Alta marea, bassa marea di hotaru (/viewuser.php?uid=42075)
Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.
Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Salame e pomodori ***
Capitolo 2: *** Partorienti ***
Capitolo 3: *** Al sorgere del sole ***
Capitolo 1 *** Salame e pomodori ***
1- Salame e pomodori
Alta marea, bassa marea
“Devo continuare a respirare...
Domani, il sole sorgerà
E chissà la marea cosa può portare...”
(dal film “Cast Away”)
Salame e pomodori
Scrutò ancora quella foto, a lungo, cercando di riportare
alla mente una qualche familiarità con quei volti
sconosciuti.
La posò nuovamente sul mobile con un gesto stanco. Nulla.
Immagini vuote, senza significato, come avrebbero potuto essere le foto
di un estraneo.
Il sole aveva iniziato ad abbassarsi, ormai, perciò poteva
tranquillamente riaprire le imposte che aveva socchiuso nelle ore
più calde.
Quanti tramonti aveva visto nella sua vita? Migliaia, decine di
migliaia. Li avrebbe dimenticati tutti?
Forse quest’ultimo particolare sarebbe stato il meno
terribile. Magari avrebbe visto ogni nuovo tramonto come fosse stato il
primo. Perennemente sorpresa, come i bambini alla scoperta del mondo.
Sospirò. No, non si illudeva. Sapeva che non sarebbe stato
affatto così, ma immaginarlo finché aveva ancora
il controllo della propria mente aveva qualcosa di confortante.
Il campanello suonò, ma non la sorprese. Aveva
già sentito il familiare scampanellio di una
bicicletta… le stringeva il cuore pensare che un giorno non
l’avrebbe più riconosciuto.
- Nonna, ci sei? La mamma mi ha mandato a portarti i pomodori!
– uno dei suoi nipotini di mezzo piombò nella
stanza, con un sacchetto stracolmo tra le mani sporche di terra
– Sono freschissimi, li abbiamo raccolti proprio oggi! -.
- Ringrazia tua madre da parte mia – disse lei –
Fammi un favore, mettili in cucina -.
- Farai la conserva anche quest’anno? – chiese lui,
un ragazzino di undici anni che non aveva ancora perso tutti i denti da
latte.
- Mah, vedremo – replicò lei – Non
è certo una passeggiata, e quest’anno fa parecchio
caldo… -.
- Ti do una mano io, quando vuoi! – si offrì il
nipote, volenteroso.
- Vedremo, vedremo – ribadì, sicura che dietro le
offerte d’aiuto del ragazzino ci fosse la speranza di evitare
i compiti delle vacanze – Adesso va’ a casa,
sarà già pronta la cena -.
- Va bene, ciao! – e, così com’era
entrato, si era già precipitato fuori.
Un po’ lentamente, arrivò in cucina, dove sul
tavolo era posato il sacchetto con i pomodori. Grossi e rossi,
assolutamente splendidi.
Ne prese in mano uno: sapeva di terra, di sole. Era ancora caldo.
Aprì il cassetto delle medicine e prese il barattolo che vi
aveva nascosto in fondo, in un angolo.
Quanto era freddo, in confronto. Freddo e duro, con
quell’asettica plastica bianca.
Rimase lì, con gli occhi velati, a guardare i due oggetti
che teneva in mano. Caldo e freddo. Profumato e inodore. Vita e morte.
Con un brivido, posò sul tavolo il flaconcino pieno zeppo di
sonniferi.
Se, tanti decenni fa, sua madre avesse saputo come avrebbe voluto farla
finita sua figlia, un giorno, le avrebbe ficcato la testa in un catino
senza tanti complimenti. Lei, vedova dopo quindici anni di matrimonio,
che aveva tirato su cinque figli, non avrebbe mai voluto sentire nulla
del genere.
Ma mezzo secolo prima quella viscida malattia non esisteva.
