Ulysses

di Beatrix Bonnie
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo I ***
Capitolo 3: *** Capitolo II ***
Capitolo 4: *** Capitolo III ***
Capitolo 5: *** Capitolo IV ***
Capitolo 6: *** Capitolo V ***
Capitolo 7: *** Capitolo VI ***
Capitolo 8: *** Capitolo VII ***
Capitolo 9: *** Capitolo VIII ***
Capitolo 10: *** Capitolo IX ***
Capitolo 11: *** Capitolo X ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


PROLOGO

Inizio dicembre 1939


Era una giornata umida, di quelle tipicamente tardo autunnali. Ancora non pioveva, ma guardando il cielo, Rebecca era convinta che presto le nuvole grigie avrebbero riversato sui bei prati della brughiera scozzese tutta la loro furia. «Gerald, caro, è meglio se rincasiamo.» sussurrò la giovane donna, strattonando la manica del marito, intento a fissare chissà quale strano insetto che svolazzava da una foglia all'altra.

L'uomo si voltò verso la moglie, sistemandosi il borsalino che una folata di vento aveva scosso. «Rebecca, sei sempre troppo premurosa.» le rispose sorridente. C'era un che di dolcemente amoroso negli sguardi che si scambiava la giovane coppia, un qualcosa di mistico e puro. Non era solo l'amore che li legava, c'era anche un sentimento di devota e totale dedizione all'altro.

«Che vuoi che ci faccia un po' di pioggia?» domandò l'uomo, strizzando l'occhio, un insolito segno di frivolezza che si concedeva solo con la moglie.

«Non è per te, è per William: non voglio che prenda la febbre.» rispose Rebecca, accennando con il capo al bimbetto che trotterellava allegro al loro fianco, anche lui come il padre intento ad inseguire gli insetti che svolazzavano nel prato.

Fitzgerald si avvicinò e prese in braccio il figlio, che si divincolò nel tentativo di tornare a sgambettare a terra. Il padre gli schioccò un tenero bacio sulla guancia e rispose: «William è un bambino forte, un vero McBride. Lui non teme la pioggia.»

Rebecca, alzò gli occhi al cielo con aria sconsolata, poi allungò le braccia per prendere il piccolo e si diresse verso casa.

La villa dove abitava la famiglia McBride era un tipico castello scozzese, immerso nella brughiera. Le stanze erano immense e sempre fredde, ornate da arazzi medioevali e austeri camini di marmo. Non si trovavano tanto distanti da Edimburgo, dove aveva sede la banca per la quale lavorava Fitzgerald McBride; in realtà, però, erano più vicini al confine con l'Inghilterra tanto che a poco più di quindici chilometri si trovava Berwick-upon-Tweed, la prima città inglese che si incontrasse partendo dalla Scozia.

«Mamma, voglio giocare!» strepitò il piccolo William, quando furono entrati in casa.

«Non ora, sta per piovere.» rispose la donna, appendendo i soprabiti in ingresso.

«Ma papà...» protestò William, indicando la porta con la cocciutaggine tipica dei bambini di due anni.

«Papà arriva subito.» lo interruppe Rebecca, ponendo fine al discorso.

Per fortuna Fitzgerald entrò in casa poco dopo, tra le mani un vasetto di vetro in cui era imprigionata una farfalla. «Un esemplare davvero interessante.» commentò, scuotendo la piccola gabbia trasparente.

Rebecca lo guardò con amore: era talmente abituata agli stravaganti gusti del marito che catturare insetti o fare esperimenti di chimica per lei era assolutamente normale. «Certo, caro.» rispose con accondiscendenza, lasciandogli un piccolo bacio sulla guancia.

Qualcuno bussò alla porta proprio in quel momento. Fitzgerald appoggiò il vasetto sul cassettone in ingresso ed andò ad aprire. Quattro militari proruppero in casa. «Lei è il signor McBride?» domandò il più alto in grado con foga.

«Sì, sono io.»

Rebecca prese tra le braccia il piccolo William e lo strinse al seno. Non capiva cosa potesse significare quella messinscena, ma non la piaceva per niente.

«Nato il 13 gennaio 1914 a Edimburgo?» continuò il soldato.

«Sì.» rispose Fitzgerald senza capire dove volessero andare a parare.

«Il Regio Esercito di Sua Maestà le ha spedito una lettera di arruolamento una settimana fa, con l'indicazione di recarsi alla caserma di Edimburgo oggi alle sei del mattino, appuntamento al quale lei non si è presentato.» esclamò l'uomo, impettito nella sua uniforme.

Fitzgerald tentò un mezzo sorriso, per rabbonire il soldato. «Durente la stagione fredda noi non riceviamo la posta a casa. Devo andare all'ufficio postale per ritirarla. Sarà per questo che non ho ricevuto la lettera.» spiegò con voce gioviale, nel tentativo di mascherare la preoccupazione.

Il soldato non sembrava contemplare l'ipotesi di una discussione tranquilla. «Lei deve seguirmi immediatamente in caserma se non vuole essere sbattuto in cella con l'accusa di diserzione.»

Rebecca si portò una mano alla bocca, spaventata. «Immediatamente?» ripeté con aria sciocca Fitzgerald, gli occhi sgranati e il volto incredulo. «Ma è necessaria tutta questa fretta?»

«Per Dio, giovanotto! Certo che sì! Siamo in guerra!» rispose il soldato con foga.

«Guerra?» gli fece eco Fitzgerald, il sudore freddo che cominciava a colargli dalla fronte. Rebecca strinse a sé il piccolo William, intimorita da quello che stava succedendo.

L'uomo in divisa gonfiò il petto prima di rispondere, come se stesse tenendo un encomio davanti al tribunale. «La Germania ha invaso la Polonia e l'Inghilterra scende in campo in difesa dei popoli liberi d'Europa! E ora muoviamoci!» esclamò il soldato, strattonando il giovane per la giacca.

Fitzgerald si voltò a lanciare uno sguardo di sconvolta commozione alla moglie. Era uno sguardo pieno di amore e di rassegnazione, quello di una povera bestia trascinata al macello.

«Nooooo!» strillò Rebecca, correndo incontro al marito. Ma i soldati la fermarono sull'uscio di casa, mentre Fitzgerald veniva fatto salire su un camioncino militare. «Noooo!» urlò ancora la donna, tentando di liberarsi dalla presa ferrea degli uomini.

Un ultimo grido attraversò la brughiera. «Gerald!»

E la sua risposta: «Rebecca!»

La donna si accasciò a terra e cominciò a piangere disperata. I soldati se ne andarono, lasciandoli lì, una giovane moglie scossa dai singhiozzi e un bambino senza più un padre. «Mamma, dove va papà?» domandò il piccolo William, con i lacrimoni pronti a sgorgare dai teneri occhi innocenti, verdi come la brughiera che si estendeva fino all'orizzonte. Cominciò a piovere, come se anche il cielo partecipasse di tutto quel dolore. Una domanda rimase sospesa nell'aria umida e nebulosa: «Mamma, dove va papà?»




Buongiorno a voi!

Dopo anni che non toccavo questa storia, è cominciato un serio programma di risistemazione totale! Ho corretto, riscritto e allungato i primi due capitoli (trasformatisi in un beve prologo e in un capitolo più lungo del precedente); ho completato la storia e ora provvederò ad aggiornare regolarmente.

Spero che il racconto possa piacervi! Un paio di capitoli, contengono alcune scene di violenza... vi avvertirò all'inizio con una nota, ma spero comunque di non urtare la sensibilità di nessuno.

A presto,

Beatrix Bonnie


ps. Ho anche scoperto di recente, partecipando ad un contest, che tutte le volte che parla un personaggio diverso, bisognerebbe andare a capo. È una regola che mi scoccia parecchio, perché ho sempre odiato andare a capo in continuazione, e quindi ci ho impiegato parecchio ad accettarla, ma... è una REGOLA! Non ci posso fare niente, sono troppo ligia al mio dovere! Ergo, questa è la prima storia che rispetta tale norma... sistemerò anche quello che sto scrivendo o è in via di pubblicazione. Un applauso per me! XD


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Capitolo 2
*** Capitolo I ***


Capitolo I



Giugno 1940


Il traballare del camion obbligava i suoi occupanti a sbattere in continuazione contro gli schienali dei sedili. Uno sbattere abituale ormai, quasi confortante. Era il segno che il motore andava ancora, che c'era ancora benzina, ma soprattutto significava che tutte le membra erano sufficientemente sensibili da avvertire il vibrare meccanico della panca di legno. Fitzgerald aveva imparato ad amarlo, perché indicava che per ora si trovava al sicuro sul camioncino, ma aveva anche imparato ad odiarlo, perché accompagnava da mesi gli attimi più terribili della sua vita. Stringeva tra le braccia intirizzite il fucile, come se fosse il suo amato figlioletto; lo abbracciava quasi, si aggrappava ad esso. Era rannicchiato su se stesso, gli occhi sgranati dal terrore, un elmetto verde troppo grande per lui che gli schiacciava i capelli neri sulla fronte.

Tremava, ma non a causa dello sconquassamento provocato dal camion.

«Mioddio, sembri uno scoiattolo spaurito.» disse una voce roca e profonda. Apparteneva al soldato che era seduto davanti a lui. Una montagna di uomo. Fitzgerald gli lanciò un'occhiata terrorizzata e la sua massa enorme lo spaventò ancora di più. Se l'intento del commilitone era quello di sdrammatizzare l'attesa a spezzare la tensione, ottenne esattamente l'effetto contrario: Fitzgerald cominciò a dondolare avanti e indietro, in preda ad una attacco di panico. «Ehi, scoiattolino, stai tranquillo! Mioddio, ma sei un ragazzino! Quanti anni hai? Ne dimostri quindici.» domandò ancora l'uomo.

Fitzgerald si concesse il lusso di rispondere: «Venticinque.»

«Santo cielo! Eddai, smettila di tremare. Facciamo fuori un po' di tedeschi e ce ne andiamo.» continuò quello, battendogli una pacca amichevole sulla spalla.

Per poco Fizgerald non cadde dalla scarna panca di legno. Sembrava che nemmeno capisse le parole che gli venivano rivolte, vista l'espressione di scioccata innocenza che aveva disegnata sul volto, gli occhi dilatati per il terrore e la bocca semiaperta. «Fuori...?» ripeté, senza nemmeno accorgersi. Non era una domanda, ma nemmeno un'affermazione: era la follia causata dalla paura cieca che lo invadeva.

Si sentì il rombo di un aereo che passava sopra la loro testa, poi un sibilo acuto e infine uno scoppio. Fitzgerald si guardò intorno, atterrito, ma non trovò altro che volti anonimi, maschere di uomini che un tempo avevano amato e sperato di vivere in pace. Una voce urlò qualcosa e tutti cominciarono a saltare giù dal furgone.

«Veloci, veloci!»

Fitzgerald per poco non cadde a terra e fu costretto ad appoggiare una mano sul terriccio per rimettersi in piedi. C'erano urla, scoppi, lampi improvvisi di luce. Quello era l'inferno. I pantaloni della sua divisa si inzupparono, ma lui nemmeno se ne rese conto. Era solo una reazione fisiologica spontanea del corpo, di fronte alla possibilità di morire. 'Svuotare la sacca' era il comando automatico che partiva involontariamente dal cervello quando si accorgeva che non aveva speranze di sopravvivenza. Un rivolo gli percorse la gamba fino allo scarpone. Cominciò ad ansimare, le gambe molli e le mani ancorate al fucile, la sua salvezza e la sua condanna.

«A destra, avanzare! Attenzione!» strillò il caporale.

Fitzgerald si mosse come una macchinetta. Non sapeva nemmeno perché stava eseguendo gli ordini, quando dentro la sua testa una voce gli urlava di fuggire. Poi ci fu un boato enorme: era scoppiata una bomba lì vicino. Fitzgerald fu sbalzato lontano e atterrò dolente sul terriccio fangoso. Si coprì la testa con le braccia e rimase immobile sdraiato supino. Forse se non guardava quell'orrore di morte e sangue, prima o poi sarebbe sparito.

«Che diavolo fai, sei impazzito?» gridò una voce. Qualcuno lo afferrò per la giacca della divisa e lo sollevò da terra di peso, per tentare di rimetterlo in piedi. Fitzgerald riuscì appena in tempo ad afferrare il fucile e stringerlo a sé, come se potesse in qualche modo salvarlo da quella situazione. I suoi occhi sgranati riconobbero il soldato grosso che gli aveva rivolto la parola sul camion.

«Per Dio, scoiattolino, vuoi restare qui tutto il tempo? Alzati e combatti!» gli urlò contro l'uomo, afferrandolo per le spalle e scuotendolo avanti e indietro. «Ci stanno massacrando!»

Fiztgerald lo fissò con gli occhi sgranati, poi scoppiò a piangere. Due lacrime gli attraversarono il volto annerito e infangato, lasciando dietro di sé una striscia lucida.

L'avevano addestrato in quegli ultimi sei mesi, gli avevano insegnato ad eseguire gli ordini, a sparare con il fucile senza chiedere perché, ad essere pronto a morire per la patria, se necessario. Ma quella era la prima volta che lo sbattevano in guerra. In mezzo all'inferno.

Avrebbe voluto lasciarsi morire lì, crollare a terra senza reagire, permettere alle forze di abbandonarlo lentamente, come se dovesse dormire. Chissà, magari si sarebbe risvegliato in un prato così intensamente verde come quelli della sua amata Scozia e avrebbe scoperto che la guerra era solo un brutto sogno appartenente al passato.

L'uomo che l'aveva rialzato da terra, però, non sembrava dello stesso parere. A lui non importava un gran che di ammazzare i nazisti, ma l'avrebbe fatto senza farselo ripetere, se fosse stata l'unica cosa che gli avesse permesso di sopravvivere. E, al momento, sopravvivere sembrava davvero la cosa più sensata.

Non sapeva perché si fosse preso la briga di aiutare quel ranocchietto spaurito. Solo che... gli faceva pena. Sebbene lui fosse più giovane di ben due anni, l'altro gli arrivava sì e no alla spalla, smunto e magrino com'era. L'elmetto che portava in testa gli era troppo grande e finiva sempre per nascondere i suoi luminosi occhi azzurri, sgranati per la paura. La divisa enorme gli cadeva addosso in modo scomposto, infagottandolo e rendendo impacciati i suoi movimenti. Complici i tratti lineari e la totale assenza di barba, sembrava più che altro un bambino vestito con gli abiti da guerra del padre.

E ora se ne stava lì a guardarlo. Piangeva, addirittura! Se lo avesse abbandonato, sarebbe certamente morto. In barba a tutte le regole militari che gli avevano inculcato nella testa in quegli ultimi mesi, il giovanotto afferrò il compagno per la vita e se lo caricò di peso sulle spalle. Quello scalciò e probabilmente si lamentò, ma non poteva nulla contro di lui. Se lo portò via come avrebbe fatto con un sacco di patate. Nell'altro braccio teneva alto il fucile, pronto a colpire chiunque gli avesse sbarrato il passaggio, amico o nemico che fosse. Non c'era tempo per andare per il sottile: l'esercito inglese e francese era in rotta e i tedeschi sparavano a vista a qualsiasi cosa si muovesse che non indossasse la divisa nazista.

I soldati inglesi correvano in modo disordinato per il bosco, lontano dagli spari e dallo scoppio delle bombe. Nessuno sapeva dove andare, eppure c'era un istinto primordiale che li spingeva via da quel luogo di morte, verso una salvezza sperata ma non certa. Quelli feriti si trascinavano a terra, rantolavano ed arrancavano per riuscire a scappare, mossi da un impulso folle che moltiplicava le loro ultime gocce di forza. Il capitano e i caporali cercavano di dare disciplina a quella fuga disparata, ma nessuno più seguiva gli ordini.

«Il generale Alexander comanda di ritirarsi al villaggio di Dunkerque!» gridò uno dei caporali, cercando di avvertire quanti più uomini possibili. «Lì c'è la flotta che ci aspetta!»

I tedeschi li avevano letteralmente sbaragliati. La loro superiorità non era solo numerica, ma anche tattica: i loro uomini avevano alle spalle mesi di duro addestramento e soprattutto avevano una fede cieca nel Terzo Reich. Gli inglesi, invece, preferivano pensare prima alla propria sopravvivenza che alla difesa della Francia. Manco era la loro, di patria.

Il giovane soldato con Fitzgerald sulle spalle, cominciò a correre in direzione del villaggio. Non era certo che ci sarebbe arrivato, in realtà, soprattutto non con un fardello da portarsi dietro. In fin dei conti, nemmeno lo conosceva: avrebbe potuto abbandonarlo, ma sarebbe stato come condannarlo a morte certa. E lui non riusciva a farlo.

«Resisti, scoiattolino, ce la faremo!» lo incitò, con foga. Il ragazzo mugugnò qualcosa di incomprensibile: probabilmente era tramortito. Proprio in quel momento, una scarica di proiettili li raggiunse alle spalle. Il soldato inglese si gettò dietro una roccia, ma sapeva che quel nascondiglio non li avrebbe protetti a lungo. «Aspettami qui.» ordinò al compagno, posandolo a terra. Come se potesse andare da qualche parte, in quelle condizioni.

Dopodiché caricò il fucile e si sporse oltre la roccia. Non fu l'allenamento da soldato che aveva ricevuto ad aiutarlo, quanto la buona mira sviluppata in anni di caccia. Quando la strada fu finalmente libera, si caricò nuovamente il compagno sulle spalle e riprese la sua corsa disperata verso il porto.

«Ci siamo quasi!» esclamò eccitato, quando riconobbe le luci delle case in lontananza. La stanchezza cominciava a farsi sentire, ma non poteva cedere proprio ora che mancava così poco. Non si sentiva più le gambe, le spalle gli dolevano come non mai e credeva che le forze lo avrebbero abbandonato da un momento all'altro. Gli ultimi metri che lo separavano dal villaggio li percorse quasi strisciando.

Grazie al cielo, altri soldati li videro arrivare e corsero loro incontro per aiutarli. «Dove è ferito?» domandò uno, accennando a Fitzgerald.

«No, no. È solo svenuto.» rispose il ragazzo scuotendo la testa. I compagni, scambiandosi occhiate perplesse, li aiutarono a raggiungere il resto dell'esercito, dove sarebbero stati al sicuro.

Fitzgerald riprese conoscenza quando erano ormai già saliti a bordo. I suoi ricordi erano confusi, ma un volto continuava a fare capolino nella sua mente. «Ehi...» mormorò con un filo di voce.

