I due volti del serpente

di Kronos333
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Il primo giorno ***
Capitolo 2: *** Il secondo giorno ***
Capitolo 3: *** Il terzo giorno ***



Capitolo 1
*** Il primo giorno ***


I DUE VOLTI DEL SERPENTE

La neve cadeva dolcemente su New York, la città eterna. I fiocchi bianchi oscuravano la visuale e la temperatura costantemente in calo costringevano le persone ad infagottarsi con diversi strati di maglie, maglioni, sciarpe, cappelli, paraorecchie, guanti e cappotti. Un corvo nero, talmente maestoso che sembrava uscito da una poesia di Edgar Allan Poe, si alzò da un ramo parzialmente coperto di neve lasciando qualche piuma sparsa sul terreno. Nero su bianco. I colori complementari si mescolarono quando altri fiocchi di neve coprirono le piume dell’uccello trasformando il contrasto in un disgustoso grigio sporco. Il corvo sorvolò Manatthan agitando velocemente le ali nel tentativo, vano, di riscaldarsi. Il maestoso uccello fu attratto dall’insegna luminosa di un locale, un gigantesco panino e una bibita lampeggiavano ripetutamente sopra il nome della tavola calda, “Da Joe”. Subito quel macabro sesto senso posseduto solo dagli uccelli portatori di sventura si attivò nell’animale. Il corvo fece un mezzo giro del locale e arrivò sul vicolo nel retro. Dei bidoni dell’immondizia, una accattone… e una finestrella. Il maestoso animale si appollaiò proprio sul davanzale di quest’ultima e si pregustò la scena.

La minuscola finestra dava sul bagno del ristorante. Era questi una stanza piccola e sporca, con un grande specchio opaco davanti ai due lavandini, di cui uno guasto. Le mattonelle del pavimento erano verde acceso. In fondo alla stanza c’erano tre piccoli separé, e in uno di questi separé era seduto un ragazzo esile. Doveva avere circa vent’anni ma non ne dimostrava più di quindici. I capelli corvini gli cadevano in un buffo ciuffo davanti agli occhi e il suo viso non aveva ancora perso i tratti infantili tipici dell’adolescenza. Indossava dei jeans neri, un orrendo maglione sformato beje che però dava l’impressione di essere incredibilmente caldo e comodo e una giacca di pelle nera. Il ragazzo non stava bene. Aveva gli occhi rovesciati all’indietro e i muscoli si contraevano rapidamente provocandogli numerose convulsioni. Nonostante questo si stava incidendo gli avambracci con notevole precisione con un coltello da carne. Improvvisamente la porta del bagno si spalancò e ne entrò un signore di mezz’età. I capelli grigi e i vestiti curati del nuovo arrivato stonavano con lo squallore del bagno. L’uomo non si accorse di quello che stava succedendo nel separé e prese a lavarsi meticolosamente le mani. Il ragazzo si alzò come in trance e barcollando usci dal separé con il coltello in mano. L’uomo nonostante avesse davanti a se l’enorme specchio e potesse controllare tutta la sala non si accorse del ragazzo che gli stava arrivando alle spalle perché con la sua figura copriva perfettamente quella dell’altro. Quando si accorse dell’estraneo fu troppo tardi. Con un colpo preciso il ragazzo in trance incise la gola dell’uomo per impedirgli di gridare ma senza procurare altri danni. L’uomo cadde a terra stordito e il ragazzo salì su di lui. La lama del coltello, già sporca del sangue della vittima e dell’assassino brillò un’ultima volta nella debole luce della lampada prima di penetrare in profondità nel petto dell’uomo una, due, tre volte. Il sangue si sparse sul pavimento. Rosso su verde.

La macchina, un utilitaria di colore giallo acceso, si fermò sul marciapiede. «Non lo sopporto» si stava lamentando a gran voce il guidatore. «Perché tutti gli squinternati della città devono mettersi ad ammazzarsi tra loro proprio quando in servizio ci sono io, è slealistico!». «Sleale» lo corresse a bassa voce una ragazza dai lunghi capelli color miele legati in una frettolosa coda che occupava il posto di dietro. «Quello che è» la liquidò infastidito l’autista, un ragazzone pallido con una spettinatissima zazzera rossa che spuntava da sotto il cappello di lana. «Ruphert, ci sono omicidi tutti i giorni a New York» commentò stancamente la donna bruna accanto al ragazzo scendendo dalla macchina. «Ma di più quando in servizio ci sono io» protestò Ruphert tanto per avere l’ultima parola. La ragazza con la coda di cavallo sorrise sotto la sua sciarpa bianca. «Ragazzi muovetevi!» strepitò la bruna. «Ok Emily, il capo sei tu» si arrese alla fine il rosso aprendo la portiera. «Andiamo Rose» disse rivolto all’altra ragazza. Rose si affrettò a prendere la borsa a tracolla con il computer portatile dal quale non si separava mai e si preparò ad affrontare il gelo.

L’interno della tavola calda era decisamente più… caldo. Rose si godette il tepore sinceramente gratificata da quel piccolo regalo, Emily spezzò subito quell’attimo di relax. «Accidenti allo sbalzo termico, non lo sopporto» sbottò togliendosi il paraorecchie, i guanti e il morbido cappotto di camoscio restando con uno splendido maglione a collo alto color salmone. Anche Ruphert si tolse il giaccone rivelando una sformatissima felpa blu e azzurra a tema militare ma non tolse il cappello di lana dal quale non si separava mai. Rose invece non si tolse la giacca color panna ma solo la sciarpa, i guanti e il cappello in tinta, il freddo le era entrato nelle ossa. Emily si avvicinò agli agenti che stavano riposando seduti al bancone. Appena la videro i tre uomini saltarono su come delle molle, ormai conoscevano troppo bene il loro principale. «Buonasera commissario Jefferson». «Ciao ragazzi» salutò Emily appoggiando le sue mani affilate e curatissime sul bancone. «Ciao Ruphert, buonasera principessa» salutarono gli agenti diretti ai due ispettori. Rose arrossì fino alla radice dei capelli, detestava essere chiamata “principessa”. «Allora, cosa abbiamo?» chiese pratica Emily. «Omicidio volontario, il decesso è probabilmente avvenuto per dissanguamento, il colpevole era seduto a quel tavolo dove però non abbiamo trovato effetti personali oltre a questo libro». Per accompagnare quest’ultima affermazione l’agente sbatté sul bancone un libro dalla copertina nera. Rose lo afferrò incuriosita. «La tempesta, di Wiliam Shakespear». «Non è esattamente una lettura da omicida» pensò ad alta voce Ruphert. «Il delitto è avvenuto in bagno, il cadavere è stato scoperto da un altro cliente. Sembra che l’assassino non si sia preoccupato di nascondere le sue tracce, abbiamo anche rinvenuto l’arma del delitto». Detto questo sollevò una busta trasparente contenente un coltello macchiato di sangue. «La scientifica ha già fatto i rilievi necessari e noi stavamo aspettando voi per portare via il cadavere». «Avete interrogato la cameriera?» chiese Emily tamburellando spazientita sul bancone con le lunghe unghie laccate di rosso. «Certo, ci fornirà un identikit dell’assassino ma per il resto non sa niente, né la vittima né l’assassino sono clienti abituali». «Come si chiama la vittima?» chiese Rose improvvisamente. L’agente la guardò a lungo prima di risponderle «Jhon Robert Senior». Rose ringraziò e segnò il nome sul taccuino azzurro che aveva estratto dalla borsetta. Emily si lasciò scappare un tenero sorriso, conosceva il significato di quel gesto. Rose aveva comprato quel quaderno bianco il suo primo giorno di servizio, tre anni prima, e segnava tutti i cadaveri su cui indagava. “Così mi ricordo i nomi di quelli per cui devo pregare la sera” le aveva spiegato una volta. Emily era rimasta molto perplessa, lei non credeva in Dio. Ma d’altra parte sapeva che la fede era una cosa che Rose usava come una stampella per la sua straordinaria sensibilità.  «Bene» esordì finalmente il commissario «Ruphert, Rose… voi due andate a conoscere questo cadavere, io faccio un sopralluogo sul retro».

Il corpo era disteso in mezzo al bagno in una posizione scomposta. Un lungo brivido mi corse lungo la schiena osservando gli occhi marroni ancora aperti. «Rosie! Guarda qui!» mi chiamò Ruphert eccitato. Mi sforzai di togliere lo sguardo da quel corpo. E mi avvicinai al mio amico. «Guarda, c’è del sangue in questo separé» osservò il rosso. Mi chinai per osservare meglio, era vero. Nel terzo separé da destra c’era del sangue. «Deve esserci stata una colluttazione» dedusse il ragazzo. Scossi la testa «Non ha alcun senso che la vittima fosse nel separé». «Allora cosa ci fa del sangue qua?». Sospirai lievemente sfregandomi le mani. «Non lo so». «Va bene, torniamo nella sala che qui si muore di congelamento». «Congelati, oppure si muore di freddo se preferisci» lo corressi automaticamente, poi un lampo di consapevolezza mi schiarì la mente. «Ruphert… qui si muore di freddo!» esclamai come se stessi rivelando la soluzione a tutti i problemi del mondo. Il rosso mi squadrò spaesato. «Perché qui c’è freddo?». «Bhè… la finestra è aperta» osservò lui con semplicità. Mi alzai e guardai la finestra osservando bene l’altezza e l’ampiezza del passaggio. «So da dove è scappato l’assassino».

“Avrei dovuto prendere la giacca” pensai maledicendomi per l’ennesima volta. Mi sistemai una ciocca di capelli sfuggita alla crocchia e mi sfregai le mani laccate di rosso. Mi voltai verso la porta ma mi accorsi con orrore che si poteva aprire solo dall’interno. “Emily sei un’idiota” mi maledissi un’ultima volta. Ma ormai ero lì quindi… Mi avvicinai ancheggiando all’accattone appoggiato al muro. «Buonasera» dissi con voce suadente, sapevo che mi avrebbe dato risposte solo se avessi giocato bene le mie carte, e la migliore del mazzo era il mio essere donna. «Ciao dolcezza!» esclamò il barbone con occhi avidi soffermandosi sul mio seno abbondante. Quella situazione mi disgustava ma dovevo continuare a recitare. «Come te la passi?». «Per ora sono vivo, e forse anche domani» rispose il senzatetto ironico. «Senti amico, mi servirebbe un favore» dissi con voce suadente «Stasera in questo locale è stato commesso un omicidio, tu non hai visto nessuno?». Immediatamente il barbone cambiò atteggiamento e mi fissò per la prima volta negli occhi marroni. «Sei uno sbirro?» chiese in un soffio. Leggevo una certa paura nei suoi occhi grigi. Sospirai, mentire era inutile. «Si, sono il commissario Emily Jefferson». Il barbone abbassò lo sguardo. «Io non ho visto nessuno, nessuno». Sospirai, avevo perso. Mi alzai infastidita e mi allontanai. «Ho visto qualcosa» mi fermò un’ultima volta il barbone. Girai la testa con studiata lentezza. «Era un essere alto, indossava un mantello che lo rendeva praticamente invisibile con un cappuccio calato in testa». Subito sentii una morsa allo stomaco. «Però gli ho visto gli occhi, aveva due occhi rossi come due tizzoni ardenti e lo sguardo cattivo». Un’immotivata paura mi afferrò alle viscere impedendomi di respirare. Corsi via dal vicolo accompagnata dalla sinistra risata del vecchio.

