Come la neve...

di _Tenshi89_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Cap. I ***
Capitolo 3: *** Cap. II ***
Capitolo 4: *** Cap. III ***
Capitolo 5: *** Cap. IV ***
Capitolo 6: *** Cap. V ***
Capitolo 7: *** Cap. VI ***
Capitolo 8: *** Cap. VII ***
Capitolo 9: *** Cap. VIII ***
Capitolo 10: *** Cap. IX ***
Capitolo 11: *** Cap. X ***
Capitolo 12: *** Cap. XI ***
Capitolo 13: *** Cap. XII ***
Capitolo 14: *** Cap. XIII ***
Capitolo 15: *** Cap. XIV ***
Capitolo 16: *** Cap. XV ***
Capitolo 17: *** Cap. XVI ***
Capitolo 18: *** Cap. XVII ***
Capitolo 19: *** Cap. XVIII ***
Capitolo 20: *** Cap. XIX ***
Capitolo 21: *** Cap. XX ***
Capitolo 22: *** Cap. XXI ***
Capitolo 23: *** Cap. XXII ***
Capitolo 24: *** Cap. XXIII ***
Capitolo 25: *** Cap. XXIV ***
Capitolo 26: *** Cap. XXV ***
Capitolo 27: *** Cap. XXVI ***
Capitolo 28: *** Cap. XXVI ***
Capitolo 29: *** Cap. XXVIII ***
Capitolo 30: *** Cap. XXIX ***
Capitolo 31: *** Cap. XXX ***
Capitolo 32: *** Cap. XXXI ***
Capitolo 33: *** Cap. XXXII ***
Capitolo 34: *** Cap. XXXIII ***
Capitolo 35: *** Cap. XXXIV ***
Capitolo 36: *** Cap. XXXV ***
Capitolo 37: *** Cap. XXXVI ***
Capitolo 38: *** Cap. XXXVII ***
Capitolo 39: *** Cap. XXXVIII ***
Capitolo 40: *** Cap. XXXIX ***
Capitolo 41: *** Cap. XL ***
Capitolo 42: *** Cap. XLI ***
Capitolo 43: *** Cap. XLII ***
Capitolo 44: *** Cap. XLIII ***
Capitolo 45: *** Cap. XLIV ***
Capitolo 46: *** Cap. XLV ***
Capitolo 47: *** Cap. XLVI ***
Capitolo 48: *** Cap. XLVII ***



Capitolo 1
*** Prologo ***






Rieccomi qui, ancora una volta:)
Ne approfitto per fare una piccola premessa…questa fanfic è una mia pura invenzione, e come tale mi sono presa qualche piccola “licenza poetica” sulla storia originale… ho cercato di prendere dei piccoli elementi della saga da integrare nella mia storia, cercando di rimanere il più fedele possibile all’originale, e se qualche volta non ci sono proprio riuscita perfettamente ti chiedo perdono…:)
Spero davvero di cuore che comunque possa piacerti!!!
E, adesso, bando alle ciance: ti lascio leggere la fic in pace, ma mi raccomando, aspetto commenti numerosi, di qualsiasi genere essi siano!
Un bacione a tutti!
@Silvia@



Oooops dimenticavo... i capitoli sono piuttosto corti, quindi posterò piuttosto spesso, quando l'università me lo permette...:)
Buona lettura!




***



















Rimasi li, impietrita.
No, non poteva essere vero. Era soltanto un incubo, brutto, orrendo, il peggiore che potesse esistere; la speranza viva che quello che avevo davanti agli occhi, altro non era che il frutto dell’oblio di un sonno profondo. Ma come poteva essere un incubo?
Io non dormivo. Non potevo dormire. Alla mia dannata esistenza il sonno era negato.
No, non era possibile.
Eppure era tutto vero, dannazione.
Sentii le ginocchia cedere sotto il peso di quello che i miei occhi avevano appena visto. Lo sentivo schiacciarmi, dimenarsi nelle mie gelide vene, distruggere tutta la mia intera esistenza.
Volevo urlare.
Un’immensa voragine mi si aprì nel petto, proprio dove un tempo c’era stato un cuore, un cuore che batteva, un cuore vivo. Ora non c’era più. Non c’era più niente, solo un gigantesco, silenzioso vuoto.
Avrei voluto squarciarmi in due il petto, strappare via quella cosa strana che adesso sentivo pulsare, agitarsi in maniera sconosciuta e insopportabile, e mettere fine a quell’ondata di dolore accecante che mi stava invadendo, ma sapevo che sarebbe stato inutile.
Ero immobile, lo sguardo fisso su un punto in mezzo al piccolo gruppo davanti a me.
E un paio di occhi dorati finalmente incontrarono i miei.



***



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Capitolo 2
*** Cap. I ***






***















Mi piacevano le giornate uggiose. Le preferivo di gran lunga al bel tempo, al sole, al caldo.
Lo so che probabilmente sembrerà strano, ma questo aspetto della vita umana non mi mancava affatto. Essere costretta a vivere in luoghi del mondo sempre pieni di nuvole mi piaceva, ero forse l’unica creatura esistente sulla faccia della terra a cui il brutto tempo metteva allegria. Correre sotto la pioggia, stendersi in un prato mentre nevicava, godermi una bella tempesta di fulmini seduta su una roccia, erano tutte cose che mi regalavano un piacere grandissimo.
Il cielo, quella mattina, era di un intenso grigio antracite, il colore perfetto per un temporale con i fiocchi. Guardai distrattamente lo specchietto retrovisore della mia Audi, ridacchiando della lunga fila di macchine che arrancavano sulla mia scia. Niente male, questa macchinina.
Alcune grosse gocce d’acqua iniziarono a cadere sul parabrezza, mentre il cielo si era fatto ancora più scuro. Mi scappò un sorrisetto; se non fosse stato per la macchina (mi dispiaceva abbandonarla così, in mezzo alla strada), sarei scesa e avrei continuato il viaggio a piedi.
Mah, ero sempre stata strana, anche quando ero umana. Non che ricordassi poi molto sui dettagli della mia vita mortale, era passato troppo tempo perché i deboli ricordi umani potessero resistere all’usura del tempo, come un paio si scarpe che si consumano dopo averci camminato troppo. Elianor Rosemberg, l’umana che ero stata tanto tempo addietro, era diventata quasi una sconosciuta per me. Da quasi trecento anni, ero semplicemente Elian, la vampira.
Ma anche da vampira le stranezze non mancavano: avevo scelto di vivere la mia nuova vita da “vegetariana”, bevendo solo sangue animale. I miei simili prendevano questa mia decisione con lo stesso spirito con cui avrebbero ascoltato una pazza che proclamava di essere la prozia incarnata del sacro Buddha, ma a me non importava di quello che pensavano gli altri. Era una scelta mia, forse la più sensata che avessi mai fatto in tutta la mia esistenza.
Un fulmine attraversò il cielo, illuminando la strada buia davanti a me; la pioggia si fece ancora più fitta. Lanciai un’occhiata distratta al cartello stradale alla mia destra, sbatacchiato dal vento: “ FORKS - 40 miglia - “.
Solo 40 miglia. Ero quasi arrivata, finalmente. Affondai il piede sull’accelleratore, e con un miagolio il motore spinse la mia auto a 180 all’ora. Mancava davvero poco.



***



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Capitolo 3
*** Cap. II ***






***















Chissà perché gli esseri umani erano tanto affascinati dai vampiri. Nonostante l’istinto li spingesse a stare lontani da noi, ne erano tremendamente attratti, come le mosche quando sentono il miele. Certo, per un vampiro normale questo facilitava notevolmente la caccia, ma per quelli come me poteva essere un fastidio non indifferente. È proprio per questo che mi ero sempre chiesta perché la natura ci avesse dotati di quest’arma infallibile, perché avesse dato un potere così grande a delle creature così infime, come se volesse spingerci a dare libero sfogo a tutti i nostri appetiti. Me ne rendevo conto ovunque andassi: nonostante Forks avesse a disposizione un’intera famiglia di vampiri da ammirare, nel momento stesso in cui varcai la soglia della città mi sentii immediatamente al centro dell’attenzione. Sarà stata certamente anche colpa dell’auto (mi rendevo perfettamente conto che il candido bianco perla del mio macchinone attirava non pochi sguardi ammirati, in mezzo a tutte quelle utilitarie grigie), ma ogni singola persona che incontravo sbirciava insistentemente all’interno del finestrino, soffermandosi non più di qualche secondo sulla sfolgorante carrozzeria del mio mezzo, quasi sapessero che alla guida c’era qualcosa di ben più interessante dell’auto stessa.
Come dicevo prima, era un’arma davvero molto, molto potente.
Pericolosissima.
Abbassai il finestrino, non perché volessi facilitare le cose ai passanti, ma perché avevo bisogno di una traccia, di un odore. Ero arrivata a Forks, ma non avevo la minima idea di dove dirigermi; benchè la cittadina fosse così piccola, non mi andava di gironzolare a vuoto. Aguzzai i sensi, annusando il gelido vento che squassava la città.
Muschio.
Per forza, con tutta quella vegetazione; il verde inghiottiva il territorio circostante, non mi sorprese il fatto che quello fosse l’odore predominante. Era anche più forte di quello umano.
Animali. Erbivori…dei cervi, forse.
Legna bagnata.
Benzina. Olio per motori. Qualcuno che riparava un’auto.
Fumo. Legno bruciato, d’acero, di quercia e di frassino. L’odore dei caminetti accesi.
Odore di pioggia, di autunno, freddo, pungente. Il mio preferito.
Poi, tra le migliaia di fragranze diverse che si libravano nell’aria, finalmente la sentii.
Era appena accennato, ma riuscivo comunque a sentirlo distintamente. Era un odore inconfondibile, unico, sarebbe stato impossibile sbagliarsi. Mi affrettai a seguirlo, senza nemmeno guardare la strada, mi bastava l’olfatto per capire che quella era la pista giusta.
La pioggia batteva incessante. Dopo parecchi minuti, in cui ero oramai arrivata oltre il confine della città, la scia cambiò radicalmente direzione; alla velocità a cui andavo, mi ritrovai a dover svoltare bruscamente in una stradina sterrata, seguendo l’odore che via via si faceva più intenso, e un ramo di agrifoglio andò a sbattere violentemente contro la fiancata della mia auto. Avevo abbassato entrambi i finestrini: fogliame, pioggia e terriccio entrò nella mia macchina, ma non me ne curai, me ne sarei occupata più tardi. Non ci pensavo nemmeno a tirare su i finestrini. Dovevo seguire quella scia, ero eccitatissima, non volevo assolutamente perderla.
Poi finalmente la vidi.
Si stagliava maestosa e fiera alla fine di un lungo viale costeggiato da alberi, le cui chiome nascondevano alla vista dei più la radura in cui sorgeva la grande casa bianca. Le luci erano accese, segno che qualcuno era in casa, l’odore inconfondibile. Non riuscii a trattenere un sorriso.
Finalmente, ero arrivata.