Il soldato che l'aveva salvato, seduto al suo fianco in una squallida cabina della nave, si voltò verso di lui. «Oh, ti sei svegliato, scoiattolino.» esclamò, dandogli una pacca sulle spalle.

Fitzgerald si mise lentamente a sedere. «Sì.» sussurrò, massaggiandosi la testa. «Io... mi ricordo. Tu mi hai salvato la vita.»

Il ragazzo gli rivolse un sorriso sincero.

«Grazie.» mormorò Fitzgerald, con vera riconoscenza.

L'altro scoppiò a ridere. «Avanti, ci sarà tempo per ringraziare. Ora pensiamo a sopravvivere.» rispose.

«Dimmi almeno come ti chiami.»

«Josh, Josh Watson.» si presentò il ragazzo, tendendo la mano verso di lui.

Il giovane scozzese gliela strinse con riconoscenza. «Fitzgerald McBride. Piacere di conoscerti.»




Buongiorno a voi! (NB. è la stessa nota del prologo...)

Dopo anni che non toccavo questa storia, è cominciato un serio programma di risistemazione totale! Ho corretto, riscritto e allungato i primi due capitoli (trasformatisi in un beve prologo e in un capitolo più lungo del precedente); ho completato la storia e ora provvederò ad aggiornare regolarmente.

Spero che il racconto possa piacervi! Un paio di capitoli, contengono alcune scene di violenza... vi avvertirò all'inizio con una nota, ma spero comunque di non urtare la sensibilità di nessuno.

A presto,

Beatrix Bonnie


ps. Ho anche scoperto di recente, partecipando ad un contest, che tutte le volte che parla un personaggio diverso, bisognerebbe andare a capo. È una regola che mi scoccia parecchio, perché ho sempre odiato andare a capo in continuazione, e quindi ci ho impiegato parecchio ad accettarla, ma... è una REGOLA! Non ci posso fare niente, sono troppo ligia al mio dovere! Ergo, questa è la prima storia che rispetta tale norma... sistemerò anche quello che sto scrivendo o è in via di pubblicazione. Un applauso per me! XD


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Capitolo 3
*** Capitolo II ***


Capitolo II



Giugno 1940


Rebecca aveva preso l'abitudine a passare le ore della sua giornata a guardare la brughiera fuori dalla finestra. Non che si aspettasse il ritorno di Gerald, ma osservare il punto esatto in cui l'aveva visto sparire le dava un minimo conforto. Erano passati sei mesi ormai, ma non aveva ricevuto alcuna notizia. Era già partito per il fronte? Era ancora vivo? Pensava a lei ogni tanto?

Quelle domande la assillavano, ma ciò che la faceva stare peggio era la certezza che non avrebbero mai avuto risposta. Forse Gerald le aveva scritto, ma la posta non arrivava al vecchio castello nemmeno in tempo di pace, figuriamoci con la guerra. Era una tortura per lei non sapere dove fosse Gerald, come stava, se sarebbe mai tornato a casa. Avrebbe anche potuto aspettarlo per anni, se solo avesse avuto la certezza di rivederlo. Invece quel nulla intorno a sé la faceva morire lentamente, giorno dopo giorno.

Proprio in quel momento il suo maggiordomo bussò alla porta della stanza. «Avanti.» sussurrò Rebecca, distogliendo finalmente lo sguardo dalla brughiera.

Il volto raggrinzito del vecchio Sean fece capolino dietro la porta. «Mi scusi, signora, dei soldati chiedono di lei.»

Quella notizia fu come una doccia fredda per Rebecca. Rimase immobile, congelata sul posto per una manciata di secondi, mentre una spiacevole ipotesi si faceva strada nella sua mente. No, non poteva essere! Non il suo Gerald.

Scese lentamente le scale, come un condannato che va al patibolo; il suo cuore venne afferrato da una morsa di gelo e cominciò a battere tanto debolmente che Rebecca fu certa che presto si sarebbe fermato. Quasi avrebbe preferito così, piuttosto che sopravvivere a tutto quel dolore. Solo... non avrebbe potuto abbandonare i bambini.

C'erano tre uomini in ingresso con indosso la divisa militare inglese. Uno di essi, forse quello più alto in grado, aveva un paio di curati baffetti biondicci che stonavano con le chiazze di carnagione rossa sulle guance. Aveva gli occhi troppo piccoli, sproporzionati per il suo viso, che appariva un po' viscido, come una saponetta da bucato bagnata.

«Signora McBride?» domandò quando la vide apparire sulle scale che dall'ingresso portavano ai piani successivi.

«Sì.» mormorò debolmente Rebecca, afferrando il corrimano con tanta forza che le nocche divennero bianche.

«Maggiore Geoffrey Bantry, al suo servizio.» si presentò l'uomo, con un breve inchino.

Rebecca scese gli ultimi due gradini della scala con passo tremante. «Siete qui per darmi notizie di mio marito?» domandò flebilmente.

Il maggiore Bantry si scambiò un'occhiata con i suoi uomini. «No, signora. Noi veniamo dall'Accademia di addestramento di Edimburgo. Non sappiamo nulla di suo marito.»

Quelle parole fecero sciogliere tutta la tensione in un istante. Gerald poteva essere ancora vivo. Disperso chi sa dove, ma vivo. Poteva continuare a sperare!

Le gambe le cedettero e Rebecca si afflosciò a terra, priva di sensi.


Quando riaprì gli occhi, riconobbe subito di essere distesa sul letto della sua stanza. Probabilmente erano stati i soldati a portarla svenuta al piano di sopra, su ordine di Sean, che ora stava in piedi davanti alla finestra, guardando l'orizzonte.

«Signora Rebecca, si è svegliata.» esclamò con sollievo quando si voltò e vide che aveva gli occhi aperti. «Vuole che faccia chiamare un medico?» le domandò, avvicinandosi al letto con fare premuroso. Rebecca scosse debolmente la testa.

«Ma non è la prima volta che sta male, in questo ultimo periodo. Forse ha bisogno di una visita. mormorò il vecchio maggiordomo.

Rebecca si lasciò sfuggire un sorriso stanco. «No, Sean. Non ho bisogno di una visita: so benissimo che cos'ho.» gli rispose con un sussurro. «Aspetto un bambino.»

L'uomo aprì la bocca per dire qualcosa, ma non ne uscì alcun suono. In effetti, ora che ci pensava, la signora era parecchio ingrassata in quegli ultimi mesi, le si era gonfiato il ventre e il seno, stava spesso male e sembrava ogni giorno più debole. Ma lui era sempre stato convinto che fosse la lontananza del marito a ridurla in quello stato. Mai e poi mai avrebbe pensato che...

«Da quanto tempo lo sa, signora?» le domandò in tono preoccupato. Rebecca si accarezzò delicatamente la pancia. «Da gennaio. Ho appena cominciato il settimo mese.» mormorò in risposta.

Mentre cercava di mettersi a sedere, gli occhi le si inumidirono e una lacrima solitaria le attraversò la guancia. Rebecca ne sentì il sapore salato in bocca e si affrettò ad asciugarla con il dorso della mano, per non farsi vedere dal vecchio Sean. Che cosa avrebbe raccontato il maggiordomo al bambino, una volta nato? Che sua madre singhiozzava quando gli aveva rivelato di essere incinta?

Rebecca non piangeva per il fatto di aspettare un figlio, ma perché quel figlio sarebbe cresciuto senza un genitore. Gerald era lontano, in guerra, e nemmeno sapeva che stava per diventare padre una seconda volta. Lei avrebbe dovuto crescere due bambini da sola, potendo contare solo sulle sue forze. Che cosa avrebbe risposto ai bimbi se le avessero chiesto dove fosse loro padre? Che cosa avrebbe detto al piccolo che portava in pancia, quando le avrebbe domandato perché lui non aveva un padre?

Proprio in quel momento qualcuno bussò alla porta e prima ancora di aspettare una risposta, il maggiore Bantry entrò nella stanza. «Oh, si è ripresa, signora McBride. Me ne compiaccio.» esclamò vedendola sveglia. Rebecca cercò frettolosamente di ricomporsi per rendersi presentabile, ma l'uomo si sedette ai piedi del suo letto, facendola raggelare all'istante. Il vecchio maggiordomo Sean, si irrigidì e trattenne il fiato.

«Signora McBride, io e i miei compagni avremmo una proposta da farle.» cominciò a dire il soldato, in un tono che doveva essere affabile ma che fece rabbrividire Rebecca. «Vede, noi siamo gli addestratori dell'Accademia di Edimburgo, ma sinceramente è un vero schifo laggiù. Così, pensavamo... lei ha qui un grande castello con tante stanze vuote che non utilizza ed è abbastanza vicino ad Edimburgo, meno di un'ora. Lei ci presta due stanze e siamo tutti più contenti. Ovviamente, poi ci accordiamo e lei ci fa sapere quanto dobbiamo pagarle... è un grande servizio reso all'esercito di Sua Maestà. Così tutti contribuiamo a questa guerra, anche lei.»

Concluso quel breve discorso, la bocca del maggiore Bantry si allargò in un sorriso accattivante.

Rebecca deglutì. Come avrebbe potuto rinunciare all'offerta? Non aveva alcuna intenzione di ospitare quei tre soldati a casa sua, soprattutto non senza la protezione di suo marito, ma il maggiore Bantry non pareva particolarmente incline ad accettare un rifiuto.

Rebecca lanciò una disparata occhiata sfuggente a Sean, ma il vecchio era impietrito. Il maggiore scoppiò a ridere divertito. «Avanti, signora McBride. Ci sta pure qui a pensare? Non le pare un'ottima proposta?» le domandò, mentre i suoi piccoli occhi acquosi le mandavano sguardi di incitamento.

Rebecca annuì di sfuggita. «Certo.» mormorò debolmente.

Il maggiore Bantry batté le mani soddisfatto. «Ottimo, sapevo che saremmo riusciti a trovare un accordo. Vado ad avvertire i miei compagni.» esclamò con un sorriso, alzandosi dal letto. Poco prima di uscire dalla stanza, si voltò nuovamente verso di lei. «Oh, questa sera ci fermeremo qui a cena, che ne dice? Così facciamo conoscenza della casa.»

E con quelle parole sparì, lasciando nella camera un silenzio glaciale. Per qualche minuto nessuno parlò, perché entrambi erano troppo scioccati dalla piega che aveano preso gli eventi. «Signora...» mormorò Sean dopo un po', ma fu subito interrotto dal grido di un bambino che proruppe nella stanza in lacrime.

«Mamma!» esclamò il piccolo William, gettandosi tra le braccia della donna. «Chi sono quei brutti uomini in ingresso che mi fanno tanta paura?» domandò tra i singhiozzi.

Rebecca non seppe cosa rispondere. Che cosa avrebbe dovuto dire?

«Signora.» ripeté il vecchio maggiordomo, avvicinandosi al letto. «Lei deve trovare un uomo da tenersi in casa, che protegga lei, suo figlio William e... il piccolo.» sussurrò, accennando con il capo al suo ventre. Gli occhi di Rebecca si riempirono nuovamente di lacrime. Chi avrebbe potuto chiamare? Suo marito era lontano in guerra, fratelli non ne aveva e suo padre era morto da tempo. Nessuno l'avrebbe salvata dal maggiore Bantry e i suoi uomini.

Improvvisamente le venne un idea: forse c'era qualcuno che poteva aiutarla. Era una scommessa rischiosa, ma era la sua unica chance.

Rebecca sollevò delicatamente il viso del figlio e gli asciugò le lacrime con una carezza. Poi gli rivolse un sorriso tenero.

«Su, William, tesoro, non piangere. Domani andremo a conoscere il tuo nuovo nonno.»



Buongiorno a voi!

Dopo anni che non toccavo questa storia, è cominciato un serio programma di risistemazione totale! Ho corretto, riscritto e allungato i primi due capitoli (trasformatisi in un beve prologo e in un capitolo più lungo del precedente); ho completato la storia e ora provvederò ad aggiornare regolarmente.

Questo è il primo “nuovo capitolo” del racconto... l'ambientazione è di nuovo in Scozia, perché le scene si alterneranno tra la vecchia casa nella brughiera e le imprese militari di Gerald. Spero che vi sia piaciuto!

A presto,

Beatrix

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Capitolo 4
*** Capitolo III ***


Capitolo III



Giugno 1940


La casa di riposo per vecchi facoltosi senza famiglia di Edimburgo assomigliava più che altro ad un ospedale lussuoso. Le camere erano giusto quel tantino più confortevoli, ma il servizio non era neanche lontanamente adeguato alla costosa retta che gli ospiti dell'ospizio pagavano.

Rebecca conduceva per mano il piccolo William lungo i corridoi spogli e deprimenti. Il bambino sgranava i suoi occhioni verdi in ogni direzione, insieme attratto e spaventato da quel luogo, mentre la mamma procedeva leggendo le targhettine con il nome, poste sulla porta di ogni stanza.

Eccolo, Connor MacCallagan.

Rebecca bussò delicatamente e attese una risposta che non arrivò. «Signor MacCallagan?» domandò, socchiudendo la porta per spiare dentro la stanza: c'era un uomo anziano appisolato sulla poltrona davanti alla finestra. «Signor MacCallagan?» chiese ancora Rebecca, entrando insieme al piccolo William.

Il vecchio si svegliò di soprassalto ed esclamò: «Chi mi ruba i miei soldi?»

William si aggrappò alla gonna della madre e si nascose dietro di lei, per spiare il nonnino senza essere visto. Era magro e raggrinzito, ma aveva l'aria di essere stato un bell'uomo, alto e imponente, da giovane. I suoi occhi blu come il mare erano leggermente velati e il destro, addirittura, era semi offuscato da una patina bianchiccia; molto probabilmente da quell'occhio non ci vedeva più. Il volto era una ragnatela di rughe e ognuna di esse sembrava voler raccontare la propria storia.

Il suo sguardo indagatore si puntò su Rebecca: rimase a soppesarla per una manciata di secondi, poi domandò: «Non sei tu che vuoi rubarmi i soldi, vero?»

«No, signor MacCallagan. Sono Rebecca McBride, la moglie di Fitzgerald. Si ricorda?» disse la giovane donna, con un sorriso speranzoso. Connor MacCallagan era il proprietario della banca dove lavorava suo marito: era stato lui ad ad assumerlo, intuendo il potenziale del diciottenne Fitzgerald; l'aveva aiutato a fare una veloce carriera, prendendolo sotto la propria ala protettiva e insegnandogli tutto ciò che sapeva dell'arte bancaria. Da tre anni, ormai oggettivamente troppo su di età per lavorare, il signor MacCallagan si era ritirato all'ospizio, anche se alcune voci sostenevano che il taccagno vecchiaccio avrebbe preferito appiccare il fuoco alla sua banca, piuttosto che lasciarla in mano ad altri.

Da quando si trovava in casa di riposo, Gerald era andato spesso a trovare il suo vecchio e burbero mentore, per tentare di ricambiare con quelle visite l'insegnamento che aveva ricevuto. Lui fingeva di essere infastidito da tante smancerie, ma quelle occasionali distrazioni rappresentavano la sua unica salvezza dalla tediosa vita dell'ospizio. Il signor MacCallagan, infatti, non aveva famiglia e da quando era stato costretto a lasciare il lavoro, non aveva altro che occupasse le sue giornate. Non si sapeva perché fosse rimasto celibe: c'era chi diceva che fosse troppo taccagno per sposarsi e condividere il suo patrimonio con moglie e figli, ma Gerald aveva confessato alla moglie che doveva essere un altro il motivo. Non sapeva spiegarselo, ma ogni tanto leggeva un'immensa e profonda tristezza in quegli occhi blu come l'oceano.

Alla domanda posta dalla giovane donna, l'anziano signor MacCallagan scatarrò rumorosamente. «Certo che mi ricordo di Fitzgerald. Sono vecchio, non rincoglionito.» rispose in tono scortese, lanciando occhiate ostili verso i suoi visitatori. Rebecca cercò di mostrarsi gentile, regalando un sorriso al vecchio scozzese. Gerald diceva sempre che il signor MacCallagan era burbero solo all'apparenza, perché, conoscendolo meglio, ci si accorgeva di come fosse in realtà premuroso e garbato; ma guardando quell'uomo astioso raggrinzito sulla poltrona, Rebecca poteva pensare di tutto tranne che fosse garbato.

«Siediti va, prima di partorirmi qui il marmocchio.» le ordinò il vecchio, facendo un cenno secco con la testa per indicare la sedia. Rebecca prese in braccio il piccolo William ed eseguì quanto le era stato detto. Era maledettamente sveglio il signor MacCallagan, per avere ottant'anni: a lui era bastata un'occhiata per capire che era incinta, quando al suo maggiordomo Sean, che la vedeva tutti i giorni, quell'ipotesi non era nemmeno passata per la testa.

«Dov'è il mio giovanotto, eh?» chiese l'uomo, raddrizzandosi sulla sedia come se si aspettasse di vederlo entrare da un momento all'altro.

Rebecca abbassò gli occhi a terra e prese a fissarsi la punta delle scarpe. «Gerald è in guerra, signor MacCallagan.» rispose infine, con un sussurro dolente. Il vecchio la guardò con intensità per parecchi minuti: non c'era ombra di pensiero nei suoi insondabili occhi blu, ma Rebecca era certa che la sua mente stava lavorando a ritmo irrefrenabile. Non si poteva capire quali emozioni lo avessero scosso perché il suo volto era una maschera di pietra, eppure... la palpebra destra si contrasse leggermente e calò sull'occhio di qualche millimetro. Un cedimento; i suoi nervi lo stavano abbandonando. Da lì, quella palpebra non si sarebbe più risollevata.

«Che cosa sei venuta a chiedermi?» domandò infine, dopo quella che era parsa un'eternità di silenzio. Rebecca arricciò sul dito un ciuffo di capelli di William. Lo faceva spesso, ultimamente: era quasi diventato un tic. Prima, accarezzava sempre i capelli di Gerald.

«Signor MacCallagan.» sospirò alla fine, ricambiando il suo sguardo intenso. «Le piacerebbe diventare mio padre?»

Rebecca era certa che il suo vero padre non se la sarebbe presa troppo, se fosse stato sostituito. Di nuovo.