Matt Collins si svegliò e si mise a sedere con uno scatto. Gettò uno sguardo preoccupato alla sveglia, quel catorcio non aveva funzionato. Il ragazzo si alzò stordito e si accorse di avere ancora addosso i jeans neri e la maglietta bianca a maniche lunghe. Cos’era successo l’altra sera? I ricordi tornarono tutti insieme e lo schiacciarono con il loro peso. Aveva ucciso un uomo. Gli avambracci erano ancora macchiati di sangue. I ricordi erano confusi e rimbalzavano da un lato all’altro della testa. Ricordava la tavola calda, poi l’omicidio commesso. Ma era stato davvero lui? Matt ricordava distintamente un uomo alto con indosso un coloratissimo vestito fatto di piume e pelli che compiva l’omicidio. Ma la mano che stringeva il coltello era la sua. Le maniche della maglietta erano macchiate di sangue, Matt le scostò e dovette trattenere un conato di vomito. Si era inciso un curioso simbolo sugli avambracci: un serpente a due teste. “Cosa vuol dire questo simbolo? E cosa è successo ieri sera?”. In quel preciso momento il telefono squillò. Matt si affrettò ad andare nel salotto per rispondere. La casa era incredibilmente vuota da quando Viki, la sua ex era andata a vivere da sola, due mesi prima. Il telefono cordless era appoggiato sul tavolo e continuava a squillare. Matt stava per premere il pulsante ma esitò, non aveva voglia di parlare. Lasciò scattare la segreteria. «Matt? Ci sei? Mi chiedevo se volessi venire oggi pomeriggio a trovare mamma e papà al cimitero». Il ragazzo non ebbe più dubbi, era suo fratello maggiore Marcus. «Marcus? Sei tu?». «Matt! Perché non rispondevi?». Il ragazzo lo interruppe subito «Marcus, ho bisogno di parlarti, possiamo incontrarci subito dopo pranzo?». L’uomo dall’altra parte della linea era un po’ spiazzato. «Matt? Tutto bene?». «Possiamo incontrarci dopo pranzo?» ripeté Matt aggressivo. «Bhè… certo, ma stai bene?» chiese esitante Marcus. «Perfetto» disse Matt riagganciando. Dopo quella telefonata si sentiva molto più tranquillo, se c’era una persona che lo poteva aiutare quello era Marcus. Mancava meno di un’ora all’una, avrebbe approfittato del tempo rimasto per lavare i vestiti e le lenzuola sporche di sangue.

Emily camminava veloce nelle sue scarpe da ginnastica diretta al suo ufficio. Tutti gli agenti scattavano in piedi e la salutavano ossequiosi al suo passaggio. La donna si godette quel sottile piacere che provava nel comandare gli altri. Davanti alla porta dell’ufficio trovò Rose che parlava con Jeffrey, un’agente senza infamia e senza lode. «Non è possibile! Sono già passati sei mesi!» stava sbraitando l’uomo davanti ad un’imbarazzatissima Rose. «Cosa succede qui?» intervenne Emily brusca. «Buongiorno Commissario» la salutò l’uomo «Stavo chiedendo al tenente Callhagan se poteva ricordare al vostro collega che mi deve cento dollari». «Non è un nostro problema» disse pratica Emily entrando nell’ufficio e trascinandosi dietro la sua collega. «Ma Commissario! Sono già passati sei mesi! Non potrebbe esortarlo?». «Perché non lo fai tu? Sta arrivando proprio adesso» lo rimbeccò la donna chiudendo la porta.

Jeffrey si voltò famelico verso Ruphert che effettivamente stava arrivando proprio in quel momento salutando e scherzando. Appena il rosso vide Jeffrey impallidì e si voltò tornando sui suoi passi. «No Ruphert! Adesso tu vieni qui e mi restituisci i miei soldi!». Il ragazzo si fermò elaborando una scappatoia. Quando ne trovò una abbastanza divertente si voltò e cominciò a parlare con fare teatrale. «Jeffrey… tu credi in nostro signore Gesù Cristo? Tu credi che a nostro signore Gesù Cristo importi qualcosa del vile denaro? NO! A nostro signore Gesù Cristo importa una cosa sola… è L’AMORE!». Jeffrey lo guardava spaesato. «Quindi Jeffrey… mia piccola pecorella smarrita… smetti di pensare al vile denaro e AMA!». Detto questo Ruphert si affrettò ad entrare nello studio prima che Jeffrey protestasse lasciando il collega con un palmo di naso.

«Finalmente sei arrivato!» sbottò Emily appena mi vide. Appesi il giaccone e mi scusai. Rose sorrise timida. Era bellissima. Quasi quanto Samantha, la mia ragazza. Improvvisamente mi accorsi che l’ufficiale scientifico, Garrett, occupava il mio posto. «Ciao amico, cosa ci fai qui?». «Garrett è venuto ad aggiornarci sul caso della tavola calda». «Bene» esclamai sedendomi su una delle sedie che Emily usava per ricevere le persone. «Da dove vuoi che cominci?» chiese Garrett. «Com’è morto?». «L’assassino ha dato tre coltellate molto precise che hanno reciso le arterie polmonari… è stata una morte lunga». Un freddo brivido scorse lungo schiena di tutti. «L’assassino potrebbe avere qualche conoscenza di anatomia?» chiese Rose. «Molto probabile» rispose Garrett «C’è una piccola possibilità di colpire quelle arterie, ma è molto più credibile che sia stato fatto di proposito». Emily stava pensando «Parlami del sangue trovato da Rose nel separé». «L’ho trovato io!» protestai. Garrett mi ignorò «Il sangue è dell’assassino, lo abbiamo trovato anche sulla lama del coltello e sul davanzale della finestra». «Abbiamo le impronte digitali?» chiese Rose. «Certo, erano sulle posate, sul libro e naturalmente sul coltello». Rispose Garrett. «Quindi l’assassino si è ferito prima di compiere il delitto» dedussi io. Garrett annuì «Crediamo sia così». «Ma perché?» intervenne Rose sconcertata. «Bhè… ogni professione ha i suoi tipi strani… perché non “gli assassini”». «Abbastanza debole come motivazione» commentò scettica il commissario. «A ciascuno il suo Emily, io mi occupo di rilievi e tu di motivazioni» si giustificò Garrett serafico. La donna annuì stancamente, «C’è altro?». «Si, abbiamo l’identikit fornitoci dalla cameriera e questo foglietto». Emily e Rose presero il disegno ma io fui attratto dal pezzo di carta. «L’assassino lo usava come segnalibro» spiegò Garett. Il foglio  era un triangolino di carta palesemente staccato da un foglio più grande. Sopra c’era un elenco di cifre incomprensibili. «Chissà cos’è?» osservai pensieroso. Rose me lo tolse di mano e lo scrutò attentamente. «Posso provare a fare una ricerca in rete». «Bene» acconsentì Emily. Io mi documenterò sulla vittima. Poi la donna si rivolse verso di me. «E voglio che tu restituisca i cento dollari a Jeffrey, non ne posso più di lui». «Cosa?».

I fiocchi di neve vorticavano nell’aria gelida posandosi sulle lapidi di marmo. Amavo il cimitero. Non per un macabro senso dell’ironia, ma per l’atmosfera calma e sospesa che regnava eterna in quel posto. La tomba dei miei genitori era parzialmente coperta di neve e mi chinai a pulirla accarezzando a lungo la foto nella cornice ovale. Bruce e Lois Collins erano morti insieme, in un incidente d’auto. All’epoca io avevo sedici anni e mio fratello solo dieci.

“Marcus… dove sono mamma e papà?”.

 “Sono partiti”.

 “Davvero? E per dove? Perché ci hanno lasciato qui? Perché non ci hanno salutato?”.

Perché. Perché. Perché. Tutti quei punti interrogativi alla quale non era mai riuscito a trovare una risposta. Quando avevo preso i voti, io e Matt ci eravamo allontanati.

“Tutto questo è successo per quella tua stupida partita di calcio! Volevi che mamma e papà venissero a guardarti a tutti i costi e loro ti hanno accontentato! È colpa tua!”.

Le parole di mio fratello mi risuonavano in testa tutti i giorni. Guardai un’altra volta l’orologio, era in ritardo. Finalmente vidi la sagoma di mio fratello Matt delinearsi nella neve. Il ragazzo mi si affiancò e depose un piccolo papavero sulla pietra. «Ciao mamma, ciao papà» salutò Matt. Solo allora si degnò di guardarmi. «Ciao Marcus». Lo guardai bene, mi sembrava un rifugiato. «Ciao Matt» lo salutai abbracciandolo.  «Come stai? Di cosa mi devi parlare?» indagai preoccupato. «Ho ucciso un uomo».

“Hai ucciso un uomo?”.

 “Certo, più di uno, è la guerra”.

 “E come fai a dormire la notte papà?”.

 “Sono abituato”.

«Cosa?». Matt si prese la testa tra le mani. «Ti prego non farmelo ripetere». «Come è successo?» annaspai cercando di capire cosa stesse succedendo al mondo. Matt mi riassunse la storia, continuavo a non capire. «Marcus, non sono stato io, devi credermi!». Continuai a guardarlo come se fosse un alieno. «Non sono stato io». Nella sua voce leggevo una lieve incrinatura ma risultava comunque decisa e determinata. «Matt… io credo… io credo che dovresti… ecco insomma… costituirti». Matt alzò le braccia al cielo «Accidenti a te Marcus, non posso costituirmi, devo capire cosa mi è successo!». « Non potresti allora andare da uno psichiatra?» tentai di nuovo.  «Non sono pazzo Marcus, non sono pazzo». Respirai a pieni polmoni tentando di mantenere la calma. «Avevo bisogno di parlarne con qualcuno ma evidentemente ho sbagliato persona» sbraitò Matt arrabbiato. Mio fratello si girò e fece per andarsene «Spero che almeno potrò contare sul tuo silenzio». «Aspetta».

“Dio… dov’era il tuo Dio quando mamma e papà sono morti?”.

“Matt, non è giusto che tu disprezzi così la mia fede”.

“No Marcus, non hai capito niente, io non disprezzo la tua fede… io disprezzo te!”.

“È così? Allora vattene!”

«Aspetta». Mio fratello si girò lentamente. «Io ti credo Matt, sono solo confuso e spaventato». Matt si avvicinò sospettoso. «Forse ho un’idea!». Estrassi dalla tasca il mio taccuino nero su cui segnavo sempre tutto per evitare di dimenticarmi alcunché. Sfogliai rapidamente le pagine trovando finalmente l’appunto che cercavo.  «Ecco qui» dissi strappando la pagina e dandola a mio fratello. «È l’indirizzo di una medium, io non credo in queste cose ma potrebbe essere un buon punto di partenza». Matt mi studiò attentamente, come un animale selvatico scruta attentamente chi gli dà il cibo prima di accettarlo, ma alla fine prese il foglio. «Grazie» mormorò prima di sparire nella neve. “Sto proteggendo un assassino” pensai mentre il ragazzo si allontanava. Mi inginocchiai sulla tomba incurante della neve e pregai.

