Alta marea, bassa marea

di hotaru
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Salame e pomodori ***
Capitolo 2: *** Partorienti ***
Capitolo 3: *** Al sorgere del sole ***



Capitolo 1
*** Salame e pomodori ***


1- Salame e pomodori
Alta marea, bassa marea


“Devo continuare a respirare...
Domani, il sole sorgerà
E chissà la marea cosa può portare...”
(dal film “Cast Away”)




Alta marea, bassa marea



Salame e pomodori


Scrutò ancora quella foto, a lungo, cercando di riportare alla mente una qualche familiarità con quei volti sconosciuti.
La posò nuovamente sul mobile con un gesto stanco. Nulla.
Immagini vuote, senza significato, come avrebbero potuto essere le foto di un estraneo.
Il sole aveva iniziato ad abbassarsi, ormai, perciò poteva tranquillamente riaprire le imposte che aveva socchiuso nelle ore più calde.
Quanti tramonti aveva visto nella sua vita? Migliaia, decine di migliaia. Li avrebbe dimenticati tutti?
Forse quest’ultimo particolare sarebbe stato il meno terribile. Magari avrebbe visto ogni nuovo tramonto come fosse stato il primo. Perennemente sorpresa, come i bambini alla scoperta del mondo.
Sospirò. No, non si illudeva. Sapeva che non sarebbe stato affatto così, ma immaginarlo finché aveva ancora il controllo della propria mente aveva qualcosa di confortante.
Il campanello suonò, ma non la sorprese. Aveva già sentito il familiare scampanellio di una bicicletta… le stringeva il cuore pensare che un giorno non l’avrebbe più riconosciuto.
- Nonna, ci sei? La mamma mi ha mandato a portarti i pomodori! – uno dei suoi nipotini di mezzo piombò nella stanza, con un sacchetto stracolmo tra le mani sporche di terra – Sono freschissimi, li abbiamo raccolti proprio oggi! -.
- Ringrazia tua madre da parte mia – disse lei – Fammi un favore, mettili in cucina -.
- Farai la conserva anche quest’anno? – chiese lui, un ragazzino di undici anni che non aveva ancora perso tutti i denti da latte.
- Mah, vedremo – replicò lei – Non è certo una passeggiata, e quest’anno fa parecchio caldo… -.
- Ti do una mano io, quando vuoi! – si offrì il nipote, volenteroso.
- Vedremo, vedremo – ribadì, sicura che dietro le offerte d’aiuto del ragazzino ci fosse la speranza di evitare i compiti delle vacanze – Adesso va’ a casa, sarà già pronta la cena -.
- Va bene, ciao! – e, così com’era entrato, si era già precipitato fuori.
Un po’ lentamente, arrivò in cucina, dove sul tavolo era posato il sacchetto con i pomodori. Grossi e rossi, assolutamente splendidi.
Ne prese in mano uno: sapeva di terra, di sole. Era ancora caldo.
Aprì il cassetto delle medicine e prese il barattolo che vi aveva nascosto in fondo, in un angolo.
Quanto era freddo, in confronto. Freddo e duro, con quell’asettica plastica bianca.
Rimase lì, con gli occhi velati, a guardare i due oggetti che teneva in mano. Caldo e freddo. Profumato e inodore. Vita e morte.
Con un brivido, posò sul tavolo il flaconcino pieno zeppo di sonniferi.
Se, tanti decenni fa, sua madre avesse saputo come avrebbe voluto farla finita sua figlia, un giorno, le avrebbe ficcato la testa in un catino senza tanti complimenti. Lei, vedova dopo quindici anni di matrimonio, che aveva tirato su cinque figli, non avrebbe mai voluto sentire nulla del genere.
Ma mezzo secolo prima quella viscida malattia non esisteva.
Chiuse gli occhi, stringendoli forte. Lei, poi.
Lei che ricordava i nomi dei parenti più distanti, i compleanni di tutti e persino le date di matrimonio. Lei che non aveva alcuna difficoltà ad imparare le poesie, alle elementari.
Oltre al danno, la beffa.