Aveva più che altro dei vaghi ricordi di lui: era morto nella Grande Guerra, quando lei aveva solo due anni, e tutto ciò che riusciva a ricordare era il suono della sua cornamusa nelle serate invernali. Sua madre si era risposata con un anziano londinese di classe, che aveva portato la giovane sposa e la figliastra a vivere nella capitale. Era stato un patrigno gentile, dopo tutto, e forse aveva davvero amato la donna che aveva sposato; ma anche lui, più vecchio della moglie di quasi trent'anni, era morto presto lasciando la consorte nuovamente vedova, ma questa volta, almeno, sostenuta dalla sua ricca pensione. La donna non si era più risposata, anche se avrebbe tanto voluto un figlio maschio che neanche le seconde nozze le avevano regalato, ed era tornata a vivere a Edimburgo, con la figlia quattordicenne. Quando Rebecca compì i diciotto anni, la madre si ammalò al fegato e dopo una breve ma sofferta agonia, morì anche lei, lasciando la ragazza sola al mondo.

La sua ancora di salvezza fu Fitzgerald: un bel giovane, ricco e di buona famiglia, che stava facendo una rapida carriera in banca. Era così impacciato la prima volta che l'aveva invitata a cena! Ma era stato così dolce e premuroso con lei che Rebecca se ne era innamorata profondamente. Lo amava, in modo devoto. Per lei era più di un marito: era un fratello, un padre; era tutta la sua famiglia.

Ma ora se n'era andato, lo aveva portato via la guerra, come già le aveva strappato il padre. E l'aveva lasciata sola, con un bambino in braccio, uno in grembo e tre maggiori dell'esercito che insidiavano la sua casa.

Connor MacCallagan era la sua unica speranza. Rebecca era convinta che sarebbe stato facile per lei fingere di nuovo che uno sconosciuto fosse suo padre. Aveva finto con il patrigno, avrebbe potuto farlo anche con il vecchio signor MacCallagan.

Il problema era rappresentato dall'anziano e burbero scozzese: avrebbe accettato di aiutarla, una volta scoperta la situazione in cui si trovava?

L'uomo ascoltò con attenzione il racconto di Rebecca: la lasciò parlare fino alla fine, senza interromperla per chiederle chiarimenti. Esattamente come quando aveva scoperto che il suo pupillo era partito per la guerra, anche questa volta nessuna emozione trapelò dal suo volto di ferro, man mano che procedeva la narrazione. Quando Rebecca concluse, gli rivolse uno sguardo carico di speranzosa attesa. Il vecchio MacCallagan sembrò soppesare la proposta per un tempo infinito.

William, intanto, aveva cominciato a succhiarsi il pollice e a studiare con attenzione il vecchietto che aveva di fronte. Era un tipo buffo, con quel ciuffo di capelli bianchi che gli ballonzolava sulla fronte tutte le volte che si muoveva e l'occhio destro semichiuso. Sembrava una maschera di carnevale, di quelle strane e ridicole ma anche un po' inquietanti. William approfittò del momento di silenzio seguito al racconto della madre per tirarsi il dito fuori di bocca e allungare la manina paffuta e un po' bavosa verso il vecchio. Si sporse in avanti e il suo ditino indice sfiorò il naso adunco nel vecchietto.

«Sei tu il mio nuovo nonno?» domandò con aria perplessa. Il signor MacCallagan lo scrutò a lungo, ma non rispose. Dopo un attimo di silenzio, il volto di William si allargò in un sorriso. «Spero di sì, perché mi piaci.» esclamò allegro, rimettendosi in bocca il pollice con aria soddisfatta.

Il signor MacCallagan sgranò gli occhi in un'espressione sconcertata e Rebecca trattenne il fiato, convinta che il vecchio burbero li avrebbe immediatamente cacciati fuori dalla stanza. Invece l'anziano scozzese incrinò le labbra sottili in un breve sorriso. Ancora con gli occhi ridenti puntanti su William, il signor MacCallagan sussurrò a Rebecca: «Conducimi a casa, figliola.»


Il signor MacCallagan osservava pensieroso la brughiera che scorreva sotto i suoi occhi. Erano anni che non usciva da quell'odioso ospizio, così tanti che nemmeno si ricordava quanto fosse maledettamente bella la brughiera. Andarsene da quel luogo era stato come rinascere a nuova vita, finalmente libero dalle pareti bianchicce, dai pasti mal cotti, dalle infermiere scortesi.

Neanche ricordava il motivo per cui si era rinchiuso in quel maledetto carcere. Erano stati i membri del consiglio della sua banca a suggerirglielo: era vecchio, senza famiglia e malato agli occhi, quella struttura si sarebbe occupata di lui. Che vecchiaia insulsa!

«Signor MacCallagan, guardi, siamo quasi arrivati.» mormorò Rebecca, indicandogli il profilo di un castello in lontananza.

L'uomo lo ammirò compiaciuto per qualche secondo, attraverso il finestrino dell'automobile. «Sarebbe il caso che tu cominciassi a chiamarmi papà.»

«E io ti chiamo nonno?» intervenne innocentemente William.

Il signor MacCallagan gli concesse uno dei suoi rari sorrisi. «Certo, piccolino.» gli rispose, tornando ad ammirare la sagoma del castello. «Certo.»

Il vecchio maggiordomo Sean corse ad accoglierli alla porta, quando vide la macchina attraversare la brughiera in direzione della villa. «Signora Rebecca, è tornata.» esclamò con sollievo.

«Sean, aiuta mio padre a prendere la valigia.» ordinò Rebecca, scendendo dall'automobile e pagando l'autista che li aveva accompagnati.

«Suo padre?» le fece eco Sean, perplesso.

Il signor MacCallagan spalancò la portiera con foga, sbattendola contro il maggiordomo. «Sì, suo padre. Sei sordo oltre che vecchio?» esclamò con scortesia, scendendo dall'auto.

Rebecca invitò il signor MacCallagan ad entrare nella villa. Vestito con un completo elegante e lontano dalla poltrona dell'ospizio, non sembrava più così raggrinzito. Varcò l'ingresso della sua nuova casa con le spalle dritte e il mento sollevato, come un vero conquistatore.

«Signora McBride, ci chiedevamo dove fosse finita.» esclamò il maggiore Bantry sbucando in ingresso. Evidentemente aveva sentito dei rumori e aveva supposto che la signora fosse tornata a casa.

«Ah, maggiore Bantry. Sono stata alla stazione di Edimburgo a prendere mio padre. Verrà a stare da noi per un po'.» spiegò la giovane donna, indicando il vecchio che era con lei.

«Connor MacCallagan, tanto piacere.» si presentò l'uomo. Il maggiore contorse il volto in un'espressione che doveva sembrare rispettosa, ma da cui trapelava tutto il suo disgusto.

«Non fare quella faccia, giovanotto. Sei qui su gentile concessione di mia figlia quindi leccati le dita.» sbraitò il signor MacCallagan, in un tono che faceva capire da che parte stava il comando. «E anzi, fossi in te cercherei di portare rispetto a questa casa. Vedi di pagare con regolarità quanto stato pattuito per vitto e alloggio, non farti beccare a bighellonare in giro quando non dovresti e soprattutto non tentare di insidiare in qualche modo mia figlia. O giuro che ti spacco il culo.»

Il maggiore Bantry indietreggiò di un passo. «Come comanda, signor MacCallagan.» mormorò fingendosi innocente, come se cercasse di instaurare una tregua.

«Papà, non essere scortese. Su, vieni di sopra.» intervenne Rebecca, in tono di rimprovero. Ma un sorriso impercettibile incrinò gli angoli della sua bocca quando il suo sguardo riconoscente incrociò quello profondo del suo nuovo padre.

Tra loro si era stabilita un'alleanza che, presto -loro non potevano saperlo- si sarebbe trasformata in reciproco affetto.




Ecco a voi il terzo capitolo! Con la new entry di Connor MacCallagan!

Ammetto che il suo personaggio è completamente cambiato da come l'avevo immaginato all'inizio (perfino nel nome, visto che prima si chiamava Vincent!): in origine era dolce e affettuoso... ma mentre stavo scrivendo su di lui, mi è venuto un lampo: santo folletto, è uno scozzese! E allora via, mi sono ispirata al caro Scrooge di “Canto di Natale”. Ed ho creato dal nulla Connor MacCallagan, vecchio burbero scozzese, in grado di tenere testa al maggiore Bantry! Spero che vi piaccia!

Ah, QUI l'immagine del primo capitolo che rappresenta Gerald e Josh in battaglia; QUI, invece, il caro MacCallagan, raggrinzito sulla sua poltrona dell'ospizio.

Nel prossimo week-end, torniamo su Gerald e la guerra vera a propria.

A presto,

Beatrix

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Capitolo 5
*** Capitolo IV ***


Capitolo IV



Novembre 1941


«Gerald!»

Il giovane scozzese sapeva benissimo chi l'aveva chiamato, ma non aveva intenzione di alzarsi dal suo nascondiglio. Lì era al riparo dai colpi dei nemici, almeno per un po'. Alzò gli occhi verso il cielo plumbeo: i rombi degli aerei riempivano l'aria, intervallati da penetranti sibili a cui seguivano scoppi assordanti. Le sagome degli aeroplani parevano simili a grossi avvoltoi che aleggiano sulle prede, pronti a cibarsi delle loro carcasse. Ogni fischio annunciatore di morte incuteva terrore nel cuore di Fitzgerald, opprimeva la sua mente, schiacciandolo contro il parapetto della nave. Come se potesse davvero essere al sicuro, lì.

«Gerald! Vieni via!» lo chiamò nuovamente Josh. Anche lui aveva paura, anche a lui i rombi del cielo provocavano un'angoscia pressante, che lo inchiodava a terra, ma Josh sapeva che doveva reagire, se voleva sopravvivere. E sopravvivere, in quell'ultimo anno, era diventato il suo unico obiettivo.

Non sapeva bene che cosa lo avesse legato al giovane e tremante scozzese, quello che dopo ogni battaglia piangeva come un bambino, che non riusciva a reggere in mano un fucile, che ogni volta veniva sopraffatto dal puro terrore. Se era ancora vivo, tutti dicevano che lo doveva solo al suo amico grosso.

Josh davvero non sapeva perché si era preso la briga di proteggere quel ranocchietto. Forse era perché gli ricordava il suo fratellino Bill, sebbene Gerald fosse più vecchio di lui di due anni, o forse perché il giovane scozzese ogni sera prendeva in mano la foto di sua moglie e la osservava per ore intere, la contemplava senza dire una parola; o forse ancora perché gli raccontava sempre di suo figlio William, con una tale tenerezza che avrebbe addolcito anche il cuore più duro.

Josh non sapeva davvero perché, ma si era affezionato a Gerald e tutto questo, unito al fatto che la sopravvivenza del giovane scozzese dipendeva certamente da lui, aveva fatto sì che Josh prendesse l'amico sotto la sua ala protettiva. Nessuno osava più maltrattare Gerald, ora, nessuno pensava anche solo di dire qualcosa che potesse dispiacergli, se non voleva vedersela con Josh Watson.

Anche in guerra Josh aveva preso a proteggere Gerald: il ragazzo ascoltava solo lui, eseguiva solo i suoi ordini e si lasciava manovrare solo da lui, non perché fosse insubordinato ma perché la voce rassicurante dell'amico era l'unica che riuscisse a scioglierlo dal suo terrore. Se c'era Josh, tutto sarebbe andato per il verso giusto.

Erano riusciti a sopravvivere a quell'inferno per più di un anno, Dio solo sa come. Soldato che scappa è buono per un'altra battaglia, dicevano. Be', non ci sarebbe stata massima migliore per Gerald. Faceva tutto Josh: sparare, uccidere, lanciare missili, decidere dove andare e cosa fare; Gerald scappava e basta. Dopo la disfatta di Dunkerque, il loro battaglione era stato assegnato alla marina e dalla fine del '40 la nave corazzata su cui si trovavano, la HSM Barham, solcava le acque del Mediterraneo. Avevano partecipato alla battaglia di Matapan, erano sopravvissuti ad un attacco aereo al largo di Creta e ora stavano puntando su un convoglio italiano. Ma erano stati intercettati.

Un fischio acuto.

E poi uno scoppio.

Gerald si decise finalmente a lasciare il suo nascondiglio tra le casse di proiettili e il parapetto della nave, per raggiungere Josh che stava armeggiando con i lanciamissili della contraerea. «Stammi vicino, maledizione!» gli urlò contro Josh, dandogli un pungo sull'elmetto. Gerald ritirò la testa nelle spalle per attutire il colpo, anche se era certo che non avrebbe sentito niente.

In quel momento una scarica di proiettili si abbatté sulla nave, centrando in pieno alcune postazioni dei lanciamissili. Gerald si coprì il volto con le braccia, anche se sapeva che non sarebbe servito, mentre gli aeroplani nemici scaricavano sul ponte i loro doni di morte. Solo quando il peggio fu passato, Gerald osò aprire nuovamente gli occhi: gli aerei avevano lasciato dietro di sé una scia di cadaveri. Un soldato con il volto sfigurato in un'espressione di dolore si accasciò a terra ai piedi di Gerald, con un rantolo.

Era vivo per miracolo. Mezzo metro più in là e sarebbe stato lui a crepare sotto quei proiettili.

«McBride, qui!» ordinò uno dei caporali, vedendo il soldato nullafacente. Il giovane sgranò gli occhi e indietreggiò di un passo, ma Josh gli diede uno spintone tale da farlo arrivare fino alla postazione dove lo attendeva il caporale. «Qui, mira agli aerei italiani e fanne fuori quanti più puoi.» gli ordinò l'uomo, piazzandolo davanti al lanciamissili. Gerald lanciò un'occhiata di puro terrore a Josh, ma questo rispose con un sorriso incoraggiante. «Dacci dentro, ranocchio!»

Gerald non aveva mai sparato con uno di quei cosi: sapeva solo vagamente come si utilizzava, figuriamoci se riusciva anche solo a centrare un bersaglio. Nessuno, però, sembrò preoccuparsi della sua incapacità e quindi fu costretto a concentrarsi di nuovo su quel macchinario infernale.

Fallo per Rebecca, fallo per Will: quanti più ne fai fuori, prima torni a casa. si disse, nel tentativo di trovare il coraggio di sparare. Cercò di non pensare agli uomini che avrebbe ucciso, ai loro volti straziati dal dolore, ai loro corpi inceneriti dal fuoco, i loro arti mutilati, massacrati, trucidati...

Una nuova formazione di aerei nemici stava venendo incontro alla nave corazzata: i suoi compagni, Josh compreso, avevano già azionato i loro lanciamissili. Avrebbe potuto esserci lui su uno di quegli aerei. Avrebbe potuto morire lui, se qualcun altro gli avesse sparato contro dei missili.

Fischi e alcuni botti. Gli italiani avevano bombardato la poppa della nave.

Si stavano avvicinando alle loro postazioni.

Gerald chiuse gli occhi e sparò. Il missile partì ma il contraccolpo fu tale che Gerald venne spinto indietro e ruzzolò a terra con le gambe all'aria.

«Bel colpo, McBride!» esclamò il caporale, afferrandolo per il colletto della camicia e rimettendolo in piedi. Qualcuno dei soldati vicini a lui esultò soddisfatto e rincarò la dose con altri missili. Solo allora Gerald si accorse di quello che aveva fatto: il suo proiettile aveva centrato in pieno il bersaglio. L'aereo che aveva colpito al motore sbuffava e tossiva fumo, vorticando nel cielo come un uccello ferito, e infine si tuffò nelle acque del mare, venendo subito risucchiato in profondità.

Aveva ucciso. Aveva ammazzato qualcuno, senza nemmeno sapere chi fosse, senza nemmeno capire il perché di quell'assurda violenza. Ora era un mostro anche lui, come tutti gli altri. Anche lui aveva spezzato la vita di un nemico senza nome, aveva insanguinato la giubba di un altro uomo, solo perché era di un colore diverso dalla sua.

Aveva ucciso e da quel momento sapeva che non avrebbe più smesso. Ormai l'incantesimo era rotto: non era più un innocente trascinato dalla guerra, era un assassino come tutti. Un sicario che uccideva per sopravvivere, per non essere ucciso a sua volta, per potersi riservare il lusso di amare ancora... per poter ammazzare un'altra volta al comando dei superiori. Un soldato, un uomo debole che la guerra aveva reso un assassino innocente.

Ma quel suo terribile missile fu inutile, perché le forze militari di Italiani e Tedeschi erano decisamente superiori. Non c'era via di scampo, anche ammesso che Gerald fosse riuscito a centrare con ogni missile che aveva a disposizione un aereo nemico. Che poi, il primo colpo, era decisamente stata fortuna.

L'acqua si increspò freneticamente quando fu penetrata da due siluri, subito seguiti da un'esplosione tremenda che fece ondeggiare pericolosamente la corazzata. Da qualche parte a poppa scoppiò un incendio spaventoso che illuminò a giorno il cielo plumbeo.

È la fine. pensò Gerald, sentendo una stretta al cuore. Il caporale si guardò intorno in attesa di ordini, ma visto che nessuno sembrava preoccuparsi di loro, alzò un pugno al cielo e gridò il motto della corazzata Barham: «Tout bien ou rien! Quei bastardi non ci avranno vivi!»

E con quelle parole si posizionò al lanciamissili che aveva usato Gerald e cominciò a sparare all'impazzata verso i nemici. Molti soldati lo imitarono, presi dalla foga del momento, pronti a vendere la pelle a caro prezzo e convinti di portare con sé all'inferno quanti più avversari potessero.

Tout bien ou rien.

Tutto o niente.

Gerald deglutì.

«Je preferé un compromis.» sussurrò a mezza voce. I suoi occhi languidi si posarono prima su Josh, poi sulle scialuppe di salvataggio poste alle sue spalle. Il suo amico capì l'intento di quello sguardo e tentennò solo per una frazione di secondo.

Soldato che scappa è buono per un'altra battaglia.

I due ragazzi corsero indisturbati verso le scialuppe appese al parapetto, proprio mentre la nave inclinava a babordo. Scivolarono lungo il ponte, fino a raggiungere la loro salvezza. «Presto, aiutami a calare la lancia!» esclamò Josh, armeggiando con le corde e gli attrezzi. Guardandosi intorno, Gerald notò che non erano stati gli unici ad avere quell'idea. Un soldato si gettò sulla loro barca, all'improvviso. Aveva uno sguardo disperato e il terrore dipinto sul volto: voleva salvarsi da quell'incubo. C'era qualcosa di oscuro che spingeva gli uomini a sopravvivere, anche a costo di andare contro gli ordini e rischiarsi una fucilata per insubordinazione.