Mi legai i capelli color miele con un elastico e mi misi al lavoro. Scrutai attentamente il triangolino di carta e segnai su un foglio di word le cifre che riuscivo a leggere. Sembravano numeri senza senso ma doveva esserci una logica. “Forse è un codice cifrato” pensai inserendo i numeri nel decrittatore. Il risultato fu negativo. Tentai di farlo combaciare con centinaia di tabulati: orari di voli, tabulati telefonici, conti, bollette, spese municipali e qualsiasi altro elenco di cifre. Dopo due ore ero ancora davanti al computer, ormai stava calando la sera. Sbadigliai rumorosamente pronta a gettare la spugna, volevo solo andare a letto. Spensi il computer e mi misi la giacca. Attraversai la sala vuota piena di scrivanie quando una luce attirò la mia attenzione: Qualcuno aveva lasciato il computer acceso. Sorrisi stancamente e andai a spegnerlo, ma quando stavo per premere il pulsante un’idea mi balzò in testa. Troppo curiosa per rinunciare corsi indietro alla scrivania per recuperare il foglio di carta e inserii la sequenza numerica in una normale ricerca di Google. Ovviamente la cosa più semplice si rivelava la più efficace.

Ero nella vasca da bagno quando il telefonino cominciò a suonare. La mia suoneria, la canzone “All Star” dei Smash Mouth, risuonò nella casa vuota. Allungai la mano e risposi alla chiamata. «Azioni!» urlò Rose dall’altro capo del telefono. Restai un attimo scombussolata, cosa intendeva dire? «Rose? Ti senti bene?». La mia amica era eccitatissima «Si Emily, certo, ho capito cosa c’è scritto sul foglio che l’assassino usava come segnalibro». Immediatamente prestai più attenzione. «Sono azioni bancarie, l’assassino lavora in banca!». Capii perché Rose era così agitata, era semplicemente ansiosa di sentire i miei complimenti. «Grandiosa Rose, sei stata mitica!». Immediatamente il respiro affannoso della ragazza si calmò un poco. «Ho scoperto ancora una cosa». «Sono tutta orecchie». «Come di certo saprai la carta delle banche è filigranata, c’è impresso il codice di identificazione, e sono già risalita alla banca di provenienza». Annuii impressionata, in poche ore Rose aveva trovato più indizi di me. Uno strano sentimento mi prese al ventre. «Perfetto» dissi sempre meno convinta. «E già che c’ero ho trovato un elenco degli impiegati e ho confrontato le foto con l’identikit e, tieniti forte, c’è una corrispondenza!». «Cosa?» saltai su sollevando acqua e schiuma e sporcando le piastrelle rosa del bagno. Rose non aveva semplicemente scoperto qualcosa… aveva proprio risolto il caso! «Allora Emily… cosa ne pensi?». Cosa ne pensavo? La mia collega era stata semplicemente fantastica, aveva risolto il giallo in poche ore. Aveva proposto lei cosa fare, trovato la soluzione e identificato il killer. Da sola. Senza l’aiuto di nessuno. Senza il mio aiuto. Cosa ne pensavo? «Non c’è male… chiamo subito gli agenti di pattuglia che vadano ad arrestarlo. Dammi nome e indirizzo». Rose me li disse. Fissai a lungo il telefonino prima di decidermi a chiamare gli agenti, alla fine premetti il tasto giusto.  «Pronto?» mi rispose una voce assonnata dall’altro capo. «Sono il Commissario Jefferson». «Commissario!» esclamò l’altro visibilmente più attento. Esitai ancora un istante,uno solo. «Ho risolto il caso della tavola calda, potete andare ad arrestare il colpevole, adesso vi do nome e indirizzo».

Note dell’autore: Buongiorno. Scusate la mia assenza nelle altre due long-fic a cui sto lavorando ma mi hanno assegnato un compito a scuola: scrivere un racconto giallo, questo racconto. Ho deciso di pubblicarlo in tre parti, non dovrete attendere troppo visto che la seconda parte è già completa. Vi prego commentate, anche perché mi fido molto più del vostro giudizio rispetto a quello della mia prof… Al prossimo capitolo.

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Capitolo 2
*** Il secondo giorno ***


La neve scendeva gelata congelandomi anche le ossa. Mi scostai il ciuffo di capelli neri dagli occhi e misi le mani inguantate nelle tasche del piumino nero insufficiente a difendermi dal freddo. La casa di Eva, la medium consigliatami da mio fratello era nella zona residenziale. Le case erano piccole villette a due piani ognuna con il proprio giardino. In estate avrebbero dovuto essere bellissime, ma tra la nebbia e la neve gettavano i passanti in un’atmosfera da romanzo gotico per nulla rassicurante. Arrivai alla casa giusta e suonai il campanello, sempre meno sicuro di quello che stavo facendo. Nessuna risposta. Forse ero ancora in tempo per tornare indietro. Proprio mentre formulavo questo pensiero la porta si aprì rivelando una donna anziana costretta su un’antiquata sedia a rotelle. Gli occhi erano lattiginosi e spalancati verso il vuoto. Era cieca. «Cosa cerchi da Eva?» chiese con una voce che ricordava il cigolio di una vecchia porta male oliata. «Emm… Posso, posso entrare?» chiesi esitante. «Certo, perché congelarsi qua fuori quando possiamo stare dentro al calduccio? Ti spiacerebbe spingere questa sedia figliolo? È terribilmente pesante». «Certo» risposi prontamente. Solo allora mi accorsi che la sedia di Eva non aveva i comandi per muoversi automaticamente. La casa sembrava esser rimasta qualche secolo indietro; tutto, dai mobili alla pesante stufa di ghisa, unica fonte di riscaldamento, era vecchio e antiquato. Persino i vestiti della padrona di casa sembravano usciti da un negozio di antiquariato. La donna indossava infatti un vestito lungo e ampio, con un corsetto stretto e un alto collo di pizzo. Arrivati al soggiorno, una stanza circolare con le finestre oscurate da pesanti drappi neri ed un tavolino a tre gambe, Eva mi fermò con un brusco gesto della mano. Mi sorprese, non credevo che avesse tanta energia, ma del resto se viveva da sola e si spingeva da sola su quella pesantissima sedia a rotelle doveva avere altre doti nascoste. «Cosa cerchi da me?» chiese nuovamente Eva. « Devo riuscirmi a ricordare una cosa che mi è successa» dissi mantenendomi vago. «Una persona non viene da me per sciocchezze del genere!» sbotto la vecchia irritata «Sai come mi chiamano? L’ultima spiaggia». Senza motivo un lungo brivido mi scosse la schiena. Dovevo essere sincero «Ieri sera sono caduto in una specie di trance ed ho ucciso un uomo, ma non ricordo bene i particolari dell’omicidio. Voglio scoprire cosa mi è successo». «Così va meglio» cantilenò la vecchietta. «C’è altro?». Esitai ancora un istante ma decisi di essere totalmente sincero. «Si. Prima di compiere l’omicidio mi sono inciso questo simbolo sugli avambracci» dissi svolgendo le bende che portavo attorno alle braccia. Eva mi prese gli avambracci e cominciò a tastarli. Mentre le sue mani callose e incartapecorite mi esaminavano il ghigno sul volto scomparve lentamente per far posto ad una smorfia di meraviglia. «Eva! Conosce questo simbolo? Cosa significa?» urlai strappando le mani dalla sua presa. «Calma giovanotto» mi impose lei con voce ferma, il tono cigolante con cui mi aveva accolto era totalmente scomparso. «Forse ho riconosciuto qualcosa e forse te lo dirò alla fine di quest’incontro» decise irremovibile. «Che cosa? Eva mi deve dire tutto quello che sa!» protestai. «Devo?» tuonò lei irata. Immediatamente il palloncino del mio astio scoppiò patetico. «Siediti» mi disse secca, obbedii. La donna accese l’incenso e tre candele, immediatamente l’aria fu satura di un insopportabile profumo dolciastro. «Dammi le mani» ordinò di nuovo lei. Obbedii senza fiatare. «Adesso ascoltami bene, stiamo per penetrare la tua memoria inconscia, non è una cosa facile ed ho bisogno di tutta la tua collaborazione. Ricordati che devi sempre restare calmo e per nessuna ragione devi disubbidirmi, io sarò sempre con te».

Libravo nell’oscurità più assoluta, senza nessun punto di riferimento. «Matt?» mi chiamò una voce cristallina. «Chi è?» chiesi spaventato. La voce rise, una risata fresca che ricordava il tintinnare dei campanelli.  «Ma come? Non mi riconosci? Sono Eva!». «Eva?» balbettai stranito. La ragazza rise di nuovo. Finalmente riuscii a vederla. Era una ragazza della mia stessa età, con lunghi capelli castani che le arrivavano alla vita e due grandi occhi verdi da cerbiatta. La ragazza mi fissò divertita «Bhè cosa c’è?». Non c’erano dubbi sulla sua identità, ma mi riusciva difficile far combaciare le due figure. «Sei pronto?» mi chiese lei più seria. «Certo» mentii io. «Allora andiamo!!!» esclamò lei prendendomi per mano e lanciandosi in un folle volo sopra la città misteriosamente apparsa sotto di noi. «Che città è questa?». Eva rise «La tua!». «Cosa?» chiesi senza capire. «In questo luogo sono custoditi tutti i tuoi ricordi… e la tua mente ce li presenta in forma di città». «Vuoi dire che siamo nel mio cervello?». «Non fisicamente» rise lei. «Dobbiamo trovare la tavola calda» mi ordinò. Gettai uno sguardo sotto di me e individuai subito l’edificio basso con la scritta al neon. «È quello!». «Bene!» esclamò Eva mentre mi prendeva per mano e mi trascinava verso il basso. Il nostro volo si fermò davanti alla porta che spinsi con decisione. Subito una forte ansia mi prese al petto. «Calmati Matt!» mi ordinò Eva al mio fianco «Respira. Devi mantenere la calma». Tentai di respirare più lentamente e l’oppressione al petto scomparve. «Osserva, vuoi vedere cosa è successo? Allora guarda» mi ordinò Eva con la sua voce cristallina. Vedevo bene, stavo semplicemente mangiando una bistecca e leggendo un libro da solo. «Signore le porto qualcosa?» mi chiese la cameriera. «Si, un caffè per favore». La scena sembrava normale. Mi guardai attorno stordito per esaminare gli altri clienti e notai che alcune zone erano delle macchie scure.  «Sono i punti che non hai visto, il tuo subconscio non può registrare informazioni che non hai visto» spiegò Eva impassibile senza distogliere lo sguardo dal me stesso seduto al tavolo. «Il suo caffè signore» disse la cameriera posandomi una tazza sul tavolo con delicatezza. Bofonchiai un grazie poco convinto. «Matt! Guarda!» mi avvertì Eva allarmata. Un uomo alto, dalla carnagione scura e avvolto in una lunga cerata con cappuccio si stava avvicinando a me con in mano uno strano sacchetto pieno di polvere bianca. «Chi è?» chiesi sospettoso. Il senso di oppressione al petto mi attanagliò di nuovo all’improvviso mozzandomi il respiro. Non avevo notato quell’uomo! Non avevo notato come mi versava nel caffè quella droga! Che idiota! «Respira Matt, calmati» mi sostenne Eva. Ma non ci riuscivo, il rimorso per l’ingenuità dimostrata era troppo grande. «Se non resisti non saprai cosa è successo dopo!» mi tentò la medium. In quel momento feci lo sforzo in più richiestomi e riuscii a controllarmi. «Cosa sta succedendo?» chiesi ad Eva. «Stai bevendo il caffè… guarda». Era vero, l’altro me stava bevendo il caffè e subito un forte tremito lo scosse. Afferrò velocemente il coltello e andò in bagno. «No!» urlai sconvolto. «Calmati Matt, resisti!». Ma ormai nemmeno la voce argentina di Eva riusciva a confortarmi. Mi accasciai a terra mentre il ristorante e tutta la città mi si scioglievano attorno.