* * *


Tolse la spessa calza lentamente, quasi con timore.
Poi si rimirò le gambe, racimolando il coraggio di alzare gli occhi verso lo specchio.
Quando si decise, quasi sbuffò.
Dio, che mostro.
Una gamba accettabile e l’altra… beh, sembrava quella di un lebbroso.
Completamente bianca, tranne per le grosse chiazze violacee sparse un po’ ovunque. Non provava nemmeno a toccarle, memore di quanto le facessero male.
Riprese in mano la calza color carne, sudando freddo al pensiero di doversela infilare di nuovo.
Con un sospiro, prese mentalmente nota di non passare mai più un’altra estate incinta. A costo di contare i mesi in cui farlo.

“Signora, è necessario” ricordava bene le parole del medico “Purtroppo è una delle conseguenze più sgradevoli di una gravidanza: le macchie sono causate da una serie di capillari rotti a causa della pressione. Normalmente si presenta in forma più leggera, ma nel suo caso sarebbe meglio prendere delle precauzioni.”
Ossia quella cosa più spessa di un calzettone di lana, lunga dalla coscia alla caviglia, che la stringeva come in una morsa. Da portare per l’intera estate. Ma che fortuna.
“La pressione esercitata dovrebbe ridurre la rottura dei capillari. Fino a dopo il parto non si può fare nient’altro.”
Ah. Chissà nell’Ottocento che rimedio le avrebbero prescritto.

Altro calcio.
Accidenti, ma cosa spingeva? Non si usciva dall’ombelico!
- Dio, spero che sia un maschio. Se è una femmina devo già prepararmi a litigare di brutto – mugugnò, cercando di rimettersi faticosamente la lunga calza.
Una volta riuscita nell’intento, le ci volle un po’ per normalizzare il respiro. Piegarsi glielo mozzava, con quel pallone gonfio a separarla dalle sue ginocchia. Lavarsi i piedi, nella doccia, era diventato impossibile.


* * *


“Ninetta mia, a crepare di maggio,
ci vuole tanto, troppo coraggio.
Ninetta bella, dritto all’inferno
avrei preferito andarci in inverno”. (*)

In realtà non era mai stata d’accordo con le parole di quella famosa canzone. Era questione di opinioni, d’accordo, come la stagione preferita o i dilemmi cane-gatto e mare-montagna.
Eppure ogni volta che sentiva quelle parole non poteva fare a meno di provare un certo fastidio. Certo che le sarebbe piaciuto morire in primavera, potendo scegliere.
Tutti i suoi conoscenti e i suoi stessi figli la guardavano increduli quando diceva così, scuotendo compassionevoli la testa.
“Macchè! Vuoi lasciare questo mondo quando è più bello?” era il commento più gentile che riceveva.
Eppure c’era un che di deludente nel pensare di andarsene in una giornata fredda, nebbiosa, in cui la gente usciva soltanto con sciarpa e guanti. Troppo facile mollare tutto in un momento come quello.
Invece morire in primavera- o ancora meglio, in estate- aveva un fascino sottile e quasi sensuale- a settant’anni passati non ricordava di aver mai usato quella parola!
Il fascino inverso e capovolto di chi sa rinunciare alle cose migliori, cogliendone forse la vera bellezza nel riuscire ad allontanarle. La gloria dell’atleta che si ritira nel momento più sfolgorante della propria carriera.
Un’uscita in pompa magna, insomma, nell’estasi totale dei sensi. Chissà se il corpo, mero agglomerato di cellule, avrebbe ricordato quel particolare momento in cui l’anima se ne andava. Se i profumi, il calore, il sole e il cielo smagliante di quel giorno sarebbero rimasti impressi sulla pelle, le unghie, i capelli; anche se morti.
Sarebbe cambiato qualcosa?
Non lo sapeva, né si illudeva di giungere a qualche conclusione. Ma immaginarselo soltanto era di un conforto incredibile.
Inverno dentro; estate fuori. Un corpo che diventa freddo, ghiaccio tale che nemmeno il sole d’agosto può scioglierlo. Immobilità totale, rigidità delle membra; mentre solo nel giardino chissà quante centinaia d’insetti brulicavano senza sosta, imperterriti.
Aveva sempre adorato i contrasti. La vita si basa sulle antitesi, in fondo.

A pensarlo in quei termini non sembrava più così brutto.