***



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Capitolo 4
*** Cap. III ***






***















Il mio arrivo doveva essere già stato annunciato, per cui non mi sorpresi di vedere metà della famiglia Cullen ad aspettarmi sui gradini dell’ingresso. Alice svolgeva alla perfezione il suo compito. Parcheggiai accanto ad una grossa auto nera, e scesi velocemente dal mio mezzo.
Non passò nemmeno un decimo di secondo, che sentii avvolgermi da due braccia stritolatrici. Se mi fosse stato ancora indispensabile respirare, credo sarei morta soffocata.
Riconoscevo quel saluto, affettuoso, per quando poco delicato. Ricambiai l’abbraccio con uno altrettanto spaccaossa, mentre sentivo Emmett scoppiare in una fragorosa risata.
«Hai ancora parecchia strada da fare, ranocchietta», mi disse, allontanandomi da lui per guardarmi, con uno dei suoi giganteschi sorrisi sulla sua gigantesca faccia.
«Devo dire che non sei cambiata affatto», ridacchiò. Un sorriso sornione fiorì sulle mie labbra.
«Nemmeno tu se è per questo….sei sempre il solito orsacchiotto», e gli cacciai la lingua. Mi scompigliò i capelli ridendo, ma non feci nemmeno in tempo a muovermi, che lo vidi saltare da un lato, appena in tempo per lasciare il posto all’assalto del folletto di casa.
Alice mi saltò letteralmente in braccio, buttandomi quasi per terra, strillandomi nelle orecchie la sua evidente gioia nel vedermi. Il suo entusiasmo era contagioso, esattamente come la sua risata.
«Eliaaaaan ma quanto c’hai messo ad arrivare! Non hai nemmeno idea di quante cose ti devo far vedere! Spero ti trattenga qui per un po’ perché c’è un’intera collezione che ho appena creato e Rosalie dopo un po’ si stufa di provare vestiti, ti prego ti prego ti prego devi assolutamente vederli stavolta ho davvero dato il meglio di me! »
Mi venne da ridere. Era qualche centimetro più bassa di me, e i suoi occhioni dorati mi fecero ricordare quanto mi erano mancati quei suoi assalti. La abbracciai stretta stretta.
«Contaci Alice, non vedo l’ora, dobbiamo recuperare il tempo perduto», le dissi sorridendo. Si illuminò in un altro sorriso. «Aaahhhh ne ero sicura, tanto lo sapevo già!». Difficile non crederle, con un potere come il suo. Jasper comparve in un baleno al suo fianco, un sorriso tranquillo sul viso.
«Hai sentito Jazz??? Te l’avevo detto che ne sarebbe stata felice!». Alice non stava davvero più nella pelle. E sapevo perfettamente che aiutare Alice con i suoi vestiti significava trasformarsi nella sua gigantesca Barbie per un lasso di tempo non meglio definito. Probabilmente, se qualcuno non si fosse accorto della mia assenza, mi avrebbe fatto provare vestiti per l’eternità.
«Perdonala, Elian, ma non vedeva davvero l’ora che tu arrivassi, come tutti gli altri del resto. Sono felice di vederti».
Istintivamente mise un braccio intorno alla vita di Alice.
Gli rivolsi un sorriso. «Grazie, Jasper, lo sono anche io». Il mio sorriso si allargò. «E poi non è un problema, mi mancava davvero la prova-vestiti».
Feci l’occhiolino ad Alice, e poi mi voltai verso la persona che stava scendendo piano le scale d’ingresso, venendomi incontro sorridendo. Rosalie mi abbracciò in silenzio, e io ricambiai il suo abbraccio.
«E’ bello averti qui», mi disse infine. «Sei mancata molto a tutti noi».
«Grazie Rose», dissi sorridendo, «mi siete mancati tanto, tutti voi».
Mi erano mancati davvero, molto più di quanto avessi mai potuto immaginare. Mi guardai intorno, non mi ero allontanata che di un paio di metri dalla mia auto.
Ero curiosa. «E gli altri? Non ci sono?».
Jasper mi fece un sorrisetto. «Sono dentro che ti aspettano».
Chissà perché loro erano venuti ad accogliermi fuori, mentre gli altri erano rimasti dentro. Sul momento non capii. Li precedetti sulle scale che portavano all’ingresso. La porta era aperta, ero ansiosa di andare a salutare il resto della famiglia. Ed i suoi nuovi membri.



***



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Capitolo 5
*** Cap. IV ***







Ciao a tutti! Innanzitutto, grazie mille a chi ha messo questa soria tra i preferiti, a chi ha commentato e a chi si è limitato a leggere senza commentare... spero davvero che vi sia piaciuta fino ad ora...
Approfitto anche per soddisfare qualche curiosità... spero di non deludere le aspettative, ma no, Elian non è un'ex di Edward...:)
Ha una storia tutta sua, molto personale, a mio avviso anche decisamente interessante... ma sarà lei stessa a raccontarcela tra qualche capitolo...:)
E ora...Buona lettura!!!




***















Quando varcai la soglia di casa Cullen, avvertii immediatamente un insieme di cose nuove, bizzarre.
Primo: un fetore tremendo mi colpì al naso come una mazza da baseball, facendomi storcere il naso. Che schifo. Ma che diavolo era?
Secondo: insieme a quella puzza, sebbene più debole, mi arrivò un odore dolce e caldo, come miele, accompagnato dal veloce battito di un piccolo cuoricino.
Il mio sguardo andò istintivamente al divano bianco posizionato al centro del salotto. Erano tutti li: Carlisle, in piedi appoggiato allo schienale del divano, Esme, Edward ed una ragazza che ancora non conoscevo. Carlisle mi rivolse un grande sorriso quando mi vide, mentre Esme si alzò del divano, e le andai incontro. Mi abbracciò forte quando la raggiunsi. «Elian, cara…è bello che tu sia venuta».
Esme era una sorta di madre per tutti i Cullen, e in un certo senso l’avevo sempre considerata così anche io: era la cosa più vicina ad una mamma che conoscessi.
«Benvenuta Elian», il sorriso il Carlisle si allargò, «aspettavamo con ansia il tuo arrivo».
Rivolsi un sorriso ad entrambi, poi guardai Edward. Il suo sorriso era ancora più largo di quello di Carlisle, se possibile, ma non si muoveva dal divano, il braccio attorno alle spalle di una ragazza che non conoscevo.
Era minuta, con lunghi capelli castano scuro. Dal modo in cui l’abbracciava, doveva essere Bella. Tanya ne aveva fatto una descrizione molto simile, quando, qualche settimana prima, ero passata da lei. Mi guardava con un piccolo sorriso, ma non aveva ancora detto nulla.
Ammetto che è molto meglio di quello che mi aspettavo, e mostrai ad Edward l’immagine mentale che mi ero fatta di Bella, secondo la descrizione che ne aveva fatto Tanya. Scoppiò in una fragorosa risata.
«Bè», disse Edward, «Tanya non è stata molto clemente». Lesse ancora nei miei pensieri le parole con cui mi era stata descritta la ragazza che aveva fatto perdere la testa ad Edward. Anonima e non eccessivamente bella, che cattiva che è stata, pensai. Io la trovo molto, molto carina. Edward rise, e finalmente si alzò in piedi per salutarmi, prendendo Bella per mano.
«Era ora che arrivassi piccola», disse Edward sorridendo.
Bella mi guardava con gli occhi sgranati, timida. Abbracciai Edward, scoccandogli un rapido bacio sulla guancia, e mi voltai verso di lei, rivolgendole un gran sorriso.
«E’ un piacere conoscerti Bella, finalmente», le dissi.
«Anche per me, Elian», e mi sorrise timida a sua volta, «ho sentito molto parlare di te».
«Ah, sicuramente non più di quanto abbia saputo io su di te, sei un argomento di conversazione parecchio interessante e discusso, tra i nostri amici». Guardai Edward, sapeva perfettamente a chi mi riferivo. Si limitò a sorridere, senza commentare.
«Ah si?», mi chiese Bella, spostando lo sguardo, curiosa, da me a Edward.
Scoppiai a ridere. «Bè, diciamo che ne avete combinate parecchie, voi due, e ne ho sentito davvero delle belle sul vostro conto».
Sentii ridacchiare qualcuno alle mie spalle, e riconobbi Emmett. Poi, la mia attenzione fu catturata da un’altra risata, dolce, piccola, cristallina, che proveniva dalle spalle di Edward e Bella. Guardai oltre le loro teste, verso la porta del retro, che nel frattempo si era aperta. La puzza terrificante si fece più intensa, e vidi con la coda dell’occhio Edward ridacchiare alla mia espressione disgustata.
Poi vidi una cosa che mi lasciò sbalordita. Una piccola figura, con dei lunghi boccoli biondo scuro, avanzava saltellando con grazia lungo il salotto, verso dove mi trovavo io. Si fermò a pochi passi da Bella, e mi guardò dritto negli occhi. Poteva avere all’incirca sei o sette anni, era magra, slanciata e piuttosto alta; eppure, da quegli occhi color cioccolato, sembrava una ragazzina molto più grande della sua età, lo sguardo sveglio e intelligente. Mi scrutava curiosa, esattamente allo stesso modo in cui la guardavo io; solo che io ne ero rimasta letteralmente incantata, quella piccola figura emanava un fascino e un’attrattiva incredibile. Era la bambina più bella che avessi mai visto.
«Elian», la voce di Edward era colma di orgoglio, «lei è Renesmee, nostra figlia».