Rinvenni ansimando. «No!» urlai ancora una volta alle pareti. Un violento schiaffo mi fece rinsavire completamente. «Ti ho ripreso per i capelli» commentò Eva, di nuovo tornata al suo aspetto terreno. «Hai rischiato di impazzire giovanotto». Mi guardai le mani mettendo gradualmente a fuoco i particolari. «Lei… lei conosce quell’uomo vero Eva?». «Apri le finestre ragazzo, c’è quest’odore d’incenso insopportabile». «Lei sta tentando di cambiare discorso, chi era quell’uomo» chiesi calmo. «Non sono ancora sicura di quello che ho visto, ho bisogno di tempo per riflettere ed analizzare» disse lei serafica. «Ma Eva! Io devo sapere!». «E saprai, ti chiedo solo di pazientare un altro giorno». La guardai sospettoso. «Tra un giorno esatto saprai la verità». Sospirai esasperato ma la vecchia era irremovibile. «Bene, domani alla stessa ora verrò qui» decisi.

La piccola macchina gialla sfrecciava per la città a velocità folle. «Ruphert! Vuoi forse finire nella cronaca nera alla velocità della luce?» urlò Emily nelle orecchie del rosso. Osservai bene la mia amica, era decisamente più nervosa del solito… strano visto che avevamo arrestato Collins. «Va bene, scusa» bofonchiò Ruphert offeso. Improvvisamente la canzone “All Star” risuonò nella macchina ed Emily iniziò a frugarsi in tasca alla ricerca del cellulare. Alla fine riuscì a rispondere «Emily Jefferson… Cosa?… Siete degli incapaci!… Come cosa? Mettete il palazzo sotto sorveglianza!… E interrogate tutti i suoi parenti e conoscenti, forse si rifugerà da qualcuno di loro… Voglio tutto questo fatto alla perfezione e lo voglio, ieri. Ci siamo capiti?». Alla fine della conversazione chiuse il telefono di scatto.  «Matt Collins non era in casa» ci comunicò furente. Fu un vero schiaffo morale per me. Ormai nella mia testa il caso della tavola calda era chiuso, chiuso grazie a me. Avevo dato per scontato che Collins si sarebbe fatto arrestare senza problemi. Scossi le spalle, io avevo fatto il mio lavoro, adesso toccava agli agenti di pattuglia trovarlo ed arrestarlo. Il pensiero mi confortò. Ruphert finalmente arrivò a destinazione, una piccola lavanderia a gettoni. Scendemmo tutti e tre dalla macchina stringendoci le braccia per riscaldarci. «Odio questo posto, stavo per andare a letto quando mi avete chiamato» si lamentò Ruphert. «Hanno chiamato noi perché hanno trovato un collegamento con il caso della tavola calda» spiegò la bruna entrando nel locale. Lì ci aspettava Garrett.  «Ciao Emily, lieto che tu sia qui» la salutò galante come al solito. Il commissario rispose con un grugnito. «Ruphert, principessa» salutò ancora rivolto a noi. «Cosa abbiamo?» chiese Emily brusca e irritata. «Hai presente l’omicidio alla tavola calda? Stessa cosa» riassunse l’ufficiale scientifico. «È stato Collins?» chiese Ruphert in un soffio. «No, c’è una differenza tra i due casi» rispose Garrett. «Cosa?» chiese Emily. «L’assassino si è suicidato subito dopo aver compiuto il delitto, si è conficcato il coltellino tascabile che ha usato per il delitto nell’occhio sinistro». Rabbrividii, il solo pensiero mi diede i brividi. «Come si chiamavano?». «Aghata McGonagall e Bruce Kane» rispose Garrett. Ringraziai e annotai i nomi sul mio quaderno azzurro.

Ruphert si chinò sul cadavere della donna. «Tre coltellate vicino al cuore, scommetto che hanno reciso le arterie polmonari» commentò il rosso. Rose gli si avvicinò e confermò la sua tesi. Io stavo guardando invece il corpo dell’uomo. Aveva gli avambracci incisi. Incuriosita guardai meglio, su entrambi gli avambracci era inciso il simbolo di un serpente. «Quindi ricapitoliamo… stesso identico modus operandi di Collins, ma non è stato lui». «Unica differenza è che qui l’assassino si è suicidato» puntualizzò Rose. Annuii infastidita, odiavo il fatto che Rose fosse sempre un passo avanti a me. I miei colleghi si chinarono sul corpo dell’uomo «La morte deve essere stata istantanea» commentò Ruphert. «Avete notato questo simbolo?» osservò Rose. «Si! Non c’è bisogno che voi due sottolineate l’ovvio!» sbottai io furiosa allontanandomi. I due si guardarono sconcertati. «Andiamo» ordinai. «Ma… non abbiamo ancora finito…» protestò Ruphert. «La scientifica ha già fatto tutti i rilievi necessari. Non discutete i miei ordini!» sbraitai furiosa fissandoli feroce. Ruphert mi restituì uno sguardo astioso, Rose no. I suoi grandi occhi nocciola erano preoccupati e confusi, non si spiegavano il mio comportamento. Non immaginava certo che era proprio lei la causa di tutto quello. La odiavo. Per la sua falsa ingenuità, per la sua falsa modestia, per la sua falsa fede. La odiavo. «Andiamo, ho sonno» sillabai gelida uscendo dalla lavanderia.

Ormai era notte fonda, la polizia sorvegliava la mia casa e non sapevo dove andare. Disperato presi la metro dirigendomi nell’unico posto che mi era venuto in mente. Da Marcus non potevo andare, ero sicuro che fosse stato lui a smascherarmi, quindi restava solo un’altra persona in tutta New York che forse avrebbe accettato la mia scomoda compagnia. Scesi dalla vettura di malavoglia e mi avviai vero la casa che conoscevo bene. Ci misi un po’ a suonare il campanello, alla fine il freddo fu più convincente di tutti i miei dubbi. Dopo qualche minuto sentii un trafficare di chiavi e chiavistelli e alla fine Victoria Potter, la mia ex ragazza, mi aprì.

Era da un pezzo passata la mezzanotte quando Matt suonò alla mia porta chiedendomi ospitalità per la notte. Era un sogno che si avverava! Era da un mese che volevo riconciliarmi con lui ma il mio orgoglio mi frenava sempre davanti al campanello di casa sua. Adesso finalmente era stato lui a fare il primo passo. Purtroppo non fu come me lo aspettavo. Matt si sedette sul mio divano color crema e mi raccontò tutte le sue ultime avventure. Rimasi ad ascoltarlo incantata. «Viki mi devi credere, non sono stato io ad uccidere quell’uomo» mi disse alla fine del lungo monologo fissandomi con i suoi profondi occhi neri. Leggermente sconvolta misi sul fuoco la teiera, niente mi schiariva bene la mente come una buona tazza di the nero con il miele. «Io ti credo Matt… ma come farai con la polizia?». «Devo scoprire cosa mi è successo, procurarmi delle prove concrete e poi potrò andare a costituirmi». Rimasi a guardarlo con i miei occhi verdi, ancora dubbiosa. «Ti chiedo solo ospitalità per la notte, domani me ne andrò… ti prego» mi supplicò lui. La teiera fischiò e andai in cucina a versare il the in due tazze e le portai in soggiorno. «Allora?» insistette lui. «Vado a prenderti delle coperte» acconsentii alla fine.

Sospirai di sollievo, Viki aveva accettato. E almeno per quella notte il problema “morte per congelamento” era scongiurato. La ragazza tornò in soggiorno con tre pesanti coperte che stese sul divano bianco. «Ti va bene dormire qui vero?». «Certo» risposi senza esitare, mi sarei accontentato anche dello zerbino pur di restare al caldo. Viki si sistemò un ricciolo rosso che le era finito davanti agli occhi portandoselo dietro l’orecchio in un gesto che conoscevo a memoria. «Sei bella come sempre» pensai ad alta voce. Lei sorrise e arrossì, ma non commentò. “Idiota! Sei venuto qui per dormire, non per riconquistarla” mi maledissi. Però era bella. La pelle bianca metteva in risalto i capelli rosso scuro e gli occhi verdi. Il corpo era generoso e proporzionato e la sua voce aveva una cadenza musicale. In ogni caso tra noi era finita, non avevo nessuna intenzione di riprovarci. «Sei fidanzato?» mi chiese improvvisamene lei mentre sistemava le coperte. «Emm… no» risposi esitante. Mi sembrò di vedere un sorriso illuminarle brevemente il viso. «Sai, ti sta bene la barba, ti dà un’aria da uomo vissuto» mi vezzeggiò sedendosi accanto a me. Mi toccai la barba incolta: era da due giorni che non mi rasavo. «Trovi?» dissi tentano di apparire gioviale. «Si, mi piace» replicò lei in tono sensuale. Tentai di simulare una risata. «In questi giorni fa davvero freddo non trovi?». «Troppo per dormire da soli» ribatté lei guardandomi negli occhi. Le sue labbra carnose si avvicinarono pericolosamente alle mie. Riuscivo ad avvertire il profumo piccante ed esotico della sua pelle. I capelli rossi mi sfiorarono la fronte e i nostri nasi si sfiorarono. Il mondo sembrava con il fiato sospeso. Le nostre labbra si sfiorarono in un bacio casto. «No!» urlai allontanandomi da lei di scatto. «Non sono qui per questo». Viki mi fissò delusa. «Sei un idiota, certi treni passano una sola volta». «Credo che questo treno non sia il mio» replicai serio. «Viki, mi dispiace, ma non ha funzionato, e non vedo perché dovrebbe funzionare questa volta». Lei abbassò lo sguardo delusa «Forse hai ragione». La rossa si alzò lentamente guardandomi un’ultima volta. Io abbassai lo sguardo per non incrociare quegli occhi verdi pieni di delusione. Dovevo essere impazzito, solo due giorni prima avrei dato il mio braccio destro pur di rimettermi con lei e ora…

Rose si alzò di cattivo umore. Aveva dormito poco e male, e lo strano comportamento di Emily continuava a tornarle alla mente. “Cosa ho fatto di male?” continuava a ripetersi la ragazza. Perché di questo Rose era sicura, Emily era arrabbiata con lei. Aprì la doccia e si gettò sotto l’acqua bollente, uno dei pochi piaceri che veramente si concedeva. Restò sotto l’acqua almeno una decina di minuti, poi uscì avvolgendosi nel morbido accappatoio di spugna, asciugò con cura i lunghi capelli e si vestì con calma. Era il suo giorno libero. Una volta indossati dei morbidi pantaloni di tuta azzurri e una maglietta con le maniche lunghe dello stesso colore si sedette alla scrivania ed accese il portatile. Tutta la notte era stata tormentata da quello strano pensiero fisso, il serpente a due teste. Quell’inquietante simbolo aveva popolato i suoi sogni e le era entrato nell’anima. Inserì nel database della polizia e nel motore di ricerca la parola “serpente a due teste”. Nessun risultato. Rose sorrise, non si aspettava certo di trovare quello che cercava così facilmente. Inserì le parole anche nel motore di ricerca, i primi risultati facevano riferimento all’Idra, il mostro della mitologia greca e ad alcuni serpenti con mutazioni genetiche. Rose scosse la testa e modificò la parola da cercare. “Serpente bifronte”. Anche questa non diede risultati. Rose fu presa da un’illuminazione: “Serpente bifronte mitologia”. Niente. Rose si scostò una ciocca di capelli dagli occhi e sbuffò. “Forse dovrei ampliare la ricerca” pensò annoiata. “Serpente mitologia”.