* * *


Il salame non le era mai piaciuto particolarmente, ma adesso ne aveva una voglia pazzesca. Al supermercato doveva sempre tirare dritto, inebriata com’era da quell’intenso profumo di carne macinata e insaccata. A volte si sentiva quasi una drogata in crisi d’astinenza.
La commessa di un negozio, mentre lei provava l’ennesima camicia pre-maman, le aveva chiesto qual era la prima cosa che avrebbe voluto fare dopo aver partorito.
A giudicare dalla quantità di fard che aveva in faccia, stava sicuramente pensando a smagliature o cose del genere. Ma lei aveva prontamente risposto: “Sbafarmi un panino con cinque fette di salame”.
Aveva subito richiuso la tenda del camerino per non scoppiare a riderle in faccia, vista l’espressione della donna. Oh, ma lei non scherzava affatto: aveva già ordinato a suo fratello di portarle una rosetta imbottita, la prima volta che le avesse fatto visita in ospedale.
Se non avesse obbedito, non gli avrebbe nemmeno fatto vedere il bambino. O la bambina.
Ma doveva ancora decidersi tra il milanese e l’ungherese. Magari entrambi.

- Ahi – ansimò, fermandosi di botto accanto al divano – Ahi… -.
Sbuffò sonoramente. Perché si raggomitolava tutto da una parte, spingendo contro le pareti della placenta, facendole un male cane? Avrebbe dovuto chiederglielo, una volta cresciuto.
Si sedette sulla poltrona, allungando le gambe sotto il tavolino del salotto. Doveva ancora andare al mare.
Pensare di andarci in agosto e sperare di trovare posto era una cosa assurda, ma una sua vecchia amica che gestiva un “Bed & Breakfast” le aveva promesso di serbare un letto tutto per lei.
“Solo per la soddisfazione di vederti tonda come una mongolfiera e ingrassata come una balena, tu che sei sempre stata un chiodo!” le aveva gentilmente detto.
Oh, ma c’erano anche le smagliature e quella gamba da invalido di guerra. La sua amica ci avrebbe sguazzato tanto da offrirle la colazione per tutti e tre i giorni che avrebbe trascorso da lei.

L’aveva promesso a suo padre, tanto tempo prima.
Quando era ancora abbastanza lucido da raccontare favole a cui non credeva e abbastanza giovane da fare le scale di corsa senza il minimo accenno di fiatone.
Quando le diceva che la gente nasce squilibrata solo perché le madri sono tanto avventate da non portare i figli al mare prima che nascano.
Assurdo, allora e anche adesso. Ma non si sa mai.



(*) Da “La guerra di Piero” di Fabrizio De André





Terza classificata al contest “Dal Film alla Storia” indetto da DarkRose86! Sinceramente parlando, speravo in tutto tranne che nel podio…
Cosa dovevamo fare? Scegliere una frase tratta da un film e costruirci sopra una storia.
Come avete visto all’inizio, io ho scelto quella tratta da “Cast Away”. Un grande film, secondo me, terribilmente vasto.
Ogni volta che vedo un pallone, mi viene da pensare: “Wilson!”.  ^^

Scherzi a parte, in realtà questa storia è un miscuglio di tante cose. Tante esperienze, particolari presi dalle vite di tante persone… vi assicuro che quasi ogni cosa scritta in questo capitolo- e nei seguenti- è vera. Non ho inventato quasi nulla, salvo forse i pensieri della protagonista più anziana, che rispecchiano molto le mie opinioni.
Quindi grazie a tanta gente che non leggerà mai questa storia, ma che in un certo senso ha contribuito alla sua stesura.

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Capitolo 2
*** Partorienti ***