***



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Capitolo 6
*** Cap. V ***






***















Caspita. Non avevo mai visto niente del genere. Edward gongolò nel sentire i miei pensieri. «E’ straordinaria». Guardavo quella meraviglia nascosta dietro alle ginocchia della madre, e non riuscivo a credere che quella fosse davvero una bimba reale. Possibile che fosse nata appena due anni prima?
Lei mi restituì lo stesso sguardo curioso di prima, senza parlare. Mi piegai sulle ginocchia, e le rivolsi un sorriso. Lei ricambiò, e fece per avvicinarsi a me, senza timore. Si muoveva con una grazia degna di un cigno, e, quando fu a pochi centimetri da me, si fermò. Tese le piccole mani verso il mio viso, e ricordai quello che mi avevano detto a Denali, sul modo di comunicare della bambina. Le feci un gran sorriso, e chiusi gli occhi, aspettando pazientemente.
Quando mi mise le mani sulle tempie, un fiume di immagini colorate, nitide e distinte mi invase la mente.
Vedevo Edward e Bella in un luogo che non conoscevo, sembrava una piccola abitazione di pietra; poi, un piccolo letto in ferro battuto, all’interno di una luminosa camera con il pavimento di legno chiaro.
Sorrisi. Mi stava mostrando alcune cose della sua vita. «E’ la tua cameretta? E’ davvero molto carina». La sentii ridere, e le immagini cambiarono.
Vidi un ragazzone alto e scuro che correva nella foresta, lo vedevo ridere e giocare con lei; non lo conoscevo, ma percepivo chiaramente l’affetto profondo che li legava. Vidi i volti di tutti i presenti, momenti di vita quotidiana; poi un altro volto che non conoscevo, un uomo dai capelli scuri, stempiato, con una divisa da poliziotto, che rideva beato tenendola in braccio.
Poi, nuovamente, mi mostrò Edward e Bella; sentivo chiaramente quello che le stavano dicendo, parlavano di me.
«Vuole mostrarti che ti conosce», disse Edward sorridendo. «Le abbiamo parlato di te, e lei vuole che anche tu sappia qualcosa di lei».
«Lo vedo, lo vedo», dissi a mia volta ridendo, «ho visto molte cose di te, piccola. Sono contenta di conoscerti finalmente».
Aprii gli occhi, e vidi il visetto di Renesmee illuminarsi in un sorriso.
«Anche io, zia Elian». Zia Elian. Che carina! Era la prima volta che la sentivo parlare, aveva una vocina piccola, dolce, come il canto di un usignolo. Quella bimba aveva stregato anche me.
Spostai lo sguardo su Edward, che lesse la domanda nella mia mente.
«E’ il padre di Bella l’uomo in divisa che hai visto». Lesse lo stupore nel mio volto, e mi girai immediatamente verso Bella. Edward mi anticipò. «Non sa niente, non ha voluto», disse con un’alzata di spalle, «si accontenta di sapere il meno possibile, e in più è pazzo di Renesmee».
Guardai Bella, che guardava adorante la sua bambina. «Sei davvero molto fortunata, non c’è che dire». Mi rivolse un sorriso luminoso. «Lo so Elian, lo sono davvero».
«Un’altra cosa», dissi, ripensando alle immagini che avevo appena visto, «chi è lui?».
Riconobbi, a pochi passi da Renesmee, il ragazzone bruno che avevo visto nei ricordi della bambina. Era gigantesco, molto più grande di un normale essere umano, i capelli e gli occhi neri, le robuste braccia incrociate sul petto immenso. Guardava la piccola con un misto di amore e venerazione, uno sguardo diverso da quello dei genitori, molto, molto più intenso. E non ne capivo la ragione.
Senza contare il dettaglio più importante, il fetore che avevo sentito appena messo piede nella casa, adesso ne ero sicura, proveniva indubbiamente da lui. E gli esseri umani non avevano quell’odore.
Fu Bella a parlare. «Lui è Jacob, ed è un nostro caro amico», disse tranquilla.
Il ragazzo di nome Jacob alzò riluttante gli occhi verso di me, gettandomi un rapido sguardo. «Cia’», disse a malapena, e tornò a fissare Renesmee. C’era qualcosa di strano, e continuai a fissare il ragazzone chiamato Jacob con sguardo interrogativo.
Edward lesse il dubbio in me, e soffocò una risata. «Elian, è tutto a posto».
Appunto. C’era decisamente qualcosa che non andava.
«Ragazzi, cosa mi sono persa?».



***



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Capitolo 7
*** Cap. VI ***






***















«E’ la storia più assurda che io abbia mai sentito».
Durante tutta la spiegazione dei Cullen a quella storia pazzesca, non avevo staccato gli occhi di dosso a Jacob e Renesmee.
Io credevo che a Denali mi avessero raccontato tutto quello che era successo nell’ultimo periodo. Invece, adesso mi rendevo conto che erano stati molto più che vaghi. Non mi avevano detto praticamente un accidente.
La figlia di un’umana e di un vampiro con un licantropo. Imprinting. Volturi. Eserciti di vampiri. Per la prima volta da quando ero stata trasformata, sentii la testa piena di informazioni. E per riempire la testa di un vampiro ce ne voleva.
«Sono allibita», dissi guardando i volti delle persone davanti a me, divertite dalla mia espressione sconvolta, «uffa…mi sono persa il meglio!».
Guardai, dalla parete di vetro del salotto, Renesmee saltare in groppa a Jacob, che per confermare ulteriormente la storia aveva insistito per trasformarsi davanti a me in un grosso lupo, e ora giocavano tranquillamente in giardino, mentre il resto della famiglia era in casa. Aveva smesso di piovere, ma i nuvoloni non accennavano ad andarsene.
«All’inizio è sembrato strano anche a noi», disse Edward, prendendo la mano di Bella, «non è stato facile, ma è un qualcosa che non si comanda…e poi Nessie è felice». Bella, accanto a lui, sorrise, guardando la bambina che giocava spensierata con Jacob.
«Bè, non c’è che dire», dissi io dopo qualche minuto, in cui metabolizzai tutti quei nuovi strani equilibri, «sinceramente, non riesco a capire chi sia il più felice, se Jacob o Nessie». Scossi il capo, mentre Jacob si buttava a terra fingendo di soccombere ad un attacco di Renesmee, che rideva con la sua risata simile ad un sottile scampanellio.
«Piuttosto», disse Carlisle, seduto su una poltroncina davanti a me, «tu cosa hai da raccontarci? Sono quasi sette anni che non vieni a trovarci».
«Lo so, lo so, vi chiedo scusa se sono sparita». Sospirai. «Mi dispiace anche di non essere stata presente con i Volturi, se solo avessi saputo…». Strinsi i denti, al pensiero di quello che sarebbe potuto succedere. Avrei dato qualsiasi cosa per essere li, insieme a loro, tutta la gran corte al completo. Sentii un’immensa rabbia montarmi dentro, mentre pensavo a quell’ammasso di gentaglia, che tante vite aveva rovinato. Jasper mi guardò di sottecchi, dall’altra parte della stanza, mentre Edward sussultò.
«Elian…»
«Colpa nostra». Rosalie scese le scale, seguita a ruota da Emmett. «Ti abbiamo cercata dappertutto, ma non c’è stato verso di rintracciarti. E, credimi, ti abbiamo cercato davvero tanto».
Cercai di rilassarmi. «Si Rose, capisco, ma non è stata colpa vostra», dissi cercando di controllare la voce, mentre la rabbia sfumava, «sono rimasta nascosta per un po’ di tempo, ho avuto qualche problemino di convivenza nella città in cui vivevo…la gente iniziava a fare un po’ troppe domande, ed ho preferito sparire per qualche tempo dalla circolazione». Le sorrisi.
Emmett ridacchiò. «Certo che quando vuoi nasconderti riesci a farlo davvero alla grande, piccoletta».
Gli lanciai un’occhiata superba. «Lo so perfettamente», e gli cacciai la lingua. Emmett riusciva sempre a scatenare la parte più infantile di me.
«Bè», disse Carlisle sorridendo, «adesso non ha più importanza. Il peggio è passato, non devi più preoccuparti».
Sorrisi anche io, pensierosa. Ecco, forse, le uniche persone a cui i Volturi non avevano rovinato la vita. La mia espressione si incupì, mentre mi alzavo dal divano, sotto lo sguardo improvvisamente preoccupato di Edward, diretta verso la grande vetrata del salone.
Guardai il mio riflesso nel vetro, e sospirai. Erano passati tanti, tanti anni. Eppure non erano ancora abbastanza. Chissà se sarebbe mai passato abbastanza tempo.
Intanto, Jacob e Renesmee erano rientrati in casa, lui di nuovo con sembianze umane, mentre il resto della famiglia era impegnato in varie attività quotidiane. Io, nel frattempo, ero rimasta in piedi davanti alla parete trasparente, guardando fuori. Le nuvole si erano rischiarate, non erano più nere come prima, e lasciavano intravedere qualche piccolo spiraglio di cielo azzurro, da cui facevano capolino sottili spicchi di luce solare.
Ad un tratto vidi Bella, in piedi dietro di me, che mi guardava incuriosita. Mi voltai, ed i suoi occhi gentili e timidi allo stesso tempo cercarono i miei.
«Elian», parlò esitante, «ti va di venire a caccia? Avevo in programma di andare con Jacob e Renesmee, e mi farebbe piacere se venissi anche tu».
Non era un cattivissima idea. Non avevo particolarmente bisogno di andare a caccia, visto che c’ero stata già due giorni prima, ma era comunque un modo per fare qualcosa. E poi ero davvero curiosa di vedere la piccola Nessie all’opera.
Le rivolsi un sorriso. «Ci sto».