Chiuse gli occhi, stringendoli forte. Lei, poi.
Lei che ricordava i nomi dei parenti più distanti, i
compleanni di tutti e persino le date di matrimonio. Lei che non aveva
alcuna difficoltà ad imparare le poesie, alle elementari.
Oltre al danno, la beffa.
* * *
Tolse la spessa calza lentamente, quasi con timore.
Poi si rimirò le gambe, racimolando il coraggio di alzare
gli occhi verso lo specchio.
Quando si decise, quasi sbuffò.
Dio, che mostro.
Una gamba accettabile e l’altra… beh, sembrava
quella di un lebbroso.
Completamente bianca, tranne per le grosse chiazze violacee sparse un
po’ ovunque. Non provava nemmeno a toccarle, memore di quanto
le facessero male.
Riprese in mano la calza color carne, sudando freddo al pensiero di
doversela infilare di nuovo.
Con un sospiro, prese mentalmente nota di non passare mai
più un’altra estate incinta. A costo di contare i
mesi in cui farlo.
“Signora, è necessario” ricordava bene
le parole del medico “Purtroppo è una delle
conseguenze più sgradevoli di una gravidanza: le macchie
sono causate da una serie di capillari rotti a causa della pressione.
Normalmente si presenta in forma più leggera, ma nel suo
caso sarebbe meglio prendere delle precauzioni.”
Ossia quella cosa più spessa di un calzettone di lana, lunga
dalla coscia alla caviglia, che la stringeva come in una morsa. Da
portare per l’intera estate. Ma che fortuna.
“La pressione esercitata dovrebbe ridurre la rottura dei
capillari. Fino a dopo il parto non si può fare
nient’altro.”
Ah. Chissà nell’Ottocento che rimedio le avrebbero
prescritto.
Altro calcio.
Accidenti, ma cosa spingeva? Non si usciva dall’ombelico!
- Dio, spero che sia un maschio. Se è una femmina devo
già prepararmi a litigare di brutto –
mugugnò, cercando di rimettersi faticosamente la lunga
calza.
Una volta riuscita nell’intento, le ci volle un po’
per normalizzare il respiro. Piegarsi glielo mozzava, con quel pallone
gonfio a separarla dalle sue ginocchia. Lavarsi i piedi, nella doccia,
era diventato impossibile.
* * *
“Ninetta mia, a crepare di maggio,
ci vuole tanto, troppo coraggio.
Ninetta bella, dritto all’inferno
avrei preferito andarci in inverno”. (*)
In realtà non era mai stata d’accordo con le
parole di quella famosa canzone. Era questione di opinioni,
d’accordo, come la stagione preferita o i dilemmi cane-gatto
e mare-montagna.
Eppure ogni volta che sentiva quelle parole non poteva fare a meno di
provare un certo fastidio. Certo che le sarebbe piaciuto morire in
primavera, potendo scegliere.
Tutti i suoi conoscenti e i suoi stessi figli la guardavano increduli
quando diceva così, scuotendo compassionevoli la testa.
“Macchè! Vuoi lasciare questo mondo quando
è più bello?” era il commento
più gentile che riceveva.
Eppure c’era un che di deludente nel pensare di andarsene in
una giornata fredda, nebbiosa, in cui la gente usciva soltanto con
sciarpa e guanti. Troppo facile mollare tutto in un momento come quello.
Invece morire in primavera- o ancora meglio, in estate- aveva un
fascino sottile e quasi sensuale- a settant’anni passati non
ricordava di aver mai usato quella parola!
Il fascino inverso e capovolto di chi sa rinunciare alle cose migliori,
cogliendone forse la vera bellezza nel riuscire ad allontanarle. La
gloria dell’atleta che si ritira nel momento più
sfolgorante della propria carriera.
