackhand, dov’è il resto della classe?”. Sussultai.

Solo la professoressa d’inglese storpiava il mio cognome in quel modo: la Rosangeli posò la cartella di pelle bruna sulla cattedra e infranse in mille pezzi quella rabbiosa, indomita malinconia. Non la odiai per questo, come non sia odia la propria mamma per averci vomitati in quel deserto gremito che è il mondo.

“Oh, ehm…”, esitai spaesato. “Sono nel laboratorio d’informatica col professor Recchia, ma penso che torneranno presto, perché…”

“Okay. È che devo interrogare ancora tre persone, ti rendi conto? E poi devo definire il voto ad altri”, sbuffò aprendo la cartella con uno scatto. Il viso rugoso coperto dai capelli biondi sembrava quasi piacevole – o forse era la suggestione del mio umore particolarmente positivo.

“A proposito, tu sei preparato per oggi?”

“Eh?”, biascicai con voce roca. Mi schiarii la gola e feci per continuare.

“Hai un sei e mezzo, un otto e un sei più e, sinceramente, vorrei metterti proprio otto ai quadri, però devi venire all’interrogazione”. Scorreva il registro con una matita consumata e dalla punta quasi piatta.

“No, meglio di no. Cioè… Non ho studiato”, sbottai; riposi la boccetta di profumo dove si trovava prima e mi avviai verso il mio banco, scavalcando zaini tristemente bivaccati sul pavimento come cadaveri.

“E allora ti metto sette ai quadri, non posso mica inventarmi i voti, eh, sorry”, esclamò come se fosse stata offesa nella sua intima dignità di essere umano.

Mi strinsi nelle spalle con un’espressione sarcastica, augurandomi che non mi stesse guardando; mi sedetti trascinando la sedia.

Light, di profilo, ghignava esultante e beffardo su un quadrato d’inchiostro.

Non mi serve un Death Note per impazzire.

Sì, era tutto pazzesco e folle, un’idea matta, inaudita.

Fenomenale e prodigiosa.

Straordinaria.

E confortante.

Non m’importa, non m’importa niente! Vi fotterò tutti, renderò la mia vita migliore. E la vostra sarà un effimero cumulo di ceneri.

 

***

La cenere della sigaretta di Raffaele cadde sulla tastiera nera e si accumulò fra Invio e ò.

Era lui?

No, non era lui.

Non ha il segno del tacco. Anzi, no, della punta: non mi sognerei mai di indossare scarpe col tacco!

Ma figuriamoci se poteva essere il tecnico del laboratorio d’informatica. Sospirai e fissai la mano di Susanna sul mouse.

“Raga’, muovetevi, se no la Rosangeli s’incazza, su!”, sbraitò Recchia. Lo ignorammo tutti.

Oh, Dio! Lo sapevo, questo è uno di quei giorni in cui rivedo Notting Hill e Romeo + Giulietta fino alla nausea! No, in realtà non mi dispiaceva naufragar in questo mare, era dolce. Così dolce… Ah, già, avrei anche sfogliato il libro d’italiano di mio fratello cercando la voce di Leopardi.

Ho sbagliato epoca. Sarei stata un’ottima Silvia per lui, una sanguinaria Fanny all’occorrenza; gli avrei circondato le spalle mentre si dedicava al suo studio matto e disperatissimo, avrei raccolto le sue sudate carte, l’avrei difeso dalla madre bigotta, aiutato a fuggire dalla stantia Recanati, saremmo corsi via insieme in una brumosa notte di novembre, lontano, lontano… Ci avrebbero maledetti e, cazzo, avrebbero avuto ragione! Gli avrei strappato la penna di mano e l’avrei stretto a me, lo avrei ispirato e irritato stropicciandogli le poesie, gettandolo fra i rovi, baciandolo fra spighe di grano che si sarebbero chiuse su di noi… E tutti giorni sarà attesa per il seguente, perché ci sembrerà migliore, anche se non lo sarà; non ci saranno sere del dì di festa, solo sabati, sabati, migliaia e migliaia di sabati! Sabbatiche malinconie reciproche, capricciose e belle, e le colombe di Saffo sorveglieranno i nostri corpi avvinghiati e disperati.

Mmm, magari avrei potuto usare quelle immagini per una fanfiction. Sbuffai.

Quando la smetterò di cercare uno spasimante in ogni individuo che mi si presenti davanti? Ora mi interesso anche ai morti, e brava alla necrofila!

Ritornai a ripetere la lezione d’inglese. The sole trader, as known as proprietorship, is a type of business owned and run by one individual and doesn’t imply legal distinction between the owner and the business; it’s called sole because the owner…

Se ora fossi in un liceo classico starei ripetendo Shakespeare, non questa merda, pensai amaramente appena mi accorsi di leggere solo per inerzia. Sbuffai: non avevo il coraggio di chiudere il libro e lasciar semplicemente perdere.

“Sempre a sospirare oggi?”, si lamentò Susanna. La ignorai: detestavo la sua lunatica incostanza. Insomma, o mi mandi a fare in culo una volta per tutte, o accetti le mie idee. Mi innervosiva.

Sorrise.

Ecco, appunto.

“Che c’è?”, indagò distrattamente.

Fissai i contorni dei suoi occhi truccati e mi vergognai di invidiarla, mi vergognai fino ad arrossire, probabilmente.

“Hai una nuova recensione, comunque.”

“Davvero?”. La schermata di EFP mi accecò; sbattei gli occhi e mi avvicinai al monitor facendo scricchiolare la sedia.

Susanna si protese verso di me fissandomi intensamente – non la guardavo, ma mi sentivo rivestita della sua attenzione; non era una sensazione piacevole, in effetti – e sussurrò con evidente sarcasmo.

“Sai cosa dice quella grande saggia di mia madre? Sospir cuor mio, ragion tu hai: aver l’amante e non vederlo mai. Proprio patetica, ma è una frase che ti si addice in questo caso, no?”.

In quel momento la odiavo, la odiavo come un corpo estraneo penetrato nel mio sangue… Mi dava fastidio. Che cazzo vuole? Prima mi offende dicendo che sono ingenua, si illude di essere uno schifo di serial killer, e poi fa la simpaticona, come se potesse spazzar via tutto così. Ma vaffanculo!

“Che intendi dire?”. Sorrisi, nonostante i miei pensieri: meglio non discutere troppo con lei, precipitare sembrava così semplice.

“So cosa stai pensando.”

Grazie, ora sì che mi illumini.

La sua voce solenne mi spaventò impercettibilmente; cominciai a disegnare stelline e occhi in stile manga fra un paragrafo e l’altro del libro d’inglese.

“Sospiri perché ti piace Recchia, vero? Eh, lo so, anch’io ho avuto una cotta per lui al pri…”

“Ma sta’ zitta! Sembra Babbo Natale versione barbone-della-stazione!”.

Sospirai, ma stavolta mentalmente: sì, sorrisi al suo sorriso e la fisai ancora, la dimenticai e la recuperai in un secondo; pensai a quanto la detestavo. Come cazzo farei senza Susanna?

Il mio sorriso si spalancò e non capivo se fosse dettato da una prudente ipocrisia oppure dalla sincera sconsideratezza.

“Ti adoro quando fai così”, le confessai seria.

“Solo quando faccio così?!”. Si finse offesa e altezzosa.

Solo quando non fai il serial killer giustiziere.

“Ma no, ti adoro sempre!”. Poggiai la testa sulla sue spalla e lessi la recensione che mi indicò.

 

Recensioni per “Dead boy’s poem – Light’s prayer

 

 

Recensione di Samyra [Contatta] del 09/06/09 – 00:42PM al capitolo 1: Dead boy’s poem – Light’s prayer – Firmata

Wow, bella songfic, davvero ^^ appena ho finito di leggere la tua longfic mi sono subito gettata sulle oneshot… Dopo tante ficcy su L, finalmente una sul dio… XD Va bè sono di parte, ke ci vuoi fare! Cmq, la scelta della canzone dei Nightwish come putno di partenza è geniale, soprattutto il pezzo: “created a kingdom, reached for the wisdom, failed in becoming a God”… *_____________* che pena x Light, è stato orribile… soprattutto la puntata di ieri sera, ma non usciamo dall’argomento, se no le amministratrici mi eliminano la recensione come hanno fatto l’altra votla, grrr… è_é dicevo, la ficcy è molto struggente, mi ha colpito molto… quasi quasi mi mettevo a piangere!!! va bè lascia stare, sono melodrammatica (o mello-drammatica in questo caso! XD) (suicidati! Ndte) (eh, hai ragione… sarebbe un bene x la società! ndLight)… Va bè, spero di leggere presto qualche altra cosa di tuo… chao chao ^^

 

 

“Ma chi è ‘sta cogliona?”, mormorò Susanna soffocando una risata in un grugnito.

La colpii lievemente alla spalla. “E dài, quanto sei cattiva! È stata molto sincera…”

Sei recensioni in meno di dodici ore, che bello!

“Be’, su questo non ho dubbi, però… Insomma, questi fenomeni da baraccone mi stanno un po’ sul cazzo”, soffiò Susanna. “Ma almeno danno un po’ di vita ad EFP.”

Ridemmo insieme.

“Figurati, tanto non me ne frega niente delle recensioni. Sai che per me l’importante è scrivere”, esclamai.

Sei recensioni! Dovrei scrivere un’altra long-fic. Qualcosa m’inventerò, l’importante è avere i lettori in pugno.

“Fai bene. È difficile trovare dei recensori veramente bravi.”

E pensare che alla prima oneshot che ho scritto hanno recensito solo due persone in due anni e mezzo.

“E tu che mi dici?”, le chiesi.

Mi fissò: la pelle bianca delle guance era solleticata da qualche ricciolo floscio e sensuale, il mento poggiava sulle nocche della mano destra, gesto che rendeva la sua posizione elegante e superba. Aggrottò la fronte, come per domandarmi cosa intendessi dire.

“Le recensioni, intendo. Cioè… Qualcuno ti ha lasciato qualche commento all’ultimo capitolo della storia?”, chiarii.

Il professor Recchia si stava avvicinando alla nostra postazione elettronica con aria minacciosa; mi guardai intorno: solo io e Susanna eravamo ancora sedute, gli altri si avviavano verso il corridoio stiracchiandosi e schiamazzando. Grattai il pavimento con la sedia e raccolsi il libro d’inglese. Speriamo di farcela a ripetere in classe prima che arrivi la Rosangeli.

Imitandomi, Susanna fece schioccare le dita indolenzite.

The Electric Metempsychosis, dici?”

 

 

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Capitolo 6
*** Poison de Garce ***


Senza nome 1

Un salve particolarmente lieto oggi, visto che questa fanfiction svetta fra le storie scelte di questa sezione insieme, fra le altre, a Prometheus di Bael, che ho letto con immenso piacere e ansia. Dunque, ringrazio coloro che hanno reso possibile tale evento, ossia Mote_Ely e Bael.

Sono lieta che Atari sia così attratta dalla mia storia e, soprattutto, che si immedesimi in Martino, perché è proprio questo che mi preme, ossia: io desidero davvero che lo capiate, che non crediate precipitoso il suo giudizio – l’immedesimazione è qualcosa di diverso e ambiguo, merita altri tipi di trattazione.

Rivolgo la stessa gratitudine a Mote_Ely, con l’aggiunta di qualche dettaglio: mi rallegra che la mia storia accenda in te questo tipo di suggestioni, però ti consiglio di non fare troppo affidamento su questa fonte. Intendo dire che una storia può, sì, avere un’utilità ed è compito del lettore cercarla – se c’è – o desumerla in qualche modo; la mia storia ti ispira e mi fa piacere, lo ripeto, però sarei felice se ti piacesse solo perché… è lei, per la vicenda in sé, per la sua identità di storia. Non so se sono stata chiara, ma, comunque, tu sola sai in che modo ti aggrada questa storia e io ne accetto qualsiasi variante, quindi ti ringrazio. Quanto a Bael, sì, Martino è davvero buffo, un po’ disadattato anche lui, in realtà. Insomma, non solo i tipi seriosi e lungimiranti come Light possono spassarsela, no? XD Mi dispiace che Mariagrazia non ti sia piaciuta: vedi, in seguito si capirà che non è solo una ragazza depressa, ipocrita e rancorosa. Emergerà sicuramente un suo lato differente (neanch’io sono di parte). Infine, Susanna è adorabile, lo so bene – capricciosità a parte XD.

Buona lettura.

 

Poison de Garce

 

Era viola e rettangolare, scivolò sul banco come su una lastra di ghiaccio.

 

Comincia ad aspettare cn me il giorno + importante della mia vita… Festeggiamo insieme il mio 17esimo compleanno! 19 giugno, ore 22, discoteca Poison De Garce, via Carlo Cattaneo 11/c, privet n° 2… Ci divertiremo… Ilaria (:

 

Come se tutti i compleanni precedenti, compreso quello, fossero stati festeggiati in funzione del diciottesimo. Oh, Dio.