La loro scialuppa aveva appena toccato la superficie dell'acqua, quando un terzo siluro partito da un sottomarino tedesco centrò in pieno il magazzino degli esplosivi. Ci fu un boato tremendo, e poi fuoco, fumo e pezzi di lamiera che volavano nel cielo. Gerald si coprì la tea con le mani, terrorizzato. La lancia fu sbalzata lontano dall'esplosione e atterrò miracolosamente indenne parecchi metri più in là. Il soldato che era salito con loro, aveva lo sguardo fisso rivolto al cielo: un tubo di metallo, trasformato in involontario proiettile dallo scoppio, gli attraversava il petto da parte a parte.

Gerald si lasciò sfuggire un singhiozzo e si raggomitolò sulla prua della piccola scialuppa, il più lontano possibile dal cadavere. Josh si ripulì stancamente il volto sudato e sporco di fuliggine con la manica della giacca, sorpreso di essere ancora vivo. «Mi dispiace, amico.» mormorò a mezza voce, spingendo il corpo del soldato morto in acqua.

I due giovani si scambiarono un'occhiata di conforto: erano vivi entrambi. Sperduti in mezzo al mare, ma vivi.

La fortuna girò dalla loro parte anche quella volta: dopo qualche ora di navigazione alla cieca nel Mediterraneo, vennero rintracciati e raggiunti da alcune corazzate inglesi. I marinai li trascinarono a bordo e li sbatterono davanti al sottotenente di vascello come fossero due disertori.

«Che diavolo ci facevate in mezzo al mare?» sbraitò il sottotenente, battendo i pugni sulla scrivania del suo ufficio.

Gerald tremò. Josh raddrizzò le spalle. «Marinaio Watson e marinaio McBride. Eravamo sulla Barham, signore, ma è stata affondata da tre siluri tedeschi.»

«La Berham affondata? Non diciamo idiozie!» gridò l'uomo, alzandosi in piedi.

Gerald trattenne l'impulso di darsela a gambe. Josh invece rimase immobile come una statua. «Signore, non mi azzarderei a dire una cosa del genere, se non fosse vera.» rispose semplicemente.

Il sottotenente si lasciò cadere sulla sedia e prese a fissare un punto imprecisato alle loro spalle. Se la notizia portata dai due marinai fosse stata corretta, quello sarebbe stato un grave colpo per l'esercito e per il morale dell'Inghilterra. Doveva immediatamente avvertire l'Ammiragliato.

Ma non prima di aver punito quei due insubordinati che avevano arrecato una tale sciagurata novità.

«Ho io un bel posto dove mandarvi. Vi piace il caldo?»




Buongiorno!

Siamo tornati su Gerald e Josh, nel bel mezzo della battaglia. La corazzata su cui sono imbarcati i due protagonisti, è storica, così come la sua colata a picco nel Mediterraneo a causa di tre siluri di un sottomarino tedesco.

Spero che vi sia piaciuto anche questo capitolo. Se tutto va bene, prossimo aggiornamento: giovedì 8 settembre.

Alla prossima,

Beatrix

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Capitolo 6
*** Capitolo V ***


Capitolo V



Giugno 1942


Gerald aprì la bocca per respirare, ma una ventata di aria calda gli piombò in gola, soffocandolo. Sputacchiò a terra, mentre i granelli di sabbia stridevano sotto i suoi denti. Sentiva come un peso che gli schiacciava i polmoni, impedendogli di respirare. Ogni volta che inalava una boccata d'aria calda, gli pareva di non riuscire a ghermire abbastanza ossigeno. Gli occhi bruciavano per la luce accecante del sole, l'elmetto troppo grande gli schiacciava sulla testa i capelli grondanti di sudore, la camicia era incollata al torace come una seconda pelle. Le labbra screpolate erano alla disperata ricerca di acqua, che veniva centellinata dai caporali e non era mai abbastanza.

Fuggivano da Marsa Matruk. Fuggivano nel deserto verso Alessandria, verso l'ultima roccaforte inglese rimasta in Egitto.

Rommel era arrivato con la sua manciata di carri e quel pugno di uomini della fanteria motorizzata e in poco più di un mese aveva espugnato tutto l'Egitto. Le postazioni inglesi erano crollate ad una ad una sotto il suo attacco, messe in ginocchio dalla sua superiorità militare e strategica. E, sebbene loro fossero numericamente di più, erano stati costretti a ripiegare: l'avanzata tedesca pareva inarrestabile.

Il deserto aveva completato l'opera dei nazisti: chi era sopravvissuto a Marsa Matruk, ora era stremato dal caldo e dall'arsura. La sabbia si insinuava dovunque, negli occhi, in bocca, nei motori delle macchine. Forse quella morte si sarebbe rivelata ben peggiore di una scarica di proiettili.

La pausa concessa per mangiare non sembrava mai sufficientemente lunga. Gerald e Josh erano accucciati all'ombra del carro insieme agli altri soldati, a mangiare la loro razione di sbobba che strideva sotto i denti per via dei granelli di sabbia. Una piccola folata di vento soffiò nella loro direzione, alzando un mulinello proprio davanti ai piedi di Gerald. Il giovane si sporse oltre il carro per controllare da che parte tirasse l'aria: lontano, all'orizzonte, una strana striscia bianca pareva serpeggiare sul profilo delle dune.

«Temo che stia per arrivare una tempesta di sabbia.» annunciò tetro Gerald ai suoi compagni.

Un soldato si voltò verso di lui con aria scettica. «Come fai a dirlo?» gli domandò.

Gerald si strinse nelle spalle. «Quando il vento tira da ovest è sempre pericoloso da queste parti.» rispose con semplicità.

Josh ingoiò l'ultimo boccone della sua razione di cibo, poi si voltò verso il suo amico. «Credo che dovresti avvertire il caporale.» gli consigliò in tono serio, ma Gerlad parve rabbrividire alla sola ipotesi: sapeva di non essere molto apprezzato dai superiori, vista la sua evidente inutilità in battaglia.

«Non ci penso nemmeno a dirlo al caporale.» rispose il giovane scozzese, scuotendo la testa.

«Che cosa non vuoi dirmi, soldato McBride?» lo sbeffeggiò il caporale, comparendo proprio in quel momento da dietro il carro.

«Nulla, signore.» balbettò Gerald, terrorizzato. «Solo... solo che sta arrivando una tempesta di sabbia, signore.»

«Una tempesta di sabbia? Vuoi prendermi in giro, McBride?» gli fece eco il caporale, gonfiando il petto, come un animale che vuole marcare il suo territorio.

Gerald rabbrividì. «No, signore, nessuna presa in giro. È la verità.»

Il caporale si avvicinò a lui fino a piantargli il suo brutto grugno in faccia. «Se è la verità, vediamo se hai il coraggio di ripeterla anche al generale Aunhinleck.» lo provocò con un sorriso maligno.

Gerlad soppesò l'ipotesi di mentire, di dire che non c'era nessuna tempesta in arrivo, ma se questa poi si fosse verificata, il caporale avrebbe scoperto la sua codardia e lo avrebbe duramente punito. Anche la prospettiva di ritrovarsi faccia a faccia con il generale dell'esercito in Egitto lo terrorizzava non poco, ma era certamente il male minore. «Se è quello che vuole, signore.» rispose in un sussurro. La sua prima vera risposta coraggiosa. Sperava solo che gli potesse portare fortuna.

Il generale Claude Auchinleck, il comandante in capo inglese del Medio Oriente, era un uomo ben piazzato, con la mascella squadrata e uno sguardo profondo. Un uomo di comando, un vero soldato. Gerald, infagottato nella divisa troppo grande per lui, smunto e tremante, sembrava un bambino al suo confronto. Il generale e i suoi colonnelli, chini su un tavolo a decidere le strategie di guerra, stavano al riparo di un misero padiglione tenuto in piedi da quattro pali.

«Che c'è, caporale Endygreen?» domandò stancamente il generale Auchinleck, alzando gli occhi su di loro.

Il caporale indicò con un cenno del capo Gerald. «Questo soldato sostiene che sta arrivando una tempesta di sabbia.» annunciò in tono serio.

Il generale osservò Gerald con interesse, poi gli chiese: «Ne sei certo?»

«Sissignore. Il vento tira da ovest e all'orizzonte si vede già il principio di tempesta.» rispose Gerald, cercando di dare un tono sicuro alla sua voce.

Il generale Auchinleck fece qualche passo verso di lui, incuriosito. «E come le sai queste cose?» gli domandò con la sua voce roca e profonda.

Gerald si torse le mani sudaticce dietro la schiena. «Mi interesso di scienze naturali, signore.» farfugliò a disagio.

«E dove consiglieresti di riparare?» gli chiese ancora il generale.

Gerald rispolverò le sue conoscenze geografiche dell'Egitto per qualche secondo, poi individuò un posto sicuro e difendibile. «El Alamein, signore. Una strettoia lunga una settantina di chilometri tra il mare e la depressione di Qattara: buono per posizionare le difese, sulla linea ferroviaria per Alessandria e comodo per gli approvvigionamenti.»

Il generale sembrò soppesare le sue parole per un tempo che a Gerald parve interminabile. Alla fine gli si posizionò proprio di fronte, ritto nella posizione militare. «Qual è il tuo nome, giovanotto?»

«Soldato semplice Fitzgerald McBride, signore.»

Avrebbe voluto dare un tono sicuro e spavaldo a quella risposta, ma gli uscì più simile ad uno squittio. Nemmeno il suo nome sapeva dirlo con coraggio.

Il generale si concesse un accenno di sorriso. «Da oggi sei il caporale McBride. Servi bene il tuo esercito.»


***


Rebecca bussò delicatamente alla porta e entrò solo dopo aver ricevuto il permesso. Portava in mano un vassoio con una tazza di minestra e un boccone di pane. Sapeva che Connor si sarebbe lamentato, ma il medico era stato categorico sulla sua dieta. «Papà, come stai oggi?» domandò appoggiando il vassoio sul comodino e sedendosi ai piedi del letto.

L'uomo brontolò qualcosa di incomprensibile. «Non mi avrai portato di nuovo quella schifezza, vero?» chiese poco dopo, lanciando qualche occhiata perplessa al contenuto della ciotola.

Rebecca gli accarezzò dolcemente una guancia raggrinzita e gli rivolse un sorriso compassionevole. «Il medico ha detto...»

«Non mi interessa cosa ha detto il medico!» sbottò il vecchio Connor, con uno sbuffo. «Una bella bistecca di angus mi farebbe stare subito meglio.»

«Nonno!» esclamò la voce di un bambino, che si era precipitato dentro la stanza, gettando le braccia al collo dell'uomo.

«William, piano! Così gli fai male.» lo rimproverò la madre, ma Connor sembrava felice di tutte quelle attenzioni.

Accarezzò i capelli scuri del nipotino e abbandonò la testa sul cuscino con un sospiro sereno. «Dov'è Junior?» gli chiese.

Il bambino ridacchiò divertito, accennando con la testa alle scale. «Abbiamo fatto a gara per chi arrivava primo e ho vinto io!» rispose sorridendo. Il nonno soffocò una risata: era stramaledettamente furbo, William. Trovava sempre il modo di fregare il fratellino più piccolo, che pendeva sempre dalle sue labbra e si faceva raggirare come niente.

«Will, tu hai cinque anni, Junior due. Per forza vinci sempre tu.» lo rimproverò scherzosamente il nonno.

Un lampo di furbizia attraversò gli occhi verdi del bambino. «Non è colpa mia se lui accetta di fare le gare.» ridacchiò divertito.

Il piccolo Junior trotterellò nella stanza proprio in quel momento. Sbuffava e ansimava, per aver fatto due piani di scale di corsa, con le sue gambette paffute troppo corte. «Imbroglione!» sbottò a suo fratello, agitando il ditino accusatore nella sua direzione. William ridacchiò di nuovo. Rebecca allora si alzò e prese in braccio il figlio più piccolo, per poi risedersi sul letto.

Connor contemplò per qualche tempo il nipotino. A differenza del fratello, Junior aveva dei morbidi riccioli castani che gli incorniciavano il viso e un bel paio di occhi azzurri che aveva certamente ereditato dal padre. Il suo nome, in realtà, era Gerald Connor, ma tutti lo chiamavano Junior.

Il vecchio Connor ricordava ancora con quanta apprensione aveva passeggiato avanti e indietro attraverso il salotto, nella attesa che qualcuno venisse a portargli la fatidica notizia della nascita del nipote. Aveva sentito le urla di Rebecca che provenivano dal piano di sopra e aveva cercato di consolare il piccolo William, anche se in realtà era preoccupato quanto lui, se non di più. E poi, finalmente, la nutrice era venuta ad annunciare che era nato un bel maschietto sano e che la mamma stava bene. Connor aveva preso in braccio William ed era corso nella stanza di Rebecca. Lei teneva in braccio un fagottino tutto rosso che strillava a pieni polmoni e agitava in aria le braccina. Connor era sicuro di non aver mai visto nulla di più bello. «Ti piace il tuo fratellino, William?» aveva sussurrato all'orecchio del nipotino.

Il bambino aveva storto il naso. «Urla che sembra una scimmia ed è rosso come un pomodoro.»

Connor aveva ridacchiato. «Anche tu eri così, quando sei nato. Crescerà, vedrai, e diventerà bello come te.» gli aveva risposto, dandogli un buffetto sulla guancia.

Dopodiché entrambi si erano avvicinati al letto per contemplare il neonato. «Si chiamerà Gerald Connor McBride.» gli aveva rivelato Rebecca, con un sorriso stanco per la fatica del parto.

Gerald, come il padre che forse non avrebbe mai conosciuto e Connor, come il nonno che non era suo nonno. Era stato allora che Connor MacCallagan si era lasciato sfuggire una lacrima di commozione.

L'ultima volta che aveva pianto era stato nel 1875.

E ora si commuoveva per un bambino che non aveva nulla a che fare con la sua vita, con cui non aveva alcun legame, ma che in realtà, sapeva che sarebbe stato per lui come un vero nipote.

E questo solo perché la madre e il figlio più grande avevano già conquistato il suo cuore, intenerito quella dura scorza che era costruito intorno per ripararsi da ogni sentimentalismo. Come avrebbe potuto non affezionarsi alla semplicità di quella giovane donna che amava il marito con devozione, che avrebbe dato la sua vita per i figli, che attendeva speranzosa la fine della guerra, convinta davvero che Gerald sarebbe tornato da lei? Come avrebbe potuto restare impassibile davanti agli occhioni verdi e così pieni di vita del piccolo William, sempre gioioso e allegro, nonostante l'epoca in cui era costretto a crescere? Come avrebbe potuto rifiutarsi di proteggere la giovane famiglia dalle insidie del viscido maggiore Bantry, che solo lui sapeva tenere in riga?

E infine, si era affezionato anche al piccolo Junior, così dolce e innocente a discapito di tutto ciò che era costretto a sopportare, il padre assente, la guerra, i soldati in casa.

Quegli ultimi due anni erano stati i migliori della sua vita, perché finalmente si sentiva parte di qualcosa. Sapeva di essere utile e indispensabile a quella famiglia, ma era certo che ci fosse anche un profondo e sincero affetto che li legava. Il modo in cui i bambini lo chiamavano nonno, le amorose attenzioni di Rebecca nei suoi confronti, sebbene lui fosse praticamente un estraneo per lei... si era creato un legame indissolubile che gli aveva regalato una serenità non più sperata, da quel lontano 1875.

Se solo la sua malattia ai nervi non fosse peggiorata, avrebbe venduto perfino la sua banca per poter vivere per sempre in quel castello immerso nella brughiera con una donna che non era sua figlia ma che amava anche di più e con dei bambini che non erano suoi nipoti ma che li vezzeggiava come se lo fossero.



Come promesso, ecco a voi il nuovo capitolo!

Il generale Claude Auchinleck non è di mia invenzione: qui la pagina di Wikipedia a lui dedicata, se volete sbirciare (c'è anche una foto!); il caporale Endygreen, invece, l'ho inventato di sana pianta (e, sì, lo so, parla un po' sgrammaticato e ha dimenticato a casa un po' di congiuntivi, ma l'ho fatto apposta!).

Il perché dell'ultimo pianto proprio nel 1875 da parte di Connor MacCallagan, lo scoprirete nel prossimo capitolo.

A presto!

Beatrix

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Capitolo 7
*** Capitolo VI ***


ATTENZIONE: il capitolo contiene alcune scene di violenza; vi avverto prima perché qualcuno potrebbe non gradire. Beatrix B.



Capitolo VI



Gennaio 1943


Quegli ultimi mesi di convalescenza passati a letto erano stati un supplizio per l'anziano Connor MacCallagan, non tanto per il dolore, quando per l'impossibilità di muoversi dalla stanza. Aveva passato tre anni imprigionato in un ospizio e ora che era ritornato a vivere, la malattia lo aveva costretto a rinchiudersi nuovamente. Bella sfiga.

Rebecca era sempre piena di attenzioni verso di lui e i nipotini venivano a trovarlo in camera tre volte al giorno, ma forse proprio perché ora aveva ricominciato ad assaporare il gusto della vita, quella prigionia gli era doppiamente insopportabile.

Quel giorno i suoi nervi gli stavano facendo vedere le stelle: non era nemmeno riuscito ad alzarsi dal letto. Quando Rebecca entrò in camera portando il vassoio con il pranzo, Connor storse il naso: di nuovo minestrone. Lei sorrise comprensiva e si sedette al suo fianco sul letto. «Come stai, papà?» gli domandò, accarezzando lievemente il suo viso rugoso. Lui sbuffò ma non rispose: era il suo modo per dire che stava male.

Rebecca rimase per qualche minuto a contemplare il suo ostinato e immusonito silenzio, dopodiché gli baciò la mano raggrinzita e sussurrò: «Meglio che ti lasci riposare.»

Fece per alzarsi dal letto, quando Connor la bloccò. «No, ti prego, resta ancora un po'.» la supplicò, facendo una lieve pressione sul suo braccio. La donna allora si risedette, prendendo la mano del vecchio tra le sue.

Connor era perso ad osservare la brughiera avvolta dalla nebbia che si intravedeva attraverso la finestra. «Non ho mai avuto una figlia, ma se dovessi scegliere, vorrei che fosse come te.» mormorò poco dopo, senza distogliere gli occhi dal paesaggio.