Un’uscita in pompa magna, insomma, nell’estasi
totale dei sensi. Chissà se il corpo, mero agglomerato di
cellule, avrebbe ricordato quel particolare momento in cui
l’anima se ne andava. Se i profumi, il calore, il sole e il
cielo smagliante di quel giorno sarebbero rimasti impressi sulla pelle,
le unghie, i capelli; anche se morti.
Sarebbe cambiato qualcosa?
Non lo sapeva, né si illudeva di giungere a qualche
conclusione. Ma immaginarselo soltanto era di un conforto incredibile.
Inverno dentro; estate fuori. Un corpo che diventa freddo, ghiaccio
tale che nemmeno il sole d’agosto può scioglierlo.
Immobilità totale, rigidità delle membra; mentre
solo nel giardino chissà quante centinaia
d’insetti brulicavano senza sosta, imperterriti.
Aveva sempre adorato i contrasti. La vita si basa sulle antitesi, in
fondo.
A pensarlo in quei termini non sembrava più così
brutto.
* * *
Il salame non le era mai piaciuto particolarmente, ma adesso ne aveva
una voglia pazzesca. Al supermercato doveva sempre tirare dritto,
inebriata com’era da quell’intenso profumo di carne
macinata e insaccata. A volte si sentiva quasi una drogata in crisi
d’astinenza.
La commessa di un negozio, mentre lei provava l’ennesima
camicia pre-maman, le aveva chiesto qual era la prima cosa che avrebbe
voluto fare dopo aver partorito.
A giudicare dalla quantità di fard che aveva in faccia,
stava sicuramente pensando a smagliature o cose del genere. Ma lei
aveva prontamente risposto: “Sbafarmi un panino con cinque
fette di salame”.
Aveva subito richiuso la tenda del camerino per non scoppiare a riderle
in faccia, vista l’espressione della donna. Oh, ma lei non
scherzava affatto: aveva già ordinato a suo fratello di
portarle una rosetta imbottita, la prima volta che le avesse fatto
visita in ospedale.
Se non avesse obbedito, non gli avrebbe nemmeno fatto vedere il
bambino. O la bambina.
Ma doveva ancora decidersi tra il milanese e l’ungherese.
Magari entrambi.
- Ahi – ansimò, fermandosi di botto accanto al
divano – Ahi… -.
Sbuffò sonoramente. Perché si raggomitolava tutto
da una parte, spingendo contro le pareti della placenta, facendole un
male cane? Avrebbe dovuto chiederglielo, una volta cresciuto.
Si sedette sulla poltrona, allungando le gambe sotto il tavolino del
salotto. Doveva ancora andare al mare.
Pensare di andarci in agosto e sperare di trovare posto era una cosa
assurda, ma una sua vecchia amica che gestiva un “Bed
& Breakfast” le aveva promesso di serbare un letto
tutto per lei.
“Solo per la soddisfazione di vederti tonda come una
mongolfiera e ingrassata come una balena, tu che sei sempre stata un
chiodo!” le aveva gentilmente detto.
Oh, ma c’erano anche le smagliature e quella gamba da
invalido di guerra. La sua amica ci avrebbe sguazzato tanto da offrirle
la colazione per tutti e tre i giorni che avrebbe trascorso da lei.
L’aveva promesso a suo padre, tanto tempo prima.
Quando era ancora abbastanza lucido da raccontare favole a cui non
credeva e abbastanza giovane da fare le scale di corsa senza il minimo
accenno di fiatone.
Quando le diceva che la gente nasce squilibrata solo perché
le madri sono tanto avventate da non portare i figli al mare prima che
nascano.
Assurdo, allora e anche adesso. Ma non si sa mai.
(*) Da “La guerra di Piero” di Fabrizio De
André
Terza classificata al contest
“Dal Film alla Storia” indetto da DarkRose86! Sinceramente
parlando, speravo in tutto tranne che nel podio…
Cosa dovevamo fare? Scegliere una frase tratta da un film e costruirci sopra una storia.