Stropicciai il più possibile il cartoncino e me lo ficcai in tasca.

“Ehi, Ilaria ti ha dato l’invito?”, mi domandò ansioso Aldo.

Annuii.

Mille irritanti pulsazioni al diaframma mi avvertirono che ero agitato.

“E ci verrai al suo compleanno? La discoteca è bellissima, è vicina alla Foresta di Mercadante, quindi è un po’ lontana, verso Bari, ma il padre di Ilaria è un autista di pullman, quindi potrebbe anche…”

Te l’ho chiesto?!

“Il venti Alessandro ha la prova scritta d’inglese e io devo accompagnarlo, non posso ritirarmi tardi.” Non avevo affatto voglia di discutere, quindi utilizzai mio fratello come scusa: in effetti, gli scritti degli esami di terza media sarebbero terminati il diciannove, ma Aldo non avrebbe mai potuto saperlo.

“No, Marti’, devi venire assolutamente!”. Francesco si materializzò alle mie spalle – me ne accorsi prima con l’olfatto che con il resto dei sensi: l’odore di patatine marce mi fece arricciare le labbra.

No.

Aspetta, no! Ti prego, non lo dire…

“Perché?”, domandò Aldo fingendosi confuso e ridendo con le narici da toro.

No! No, è finita.

“Aldo, mi deludi! Perché… No Martino, no party!”.

Oh mio Dio.

Fui assordato da un boato di risate, che culminò in una bonaria manata di Francesco sulla mia spalla ricurva. Questa trita battuta circolava dal primo anno delle superiori e mi perseguitava alla vigilia di ogni ricorrenza, festa, sciopero, manifestazione e Santo Patrono di Rotunno che fosse. A che serve ridere? Tanto morirete tutti.

Fu folle pensarlo e, ciononostante, ne fui estasiato. Risi a bocca chiusa, ma in modo sorprendentemente naturale.

Aldo mi fissava e rideva, per la battuta di Francesco, supposi.

Io fissavo Aldo e ridevo, perché sarebbe morto.

Altro che pullman e feste e bicchierini di carta e pizzette e nubi di fumo e luci brillanti e malizia e sesso mascherato da ingenuità.

Magari proprio lì morirai, mentre Khadija, per pietà, ti avrà consentito di toccarle il culo, o mentre ti divertirai con Francesco nella gara di rutti o di chi viene per ultimo durante una sega di gruppo, oppure mentre ti fai fare le peggiori porcate nel pullman da…

Sì.

Sì sì sì!

Sì.

Sì, era perfetto: Li uccido tutti insieme, autista compreso – tanto è il padre di Ilaria, faccio un favore ai compagni di scuola dei suoi eventuali rampolli.

Ma sì, non è affatto male come idea: li prenderò tutti insieme, come polli. Sì.

Mentre la voce di Mariagrazia – ipotizzai – squillava per l’aula, caricando e sparando duecento parole al secondo, come una mitragliatrice di Call of Duty, inceppandosi molto spesso, inspirai.

Non mi accorsi delle pozzanghere tenebrose che ingrigivano l’asfalto, i coperchi dei tombini e le griglie della fognatura, né dei flotti d’acqua ingurgitati dai canali di scolo sotto i marciapiedi, ma di una cosa mi resi conto: ero pazzo a voler uccidere tutti i miei compagni di classe. Pazzo e giusto.

 

***

Era viola e rettangolare, scivolò sul mio banco come un insetto e mi colpì il mignolo con l’angolo appuntito.

Spiegazzai l’invito e lo scagliai nell’astuccio.

“Che palle, un altro schifo di festa”, sputai con una smorfia.

Mi guardai intorno: la professoressa Rosangeli stava per interrogarmi, Ilaria saltellava di banco in banco per distribuire gli inviti; il color prugna dell’extension che le pendeva dalla tempia destra mi incantò.

“A-ah, infatti”, mormorò Khadija in tono indolente.

“Ah, senti: se sono in difficoltà e non hai niente da fare, potresti suggerirmi?”, le chiesi guardandola speranzosa. I neon le schiarivano la pelle della fronte, mentre il collo sembrava di cuoio, sfiorato appena dagli orecchini a mezzaluna che riflettevano l’ambiente grigiastro.

“Sì sì, tranquilla”, sorrise.

“Ah, Khady, questo è per te!”, squittì Ilaria sventolando un altro invito e mettendo in mostra il polsino rosso con il disegno di una foglia di marijuana; si curvò sul banco di Khadija: fui ipnotizzata dall’oscillare di una croce argentata e cosparsa di strass pendente dal suo collo abbronzato.

“Grazie, tesoro!”, pigolò Khadija con voce innaturalmente acuta. Si abbracciarono brevemente, sempre sorridenti, e Ilaria tornò alla sua attività di distribuzione.

Khadija stracciò il bigliettino di cartone e ne gettò i brandelli in cartella.

Mi venne voglia di dondolare con la schiena avanti e indietro, come i pazzi di quel documentario sui manicomi che avevamo visto durante un’assemblea di classe sotto costrizione della Gerardi.

Noia e monotonia intervallate da guizzi istantanei, come spifferi d’aria, come spruzzi d’acqua salata, come granelli di polvere in un occhio.

Ho diciassette anni e non ho ancora baciato nessuno e ogni secondo sento la possibilità che ciò avvenga sfilare via, come in processione, e posso contare i secondi che trapassano fra le mie dita e mi sembra che quelle degli altri siano ricoperte di colla, perché per loro il tempo non passa mai, i secondi cadono frusciando solo quando sono secchi e inservibili.

I miei precipitavano vergini, tintinnavano come monete in un pozzo asciutto.

Fissai Khadija attraverso la mano aperta a ventaglio: stava guardando verso la fila destra della classe, dove Aldo stava salendo in piedi sulla sedia e Martino sfogliava, svogliato, un libro.

“Però potrei andare al compleanno di Ilaria, solo per divertirmi con Aldo”, sussurrò Khadija senza voltarsi verso di me, ma focalizzandosi sulla copertina del libro d’inglese.

“Per provocarlo?”. Risi a bassa voce – non che le sue aspettative fossero così divertenti.

Non rispose: era ovvio.

Che domanda stupida.

Mi accarezzai il ciuffo di capelli imprigionato dietro l’orecchio e sentii il viso caldo.

Potrei essere io, potrei essere io Aldo. Non è che ci sia poi tutta questa differenza. Non posso permetterle di trattarlo così.

Già, sarei potuta essere io Aldo: il solito pensiero insulso, perché mi sentivo in colpa, perché, se qualcuno mi avesse provocata e presa in giro come Khadija faceva con Aldo, io sarei impazzita di rabbia. E dovevo fare qualcosa, questo pensavo; ma no, non avrei fatto nulla, semplicemente nulla.

Tacemmo.

“Be’, Mary Grace, forza! Facciamo questa interrogazione”. La Rosangeli si sedette sull’angolo della cattedra.

“Ragazzi, silenzio! Altrimenti vi faccio passare tutta l’estate qua a scuola a studiare diritto nippo-giamaicano!”. Quella battuta durava ormai da tre anni: tutti la ignorarono.

La professoressa sospirò e il mento le si divise in due palline ossute. “So, talk about the types of business and their features, okay? Raga’, shut up, please! Vi boccio tutti agli scrutini se non abbassate quelle voci starnazzanti che vi ritrovate! E su, Aldo, stai seduto garbatamente, insomma!”

Urla, urla e battiti. Chiusi gli occhi e sbuffai; l’aria calda appannò le lenti doppie degli occhiali.

“La vostra compagna è all’interrogazione, state zitti o almeno prendete il materiale per la lezione… Martino, dov’è il tuo libro d’inglese? Su, sveglia!”

 

***

Mi spaventai quando fui sicuro di aver pronunciato ciò che stavo pensando. Che cazzo vuoi, vecchia troia succhiacazzi?

Niente sguardi imbarazzati, niente silenzio tombale, niente risolini timidi.

D’accordo, l’avevo solo pensato.

Il pullman.

Sì, il pullman: avevo deciso di dargli fuoco, visto che le mie conoscenze quanto alla meccanica erano piuttosto scarse – quindi manometterne i freni sarebbe risultato estremamente rischioso.

Quando?

Prima della festa, magari. Durante il tragitto.

Oppure no.

Sbuffai, ma ero felice.

Magari muoiono davvero.

Mi sarebbe passata, ne ero certo.

Anzi, meglio non fare nulla per arginare quell’improvviso entusiasmo: avrebbe potuto generare uno scompiglio più devastante – non che avessi una così alta considerazione della mia potenza. Ecco un altro motivo per invidiare Light; sbuffai ancora, ma ero contento. Sì, contento: non mi fidavo mai dei modelli, che fossero Gesù Cristo o Robin Hood, erano tutti falsi, nessuno avrebbe potuto vivere senza trucidare il proprio traditore o prelevare un bel gruzzoletto dal bottino per sistemarsi, comprarsi un’armatura nuova o un cavallo più lucido e veloce, magari.

Light non era mai stato un esempio per me – Dio, non sono mica diventato uno “studente modello” da quando lo conosco. Era solo un personaggio estremamente umano, con le sue ipocrisie e le sue esaltazioni, con qualche vizietto, forse (megalomania a parte) e qualche ideale molto singolare. E impulsivo.

Per attuare ciò che agognavo non era sufficiente pensare come lui, né agire come lui, perché persino Light avrebbe considerato incosciente e sbagliato sterminare la propria classe perché fastidiosa e non fare assolutamente nulla per non essere scoperto. Be’, espresso in quei termini sembrava davvero insensato – e magari lo era – e lo sapevo – o forse no. Non aveva alcuna importanza.

Mi sarebbe sicuramente passata.

Basta aspettare.

Intanto avrei dovuto informarmi meglio sul luogo della festa e annotare tutti i passeggeri del pullman. Oh, a proposito: e se non vi avessero partecipato tutti?

Quello sì che era un problema. Potrei ucciderli uno alla volta, tipo Saw – l’enigmista, in qualche modo… Magari procurarsi una pistola non è così difficile. Che follia! No, non avrei fatto altro che offrire alla polizia, o a chiunque avesse indagato sul caso, il mio nome scritto in bella grafia sul registro degli indiziati.

No, niente scenario da film psico-horror, con motoseghe, vergini di ferro, torchi e crocifissioni. E, no, neanche impalamenti, chiarii.

Avrei potuto eliminare separatamente coloro che non vi avrebbero partecipato. Ah, no! Pessima idea, forse anche peggiore dell’altra. Ero confuso: fissai una vignetta del mio diario senza leggerne il contenuto, mi carezzai la cima della testa, tastando i miei corti capelli appuntiti e sondandone la consistenza.

Cercare di imitare Light non mi sarebbe servito a nulla: Sono più insensato, motivato e stupido di lui, il confronto non regge. Devo pensare con la mia testa. Cercai di ingoiare i cliché, i corpi estranei, i demoni, le simulazioni, le voci, i mormormormormormormormorii…

D’accordo: con la mia testa.

Che cazzo faccio?

Ucciderli separatamente no, abbiamo detto… E neanche uno per uno. Ammettiamo che… No, dunque… Chi potrebbe mancare?

Non impiegai molto a rifletterci.

Vidi la penna rotolare verso il bordo del banco e la bloccai con una mano; iniziai a riempire i quadretti del diario alternando, in modo da scarabocchiare una rozza scacchiera.

Sicuramente Susanna, Mariagrazia e Pierpaolo non avrebbero partecipato alla festa – non l’avevano mai fatto e, inoltre, ricordavo a fatica l’ultima occasione in cui avessi scorto Pierpaolo fra i banchi di scuola, o in qualsiasi altro posto.

D’accordo, solo loro? Forse Khadija, ma… Sarebbe disposta a sprecare un pretesto per giocare con Aldo? Si trattava pur sempre di una discoteca e, a quanto ricordavo, Khadija aveva sempre preso parte a quel tipo di ricorrenze, almeno durante il biennio. Sì, ricordavo bene i suoi abiti stretti e quell’aria da richiamo sessuale, come in un documentario di pessimo gusto, con quegli odori così… così… nauseanti, se non si era fra le prede-pretendenti; non che questo atteggiamento fosse una sua prerogativa: spesso io e Aldo avevamo condiviso quelle cacce al tesoro che chiamavano festicciole solo per prenderli tutti in giro sgranocchiando rustici e salatini, seduti su sgabelli di plastica bianca accanto a tavoli imbanditi. Deridevamo il loro bisogno di subordinarsi e arrogarsi il diritto di comandare, i sorrisi di convenienza e gli occhi arrossati per un’umiliazione volontaria, le litigiose scorribande notturne verso ciò che di più rivoltante c’era nella perdizione; e le cosce nude fra i cuscini dei divanetti, le caviglie pelose, il trucco sbavato, il sudore sotto le ascelle, l’incoscienza indotta, i litri di alcool spavaldamente ingollati, le pasticche nascoste da unghie colorate e scagliate sotto la lingua. E, oh, le lingue, tutte così profumate e disgustose. Oleosi tovaglioli sulle tavole e bicchieri appiccicosi. Io e Aldo li deridevamo tutti, tutti quanti: quelle erano le uniche feste che mi lasciassero totalmente soddisfatto.