2- Partorienti Partorienti


Visto che poteva scegliere, le si schiudevano davanti miriadi di possibilità.
Andare ovunque, fare qualunque cosa. Prima del momento che lei stessa aveva progettato.
Non era onnipotenza, questa?
Ciò che i filosofi e i sacerdoti di ogni tempo avevano sempre reputato essere la prima caratteristica divina?
Eccola. Lei.
Sorrise piano, sconvolgendo il volto fra mille rughe, mentre condiva i pomodori. Alla sua età non aveva più molto appetito: della verdura a cena era più che sufficiente, mentre d’inverno bastava una minestra.
Ecco, di nuovo. Non c’era più onore a morire nella stagione dei pomodori, che in quella della minestra?
Aveva appena scoperto come sintetizzare le essenze stesse di due stagioni, di due filosofie di vita, in due cibi differenti. Aveva sempre avuto della filosofa, in fondo.
Di chi la filosofia la fa e la vive, dalla mattina alla sera, non di chi studia su sterili libri i pensieri altrui. Era solita giudicare con durezza i presunti seguaci di Platone, Aristotele e tutta la congrega ellenica, ma faceva volentieri un’eccezione per Socrate.
Lui sì, che sarebbe stato un uomo da invitare ad una cena a base di pomodori.
Scalzo e barbuto, figlio di una levatrice da cui aveva ereditato il mestiere. Solo che mentre lei faceva figliare le donne, lui faceva partorire le menti.
Lei non pensava che avrebbe mai potuto fare una cosa del genere: non aveva il talento né la pazienza per estrarre le idee più limpide e genuine dalla mente umana, visto che si arrabbiava perfino col gatto che si infilava nella porta aperta.
Oltretutto, anche lui aveva deciso della propria morte. Oh, certo, era stato condannato: su questo nessun dubbio. Ma avrebbe potuto allontanarsi da Atene prima di subire il processo; o, meglio ancora, avrebbe potuto fermare la sua “dannosa attività” quand’era ancora in tempo. O dichiararsi colpevole.
Ma non l’aveva fatto, ben conscio del rischio.
Aveva scelto di rimanere e morire. Anche lui aveva ceduto al fascino dell’onnipotenza.

Fare in modo che l’uomo giungesse alla propria idea, quella non condizionata da influenze esterne, fino a raggiungere l’essenza stessa dell’anima, doveva essere affascinante.
Però lei non era una levatrice. Si sentiva piuttosto un’eterna partoriente.


* * *


- Ma sei un mappamondo! -.
Non replicò; perché forse l’avrebbe azzannata alla gola.
- Guarda che lo intendo come complimento – puntualizzò l’amica.
- Ah, davv… -.
- Ma a che mese sei? Hai una pancia enorme! -.
- Al settimo – fece lei, secca – E… grazie -.
- Oh, di niente – ribatté l’amica, con un sorriso a trentadue denti – Dai, ti do una mano con i bagagli! -.
 
Aveva mollato le valigie accanto al letto ancora da fare, e si era precipitata subito in spiaggia. Ora si trovava seduta sul bagnasciuga, infischiandosene del fatto che la calza potesse sporcarsi.
I bagnanti che passavano la guardavano incuriositi, ma lei non li degnava di un’occhiata, pronta a dare un pugno al primo che l’avesse scambiata per una balena arenata.

“La barca naviga leggera
E nella notte ondeggia e va
Lasciando dietro la sua scia di libertà…” (*)

Canticchiò queste parole alla propria pancia, mentre al largo si vedeva passare un vaporetto. Era più che un’adolescente quando avevano trasmesso quel cartone animato, ma non se n’era persa una puntata. Le sembrava di respirare libertà, nei venti minuti in cui la “Peperoncino” solcava i sette mari, uno dopo l’altro.

“Quando sale la marea,
molti scogli non si vedono più…
Quando scende la marea
quegli scogli all’improvviso
tornano su…”

“Una logica impeccabile”, aveva pensato la prima volta che l’aveva sentita. Eppure, man mano che la vita andava avanti, le sembrava quasi che quella strofa nascondesse una verità più profonda.
Gli scogli c’erano sempre, di sicuro non si spostavano. Ma quando la marea si alzava venivano sommersi, e il mare sembrava una superficie liscia e innocua. Come un’illusione che ti avvolge e non ti mostra la crudezza e gli ostacoli della vita.
Forse era meglio che la marea si abbassasse, e gli scogli fossero ben visibili lungo il cammino. Si sarebbero evitate le brutte sorprese.


* * *


Un antico proverbio medievale diceva: “Cur moriatur homo cui salvia crescit in horto?”. Tradotto in lingua corrente, era: “Perché l’uomo deve morire, quando la salvia cresce nell’orto?”.
In parole povere, il mondo non sarebbe certo finito. Tutto sarebbe continuato come sempre: il sole sarebbe sorto, e la marea si sarebbe alzata e abbassata seguendo i moti lunari, anche se lei aveva smesso di respirare.
Magari morire significava semplicemente rinunciare al proprio respiro individuale, egoistico, per tornare al respiro più ampio che animava il mondo.