Subito apparsero diversi risultati. Rose scorse attentamente la lista e alla fine scelse quello del museo nazionale.

SERPENTE: nella mitologia e nel folclore mondiale, rettile che, a volte, assume valenze positive e benigne, altre, demoniache. Nelle credenze ebraiche e cristiane, il serpente e spesso associato al diavolo.Recitava la prima parte. Rose interessata continuò a leggere, se non altro avrebbe imparato qualcosa. “Nella Genesi (3: 1) il serpente viene descritto come «la più astuta delle bestie selvatiche fatte dal Signore Dio»… Secondo il Libro dei Numeriantico Egitto, il serpente-mostro Apepsimbolo di rinascita e guarigionela dea sumera Inannagenerato dal dio del male Loki”. Rose continuò a leggere per diverse ore fino a quando non si abbatté in una cosa che la fece sobbalzare. Ogni paragrafo era accompagnato da un’illustrazione, e quella che stava fissando era proprio l’illustrazione, il simbolo che l’assassino si era segnato sugli avambracci. Accanto all’immagine c’erano tre brevi righe di spiegazione. “Quetnitlan era il serpente guardiano dei morti nella mitologia Maya, sono in pochi a conoscere il vero significato di questo dio pagano e i riti legati al suo culto, in mancanza di fonti attendibili preferiamo non riportare altre notizie”. Rose fissò impietrita lo schermo del computer. Il dio dei morti. Ma perché l’assassino si era inciso sugli avambracci il simbolo di una divinità Maya? Non importava, ora che era in possesso del nome poteva fare una ricerca approfondita. Tornò al motore di ricerca principale e digitò il nome di Quetnitlan. Il primo risultato era del sito della polizia. Rose ci cliccò immediatamente sopra. Il link portava ad una pagina in sfondo giallo con l’elenco di tutte le società registrate della città di New York. Le fu richiesta una password che la ragazza inserì senza esitare. Scorse l’elenco fino alla voce “Quetintlan” e cliccò sul nome. “Quetnitlan, circolo di lettura e club esclusivo per persone che abbiano una verificabile discendenza Maya”. Rose stampò la pagina, si vestì ed uscì in tutta fretta… e pazienza per il suo giorno libero.

Arrivai alla centrale a tempo di record, sembrava che anche i mezzi pubblici volessero aiutarmi. Mi precipitai verso il mio ufficio ma intercettai qualche parola di una conversazione fatta da un gruppetto di agenti. «Certo che è stata proprio brava… risolvere il caso in così poco tempo». Mi sollevai di qualche palmo da terra: stava parlando di me! «In effetti non si capisce perché sia così di cattivo umore, dovrebbe essere contenta». “Cosa? Io non sono di cattivo umore?”. «Già… chi la capisce è bravo. Ma dopotutto è il nostro Commissario, ed è la migliore che abbiamo mai avuto». Il mondo mi crollò addosso. Ecco perché Emily era così di cattivo umore, ecco perché mi trattava così. Si era presa lei il merito della soluzione del caso. Mi aveva tradita per gelosia, per invidia. I fogli delle mie ricerche mi sfuggirono di mano e caddero sul pavimento blu. Giallo su blu.

Quando mi alzai era già passato mezzogiorno. «Buongiorno» trillò Viki mentre armeggiava ai fornelli. «Che ore sono?» chiesi stordito. «Ora di pranzo» esclamò la ragazza mettendo la pentola di pasta sul tavolo già apparecchiato. «Ero sicura che ti saresti svegliato, i miei spaghetti fanno alzare anche i morti». Sorrisi, ricordavo bene la cucina di Viki. «Aspetta, prima ti sistemo il divano» mi offrii. «Lascia lascia, tu piuttosto bevi un po’ di caffè che mi sembri ancora addormentato» scherzò lei. «Ma…» protestai. «Fila!» mi ordinò Viki «Ormai deve essere freddo ma sarà meglio di niente». Decisi di abbassare il muro difensivo, del resto avevo tanta voglia di essere coccolato. Viki finì di sistemare il divano e di mettere a posto le coperte quando bussarono alla porta. «Polizia di New York, apra la porta». La tazzina bianca mi sfuggì dalle mani e si ruppe sul pavimento. «Apri la porta» sussurrai sgattaiolando in camera da letto chiudendo la porta dietro di me. Sentii il rumore della porta che si apriva. «Signorina Potter?». Non potevano arrestarmi adesso, non dopo tutto quello che avevo passato. «Si?». Mi guardai attorno spaventato. «Sono il commissario Emily Jefferson, mi farebbe entrare?». La finestra? No, non potevo richiuderla e non avevo nemmeno il giaccone. «Certamente». Il giaccone! Era rimasto sull’attaccapanni in salotto! «Aspettava qualcuno?». Sotto il letto? No, era il posto più insulso che si potesse trovare. «Si, il mio fidanzato, ma mi ha appena chiamato per dirmi che non verrà». Viki era un’attrice fantastica, quasi quasi ci credevo anch’io. «Non l’ha presa bene a quanto vedo». L’armadio? No, era impossibile infilarsi dentro. «Oh, quella l’ho rotta per sbaglio, stavo per mettere a posto quando ha bussato». Mi guardai in giro come una bestia braccata. «Senta… cosa vuole da me?». Viki andava diretta al punto, avrebbe potuto guadagnare ancora qualche minuto… «Conosce Matt Collins?». Non poteva finire così. «Si, siamo stati fidanzati per circa un anno, ma ci siamo lasciati due mesi fa’. Perché?». Mi girai verso un angolo dove Viki teneva una gigantesca montagna di peluche. «E quando l’ha visto l’ultima volta?». Un’idea mi balzò alla mente. «Credo un mese fa, quando sono andata a casa sua per prendere alcune cose che avevo lasciato lì. Perché?». Dovevo sbrigarmi. «Posso dare un’occhiata alla casa?». Stava per arrivare! «Emm… certo». Finito.

Spalancai la porta della camera da letto guardandomi attorno attentamente. Quella specie di oca mi seguiva timorosa e confusa, se stava mentendo lo sapeva fare maledettamente bene. «Scusi il disordine commissario» tentò di giustificarsi la donna ma la zittii con un gesto brusco. Mi chinai ad osservare sotto il letto ed aprii l’armadio, la finestra era chiusa dall’interno. Sospettosa passai al bagno ma anche lì non c’era nessuno. Ritornai in soggiorno leggermente delusa. «Niente» commentai. «Mi vuole spiegare cosa sta succedendo?» strepitò alla fine l’oca. «Collins è un assassino, se lo incontrasse non esiti a chiamarci». Gli occhi verdi si riempirono di meraviglia. Se stava mentendo lo sapeva fare maledettamente bene. «C-certo» balbettò spaventata. «Buona giornata» dissi avviandomi verso la porta. Alla fine notai un particolare sospetto. «Di chi è questa giacca?». Negli occhi verdi della donna passò un lampo di paura, durò un millesimo di secondo, ma mi bastò. «È del mio ragazzo, lo avrà scordato qui» balbettò incerta. Non era poi così brava. «Capisco» mormorai aprendo la porta e uscendo nella tormenta.

Quando Viki chiuse la porta respirai rumorosamente. La rossa entrò come una furia in camera chiamandomi a gran voce. «Calma, sono qui» risposi riemergendo dalla montagna di peluche sotto la quale mi ero nascosto. «Ho avuto paura». «Sapessi io» commentai ironico. Poi notai che una delle fasciature agli avambracci si era strappata. «Emm… Viki… non è che avresti delle bende?».

La rossa mi condusse in bagno e sbendò le mie braccia. «Gesù Matt! Cosa ti sei fatto?» chiese inorridita osservando l’incisione. «Me lo sono inciso prima di… non so cosa significa» risposi evasivo. «Aspetta!» esclamò Viki vincendo la repulsione e fissando meglio il simbolo. «Io questo disegno l’ho già visto». «Dove?» urlai eccitato. «Bhè… dove lavoro, al museo archeologico». «Che cos’è?». «Non lo so, credo un dio Incas, o Maya». «Un dio Maya?» ripetei incredulo. «Credo» precisò lei. «Viki, devi portarmi immediatamente al museo, dobbiamo scoprire cosa vuol dire questo simbolo». Lei mi fissò a lungo, un’espressione incerta dipinta sul volto. «Ti prego» insistetti io «Oh bhè… tanto ormai la pasta si è raffreddata». Esultai. «Ma non puoi uscire così… ti riconoscerebbero subito, ormai la tua foto è ovunque!». «Cosa consigli di fare?». Viki borbottò qualcosa accarezzandomi i capelli, poi si illuminò «Lascia fare a me!»

Entrai nell’ufficio fischiettando, allegro come al solito. Afferrai al volo il pallone da basket e feci alcuni palleggi godendomi la solitudine. Emily era in giro e Rose aveva il giorno libero. Dopo una serie di giochetti con il pallone tirai finalmente a canestro. La palla sbatté sul ferro e rotolò dietro la scrivania di Rose. Imprecando feci il giro della scrivania per recuperarla e fu allora che vidi Rose. Era accucciata per terra, in lacrime. La scena mi spiazzò, non ero decisamente preparato. «Ehi Rose! Chi è morto?» scherzai accucciandomi accanto a lei. La mia amica non si degnò nemmeno di guardarmi e continuò a singhiozzare. «Rose! Cos’è successo?» chiesi sinceramente preoccupato accarezzandole una guancia. «N-niente» singhiozzò lei tra le lacrime. «Rose… con me puoi parlare» la rassicurai carezzandole una guancia. Lei non si sottrasse dalla mia presa, evidentemente voleva essere consolata. «Cosa è successo? Rose devi dirmelo se vuoi che ti aiuti!» sussurrai con dolcezza. «E-e-emily» balbettò lei. “Cosa può essere successo?” pensai sorpreso. “Non capisco come possano aver litigato quelle due”. «Cosa ha fatto?». Rose riuscì a prendere un profondo respiro e mi spiegò «Ho risolto il caso ed Emily si è presa il merito». Tutto si congelò per qualche istante. «Che cosa?». «È la verità». Mi alzai di scatto «Scusami un attimo, vado a spaccarle le faccia» dissi con fare risoluto. «No!» mi fermò Rose disperata. Mi girai e la fissai con occhi di fuoco «Cosa ci fai ancora qui?». Lei mi guardò smarrita. «Perché non stai andando da lei ad affrontarla? Perché stai solo piangendo?». Lo shock per Rose era stato talmente forte da farla smettere di piangere. Adesso poteva o esplodere contro di me e rimettersi a piangere, oppure trovare la forza di affrontare Emily. Dovevo solo incanalare le sue energie nella giusta direzione. «Quello che ha fatto Emily è gravissimo, non puoi e non devi piangerti addosso, devi solo affrontarla» le spiegai in tono duro. Odiavo recitare quella parte ma a volte un bello schiaffo morale serve più di mille consolazioni. Perché essere amici vuol dire anche questo. «Cosa sta aspettando? Muoviti!» urlai irato. Rose si alzò e si asciugò le lacrime. «Ruphert, vai sul sito della polizia. C’è una lista delle associazioni e dei club registrati di tutta la città, cerca la società “Quetnitlan”, come simbolo ha il serpente a due teste. Troverai l’indirizzo e tutto, te ne occupi tu?». «Conta su di me» risposi serio. «Io vado a cercare Emily» disse determinata uscendo dall’ufficio. Sospirai sedendomi alla scrivania e accendendo il computer. “Non mi ha nemmeno ringraziato, vabbè pazienza. L’importante è che quelle due si chiariscano”.