Come avete visto all’inizio, io
ho scelto quella tratta da “Cast Away”. Un grande film,
secondo me, terribilmente vasto.
Ogni volta che vedo un pallone, mi viene da pensare: “Wilson!”. ^^
Scherzi a parte, in realtà
questa storia è un miscuglio di tante cose. Tante esperienze,
particolari presi dalle vite di tante persone… vi assicuro che
quasi ogni cosa scritta in questo capitolo- e nei seguenti- è
vera. Non ho inventato quasi nulla, salvo forse i pensieri della
protagonista più anziana, che rispecchiano molto le mie opinioni.
Quindi grazie a tanta gente che non leggerà mai questa storia, ma che in un certo senso ha contribuito alla sua stesura.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 2 *** Partorienti ***
2- Partorienti
Partorienti
Visto che poteva scegliere, le si schiudevano davanti miriadi di possibilità.
Andare ovunque, fare qualunque cosa. Prima del momento che lei stessa aveva progettato.
Non era onnipotenza, questa?
Ciò che i filosofi e i sacerdoti di ogni tempo avevano sempre reputato essere la prima caratteristica divina?
Eccola. Lei.
Sorrise piano, sconvolgendo il volto fra mille rughe, mentre condiva i
pomodori. Alla sua età non aveva più molto appetito:
della verdura a cena era più che sufficiente, mentre
d’inverno bastava una minestra.
Ecco, di nuovo. Non c’era più onore a morire nella stagione dei pomodori, che in quella della minestra?
Aveva appena scoperto come sintetizzare le essenze stesse di due
stagioni, di due filosofie di vita, in due cibi differenti. Aveva
sempre avuto della filosofa, in fondo.
Di chi la filosofia la fa e la
vive, dalla mattina alla sera, non di chi studia su sterili libri i
pensieri altrui. Era solita giudicare con durezza i presunti seguaci di
Platone, Aristotele e tutta la congrega ellenica, ma faceva volentieri
un’eccezione per Socrate.
Lui sì, che sarebbe stato un uomo da invitare ad una cena a base di pomodori.
Scalzo e barbuto, figlio di una levatrice da cui aveva ereditato il
mestiere. Solo che mentre lei faceva figliare le donne, lui faceva
partorire le menti.
Lei non pensava che avrebbe mai potuto fare una cosa del genere: non
aveva il talento né la pazienza per estrarre le idee più
limpide e genuine dalla mente umana, visto che si arrabbiava perfino
col gatto che si infilava nella porta aperta.
Oltretutto, anche lui aveva deciso della propria morte. Oh, certo, era
stato condannato: su questo nessun dubbio. Ma avrebbe potuto
allontanarsi da Atene prima di subire il processo; o, meglio ancora,
avrebbe potuto fermare la sua “dannosa attività”
quand’era ancora in tempo. O dichiararsi colpevole.
Ma non l’aveva fatto, ben conscio del rischio.
Aveva scelto di rimanere e morire. Anche lui aveva ceduto al fascino dell’onnipotenza.
Fare in modo che l’uomo giungesse alla propria
idea, quella non condizionata da influenze esterne, fino a raggiungere
l’essenza stessa dell’anima, doveva essere affascinante.
Però lei non era una levatrice. Si sentiva piuttosto un’eterna partoriente.
* * *
- Ma sei un mappamondo! -.
Non replicò; perché forse l’avrebbe azzannata alla gola.
- Guarda che lo intendo come complimento – puntualizzò l’amica.
- Ah, davv… -.
- Ma a che mese sei? Hai una pancia enorme! -.
- Al settimo – fece lei, secca – E… grazie -.
- Oh, di niente – ribatté l’amica, con un sorriso a trentadue denti – Dai, ti do una mano con i bagagli! -.
Aveva mollato le valigie accanto al letto ancora da fare, e si era
precipitata subito in spiaggia. Ora si trovava seduta sul bagnasciuga,
infischiandosene del fatto che la calza potesse sporcarsi.