Ecco, era accaduto di nuovo.
Come ci era arrivata fin lì?
Diede un’occhiata all’orologio della cantina. Le sei e mezza. Ricordava di aver guardato l’ora mentre spolverava i mobili, alle quattro e mezza.
Cos’aveva fatto in quelle due ore?
Si accasciò su una sedia, improvvisamente esausta. Fortuna che perlomeno era rimasta in casa; finora era uscita soltanto una volta, ma era bastata a sconvolgerla.
Perché era andata là, su quel ponte da cui non passava mai?  
Quale criptico messaggio aveva cercato di lanciarle il suo subconscio? O forse era stato tutto un caso: magari avrebbe potuto trovarsi in qualunque altro posto, senza una ragione.
Si prese la testa fra le mani, disperata. Quando era nato suo marito? Quand’era il suo compleanno? E quando era morto?
Frugava nella memoria, incredula di non riuscire a ricordarlo. Avrebbe dimenticato anche i suoi occhi azzurri, un giorno?
Sentì che le si stava formando un nodo in gola, e deglutì sonoramente.
Pensare che l’Alzheimer era solo all’inizio, e si sentiva come se fosse stata già alla fine di tutto.
Avrebbe dovuto darci un taglio in fretta.


* * *


Erano le tre del mattino, ma nella stanza entrava un certo chiarore, dovuto più ai lampioni nella strada che al fulgore delle stelle.
- Ma cosa…? – mormorò incredula, ferma con gli occhi fissi, aspettando un segnale che la tranquillizzasse e la lasciasse tornare a dormire.
Un segnale che non venne, mentre un’altra contrazione sopraggiunse più intensa.
“No, no, calma” disse fra sé, cercando di mantenere il controllo “È troppo presto, forse si tratta soltanto di un falso allarme. Magari capita.”
Una contrazione più forte la fece quasi ansimare dal dolore.
Falso allarme un cavolo.
“Merda” imprecò a denti stretti, buttandosi giù dal letto e dirigendosi a fatica verso la stanza dell’amica.

- Uh, che emozione! – non riuscì a trattenersi quest’ultima, mentre la accompagnava in auto all’ospedale più vicino.
- Ahi, ahi, ahi! -.
- Di’ un po’: hai fifa, non è vero? -.
- Accidenti, ma datti una calmata! Sei in anticipo di un paio di mesi… ahia! -.
- Direi che non abbiamo mai avuto un dialogo più intellettuale – commentò la conducente, nient’affatto preoccupata – Posso entrare con te? -.
- In ospedale? – chiese faticosamente, cercando una posizione più comoda. Le doglie sembravano essere rallentate.
- In sala parto -.
- Fai come vuo… accidenti, piantala di far male! -.
L’amica la sorprese quando allungò una mano e le strinse la sua. Per strada non c’era anima viva: sarebbero arrivate in un battibaleno.
- Respira – disse rassicurante – Continua a respirare -.
- Sì, facile a dirsi per te! -.
- Guarda che lo sto facendo anch’io – ribatté l’altra con un sorriso – Da quando sono nata -.
- Ma pensa! – mugugnò la donna, cercando però di respirare come le avevano insegnato al corso pre-parto.
Allora sembrava così facile, non c’era tutto quel dolore di mezzo.
Giunte all’ospedale, riuscì miracolosamente ad entrare sulle proprie gambe. La sua amica era fin troppo tranquilla, per i suoi gusti. Lei avrebbe tanto voluto voltarsi e fuggire via.
Ma lasciò perdere quando si rese conto che il motivo della fuga se lo sarebbe portato dietro.




(*) Dalla sigla del cartone animato “Un oceano di avventure”. Se volete saperne di più, date un’occhiata al mio account. E, per la canzone, questo è il collegamento: http://www.youtube.com/watch?v=Vgb3CWaENpA



Spero che gli studenti di Filosofia non si siano sentiti offesi. Non ho niente contro chi la studia: qui azzardo soltanto un’opinione puramente personale.
Consideratela una licenza poetica e non prendetevene a male.

Ovviamente, un tributo al mio cartone animato preferito ci doveva essere. L’ho sempre adorato, anche se non lo trasmettono da nove anni (li ho contati). E qui ritengo ci stesse benissimo. 

Mi piacerebbe sapere che cosa ne pensiate, nel bene e nel male. Sono cosciente che sia un tipo di storia che qui non ha molto seguito, ma una recensione sincera e ben motivata è sempre utile.
 