***



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Capitolo 8
*** Cap. VII ***






***















Non si era ancora fatto buio quando uscimmo per la battuta di caccia. Tutto il resto della famiglia era in casa, ad eccezione di Carlisle, che si era scusato per la chiamata d’urgenza in ospedale, ed era scappato via.
Nei pressi della foresta, Jacob e Renesmee ci precedettero, dando il via ad una gara a chi avrebbe preso la preda più grossa. Lasciai che Bella mi precedesse di qualche secondo, e mi lanciai anche io nella corsa.
La foresta era umida, impregnata di odore di pioggia, di muschio e muffa; il terreno soffice e bagnato scivolava rapido sotto i miei piedi, senza che mi lasciassi dietro impronte, mentre la luce del tardo pomeriggio illuminava di smeraldo, ambra e rubino le rade chiome degli alberi che ancora resistevano in quel finire di autunno, cariche di limpide gocce di pioggia.
Dopo qualche minuto, riuscii a sentire distintamente l’odore di un branco di cervi, il battito pesante dei loro cuori. Mi affiancai a Bella, e le indicai il punto da cui sentivo provenire l’odore, ma anche lei era riuscita a sentirlo. Scattammo insieme in quella direzione, e, dopo pochi secondi, nei pressi di un piccolo ruscello, trovammo tre cervi adulti. Bè, noi eravamo quattro, ed io potevo tranquillamente farne a meno. Mi fermai a guardare Bella, e le feci segno di andare avanti; lei mi fece un sorriso, e scattò in direzione dei cervi. Saltai sul ramo di una quercia li accanto, e mi apprestai a godermi lo spettacolo.
Vidi immediatamente Renesmee avventarsi su quello più grande, scavalcando con un salto aggraziato il licantropo, che poco prima era riuscito a superarla di un centinaio di metri, e subito dopo Jacob lanciarsi sul secondo. Bella li lasciò fare, prima di rincorrere il terzo. Una volta terminato l’assalto, la piccola Nessie non aveva nemmeno una piccola goccia di sangue sul vestitino azzurro.
Sorrisi, era davvero brava. Come suo padre.
Scesi dall’albero, e mi avvicinai alla piccola sorridendole. Non prestai attenzione a Bella e Jacob, che ci raggiunsero poco dopo. Lei ricambiò il sorriso, mentre Jacob mugolava sconfitto contro il suo visetto.
«Povero Jacob, battuto dalla nostra piccolina».
Bella rise. «Tanto va sempre a finire così», disse, dando un colpetto sul collo peloso di Jacob, «finora ha sempre vinto la mia bambina».
Renesmee fece una piccola risata, poi, tirando Jacob per il pelo, si lanciarono nuovamente nella corsa, dando il via ad una nuova gara.
«Non ama particolarmente parlare, eh?».
Bella si voltò a guardarmi. «No, no particolarmente», ammise, «però devo ammettere che il suo modo di comunicare a volte è più efficace delle parole».
Eh si, questo dovevo riconoscerlo. Mentre parlavamo ci lanciammo anche noi nella corsa, inseguendo a breve distanza Jacob e Renesmee, che sembravano divertirsi come matti.
«Non hai idea di quanto tu sia fortunata, Bella», le dissi, «chiunque pagherebbe per avere quello che hai tu». Sorrise, guardando avanti a se. «So perfettamente di esserlo, più di quanto io abbia mai sperato».
«Sei famosa tra i vampiri, sai?»
Lei si voltò a guardarmi, gli occhi sgranati. «E perché mai dovrei esserlo?».
«Cinque anni fa è stato soprattutto merito tuo se non si è verificato il massacro che tutti si aspettavano», la mia voce si incupì, «non conosco molte persone ancora in grado di poter raccontare un incontro del genere con i Volturi».
Non mi resi conto se fosse stato per i ricordi che le avevo evocato, o per la mia voce improvvisamente tetra, ma sentii Bella rabbrividire al mio fianco. Rimase in silenzio per quasi due minuti, nei quali continuammo a tenerci vicine a Jacob e Renesmee, che si stavano godendo la battuta di caccia tranquillamente. Guardai il cielo: il sole era ormai quasi tramontato, e le nubi, dopo la breve tregua pomeridiana, si erano nuovamente ammassate nel cielo.
«Elian…». La voce di Bella era pensierosa, quasi timorosa. Fece una piccola pausa, in cui capii che aveva qualcosa in mente. Mi ero aspettata che la caccia fosse solo una scusa per parlarmi in privato, in fondo lei era l’unica Cullen con cui io non avevo mai avuto a che fare, ed io ero l’unico membro della famiglia che le fosse estraneo. Stavo solo aspettando il momento in cui sarebbero partite le domande.
«Dimmi Bella». Aspettai pazientemente che parlasse. «Non vorrei sembrarti un’impicciona…».
«Non lo saresti, Bella. Facciamo parte della stessa famiglia, anche noi abbiamo diritto di conoscerci».
Sorrisi, e lei fece altrettanto.
«Ho notato che diventi strana ogni volta che si nominano i Volturi, ma non ne ho capito il motivo. Mi chiedevo come mai…».
Rallentai l’andatura, e lei si adeguò alla mia velocità.
Ecco una domanda che non mi ero aspettata. La guardai, stupita.
«Non sei obbligata a rispondere, ovvio», si affrettò a dire, «è solo che ho visto la tua reazione, e l’espressione preoccupata di Edward… se non puoi non ci sono problemi. Non voglio essere impicciona».
Aveva frainteso la mia esitazione. «Bella, no, non preoccuparti, non sei affatto un’impicciona», le sorrisi, per tranquillizzarla, «è solo che… non mi aspettavo che me lo chiedessi. In effetti, pensavo lo sapessi già».
Stavolta fu lei a guardarmi sorpresa. «No, Elian, non lo so davvero».
«Non ti hanno raccontato la mia storia?».
Scosse la testa. «Diciamo che non sono scesi nei dettagli. Mi hanno spiegato chi sei, e che hai vissuto con loro per un po’».
«Nemmeno Edward?».
Rispose con un’alzata di spalle. «Edward pensa di sapere già troppo delle persone, ed evita accuratamente di parlare delle vite altrui. Preferisce di gran lunga che siano loro a farlo; se posso, evito anche di chiederglielo».
Tipico di Edward. «E’ sempre stato un gentiluomo».
Nel frattempo, ci fermammo in una piccola radura. Sentii qualcosa sfiorarmi la guancia, e alzai gli occhi al cielo. Stava cominciando a nevicare. La prima neve della stagione. La più bella.
Mi appoggiai al tronco di un albero, in silenzio, ai margini della radura. Nessie e Jacob si erano riavvicinati a noi, e ora inscenavano una lotta in pieno stile in mezzo all’erba bassa. Bella era accanto a me, e li guardava, ma con la coda dell’occhio mi osservava incuriosita, stava aspettando.
Guardai la neve scendere piano, fredda, eterea, delicata. Allungai per un momento una mano in avanti, e chiusi il pugno nell’aria. Quando lo riaprii, nel palmo della mia mano c’era un piccolissimo fiocco di neve. Era perfetto, senza nemmeno l’ombra di un difetto. Richiusi il pugno per un secondo e, quando lo aprii un’altra volta, il cristallo di ghiaccio era ancora li, intatto. Sembrava così fragile, eppure rimase esattamente com’era, sulla mia pelle.
Freddo, immutato. Perfetto. Gelido.
Non si scioglieva a contatto con la mia pelle.
Effettivamente, come avrebbe potuto? Io ero come lui.
Ero fredda, dura, gelida. Esattamente come il ghiaccio.
Come la neve.
Rimasi così per qualche minuto, poi feci un profondo sospiro.
«Bella, non è un caso se continuo a ripeterti quanto sei fortunata. In te vedo tutto quello che una persona dovrebbe avere. La felicità che hai tu, per i più è solamente un miraggio, un doloroso miraggio. La vita non è sempre giusta, anzi, il più delle volte non lo è affatto».
Un sorriso amaro mi fiorì sulle labbra, mentre parlavo. «Non ho la pretesa di dire che io meritassi di più di quello che ho avuto, ma chi non desidera la felicità? Io, però, ho commesso il grandissimo errore di credere che fosse possibile.
Bella, ho fatto tante cose di cui non vado orgogliosa, e altre che invece rifarei all’infinito; ho fatto tantissimi errori, e adesso ne sto ancora pagando il prezzo.
Vorrei poter dire il contrario, ma, purtroppo, la mia storia non sarà bella come la tua».



***



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Capitolo 9
*** Cap. VIII ***





Qui Elian inizia a raccontare la sua storia:)
Ammetto di aver faticato non poco sui libri di storia per cercare di inserire questo racconto nella realtà, quindi se qualcosa non combaciasse proprio perfettamente chiedo umilmente scusa...:(
Spero comunque che vi piaccia:)
Adesso, passo la parola a Elian...