I bagnanti che passavano la guardavano incuriositi, ma lei non li
degnava di un’occhiata, pronta a dare un pugno al primo che
l’avesse scambiata per una balena arenata.
“La barca naviga leggera
E nella notte ondeggia e va
Lasciando dietro la sua scia di libertà…” (*)
Canticchiò queste parole alla propria pancia, mentre al largo si
vedeva passare un vaporetto. Era più che un’adolescente
quando avevano trasmesso quel cartone animato, ma non se n’era
persa una puntata. Le sembrava di respirare libertà, nei venti
minuti in cui la “Peperoncino” solcava i sette mari, uno
dopo l’altro.
“Quando sale la marea,
molti scogli non si vedono più…
Quando scende la marea
quegli scogli all’improvviso
tornano su…”
“Una logica impeccabile”, aveva pensato la prima volta che
l’aveva sentita. Eppure, man mano che la vita andava avanti, le
sembrava quasi che quella strofa nascondesse una verità
più profonda.
Gli scogli c’erano sempre, di sicuro non si spostavano. Ma quando
la marea si alzava venivano sommersi, e il mare sembrava una superficie
liscia e innocua. Come un’illusione che ti avvolge e non ti
mostra la crudezza e gli ostacoli della vita.
Forse era meglio che la marea si abbassasse, e gli scogli fossero ben
visibili lungo il cammino. Si sarebbero evitate le brutte sorprese.
* * *
Un antico proverbio medievale diceva: “Cur moriatur homo cui
salvia crescit in horto?”. Tradotto in lingua corrente, era:
“Perché l’uomo deve morire, quando la salvia cresce
nell’orto?”.
In parole povere, il mondo non sarebbe certo finito. Tutto sarebbe
continuato come sempre: il sole sarebbe sorto, e la marea si sarebbe
alzata e abbassata seguendo i moti lunari, anche se lei aveva smesso di
respirare.
Magari morire significava semplicemente rinunciare al proprio respiro
individuale, egoistico, per tornare al respiro più ampio che
animava il mondo.
Ecco, era accaduto di nuovo.
Come ci era arrivata fin lì?
Diede un’occhiata all’orologio della cantina. Le sei e
mezza. Ricordava di aver guardato l’ora mentre spolverava i
mobili, alle quattro e mezza.
Cos’aveva fatto in quelle due ore?
Si accasciò su una sedia, improvvisamente esausta. Fortuna che
perlomeno era rimasta in casa; finora era uscita soltanto una volta, ma
era bastata a sconvolgerla.
Perché era andata là, su quel ponte da cui non passava mai?
Quale criptico messaggio aveva cercato di lanciarle il suo subconscio?
O forse era stato tutto un caso: magari avrebbe potuto trovarsi in
qualunque altro posto, senza una ragione.
Si prese la testa fra le mani, disperata. Quando era nato suo marito? Quand’era il suo compleanno? E quando era morto?
Frugava nella memoria, incredula di non riuscire a ricordarlo. Avrebbe dimenticato anche i suoi occhi azzurri, un giorno?
Sentì che le si stava formando un nodo in gola, e deglutì sonoramente.
Pensare che l’Alzheimer era solo all’inizio, e si sentiva come se fosse stata già alla fine di tutto.
Avrebbe dovuto darci un taglio in fretta.
* * *
Erano le tre del mattino, ma nella stanza entrava un certo chiarore,
dovuto più ai lampioni nella strada che al fulgore delle stelle.
- Ma cosa…? – mormorò incredula, ferma con gli
occhi fissi, aspettando un segnale che la tranquillizzasse e la
lasciasse tornare a dormire.
Un segnale che non venne, mentre un’altra contrazione sopraggiunse più intensa.