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Capitolo 3
*** Al sorgere del sole ***


3- Al sorgere del sole Al sorgere del sole


Secondo il medico, per essere un settimino era piuttosto grande.
Se lo aspettava più gracile, e si stava già chiedendo se far preparare l’incubatrice, quando lo vide.
Per avere sette mesi, era già un torello.
La madre se la sarebbe senza dubbio ricordata: non aveva memoria di una donna le cui prime parole al figlio fossero state: “Ecco, lo sapevo! I maschi ti fanno sgobbare fin da subito!”.
Comunque sembrava si fosse già innamorata del maschio in questione, quindi non c’erano problemi.
Il travaglio era stato relativamente breve, e il bambino era nato esattamente al sorgere del sole.
- È una cosa un po’ triste, secondo me – commentò l’amica – Mia nonna diceva che i bambini nati di mattina non vedranno mai un fantasma in vita loro -.
- Ma che peccato… - fu la risposta dell’esausta neomamma.
- Comunque con dei presupposti simili dovresti come minimo chiamarlo Febo! -.
Un’occhiata attonita dell’altra le fece subito puntualizzare: - È latino, Febo Apollo era il Dio del Sole! -.
- Ah… -.
Dopo lo shock della nascita e le prime cure degli infermieri, si era subito addormentato. Era così tranquillo che la madre gli aveva messo un paio di volte una mano sotto le narici, per assicurarsi che respirasse.
E c’era: leggero, silenzioso, quasi impalpabile. Il respiro di una nuova vita che si era fatta strada dalle acque.
- Beh, io ero accanto a te e non ho visto, ma quando ti si sono rotte le acque si è sentito uno “splash” amplificato dal pavimento: sembrava un’onda portata dalla marea! -.
Aveva sempre saputo che la sua amica faceva dello spirito gratuito nei momenti in cui era più felice, ma sperava sinceramente che stesse davvero scherzando.
Visto il posto in cui si trovavano, e il fatto che avesse voluto nascere proprio lì, le sarebbe piaciuto dargli un nome che avesse a che fare con il mare. Chissà se in italiano ce n’erano, però.
Avrebbe dovuto chiedere a sua nonna, non appena tornata a casa. Nella sua sterminata memoria ci dovevano essere migliaia di nomi collegati al mare, ne era certa.