«Oh, Connor...» sussurrò con dolcezza Rebecca, stringendo la mano di lui al petto. Gerald aveva avuto ragione nel dire che sotto tutta quella scorza burbera di durezza si nascondeva una cuore tenero. La presenza del vecchio signor MacCallagan, in quegli ultimi anni, l'aveva aiutata non solo ad affrontare le insistenze del maggiore Bantry, ma anche a sopportare meglio la lontananza di Gerald. Negli occhi blu profondo, leggermente offuscati, dell'anziano scozzese riusciva a leggere un affetto di un intensità tale da farle dimenticare ogni suo cupo pensiero. E ogni giorno si riaccendeva la speranza del ritorno di Gerald.

«Io... devo confessarmi con qualcuno, prima che sia troppo tardi.» mormorò Connor, finalmente distogliendo gli occhi dal paesaggio per guadare la figlia. Rebecca parve molto stupita, visto che il vecchio MacCallagan non era mai stato particolarmente religioso, ma si affrettò a dire che avrebbe chiamato un sacerdote.

«No, no. Non quel genere di confessione.» la rassicurò Connor, tenendo strette le mani di lei con la sua. «Io devo parlare con te. È importante.»

Rebecca prese un profondo respiro. «Va bene, ti ascolto.»

Connor distolse lo sguardo da lei e riprese a fissare la brughiera per qualche tempo in perfetto silenzio. Poi cominciò a raccontare: «Era la primavera del 1875; io avevo diciassette anni. Ricordo alla perfezione la prima volta che lo vidi: era seduto sul muretto che divideva la mia casa da quegli orribili palazzi dove vivevano gli operai. Ricordo che era un giorno sereno, perché i raggi del sole illuminavano le ciocche bionde di capelli che gli incorniciavano il viso, facendolo brillare come fosse d'oro. Aveva delle minuscole efelidi sulle guance e sul naso e i suoi occhi erano pura luce.»

Connor si interruppe, perso nei fili intrecciati di quel ricordo. Dopo qualche secondo di silenzio riprese: «Era orfano di madre, figlio di un operaio, e anche lui lavorava in fabbrica, con turni massacranti. Quando sgattaiolava via dal suo misero appartamento per raggiungere la villetta dove vivevo con mia madre e mio padre, un rinomato pastore protestante, aveva sempre il volto sporco di fuliggine e, una volta, ricordo che glielo pulii con il mio fazzoletto di seta. Era... bello stare con lui, perché era l'unico che mi capisse, che condividesse i miei sogni e le mie aspirazioni, con cui potessi parlare liberamente. E poi...»

Il vecchio Connor deglutì, incerto se fosse il caso di proseguire. Ma ormai era tardi per tornare indietro. Così continuò: «Lui era bello come un angelo. Delicato e sensibile, così gentile e amabile. Non avevo mai incontrato nessuno come lui. Io... me ne innamorai. E lui mi ricambiava.»

L'uomo si interruppe di nuovo, sospirando. Aveva confessato il suo delitto, delitto che non aveva mai rivelato a nessuno. Aveva amato un ragazzo, lo aveva amato sinceramente e in modo innocente. Lo aveva amato come non mai e come mai avrebbe più amato nessuno.

«Ricordo il primo bacio che ci scambiammo. Eravamo accoccolati sul muretto tra la mia villetta e le case degli operai, entrambi impacciati e imbarazzati per ciò che stavamo facendo. Ma la dolcezza di quel bacio...» Connor sospirò al tenero ricordo che lo aveva trascinato lontano nel tempo.

«Ne seguirono altri e altri ancora, fino all'estate.» ricominciò a raccontare. «Poi un caldo giorno di luglio ci ritrovammo nel suo appartamento. Ricordo che lui aveva la camicia leggermente sbottonata, perché il sole colpiva la sua pelle candida facendola brillare. Aveva una manciata di lentiggini anche sul petto. Ci baciammo. Ma poi... arrivò suo padre. Ci vide. E si infuriò.

«Si sfilò la cintura e cominciò a picchiare suo figlio con la cinghia. “Depravato, storto, pervertito” gli urlava. E picchiava, picchiava sempre più forte. Io mi misi in mezzo per cercare di fermarlo, ma ero un ragazzino gracile che non poteva competere con un uomo fatto e finito, abituato a lavorare in fonderia. Mi beccai una cinghiata in faccia, sull'occhio destro. Urlai per il dolore e mi rintanai in un angolo a piangere, terrorizzato.»

Connor rabbrividì al solo ricordo. La mano sinistra cominciò a tremare, segno che i suoi nervi stavano cedendo definitivamente. Rebecca strinse più forte la presa, nel tentativo di infondergli coraggio, anche se immaginava quanto fosse terribile per lui rievocare quella scena. Vide i suoi profondi occhi blu offuscarsi quasi completamente, mentre una sola, singola lacrima gli attraversava la guancia. Ma Connor voleva terminare il racconto, doveva assolutamente farlo.

«Io piangevo spaventato come un coniglio, lui, raggomitolato a terra in una pozza di sangue, gridò a suo padre che mi amava. Lo urlò, con coraggio, al padre che lo stava massacrando di botte. L'uomo non ci vide più dalla rabbia. Prese una sedia, gliela sbatté addosso con violenza. E lui...» la voce gli morì in gola, mentre gli occhi si inumidivano per il dolore del ricordo.

«Non ho più pianto, da allora, perché credo che versai quel giorno tutte le lacrime che avevo, tenendo tra le mie braccia il corpo senza vita del ragazzo dal viso bello come il sole, ora tumefatto e insanguinato. Non ho nemmeno più amato, né provato gioia, né speranza, da quel giorno, finché non incontrai Gerald. Nei suoi luminosi occhi azzurri vedevo lo stesso entusiasmo e la stessa voglia di vivere del mio Edward e capii che la vita era andata avanti, anche se io mi ero fermato a quel lontano luglio del 1875.»

Connor finalmente distolse gli occhi pieni di lacrime dalla finestra e rivolse un sorriso sincero a Rebecca. «E poi ho incontrato voi, tu e i bambini, che mi avete realmente ridato la vita. E io vi ringrazio, vi ringrazio per questo.»

«Siamo noi che ringraziamo te, Connor.» rispose Rebecca ricambiando il sorriso e trattenendo a stento il pianto. Ma il vecchio sembrava ancora preoccupato per qualcosa.

«Finirò all'inferno per quello che ho fatto? Mi padre diceva che sarei bruciato nel fuoco eterno.» domandò con un fil di voce.

Rebecca non riuscì più a trattenere le lacrime, che le attraversarono copiose le guance. Scosse lentamente la testa, cercando di sembrare decisa. «No, Connor, un uomo buono come te non può andare all'inferno. Rivedrai il tuo Edward, te lo prometto.»

Il vecchio MacCallagan adagiò la testa sul cuscino, finalmente sereno. Un leggero sorriso di beatitudine gli increspò le labbra sottili, una piccola carezza sfiorò la mano della figlia. Avrebbe voluto dirle grazie per un'ultima volta, ma non ne ebbe la forza: gli bastò lanciarle uno sguardo con i suoi occhi blu come l'oceano.

E infine, con un ultimo sospiro, si abbandonò alla morte.

Quando Rebecca sentì che la mano di Connor aveva perso ogni forza, chinò la testa sul ventre di lui e scoppiò a piangere. Pianse per un vecchio burbero, pianse per la perdita di un amico, di un difensore e consigliere, pianse per un uomo che non era suo padre ma che aveva amato come se lo fosse stato.


Il funerale aveva raccolto poche adesioni: oltre alla famiglia McBride con il suo maggiordomo, il maggiore Bantry accompagnato dai suoi due compagni e pochi vecchi colleghi della banca, non si era presentato nessun altro. Solo allora Rebecca aveva capito quanto fosse stato solo, quando era in vita, il signor MacCallagan.

L'uomo aveva lasciato per testamento tutti i suoi risparmi a Rebecca McBride e così la giovane donna aveva ereditato un libretto bancario con più sterline di quante avesse mai sognato. Certo, non che quella grande quantità di soldi potesse in qualche modo compensare il vuoto che Connon MacCallagan aveva lasciato nel suo cuore, ma almeno era certa che lei e i bambini non avrebbero patito la fame. Le difficoltà della guerra avevano cominciato a farsi sentire anche per la ricca famiglia scozzese, soprattutto visto che la principale entrata -il lavoro di Gerald in banca- era venuta a mancare. Inoltre il maggiore Bantry e i suoi compagni pagavano un affitto che era davvero irrisorio, se comparato alle enormi spese che Rebecca doveva sostenere. Invece, ora che aveva ereditato il cospicuo patrimonio di Connor, almeno su quel fronte, poteva ritenersi tranquilla.

Era tutto il resto che la preoccupava: ora che Connor era morto, sentiva ancora di più la mancanza di Gerald. Si chiedeva se fosse ancora vivo, dopo tre anni passati in guerra. Lui non era il tipo di uomo abituato a sparare e uccidere e Rebecca temeva che non fosse in grado di sopravvivere a tutto quell'orrore. L'unica cosa che le permetteva di andare avanti era la speranza che, se gli fosse successo qualcosa, l'esercito l'avrebbe già avvertita.

L'altro suo grande problema bussò alla porta proprio in quel momento. «Signora McBride?» domandò il maggiore Bantry, facendo capolino nella stanza con la sua faccetta acquosa. La donna smise di osservare la brughiera avvolta dalla nebbia e si voltò verso il maggiore con aria apatica.

«Ci chiedevamo se il contratto era ancora valido, ora che è morto suo padre.» spiegò Bantry, facendo qualche passo verso di lei. «Sempre ammesso che di suo padre si trattasse.»

Connon si trovava sotto terra da meno di una settimana e quell'uomo viscido era già passato all'azione? Rebecca si lasciò sfuggire un sospiro addolorato. Come avrebbe potuto sopravvivere alle insidie del maggiore Bantry ora che si trovava di nuovo sola?

«Non le permetto di insultare la memoria di mio padre, maggiore Bantry. Se non ha altro di sensato da aggiungere, la prego di lasciarmi sola con il mio dolore.» replicò Rebecca, cercando di assumere un tono deciso. Ma erano solo parole gettate al vento, con quell'uomo.

Il maggiore fece ancora qualche passo nella sua direzione. I suoi occhietti acquosi erano puntanti in modo inequivocabile sul seno di lei. «Qualcosa di sensato ce l'avrei da dire, eccome.» sibilò con un ghigno divertito. «Sarebbe anche ora che la smettesse di fare la mogliettina pudica, signora McBride.»

«Esca subito dalla mia stanza, maggiore!» gridò Rebecca, indicando la porta con un gesto perentorio.

Ma l'uomo si leccò le labbra, sbranandola con gli occhi. «Altrimenti che fa, signora McBride? A chi chiederà aiuto? Al piccolo e coraggioso William?»

«Lasci stare i miei figli!» urlò Rebecca, terrorizzata. Due lacrime involontarie le attraversarono le guance, mentre si rintanava in un angolo più lontana possibile da quell'orribile uomo.

Il maggiore Bantry scoppiò a ridere: persino la sua cupa risata sembrava viscida. «Oh sì, non si preoccupi.» sghignazzò con un sorriso provocatorio. «Non mi piacciono i marmocchi. Io preferisco le donne.»

«Se ne vada!» strillò Rebecca disperata, ma in un attimo l'uomo le fu addosso. Lei cadde, si raggomitolò a terra, scalciò, gridò e pianse. Non riusciva più a capire nulla: sapeva solo che doveva colpire qualsiasi cosa le venisse a tiro. Lasciò due profondi graffi nelle braccia del maggiore Bantry, ma questo non lo fermò. Le strappò di dosso la camicetta nera di pizzo, la picchiò e la sbatté a terra.

«Mamma!»

Rebecca si sentì morire: quella era la voce di William. No, il suo bambino non doveva vedere, non doveva sapere.

«Vai via, William, vai via!» gli gridò in lacrime. Ma il maggiore Bantry aveva ragione: William era un bambino coraggioso. Si scagliò contro l'uomo che stava facendo del male alla sua mamma e gli morse un polpaccio. Il maggiore urlò per il dolore, ma gli bastò un calcio per liberarsi del marmocchio molesto.

«William!» strillò Rebecca, cercando di raggiungere suo figlio, che si era accasciato contro la parete privo di sensi. «Il mio bambino! Sei un mostro!»

«Stai zitta, donna!» le ordinò Bantry, tirandole un ceffone in faccia tanto forte da farla piombare a terra.

«Maggiore Geoffry Bantry!» tuonò una voce che sovrastò le grida. L'uomo si voltò verso la porta, dove era appena apparso un soldato in uniforme da colonnello.

«Signore?» domandò, con apparente tranquillità. Come se non fosse stato beccato a malmenare una donna e un bambino.

«Che diavolo succede qui dentro?» chiese il colonnello in tono imperioso. Bantry si allontanò di un passo da Rebecca, che ancora mugugnava a terra. «Nulla, signore.»

L'uomo osservò la scena a lungo, con cipiglio severo: doveva aver intuito cosa stava succedendo prima del suo arrivo. «Ero venuto a cercarla per una comunicazione urgente di trasferimento, maggiore, ma le assicuro che provvederò personalmente affinché le venga presentata una mozione disciplinare di declassamento a soldato semplice.» spiegò il colonnello. «E ora la prego di seguirmi.»

Il maggiore Bantry attraversò la stanza a grandi passi, con il mento sollevato e le spalle dritte, come un eroe incompreso consumato dalle disgrazie. «Prendo le mie cose, signore.» aggiunse, fermandosi davanti ad una cassapanca. Rebecca era troppo intontita per accorgersene, il colonnello non poteva saperlo: ciò che Bantry prese dalla cassapanca non era in alcun modo suo.

Era il libretto di risparmio di Connor MacCallagan.



Ecco a voi il nuovo capitolo!

Temo che alcune rivelazioni a proposito di Connor necessitino di una spiegazione... la scelta di farlo innamorare di un ragazzo è stata meditata a lungo, ma alla fine ho ritenuto che fosse necessaria. Infatti, se il suo amore giovanile fosse stata una fanciulla, non ci sarebbe stato alcun motivo per cui il padre la uccidesse; avrebbe potuto morire di malattia o altre cause naturali, ma allora non sarebbe stato un trauma così forte per Connor; inoltre, se avesse avuto un amore giovanile finito male, sarebbe stato un po' inverosimile che per tutto il resto della sua vita non avesse trovato un'altra donna di cui innamorarsi. Tutti questi motivi mi hanno portato a scegliere un amore omosessuale. Spero, comunque, di non aver urtato la sensibilità di nessuno.

Qui, se vi interessa, il disegno di Edward, come appare la prima volta a Connor.

Quanto al maggiore Bantry, lo sapevamo tutti quale fosse il suo obiettivo... per fortuna è stato colto sul fatto prima di fare danni; anche se, in realtà, le difficoltà per Rebecca non sono ancora finite; anzi, sono appena iniziate.

Scusate per lo sproloquio nelle note d'autrice... A presto!

Beatrix

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Capitolo 8
*** Capitolo VII ***


Capitolo VII



Marzo 1944


Gerald si appuntò un paio di nomi sul taccuino, poi tornò a guardare il suo interlocutore. «Siamo d'accordo, allora.» confermò con un segno del capo.

L'uomo che aveva di fronte si alzò in piedi e gli strinse calorosamente la mano. «Se tutti i generali fossero come te, la guerra sarebbe già finita da un pezzo.» si complimentò, con una strizzata d'occhio.

Gerald scoppiò a ridere. «Non sono un generale. Tenente colonnello Fitzgerald McBride, vice comandante in capo dell'Ottava armata britannica.» si presentò, battendo i tacchi come un perfetto militare.

«Qualche altro titolo onorifico, messere?» lo schernì affettuosamente l'altro.

Gerald sbuffò, fingendosi offeso. «Stai attento, Franco. Parli pur sempre con un alto comando dell'esercito di Sua Maestà.» gli disse, con un tono che voleva essere pomposo. Nemmeno lui riuscì a restare serio.

In quel momento qualcuno bussò alla porta del suo ufficio. «Avanti.»

Il volto di Josh comparve sull'uscio. «Gerald, è arrivato il nuovo contingente, se vuoi passarlo in rassegna.» annunciò il ragazzo.

Franco capì che il suo colloquio era finito e si diresse verso la porta. «Siamo d'accordo, allora, colonnello McBride. Mi fido di lei.» furono le sue ultime parole, prima di uscire, con una strizzata d'occhio.

Josh lo osservò mentre si allontanava lungo il corridoio: era corpulento, infagottato in abiti da montanaro, e aveva un viso allegro e onesto. «Che tipo, eh?» domandò Josh, accennando con il capo all'uomo che era appena uscito dall'ufficio.

Gerald si lasciò sfuggire un sorriso, mentre stava riordinando le scartoffie militari. «Si chiama Franco, o almeno così dice.» spiegò poi, rivolto all'amico. «È il nostro tramite per organizzare i lanci con munizioni e rifornimenti alle brigate partigiane italiane.» Gerald si interruppe, sovrappensiero. «Trovo che sia un tipo buffo, ma... quanto amore per la libertà della sua patria in quegli occhi!»

Josh scoppiò a ridere e gli diede una poderosa manata sulla schiena. «Andiamo, romanticone. La guerra è quasi finita, dai retta a me. Anche tu tornerai presto nella tua amata Scozia.» esclamò con una risata.

Gerald sorrise. «Già... la Scozia.» mormorò tra sé. Quanto gli mancavano le brughiere scozzesi, la nebbia, i paesaggi brulli. Quanto gli mancava sua moglie, i suoi dolci sguardi e le sue carezze. E William? Lo avrebbe riconosciuto dopo tutti quegli anni?

«Andiamo a vedere 'sti nuovi contingenti, dai.» sospirò infine, mettendo da parte i suoi quesiti senza risposta.

I soldati appena arrivati in Italia parevano di ogni età ed estrazione sociale; alcuni erano ragazzini freschi di addestramento, altri militari spostati da varie zone in cui non erano più necessari, ma tutti avevano quell'aria tonfa di chi sa di essere dalla parte giusta dello schieramento. Che gli Alleati stessero vincendo la guerra era ormai chiaro a tutti, ma Gerald aveva provato sulla sua pelle che non era sempre stato così. Stavano vincendo, era vero, ma quale prezzo di vite umane era costata quella vittoria!

«Santo cielo, li fanno sempre più giovani.» commentò in tono scioccato un uomo biondiccio rivolto al suo vicino, quando Gerald diede l'ordine di sciogliere le righe. «Questo che c'avrà, vent'anni? Ed è già tenente!»

«È tenente colonnello, per te, soldato.» precisò Gerald, parandoglisi davanti. «E per tua informazione, di anni ne ho trenta. E il mio grado me lo sono guadagnato con il sangue.» soggiunse poco dopo.