“No, no, calma” disse fra sé, cercando di mantenere
il controllo “È troppo presto, forse si tratta soltanto di
un falso allarme. Magari capita.”
Una contrazione più forte la fece quasi ansimare dal dolore.
Falso allarme un cavolo.
“Merda” imprecò a denti stretti, buttandosi
giù dal letto e dirigendosi a fatica verso la stanza
dell’amica.
- Uh, che emozione! – non riuscì a trattenersi
quest’ultima, mentre la accompagnava in auto all’ospedale
più vicino.
- Ahi, ahi, ahi! -.
- Di’ un po’: hai fifa, non è vero? -.
- Accidenti, ma datti una calmata! Sei in anticipo di un paio di mesi… ahia! -.
- Direi che non abbiamo mai avuto un dialogo più intellettuale
– commentò la conducente, nient’affatto preoccupata
– Posso entrare con te? -.
- In ospedale? – chiese faticosamente, cercando una posizione più comoda. Le doglie sembravano essere rallentate.
- In sala parto -.
- Fai come vuo… accidenti, piantala di far male! -.
L’amica la sorprese quando allungò una mano e le strinse
la sua. Per strada non c’era anima viva: sarebbero arrivate in un
battibaleno.
- Respira – disse rassicurante – Continua a respirare -.
- Sì, facile a dirsi per te! -.
- Guarda che lo sto facendo anch’io – ribatté l’altra con un sorriso – Da quando sono nata -.
- Ma pensa! – mugugnò la donna, cercando però di respirare come le avevano insegnato al corso pre-parto.
Allora sembrava così facile, non c’era tutto quel dolore di mezzo.
Giunte all’ospedale, riuscì miracolosamente ad entrare
sulle proprie gambe. La sua amica era fin troppo tranquilla, per i suoi
gusti. Lei avrebbe tanto voluto voltarsi e fuggire via.
Ma lasciò perdere quando si rese conto che il motivo della fuga se lo sarebbe portato dietro.
(*) Dalla sigla del cartone animato “Un oceano di
avventure”. Se volete saperne di più, date
un’occhiata al mio account. E, per la canzone, questo è il
collegamento: http://www.youtube.com/watch?v=Vgb3CWaENpA
Spero che gli studenti di Filosofia
non si siano sentiti offesi. Non ho niente contro chi la studia: qui
azzardo soltanto un’opinione puramente personale.
Consideratela una licenza poetica e non prendetevene a male.
Ovviamente, un tributo al mio cartone
animato preferito ci doveva essere. L’ho sempre adorato, anche se
non lo trasmettono da nove anni (li ho contati). E qui ritengo ci
stesse benissimo.
Mi piacerebbe sapere che cosa ne
pensiate, nel bene e nel male. Sono cosciente che sia un tipo di storia
che qui non ha molto seguito, ma una recensione sincera e ben motivata
è sempre utile.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 3 *** Al sorgere del sole ***
3- Al sorgere del sole
Al sorgere del sole
Secondo il medico, per essere un settimino era piuttosto grande.
Se lo aspettava più gracile, e si stava già chiedendo se far preparare l’incubatrice, quando lo vide.
Per avere sette mesi, era già un torello.
La madre se la sarebbe senza dubbio ricordata: non aveva memoria di una
donna le cui prime parole al figlio fossero state: “Ecco, lo
sapevo! I maschi ti fanno sgobbare fin da subito!”.
Comunque sembrava si fosse già innamorata del maschio in questione, quindi non c’erano problemi.
Il travaglio era stato relativamente breve, e il bambino era nato esattamente al sorgere del sole.
- È una cosa un po’ triste, secondo me –
commentò l’amica – Mia nonna diceva che i bambini
nati di mattina non vedranno mai un fantasma in vita loro -.
- Ma che peccato… - fu la risposta dell’esausta neomamma.
- Comunque con dei presupposti simili dovresti come minimo chiamarlo Febo! -.