***















Riaprii la cassaforte in cui avevo rinchiuso tutti i vecchi ricordi dolorosi, e li lasciai fluire, liberi.
Iniziai a parlare con voce tranquilla. «Sono nata nel 1710, in Scozia. Vivevo in un piccolo villaggio, a qualche giorno di viaggio da Glasgow. Ero la quarta di sei figli, famigliola numerosa, eh?
Inoltre, ero l’unica figlia femmina. Sin da piccola sono stata abituata a non farmi mettere i piedi in testa dai miei fratelli, ho imparato a farmi rispettare, a fare la voce grossa quando qualcuno se la prendeva con me; insomma, ero un bel peperino.»
Feci una pausa per riempire i miei polmoni di aria; Bella continuava a guardarmi, paziente, aspettando che continuassi.
«Mia madre era una donna dolce, la classica mamma chioccia; mio padre, invece, era un uomo davvero straordinario, tenuto in grande considerazione da tutti in paese, un gran lavoratore, saggio, divertente, calmo, e molto, molto forte; aveva delle idee ben precise sulla religione e sul pensiero dell’epoca, ma non era certo un fanatico o altro, era solo un uomo molto intelligente. Si chiamavano Margaret e Connor Rosemberg. Lavoravano, come tutti gli adulti del paese, nelle terre che circondavano la zona; eravamo una piccola comunità cattolica e vivevamo in pace, sebbene quasi completamente isolati del resto del mondo. Le notizie delle guerre e degli scontri dell’epoca ci sfioravano appena. All’epoca, i cattolici non erano visti di buon occhio dal governo, e c’erano parecchi esaltati che volevano la soppressione della nostra religione; ma noi non avevamo mai dato fastidio a nessuno, anzi, facevamo di tutto per renderci invisibili agli occhi altrui.
Io avevo sedici anni, ero un maschiaccio, eppure non mi mancavano i corteggiatori, anche in una comunità piccola come la mia ».
Mi scappò un sorriso, al ricordo di quegli anni così lontani. «Eppure, evidentemente, quello che facevamo per vivere in pace non era abbastanza. All’epoca ero piuttosto felice; non avevo grosse pretese, mi divertivo, come una qualsiasi altra ragazza della mia età».
Feci un profondo sospiro, e vidi Bella stringere gli occhi, intuendo che, da quel momento, la storia avrebbe preso una piega diversa. La mia voce si fece più dura.
«Non continuerò ad annoiarti con questi dettagli, quindi andrò subito al sodo. Ricordo che era una giornata piovosa, ed i miei genitori erano tornati prima dai campi. C’eravamo tutti a casa, quando sentimmo qualcuno gridare. Mio padre si affacciò fuori, per vedere cosa stesse succedendo. Senza dire una parola si lanciò verso la gente che stava gridando, e io mi precipitai fuori dietro di lui.
Era uno spettacolo che gelava il sangue. Vedevo un gruppo di persone avanzare minacciose verso di noi, la gente gridava e non avevo la minima idea di quello che stava succedendo. Vidi mio padre tornare indietro, verso di noi, terrorizzato. Disse che dovevamo scappare, metterci in salvo immediatamente, che erano venuti a prenderci. Cercava di spingere via me e i miei fratelli, ma io non riuscivo a muovermi. Non capivo, non avevo idea del perché quelle persone avrebbero dovuto farci del male. La spiegazione era talmente ovvia che non la focalizzai immediatamente.
Credo tu abbia sentito parlare delle persecuzioni all’epoca di Carlisle», mi rivolsi direttamente a Bella, che mi ascoltava in religioso silenzio. Mi rivolse uno sguardo interrogativo.
«Si, Edward mi ha raccontato, di Carlisle e tutto il resto. Ma quello che mi hanno raccontato è avvenuto mezzo secolo prima che tu nascessi…»
«Mezzo secolo non basta per estirpare la follia nella mente delle persone, Bella», feci un sorriso, davanti ai suoi occhi sgranati. «Quelle persone erano venute a punire il nostro stile di vita cattolico e pacifico. Si trattava di un gruppo di fanatici religiosi, come ce n’erano tanti all’epoca, solo che loro, a differenza degli altri, erano vagabondi, armati e pericolosi, inoltre piuttosto numerosi. Un piccolo esercito indipendente. Girovagavano per tutto lo Stato in cerca di piccole comunità cattoliche come la nostra, per distruggerle, e non si fermavano mai troppo a lungo in un posto. All’epoca si pensava fosse solo leggenda, storie inventate per coprire faide e lotte per il potere che lasciavano profonde scie di sangue. Ma non era così».
Bella mi guardò dubbiosa. «Elian, se erano davvero così temibili, perché nessuno provava a fermarli? Erano dei barbari! Come mai nessuno li ha mai denunciati?»
«Perché nessuno sopravviveva così a lungo da poterlo raccontare».
Bella ammutolì. Qualcosa nel mio tono di voce doveva averla spaventata, perché, quando mi voltai a guardarla, aveva le labbra contratte, e gli occhi sbarrati.
«Bella, devi capire una cosa», dissi, cercando di mantenere la voce calma, «quelle… persone, quella gente, non aveva interesse a farsi scoprire. Si ritenevano dei giustizieri, che agivano nell’interesse comune, ed in effetti era così, perché le persone che ne erano a conoscenza non fecero mai nulla per fermare le carneficine, che vennero tutte insabbiate alla grande. In fondo, faceva solo comodo all’epoca avere qualcuno che facesse il lavoro sporco, per di più gratis», aggiunsi, in tono sarcastico. «Noi eravamo solo dei sacrifici per qualcosa di più grande».
«E cosa successe?», disse Bella in un sussurro.
«Ci attaccarono», dissi con un’alzata di spalle. «Era troppo tardi per scappare. Mio padre corse in casa a prendere un’arma, e i miei tre fratelli più grandi lo seguirono, sebbene sapevano che molto probabilmente sarebbe stato inutile. Mia madre prese i miei fratelli più piccoli, e cercò di trascinare via anche me. Ma io volevo restare, volevo combattere. Non sarei mai scappata via, non ne ero capace. Mia madre cercò di tenermi con tutte le sue forze, mi inondò di lacrime, ma le urlai di andare via, di portare i miei fratellini in salvo, con lei e le altre donne del paese.
Mi divincolai, e corsi verso casa, senza mai voltarmi. Molti uomini stavano già cercando di fermare l’attacco, ma loro avanzavano.
Sembravano dei demoni. Presi la prima cosa che trovai, una lunga falce per il grano, e iniziai a correre verso quella marmaglia. Ricordo di essere passata davanti ad una stalla, e di essere saltata in groppa al primo cavallo che vidi. Così sarei stata avvantaggiata.
Galoppai verso di loro, in meno di un minuto ero al centro dell’inferno. Quelle belve, vestite di nero, avevano già fatto a pezzi metà della mia gente. C’era sangue ovunque, corpi straziati di persone con cui avevo condiviso tutta la mia vita, uno scempio totale. Ricordo la furia improvvisa che mi invase il cervello e mi annebbiò la vista, mentre abbassavo la mia arma improvvisata su quelle belve. Non so quante ne ho colpite, o quante ne ho calpestate, ma spero vivamente di averne spedite all’altro mondo un bel po’.
Ma loro erano in troppi, e noi non sapevamo combattere. Vidi l’istante esatto in cui uno di loro trafisse con una spada uno dei miei fratelli, mentre mio padre combatteva qualche decina di metri più in là. Accanto a lui, steso a terra, c’era un altro dei miei fratelli, già morto. Cercai con tutte le mie forze di farmi strada verso mio padre, ma, poco prima che potessi raggiungerlo, cadde a terra, proprio sotto i miei occhi. Era troppo tardi».
Mi fermai un momento. Avevo ripensato talmente tanto a quelle immagini, a quelle scene, che era come riviverle un’altra volta, daccapo; non volevo correre il rischio di dimenticarle, e avevo fatto in modo che rimanessero per l’eternità marchiate nella mia mente.
«Io non mi davo per vinta. Anzi, volevo con tutte le mie forze che quella feccia soffrisse, come in quel momento stavo soffrendo io, e lanciavo a destra e sinistra fendenti a chiunque mi capitasse a tiro. Poi, sentii qualcosa colpirmi con violenza alla schiena, facendomi quasi perdere i sensi.
Da quel momento, i miei ricordi diventano un po’ confusi. Ricordo solo di essere stata trascinata giù dalla sella, e sbattuta a terra. Sentivo il sangue bagnarmi la faccia, e supposi fosse il mio. Ricordo gente che mi correva intorno, che urlava, che mi calpestava, ma nessuno più faceva caso a me.
Sapevo che era finita. Aspettavo solo di morire. Poi tutto divenne buio».
Il ricordo mi fece rabbrividire. Mi ero completamente dimenticata di Bella, e mi voltai verso di lei. Era ancora accanto a me, immobile, e mi ascoltava, sempre con gli occhi sbarrati. Intanto, la neve aveva ricoperto tutto il paesaggio intorno, sotto una candida coperta di ghiaccio. Il bianco totale dei dintorni faceva quasi male agli occhi. Sorrisi tetra. «Ma non era ancora arrivato il mio momento».



***



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Capitolo 10
*** Cap. IX ***






***















Ripresi a parlare, e la mia voce suonò lontana, come se fosse un’altra persona a parlare.
«Mi svegliai, non so come. Non riuscivo ad aprire gli occhi, sentivo il corpo intorpidito e dolorante, ma ero viva. Impiegai qualche minuto a riprendere coscienza del mio corpo, come se mi fossi scordata come si usava. Sentivo un dolore assurdo ad un braccio, ma il fatto che mi facesse male voleva dire che ce l’avevo ancora attaccato al corpo, il che era una consolazione». Risi, una risata senza allegria. «Non avevo idea di quanto tempo fosse passato, ma nel limbo in cui mi trovavo riuscii a sentire chiaramente una cosa: il silenzio. Nessun rumore metallico, nessun grido, nessun lamento. L’inferno era cessato.
Riuscii a issarmi su un braccio, a fatica. Quando aprii gli occhi non vedevo bene, era tutto sfocato, confuso, e mi girava la testa. Dovevo aver perso parecchio sangue.
Eppure ero viva. Nonostante avessi parecchie ossa rotte, e nonostante il quantitativo assurdo di sangue perso, ero sopravvissuta. Non so spiegarti la felicità folle che mi invase in quel momento, una felicità completamente insensata. Eppure c’era qualcosa di strano, qualcosa che non mi spiegavo.
C’era troppo silenzio.
Era innaturale. Sentivo solo il fischio del vento, e nient’altro. Cominciai ad avere paura. Mi guardai intorno, ma non riuscivo a distinguere niente. Impiegai qualche minuto a mettere a fuoco il paesaggio intorno a me, e allora capii.
Ero circondata da cadaveri. Ero rimasta esattamente nel punto dove era stata disarcionata, ma tutto intorno a me era una distesa di morte. Mi dimenticai immediatamente del dolore, e saltai in piedi. Scavalcai i corpi dei miei amici, della mia gente, e corsi a perdifiato fino al punto in cui si sarebbero dovuti rifugiare mia madre e le altre donne, i bambini. Lungo la strada li incontrai. Non ci erano mai arrivati. Ero rimasta sola. Era inutile oramai piangere, gridare. Ero come in trance, il mio corpo si muoveva ma il mio cervello ero completamente scollegato, non sentivo il dolore, non sentivo niente. Sapevo solo che dovevo andare via da li, che non potevo più rimanere.
Ma non potevo lasciarli così. Non so nemmeno io dove ho trovato le forze, ma non ce la facevo la lasciare tutte quelle persone a me care in quello scempio assurdo.
Impiegai una settimana a seppellirli tutti. Centosessantaquattro anime. In quei giorni, mi sentii un fantasma anche io. Non erano riusciti ad uccidermi, ma io ero morta comunque».
Bella mi osservava inorridita, sembrava ancora più bianca del normale. Mi pentii immediatamente di essere stata così dettagliata.
«Oh, Bella, perdonami», le dissi, mortificata, «non volevo turbarti. Mi sono lasciata prendere un po’ la mano».
«Sto bene», mi disse lei con voce roca, anche se si vedeva lontano un chilometro che non era affatto vero. «Voglio sentire anche il resto», insistette. «Che cosa hai fatto… dopo?»
Sospirai. «Bè, quando finii, ripresi un po’ di lucidità, e fu come se qualcuno mi prendesse a schiaffi in faccia. Il dolore che mi aveva inghiottito fino a quel momento lasciò spazio ad una rabbia inumana. Adesso avevo chiaro in mente quello che avrei dovuto fare: giustizia. Non avevo idea di come avrei fatto, ma volevo che quei mostri pagassero.
Volevo che soffrissero come loro avevano fatto soffrire me e i miei amici. Li volevo uccidere tutti con le mie mani.
Quella rabbia nuova ed accecante mi restituì le forze, bruciavo dalla voglia di fare qualcosa, di muovermi, di agire. Mi balenò in mente un’idea, pazza, assurda, ma mi aggrappai a quella con tutte le mie forze.
Oltre la collina, nascosta dal bosco, si diceva vivesse uno stregone, una specie di demonio. Le persone che dicevano di averlo visto lo descrivevano come un uomo dall’aspetto bellissimo, ma nessuno sapeva descriverlo con più accuratezza; era come un’apparizione, non era possibile vederlo per più di qualche secondo.
Io ho sempre creduto che fosse solo una storiella per spaventare i bambini, perché non si addentrassero da soli nel bosco, ma, in quel momento, disperata come ero, decisi di andare a vedere se esistesse veramente. Se era davvero uno stregone, avrei trovato il modo per farmi aiutare. Avrei fatto di tutto.
Sapevo a grandi linee dove dovevo andare, dove era stato visto, e mi inoltrai nel bosco. Mi ci vollero quasi tre giorni di viaggio per arrivare dall’altra parte della collina. Ero stremata, ferita e riuscivo a malapena a reggermi in piedi. Non sapevo dove mi trovavo, andavo avanti alla cieca. Ad un certo punto inciampai e caddi in un cespuglio di rovi. Che fortuna, eh?
Ero piena di tagli e alcune delle ferite che si erano rimarginate ricominciarono a sanguinare. Mi girava la testa. Non riuscii a fare altri due passi che ricaddi nuovamente a terra, ma stavolta non riuscii più a rialzarmi. Sapevo che era finita; sarei morta li, dissanguata o divorata da qualche animale. Eppure mi dava uno strano senso da pace, sapere che di li a poco sarei morta. Avrei smesso di soffrire, per lo meno.
Mi sbagliavo. All’improvviso sentii qualcosa sollevarmi da terra, ma io non riuscivo a vedere cosa fosse, avevo la vista completamente annebbiata. Faceva freddo e avevo i brividi, sembrava che qualcuno mi avesse poggiata su una pietra. Sentivo che mi stavo muovendo, ma non riuscivo a capire niente, mi ronzavano le orecchie, la mia testa era troppo pesante. Poi ridivenne tutto nero».
Mi fermai. Mi ci volle qualche minuto per proseguire, e Bella aspettò che riprendessi a parlare. Non sapevo ancora se ce l’avrei fatta, ma dovevo provarci.
Chiusi gli occhi, e una carrellata di immagini mi passò davanti agli occhi. Si, era ancora sopportabile. Per ora.