Già, al biennio.

Aldo.

Trascorsero parecchi secondi prima che riuscissi a ricordare il soggetto vero dei miei pensieri.

Ah, Susanna, Mariagrazia e l’Uomo Invisibile.

Era molto facile enumerare cosa non potessi fare, ma non riuscivo a trovare, a capire a cosa mi potesse portare quel ragionamento.

D’accordo, ammettiamo che sia sicuro che quei tre non vengano. Andiamo per gradi: non partecipano, non muoiono. Mi dispiaceva giungere a quella conclusione: desideravo rimanere l’unico, veder morire anche loro tre, benché non fossero ben integrati nella sporcizia dell’ambiente – non ancora e non esageratamente, almeno.

Susanna e Mariagrazia erano stupide, frivole e maliziose, donnette da nulla, né pericolose, né lodevoli. Non che fosse un demerito – l’ignavia era anche una mia pecca e la riconoscevo, ma individuarla negli altri mi seccava.

Pierpaolo… Mmh. Chi cazzo è? Ricordavo solo che un cappello con la visiera gli schiacciava sempre la fronte grassoccia, come se ne nascondesse i rotoli di ciccia sotto il tessuto; durante il primo anno lo prendevano tutti in giro per i suoi lobi enormi e pieni, per i foruncoli sulle tempie e sul collo – accadeva a tutti di essere derisi per i motivi più improponibili, se la classe ne aveva voglia. E ne aveva sempre. Frequentava le lezioni molto raramente – mi chiedevo perché non l’avessero ancora bocciato – e ci eravamo rivolti la parola solo una volta, quando ci incontrammo alla Fiera del Levante, nella Galleria delle Nazioni. Mi aveva salutato con la manina grassottella e un insipido Ehi, mentre un bimbo alle mie spalle mi spingeva rischiando di far scoppiare il suo palloncino blu pieno di sabbia, che frusciava a tintinnava ad ogni sballottamento.

OK, allora che ci faccio con questi tre?

Su Pierpaolo non avrei potuto contare, decisamente: contattarlo era impossibile e inoltre… No, sarebbe stato imbarazzante interpellarlo solo per quello.

Sbuffai: avrei anche potuto…

Ma certo!

Sì, uniamo l’utile al dilettevole. Era mio padre che esclamava sempre quella frase? Pensarlo mi impressionò, chissà perché.

Non mi sarebbe dispiaciuto poi così tanto lasciarle in vita.

Mi avrebbero aiutato; allora sì che sarebbe stato tutto più semplice.

Sì.

Le avrei strattonate, spinte a forza dalla mia parte, avrebbero collaborato con me – ero sicuro che lo volessero. Sicurissimo.

E poi?

Tirai su col naso impercettibilmente e cancellai i quadratini riempiti d’inchiostro con il bianchetto. Uno ad uno… Anzi, tutti insieme, con una lunga striscia spezzata. Li spazzai via.

Come se non fossero mai esistiti.

Ucciderle a parte sarebbe sembrato sospetto e, se avessero vissuto dopo la macellazione – aveva cominciato a piacermi quella definizione –, forse mi avrebbero denunciato.

Avevano bisogno di una pesante dose di violenza psicologica – non che io fossi particolarmente abile in quest’arte. Ci avrei provato, quantomeno.

Voltai la testa verso Susanna e, un banco più indietro, Mariagrazia.

Certo che è un bel rischio.

Susanna giocherellava con una gomma squadrata e una matita consumatissima, immergendone la punta nella superficie grigiastra della gomma; Mariagrazia spiegazzava la copertina del libro d’inglese incespicando nelle proprie parole, roteando freneticamente lo sguardo e dondolandosi lievemente sulla sedia. Ghignai.

Magari ucciderle non sarebbe così rischioso.

 

***

Era viola e rettangolare, scivolò sul banco come uno schizzo di smalto, quello che colorava le mie unghie quel giorno.

L’ultimo giorno di scuola.

Che palle, un po’ ero triste: mi sarebbe mancato il casino durante le ore di lezione, il cazzeggio tutti insieme, le ricreazioni passate a rincorrere Valerio Torzetti di quinta B e a scrivere in bagno

 

Vale ti lovvooo!!!! Ti voglio scopare, ti amo ti amo ti amo ti amoooooooo!

 

E tutte le mattinate passate a cantare Per te quel che wale è tutto quel che wale, per me quel che wale è quel che non sei Wale! Come cazzo avrei fatto??? Proprio ora che Valerio mi aveva notata… Sì, all’assemblea d’istituto, quando abbiamo fatto il gioco della bottiglia in palestra, che Giovanni ha gonfiato un preservativo e ci stavano giocando tutti, poi mi è andato sui capelli e mi sono incazzata di brutto e Valerio ha detto che tanto ci stava bene sulla mia testa di cazzo…

Che bella la camicia che aveva, quella con le cuciture di fuori e le maniche a tre quarti… Era un po’ corta dietro – o forse i pantaloni erano a vita bassa – e ogni volta che si sedeva si vedeva tutto un pezzo di schiena, bella abbronzata…

Che cazzo, però, proprio ora doveva finire la scuola?! Quanto ci siamo divertiti quest’anno! Quando abbiamo fatto incazzare la Gerardi, che ci ha mandati tutti dal preside? Bellissimo! E poi Claudia che, per far ingelosire Vale, mi si strusciava contro insieme a Michele… Meno male che ne avremmo avuti ancora due di anni così!

Sobbalzai quando sentii il cellulare vibrare sotto il banco.

 

amò,stai sentendo la cozza?fra poko skoppia!!! XD

 

Lessi il mittente: Alessia; era seduta proprio dietro Mariagrazia Cozzaglia, o la cozza, come la chiamavamo noi. Non avevo fatto caso al suo balbettante scroscio di parole. Che cazzo, calmati un po’, se no ti viene un infarto!

 

sì,fra un pò skoppierà…xk è 1 skoppiata!!!ahahah :)

 

Premetti il pulsante centrale e inviai il messaggio.

Non mi ero mai chiesta come fosse trascorso l’anno per lei e Susanna: non me ne fregava niente. Insomma, avevano scelto loro di vivere da emarginate, noi non avevamo fatto mica nulla: se avessero voluto cambiare vita, l’avrebbero fatto, come Aldo. Va be’, quello è solo un coglione che cerca di imitarci e non ci riesce… E poi è orribile! Almeno prima aveva il fascino del complessato, ma ora neanche quello!

Stavolta non sussultai quando vibrò il telefonino.

 

XD XD XD ti lovvo trp! <3 prima qnd sn andata in bagno ho visto valeee!stava poggiato alla porta della bidelleria e parlava cn il rappr d’istituto,il fascista…kiedi a klaudia,lei ha sentito qll k dicevano :P

 

Aaaah! Valerio era fuori dalla sua classe! Avrei dovuto approfittare di quell’ultimo giorno, non sapevo se sarei andata alla festa di Patrizia di quinta B… E se lui non fosse venuto? E se non l’avessi visto per tutta l’estate? Scoppiai quasi a ridere: Com’è strano fingere anche nella mia mente…

“Prof, posso andare in bagno?”, urlai per coprire i farfuglii di cozza. La Rosangeli indicò la porta appena con un cenno e io mi alzai, facendo svolazzare la camicetta sui fianchi e insinuandomi fra i banchi.

“Mariatere’, che vai a pisciare? Mi prendi i taralli dal distributore? Quelli alla cipolla!”, mi strillò Francesco nella confusione generale.

“No, devo andare a trovare Valerio!”, esclamai. Scartai rapidamente il suo banco, sfiorandogli lievemente le costole con i fianchi, come se fosse un gesto spontaneo. La sua manata fra le gambe non fu affatto inaspettata.

“Vaffanculo! Perché non fai un po’ la troia con me invece che con quel ricchione?”, piagnucolò Francesco gesticolando; la Rosangeli non ci ascoltava – o forse fingeva – ed era intenta a prestare attenzione a Mariagrazia – o forse… fingeva.

Simulai sdegno e continuai ad attraversare l’aula, veloce e impettita. Quasi giunta all’uscio, incrociai lo sguardo di Martino e, cazzo, ero sicura di volergli rovesciare il banco e la sedia e prenderlo a pugni. Non lo sopporto, porca puttana! No, non mi aveva fatto alcun torto, però… Quella sua pacatezza, quella sua barbetta che mi pungeva solo a guardarla, quelle sue spalle curve e quella schiena inarcata… Che nervi! Sembrava rovinare il paesaggio, come una merda di cane alle Hawaii. Saremmo stati una classe perfetta senza di lui e senza quelle due coglione.

Sulla porta mi voltai verso Francesco e gli feci una linguaccia. “Valerio è molto più vinile di te!”, strillai.

 

***

Forse, un giorno, Mariateresa avrebbe capito che vinile non significava mascolino; semmai virile.

Mi accorsi della pioggia solo quando Savino sbraitò:

“Raga’, mi sa che i gavettoni vanno a puttane!”

L’aria, prima stantia e pesante, precipitò come piume di un cuscino scoppiato. Ne percepii quasi lo spostamento, la caduta delicata e soffice.

Avevo impiegato il tempo necessario per trasformare una pagina di diario in una scacchiera e poi imbiancarla completamente solo per decidere se ammazzarle o no.

Il verdetto propendeva per il no, in realtà: la loro utilità non era di secondaria importanza per la macellazione – fui pervaso da mille ventose che mi risucchiavano l’aria dall’interno, come per lasciare gli organi interni sottovuoto. Avrei pensato al modo in cui attrarle verso di me.

Il mio unico problema, in quel momento, era assistere all’ultima campanella senza prematuri spargimenti di sangue.

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Capitolo 7
*** Unghie e mandarini ***


Senza nome 1

Salve. Ringrazio Mote_Ely per la recensione: sono contenta che Mariagrazia ti piaccia, tengo molto a questo personaggio.

Buona lettura.

 

Unghie e mandarini

 

Da piccolo sorridevo sempre: non ero uno di quei bimbi capricciosi che fanno smorfie assurde nelle foto e tirano gli orecchini alla mamma quando si annoiano. Ero sempre sorridente, non ero mai stato un genio incompreso, maturo prima del tempo, precoce e perspicace.

E nemmeno un serioso bambino prodigio.

Nelle cornici di DAS poste a semicerchio sulla scrivania dell’ingresso, come un pubblico che, disinteressato allo spettacolo, si chiude su sé stesso, sfilavo trionfante – non per un motivo preciso, in realtà –: a tre anni nella vasca da bagno, guardavo un angolo lontano con la bocca spalancata piena di schiuma; a sei, eccomi – i capelli a caschetto schiariti dal sole, stile Piccola peste – con Alessandro in braccio alla mamma; a nove anni, su un altare spoglio e buio, abbracciato teneramente da don Antonio, una Bibbia fra le mani e un sorriso di convenienza – quello era evidente – sul viso tondo; e le gite, quella alla Reggia di Caserta e a Monticchio, gli amici di Alessandro in bicicletta accanto al portone del condominio, zuppi di sudore e di sole.

Effettivamente, erano poche le foto in cui io non comparissi, con o senza barbetta, gli occhi castani inquadrati o meno nella cornice trasparente degli occhiali, le mani grassottelle o secche, a seconda della pinguedine infantile.

E il sorriso, quel sorriso a labbra strette, il più largo possibile, che mi conferiva un’aria da invasato, ma sempre così normale, naturale, spontanea. Sorridevo persino nelle fotografie scattate il Natale del 2007, quello di Lucia.

Risi.

Avevo dimenticato di asciugarmi i piedi sulle tre tappe zerbiniche, come le chiamavo io: il tappetino sfilacciato al lato del portone, quello steso alla base della prima rampa di scale e il terzo, il più ruvido, davanti alla terza porta del secondo piano, su cui era inchiodata la targhetta sbiadita T. MANONERA.

Avevo percepito con gioia un intenso odore di arrosto e patatine al forno, di rosmarino e di altre erbe aromatiche, e speravo che si sprigionasse dal mio appartamento.

E, adesso, le cornici mi ignoravano con diffidenza sulla scrivania, appollaiate sui loro centrini sfilati e ingialliti.

“Che mangiamo?”. Gettai lo zaino sulla sedia accanto alla scrivania.