Un’occhiata attonita dell’altra le fece subito puntualizzare: - È latino, Febo Apollo era il Dio del Sole! -.
- Ah… -.
Dopo lo shock della nascita e le prime cure degli infermieri, si era
subito addormentato. Era così tranquillo che la madre gli aveva
messo un paio di volte una mano sotto le narici, per assicurarsi che
respirasse.
E c’era: leggero, silenzioso, quasi impalpabile. Il respiro di una nuova vita che si era fatta strada dalle acque.
- Beh, io ero accanto a te e non ho visto, ma quando ti si sono rotte
le acque si è sentito uno “splash” amplificato dal
pavimento: sembrava un’onda portata dalla marea! -.
Aveva sempre saputo che la sua amica faceva dello spirito gratuito nei
momenti in cui era più felice, ma sperava sinceramente che
stesse davvero scherzando.
Visto il posto in cui si trovavano, e il fatto che avesse voluto
nascere proprio lì, le sarebbe piaciuto dargli un nome che
avesse a che fare con il mare. Chissà se in italiano ce
n’erano, però.
Avrebbe dovuto chiedere a sua nonna, non appena tornata a casa. Nella
sua sterminata memoria ci dovevano essere migliaia di nomi collegati al
mare, ne era certa.
* * *
Aveva deciso di vedere l’ultima alba della sua vita, il sorgere dell’ultimo sole.
Non era stato un problema alzarsi così presto: negli ultimi anni
il sonno le era venuto a mancare sempre di più, cosicché
dormiva soltanto poche ore per notte.
L’aria era così fresca, la strada silenziosa, le finestre
chiuse. Guardandosi intorno, sembrava che fosse tutto nuovo: come se ad
ogni alba il mondo si rinnovasse, dandoti ancora migliaia di
possibilità.
Solo che a lei ne era rimasta soltanto una.
Dopo quella prima mezz’ora di luce, aveva aperto il cassetto e preso il flaconcino di sonniferi.
Tenendo il contenitore freddo e duro fra le dita, pensò che
entro la sera di quello stesso giorno il suo corpo lo sarebbe stato
altrettanto.
“Oh, beh” si disse “La salvia nel vaso non smetterà certo di crescere per questo!”
Stava giusto cominciando a tentare di aprirlo- sembrava fossero fatti
apposta per rimanere chiusi per l’eternità- quando era
squillato il telefono.
Posò il contenitore sul tavolo, interdetta, chiedendosi per un
attimo se se lo fosse immaginato. Ma il telefono suonò di nuovo.
Alle sei di mattina?
D’accordo che le persone anziane dormono poco, ma chiamare ad un’ora simile le sembrava un po’ maleducato.
“Beh, comunque sono sveglia” pensò, andando a rispondere.
- Pronto, mamma? Mi spiace moltissimo telefonarti a quest’ora, ma
avevo assolutamente bisogno di dirlo a qualcuno! – la donna fece
un respiro profondo attraverso il ricevitore, prima di annunciare: -
È nato! Il bambino di Federica! È un maschio! -.
- Ma… non era ancora presto…? – d’accordo che
stava perdendo la memoria, ma non le sembrava che la nipote fosse
già arrivata al nono mese.
- Infatti. È andata a trovare una sua amica, da qualche parte al
mare, e stanotte sono cominciate le doglie. È nato
mezz’ora fa, il birbante! Degno figlio di sua madre; quando ho
sentito il telefono mi ha preso un colpo… -.
Lei non rispose. Mezz’ora fa…
- Quando è sorto il sole -.
- Eh? Sì, anche Federica ha detto qualcosa del genere… ma
tu come fai a saperlo? Ti sei svegliata per vedere l’alba, per
caso? -.
Stava per rispondere qualcosa di vago, ma la figlia non gliene lasciò il tempo.
- Comunque ti ho chiamato anche perché Federica aveva un
messaggio per te: voleva sapere se esistono nomi il cui significato
è legato al mare… -.