Le scarpe da ginnastica sprofondavano nella neve ormai troppo alta, facendo entrare freddo ad ogni passo. «Manca ancora molto, mi sto congelando» mi lamentai mettendo le mani sotto le ascelle per riscaldarle. «Siamo arrivati» rispose Viki al mio fianco. Entrammo in un’anonima porticina che non avrei nemmeno notato se fossi stato da solo. «Ciao George, devo parlare con il professor Flint. Questo ragazzo è con me». «Passa pure Viki» rispose l’anziano agente di polizia. Quando ci passai accanto un lungo brivido di terrore mi percorse la schiena. Il poliziotto aveva sicuramente visto la mia foto in giro e non ero sicuro che un paio di occhiali vecchi e i capelli tinti di un appariscente biondo platino potessero bastare. «Sei troppo rigido, sciogliti un po’ o ci farai scoprire» mi sussurrò Viki con discrezione. Immediatamente sciolsi i muscoli delle spalle e del collo e tentai una camminata più naturale. La rossa alzò gli occhi al cielo esasperata ma non disse niente.

Il professor Flint era un uomo alto e dinoccolato, con una pelata scintillante e le braccia innaturalmente lunghe. «Victoria! Oggi non è il tuo giorno libero?» esclamò il professore raggiante. «E chi è il tuo amico?» curiosò poi rivolto a me. «Un mio amico, appassionato di mitologia Maya, che avrebbe tanto voluto parlarle» rispose angelicamente Viki. La adorai, sapeva esattamente come giocare le sue carte. «Bhè, gli amici di Victoria sono miei amici, cosa vorresti chiedermi?» acconsentì Flint senza esitazione. «Ho sentito parlare di una divinità Maya particolare, un serpente a due teste». Il volto del professore si illuminò. «Quetnitlan! Pochi lo conoscono! Vieni, te lo faccio vedere». Detto questo accompagnò me e Viki in una stanza adiacente alla prima e ci mostrò un bassorilievo. Il mio cuore perse un battito. Davanti a me c’era il serpente a due teste, quello che mi ero inciso sugli avambracci. «Questo è Quetnitlan, il serpente a due teste» esordì. «È il fratello minore di Quezcolat, il serpente piumato protettore della vita, e a differenza del fratello cura la morte. Secondo la credenza Maya questo serpente aveva una testa nel nostro mondo e una nel regno dei morti. Quando una persona moriva Quetnitlan apriva entrambe le sue fauci e l’anima passava attraverso il serpente nell’altro mondo». Osservai  affascinato il bassorilievo. «Ed erano legati dei sacrifici umani a lui?» chiesi avido. «Naturalmente» rispose il professore mostrandoci un secondo bassorilievo che mostrava un sacrificio. Oltre alla vittima c’erano due persone, una con una grande maschera piumata e l’altra che stava uccidendo la vittima. «Vi spiego cosa sta succedendo, la vittima viene uccisa recidendo le arterie polmonari, in modo che la morte sia il più lenta possibile. Più è lenta l’agonia più è lungo il tempo che Quetnitlan tiene aperte le fauci. In questo lasso di tempo l’oracolo può vedere il regno dei morti, parlare con loro e farsi dire il futuro, tutto attraverso il serpente». «Non è l’oracolo a compiere l’omicidio?» osservò Viki perplessa. «Oh no!» esclamò Flint come se avessimo detto un’eresia. «L’oracolo non deve macchiarsi mai del crimine. Di solito delega questo compito ad una persona a caso, dalla folla. Questa persona viene fatto entrare in trance e diventa l’esecutore materiale dell’omicidio, ma prima di uccidere l’esecutore si incide sugli avambracci il simbolo di Quetnitlan». Io e Viki ci guardammo terrorizzati. «E… e cosa succede all’esecutore quando… quando ha compiuto il sacrificio?». Chiesi timoroso. «Di solito si suicida» disse il professore con noncuranza. «Nei rari casi che l’esecutore sopravviva diventa un Garganta, un soggetto da eliminare».

Controllai ancora una volta l’indirizzo prima di entrare. Ero nel posto giusto. Mi calai bene il cappello di lana sulle orecchie facendo sfuggire solo qualche ciocca rossa. Suonai ad un campanello a caso «Chi è?» chiese una voce alta e stridula. «Posta» mentii pronto. La porta si aprì all’istante ed entrai sottraendomi al gelo. Dall’ascensore si diramavano due strade, una che portava alle scale e un altro più grande che conduceva a due appartamenti. Su una delle porte notai il simbolo di Quetni…coso. Suonai con decisione e aspettai una risposta. Notai che il campanello posizionato fuori dalla porta non somigliava minimamente a quello di un’abitazione, anzi. Era provvisto di telecamera e rilevatore di impronte digitali. Studiai bene anche la porta, era blindata. Tutta quella sicurezza era sospetta. «Cosa cerca?» chiese una voce sepolcrale alle mie spalle. Sobbalzai spaventato. Un uomo abbronzato con folti capelli neri e gli zigomi fortemente pronunciati era spuntato dalla porta alle mie spalle e mi stava fissando con i suoi profondi ed imperscrutabili occhi neri colmi di disprezzo. «Cosa cerca?» ripeté lui spazientito visto che non mi decidevo a rispondere. Mi riscossi dalla sorpresa. «Buongiorno, mi chiamo Ruphert Alman» mi presentai simulando allegria. «Questo non risponde alla mia domanda» osservò l’uomo freddo. «Emm… certo…» balbettai disorientato «Sono venuto per chiedere qualche informazione sul club… mi hanno detto che la sua sede è qui ed io…» lasciai la frase in sospeso. L’uomo mi scrutò ancora di più con i suoi occhi acquosi, come per esaminarmi. «Mi segua» disse con voce calma e misurata. L’uomo posò il pollice sul rilevatore di impronte che si illuminò di luce verde dopo pochi secondi, la porta si aprì silenziosa. Entrammo in una saletta piccola ed austera, arredata con una semplice scrivania, due sedie ed un piccolo schedario metallico. «Certo, me la immaginavo un po’ più… colorata» osservai allegro. L’uomo mi osservò con disprezzo, senza raccogliere la battuta. «Questa è solo l’anticamera, solo i soci possono accedere ai locali riservati» spiegò indicando una semplice porta che era passata inosservata fino ad allora. «Cosa desidera sapere?» mi chiese sedendosi alla scrivania. «Come posso diventare socio?» chiesi senza esitazioni. «Innanzitutto deve dimostrare una parentela Maya, senza la quale non può essere ammesso, poi deve compilare questo modulo» spiegò cortese ma freddo mettendomi sotto il naso un foglio pieno di domande. Ne lessi alcune mentalmente. “Chi è Quetnitlan? Chi è Quezcolat? Quali differenze c’erano tra i due culti? Qual’era la maschera rituale degli oracoli?”. Fissai con sguardo interrogativo l’uomo. «La prima parte è un test di cultura Maya, se si commette anche un solo errore non si può essere ammessi». Annuii pensieroso mentre voltavo il foglio e leggevo le altre domande. “Qual è il suo colore preferito? Qual è il suo piatto preferito? È credente?”. «La seconda parte è invece un test comportamentale, anche qui osserviamo parametri molto severi» mi illustrò l’uomo. «Accidenti… non ci saranno molte persone che riescono a superare il test d’ingresso… Quanti soci avete?» buttai lì come una battuta. «Abbastanza» rispose l’uomo impassibile. «Abbastanza per cosa?» insistetti curioso. «Lei non vuole iscriversi al nostro club… ispettore Alman. Per cosa siamo sospettati?» mi chiese glaciale l’uomo. Mi sfuggì un’imprecazione sottovoce. «Non si preoccupi, anche se mi avesse dato un nome falso l’avrei riconosciuta, l’ho vista diverse volte in televisione» mi rassicurò lui con un tono leggermente ironico. «Non sono preoccupato e tantomeno in incognito. Ero sinceramente interessato ad iscrivermi al vostro club» mentii tentando di rigirare la situazione. «La prego ispettore di non insultare la mia intelligenza, so benissimo che lei ha origini irlandesi come qualsiasi idiota potrebbe intuire dalla sua carnagione e dai suoi capelli, e so anche che non è un uomo interessato alla storia o alla mitologia avendola vista, come ho già accennato, diverse volte in televisione». Deglutii a vuoto, quell’uomo era davvero impressionante, ma c’era qualcosa in lui che mi attirava. «Ora, per dimostrarle che né io né il mio club abbiamo niente da nascondere alla polizia per qualunque motivo lei sia venuto, la invito a fare un giro all’interno delle stanze riservate ai soci, nonostante lei non abbia un mandato». Lo guardai stupito «Come… come fa a sapere che non ho un mandato?». «Lei continua ad insultarmi» sospirò l’uomo «Se avesse avuto un mandato non le sarebbe servito tutto questo teatrino». Mi diedi dello stupido, ma quell’uomo riusciva a confondermi. Lui si alzò ed aprì la porta lasciandomi intravedere una stanza sfarzosa e riccamente decorata prima di rivolgermi di nuovo la parola. «Oh! Tra parentesi, il mio nome è Estéban Garcia».

Ruphert aprì la porta dello studio rumorosamente e la sbatté dietro di sé incurante del rumore. Rose sobbalzò sulla sedia spaventata. «Ruphert! Mi stava venendo un infarto!» lo accusò. «Scusa» borbottò lui. «Hai parlato con Emily?». La ragazza si morse le labbra «Non sono riuscita a trovarla, non mi risponde al cellulare e non è a casa sua, ma sono comunque decisa a parlarci». Ruphert grugnì la sua approvazione. «E tu?» indagò Rose «Come è andata al club?». «Bhè… se ti aspettassi di trovare qualcosa di interessante…». «Aspettavi» lo corresse Rose automaticamente. «…preparati ad una delusione» continuò Ruphert imperterrito. Detto questo il rosso si affrettò a raccontare del suo colloquio con Garcia. «Poi mi ha fatto entrare nelle stanze riservate, avresti dovuto vederle Rose, erano favolose! Ognuno dei dieci soci ha una camera da letto personale una più ricca dell’altra, e il salone è grande come un campo da calcio. Tutte la pareti sono coperte da quadri, incisioni o disegni sui Maya, alcuni autentici eseguiti dai Conquistadores! Ci sono anche numerosi cimeli tra cui anche un pugnale rituale autentico che risale a più di tremila anni fa!». Rose lo ascoltò meravigliata. «Sei senza parole vero?» osservò Ruphert entusiasta. «Già… hai parlato per quasi un quarto d’ora azzeccando tutti i verbi, deve essere una specie di record» scherzò lei. Il ragazzo assunse un’espressione offesa. «Comunque a parte l’affascinante arredamento del loro quartier generale non hai individuato nessun particolare sospetto che li colleghi ai delitti?». «No» disse Ruphert abbattuto. «Pazienza, non avevo sperato troppo su questa pista» commentò filosoficamente Rose. Improvvisamente la porta dell’ufficio si spalancò con violenza. Emily li guardò furiosa. «Ah! Siete qui! Muovetevi!». «Chi è morto?» chiese in tono scherzoso il ragazzo. «Un uomo e una donna in un negozio di dischi, tra la sesta e la ventitreesima strada» rispose Emily glaciale. Ruphert abbassò lo sguardo imbarazzato. «Oh… capisco».