“Buongiorno, eh? Come stai, mamma? Bene, Martino, ti ringrazio! Grazie, mamma, per avermi preparato il pranzo anche oggi, te ne sarò grato per tutta la vita! E, per favore, potresti dirmi cos’hai cucinato di buono oggi?”, urlò mia madre, nascosta dall’anta di legno del frigorifero. In televisione un medico veniva intervistato sulle modalità di prevenzine della calvizie.

Sbuffai.

“E dài, non è che stai meglio se te lo chiedo”, esclamai afferrando una bottiglia d’acqua e accingendomi a tracannarla direttamente; era umida – l’etichetta sbiadita si incollava alle dita – e la plastica trasparente quasi mi scivolò dalla mano.

“Marti’, e no, dài! Non vedi che il tuo bicchiere sta già sulla tavola?”

L’acqua fredda mi fece rabbrividire; strizzai gli occhi e li spalancai.

Scostai la tenda della finestra accanto alla TV e sospirai.

Pioveva ancora.

Il balcone rifletteva l’ombra del palazzo addossato al mio condominio e i ghirigori geometrici della ringhiera diffondevano un riverbero opaco, fosco; alcune paia di jeans e di calzini grondavano pioggia, gocciolando nel loro piccolo cielo, scurendosi man mano che assorbivano acqua. Sembravano palloncini raggrinziti.

“Aiutami ad apparecchiare la tavola”, vociò con vigore mia madre, per sovrastare il fracasso della TV.

Ecco, vediamo se gli anime sono così immaginifici come pensa quella scema di mamma.

Con Light funzionava, chissà se per merito della sua intelligenza che traspariva da ogni molecola di dopobarba che si spalmava sulle guance. O forse Sachiko era proprio cogliona.

“Mamma…”, cominciai. Sbucò dal frigorifero con viso interessato e curioso: effettivamente, non l’avevo mai chiamata mamma. Era imbarazzante.

Esitai. “… Perché dovrei preparare io la tavola? Voglio dire, tu lo fai così bene. Cioè, sei una casalinga così brava che, insomma, il mio aiuto guasterebbe il tuo lavoro, eh.”

Mi fissò con in mano un triangolino di parmigiano da grattugiare; le occhiaie violacee si approfondirono.

“Da quand’è che te n’esci co’ ‘ste cazzate? Apparecchia la tavola, chè fra poco viene papà.”

Ecco, appunto.

Perché certe cose accadevano solo nelle storie?

Sospirai e raccolsi quattro forchette umide dal lavello e le poggiai accanto ad altrettanti piatti, sul tavolo illuminato dal bagliore grigio-azzurrognolo della televisione.

Durante il tragitto verso casa avevo cercato di riflettere, così profondamente da centrare un paio di pozzanghere, sul ruolo che avrebbero dovuto ricoprire Susanna e Mariagrazia nella macellazione – piuttosto patetico chiamare il piano in quel modo, in realtà.

Avevo concluso che, se le avessi usate – e, quindi, messe al corrente del piano – entrambe, si sarebbero potute “alleare” per opporsi alla riuscita delle mie aspettative, o avrebbero avvisato gli altri. No, avevo bisogno di un... di una… Cosa più intima, diciamo.

Scartai a priori l’idea di un rapporto sullo stampo Misa-Light: ero sicuro che nessuna delle due fosse disposta a fare il kamikaze per me e, soprattutto, che il loro interesse nei miei confronti fosse pari – se non minore – al mio nei loro. Non che mi dispiacesse, tutt’altro.

Dunque, ne avrei usufruito singolarmente, oppure solo di una delle due. L’altra la uccido insieme al resto della classe.

E Pierpaolo? Chi se ne fotte di Pierpaolo, tanto, o c’è, o non c’è, non cambia nulla.

Il problema era…

“Com’è andata a scuola?”, interloquì mia madre ruotando il tappo sulla bocca della bottiglia di plastica.

“Mmh? Bene”. Sfilai la confezione dei tovaglioli dall’incastro in cui si trovava, spostando la bottiglietta di aceto di mele e rischiando di far precipitare le scatole di cereali e riso che vi si poggiavano; la gettai sul tavolo con un soffice tonfo.

Il problema…

“Be’? E solo questo mi dici?”

Sbuffai.

“Hanno detto che i quadri usciranno il quattordici e buone vacanze e blablabla… Che altro vuoi sapere? Quante volte sono andato a pisciare?”

Mia madre alzò gli occhi al cielo. “Mi raccomando, sempre elegante, tu!”, gracchiò.

Il problema era, dunque: quale scegliere?

Susanna o Mariagrazia?

Sembrava uno di quei giochetti idioti delle elementari: Se ti trovassi su una torre con X e Y e sotto ci fossero due letti, il Letto dell’Amore, con lenzuola calde di seta, e il Letto del Dolore, pieno di chiodi e pezzi di vetro, chi butteresti su uno e chi sull’altro? Sì, quel tipo di puttanate che le bambine della classe si sussurravano arrossendo.

Nel mio caso, le alternative erano il Letto di Casa Loro e il Letto della Morte Alias Bara.

C’era una bella differenza.

 

***

C’era qualcosa che Ivano chiamava dio.

“È solo una copertura, una messinscena a scopo benefico, per giustificare questo fratricidio.”

Ero confusa: quale fratricidio? E che cos’era un fratricidio? “Uccidere un proprio compagno o tradirlo: questo è fratricidio”, Aveva socchiuso gli occhi e sbadigliato: le guance gli si gonfiarono innaturalmente.

“Comunque, dio non esiste. Esiste Kira, che ci aiuta e ci protegge, ma dio no, non c’è. O, almeno, non esiste un dio creatore: chi avrebbe mai potuto realizzare tutta questa merda?”, concluse con enfasi.

Lo schermo era più abbagliante del solito quel giorno.

“E poi”, riprese con voce sonnolenta, “anche se un individuo del genere esistesse, non starei qui a venerarlo e reverirlo.”

Mi aveva raccontato che in Italia, una regione di Dikaia da cui proveniva Ivano, c’era stata, moltissimi anni prima, una setta che adorava un dio terribile e misericordioso, clemente e onnipotente: aveva creato tutto il creabile e distrutto tutto ciò che meritava distruzione; i rituali e le liturgie si dilungavano di anno in anno, accalappiando anche i fedeli – ormai numerosissimi – di Kira, che, proprio in quel periodo, preparava i Grandi Giudizi. Erano i funerali di Misa I, assassinata in un agguato dall’SPK, nota organizzazione criminale anti-Kira: Kira I, gli aveva raccontato zia Giuseppina, aveva indetto un periodo di lutto universale della durata di un anno intero, mentre i notiziari di TeleCassandra trasmisero la notizia – l’ultima – più pericolosa e diffamante per Kira I: era stato lui, secondo il politologo e giornalista Italo Lollini, ad ammazzare la propria consorte, proprio Kira I, il Kami. Fu l’ultima notizia trasmessa liberamente da un telegiornale: la censura, lenta e languida, si era posata sulle bocche, le penne, le dita di tutti, per sempre.

Prima, aveva detto, c’era un Papa, un amministratore dei rapporti fra uomo e Dio: fu molto più semplice quando Giovanni Paolo IV si alleò con Kira, ammettendo che no, gli ebrei non li avrebbero più indotti all’errore: ecco l’incarnazione di Dio, ecco il suo farsi terra e putrefazione, eccolo! Nessuna crocefissione per il nuovo Messia, nessun  chiodo a spezzargli le ossa, nessun panno bagnato d’aceto sulle sue ferite, nessuno pseudo-rito misterico per Kira, il nuovo Messia;

 

“Non va, non suona per niente bene. E poi, che c’entra Dana con tutto questo? Voglio dire, che frega al lettore di questa roba?! No, non va proprio.”

Susanna si stiracchiò, facendo scricchiolare il letto; il computer portatile, in bilico sulle sue ginocchia, pendeva leggermente verso di me, seduta sul materasso accanto a lei.

“No, perché lo pensi?”, esclamai; d’accordo, forse quell’accecante pagina di Word era troppo prolissa, almeno per Susanna, e, forse, i dettagli inseriti erano piuttosto secondari e fini a sé stessi, però… Insomma, andava bene. “Cioè, cosa c’è che non va? L’hai scritto bene l’inizio del capitolo, davvero!”

Non volevo che si preoccupasse troppo e, probabilmente, era giusto che le allieviassi almeno la poderosa insoddisfazione artistica che aleggiava in quel momento fra le sue dita e la tastiera argentata del portatile. Non avrei voluto mentire, ma non sopportavo di subire la sua indolenza – spesso esagerata e capricciosa. È necessario, mi ripetevo.

Certo che lo era.

“No, Margie, no, no, no no no… Non va per niente bene, no no”. Sbuffò sonoramente e continuò a negare alternativamente borbottando o ribadendo con potente decisione. Avrei voluto calmarla, avrei voluto avere la garanzia di poterlo fare.

Non era così, no.

“E, oltretutto, che può fregare di dio a una tizia di undici anni? Voglio dire, sarà pure un Boia e tutto il resto, ma è sempre una bambina! Non è realistico, non è…”

Tacqui: spiegarle che il capitolo di The Electric Metempsychosis era ben avviato l’avrebbe solo innervosita.

Percepii la vibrazione sulla coscia prima ancora della suoneria.

Itsuwari osore kyoshoku urei

Samaza…

“Pronto?”, risposi senza controllare il numero chiamante.

“Vuoi venire a casa a mangiare o vuoi che te lo porto da Susanna il piatto?”. Il tono cupo di mio padre mi infastidì.

Che giornata di merda.

Mi sembrava di trovarmi fra le pagine di Cento colpi di spazzola prima di andare a dormire: quella lugubre vacuità mi asfissiava, volevo fuggire, fare qualsiasi altra cosa piuttosto che stare ferma lì, seduta, a guardare e commentare, come quelle vecchie signore benvestite e perbeniste che parlottavano fra i brulli banchi di un’asfittica chiesetta cittadina.

Volevo sentire gli ingranaggi ringhiare, le cinghie tendersi, le viti ruotare come i cingoli dei treni. Piangere, incazzarmi, ridere, ferirmi, godere… Voglio fare tutte queste cose insieme.

E l’unico minimo comune denominatore era…

… Il sesso.

Come sempre.

Rassicurai mio padre – con il mio tono di voce probabilmente lo impensierii ulteriormente.

“Ehi, io devo tornare a casa.”

Mi sciolsi dalla posizione intrecciata che avevo assunto sul letto di Susanna e mi infilai le scarpe con la chiusura a strappo.

“No no no no no”, continuava a ripetere Susanna fissando lo schermo e rileggendo per l’ennesima volta l’incipit del capitolo.

“Ciao”, mormorò infine – forse si trattava di un riflesso volontario, pareva troppo assente persino per accorgersi di esistere.

Mi avviai verso la porta scorrevole della sua stanza. Di solito gli ospiti si accompagnano alla porta. Mi vergognai subito di quel pensiero gretto e mi affrettai ulteriormente.

Magari finissi come Melissa P.

Ecco, un’altra volta: gli occhi si offuscarono, l’immagine nitida del corridoio di casa Faretra mi parve un unico frullio di colori, come se fossero stati vomitati dopo giorni di digestione.

Incrociai per le scale Nicoletta, la sorella di Susanna, e sua madre. Quando le salutai non ero ancora scoppiata a piangere.

 

***

Mentre aspettavo che mia madre mi sbucciasse un mandarino, la decisione era già stata presa.

Susanna.

E Mariagrazia sul Letto della Morte o come cazzo si chiamava.

In realtà, la scelta mi parve alquanto ovvia per vari motivi, ma riflettei ugualmente in modo analitico.

Susanna approverebbe.

Sì, era quello il punto di riferimento da cui partii: considerando non solo la sua predilezione per Light – di cui ero venuto a conoscenza tramite Facebook – ma anche le sue incaute affermazioni parevano perfettamente in sintonia con le mie intenzioni. Spesso, durante le assemblee di classe, lei e Mariagrazia si erano estraniate dai rari dibattiti sull’andamento generale del gruppo classe, sul rapporto fra studenti e professori, sul comportamento dei vari elementi costitutivi e altre migliaia di argomenti che conferivano una narcisistica professionalità ai rappresentanti; ciononostante, a volte persino Susanna si era gettata nelle discussioni, mostrandosi aggressiva e implacabile, giudicando con irruenza la maggior parte della classe, offendendone molti – ma sempre con accuse ben fondate.

Ecco, questa decisione mancava a Mariagrazia, che, per quel poco che l’avevo osservata, pareva un triste pendolo solitario, uno di quelli che battono l’ora ogni quindici minuti, ma che, subito dopo, ripiombano nel silenzio delle lancette pigre e monotone.