* * *


Aveva deciso di vedere l’ultima alba della sua vita, il sorgere dell’ultimo sole.
Non era stato un problema alzarsi così presto: negli ultimi anni il sonno le era venuto a mancare sempre di più, cosicché dormiva soltanto poche ore per notte.
L’aria era così fresca, la strada silenziosa, le finestre chiuse. Guardandosi intorno, sembrava che fosse tutto nuovo: come se ad ogni alba il mondo si rinnovasse, dandoti ancora migliaia di possibilità.
Solo che a lei ne era rimasta soltanto una.
Dopo quella prima mezz’ora di luce, aveva aperto il cassetto e preso il flaconcino di sonniferi.
Tenendo il contenitore freddo e duro fra le dita, pensò che entro la sera di quello stesso giorno il suo corpo lo sarebbe stato altrettanto.
“Oh, beh” si disse “La salvia nel vaso non smetterà certo di crescere per questo!”
Stava giusto cominciando a tentare di aprirlo- sembrava fossero fatti apposta per rimanere chiusi per l’eternità- quando era squillato il telefono.
Posò il contenitore sul tavolo, interdetta, chiedendosi per un attimo se se lo fosse immaginato. Ma il telefono suonò di nuovo.
Alle sei di mattina?
D’accordo che le persone anziane dormono poco, ma chiamare ad un’ora simile le sembrava un po’ maleducato.
“Beh, comunque sono sveglia” pensò, andando a rispondere.
- Pronto, mamma? Mi spiace moltissimo telefonarti a quest’ora, ma avevo assolutamente bisogno di dirlo a qualcuno! – la donna fece un respiro profondo attraverso il ricevitore, prima di annunciare: - È nato! Il bambino di Federica! È un maschio! -.
- Ma… non era ancora presto…? – d’accordo che stava perdendo la memoria, ma non le sembrava che la nipote fosse già arrivata al nono mese.
- Infatti. È andata a trovare una sua amica, da qualche parte al mare, e stanotte sono cominciate le doglie. È nato mezz’ora fa, il birbante! Degno figlio di sua madre; quando ho sentito il telefono mi ha preso un colpo… -.
Lei non rispose. Mezz’ora fa…
- Quando è sorto il sole -.
- Eh? Sì, anche Federica ha detto qualcosa del genere… ma tu come fai a saperlo? Ti sei svegliata per vedere l’alba, per caso? -.
Stava per rispondere qualcosa di vago, ma la figlia non gliene lasciò il tempo.
- Comunque ti ho chiamato anche perché Federica aveva un messaggio per te: voleva sapere se esistono nomi il cui significato è legato al mare… -.
- Marino – rispose pronta.
- … a parte Marino. Non le piace -.
Nemmeno a lei, in fondo. Ma al momento non le veniva in mente altro.
- Devo controllare -.
- Ah, bene. Senti, dopo pranzo volevamo andare a trovarla: non sia mai che non veda mio nipote, e magari ci scappa pure un salto al mare… -.
Già. Figurarsi.
- … vieni anche tu, mamma? Così sfuggiamo al caldo e voi potrete discutere di nomi. Passiamo a prenderti? -.
Non era sicura che quel pomeriggio sarebbe stata sufficientemente lucida da attingere a tutta la sua memoria riguardante i nomi maschili. Oltretutto quella proposta sconvolgeva decisamente tutti i suoi piani.
Lei non avrebbe più dovuto trovarsi in questo mondo, quel pomeriggio.
- Dai, non lo vuoi vedere? Il tuo primo pronipote? Sei una bisnonna, ormai! -.
Questo le fece rilassare la mandibola, e aprire inconsciamente la bocca. Bisnonna. La vita era davvero andata tanto avanti da provocare simili cambiamenti? E dov’era stata lei, nel frattempo?
Non aveva mai conosciuto nemmeno una delle sue quattro bisnonne. Erano morte tutte prima che lei nascesse.
- Ehi, ci sei ancora? Non sarà troppo stancante, vedrai! Pensiamo di fermarci a cena da qualche parte, per festeggiare, e poi torneremo subito a casa. Forse faremo un po’ tardi, ma per una volta… per favore, vieni anche tu! -.
Leggermente frastornata da quell’inaspettato flusso di parole, ci mise un po’ prima di rispondere.
- Va bene. Vado a cercare il libro dei nomi -.
- Perfetto. Ci vediamo più tardi, allora! -.
Quando mise giù il ricevitore, il primo pensiero che la colpì fu che di onnipotente c’era ancora soltanto il Signore.


Non che avesse rinunciato al suo piano, sia chiaro. Le cose sarebbero potute solo peggiorare, per lei.
L’aveva rimandato, sperando che perlomeno per quel bambino dalla pelle già abbronzata e un ciuffo di capelli chiari in testa sarebbe andata diversamente.
Un po’ le somigliava. Aveva quel contrasto tra la pelle scura e i capelli biondicci che lei stessa aveva ereditato da sua nonna.
E non erano i vaneggiamenti di chi si sdilinquisce davanti a un neonato. L’avevano notato tutti, quando l’avevano visto.
La madre- sua nipote- aveva l’aria esausta, ma sembrava piuttosto soddisfatta del suo “torello”.
Lei sperava ardentemente che quel nomignolo avrebbe avuto vita breve.
Il nome, invece, era un problema ancora aperto: non aveva trovato nulla di soddisfacente, ma la neomamma sembrava essersi intestardita sul collegamento col mare. Sperava soltanto che alla fine non gli avrebbe messo un nome straniero, tanto per riuscire nel suo intento.
Non avrebbe sopportato un pronipote di nome “Douglas” o “Kai”. (*)
Anche se era così bello.


“… domani, il sole sorgerà
e chissà la marea cosa può portare…”




(*) Douglas significa “blu profondo” in gaelico, mentre Kai “mare” in hawaiano.
 



Terzo e ultimo capitolo di questa storia.
Ho visto che qualcuno che legge c'è, perciò mi farebbe piacere sapere che cosa ne pensate, in tutta sincerità. Insomma, almeno per sapere se è il caso che ne scriva altre, di originali, oppure no.

Grazie a lizzie83, che ha messo la storia nei Preferiti! Mi piacerebbe davvero conoscere la tua opinione!

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