***



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Capitolo 11
*** Cap. X ***






***















«Mi svegliai parecchio tempo dopo. Dovevo essere rimasta incosciente per parecchi giorni, perché, quando mi svegliai, mi sentivo quasi bene.
Quando aprii gli occhi, mi trovavo in un posto che non conoscevo. Era una piccola stanza di pietra, e c’erano solo due minuscole finestre, coperte da pesanti drappi di panno; io ero distesa su quello che mi sembrò un letto, perché ero troppo comoda per essere ancora a terra. La casa era illuminata da decine di candele, era un posto che non avevo mai visto. L’arredamento, poi, era del tutto assurdo. Quando cercai di mettermi seduta, mi accorsi di non poter muovere il braccio, e vidi che era stato avvolto stretto intorno ad una stecca, mentre il reso del corpo era ricoperto di bende. Cercai di mettermi in piedi, ma quando ci provai, sentii qualcuno dire: “Non dovresti alzarti, hai perso molto sangue”. Ero convinta di essere sola, ero terrorizzata.
Poi lo vidi».
Mi fermai. Ero sicura che, se avessi continuato, la voce avrebbe cominciato a tremare troppo per far finta di niente. Gli annebbiati ricordi umani correvano veloci nella mia mente, ma il suo viso rimase li fermo, immobile, davanti ai miei occhi.
Era talmente tanto vivido che mi provocò una fitta dalle parti dello stomaco. Era incredibile come i ricordi di quasi due secoli prima potessero ancora fare così male.
Non so se Bella notò il cambiamento del mio tono, ma non fece niente per mostrarmelo. Cercai di continuare a parlare, mantenendo la voce il più possibile ferma.
«Era la cosa più bella che avessi mai visto. Dico “cosa”, perché non riuscii immediatamente a capire chi avevo davanti, non credevo possibile che esistessero degli esseri umani così perfetti.
La creatura incredibile che aveva parlato aveva la voce più melodiosa che avessi mai sentito. Si muoveva piano verso di me; sentivo qualcosa gridare nella mia testa, una voce che mi urlava di scappare via a gambe levate. Ma, anche se avessi avuto tutte le ossa sane, non sarei andata mai via. Io volevo rimanere, desideravo scoprire chi diavolo fosse la persona che avevo davanti.
Mi chiese come mi chiamavo, e io riuscii a malapena a balbettare: “Mi chiamo Elian Rosemberg”. Avanzava piano; quando fu vicino al mio letto rimasi a bocca aperta.
Era un angelo. Non dimostrava più di vent’anni, aveva i capelli corti e neri, e dalle candele riuscivo a vedere chiaramente la figura slanciata, magra; era meraviglioso, come una statua greca.
Qualcosa in lui, però, non quadrava. Aveva la pelle bianchissima, i lineamenti troppo perfetti per essere naturali. La cosa, però, che mi è sembrata assolutamente la più incredibile, era il colore dei suoi occhi».
«Rossi?», chiese Bella, che aveva riconosciuto perfettamente la descrizione di un vampiro.
Scossi la testa, sorridendo. «No, Bella. Erano dorati».
Vidi Bella sussultare per un istante, per poi concentrarsi, probabilmente cercando tra le sue conoscenze qualcuno che corrispondesse alla descrizione che le avevo fatto. Risi alla sua espressione corrucciata. «Non credo tu possa conoscerlo, Bella».
Mi guardò incuriosita. «Io pensavo che solo Carlisle e il clan di Denali fossero vegetariani…»
«Ed è cosi», le dissi io, «lui conosceva Carlisle…o meglio, aveva avuto modo di conoscere il suo stile di vita, e aveva scelto di abbracciarlo. Arriverò anche a quello».
Ripresi il racconto da dove mi ero interrotta, davanti al suo sguardo perplesso. «Era senza ombra di dubbio l’essere più bello che avessi mai visto, era di una bellezza sconvolgente. Nonostante sentissi che dovevo avere paura, nonostante sentissi che era meglio per me scappare, non mi mossi di un millimetro. Ma credo che tu possa capire questa sensazione». Lei come nessuno poteva capirmi, grazie all’amore che l’aveva portata da Edward, contro ogni umano buon senso.
«Capii immediatamente che in lui c’era qualcosa di strano. Intuii che doveva essere lui il fantomatico essere che viveva oltre la collina. Come erano stupide certe credenze popolari», ridacchiai. «Eppure, non riuscivo a darmi una spiegazione migliore. Gli chiesi se era lui quello di cui si parlava nelle credenze locali, e lui per tutta risposta scoppiò a ridere. Non era una risata allegra, mi fece venire i brividi; mi disse che non era niente del genere, e che, non appena fossi stata in grado di camminare, sarei dovuta tornare dalla mia famiglia. Gli dissi chiaramente che non avevo più una famiglia, e solo in quel momento realizzai davvero quello che era successo.
Fino a quel momento non ero stata abbastanza lucida da riuscire a prendere atto del fatto che tutte le persone che conoscevo, la mia famiglia e i miei amici, erano scomparsi. Fu in quel preciso istante che mi ricordai perché ero andata oltre il bosco.
Provai a mettermi in piedi, ma lui mi trattenne sul letto; mi toccò appena un secondo, prima di togliere la mano, che era incredibilmente ghiacciata. Quel particolare mi colpì particolarmente, quello era l’ennesimo elemento che non riuscivo a far collimare con tutte le cose incredibili di quel ragazzo.
Gli dissi che non avevo più una famiglia, che ero sola. Lui non sembrò capire, e gli raccontai tutto quello che era successo. Mi ascoltò in silenzio, e, quando finii, mi disse che sarebbe tornato subito; sembrava molto arrabbiato. Tornò dopo nemmeno dieci minuti, e la sua espressione me ne convinse: era molto, molto arrabbiato. Mi chiese dettagli su come era avvenuto l’attacco, su quanti erano, da chi erano comandati… io non avevo la minima idea di dove volesse arrivare, e non sapevo nemmeno cosa rispondere.
Mi tartassò di domande al punto che, non so nemmeno perché, scoppiai a piangere. Volevo che mi lasciasse in pace. Mi chiese scusa, e si vedeva che gli dispiaceva veramente. Come non credere ad una creatura del genere?
Mi disse di dormire, di riposarmi. Mi riaddormentai quasi subito; quando mi svegliai, trovai accanto al letto del cibo e alcuni vestiti puliti. Lui però non c’era. Riuscii a mettermi in piedi, mi cambiai e mangiai (era incredibile quanta fame avessi), ma lui non tornò. Gironzolai per casa sua, e vidi che mancavano parecchie cose che invece c’erano nella casa dei normali umani, come una cucina, stoviglie o qualcosa che indicasse che chi ci abitava mangiasse, e il caminetto sembrava essere stato acceso per la prima volta; anche il letto in cui ero stata fino a quel momento sembrava non avesse mai ospitato nessuno, oltre che me. Insomma, non potevo certo immaginare che mi trovavo nella tana del lupo». Sorrisi a Bella, che mi sorrise di rimando.
«No, certo che non potevi saperlo. Ma saresti andata via, anche se l’avessi saputo?»
Aveva colto nel segno.
Risi. «No, non credo», dissi io, «credo sarei rimasta comunque. Mi affascinava troppo, e poi ero amante del pericolo», e le strizzai l’occhio. «Comunque, lui tornò dopo qualche ora. Io ero in piedi, e lui si stupì di vedere che stavo bene. Notai immediatamente che cercava di mantenersi il più possibile lontano da me, non voleva nemmeno rischiare di sfiorarmi. Lo ringraziai del cibo e dei vestiti. Non lo avevo ancora inquadrato: mi aveva raccolta moribonda nel bosco, mi aveva protetto, si era preso cura di me, e non sapevamo niente l’uno dell’altra. Non sapevo nemmeno come si chiamasse. Quando glielo chiesi mi disse di chiamarsi Vincent, ma, quando provai a chiedergli qualcosa in più, perché vivesse così isolato, perchè mancavano tutte quelle cose in casa sua, non ci fu verso di strappargli nient’altro. Ma io ero testarda, e non avevo intenzione di cedere.
Quella notte mi svegliai urlando. Avevo avuto un incubo, vividissimo, e ci misi qualche istante a ricordare dove mi trovassi. Scoppiai a piangere, disperata, quando sentii Vincent avvolgermi in un’altra coperta, abbracciandomi stretta. Mi sussurrava che andava tutto bene, che ero al sicuro, che non mi sarebbe successo niente di male. Quando mi calmai, lui fece per allontanarsi, ma io gli dissi: “Ti prego, non te ne andare”. Lui ci pensò un attimo, titubante, poi si sedette sul letto, e mi prese tra le braccia. Era una sensazione meravigliosa, respirare il suo profumo, avevo la sensazione che niente potesse sfiorarmi quando ero con lui. Quella fu la prima notte che mi sentii davvero bene.
I giorni passavano, e presto mi rimisi in forze. Non avevo mai abbandonato l’idea di vendetta che mi aveva spinto fino a li, ma adesso sapevo con assoluta certezza che, stregone o no, quel ragazzo avrebbe potuto aiutarmi, anche se non sapevo ancora come avrebbe fatto. E alla fine mi ha aiutato, in un modo che non mi sarei mai aspettata».