Inoltre, era impossibile non pensare a Mariagrazia come la solita moralista a cui non stava bene la società, ma contro la quale non levava nemmeno lo sguardo – non per essere accettata, solo per inerzia e autocommiserazione. Tipico delle ragazze brutte.

Ingoiai uno spicchio di mandarino senza masticarlo.

E poi Mariagrazia va d’accordo Khadija. Non sarebbero dovuti rientrare i giudizi di carattere personale, ma, in fondo, il suo ruolo non poteva essere recepito altrimenti.

Susanna è spregiudicata. E perennemente incazzata, notai, il che poteva risultare utile.

Staccai un altro spicchio da quella ruvida sfera arancione, mentre attorno a me la voce di una giovane giornalista decantava la delazione di un pentito di mafia a Messina.

“I peggio criminali stanno tutti in Sicilia, ma come si fa?!”, chiosò mio padre addentando una fetta di pane ricoperta di pomodorini tagliati a metà.

Già, criminali. Magari sarebbe stato più sensato spendere tutte quelle forze per aiutare la gente, uccidere i malviventi e liberare l’Italia dall’oppressione della criminalità organizzata.

Il mandarino mi andò quasi di traverso.

Non sono mica un dio…

Non ero solidale come Light, né autolesionista. Né, intelligente – era ovvio.

E non avrei mai voluto esserlo.

L’esclamazione di mio padre fu interrotta dalla recitazione quasi letterale da parte di mia madre del servizio sulla prevenzione della calvizie, sicuramente per prendere provvedimenti riguardo ad Alessandro, sulla cui testa si stava allargando una piccola superficie rosastra, proprio al centro.

Dunque, Susanna.

Avrebbe sicuramente accettato, forse anche senza discutere.

Alcuni filamenti bianchi di mandarino mi si impigliarono fra i denti.

Mi alzai gettando il tovagliolo appallottolato sul tavolo, mancando per un centimetro il bicchiere colmo d’acqua di mia madre.  e passai accanto ad Alessandro, che rigirava una polpetta nel piatto con aria assonnata.

Avevo programmato di giocare tutto il pomeriggio alla PlayStation 3, ma accesi il computer con una mano e mi gettai in bocca i due spicchi di mandarino rimasti con l’altra.

“Marti’, lavati i denti per favore! Prima in televisione è uscito un dentista che ha detto che ci si deve lavare i denti dopo ogni pasto anche senza dentifricio!”, urlò esaltata mia madre.

“Sì, ora me li lavo!”, le gridai di rimando sedendomi davanti al monitor e raccogliendo dal cassetto il mouse wireless.

OK, ora vediamo come contattare Susanna.

Magari non sarei mai riuscito ad entrare nel server della polizia, ma di Light non avrei mai potuto invidiare l’abilità con i computer e gli apparecchi elettronici – A parte i frigoriferi, avrei commentato se Alessandro mi avesse ascoltato, dal momento che ne avevo incendiato uno all’età di nove anni rischiando di arrostire mio fratello. Sorrisi, nostalgico.

Avevo già pensato non solo a come contattarla, ma anche a controllare la sua affidabilità.

Cliccai due volte su Risorse del computer e sulla cartella Documenti – god_of_war.

Devo usare ciò che ho, solo ciò che ho. Non è questo che fa Light?

Selezionari Varie e scorsi la pagina con il mouse, cercando la cartella che m’interessava. Storie… Fantacalcio… Patch… My Malware, eccolo!

Cercai di disincastrare con la punta della lingua i filamenti di mandarino dalla fessura fra il canino e un premolare.

OK, My Malware.

Cliccai due volte su quest’ultima icona e scelsi uno dei sette file che scorsero davanti ai miei occhi.

Aprii MSN e accedetti, sperando che i due omini verdi che ruotavano, l’uno di fronte all’altro, non impiegassero troppo tempo a fissarsi – senza avere occhi, per giunta.

Nell’attesa, recuperai le auricolari dallo zaino e me le infilai, aprendo la prima canzone che mi capitò sottomouse, come si suol dire.

 

Her bouquets are wilted
Too long has She slept
Their cruel red mouths darkened
To bowed silhouettes
I saw in a new moon
With Her scent on my breath
But then all too soon
Came the hunger for flesh

 

gorgogliarono le auricolari a volume elevatissimo.

Amor e morte. Era trascorso davvero molto tempo dall’ultima volta che gli ululati dei Cradle of Filth mi avevano trapiantato nelle loro atmosfere gotiche e strazianti.

Quasi non mi accorsi che le figurine verdognole e tondeggianti erano sparite.

Finalmente si sono levati dalle palle, sospirai.

Senza controllare le e-mail ricevute e impostando il mio stato su Invisibile, selezionai la casella di posta elettronica e inviai una catena a caso, scegliendo fra i modelli proposti da quelle che mi inviava costantemente Aldo, allegando il file scelto all’e-mail e nascondendo il mittente con il programma ANPrank v 2.1.

Digitai il destinatario: suzie92-suckyousock@live.it

Sorrisi.

Che strano, basta solo aprire un batch e…

 

***

Erano le diciassette e quattordici quando mia madre mi gridò che c’era Susanna al telefono. Mi stiracchiai nel letto e notai fra le fessure delle persiane che aveva già smesso di piovere; alcune strisce di sole si riflettevano sulla superficie di vetro della scrivania e sul termosifone spento, che gettava bagliori cianotici sulle lenzuola. Mi infilai gli occhiali e raccolsi la cornetta tendendo il filo attorcigliato.

“… e non funziona più!”, piagnucolò Susanna.

“Eh?”

“Ho detto: stavo scrivendo al computer e, ad un certo punto, si è spento e ora non funziona più!”, ripeté con voce ancora più acuta.

“Che faccio?”, mi domandò disperata.

Ingoiai la striscia di unghia che stavo mordicchiando.

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Capitolo 8
*** Brina fra i capelli, vento sotto i piedi ***


Salve. Come sempre, ringrazio Mote_Ely per la recensione: sono felice che tu condivida con me queste impressioni, che, per me, risultano estremamente interessanti.

Un avviso per questo capitolo: i versi della canzone qui riportati provengono da Un chimico di Fabrizio De Andrè.

Buona lettura.

 

Brina fra i capelli, vento sotto i piedi

 

La guerra, i bombardamenti, le cortine di fumo, i funghi spappolati, gli aghi di pino nelle ferite.

Era una guerra, era iniziata.

Me ne accorsi solo quando cliccai su Invia.

Susanna avrebbe sicuramente aperto quell’e-mail contenente un allegato: Light.jpg. Ci avrebbe cliccato sopra e il batch – il virus da me creato, uno dei pochi su cui avevo gettato giorni estivi e notti d’autunno – si sarebbe infiltrato nel suo computer.

D’accordo, non era un piano così geniale, ma era tutto quello che sapevo fare. Anche Light lo fa, no? Anche lui sfrutta esattamente ciò che ha; niente di più, a parte qualche milione di neuroni rispetto al resto della razza umana.

La mia prole di virus era piuttosto magra, in realtà: avevo realizzato, grazie alle istruzioni raccolte su Internet per puro caso, due virus completi e cinque esperimenti falliti, ma, almeno, ero riuscito a immunizzare il mio sistema attraverso una rete condivisa di antivirus di cui avevo letto su un forum.

In fondo, anche quello era mettere alla prova le proprie capacità, proprio come Light. Ma perché faccio tutti questi paragoni oggi?!

La decisione di coinvolgere Susanna nel piano – avevo ormai abbandonato la dicitura macellazione: piuttosto terrificante o, almeno, più di quanto la vicenda fosse realmente – significava concretizzarlo obbligatoriamente. Senza via d’uscita: ero ormai costretto a metterlo in pratica.

Non che la cosa mi dispiacesse, tutt’altro.

Il resto, comunque, era ovvio.

 

***

“Potresti contattare Martino”, le consigliai.

Teodoro Manonera era il tecnico ufficioso – quello ufficiale era morto nel 1997 e non era ancora stato sostituito – delle apparecchiature scolastiche, dai computer della sala di informatica alle scrivanie marroncino dei segretari.

 

TEODORO MANONERA:

 RIPARAZIONE COMPUTER E MACCHINE PER UFFICIO VIA PLINIO, 43

ROTUNNO (BA)

TEL.: 3244483290 / FAX: 0808659750

 

Così recitava un foglio attaccato alla porta del laboratorio di informatica, a scuola, in un anonimo e trascurato carattere enorme. Spesso i miei compagni di classe avevano contattato il signor Manonera attraverso il figlio, solo per una riparazione o per acquistare computer, registratori di cassa e scrivanie piuttosto becere e pacchiane – anche più dei cuscini che vendeva mio padre nel nostro negozio di articoli per la casa.

“Manonera, dici? Mi dai il suo numero?”, esitò Susanna, ancora ansimante.

Mi stropicciai gli occhi ed estrassi l’elenco telefonico dal cassetto del tavolino. Non te lo sai trovare da sola?

“Sì, aspetta.”

Sfogliai con pigrizia il volume massiccio, tagliandomi ripetutamente la pelle alla base dell’unghia con la carta sottilissima.

Mentre cercavo la sezione dedicata ai residenti di Rotunno, Susanna cominciò a cantilenare la sua disperazione.

“E se non riesco a recuperare il file? Sarò costretta a riscrivere il capitolo daccapo! Il fatto è che dopo pranzo l’ho riscritto e mi sembrava anche accettabile, che cazzo! Margie, aiutami, come faccio? Oddio, oddio, com’è possibile che capiti tutto a me? Margieee!”

Ti vuoi calmare? È solo una storia, Dio santo.

Tacqui e, finalmente, trovai la scritta Rotunno sull’angolo destro della pagina che stavo consultando.

Allora, Manonera…

“Ce l’hai il numero o no?”, mi chiese impaziente.

La cornetta quasi mi scivolò dalla mano mentre consultavo l’elenco telefonico. Accennai un verso d’assenso in risposta alla sua domanda. No, guarda, ti ho detto che ce l’ho solo per perversione!

“Lo sto cercando, un attimo.”

Gli occhi mi bruciavano e uno sbadiglio incontrollabile mi fece rabbrividire; lessi i cognomi in cima alla pagina, cercando la lettera m.

Benicotto… De Benedittis… Fiore… Hoga… Macillo… Madonnella…

“Be’?”, domandò irritata. Sbuffai.

“Se mi dai il tempo…”

Tacque, come interdetta.

Finalmente trovai, fra un Manonera Guglielmo e un Manonera Vito, Manonera Teodoro.

“Vuoi il numero del negozio o quello di casa?”, le domandai. Sbadigliai un’altra volta, puntando il dito sul nome trovato, per non perderlo d’occhio.

“La prossima volta magari lo cerco io…”, brontolò.

Attesi.

“Quello di casa, mi vergogno a parlare col padre”, confessò.

Risi sommessamente e, dettatole il numero di casa Manonera, infilai di nuovo il volume spiegazzato nel cassetto.

“Perché, a parlare con Martino non ti vergogni?”

Cercai di chiuderlo, ma si era incastrato un lembo di stoffa nella fessura fra il mobile e il cassetto; gettai dentro lo straccetto di feltro con cui pulivo gli occhiali e ritentai, battendo la nocca al legno ruvido.

Cazzo.

Mi leccai il dito, non accorgendomi che il calore della lingua non faceva che acuire il dolore.

“Ma Manonera è un coglione represso! A parte il fatto che parlare con lui significa fare un monologo, e sai quanto mi piacciono i monologhi!”

Risi. Piacerebbero anche me, se qualcuno li ascoltasse. Evitai di accendere discussioni – avrebbe sempre vinto lei.

“Ma hai provato a riavviarlo?”. Preferii concentrarmi sul suo computer piuttosto che su Susanna – almeno lui non mi subissava di parole.

Mi sedetti a terra, accanto al telefono, nonostante l’aria non fosse esattamente calda. Il cielo si era di nuovo annuvolato e, considerando che delle lenzuola sbatacchiavano come buffi pendoli, soffiava un vento giocoso.

“Sì, ma non si accende! Aiutamiii! Ora chiamo Manonera, ti faccio sapere, OK? Ciao, Margie, ciao…”

Riattaccò.

Ritornai a dormire nella mia tuta nera, concentrandomi sulle fasce celesti che si inerpicavano sui miei fianchi, fin quando non fui costretta a chiudere gli occhi.

I raggi del sole non entravano già più, filtrati dalle persiane: solo un candore senile, un opaco riflesso bianco panna.

Non mi resi conto del momento in cui mi addormentai, ma mi piacque credere che il mio ultimo pensiero fosse stato.

 

È strano andarsene senza soffrire,
senza un volto di donna da dover ricordare.
Ma è forse diverso il vostro morire
voi che uscite all'amore, che cedete all'aprile.
Cosa c'è di diverso nel vostro morire?