L'uomo, che aveva due baffetti biondi e gli occhi troppo piccoli per il suo faccione acquoso, non parve particolarmente colpito da quelle affermazioni; anzi, riservò a Gerald uno sguardo di sufficienza. «Un tempo ero maggiore, quando stavo in Scozia. Poi declassamento per comportamenti amorali e, con la fedina sporca, addio carriera.» spiegò, nel tentativo di dimostrare che non era l'ultimo arrivato.

Al sentir nominare la sua patria, Gerald si addolcì. «Anche io vengo dalla Scozia.» rivelò, con un sorriso nostalgico.

Il soldato scoppiò a ridere. «Io no, grazie al cielo! Ci sono stato per tre anni e mi sono bastati. L'umidità e la nebbia mi sono praticamente penetrati nelle ossa.» sghignazzò, senza sapere che stava toccando una ferita aperta.

Gerald trattenne a stento l'impulso di sbatterlo in isolamento: non sarebbe stato molto onesto sfruttare così il suo grado. «Tre anni, eh?» domandò invece, tanto per compiacenza. Sarebbe stato più saggio mostrarsi disponibile con i sottoposti, piuttosto che vendicarsi su di loro per le sue nostalgie.

Il soldato biondiccio annuì. «Tre anni. Ero istruttore all'accademia di Edimburgo. L'unica nota positiva di quel periodo è stato che alloggiavo in un castello davvero niente male. Mi dilettavo con tutti i beni della casa e approfittavo della generosa ospitalità. Peccato che non sia riuscito a godere delle grazie della padrona di casa, se sa cosa intendo.» raccontò, con un occhiolino d'intesa.

Gerald era piuttosto disgustato da quell'uomo, ma lo lasciò parlare. C'era come uno strano campanello d'allarme che destava la sua attenzione. «Come mai?» gli chiese allora, sicuro che dovesse saperne di più, su quella storia.

Il soldato si strinse nelle spalle. «Tutta colpa di quel vecchiaccio di MacCallagan. Un rabbioso cane da guardia, almeno fintanto che non ha tirato le cuoia, che il cielo lo benedica.» spiegò, sputando a terra.

MacCallagan.

Non era possibile. Quel nome. E se...?

Un terribile presentimento si fece strada nella mente di Gerald. Doveva sapere, doveva assolutamente sapere.

«Lei, la padrona di casa, come si chiamava?» chiese con il cuore in gola.

L'uomo si grattò il mento. «Mah... McBride qualcosa.»

Gerald sentì il sangue salirgli alla testa. «Rebecca McBride?» chiese con foga.

Il volto del soldato si illuminò. «Esatto, Rebecca, Rebecca McBride. Quella zoccola.»

Gerald non riuscì più a trattenersi. «Quella è mia moglie, lurido bastardo!» gridò e poi gli si scagliò addosso, anche se era più basso e mingherlino di lui. L'altro, colto alla sprovvista, non riuscì nemmeno a reagire e ricevette un sonoro pugno in piena faccia.

Gli altri soldati si scansarono sorpresi: il colonnello McBride era sempre così posato, che diavolo gli era saltato in mente? Alcuni gridavano per chiamare i superiori, altri facevano le loro puntante su chi avrebbe vinto: molti scommettevano per il colonnello, non tanto perché fosse effettivamente avvantaggiato, quanto per la furia folle che sembrava dominarlo.

Per fortuna, in meno di un batter d'occhio, comparve sulla scena l'amico grosso del colonnello, quel Josh Watson. Si avvicinò ai due che facevano a botte, afferrò lo scozzese per le spalle e lo trascinò via dalla sua vittima.

«Sant'Iddio, Gerald, che ti è preso?» gli domandò, sempre tenendolo ben fermo.

Gerald si asciugò un un rivolo di sangue dalla fronte. «Quel bastardo...» fu l'unica cosa che riuscì a sibilare, con gli occhi furenti che puntavano sulla sua preda.

«Che ti ha fatto?» chiese Josh, senza mollarlo.

«Ha cercato... mia moglie...» balbettò Gerald, con il fiato mozzo per la scazzottata.

Alcuni uomini aiutarono il soldato a rimettersi in piedi. «Stai tranquillo, non l'ho nemmeno toccata...» rispose quello, con una nota di rimpianto nella voce. I suoi occhi però lampeggiavano di malizia. «Comunque ha due belle poppe.» continuò, asciugandosi il sangue che colava dalla bocca con il dorso della mano.

A quelle parole Gerald fu invaso da una cieca rabbia. Si liberò con uno strattone dalla presa ferrea di Josh e si scagliò nuovamente contro il soldato.

«IO TI AMMAZZO!»

Si scatenò di nuovo il caos. Piovevano braccia dappertutto, qualcuno cercava di fermarlo, di strapparlo via dalla sua preda, ma Gerald era invaso da una furia omicida che guidava con precisione i suoi pugni verso la faccia di quel porco. Non si risparmiava un colpo, ogni occasione era buona per fargli del male, ucciderlo se possibile. La faccia da maiale del soldato si ridusse in un ammasso pietoso di lividi nel giro di pochi attimi. Il naso, gli occhi, la bocca... qualsiasi cosa riuscisse a colpire gli andava bene.

«Basta! Basta!» stillava quello come una bestia che va al macello.

«Gerald, fermati!» gli gridò Josh, ma non c'era nulla che potesse impedirgli di massacrare di botte il soldato. Aveva cercato di violentare sua moglie, si meritava la morte. E lui, Fitzgerald McBride sarebbe stato il suo giustiziere. Per la prima volta non voleva uccidere per difendersi, ma per l'atto in sé. Le sue mani erano sporche del sangue della sua vittima e lui ne voleva ancora, e ancora, e ancora. Le sue nocche si lacerarono a furia di tirare pugni. Forse ne aveva anche ricevuti a sua volta, ma non solo non gli importava nulla, addirittura non provava alcun dolore.

E poi finalmente l'uomo sotto di lui smise di divincolarsi. Il volto era una maschera di sangue, ma Gerald poté ugualmente notare, con gioia selvaggia, che i suoi occhi erano fissi, rivolti verso il cielo.

Morto.

E l'aveva ucciso lui.

Si rialzò da terra, il naso sanguinante, forse rotto, chissà. La furia cieca sparì, lasciando posto ad una fredda determinazione. Josh lo spinse di lato e si accucciò a fianco dell'uomo per sentire il polso. Aveva un'espressione sconvolta quando si volò nuovamente verso Gerald.

«Mioddio, l'hai ammazzato!»


Il tenente colonnello Fitzgerald McBride stava ritto in piedi, con le mani dietro la schiena in posizione militare, proprio davanti al suo superiore. Nel suo sguardo apatico non si leggeva nessuna emozione: il volto era una maschera di pietra.

Il generale Bernard Montgomery era un uomo asciutto e nervoso, con le guance incavate e il naso appuntito. Non era un colosso di uomo, ma tutti i soldati gli portavano naturalmente rispetto, forse per quel suo sguardo penetrante o forse perché, a dispetto del basco graduato, poteva sembrare uno di loro. In quel momento, se Gerlad non avesse perso qualsiasi grado emotivo che andasse oltre l'apatico, avrebbe seriamente dovuto tremare di fronte allo sguardo perforante che gli stava riservando il generale.

«Colonnello McBride, di solito io non mi sbaglio nel giudicare gli uomini. Ho forse sbagliato con lei?» domandò Montgomery, rigirandosi la penna stilografica tra le mani.

Gerald rimase impassibile, con gli occhi fissi sulla cartina dell'Italia appesa alle spalle del generale. «Non lo so, signore.» rispose in tono neutro.

Montgomery batté la penna sulla scrivania un paio di volte, come se fosse sovrappensiero. «Credevo di aver fatto un ottimo acquisto con te, giovanotto, quando ti ho promosso mio vice. Brillante e ingegnoso, con sagaci doti strategiche... che cosa ti è successo?» mormorò, ma se conosceva bene il suo uomo, sapeva che non avrebbe risposto a quella domanda. Gerald infatti rimase serrato nel suo silenzio. Montgomery allora sospirò in tono sconfitto e si alzò dalla scrivania per guardare il giovane colonnello dritto negli occhi. «Che diavolo ti aveva fatto quel soldato per massacrarlo in quel modo?» gli chiese.

Gerald finalmente distolse lo sguardo dalla cartina per puntarlo sul volto scavato del generale Montgomery. «Ha vissuto per tre anni come un parassita nella mia casa, mentre io ero qui a sputare il sangue per la mia nazione. E ha tentato di violentare mia moglie. Signore.» rispose con durezza. Nessun segno di rimpianto nella sua voce. Cosa aveva fatto la guerra a quel giovane mite e innocente?

Il generale Montgomery annuì gravemente. «Capisco.» sospirò. «Ma non posso evitare di punirti: per quanto buone fossero le tue ragioni, hai commesso un grave delitto. Sono costretto a importi un declassamento per comportamenti amorali. Ritornerai soldato semplice.»

«Signore.» replicò apatico lo scozzese, battendo i tacchi e compiendo un rigido e perfetto saluto militare.

Fece per andarsene, quando il generale lo richiamò: «Gerald... mi dispiace.»

E c'era davvero dispiacere in quella voce, ma a Gerald non fregava più di niente.



Eccoci qui... ci stiamo avviando verso la fine della guerra e del racconto.

Ve l'avevo detto che il maggiore Bantry l'avrebbe pagata cara... guardate cosa ha fatto al povero Gerald! L'ha trasformato in un assassino senza coscienza! Forse, con gli anni, ripensando a questo episodio, Gerald si sentirà in colpa per ciò che ha fatto, ma non adesso, non ora. Ora c'è solo posto per la vendetta.

Qui, comunque, il disegno che lo rappresenta davanti al generale.

Quanto a Montgomery... santo cielo, è il prototipo del comandante perfetto! Cercate una sua foto su internet e capirete subito che è un uomo che ispira fiducia e forza!

Tra domenica e lunedì il penultimo capitolo... A presto, Beatrix

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Capitolo 9
*** Capitolo VIII ***


Capitolo VIII



Dicembre 1944


Rebecca si stava raccogliendo i capelli dietro la testa, quando Connor entrò di corsa nella stanza. «Mamma, mamma! Will mi ha rubato il cavallino.» strillò il piccolo, mettendo il broncio. La donna gli accarezzò i ricci con un gesto della mano, poi richiamò William perché restituisse il giocattolo al fratello.

Junior aveva smesso di chiamarsi così quando aveva compiuto i tre anni: era stato lui a deciderlo, sostenendo che non era più un bambino piccolo e che non c'era più motivo di identificarlo con quel nomignolo; il nonno era morto e lui voleva essere chiamato con il nome che gli spettava: Connor. Rebecca aveva capito il motivo per cui il bimbo avesse glissato sul suo primo nome: Gerald, per lui che non aveva mai visto suo padre, non era altro che un fantasma del passato.

William entrò nella stanza con il volto imbronciato; restituì il cavallo di legno al fratello con un gesto scortese, poi si sedette sul letto con le braccia conserte. «Amore, fai il bravo. Sei l'ometto di casa, adesso.» cercò di consolarlo Rebecca, con un buffetto sulla guancia.

William sbuffò. «Neanche ce l'abbiamo, una casa.» fu il suo aspro commento. Rebecca gli rivolse un sorriso triste. Era vero, non vivevano più in quella casa, ma almeno avevano un tetto sopra la testa. Erano stati costretti ad abbandonare il castello dei McBride da quasi un anno, ormai, e si erano trasferiti nel piccolo cottage della servitù: due stanze e niente bagno, ma era tutto quello che potevano permettersi. Il maggiore Bantry e i suoi compagni erano stati trasferiti altrove ma l'uomo, prima di scomparire, aveva rubato il libretto di risparmio che il signor MacCallagan aveva lasciato loro in eredità. Per la famiglia McBride era stato facile cadere in disgrazia: nessuna entrata e troppe spese, unite al fatto che in guerra il prezzo dei generi di prima necessità saliva alle stelle, avevano costretto Rebecca a licenziare il giardiniere, la cameriera e infine anche il vecchio e affezionato maggiordomo Sean. Aveva pianto, il povero Sean, quando era stato costretto ad abbandonare la casa che aveva servito per quasi trent'anni. Anche a Rebecca si era spezzato il cuore, ma non poteva farci nulla: i soldi non crescevano sugli alberi.

Senza più il personale che la aiutasse a tenere in ordine l'enorme castello, Rebecca non riusciva più a stare dietro a tutte le faccende di casa. Così lei e i bambini si erano trasferiti nel piccolo cottage, serrando definitivamente le porte della grande villa e chiudendovi dentro i suoi preziosi mobili, gli abiti raffinati e i cibi gustosi.

Ma tutto quello non era bastato. Rebecca, che non aveva mai lavorato in vita sua, era stata costretta a cercarsi un posto e tutto ciò che aveva trovato era un turno di otto ore in una fabbrica di Edimburgo che produceva tegami per l'esercito. Le sue mani delicate si erano ricoperte di calli, i capelli vaporosi si erano afflosciati e seccati, il volto ricoperto di piccole rughe scavate dalla fatica. Se Gerald l'avesse vista in quelle condizioni, forse non l'avrebbe nemmeno riconosciuta.

Ma che cosa avrebbe dovuto fare? La guerra l'aveva frustata e lei era stata costretta a piegarsi; le incombenze della vita erano diventate talmente grandi da rischiare di schiacciarla sotto il loro peso ma lei non aveva ceduto. Si era fatta forza, aveva faticato ed era andata avanti, con una determinazione che non credeva di possedere; l'aveva fatto per William, per il piccolo Connor e anche per Gerald, se mai fosse ritornato.

La guerra tirava fuori il peggio o il meglio degli uomini. Stava a loro decidere quale parte scegliere.

«Forza, bambini, preparatevi che partiamo.» li incitò Rebecca, coprendo i capelli con un foulard legato dietro la nuca: preferiva ripararli dallo sporco della fabbrica, per quanto poteva. Connor si mise in tasca il cavallino di legno e si allacciò le scarpe con orgoglio (aveva imparato da poco a farlo da solo); William gli riservò uno sguardo di superiorità: dall'alto dei suoi sette anni e mezzo si sentiva decisamente più grande del fratellino. Gli passò il cappottino, sciarpa e cappello con aria di sufficienza, poi si preparò anche lui per affrontare il freddo dell'inverno.

I tre McBride si diressero verso la rimessa dietro il cottage, dove si trovava la bicicletta con la quale raggiungevano Edimburgo ogni mattina. Si alzavano all'alba tutti i giorni, perché ci impiegavano più di un'ora per arrivare in città; dopodiché Rebecca portava i bambini al seminario, dove padre Julien aveva aperto una piccola scuola per gli orfani di guerra e i figli degli operai costretti a lavorare nelle fabbriche militari. Rebecca non era cattolica, ma una signora della fabbrica le aveva parlato di padre Julien e lei aveva deciso di provare a chiedere: non aveva altre possibilità se non lasciare i bambini a casa da soli. Il prete si era impietosito quando lei gli aveva raccontato la loro storia e aveva accettato di accogliere i due McBride nella sua scuola: il più grande aveva l'età per frequentare le classi prime, mentre l'altro era troppo piccolo, eppure invece di giocare con gli altri bambini, preferiva stare seduto al banco vicino a suo fratello, per disegnare o ascoltare la lezione, anche se ovviamente non la capiva.

Padre Julien li aveva presi in simpatia perché nonostante tutto quello che avevano passato erano due bambini adorabili: William era brioso e pieno di vita, con gli occhi verdi che brillavano di furbizia, Connor era dolce e amorevole, sempre ansioso di imparare cose nuove.

I momenti della vita scolastica erano scanditi dalle ore di orazione del seminario, ma i due fratelli McBride non conoscevano le preghiere cattoliche, così padre Julien aveva insegnato loro le principali, sotto esplicita richiesta di Connor. Il bambino era entusiasta di imparare e convinceva anche il fratello a recitare i versi in latino, anche se William non era convinto che la cosa avesse una qualche utilità.

Quel giorno, Rebecca accompagnò i bambini a scuola, poi si recò in fabbrica. William e Connor seguirono le lezioni con il solito discreto interesse. Al termine della giornata, trotterellarono insieme agli altri verso la chiesetta, dove tutti gli scolari si riunivano per la preghiera serale di ringraziamento. Padre Julien fece sedere i bambini nei primi banchi. «Dobbiamo ringraziare il Signore perché tutte le cose belle vengono da lui.» spiegò ai suoi giovani studenti. William, seduto in seconda fila, sventolò la mano in alto. «Dimmi pure, caro.» lo incitò il prete.

«E se c'è una cosa bella che aspettiamo da tempo ma non avviene mai?» chiese il bambino.

Padre Julien gli rivolse un sorriso comprensivo. «Devi pregare il Signore: se è una cosa davvero bella te la concederà.» spiegò.

Gli occhi verdi di William brillarono di furbizia: allora aver imparato a memoria tutte quelle parole latine aveva avuto un suo perché!

Concluso il momento di preghiera, padre Julien permise ai bambini di andare a giocare nel cortile, finché i genitori non fossero venuti a prenderli (solo gli orfani si fermavano lì anche a dormire). William finse di uscire, poi afferrò il fratello per la manica della giacca e lo trascinò di nuovo in chiesa. «Che cosa dobbiamo fare?» gli domandò Connor, perplesso.

William gli rivolse un sorriso furbo. «Mettere a frutto quello che abbiamo imparato.»


Rebecca venne a prendere i suoi figli che ormai il sole era tramontato da un pezzo. Il cielo si stava ricoprendo di una strana coltre di nuvole biancastre, che a Rebecca non piacevano per niente. Era stanca e affaticata, ma doveva tenere duro perché la aspettava un'ora abbondante di pedalata con i bambini, uno sul sellino davanti e uno su quello dietro.

«Will, Connie!» chiamò la donna, affacciandosi sul cortile interno del seminario. Non rispose nessuno. Strano, di solito obbedivano prontamente ai suoi ordini. Fece qualche passo avanti e provò a richiamarli, ma i due bambini non si fecero vivi. Scrutò meglio gli studenti che giocavano nel cortile, ma dei suoi figli non c'era traccia.

«Padre Julien, dove sono William e Connor?» domandò Rebecca, fermando il prete che passava proprio in quel momento per il portico.