***



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Capitolo 12
*** Cap. XI ***






***















«Era una sorta di sesto senso, sapevo che Vincent aveva qualcosa di speciale».
Vincent. Era strano pronunciare il suo nome ad alta voce.
Per anni mi era stato impossibile. Il solo ricordarlo mi faceva stare troppo male, figuriamoci parlarne con qualcuno; ma mi ero già fatta abbastanza del male da sola, parlarne mi aiutava a esorcizzare il dolore.
«Decisi di rimanere con lui. Gli dissi chiaramente che io non avevo la minima intenzione di andarmene; lui all’inizio non mi prese sul serio, ma poi capì che non stavo scherzando. Sapevo che nascondeva qualcosa, ed ero determinata a capirlo. A qualunque costo.
Ma non era l’unico motivo per cui volevo restare.
Dentro di me volevo rimanere con lui. Ne ero attratta come una calamita, non riuscivo a stargli lontana; l’idea di andarmene mi faceva troppo male, anche solo a prenderla in considerazione. Era fuori discussione. Ma non sapevo niente di lui, come potevo essere attratta da una persona di cui sapevo a malapena il nome?»
Eppure, a me quello era bastato. «Tutte le mattine, trovavo cibo e vestiti puliti accanto al letto, lui spariva per un’oretta, e ricompariva quando avevo finito di prepararmi; qualche giorno dopo il mio arrivo, svegliandomi, trovai un angolo della stanza coperto da un separè, dietro cui erano magicamente comparsi uno specchio e una vasca, oltre a qualche altro oggetto da bagno. Non avevo la minima idea di come facesse a far comparire quelle cose mentre io dormivo; tutte le mattine mi svegliavo e c’era qualcosa di nuovo. Ero curiosa di sapere cosa facesse la notte».
Mi scappò un sorriso. «Ricordo che una notte mi svegliai, ma rimasi immobile. Aprii appena gli occhi, e lo vidi in piedi a meno di un metro dal mio letto. Era di spalle alla finestra, ed era bellissimo. Mi guardava, ma aveva un’espressione strana: sembrava triste, i suoi occhi erano talmente tanto pieni di dolore che mi fecero male. Lui si accorse che mi ero svegliata, e quell’espressione svanì. Mi disse solo: “Dormi, mia piccola Elian”. Mi svegliai la mattina dopo pensando di averlo sognato. Con me era sempre gentile, ma cercava in tutti i modi di mantenere le distanze, e la cosa mi dava non poco fastidio, perché mi impediva di capire chi fosse. Nonostante ciò, notavo in lui dei piccoli cambiamenti: vedevo i suoi occhi scurirsi con il passare dei giorni, le occhiaie viola diventare marcate e profonde. Non riuscivo ad interpretare questi cambiamenti, in effetti non capivo un bel niente di quel ragazzo.
Mi ci vollero quasi due mesi per scoprirlo.
Una notte mi svegliai, e mi accorsi di essere sola; cercai Vincent con lo sguardo, ma lui non c’era, e la cosa mi turbò parecchio. Ti sembrerà una cosa sciocca, ma solo in quel momento realizzai una cosa fondamentale: non avevo mai visto Vincent dormire. Mi alzai e guardai fuori; era notte profonda, perché mai sarebbe dovuto uscire a quell’ora?
Sai, Bella, le conoscenze di allora sui vampiri lasciavano parecchio a desiderare. Aglio, crocifissi, paletti nel cuore, tutte cavolate. Non pensai mai a Vincent come a un vampiro, non rispecchiava quello che conoscevo di loro.
Rimasi sveglia ad aspettarlo. Lo vidi rientrare con un cestino, e si sorprese di vedermi sveglia. Aveva di nuovo gli occhi dorati. Mi sorrise, ma io mi ero stufata di aspettare. Provai a prendere il discorso alla larga dicendogli: “Vincent… cos’hanno i tuoi occhi?”. Lui fece finta di non capire e mi disse tranquillamente: “Niente”. Continuai a fargli domande a cui lui però evitò accuratamente di rispondere. Mi faceva arrabbiare, gli avevo raccontato tutto di me, invece io ero completamente all’oscuro della storia della creatura meravigliosa che avevo davanti. Allora glielo chiesi a bruciapelo: “Voglio sapere chi sei. Non raccontarmi balle, voglio sapere la verità. Ho visto come i tuoi occhi cambiano con il passare dei giorni, non dormi mai, non mangi mai. Dimmelo, ti prego”.
Lui rimase immobile, imperturbabile, posò il cestino che aveva in mano e se ne andò senza dire niente. Mi pentii immediatamente di quello che avevo fatto».
I miei occhi si fecero tristi, al solo ricordo. «Tornò dopo un paio d’ore, e disse solo: “Devi andare via, Elian. Non puoi più restare qui”.
Era tornato con un cavallo, una scorta di viveri e qualche altra cosa per il viaggio. Voleva che partissi, che me ne andassi; provai a scusarmi, a spiegargli che d’ora in poi non gli avrei più fatto domande; avrei fatto qualunque cosa per restare con lui, ma non mi ascoltò. Mi disse semplicemente: “Non puoi più rimanere con me, vattene. Adesso stai bene, puoi andare tranquillamente per la tua strada, e io andrò per la mia, non vedo perché tu debba rimanere. Non ha più senso la tua presenza qui”. Quelle parole mi fecero male, malissimo. Me ne andai quella sera stessa».
Ripresi fiato, e quando ricominciai a parlare la voce mi tremava leggermente. «Vagai senza meta per quasi tutta la notte. Cercai di convincermi che quella con Vincent era stata una parentesi, che aveva ragione lui, io dovevo andare via. Ma non sapevo dove, ero sola.
Pensai tanto, a dove andare, a come avrei fatto a ricostruirmi una vita; eppure non riuscivo a togliermi dalla testa la voglia matta di tornare indietro, da lui, anche se mi aveva detto che era meglio per me andare via. Sapevo che non pensava le cose che mi aveva detto. Volevo che non le pensasse. E sai cosa ho fatto?»
«Sei tornata indietro», disse Bella sorridendo.
Risi. «E’ quello che avresti fatto anche tu, no?
Sono tornata indietro. Lanciai il mio cavallo al galoppo, e arrivai a poche miglia da casa sua che il sole era alto nel cielo; era la prima volta che vedevo il sole fare capolino da quando ero riuscita a rimettermi in piedi. Riattraversai il bosco, più veloce che potei, ma lungo la strada fui costretta a fermarmi, quando incontrai qualcosa che non avevo mai visto prima. Era una creatura stranissima, aveva la pelle lucente, come risplendesse di luce propria, sembrava uscita da un libro di fiabe; era ferma immobile in una piccola radura, e mi guardava inorridita.
Mi ci volle un po’ per capire che quella creatura meravigliosa era Vincent».



***



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Capitolo 13
*** Cap. XII ***