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Capitolo 3
*** Il terzo giorno ***


Dopo le sconvolgenti rivelazioni del professor Flint mi ero chiuso in casa di Viki a guardare la televisione. Viki era uscita da poco, doveva fare delle commissioni Avevo paura. Se ero davvero un Garganta, come mi aveva chiamato il professore, allora non potevo espormi troppo. Avevo deciso di restare a casa per il resto del giorno, senza andare nemmeno all’appuntamento con Eva, facendo zapping di controvoglia e reso irascibile dalla mia prigionia forzata. Cambiai canale all’ennesimo reality show e finalmente trovai un notiziario. Era già cominciato, ma arrivai in tempo per la notizia fatale. «Notizia dell’ultima ora, è stato trovato il corpo di una giovane donna, Victoria Potter, assassinata in un negozio di dischi tra la sesta e la ventitreesima strada. Oltre alla vittima è stato trovato anche il corpo del proprietario del negozio, Carl Green. Un altro omicidio-suicidio esattamente simile a quello della lavanderia a gettoni o a quello della tavola calda. Restate in attesa di altri aggiornamenti». Rimasi a fissare lo schermo mentre cominciava a parlare del campionato di calcio. Un profondo senso di alienazione mi colse violente tra la gola e lo stomaco. Viki… morta. Mi guardai attorno. Quella era la casa di Viki! Quelli erano gli spaghetti che non avevano mangiato, quelli erano i suoi peluche, quello il suo letto. Viki era morta. Il peso di quelle parole mi schiacciò. Nevermore. Quella parola mi rimbalzò in testa all’infinito. Non avrei più visto i suoi occhi verdi, o i suoi riccioli rossi. Nevermore. Non avrei più sentito il suo profumo di boschi. Nevermore. Non avrei più ascoltato la sua voce roca e sensuale. Nevermore. Non avrei più ruzzolato tra le lenzuola con lei, aspettando il mattino. Nevermore. Poi un’altra consapevolezza mi colpì. Quella era la casa di Viki, la polizia sarebbe venuta a controllare. Fui tentato di lasciar perdere la mia insensata ricerca alla verità. Ma si! Che mi trovassero pure! Tanto ormai… Alla fine l’istinto di conservazione prevalse ed uscii nel freddo.

La neve era fredda e pungente e mi restava tra i capelli scuri come decorandomi di una sottile reticella di perline. Dove potevo andare adesso? Mentre camminavo a casaccio pensai a quello che era successo. Forse non era stato per caso che Viki era stata scelta come vittima, forse gli oracoli volevano colpire qualcuno vicino a me per destabilizzarmi. L’idea mi risultò intollerabile. Quei pazzi fanatici erano riusciti a rovinare completamente la mia esistenza. Mentre rimuginavo su questa atroce verità uno sparo risuonò alle mie spalle. Immediatamente la folla che mi circondava cominciò ad urlare terrorizzata. La prima cosa che pensai fu che la polizia mi aveva trovato, per questo fu una grande sorpresa vedere due uomini vestiti elegantemente ma con il volto coperto da passamontagna che correvano all’impazzata puntato dritto dritto su di me. “Gli oracoli!” pensai allarmato mettendomi a correre. I due uomini continuavano a sparare all’impazzata ma ebbi fortuna. Svoltai in un vicolo appartato e vidi che davanti a me stava una rete di recinzione che lo tagliava a metà. Senza esitare saltai e mi arrampicai per l’ultimo metro. Poi mi issai, scavalcai e mi lasciai cadere dall’altra parte proprio mentre i due spuntavano dall’altra parte del vicolo. Un proiettile mi sfiorò la spalla lasciandomi un sottile graffio rosso ma riuscii a svoltare nella via principale prima che riuscissero a sforacchiarmi ancora. Frenetico mi guardai intorno e notai la fermata della metro dall’altro lato della strada. Il semaforo era rosso ma dovevo rischiare. Senza esitazione mi buttai in mezzo alla strada dove le macchine sfrecciavano a velocità folle. Due vetture si fermarono bruscamente suonando e venendo tamponate dalle auto dietro. Ma l’ultima si fermò troppo tardi investendomi in pieno e facendomi rotolare sul cofano. Per fortuna mi fermai lì e mi rialzai con un leggero stordimento. Mi guardai intorno frenetico, I due uomini avevano scavalcato la recinzione e si stavano dirigendo verso di me. Con uno scatto mi rizzai in piedi ignorando le proteste degli automobilisti attorno a me e mi tuffai nella stazione del metrò. Scavalcai il tornello con un salto e corsi verso il primo treno in partenza. Subito l’agente di sicurezza mi urlò qualcosa dietro e si mise ad inseguirmi. Nel frattempo anche i due uomini avevano scavalcato i tornelli e continuavano ad inseguirmi. Veloce mi infilai nel vagone che stava per chiudere le porte, cosa che fece appena fui entrato lasciando tutti i miei inseguitori con un palmo di naso. Mi resi conto che tra quattro fermate sarei arrivato alla chiesa di Sant’Andrea, doveva viveva e lavorava Marcus. “È l’unica” mi dissi fissando il cartello con le fermate.

Quando arrivai alla fermata giusta scesi con cautela, se mi avevano trovato a casa di Viki avrebbero potuto farlo anche lì. Ma nessun killer mandato da una setta di fanatici adoratori di un dio pagano esistente mille anni fa mi aspettava alla fermata del metrò. Sempre con la stessa cautela uscii dalla stazione e vidi proprio davanti a me la piccola chiesa di Sant’Andrea. Socchiusi gli occhi per distinguere meglio la figura che stava per entrarci. Era Marcus. «Marcus! Ehi Marcus!» urlai cercando di attirare l’attenzione. Lui non mi vide. Impaziente di parlargli e notando il semaforo verde mi gettai dall’altra parte della strada chiamandolo. Proprio in quel momento una macchina sportiva grigia attraversò l’incrocio con il rosso, a tutta velocità. L’auto mi colpì in pieno facendomi saltare in aria. Ebbi il tempo di pensare “Deve essere la giornata nazionale degli investimenti, oppure sono solo molto sfortunato” prima di piombare come un sasso sul duro asfalto. Tutti urlavano spaventati, l’auto grigia non si era fermata. Lentamente il buio calò su tutto. «Matt!».

Rose si chinò ad esaminare il corpo di Victoria Potter. Era una ragazza bella e sensuale, con morbidi riccioli rossi e profondi occhi verdi che ora però fissavano vitrei il vuoto.  Rose soffocò un brivido e si rialzò rivolgendosi ai suoi compagni di squadra. «La causa del decesso è sempre la stessa» confermò sicura. «Si direbbe un assassino seriale» commentò Ruphert pensieroso. «Non può essere un assassino seriale! Gli assassini sono diversi!» sbottò Emily irritata. «Ma deve esserci qualcuno che muove le fila di tutta questa faccenda, non è possibile che tutto questo sia casuale!» esclamò Rose convinta. «Collins?» suggerì il rosso. Rose lo contraddisse «No, secondo me Collins è solo un’altra persona costretta ad uccidere, non potrebbe essere qualche setta segreta adoratrice di Quetnitlan?». «Bhè… si ma…» tentennò Ruphert. «Ma come farebbero a costringere le persone ad uccidere?» completò pratica Emily «Secondo me è Collins che dobbiamo cercare». Emily e Rose si scambiarono uno sguardo pieno di tensione, lavoravano fianco a fianco solo perché era il loro compito, il loro dovere, ma non si erano ancora parlate chiaramente. Emily intuiva che l’amica avesse scoperto qualcosa, altrimenti lei e Ruphert non si sarebbero coalizzati così. E nemmeno Rose sarebbe stata così sfrontata se non fosse stata assolutamente sicura di aver ragione. D’altra parte Rose non era ancora riuscita a parlare con il suo capo, anche se ne aveva avuto l’occasione. Quel pomeriggio, carica delle parole di Ruphert, l’aveva cercata disperatamente e, non trovandola al cellulare, era andata di persona dove sperava di vederla. Aveva violato il suo computer solo per guardare la sua agenda e l’aveva seguita fino a casa di Viki. Rose era arrivata in tempo per vedere la bruna uscire dalla graziosa casa e le si era avvicinata ma poi… uno strano terrore si era impossessato di lei. Era una paura profonda e innegabile,più forte della paura della morte o dei cadaveri che da sempre Rose nascondeva. Era la paura di perdere Emily. Rose non poteva sopportare di restare senza il conforto, i modi bruschi, le battute, l’esigenza, il sorriso, le ramanzine e l’affetto della sua più grande amica. Quindi era fuggita in mezzo alla neve, lasciandosi dietro un problema grande quanto il mondo.

Ci infilammo di nuovo tutti in macchina: Ruphert alla guida, io accanto a lui e Rose dietro, come sempre. Il rosso tentò di avviare il motore ma quello si spense tossicchiando. Ruphert imprecò ad alta voce «Non è possibile! È già la quarta volta questo mese!». Poi si slacciò la cintura ed aprì lo sportello facendo entrare una raffica di freddo. «Voi due restate qui, io cerco di sistemare la cosa». Detto questo chiuse la portiera e mi lasciò in macchina con Rose. Ci guardammo e la temperatura scese subito sotto la soglia di sopportabilità. «Allora… come và?» chiesi esitante dopo qualche minuto di silenzio spesso come il marmo. «Credo che tu lo sappia» fu la risposta gelida. Fu come ricevere un pesante ceffone. Rose non mi aveva mai trattata così, non aveva mai trattato nessuno così. «Non capisco cosa vuoi…». Non mi lasciò finire la frase. «Non mi mentire!». L’urlo era stato acutissimo, mi aspettavo che Ruphert aprisse la porta da un momento all’altro. «Rose…». «Mi hai usato, ti sei presa tu il merito per una cosa che non hai fatto e mi hai mentito. Non so se capisci come mi sento…» continuò lei mentre le prime lacrime scendevano lungo le guance. «Io… io ho…». Tesi le orecchie disperatamente. «… paura… di perderti». Quando completò la frase non si trattenne e scoppiò finalmente in lacrime. Lunghi serpenti di vetro serpeggiavano veloci sulle guance, sugli zigomi, sulle labbra per poi scendere lungo il mento e scomparire dietro la sciarpa bianca. Immediatamente scoppiai a piangere anch’io e mi infilai nei sedili posteriori per abbracciarla. «Scusami… non l’ho fatto per danneggiare te. Io mi sono preoccupata, perché non eri più la mia piccolina, perché non ti potevo più aiutare». Poi mi staccai dall’abbraccio e la fissai negli occhi tenendola per le spalle. «Per paura che ti facessi male volando ho strappato le tue ali, perché so che non ti potrò seguire quando le spiegherai al vento». Rose mi fissò incredula, persino le lacrime che le rigavano le guance si erano fermate. Poi ci riabbracciammo con trasporto, guancia contro guancia, e le nostre lacrime e i nostri sorrisi si fusero. Fu in quel momento che Ruphert entrò fischiettando allegramente «Il motore è a posto, possiamo partire». Poi ci fissò imbarazzato. «Oh!… Ho… ehm... ho interrotto qualcosa... ?». Ci studiammo per una manciata di secondi, in silenzio, prima di scoppiare a ridere tutti e tre.