L'uomo lanciò un'occhiata ai ragazzini chiassosi. «Non sono con gli altri?» chiese in tono perplesso. Rebecca scosse lentamente la testa, mentre uno strano senso di angoscia si impadroniva di lei. Il sacerdote si accarezzò il mento con aria pensosa. «Forse sono dentro con Mrs Pitt.» propose in tono ragionevole, dirigendosi verso un'aula dove l'anziana donna teneva le lezioni del coro di voci bianche. «Dove sono i due piccoli McBride?» esclamò padre Julien, guardando prima la direttrice del coro, poi i suoi piccoli studenti. Mrs Pitt scosse la testa con aria titubante. «Oh cielo.» sospirò il prete. Era sempre preoccupato per quei due bambini, visto quello che aveva passato a casa la madre. Di solito se ne stavano sempre in disparte da soli, silenziosi, e ora erano addirittura spariti. Padre Julien corse fuori dalla stanza e cominciò a perlustrare ogni angolo del chiostro, senza successo. Entrò di getto in chiesa e la vocina sottile di un bambino giunse subito alle sue orecchie.

«Perché dobbiamo farlo, Will?» stava dicendo.

«Perché così papà torna presto. Non vuoi che torni?» rispose un'altra voce infantile.

«Sì.» sussurrò la prima.

«Bene, allora andiamo avanti. Ripeti con me: Salve Regina, mater misericordiae...»

«William, Connor!» esclamò il prete, sollevato. I due bambini, inginocchiati a terra davanti all'altare della Madonna, si voltarono in simultanea verso il sacerdote. «Vostra madre vi sta cercando.» spiegò l'uomo, avvicinandosi cauto ai due bambini.

Gli occhi azzurri di Connor si riempirono di lacrime. «Ma se noi non preghiamo il Signore, nostro padre non tornerà dalla guerra!» mugugnò asciugandosi con il dorso della mano il muco che colava dal naso.

Padre Julien si impietosì a quella risposta. Accarezzò delicatamente i capelli riccioli del bambino e gli rivolse un sorriso sincero. «Sono sicuro che vostro padre tornerà.» disse loro, anche se se ne pentì subito: era francamente impossibile che il signor McBride fosse sopravvissuto a cinque anni di guerra; probabilmente era già morto da un pezzo, o forse era finito nel gruppo dei numerosissimi dispersi, un sinonimo più gentile per “spacciati”. Alimentare le false speranze di quei bambini poteva essere pericoloso, tanto più visto che i due McBride consideravano verità assoluta ogni parola uscita dalla sua bocca. Ma ormai il danno era fatto.

Connor ritirò immediatamente le lacrime e sfoggiò un sorriso luminoso. «Lo sapevo che sarebbe tornato!» esclamò allegro, dando ormai per certo ciò che il padre gli aveva promesso. I due fratellini si alzarono da terra e con un saluto al sacerdote si affrettarono a raggiungere la madre, pieni di nuova speranza.

La mattina successiva i McBride si svegliarono in un paesaggio incantato: un'abbondante nevicata aveva ricoperto ogni cosa, rendendo morbido il profilo delle brulle colline scozzesi. Il castello, che si intravedeva dalle finestre del cottage, pareva uscito da un racconto di fiabe per bambini. «Che bello! Andiamo fuori a giocare, Connie!» esclamò estasiato William, pregustando di rotolarsi nella neve fresca e di tirare un po' di palle al fratellino. Il piccolo Connor, che non aveva mai visto la neve, rimase incantato alla finestra ad osservare quella meraviglia.

«Fermati, Will.» intimò Rebecca al figlio più grande, frenando i suoi bollenti spiriti. «È meglio che restiate a casa oggi, se non volete prendervi una bella influenza.»

«E tu dove vai?» domandò Connor, distogliendo gli occhi dal paesaggio incantato per scrutare con sospetto la madre.

Rebecca prese un profondo respiro. «Al lavoro, tesoro.» rispose con un sorriso tirato.

William si piazzò davanti alla porta con aria decisa. Era lui l'uomo di casa, in fondo. «Non se ne parla, mamma. Ci sarà mezzo metro di neve, là fuori.» sentenziò, incrociando le braccia al petto.

Rebecca si sentì morire d'orgoglio per il suo piccolo ometto coraggioso. Si inginocchiò davanti a lui e gli prese il volto tra le mani. «Will, tesoro. Ci devo andare, o mi cacceranno dalla fabbrica.» gli sussurrò con un sorriso che voleva essere comprensivo.

Ci vollero dieci minuti buoni per convincere un testardissimo William a lasciar andare la mamma al lavoro e a farsi promettere che lui e Connor avrebbero fatto i bravi e sarebbero restati in casa. Rebecca sorrise quando si recò a prendere la bicicletta nella rimessa: quest'ultima promessa, sapeva che non l'avrebbero mantenuta.

William aveva ragione: era caduto quasi mezzo metro di neve. Sarebbe stata una bella impresa raggiungere Edimburgo.

Sì, la guerra tirava fuori il peggio o il meglio degli uomini. Lei aveva deciso per il meglio.



Ve l'avevo detto che i guai a casa McBride non erano che all'inizio!

Povera Rebecca, gliene ho davvero fatte passare di tutti i colori... ma, grazie al cielo, lei è una donna forte e riesce a reagire alle peggiori situazioni. I suoi due figli, poi sono adorabili! Will è davvero terribile, ma alla fine è un bambino che vuole solo riavere indietro suo padre. QUI il disegno che li rappresenta nel momento della preghiera.

Ah, l'altra volta scherzavo... questo non è il penultimo capitolo! Il prossimo lo è! Aggiornamento, se tutto va bene venerdì mattina...

a presto e grazie a tutti quelli che mi seguono!

Beatrix

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Capitolo 10
*** Capitolo IX ***


Capitolo IX



Marzo 1945


Qualcosa di grosso e rumoroso penetrò nel sogno di Gerald. Era un peccato, perché stava sognando la brughiera con i suoi insetti che ronzavano allegri da un'erica all'altra; e poi c'era Rebecca, bella e radiosa come non era mai stata, con in braccio il piccolo William. È un sogno. gli sussurrò la sua coscienza all'orecchio. Perché Will non ha più due anni da un pezzo.

E, prima che Gerald potesse rendersene conto, una macchia nera piombò nel mezzo della brughiera. Sparava, quella cosa.

«Gerald!» gridò la cosa che sparava. «Gerald, svegliati!»

Il giovane si svegliò di soprassalto. Intorno a lui era tutto buio, ma gli altri sensi si attivarono immediatamente, avvisandolo di una sola cosa: pericolo. C'erano voci che gridavano concitate, spari e lampi di bengala. Li stavano attaccando.

«Gerald, muoviti!» gli urlò Josh, lanciandogli sulla branda il suo elmetto e il fucile. Lo scozzese si ribaltò giù dalla brandina e inciampò sui suoi stivali militari. «Che succede?» boccheggiò, rimettendosi in piedi a stento. Josh gli lanciò un'occhiata esasperata. «Ci stanno attaccando, zucca vuota!»

Gerald non era davvero tagliato per fare il soldato semplice: lui era una mente operativa, geniale quando si trattava di elaborare strategie, sfruttando le sue conoscenze geografiche e naturalistiche; ma quanto a sparare o uccidere, era meglio che lasciasse fare agli altri. In quasi sei anni di guerra, non aveva ancora imparato ad imbracciare un fucile.

I due amici si affrettarono ad uscire dalla caserma e a raggrupparsi con i compagni della sezione agli ordini del maggiore Interim. Le facce stanche e preoccupate dei soldati venivano illuminate ad intervalli regolari dalla luce dei bengala: erano trepidante e in attesa di ordini che non arrivavano. «Josh...» mormorò Gerald, tremante. Anche dopo aver passato tutti quegli anni tra i fischi dei razzi e le bombe dei carroarmati, non ci si abituava mai alla paura di poter davvero morire da un momento all'altro, di sapere che quella poteva essere l'ultima boccata d'aria prima dell'inferno.

Il maggiore Interim apparve sulla scena proprio in quel momento. Cominciò a dare gli ordini, ma il sibilo di un razzo coprì le sue parole. E poi il razzo esplose. Dritto in mezzo al battaglione.

Il maggiore e il gruppo di soldati che gli erano attorno morirono sul colpo, gli altri vennero sbalzati lontano. Gerald fece un breve volo all'indietro ma atterrò sulle ruote di scorta dei camion che attutirono la caduta. Al suo fianco, Josh subì la stessa sorte.

La mente di Gerald, cominciò a macinare velocemente: il loro battaglione era un piccolo distaccamento a est di Forlì, città conquistata dagli Alleati il novembre dell'anno precedente. Pochi soldati in un posto poco interessante. L'unica cosa di un certo valore era l'armeria, che conteneva i rifornimenti destinati ai partigiani. Ma attaccare quella base era un suicidio, perché a meno di un'ora si trovava la sede del generale Alexander con tutta l'Ottava armata britannica. A meno che, ovviamente, l'obiettivo non fosse razziare l'armeria e poi ritirarsi.

Gerald si alzò piano dall'ammasso di cerchioni, tenendo stretto a sé il fucile. «Sant'Iddio...» mormorò vedendo la devastazione provocata dal razzo. C'erano cadaveri sparsi un po' ovunque, uomini feriti che mugugnavano il loro dolore, ammassi di detriti e macerie, polvere e fuliggine che rendevano densa l'aria. Gerald tossì e sputacchiò un po' di sangue a terra. Josh bestemmiò qualche lontana divinità e si alzò a stento: alcune schegge gli erano penetrate nella pancia e all'altezza della milza si stava allargando sulla camicia una grossa macchia rossa. «Josh, sei ferito!» esclamò Gerlad, preoccupato.

«Non è niente, non è niente» mormorò lui, con un gesto veloce della mano, come se volesse scacciare delle mosche moleste.

I pochi uomini sopravvissuti si radunarono attorno a loro, con i volti sciupati e preoccupati. Uno dei soldati più anziani (se anziano di poteva definire uno poco più che quarantenne), guardò Gerlad negli occhi. «Colonnello McBride, attendiamo ordini» gli si rivolse con intensità.

«Io non porto più quel titolo da un anno, ormai» rispose Gerald, scuotendo la testa, ma l'uomo si fece avanti e lo afferrò per un braccio. «Il maggiore Interim è morto, i nazisti ci stanno attaccando e lei è l'unico che è in grado di prendere il comando della situazione» gli disse, con una nota disperata nella voce. Gerald avrebbe voluto fuggire da ogni genere di responsabilità, ma quegli uomini si stavano aggrappando a lui come ad un'ancora di salvezza e non poteva abbandonarli. Il potere gli era stato offerto e lui doveva raccogliere l'invito.

Semplicemente annuì.

«Molto bene» sentenziò prendendo in mano la situazione. «Voi cinque, raggiungete la radio e mandate una richiesta di aiuto al generale Alexander. Gli altri con me all'ingresso dell'armeria» ordinò in tono serio. Nessuno mise in dubbio neanche per un attimo i suoi comandi, sebbene ora non fosse nulla più che un soldato semplice al pari loro.

Una trentina di soldati si radunarono davanti al capannone magazzino. «No!» esclamò Gerlad, quando vide che qualcuno proponeva di entrare per ripararsi dagli spari. «Non è una buona idea: i tedeschi potrebbero decidere di farla saltare in aria, se capissero che non riescono a conquistarla, e per allora noi saremmo grigliata di eroi» spiegò in tono pratico. Josh, sebbene avesse i senti un po' annebbiati per la ferita, riuscì a cogliere il sottile sarcasmo nelle parole del suo amico e si lasciò sfuggire un sorriso. Fantastico, Gerald: dategli qualcosa da comandare e si sente tanto in gamba da permettersi pure di scherzare in momenti come questi.

«Prendete i sacchi di sabbia e costruite una trincea davanti alla porta» comandò poi il giovane scozzese. I soldati si misero subito al lavoro e in pochi minuti avevano creato un rifugio dietro cui posizionarsi. Gerald si accucciò a terra insieme agli altri, con le spalle appoggiate ai sacchi. Scrutò i suoi compagni uno ad uno, poi spiò oltre il riparo e prese un profondo respiro: i tedeschi stavano arrivando.

«Forza, uomini. Resistiamo solo un'ora poi arriverà il generale Alexander a salvarci il culo e a portarci una bella medaglia d'oro al valore» esclamò come incoraggiamento. Lanciò un'ultima occhiata verso i nemici: due carri da guerra e una buona cinquantina di soldati. Gerald si lasciò sfuggire un sospiro. «Se saremo ancora vivi».

Quando cominciarono a piovere proiettili, Gerald chiuse gli occhi per istinto. Lo faceva sempre prima di ogni battaglia, per sognare di essere in un altro posto, quasi sempre nella sua amata brughiera scozzese. Lontano dalla guerra e da tutta quell'aria di morte.

I colpi si susseguirono senza interruzione da ambo le parti; Gerald in realtà sparò ben poco, non per codardia ma semplicemente perché non era davvero in grado di manovrare quell'affare, tanto più se si trovava sotto pressione. I tedeschi, esattamente come Gerald aveva ipotizzato, non spararono con i carri contro il loro piccolo piazzamento, per non rischiare di far saltare per aria tutta l'armeria. Ma anche solo con fucili e mitra, li stavano decimando. La loro unica speranza era l'arrivo del generale Alexander e del resto dell'esercito.

«Signore, i nostri compagni» esclamò un soldato, indicando a Gerald cinque uomini che cercavano di raggiungerli dal fianco destro.

Gerald controllò la situazione, poi ordinò: «Dobbiamo creare un diversivo, svelti»

«Ci penso io» rispose Josh, con decisione, caricando il suo mitragliatore.

Gerald intuì che cosa volesse fare l'amico, quindi lo afferrò per un braccio e cominciò a gridare: «Josh, no! No! Te lo impedisco!»

«Tu non puoi darmi nessun fottutissimo ordine, soldato!» gli urlò Josh in risposta.

Gerald sentì che stava per scoppiare a piangere. «Ma ti farai ammazzare, caprone!» strillò disperato.

Josh gli rivolse un sorriso impietosito. Spostò la mano che teneva appoggiata sulla milza, dove era stato colpito dalle schegge e rivelò una macchia scura di sangue, che non accennava a smettere di fuoriuscire dalla ferita. «Morirei comunque, Ger. Tanto vale fare qualcosa di utile.» sussurrò con un sorriso stanco. Ma i suoi occhi non brillavano quando lo disse. «Fai il bravo, Fitzgerald, e vedi di tornare a casa anche per me» furono le sue ultime parole. E poi si lanciò oltre i sacchi di sabbia.

«Halt! Streck die Waffen!» gli ordinò un nazista.

«Tua sorella, bastardo di un tedesco!» gridò in risposta Josh e poi cominciò a sparare.

«Noooo!» gridò Gerald, cercando di raggiungere l'amico. Per fortuna i suoi uomini lo agguantarono prima che potesse buttarsi fuori dal rifugio e lo inchiodarono a terra. Il giovane assistette inerme alla coraggiosa fine di Josh, trivellato di colpi dalle armi nemiche.

Fu a sufficienza: i tedeschi, impegnati a preoccuparsi di quel pazzo suicida, non si accorsero dei soldati che avevano raggiunto indisturbati il rifugio.

Gerald, nel frattempo, si liberò con uno strattone dalla presa dei suoi compagni e afferrò al volo un sacco di sabbia. «Signore, si fermi!» gridò qualcuno, ma Gerald non diede loro retta.

Doveva assolutamente recuperare il corpo di Josh: non l'avrebbe lasciato in pasto a quei cani nazisti. Usando il sacco per proteggersi dal colpi nemici, raggiunse il cadavere insanguinato del suo amico. «Josh...» mormorò con una fitta al cuore quando vide lo stato in cui era ridotto. Il sapore salato delle lacrime gli pizzicò le labbra screpolate. «Non ti lascio qui» mormorò con determinazione. Josh era una montagna d'uomo in confronto a lui, ma spinto dalla forza della disperazione, Gerald riuscì a caricarsi il busto dell'amico sulle spalle e a trascinarlo verso il rifugio. I suoi uomini, nel frattempo, cercavano di coprire la sua ritirata. Non appena Gerald riuscì a raggiungere la prima linea della provvisoria trincea, qualcosa lo colpì al braccio sinistro. Un dolore lancinante lo investì in pieno e Gerald si accasciò a terra.

«Presto, aiutiamolo!» gridò uno dei soldati e una decina di mani li afferrarono al volo e li trascinarono al riparo. «Signore, è ferito?» chiese solerte uno dei suoi uomini. Gerald mugugnò qualcosa di incomprensibile: il dolore al braccio lo stava tramortendo. I compagni lo adagiarono con le spalle appoggiate al muro dell'armeria. «Resista colonnello, gli aiuti stanno arrivando!» lo incoraggiò qualcuno.

Gerald sbuffò. Restò in uno stato di semi incoscienza finché non vide apparire nel cielo le familiari sagome degli aerei inglesi. Il generale Alexander era lì. Erano salvi.

E poi si abbandonò al rassicurante oblio.


Quando Gerald riaprì gli occhi un caldo raggio di sole mattutino lo avvolse. Era sdraiato su un letto dell'infermeria da campo, proprio di fronte ad una delle finestre che riversava all'interno fiotti di luce. Sentiva uno strano formicolio al braccio sinistro, dove gli avevano sparato: forse erano i postumi dell'operazione. Si voltò lentamente e alzò le coperte per controllare lo stato della ferita. Gli ci volle una manciata di secondi per capire che qualcosa non andava: la manica della camicia bianca dell'infermeria era floscia e vuota. Il suo cervello comandò al braccio di muoversi, ma non successe nulla.

E poi realizzò: glielo avevano amputato.

Riemerse da sotto le coperte con una faccia sconvolta. Gli avevano amputato un braccio poco sotto la spalla, lasciando null'altro che un moncherino.

Ma, in realtà, non era quella la perdita peggiore: la consapevolezza della morte dell'amico, che era stata sapientemente sopita dal suo inconscio, riemerse con violenza, mozzandogli il fiato. E Gerald scoppiò a piangere.

«Ah, McBride, si è svegliato» commentò una voce proprio di fronte a lui. Gerald riconobbe le guance incavate e lo sguardo penetrante del feldmaresciallo Bernard Montgomery, comandante supremo dell'esercito britannico sul fronte occidentale. Doveva esserci in ballo qualcosa di grosso, se avevano scomodato Montgomery.

L'uomo stava placidamente fumando un sigaro, seduto ai piedi del letto di fronte a lui. «Non c'è stato nulla da fare con quello.» spiegò, accennando con il capo al moncherino.