 

***

“Martino, è per te!”, urlò mia madre. Mi chiama così solo quando c’è gente…

Fermai il gioco e raggiunsi il telefono, asciugandomi le mani gelide e  sudate sulla consunta maglietta dei Red Hot Chili Peppers che indossavo come pigiama. Erano trascorse quasi tre ore dall’invio del mio virus a Susanna. Possibile che mi abbia già chiamato?

Del resto, non erano affatto consuete le mie telefonate: a parte Aldo e qualche mio compagno di classe delle medie – che mi contattava per farsi masterizzare videogiochi o per riparazioni di piattaforme ludiche di vario genere – ricevevo rare telefonate.

Afferrai la cornetta dalle mani di mia madre e me la stavo per portare all’orecchio quando mi sussurrò:

“Ti sei lavato i denti?”

Sospirai alzando gli occhi al cielo. “Non rompere le palle, dài!”

Sbuffai.

“Pronto?”. La mia voce mi risultò cavernosa, forse per via dell’eco che spandevano le onde sonore; era un problema dei cordless, certamente.

“Ciao… ehm, Martino. Sono Susanna.”

Cazzo, sì!

Non potevo crederci, era straordinario! Non che le cose avessero potuto seguire un corso molto diverso, però… Ero riuscito a prevedere tutto e questo mi entusiasmò.

“Ehi”. Fu una specie di mugugno, un verso che ricordava vagamente Mikami. Sorrisi.

OK, devo controllarmi. Modulai meglio il tono di voce: più indifferente, ma normale. Almeno un po’.

È andato tutto come volevo! Non tutto, a dire il vero, o, almeno, non era ancora sicuro: magari Susanna era più moralista di quanto desse a vedere.

Mi calmai a fatica e attesi le frasi che già immaginavo.

“Senti, scusa se ti disturbo, ma è successo un disguido.”

Era divertente come la gente cambiasse a seconda dell’interlocutore, dell’imbarazzo di una parola sicura sussurrata con vergogna; a stento mi trattenni dal ridere. Disguido?! Ma se a scuola non fai altro che sparare parolacce e bestemmie come una posseduta! Il gusto di montarsi la testa era pietoso, ma davvero divertente.

Attesi che continuasse a recitare la sua parte.

“Ecco, dato che tuo padre ripara computer, no? Eh, il mio si è rotto improvvisamente, non so come… Insomma, visto che è così, potrei portartelo? Per ripararlo. Se vuoi ti pago, cioè, pago tuo padre.”

Ma no, guarda, mio padre mantiene una famiglia di quattro persone, se non lo paghi rischio di non mangiare per una settimana. Fai un po’ tu…

Finsi di esitare – o forse ero imbarazzato anch’io, ma non me ne curai affatto. “Sì, glielo dico subito. Per il prezzo ve la vedete voi”

Raccolsi il cellulare e iniziai a scrivere un messaggio a mio padre.

 

C’è un pc da aggiustare, te lo fac

Cambiai subito idea: avrei dovuto badarci prima io, viste le necessità. Sbattei il cellulare sul case del computer, producendo una vibrazione metallica che mi fece battere i denti.

“Comunque, avresti potuto telefonare al negozio: mio padre è sempre lì”. Mi maledissi non appena terminai la frase: Troppe parole che non c’entrano un cazzo, ma perché divento logorroico nei momenti meno adatti? Non mi ero mai dilungato in discussioni prolisse, soprattutto con potenziali estranei.

“Ah, davvero? Non sapevo che avessi il telefono anche in negozio… Cioè, in realtà ho trovato il tuo numero sulla rubrica del cellulare e ho chiamato quello, capito? Va be’, grazie.”

Non ricordavo di averle mai ceduto il mio numero di telefono fisso, né che Susanna mi avesse mai chiamato da quel poco che ci conoscevamo – né parlato così a lungo, per giunta.

Mi voltai: mia madre era ancora accanto a me. Mi spaventò. La guardai prima sorpreso, poi inferocito, cacciandola con un gesto della mano; probabilmente era incuriosita dal fatto che mi avesse telefonato una ragazza – circostanza unica, a parte qualche cugina di cui non ricordavo nemmeno il nome che mi chiamava per farmi gli auguri ogni ventotto dicembre.

Rimase lì, stringendo il grembiule con una mano e un canovaccio lacero nell’altra, il viso concentrato per ascoltare la conversazione e, forse, deluso dal suo contenuto. Sbuffai e la ignorai, girandomi verso lo schermo della televisione e la luce spia della PlayStation 3, flebile e sommessa. Discreta, almeno lei.

Interruppi il silenzio salutandola e consigliandole di passare da casa mia, perché mio padre era occupato con altri computer e, quella sera, avrebbe lavorato al suo a casa.

“Dove abiti?”, chiese. Sembrava più tesa e interdetta.

“Via Mazzini, 79. Alle spalle della chiesa Santa Maria Greca, hai presente?”

Tacque.

“La Dok sull’estramurale? Il bar Fiocco azzurro? Oppure…”. Cercai di individuare qualche punto di riferimento particolare; non vivevo in una zona isolata, ma era pur sempre fuori dal centro. Non mi venne nulla in mente, a parte una latteria, una biblioteca di nome Notting Hill, qualche fruttivendolo e un parrucchiere. Tentai l’alternativa che Susanna avrebbe conosciuto con più probabilità.

“Il parrucchiere Un Angelo per capello?”. Risultò alquanto imbarazzante pronunciare quel nome idiota, ma sembrare buffo, forse, l’avrebbe ben disposta nei miei confronti. Non devo per forza giustificare ogni mia azione; non lo faceva neanche Light, voglio dire… O, meglio, Light lo faceva, ma senza creare ulteriori paranoie. Sbuffai.

“Ah, ho capito! L’ha aperto mio padre, quel salone, sai? Prima ci lavorava solo come amministratore, ora, invece, fa proprio il parrucchiere… Non sapevo che abitassi lì vicino, a volte ci passo il pomeriggio, quando non ho un cazzo da fare. Dov’è casa tua di preciso?”

Ecco, appunto.

Forse avrei dovuto informarmi meglio prima di contattarla, solo per non assumere quell’aria spaesata, come quella di un pesciolino che cozza contro la parete dell’acquario.

Le spiegai che abitavo a pochi isolati dal salone del padre, in un condominio dalle pareti nere per l’umidità – a parte quest’ultimo particolare – al secondo piano e che l’ascensore era guasto da un paio d’anni, visto che le famiglia Cacicci non si decideva a pagare la sua quota per le riparazione – probabilmente tralasciai anche quel dettaglio.

“OK, vedrò di trovare casa tua. Posso venire adesso?”, chiese a voce più alta, acuta come il pigolio di un cane ferito.

“Sì, ci vediamo.”

Riattaccai prima che continuasse a innalzare il timbro di voce e, dimenticandomi di mia madre che mi fissava ancora, asciugando un tegamino, stavolta, ritornai a massacrare i miei nemici… nel videogame.

Cerchio L2+cerchio

Mi pentii, ancora una volta, di aver voluto risparmiare Susanna. Ho bisogno d’aiuto, da solo è praticamente impossibile uccidere venti persone. Me ne rendevo conto, ma era insopportabile – avere limiti, intendevo. Non che desiderassi diventare un dio in terra, onnipotente e invincibile: era chiaro che il piano avrebbe potuto fallire in qualsiasi momento, senza scampo, senza avvertimenti, senza tuoni in lontananza: solo un lampo, preciso, mirato – e tutto sarebbe volato via, come se non fosse mai esistito. Illusione, pura illusione e apparenza – trasparenza, forse.

R1 triangolo triangolo TRIANGOLO!

Era quell’unica possibilità – quella di riuscirci, di rimanere solo e felice – quella, l’unica per cui valesse la pena rischiare – no, non rischiare: compromettermi, innescare un processo cieco e distratto, con una fine incerta, una miccia che si sarebbe polverizzata chissà dove, forse fra le mie mani, e chissà quando, forse prima della loro morte.

R2+cerchio triangolo CERCHIO CERCHIO CERCHIO!

Non contava – almeno in quel momento –, era una fase idealizzata, probabilmente: me ne sarei reso conto, mi sarei difeso, magari in seguito, a piano ultimato.

Cerchio R3+triangolo TRIANGOLO CAZZO TRIANGOLO TRIANGOLO TRIANGOLO TRIANGOLO TRIANGOLO!

L’importante era ucciderli.

TRIANGOLO

Scaraventai il joystick sul pavimento.

“Cazzo, ma non è possibile! Ho spinto il triangolo e quel coglione non è morto… Ma che gioco di merda!”

 

***

Il pomeriggio seguente dormii ancora, stanca del freddo di giugno, dell’inettitudine, della pigrizia. Stanca di dormire, peraltro.

A svegliarmi fu la sigla psichedelica di un telegiornale – forse alle otto di sera, forse alle sei di mattina. Il cielo era ancora chiaro, ma le stanze della mia casa erano lugubri, adombrate da pareti e soffitti pretenziosi.

Quella mattina mi ero sollevata dal letto con lo stesso paesaggio: letti sfatti, odore di stantio, luce timida e schiva. E Vittorio non era nel suo letto: probabilmente era salito sul treno per Bari, oppure era già all’università, a prendere appunti o dare un esame, non lo sapevo.

L’orario sull’angolo destro dello schermo del cellulare mi rassicurò: erano le otto e due del dieci giugno 2009. Quindi mio fratello è tornato.

Sbadigliai e accesi il computer, benché avessi un evidente bisogno di andare in bagno; strinsi le cosce e, assordata dal tono di avvio, cercai di scrivere qualcosa.

 

Light la prese per mano e camminarono insieme, come una coppia di colombe, come le api.

 

Cancellai il testo appena scritto e ricominciai.

 

Light la condusse dolcemente verso il campo, passeggiando come due pedine di ghiaccio sul

 

Senza rileggerle, selezionai quelle parole e le eliminai. Ricominciamo, pensai.

 

Lo scricchiolio della brina sotto i piedi nudi scandiva i loro passi. Il cielo sembrava verde, sembrava ghiaccio, sembrava una gigantesca lacrima gelata che si sarebbe liquefatta. Li avrebbe inghiottiti entrambi, salata e antica. Alcuni fiori solleticarono le caviglie di Misa, mentre Light scriveva il suo nome, Misa Amane, e sorrideva.

“Io ti amo, Misa.” Rise.

Cicatrici, sangue e tagli: sarebbe bastato fermarle il cuore, sarebbe stato sufficiente… Ma

 

Chiusi definitivamente il documento e telefonai a Susanna: non la sentivo dal giorno prima, da quando le avevo consigliato di contattare Martino Manonera per ripararle il computer, ma non mi aveva più fatto sapere nulla.

“Pronto?”

“Ciao, Silvia, c’è Susanna?”

“Sì, te la passo subito”, rispose sua madre.

Accavallai le gambe, tanto per evitare di far scoppiare la mia vescica.

Dopo qualche fruscio, sentii finalmente la voce di Susanna. E mi parve subito strana.

“Ehi, Margie. Come va?”

All’inizio non riuscii a capire cosa ci fosse di diverso nel suo tono, nelle parole che utilizzava, nel… nel contegno, nel buon umore così composto e moderato. Questo! Quello parve inconcepibile a me, abituata alle sue frenetiche esaltazioni e angosce irrefrenabili.

Contegno.

Sì, era proprio quello che non andava.

“Bene, tu? Come va con il computer?”

O forse mi sto sbagliando io.

Se le avessi chiesto qualcosa, magari si sarebbe innervosita.

“Ah, sì… Martino è riuscito a ripararlo. È proprio un genio con i computer, sai?”

Aprii la bocca, ma lasciai subito perdere. E se s’incazza?

“Ah, OK.”

La sentii ridere e tacere, almeno per mezzo minuto.

E adesso?

Cercai di pensare a qualcosa da dire, ma mi interruppe.

“Ora devo andare, Margie!”. Ancora una risata, breve e impetuosa, come un palloncino che scoppia. “Ciao ciao!”

Riattaccai senza salutarla.

Doveva essere accaduto qualcosa, ma non osavo chiederglielo: sarebbe stato atroce affrontare la sua collera e…

Sospirai.

Però…

Era strana, davvero molto strana.

 

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Capitolo 9
*** Su e giù ***


Salve. Mi scuso per il ritardo: ecco il capitolo. Ringrazio coloro che hanno recensito: siete stati gentilissimi e i vostri commenti mi hanno resa non solo soddisfatta, ma anche felice di scrivere questa storia. Dunque, ringrazio Mote_Ely, Neko88, Bael e Dry_StarDust, aggiungendo che no, The Electric Metempsychosis (come tutti gli altri spezzoni di storie presenti anche in questo capitolo, benché su questo io nutra seri dubbi XD) non esiste come storia indipendente, ma influirà su Martino. La fanfiction-matrioska continuerà, insomma.