Trascrissi accuratamente la data sul taccuino e lo riposi sul piccolo scrittoio accanto al crocifisso. Una debole voce alle mie spalle mi sorprese. «Vi-ki». Mi girai entusiasta, Matt si era svegliato! «Matt!» esclamai chinandomi sul suo capezzale e osservandolo con apprensione. Mio fratello aveva gli occhi socchiusi e stava tentando di rimettere a fuoco il mondo intorno a se. «Marcus?» chiese poi con voce esitante. «Si fratellino! Sono qui!». La sua voce era debole e spezzata. «Cosa… è… successo?» ansimò. «Sei stato investito» risposi in tono grave, per fortuna che eri davanti alla chiesa e ti ho potuto raccogliere io, altrimenti ti avrebbero portato all’ospedale e da lì in carcere. La mia voce decisa sorprese anche me, fino a pochi secondi prima non ero così sicuro che mio fratello fosse innocente. La cosa non passò inosservata nemmeno a lui. «Tu… tu mi credi?» chiese pieno di meraviglia. «Si» risposi senza esitazione. Questo ebbe l’effetto di tirare un po’ su mio fratello. «Viki…» cominciò lui, ma non lo feci finire. «Lo so, i funerali si terranno questa sera». Matt spalancò gli occhi e fece per alzarsi ma una violenta fitta al costato lo costrinse a sdraiarsi di nuovo. «Piano! Non hai nulla di rotto ma non puoi pretendere di uscire completamente illeso da un incidente d’auto. Non continuare a mettere alla prova Dio». Subito mi pentii dell’ultima affermazione, Matt non credeva in Dio e non gli piaceva sentirlo nominare. Ma, contrariamente alle mie previsioni, Matt sorrise debolmente. «Che ore sono?» chiese sempre con voce debole. «Circa le dieci, hai fame?». Scosse la testa. «Devo riposare, stasera voglio esserci». «Ma Matt! Non puoi, di sicuro avranno trovato il legame tra te e Viki e controlleranno che tu non ti avvicini!». Matt si girò fissando l’alto soffitto del piccolo monolocale attiguo alla chiesa dove vivevo. «Sicuramente» commentò impassibile. «Matt! Hai deciso di consegnarti?». «No». «E allora?» chiesi spazientito alzandomi dalla sedia e misurando la stanza a grandi passi. Avevo appena ritrovato mio fratello, non potevo perderlo ora. «Marcus, io devo andarci». Il suo tono era calmo e distaccato. «Perché? Capisco che provavi ancora qualcosa per lei ma correre un rischio così grosso è da stupidi». «Marcus, io devo andarci» ripeté lui in tono piatto, poi si voltò a fissarmi. «Lei è morta per causa mia».

Marcus mi fissava spaventato. «Cosa?». «Lei è morta per causa mia» ripetei con la massima calma. Lui si prese la testa tra le mani. «So cosa devo fare» aggiunsi con una voce impassibile. «Hai un piano?» sussurrò Marcus guardandomi tra le dita. «Si, e per metterlo in pratica devo andare al funerale di Viki stasera».

La nebbia era sparita e restava solo una leggera neve bianca e pulita, quasi poetica a decorare l’aria fredda. Non c’era nemmeno vento, o almeno nessuno dei presenti lo sentiva attraverso i pesanti strati di vestiti. Il parroco recitava un discorso vuoto, non ricordavo che Viki fosse mai stata “generosa con i poveri” o “amata dai bisognosi”. Viki era una persona solare, questo sì. Simpatica, sensuale, bellissima, provocante, ospitale e generosa con gli amici ma estremamente egocentrica con chi non considerava importante per lei. Quel discorso, forse più crudo e meno splendente, mi sarebbe piaciuto di più di quella sfilza di aggettivi vuoti e privi di significato. Anche la riunione di persone mi disgustò vagamente. C’erano diverse ragazze amiche di Viki che discutevano animatamente mostrando le unghie smaltate e le labbra lucidate. C’era il professor Flint che parlottava con alcuni suoi colleghi. C’erano la sua affittuaria che non aveva nemmeno la decenza di parlare a bassa voce dentro il suo cellulare. E poi c’era una ragazza che non conoscevo che fissava triste la tomba. Aveva lunghi capelli color miele sciolti lungo le spalle che risaltavano sul cappotto bianco. Mi scostai il ciuffo nero che mi ricadeva sugli occhi e la tenni d’occhio.

Quando la funzione finì tutti se ne andarono parlottando tra di loro, io no. Sapevo che mi guardava dall’inizio del funerale, ma non avevo intenzione di scappare. Quando tutti se ne furono andati mi voltai e lo guardai di sottecchi. Matt Collins mi si avvicinò e guardò la tomba di Victoria. «Mi dispiace» commentai malinconica. «Anche a me» rispose lui impassibile stringendosi nel cappotto nero. Poi si voltò verso di me. «Lei è Rose McDemos, ispettrice della polizia di New York». Io sostenni il suo sguardo «E lei è Matt Collins, ricercato per l’omicidio di Jhon Robert Senior dalla polizia di New York». Ci guardammo intensamente, non servivano altre parole. «Devo parlarle» mi disse con la sua voce profonda. «E anche io, ma anche il commissario e l’ispettore Alman ascolteranno questa conversazione» replicai respirando affannosamente. Eravamo ad una distanza pericolosa, troppo pericolosa. «Per me va bene» rispose lui senza staccare gli occhi dai miei. Poi ci baciammo. Fuochi d’artificio e schizzi di fiamme inondarono il nostro universo freddo e sterile aprendo passaggi verso mondi sconosciuti. Le stelle ci passarono accanto mentre respiravamo in perfetta sincronia e gigantesche farfalle di tutti i colori del mondo ci offrirono il loro doso per viaggiare fino alle porte del paradiso. Incontrammo Dio stesso, perché solo nell’amore più violento e prorompente si può trovare Dio e gareggiammo in bellezza con le alte montagne e gli sconfinati oceani. L’amore ci travolse come solo l’odio può fare ma lasciandoci un sapore di miele in bocca e un profumo di vaniglia nelle narici. Era… bello. “Bello” era l’unico aggettivo che poteva descrivere cosa provammo durante quell’unico lungo bacio. Bello. Una parola semplice, senza troppi fronzoli, ma straordinariamente evocativa e potente. Bello.

Era mattina presto, e Ruphert ed Emily erano corsi a casa di Rose che aveva chiamato loro con molta urgenza. Lì avevano trovato Matt Collins. Tra la confusione generale Rose era riuscita a spiegare l’intera situazione e i quattro si erano confrontati. Tutti erano molto interessati al racconto di Matt, soprattutto alla parte riguardante il culto di Quetnitlan. Poi toccò ai poliziotti raccontare le loro indagini. Quando infine Ruphert descrisse il suo incontro con Estéban Garcia Matt sobbalzò. «Cosa succede?» chiese Rose preoccupata. «Garcia… è lui che mi ha messo la droga nel caffè» mormorò con voce strozzata. Tutti sobbalzarono. «Lui… e quella setta di fanatici…» continuò a balbettare tra i denti. Rose esultò. «Cosa c’è di bello?» ringhiò Matt. «Ma non capite?» esclamò Rose felice mentre anche sul volto di Ruphert si disegnava un sorriso consapevole. «Noi… » cominciò la ragazza «Abbiamo risolto il caso!» completò Ruphert eccitatissimo agitando le braccia ed improvvisando un balletto con Rose in mezzo al salone. «No che non lo abbiamo risolto» ribatté Matt cupo. Gli altri due lo guardarono straniti. «E perché?» chiese Ruphert sospettoso. « In quale tribunale accetteranno come prova una memoria inconscia?» commentò Emily realista. Subito Rose e Ruphert si afflosciarono sulle sedie. «Allora cosa facciamo? Andiamo da Garcia e gli chiediamo gentilmente se non ha drogato qualcuno ultimamente per farne un oracolo Incas». «Maya, e comunque non diventi l’oracolo ma solo l’esecutore del… ». «Rose! Ti prego!». «Scusa». «Io ho un piano». Tutti si girarono verso Emily che sorrideva con un’insopportabile aria di superiorità. «E sarebbe?» chiese Matt speranzoso. «Ma dipende tutta da una cosa… quanto sei disposto a rischiare». «Tutto» rispose il moro senza riflettere. «Sicuro?» chiese Emily stringendo gli occhi e fissandolo seria. Matt chiuse gli occhi e respirò a fondo. Quando li aprì conosceva la risposta. «Si».

Mi avvicinai alla porta del club esitante, loro dovevano essere dentro. Mi accarezzai le labbra, lì dove Rose mi aveva dato quel bacio di saluto leggero e delicato come zucchero a velo. Presi un profondo respiro e suonai al campanello.  Dopo alcuni minuti una voce fredda mi rispose. «Matt Collins? Entra entra». La porta si aprì silenziosamente. Mentre entravo la accarezzai lievemente sentendo sotto la mano il metallo freddo. Dall’altra parte c’era Garcia che mi aspettava. Vestiva in modo elegante e mi fece un sorriso amichevole. «Benvenuto Matt Collins, ci hai trovati finalmente». Lo guardai disorientato. «Cosa?». «Sapevi che dovevi venire da noi vero, hai scoperto tutto del culto di Quetnitlan e hai saputo che stavi per diventare un oracolo vero?». Lo fissai con sguardo smarrito. «Dunque tu non sai?» mi chiese lui stupito, quasi indignato. «Cosa?» balbettai esitante. «Gli esecutori che non si suicidano… diventano a loro volta degli oracoli!» mi rivelò teatrale. Io trattenni il fiato sorpreso, ma vedevo che mentiva. Il tremito delle mani era incontrollabile e la fronte era imperlata di sudore. Dovevo stare al gioco. «Grandioso! Quindi adesso sono uno di voi?». «Certo» sussurrò Garcia dolce aprendo la porta che dava sul soggiorno del club. Era esattamente come Ruphert lo aveva descritto: meraviglioso. Oggetti di tutti i tipi decoravano le pareti con i quadri, le pagine di diario e i disegni autentici dei Conquistadores. Su divani comodi e ampi stavano sedute sei persone, tutti con gli stessi zigomi pronunciati e la carnagione abbronzata. Appena entrai Garcia chiuse la porta dietro di noi e sogghignò. «Piccolo profano idiota! Credevi davvero che un Garganta potesse diventare uno di noi? I poteri sacerdotali si trasmettono solo da maestro a discepolo!». Immediatamente tutti gli oracoli si alzarono di scatto puntandomi addosso le pistole che fino a quel momento avevano tenuto nascoste. «Sai perché ti ho fatto vedere questa stanza?». Lo guardai spaventato. «Sai perché ho permesso che questi preziosi cimeli si sporcassero con il tuo sguardo impuro?». Feci un cenno di diniego. «Questa stanza, questa magnifica stanza, è completamente insonorizzata» rise Garcia, accompagnato dagli altri sei. «E adesso sudicio Garganta, adesso muori!».

La polizia arrestò Estéban Garcia e gli altri adoratori del serpente a due teste. Gli altri tre membri che non erano presenti nella stanza furono fermati all’aeroporto mentre stavano per imbarcarsi su un aereo per la Turchia. La carica di dinamite che Matt Collins aveva piazzato sulla porta blindata permise agli agenti di irrompere nell’appartamento del club e di fare il proprio lavoro. Fu scoperto un magazzino sotterraneo pieno di armi da fuoco e di quella strana droga bianca che trasformava le persone in assassini. Il caso fu archiviato nel grande schedario verde dei casi risolti. In quanto a me… Rose McDemos, quando entrai nello sfarzoso salotto decorato e vidi il corpo esangue di Matt ebbi la tentazione di uccidermi. Poi Matt si alzò, un brutto taglio sulla guancia che sanguinava copiosamente, ma illeso. E ora, che nella lunga gravidanza aspetto il parto di mia figlia, ho voluto partorire anche la storia, bella e terribile, di come io e Matt ci siamo incontrati. Di come ci siamo amati.

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