Il cervello di Gerald mandò una serie di impulsi per comandare al braccio sinistro si asciugare le lacrime, per poi ricordarsi che non c'era più un braccio sinistro. Gerald si ripulì il volto con un gesto rabbioso della mano destra. «Josh?» fu l'unica cosa che riuscì a mormorare.

«Il soldato Watson?» domandò Montgomery, sbuffando nuvole di fumo. Gerald annuì stancamente. Montgomery allora indicò vagamente la finestra. «Il suo corpo è stato composto all'obitorio. Anche se è malmesso, gli uomini hanno detto che lei avrebbe voluto essere presente al funerale, così abbiamo aspettato» spiegò poco dopo, in tono tranquillo.

Gerald accennò un segno di gratitudine con il capo, poi distolse gli occhi e prese a vagare lontano con la mente. Josh gli aveva salvato la vita innumerevoli volte, e lui non era stato in grado di aiutarlo quell'unica volta che era rimasto ferito. Ma Josh era fatto così: non gli piaceva rimuginare sui suoi dolori, preferiva spendere le energie per tentare di aiutare gli altri. Se n'era andato così, nell'estremo tentativo di essere utile a qualcuno.

Gerald provò una rabbia immensa per la sua tragica fine. Era ingiusto che fosse lui ad andarsene, lui sempre così pieno di vita, lui sempre pronto ad aiutare il prossimo, lui che era uno dei migliori.

Già, i migliori sono sempre i primi ad andarsene. Mentre lui era ancora lì, l'inerme soldato scozzese incapace di imbracciare un fucile, incapace di essere di qualche utilità per qualcuno, più spesso un intralcio che un aiuto nell'esercito. Perché il destino aveva inchiodato lui a quel letto d'ospedale senza un braccio e si era invece portato via Josh? Aveva forse più meriti Fitzgerald McBride? Era forse più bravo, più utile... migliore?

No, certo che no. Eppure lui era ancora vivo, Josh era morto.

«Giovanotto» lo richiamò la voce tranquilla di Montgomery. Aveva finito di fumare il suo sigaro, le cui ceneri ora si trovavano sparse sul pavimento dell'infermeria. «Un anno fa ti dissi che io di solito non sbaglio a giudicare le persone» cominciò a dirgli, guardandolo dritto negli occhi. «E tu questa notte mi hai dimostrato che avevo ragione. Hai difeso l'armeria dai nazisti, hai guidato quegli uomini con coraggio, hai preso il comando in una situazione critica e te la sei cavata. Hai servito bene il tuo esercito e ti sei riguadagnato la mia fiducia, colonnello McBride»

«Colonnello?» gli fece eco Gerald, confuso.

Montgomery gli regalò uno dei suoi rari sorrisi. «Colonnello. E alle mie dirette dipendenze» confermò. Poi fece per andarsene, ma si bloccò a metà strada. «Ah, e tu e i tuoi uomini vi siete meritati una medaglia d'oro al valore militare» annunciò soddisfatto.

«Anche i morti?» si informò Gerald, cauto.

Montgomery capì che si riferiva al suo amico Josh Watson. Annuì. «Anche i morti».

Magra consolazione, avere indietro un pezzo di freddo metallo invece del figlio, ma almeno Gerald avrebbe potuto raccontare ai suoi genitori che era morto da eroe. Mugugnò qualcosa quando cercò nuovamente di impartire ordini al suo braccio sinistro che non c'era più.

«Grazie, signore» sussurrò rivolto a Montgomery. L'uomo annuì ancora una volta, per far intendere che aveva colto il segnale, e poi lasciò l'infermeria.



Il dramma dei sopravvissuti... mi dispiace un sacco di aver fatto morire Josh, ma era un predestinato. Troppo eroico per essere risparmiato dai colpi nemici. Spero di aver descritto bene il dramma di Gerald, che si trova ad aver perso un braccio e soprattutto un amico.

Perdonate se ho sparso qua e là qualche parolaccia, ma eravamo in una situazione critica e non credo che i soldati si preoccupassero di parlare raffinato.

Il prossimo è l'ultimo capitolo... ragazzi, preparate i fazzoletti perché ci sarà da piangere! Aggiornamento previsto per martedì mattina.

A presto,

Beatrix

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Capitolo 11
*** Capitolo X ***


Capitolo X



Settembre 1945


Quel giorno, quando Rebecca corse a prendere i bambini, aveva un sorriso entusiasta. La notizia che aspettava da anni era finalmente giunta: la guerra era finita, il Giappone aveva firmato l'armistizio, era tornata la pace. I soldati dispersi per il mondo sarebbero tornati a casa.

Anche Gerald.

«Bambini, papà sta per tornare!» esclamò con il cuore colmo di gioia, abbracciando i suoi figli. William e Connor si scambiarono un'occhiata eccitata, pieni di entusiasmo: il loro sogno si stava finalmente avverando. William abbracciò il fratellino con slancio, mentre sulle labbra gli si disegnava un sorriso luminoso. Dopo sei anni avrebbe rivisto suo padre: Gerald certo non l'avrebbe riconosciuto, visto che era diventato un ometto, ormai. Ma lui sarebbe stato in grado di riconoscere il padre? Aveva solo ricordi vaghi e confusi di lui e non avrebbe saputo dire nemmeno quali fossero i tratti del suo volto, se non li avesse ammirati per ore in una vecchia fotografia ingiallita, nelle lunghe sere d'inverno.

Connor, invece, dopo l'euforia iniziale, cominciò ad essere seriamente preoccupato. Lui stava bene con la mamma e Will... e se suo padre non gli fosse piaciuto? O, peggio, se lui non fosse piaciuto a suo padre?

«Forza bambini, dobbiamo andare a preparare il castello per il ritorno del papà» esclamò Rebecca, caricandoseli sui sellini della bicicletta. Ancora non ci credeva che Gerald sarebbe ritornato, che avrebbe potuto abbracciarlo di nuovo, baciare le sue labbra sottili, sentire la sua voce, perfino cercare con lui strani insetti per la sua collezione. Non le importava, avrebbe fatto qualunque cosa pur di non lasciarlo più andare via. Non poteva sopportare di essere abbandonata di nuovo dall'uomo che amava con devozione.

Quando arrivarono a casa, Rebecca e i bambini riaprirono il pesante portone d'ingresso del castello dei McBride dopo più di un anno che restava sigillato. Tolsero i teli bianchi che avevano utilizzato per coprire mobilio, tavoli e poltrone, spazzarono per bene in ogni stanza, tirarono le pesanti tende di velluto rosso delle finestre, perché la debole luce di settembre invadesse di nuovo il castello. Indossarono nuovamente vestiti eleganti e raffinati, Rebecca si acconciò i capelli, truccò gli occhi e legò al collo una fila di perle, uno dei pochi gioielli che aveva salvato dalla vendita perché era appartenuto a sua madre. La donna pettinò i riccioli ribelli di Connor, aggiustò il papillon a William e lucidò le loro scarpette di vernice. Tutto doveva essere pronto perché Gerald ritrovasse la casa in perfetto ordine, uguale a quando era partito; come se non fosse mai accaduto nulla in quei sei anni.

I soldati scozzesi sarebbero tornati entro pochi giorni e avrebbero sfilato per le vie di Edimburgo sotto gli occhi di una folla festante. Rebecca predispose ogni cosa perché fosse perfetta per quel giorno. Si era licenziata dalla fabbrica, visto che tanto Gerald sarebbe tornato a lavorare in banca e non c'era più necessità che lei si ammazzasse davanti alla pressa. Aveva chiamato un autista perché li venisse a prendere e li portasse in città: niente più viaggi in bicicletta, sarebbero stati poco adatti ad una signora.

Le strade di Edimburgo erano un tripudio di gente, un inno alla vita. Mogli, sorelle e madri festanti salutavano i soldati che sfilavano in alta uniforme; ogni volta che una donna riconosceva un familiare gli correva incontro in lacrime e lo abbracciava.

Rebecca prese i suoi figli per mano e li condusse per le vie del centro, lungo il corteo di militari. Scrutava ogni faccia sorridente nascosta sotto l'elmetto, alla ricerca dei luminosi occhi azzurri del marito.

«Mamma, dov'è papà?» chiese William, provando a spiare i soldati da sotto le gambe della folla di gente.

Rebecca gli rivolse un sorriso gentile. «Non lo so, amore. Adesso lo cerchiamo» gli rispose.

Rebecca trascorse un'ora buona a passare in rassegna i volti dei militari scozzesi, senza trovare traccia del marito. Dopo tutti quei vani tentativi, cominciò ad agitarsi. «Gerald?» chiamò con voce tesa. Alcuni soldati si voltarono, ma nessuno di quelli era il suo Gerald.

«Gerald!» chiamò ancora, in un tono reso acuto dall'ansia. Nessuno, non c'era nessuno. Sempre tenendo i figli per mano, si mise a correre attraverso il corteo, alla ricerca disperata del marito. Non era possibile che non fosse tornato, ora che la guerra era finita. Dov'era, dov'era suo marito? Perché non era tornato?

«GERALD!» gridò, accasciandosi a terra distrutta dal dolore.

Connor scoppiò a piangere, la folla si scansò da quella scena patetica.

«Rebecca, vieni via» sussurrò la voce rassicurante di padre Julien, portando al sicuro la famigliola.


***


Il soldato alla guida si voltò verso il colonnello con aria stranita. «Signore, è sicuro di non voler partecipare alla parata di Edimburgo?» gli domandò in tono serio. Insomma, il colonnello era il soldato scozzese che avesse raggiunto il grado militare più alto, la sua presenza era stata data per scontata: avrebbe dovuto guidare il corteo, deporre la corona di fiori per i caduti e tutto quel genere di cose che erano richieste ad un colonnello.

L'uomo scosse debolmente la testa. «No, grazie. Ho un'ultima cosa da fare».

«Allora dove la porto?» chiese educatamente.

L'uomo osservò il paesaggio fuori dal finestrino, sovrappensiero. «Nello Yorkshire» rispose infine. «A Middelton On The Wolds».


La donna che venne ad aprire la porta aveva un passo talmente strisciante da far pena. Vestita di nero, con gli occhi tonfi per il pianto e uno scialle a coprire la testa. L'uomo che si ritrovò alla porta, in alta uniforme da militare, con una medaglia d'oro al valore appuntata sul petto, la fece quasi rabbrividire: l'ultima volta che qualcuno del genere si era presentato a casa sua, era stato per annunciarle la morte del suo unico figlio.

Il soldato si levò il cappello con fare rispettoso e poi rivolse all'anziana donna un sorriso timido. «Signora Watson, sono il colonnello Fitzgerald McBride. Ero un amico di Josh» si presentò il giovanotto. La donna trattenne un piccolo singulto, poi si spostò di lato per permettere al colonnello di entrare in casa.

Lo condusse verso il salotto e lo fece accomodare su una poltrona un po' consunta, con il velluto liso. Sul divano di fronte a lui era seduto un uomo sciupato dal dolore.

«Il mio Josh era un bravo ragazzo?» domandò la signora Watson, sedendosi a fianco del marito.

Gerald si limitò ad un sorriso triste. «Il migliore, signora. Mi ha salvato la vita innumerevoli volte e se sono ancora qui lo devo a lui» rispose con sincerità. Dopodiché afferrò la borsa che si era portato dietro ed estrasse non senza una certa difficoltà, dovuta all'utilizzo di una sola mano, una scatola di velluto rosso. «È una magra consolazione, ma dovete sapere che vostro figlio è morto da eroe, salvando la vita di molti suoi compagni, me compreso» spiegò, porgendo loro la scatola.

Il signor Watson la aprì con mani tremanti e vide che conteneva una medaglia d'oro al valore militare. Nel vedere la preziosa onorificenza, l'anziana donna scoppiò in lacrime. «Un genitore non dovrebbe mai sopravvivere a suo figlio» mormorò sconsolata. «Mai».


Quando Gerald se ne andò da casa Watson, un'ora più tardi, si sentiva letteralmente a pezzi, ma era sicuro di aver fatto la scelta giusta.

Il soldato che gli era stato assegnato come autista, si affrettò ad aprirgli la portiera della macchina per aiutarlo a salire. «Signore, dove la porto ora?» gli domandò.

Gerald si lasciò sfuggire un sospiro. E poi disse quell'unica cosa che attendeva da sei anni: «In Scozia, a casa».

Il viaggio verso nord passò silenzioso e tranquillo. Gerlad osservava il cambiare del paesaggio che scorreva fuori dal finestrino, fremendo nell'attesa di rivedere la sua amata brughiera. Quanto gli erano mancati quei paesaggi brulli e un po' grezzi! La nebbiolina sottile, i cespugli di erica, il soffio delicato del vento...

Non riuscì a impedire che una singola lacrima gli attraversasse la guancia quando vide in lontananza il profilo del castello dei McBride.

Il rombo dell'automobile che percorreva il vialetto sterrato turbò la tranquillità di quel tardo pomeriggio di settembre. Il soldato parcheggiò poco distante dal portone d'ingresso, poi corse ad aprire la portiera al colonnello. «Le serve una mano con quella, signore?» domandò, accennando con il capo alla valigia.

Gerald scese dalla macchina trascinando il baule con la destra. «No, grazie, ce la faccio» rispose con un cenno di ringraziamento. «È licenziato, soldato Pride. Può tornare...» cominciò a dire, ma si interruppe ad ammirare il suo castello, dopo sei anni di forzato esilio all'inferno.

«...a casa».


***


Da quando padre Julien li aveva riaccompagnati al castello, Rebecca non aveva smesso di osservare la brughiera fuori dalla finestra con aria apatica.

Gerald non era venuto, non era tornato a casa da lei e dai bambini. L'aveva abbandonata, per sempre. Che senso avevano avuto tutte le sue fatiche, tutte quelle attese speranzose del suo ritorno, quell'affacciarsi continuamente alla finestra, nella speranza di vederlo comparire all'orizzonte? Perché se n'era andato, perché l'aveva lasciata?

E poi la vide: una macchina militare che si avvicinava lungo la strada sterrata.

E se...?

Un giovane soldato era sceso dal posto di guida e aveva aperto la portiera al suo superiore: ne era sceso un militare in alta uniforme, con un cappello che gli copriva il volto. Ma a Rebecca bastò un'occhiata di sfuggita quando questo alzò gli occhi sulla casa per riconoscerlo.

Era tornato!

«Gerald!» gridò in preda all'emozione, gettandosi a capofitto giù dalle scale e poi fino in ingresso.

Non riusciva ancora a credere che fosse vero! Era tornato!

Ancora prima che potesse entrare in casa, Rebecca gli gettò le braccia al collo e scoppiò a piangere. L'uomo abbandonò la valigia a terra e ricambiò la stretta, inebriandosi del profumo della moglie. «Oh, Gerald!» esclamò Rebecca, accarezzandogli la nuca, stringendolo a sé, baciando ogni parte del suo volto. Anche Gerald non riuscì a trattenere le lacrime, nello sfiorare con le dita i morbidi capelli di Rebecca e nel baciare le sue labbra umide di pianto.

«Oddio, Gerald ma...» sussurrò la donna, quando si accorse che la manica sinistra della giacca era stranamente vuota.

Gerald sorrise bonario. «Non è nulla» rispose scuotendo la testa.

«Non è nulla» confermò Rebecca, pensando che la perdita di un braccio era qualcosa di infinitamente minuscolo, rispetto alla possibilità di perderlo di nuovo. Dopodiché si strinsero in un altro abbraccio pieno di amore.

«Papà!» esclamò la voce di un bambino. Gerald si sciolse dall'abbraccio della moglie e vide che c'era un ragazzetto moro, ritto in piedi sull'uscio di casa. Era alto per i suoi otto anni, con due meravigliosi occhi verdi come la brughiera. Era cresciuto il suo William, rispetto al bimbetto paffutello che popolava i suoi sogni e ricordi.

«Ciao, figliolo» mormorò Gerald, con la voce incrinata dall'emozione.

Il bambino si asciugò velocemente una lacrima, poi corse a gettare le braccia al collo del padre. «Mi sei mancato, papà»

«Anche tu, William» mormorò Gerald, sopraffatto dalla nostalgia. «Anche tu».

«Amore» lo richiamò Rebecca. L'uomo si voltò verso di lei e vide che la moglie teneva per le spalle un altro bambino, che poteva avere cinque o sei anni. Dei morbidi riccioli castani gli incorniciavano il viso attraversato da una sfumatura ansiosa.

«Questo è tuo figlio Gerald Connor McBride» lo presentò Rebecca, con un sorriso incoraggiante.

Gerald si levò il cappello militare e si inginocchiò davanti al bambino, visibilmente emozionato. «Ciao, piccolino» mormorò. Era diventato padre per la seconda volta e nemmeno lo sapeva.

Connor lo squadrò con curiosità e timore insieme. Per una frazione di secondo, i loro occhi, entrambi così azzurri, si incontrarono. E Connor capì che tutte le sue preoccupazioni non avevano avuto senso, perché quello era suo padre e gli avrebbe voluto bene di sicuro.

Sorrise.

«Bentornato a casa, papà».



Ebbene sì, siamo giunti alla fine di questa storia.

Premetto che, sebbene io stessa abbia scritto questo capitolo, tutte le volte che lo rileggo mi vengono i brividi e quasi piango. Forse sono un po' troppo impressionabile, ma trovo che le scene finali siano davvero toccanti. Spero di essere riuscita ad emozionare anche voi!

William che chiede “Mamma, dov'è papà” esattamente come aveva fatto a due anni quando lui è partito per il fronte, Rebecca alla disperata ricerca del marito, Connor preoccupato di non piacere a suo padre, Gerald che porta la medaglia d'oro ai genitori di Josh... ma la scena più straziante è il ritorno a casa dell'uomo, dopo sei anni di esilio. Insomma, mi commuove! E, ve l'avevo detto che sono per i lieti fini... non potevo impedire a Gerald di tornare a casa, dopo tutto quello che ho fatto passare a lui e alla moglie.

Comunque, basta! QUI l'immagine di Rebecca che attende il ritorno del marito guardando fuori dalla finestra.

Spero tanto che questa storia vi abbia regalato qualche emozione. Grazie a tutti coloro che hanno seguito, letto e commentato le avventure dei coniugi McBride.

Alla prossima occasione!

Beatrix B.

Edit: La storia ha partecipato al concorso "Competition for long-fic pubblished (qui il link), classificandosi prima a parimerito. Tra le recensioni a questo capitolo, il giudizio del giudice NonnaPapera.

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