Grazie ancora anche a chi legge soltanto.

Ah, una precisazione: nello scorso capitolo, Mariagrazia guardava l’orario e la data: quest’ultima non è dieci giugno, bensì undici. Un piccolo problema tecnico.

Buona lettura.

 

P.S.: per fastidiosissimi problemi riguardante l’HTML, il codice inserito da Martino nelle ultime battute non segue lo schema ASCII &#numero, bensì &#SPAZIOnumero. Ho fatto di tutto per far apparire il codice senza rivelarne il messaggio, questo è il massimo che ho potuto fare. Dunque, se volete capirne il significato prima di Susanna, copiate il testo su Google eliminando tutti gli spazi fra cancelletto e numero (ovviamente, è una perdita di tempo, quindi vi consiglio di aspettare semplicemente il prossimo capitolo).

 

Su e giù

 

“Buonasera. Un’ondata di caldo dall’Africa settentrionale si appresta a colpire il territorio nazionale, in particolare il Sud, che vedrà evidenti schiarite fra oggi e domani. Ancora piogge in Friuli e in Piemonte, sereno o poco nuvoloso nelle altre regioni.”

Cominciai ad annotare i nomi.

Biagi Donatella

Chefolo Gigi

Corcola Alessandro

Cutto Maria

De Benedictis Franco

La penna era fredda e pesante: Susanna ne utilizzava sempre di metallo, ignorando la mia allergia al nichel. Mi sentivo già prudere le dita e le grattavo contro le pieghe del foglio, solo per alleviare il fastidio.

“Susanna, mi aiuti o no? Smettila di fare la buffona e scrivi questo cazzo di registro.”

“… Se vuoi ricevere le previsioni del tempo sul tuo cellulare, invia un SMS con il nome della tua città al numero…”

In risposta, Susanna cambiò canale e s’incantò di fronte a un reality show su MTV.

“Tesoro, per favore, non fare la rompiballe e aiutami!”

Tre classi – relativamente poche – ottanta nomi. Mi arresi all’inizio della seconda e gettai la penna accanto al telecomando.

“Senti, o mi scrivi questi nomi, o prepari tu la cena!”, urlai. I bambini sono tutti uguali, che abbiano dodici o diciassette anni. Ma per rimproverare mia figlia non mi pagavano, purtroppo.

“Sì, sì, un attimo…”, biascicò, ma non si mosse di un millimetro: lì, il busto poggiato al tavolo e la testa penzolante da un braccio lungo e spigoloso, gli occhi arrossati e il mento piegato all’insù, quasi a toccare il labbro, forzato da una mano altrettanto dura.

Era stata fuori tutto il giorno e, per quei pochi minuti in cui era rimasta a casa, aveva dormito oppure occupato il telefono, proprio ora che Nicoletta era rimasta a dormire da Alessandra… E se fosse successo qualcosa? Sospirai.

E poi… Mah, è un po’ esaltata. Avrà scopato, mi ritrovai a pensare senza disgusto, né disapprovazione. Mia figlia era carina, sicuramente doveva aver già fatto sesso, magari con quel suo amico, Vincenzo, quello altissimo che l’abbracciava sempre e che una volta l’aveva sbattuta contro il muro della cucina fingendo di scoparsela – non si era mica accorto che c’ero anch’io. Sorrisi a labbra strette.

Ero ben lontana dall’alterarmi, ma simulai un’espressione arrabbiata.

“Susanna”, ringhiai riprendendo la penna in mano, ignorando il bruciore fra le dita.

Sbuffò e mi sfilò il registro dalle mani; cominciò a copiare i voti delle prove scritte, mentre io le davo istruzioni sulla casella in cui apporre le valutazioni.

“Che cucino per cena?”, domandai spingendo la sedia contro il muro.

Mi sciacquai le mani sotto l’acqua fredda e le lavai con il detergente per i piatti, visto che il sapone era quasi terminato. Se magari Susanna andasse a fare la spesa invece che da quel suo amico che stava riparando il computer… Strano, poi: mia figlia aveva riportato indietro il portatile, asserendo che quel Nomonera o Da Matera – o come diavolo si chiamava – l’avesse già riparato. Solo un giorno? Avrei sbuffato e scosso le spalle, se mi fossi trovata su un palcoscenico, vestita di pizzi e straccetti e circondata da gente erudita e annoiata. Ma, fortunatamente, ero in una cucina in stile padella, come la chiamavo io: acciaio e plastica, con qualche calamita de La carica dei centouno spruzzata sul frigorifero e presine a quadrotti sgargianti sparse su sedie e banconi, una persino abbandonata sul freezer cromato.

“Pollo ripieno con patate al forno, leggermente bruciacchiate, se possibile. Ah, e con tanto rosmarino”, rispose prontamente Susanna, mentre copiava i voti della seconda B molto più rapidamente del solito e senza capricci. Quando si scopa si è sempre ben disposti. Non c’era dubbio.

O, magari, aveva fatto sesso con il tipo che le riparava il computer, sebbene non l’avessi mai incontrato. Non che m’interessasse molto, naturalmente – non avrei sopportato di inscenare la parte della madre di Lolita, tutto qui. Ero una madre consapevole, non mi facevo raggirare da due mocciosette ottuse. Oppure… Ero un po’ perversa anch’io, come Humbert Humbert.

Ma sì, il personaggio più odioso, ignavo, penoso e insopportabile della letteratura: la madre di Lolita. L’avevo sempre detestata, sin dalla prima volta in cui avevo letto l’opera di Nabokov, trovandola piuttosto eccitante, e ignorando che, in fondo, era solo una variante più sensuale della mia vita: un gioco di voglie. Le stesse che individuavo – a torto o a ragione, non era rilevante – nelle risposte e neile posture delle mie figlie.

“Non ho il tempo di frugare nel culo di un pollo, non so se hai notato”, replicai con soddisfazione. Individuai una confezione di paella surgelata spiegazzata e la vuotai in una padella.

Susanna sbuffò e si contorse leggermente sulla sedia, cercando una posizione più comoda.

“Tanto io stasera esco”, bofonchiò. Fissai, vogliosa, il contenuto della padella e lo rigirai con un cucchiaio di legno; un odore piccante e speziato mi fece lacrimare gli occhi, nonostante la protezione degli occhiali per astigmatismo. Me li sfilai e godetti di quello squisito bruciore.

“Ah, giusto. Visto che oggi sei stata sempre chiusa in casa, poverina…”, ironizzai.

Uno sfrigolio continuo mi distrasse per un attimo, non consentendomi di capire cosa avesse risposto Susanna.

“Cosa?”, le chiesi.

“Niente.”

Stava per gridare, lo sentivo. Magari non è stata neanche una bella scopata; niente orgasmo, avrà finto. Che cogliona.

“Potresti anche aiutarmi qui, no? Non penso che uscire sia così urgente”, la stuzzicai. Sembrava proprio di giocherellare con uno dei miei alunni, citando battute patetiche solo per deviare il discorso – in cui io avevo torto e lo sapevo bene.

“Ma vaffanculo!”, urlò. Ecco, appunto. Copiò gli ultimi voti con fretta maniacale e si precipitò fuori di casa sbattendo la porta. La catena che penzolava dalla serratura tintinnò, stanca.

“Ehi, io non ti ho insegnato a non rispettare tua madre!”, gridai con voce possente. Certo, come se me ne fregasse qualcosa del rispetto. Non ti mando neanche affanculo, tanto ci vai già, troietta del cazzo.

Raccolsi i chicchi di riso sfuggiti alla padella sul piano cottura e li inghiottii uno ad uno, cercando di simulare un gesto sensuale.

Magari l’hanno stuprata e l’è piaciuto, ma ora si sente in colpa. Risi.

 

***

Diamonds are a girl’s best friend!

Mi baluginava sempre davanti agli occhi, quella scritta scintillante sullo sfondo azzurro. Terrificante.

Di per sé la cosa non era affatto spaventosa – snervante, più che altro –, ma quel viso sorridente con quegli zigomi che sporgevano come… come se nascondessero zanne o… Dio, era orrenda. Marilyn Monroe era davvero orrenda.

Ma no, non orrenda. Terrificante, piuttosto.

Ecco, di nuovo al punto di partenza.

Mi abbandonai su una sedia, davanti alla TV del soggiorno; presi a giocherellare con il telecomando e constatai che non era brutta, no… Forse solo troppo luminosa, come i diamanti.

Non avrei mai immaginato che a Susanna piacessero; l’avrei ritenuta piuttosto una di quelle ragazze che indossano appariscenti collane etniche, quelle cianfrusaglie dei negozietti che puzzano di incenso, con commesse volgari e zingaresche e gli zerbini sempre storti rispetto alla parete. In effetti, quello era l’identikit di Susanna che mi ero costruito io, ma mi rendevo conto che le piccole differenze che individuavo facevano tremolare i contorni della sua figura, come se, per conoscerla appieno, avessi dovuto estrarre anche i minimi particolari della sua malsana esistenza.

Mancano otto giorni, mi sorpresi a constatare. Già, soltanto otto giorni per creare qualcosa di minimamente fattibile e verosimile; ma eravamo in due, sicuramente avremmo trovato qualcosa.

Diamonds are a girl’s best friend!

Ecco, ancora: scritta in caratteri sinuosi, quella frase si snodava da un capo all’altro dello schermo del suo vecchio portatile. Ma perché mettere uno sfondo così scemo, poi? Mi stiracchiai: le vertebre scricchiolarono quasi sinistramente e la spalla mi dolse per qualche momento.

Non avevo impiegato molto per rassicurarmi della sua affidabilità: dopo avermi telefonato, Susanna mi aveva lasciato il suo computer nel portone del mio condominio e, in una notte, debellato il virus da me inviato, avevo non solo controllato i contenuti del PC, bensì anche informatone la proprietaria delle mie intenzioni – quelle vere, chiedere il suo aiuto per l’eliminazione della classe, insomma – e avanzato le mie proposte.

Lasciai che le palpebre mi oscurassero il tetro soggiorno, appena inumidito dal liquido baluginio del crepuscolo. Erano le otto, forse; sentii la sigla del telegiornale e, subito dopo, un portone sbattere. È andata via.

Poggiai la testa sul tavolo da pranzo di legno, la guancia sinistra schiacciata su un pungente centrino.

“MARTI’, MA CHE TI SALTA IN MENTE?!”.

Sollevai il viso di scatto, atterrito dalle urla di mia madre. “Eh?”, balbettai ingenuamente. Ero stanco, non riuscivo a trovare neanche la pazienza di fingere tranquillità; ciononostante, avrei dovuto prevedere la reazione di mia madre, da casalinga stupida e ignorante qual era.

“Ma ti rendi conto?! Far entrare una ragazza in casa con tutto ‘sto casino? Guarda, la polvere sulle mensole e… e la scrivania macchiata e… e io che stavo in vestaglia! Ma che ti passa per la testa? Io non lo so, non so davvero cosa fare con te… Non è da persone adulte e responsabili, porco Giuda! Marti’, non sei un bambino, capito?! Basta! Basta!”. Sembrava indemoniata: i capelli corti le incombevano sul volto – colpa della messa in piega scadente, più che di un invasamento demoniaco –, il viso accartocciato in un’espressione di duro biasimo esistenziale, il piede che calpestava il pavimento, emettendo un suono secco per via della pantofola troppo larga. Mi ricordava Capitan Uncino, chissà perché.

“Chi se ne frega? Dài… Mica sono tutti pronti a criticare come te.”

Oh, no. Non dovevo averlo detto, certo che no. Cazzo, l’ho proprio deto. Non che non lo pensassi… Ma avrebbe sicuramente improntato un’orazione degna di uno statista pur di difendere i propri doveri di amministratrice della casa – Ah, è così che le chiamano ora le sguattere incapaci di prendere un minimo di diploma?

Ero finito.

Sperai che ci fosse qualcosa sul fuoco o che la lavatrice fosse in funzione. O, magari, il telefono, la nonna che le chiedeva la ricetta della torta genovese al riso con funghi e salsa rosa, tanto per tenerla incollata al telefono per un paio d’ore.

“Tu non…”. Cominciò a sibilare e accavallare una valanga di parole; mi alzai dalla sedia e mi avviai verso il bagno – l’unica stanza provvista di chiave – mentre mia madre, determinata e strillante, mi seguiva a passi lunghi.

Finalmente riuscii a chiudermi in bagno e, poggiata la testa al muro, pensai a qualcosa di indefinito, pensai che avrei dovuto pensare al diciannove, al compleanno di Ilaria, alla collaborazione di Susanna, a Susanna.

Fra le urla di mia madre e le tempie che mi vibravano, richiamai alla mente tutto ciò che era accaduto dopo essermi impossessato del suo computer.