- Marino – rispose pronta.
- … a parte Marino. Non le piace -.
Nemmeno a lei, in fondo. Ma al momento non le veniva in mente altro.
- Devo controllare -.
- Ah, bene. Senti, dopo pranzo volevamo andare a trovarla: non sia mai
che non veda mio nipote, e magari ci scappa pure un salto al
mare… -.
Già. Figurarsi.
- … vieni anche tu, mamma? Così sfuggiamo al caldo e voi potrete discutere di nomi. Passiamo a prenderti? -.
Non era sicura che quel pomeriggio sarebbe stata sufficientemente
lucida da attingere a tutta la sua memoria riguardante i nomi maschili.
Oltretutto quella proposta sconvolgeva decisamente tutti i suoi piani.
Lei non avrebbe più dovuto trovarsi in questo mondo, quel pomeriggio.
- Dai, non lo vuoi vedere? Il tuo primo pronipote? Sei una bisnonna, ormai! -.
Questo le fece rilassare la mandibola, e aprire inconsciamente la bocca. Bisnonna. La vita era davvero andata tanto avanti da provocare simili cambiamenti? E dov’era stata lei, nel frattempo?
Non aveva mai conosciuto nemmeno una delle sue quattro bisnonne. Erano morte tutte prima che lei nascesse.
- Ehi, ci sei ancora? Non sarà troppo stancante, vedrai!
Pensiamo di fermarci a cena da qualche parte, per festeggiare, e poi
torneremo subito a casa. Forse faremo un po’ tardi, ma per una
volta… per favore, vieni anche tu! -.
Leggermente frastornata da quell’inaspettato flusso di parole, ci mise un po’ prima di rispondere.
- Va bene. Vado a cercare il libro dei nomi -.
- Perfetto. Ci vediamo più tardi, allora! -.
Quando mise giù il ricevitore, il primo pensiero che la
colpì fu che di onnipotente c’era ancora soltanto il
Signore.
Non che avesse rinunciato al suo piano, sia chiaro. Le cose sarebbero potute solo peggiorare, per lei.
L’aveva rimandato, sperando che perlomeno per quel bambino dalla
pelle già abbronzata e un ciuffo di capelli chiari in testa
sarebbe andata diversamente.
Un po’ le somigliava. Aveva quel contrasto tra la pelle scura e i
capelli biondicci che lei stessa aveva ereditato da sua nonna.
E non erano i vaneggiamenti di chi si sdilinquisce davanti a un
neonato. L’avevano notato tutti, quando l’avevano visto.
La madre- sua nipote- aveva l’aria esausta, ma sembrava piuttosto soddisfatta del suo “torello”.
Lei sperava ardentemente che quel nomignolo avrebbe avuto vita breve.
Il nome, invece, era un problema ancora aperto: non aveva trovato nulla
di soddisfacente, ma la neomamma sembrava essersi intestardita sul
collegamento col mare. Sperava soltanto che alla fine non gli avrebbe
messo un nome straniero, tanto per riuscire nel suo intento.
Non avrebbe sopportato un pronipote di nome “Douglas” o “Kai”. (*)
Anche se era così bello.
“… domani, il sole sorgerà
e chissà la marea cosa può portare…”
(*) Douglas significa “blu profondo” in gaelico, mentre Kai “mare” in hawaiano.
Terzo e ultimo capitolo di questa storia.
Ho visto che qualcuno che legge
c'è, perciò mi farebbe piacere sapere che cosa ne
pensate, in tutta sincerità. Insomma, almeno per sapere se
è il caso che ne scriva altre, di originali, oppure no.
Grazie a lizzie83, che ha messo la storia nei Preferiti! Mi piacerebbe davvero conoscere la tua opinione!
|
Ritorna all'indice
Questa storia è archiviata su: EFP /viewstory.php?sid=423683
|