 

***

Mi sarei dovuto comportare in maniera naturale, la più spontanea possibile, ma non era il mio obiettivo principale in quel momento.

E neanche controllare la sua affidabilità lo era.

Dunque, qual era il mio vero obiettivo?

Per un’oretta non trovai risposta a questa domanda; mi limitai a installare un antivirus qualsiasi – preferii uno scadente, solo per burlarmi un po’ di lei – e a ravviare il sistema. Bene, ora devo controllare i suoi documenti.

Sebbene potesse sembrare che la mia osservazione del suo computer desse voce soltanto alla mia impertinente invadenza… Cancellai mentalmente sebbene e inserii anche perché. Adesso devo cambiare tutti i congiuntivi, mi sorpresi a pensare.

D’accordo, lasciamo sebbene, anche solo per dare una parvenza di legalità. Non che fosse del tutto illegale frugare nel portatile di qualcuno per verificarne l’affidabilità – Lo fa la polizia – e, comunque, il senso della giustizia non era uno dei miei punti di forza, per quanto potessi constatare.

Il desktop, rivestito di uno sfondo azzurro che si scuriva man mano che il colore si avvicinava al margine superiore dello schermo – come un tramonto senza sole –, decorato da una scritta – Diamonds are a girl’s best friend! – e sminuito dal viso di Marilyn Monroe, luminoso e ridente, era quasi totalmente coperto da una griglia di icone. Non è ancora arrivata a capire che esistono le cartelle?

Per la maggior parte si trattava di documenti di testo, quasi tutti recanti la dicitura Nuovo Documento di Microsoft Office Word seguita da un numero; sommariamente, ne contai una trentina. Ne aprii qualcuno a caso: Nuovo Documento di Microsoft Office Word (4) sembrava il capitolo di una storia. Era lungo sette pagine, come dedussi dall’angolo in basso a destra della finestra, e, nella pagina abbagliante, torreggiava un carattere abbastanza semplice e pulito, dalla dimensione 16, notai; iniziava così:

 

“Light, visto che siamo ammanettati, facciamo così: tu resti fuori dalla porta, mentre io mi faccio la doccia, OK? Poi vieni tu, facciamo a turno.”

Light socchiuse la porta sulla catena che lo univa a L e lo vide sfilarsi la maglietta bianca, ammirò il suo petto candido e liscio, come quello di un bambino. Con un brivido, si soffermò sui capezzoli rosei del suo amante proibito, si leccò le labbra assaporando la morbidezza di quella carne pregna di

 

Chiusi il documento, schifato.

Ne aprii un altro a caso: questa volta, per mia fortuna, si trattava di un e-book, per quanto la prima pagina mostrasse. Individuai il titolo: Corpus hermeticum in italiano (traduzione di Ignazio Grappa); scorsi la pagina e lessi di sfuggita solo qualche frase che mi pareva un incantesimo, qualcosa riguardante la Telestikè, di qualsiasi aggeggio si trattasse.

Cliccai sulla croce rossa in alto a destra e aprii Nuovo Documento di Microsoft Office Word (13) – disgustato e, forse, anche spaventato – scorrendo le pagine e leggendo, questa volta, frasi estratte dalla parte centrale del capitolo, sempre nel solito carattere.

 

Oh, Maestro! Mikami non potè far altro che urlarlo, mentre Light, pervaso da un inaspettato fervore, si mosse con furia dentro di lui; Mikami gridava per il dolore e il piacere, zuppo del suo stesso sangue e degli umori del suo amato Maestro.

“Sì, puniscimi, Maestro! PUNISCIMI!”

Light tentò di reprimere i propri gemiti di godimento mentre continuava a frustare il proprio sottoposto con la cintura; il sangue di Mikami gocciolava languidamente dalla sua pallida schiena e Kira quasi urlò di piacere quando alcune gocce raggiunsero, nella loro voluttuosa discesa, il membro del nostro

 

Susanna era piuttosto pericolosa – o, meglio, temevo per il suo buon gusto (se ne esisteva uno in quella testa riccioluta). A quanto pare no.

Mi affrettai a chiudere la finestra, non appena mi vidi indugiare su quelle parole.

Rabbrividii e continuai la mia indagine.

Evitai, terrorizzato, di aprire altri documenti di testo ed esplorai le poche cartelle presenti sul desktop: fanfic – non osai nemmeno selezionarlo –, scuola – appunti di economia aziendale e trattamento testi copiati da qualche sito specializzato –, foto vincenzo – una serie di fotografie che ritraevano Susanna, in atteggiamenti comicamente provocanti, con un ragazzo altissimo (i suoi riccioli superavano di poco il gomito di questo Vincenzo); feste di compleanno, il tavolo di un bar, i due visi divisi dal collo di una bottiglia di birra, un abbraccio, Vincenzo a gattoni con un sorriso spalancato e Susanna a cavalcioni sulla sua schiena con una bacchetta firmata Harry Potter come frustino improvvisato, occhi sbarrati per simulare un’espressione terrorizzata, linguacce, un bacio a luce soffusa, Susanna accoccolata fra le braccia di Vincenzo, che le sfiorava dolcemente il naso.

Un’altra cartella, film, conteneva numerosissimi video – notai titoli come Ladyhawk, The dreamers, Blood and chocolate, una rassegna di film diretti da Stanley Kubrick e Pier Paolo Pasolini, le tre trasposizioni cinematografiche di Death Note e altri innumerevoli titoli.

Facciamo un bilancio momentaneo, decisi: Susanna era senza dubbio una ragazza disordinata – per via dei documenti sparsi sul desktop –, una di quelle che si definiscono pazze solo per giustificare i propri gesti insensati, provocatori, egocentrici, per sentirsi e apparire particolari; una pessima scrittrice dalla testa totalmente annacquata, che cercava solo il successo con una prosa baroccheggiante, argomenti erotici (tanto assurdi da defluire nel nauseante tragicomico), personaggi improbabilmente accoppiati e disgustosamente Out Of Character.

Insomma, personalmente una cogliona, artisticamente una merda.

Era fidanzata con un certo Vincenzo, forse, che, a quanto pareva, era il suo unico amico. Niente traccia di Mariagrazia. Immaginavo che la loro fosse un’amicizia falsa, solo per non deprimersi troppo nella fanghiglia limacciosa della classe.

Cliccai due volte su Risorse del computer e su Documenti – suzie_quiver, rivelando altre cartelle: foto – immagini di Susanna con gli occhi scintillanti per il flash, con altre ragazze più basse, pallide e truccate, le pelli brillavano in maniera ipnoticamente diversa –, musika – file mp3 in ordine alfabetico e qualche CD, fra cui My Chemical Romance, Muse, Cradle of Filth e Gazette –; video – per la maggior parte, si trattava di video musicali. Oltre a questi file, individuai una decina di cartelle minori: scuola, psico, spot_scemi, corso_teatro, dolly_wosh, fanmade, film, dn; esplorai tutti i file, rivelando documentari di ogni tipo, video creati dalle fan di film e anime, pellicole d’epoca e scene registrate nella palestra di quella che pareva una scuola elementare abbandonata, con cartelloni colorati appesi ai muri solo per un angolo, attaccapanni inizialmente smaltati, ma ormai consunti, che davano l’impressione di sbriciolarsi al solo tocco, canestri da basket alle due estremità del grande stanzone. Un gruppo di trenta ragazzi, o forse anche di più, si agitava, rideva, batteva mani su una cattedra macchiata di caffè, urlava su ordine di un uomo sulla quarantina, probabilmente il professore che teneva il corso di teatro. Nella cartella dn c’erano solo fanfiction – sebbene non capissi perché le avesse inserite nella sezione dei video, ma, d’altronde, poteva essere stato un errore dovuto al disordine – fra cui spuntava un’icona affiancata da ff_efp.

Altre cartelle, ciascuna recante il nome della storia che, a quanto pareva, aveva copiato e incollato su documenti di Word.

the_electric_metempsychosis

Allora anche lei leggeva quella fanfiction. Speravo che l’autore non lo scoprisse mai: la sua storia, la sua magnifica storia letta da quella cogliona ignorante; era un… un disonore.

Mi stiracchiai e ritornai nella cartella Documenti, aprendo varie e fatture_ebay. Fui sorpreso quando, davanti a me, si aprì un ventaglio di foto e alcuni video.

Mi colpirono le labbra e, senza accorgermene, avvicinai il viso allo schermo, ingobbendomi ulteriormente sulla sedia dallo schienale di vimini.

Rosee, non accese, sottili e opache, senza trucco.

Rosse, abbaglianti, socchiuse e bagnate, infantili.

Due paia di labbra al centro.

Così plastiche da sembrare finte, colorate chimicamente, malleabili e smaltate.

Sembrava pelle sintetica, imbottita di bambagia e cucita con sottilissimo fildiferro.

Non trovai nulla di autentico in quei bacio, a parte il dolore.

Una sofferenza sottesa da entrambi i lati, labbra che affogavano le une nelle altre, annegavano nella pienezza della loro stessa sopraffazione.

Non è dolore.

Aggrottai impercettibilmente le sopracciglia.

È…

Ero incantato.

… prevaricazione.

Non era un bacio qualunque – ed era evidente – scoppiava di finzione. No, non menzogna… Si trattava semplicemente di un’esplosione sintetica, chimica, elettronica. Sa di protesi.

Susanna sembrava patinata – era un morso, benché non riuscissi a individuare i suoi denti nella foto. Non potevo essere sicuro che fosse così, ma le sue labbra rosso carminio che si chiudevano su quelle chiare dell’altra ragazza… Pareva che la volesse divorare.

Scorsi le altre foto e visionai i video abbassando a zero il livello del volume.

L’altra ragazza, a quanto avevo capito, si chiamava Giusy oppure Giulia, visto che Susanna le gridava allegramente Giu’! in qualche filmato: giocavano con delle Barbie spettinate e polverose, trasformando la visita di Ken e Shelley in un rituale satanico-orgiastico farcito di pedopornografia e sadomasochismo – uno dei loro più ambiti passatempi, a quanto pareva. Giocare in quel modo con le bambole, intendo.

In un altro video, Giu’ si asciugava i capelli biondi con un asciugamano stretto attorno al busto, lasciando scoperta gran parte delle cosce; Susanna, invece, tentava di spogliarla e, ad un certo punto, riusciva a inquadrarle il seno, dopo aver scostato con noncuranza un lembo dell’asciugamano bianco.

“Ehiii!”, protestava Giu’, picchiando la spazzola contro la videocamera o il cellulare di Susanna.

Il filmato si fermò bruscamente su un improvviso avvicinamento dell’obiettivo al soggetto e un incontro di carni.

Le foto erano più di trecento: baci, tuffi, corpi in costume da bagno, un falò, due visi incollati, come gemelli siamesi, un volto attraverso le pareti e il liquido torbido di un acquario, luci bluastre, la luna, un palco, una grande libreria, una piazza innevata, una scritta su una panchina

 

(: Su & Giu :)

 

Non so cosa fu a rompere l’incanto, ma, all’improvviso, ritornai nella realtà.

Erano tutti sfondi: la vera protagonista era quella ragazza bionda, quella Giu’. Era tutto nella mano della fotografa. Di Susanna.

Ed era evidente.

Mi stropicciai gli occhi e decisi che, sì, mi sarebbe servita.

Avrei copiato quelle foto e quei video sul mio hard-disc, in caso si presentasse la necessità di ricattarla.

Riaprii gli occhi.

OK.

Erano le tre e trentatré di mattina. Sorrisi per la coincidenza.

D’accordo.

Ritornai a fissare il monitor, sebbene sentissi le palpebre pizzicare.

Spostai tutti i documenti del desktop in una cartella a caso – benché l’istinto fosse quello di trasferirli nel cestino – e creai un documento di testo, che denominai GIU.

Capirà sicuramente che qualcuno ha frugato nel suo computer, in questo modo.

Aprii il documento e, indugiando sulla tabella ASCII del mio manuale di informatica, digitai:

 

&# 76; &# 108;&# 111; &# 115;&# 97;&# 105; &# 99;&# 104;&# 101; &# 103;&# 108;&# 105; &# 115;&# 104;&# 105;&# 110;&# 105;&# 103;&# 97;&# 109;&# 105; &# 110;&# 111;&# 110; &# 109;&# 97;&# 110;&# 103;&# 105;&# 97;&# 110;&# 111; &# 115;&# 111;&# 108;&# 111; &# 109;&# 101;&# 108;&# 101;&# 63; &# 65;&# 110;&# 99;&# 104;&# 101; &# 99;&# 97;&# 100;&# 97;&# 118;&# 101;&# 114;&# 105;

 

Dovrebbe arrivarci, pensai.

Già: doveva ormai essere un istinto immediato cercare tutto su Google, no?

 

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