***















Bella mi guardava a bocca aperta. «Hai visto Vincent alla luce del sole???»
Annuii. «Ne rimasi sconvolta, e allo stesso tempo affascinata. Guardavo quel meraviglioso ragazzo risplendere come cristallo sotto la luce del sole, era uno spettacolo incredibile. Fuori da ogni possibile logica.
Ero consapevole del fatto che avrei dovuto avere paura, ma mi era impossibile provarla. Rimasi semplicemente immobile, a contemplare con gli occhi spalancati quella creatura.
Me lo ritrovai affianco nel giro di mezzo secondo, non mi resi nemmeno conto di averlo vicino. Non riuscivo a muovere un solo muscolo, ero letteralmente paralizzata. Vincent mi prese di peso, facendomi scivolare dal cavallo, lo sentii sfrecciare in mezzo agli alberi, ma non capivo lo stesso cosa stesse succedendo. Ero frastornata, spaventata e ancora incredula; lo sentivo ringhiare piano, e non avevo idea di dove diavolo stessi andando. Nel giro di un minuto eravamo davanti casa sua, mi chiesi come cavolo avessimo fatto a metterci così poco tempo. Quando entrammo, lui mi adagiò sul letto, ma sembravo essermi dimenticata di come funzionassero i miei muscoli.
Non mi mossi dal punto dove lui mi aveva messa. Ero ancora confusa da quello che avevo visto, da quello che il ragazzo che adesso faceva avanti e indietro davanti a me aveva cercato di nascondermi. Avevo migliaia di domande che mi vorticavano in testa, e non sapevo da dove avrei dovuto cominciare.
Cos’era lui? All’epoca non avevo la minima idea di cosa significasse quello che avevo visto, ma sapevo che finalmente avevo trovato quel qualcosa che lo rendeva diverso dagli altri, avevo dato voce alle mie congetture sul fatto che lui non fosse un ragazzo normale, cosa di cui ero stata convinta fin dal principio. Adesso non aveva più bisogno di nascondermi la verità». Sospirai.
«Lui non sembrava pensarla così. Camminava avanti e indietro mormorando: “Non lei, non lei”. Sembrava essersi completamente dimenticato del fatto che io fossi li; mi alzai dal letto, e lui si voltò verso di me. Mi guardò come se avesse paura, ma non riuscivo a capire perché. Mi avvicinai e lui scattò subito indietro. Non mi guardava più nemmeno in faccia, teneva gli occhi bassi. Non capivo. Non sapevo nemmeno cosa dire, non sapevo cosa fare.
Quando alzò lo sguardo verso di me, aveva negli occhi l’espressione più addolorata che avessi mai visto. Lo sentii solo sussurrare appena: “Mi dispiace”. Gli chiesi: “Per cosa?”, e lui mi disse: “Elian, tu non dovevi vedermi. Non saresti dovuta tornare indietro”. Ci rimasi male, e gli dissi: “Ti dispiace che io sia tornata? Allora scusami, scusa se avevo voglia di vederti, scusa se ti ho arrecato ancora disturbo, scusa se la mia presenza è tanto insopportabile, adesso me ne vado, non verrò più a cercarti, è l’ultima volta che mi vedi”. Feci per andarmene, ma lui mi trattenne per un braccio. Gli dissi: “Se sei preoccupato per quello che ho visto, stai tranquillo, non dirò niente a nessuno. Cosa dovrei dire, poi? Io non so niente di te, di cosa sei o di quello che fai, e sai una cosa? Non voglio nemmeno saperlo, così non correrai nemmeno il pericolo che io vada in giro a dirlo a qualcuno. Non hai motivo per dirmelo, e io non ho motivo per stare qui. Non costringo nessuno a subire la mia presenza, quindi lasciami e fammi andare via”. Lui non mi lasciò, aveva una forza impressionante. Poi mi guardò negli occhi, e disse solo: “Ti prego, resta”. Lo disse in modo così dolce, così convincente, che non potei fare a meno di ascoltarlo. Mi disse: “Ti dirò tutto, te lo prometto, ma resta”. Mi lasciò immediatamente andare, e aggiunse: “Scusa, non volevo essere brusco. Non ti costringerò ad ascoltarmi, se vuoi davvero andare vai, sei libera di farlo in qualsiasi momento. Se vorrai rimanere, ti dirò tutto quello che vuoi sapere. Voglio però che tu sappia che sei libera di andartene quando vuoi. Non te lo impedirò”. Non riuscivo a capire il motivo per cui avrei potuto voler andare via, non ora che aveva deciso di dirmi tutto.
Effettivamente, ancora oggi non mi spiego come feci a non scappare via urlando. Sarebbe stata una reazione naturale, umana. Ma la voglia di stare con lui era troppa, e mi risedetti sul letto, aspettando. Lui rimase in piedi vicino ad una finestra, e teneva gli occhi bassi. Mi disse: “Chiedimi tutto quello che vuoi, prometto che ti dirò tutto quello che vuoi sapere”. La prima cosa che mi venne in mente di chiedergli era: “Vincent, tu non sei umano, vero?”. Lui sorrise appena e disse: “No”. Poi iniziò a parlare, come se leggesse nella mia mente, e sembrava che ogni parola gli costasse una fatica immensa. Mi disse: “No, Elian, non sono umano; o meglio, adesso non lo sono più”. Gli chiesi cos’era, completamente divorata dalla curiosità per scoprire cosa fosse, e allo stesso tempo spaventata dalla sua risposta; lui non mi rispose, ma mi guardò negli occhi, e disse una cosa che mi colse di sorpresa: “E se ti dicessi che quello che sto per dirti segnerebbe la tua condanna a morte?”. Nonostante l’avesse detto sorridendo, notai l’angoscia nella sua voce. Gli dissi che non mi importava di morire. Mi disse a bassa voce: “Capirei se tu volessi scappare via, se volessi andartene, e ti prego di farlo se vuoi. Ricordati che io non ti fermerò”. Poi mi disse a bruciapelo: “Elian, io sono un vampiro”».



***



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Capitolo 14
*** Cap. XIII ***






***















«Cosa?!», gracchiò Bella al mio fianco, sconvolta. «Te l’ha detto così, su due piedi?!?».
Sorrisi al ricordo. «Si, si. Mi è quasi venuto un colpo quando me l’ha detto. Avevo fatto bene a sedermi». Scoppiai a ridere davanti alla sua faccia. «Bella, aspettavo di sapere chi era da quando l’avevo incontrato. Avevo capito da subito che c’era qualcosa in lui di strano, e fu quasi un sollievo saperlo. Quando però metabolizzai attentamente la parola vampiro, mi assalì il panico. Ero da sola, sperduta in mezzo al bosco, a tre metri da un vampiro in carne e ossa. Lui però non si muoveva, si limitava solo a guardarmi, senza nemmeno parlare. Quando il mio cuore riuscì ad abbandonare la gola, gli chiesi a mezza voce: “Perché non mi hai ancora uccisa, allora?”. Lui mi sorrise e disse: “Perché io non bevo il sangue umano, Elian. Sono un vampiro un po’ speciale”. Rimase a guardarmi per un attimo, e io aspettai, perché francamente non riuscivo a capire; mi disse: “Io mi nutro di sangue animale”. Immaginati la mia faccia a questa notizia, dovevo sembrare un’idiota, perché lo vidi scoppiare a ridere. Non l’avevo mai visto ridere così, ed era davvero bellissimo».
Lasciai un momento i ricordi vagare, cercare nella mia testa l’eco di quella risata, quel meraviglioso suono. La cercai, ma dopo tutti quegli anni era impossibile che ci fosse ancora.
Avrei dato tutto quello che avevo per sentire ancora una volta il suono della sua voce.
«Il panico svanì esattamente come era arrivato. Mi chiedo ancora oggi perché quelle notizie non mi scatenarono le reazioni che normalmente dovrebbero arrivare, perché non avevo paura, perché non ne rimasi completamente sconvolta. Ero felice che finalmente mi avesse detto la verità; di quale verità si trattasse non aveva importanza.
Nonostante fossi ancora perfettamente consapevole del fatto di trovarmi nella stessa stanza con un vampiro, e un lato di me stesse spingendo alla fuga ogni muscolo del mio corpo, sono rimasta immobile, aspettando. Lui smise di ridere, e mi guardò di nuovo serio. Mi disse: “Elian, puoi stare tranquilla. Non ti ho fatto del male perché non voglio farlo, non lo farei mai. So che è difficile da credere, ma ti puoi fidare”. Mi era impossibile non farlo. Gli credetti istintivamente.
Questo bastò a calmarmi definitivamente, a convincermi che non mi avrebbe fatto del male. Se non l’aveva fatto fino ad allora, perché avrebbe dovuto farlo in quel momento?
A qual punto lo sommersi di domande. Volevo sapere tutto di lui, di quella creatura sconosciuta e meravigliosa. Mi disse che non sapeva esattamente da quanto tempo era così, era passato circa un centinaio di anni dalla sua trasformazione. Disse che aveva vissuto a Londra, e che aveva ventuno anni quando venne trasformato; era insieme ad un gruppo di persone che andavano a caccia di vampiri, ci crederesti? Quel gruppo era guidato da un pastore anglicano molto giovane e promettente, di grande intelligenza. Si chiamava Carlisle».
Bella rimase ancora una volta a bocca aperta. «Carlisle? Vuoi dire che…».
«Vincent venne trasformato la stessa notte in cui venne morso Carlisle. Lui fu portato via, mentre Carlisle venne morso subito.
Mi disse di essere stato trascinato fino ad un vialetto buio, e li lo morsero. Non morì solo perché la gente che era insieme a Carlisle aveva continuato la caccia, e il vampiro che lo aveva morso non finì in tempo il suo pasto, e scappò via quando sentì delle voci. Conosci già i dettagli della trasformazione», le dissi, «quindi puoi immaginare come andò. Si trascinò verso un tombino, e scivolò li dentro, nelle fognature, fino a quando non fu in grado di muoversi.
Andò via da Londra, e mi disse che girovagò per le campagne inglesi per alcuni anni, nutrendosi di sangue umano, benchè la cosa non gli piacesse affatto.
Gli chiesi come mai non si nutrisse più di sangue umano. Mi disse che la sua svolta arrivò dopo diversi anni, quando andò in Irlanda, e li incontrò un altro gruppo di vampiri civilizzati. Scoprì che anche loro conoscevano Carlisle, e si fece raccontare la sua storia, cosa aveva fatto dopo la trasformazione. Fu allora che venne a conoscenza dello stile di vita di Carlisle.
Mi disse di non averci pensato due volte, capì che poteva vivere la sua esistenza senza dover necessariamente far agli altri ciò che era stato fatto a lui».
Feci una pausa. Bella era ancora incredula. «Quindi lui divenne vegetariano dopo aver saputo che Carlisle era vivo».
«Tutti i vampiri vegetariani lo sono diventati dopo aver avuto a che fare con Carlisle; tutti coloro che provavano disgusto per ciò che erano trovavano in Carlisle una speranza da coltivare, un esempio da seguire. Almeno, così fu per Vincent».
Bella mi guardò pensierosa per un attimo. «Elian, perché io non ho mai sentito parlare di Vincent? Se è un vampiro vegetariano, sicuramente ne avrei sentito parlare, da Carlisle o da qualcun altro…».
Scossi la testa. «No, Bella, non ne avresti potuto sentir parlare, perché nessuno delle persone che conosci tu l’ha mai incontrato».
«E come mai? Voglio dire, pensavo che voi due viveste insieme…».
«Infatti è stato così, per un po’, poi… Bè, diciamo che non è stato più possibile», le dissi, facendo una pausa. «Vincent è morto».



***



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Capitolo 15
*** Cap. XIV ***






***















Bella sussultò. «Elian, scusami, non lo sapevo», disse sinceramente dispiaciuta, «mi dispiace tanto».
Le sorrisi, scuotendo la testa. «Non scusarti, Bella. Non potevi saperlo, e poi non è un problema. Parlare di lui mi fa sembrare reale il fatto che sia vissuto, mi ricorda che non è stato solo un sogno».
I sogni. Fa male parlarne, quando si sono infranti. Eppure, nonostante il dolore che rievocano, i ricordi aiutano ad andare avanti, quando si ha un’intera eternità da passare in un incubo.
«Come è successo?»
Feci un profondo sospiro. Quella era senza ombra di dubbio la parte più difficile. «Bella, mi hai chiesto perché io ce l’ho tanto con i Volturi». Non riuscii a reprimere una smorfia di disgusto, pronunciando il loro nome.
«Hanno l’arroganza di definirsi dei tutori della nostra legge, per la nostra segretezza, solo perché le leggi che vogliono far rispettare le hanno create loro, secondo la loro giustizia, per essere liberi di fare quello che vogliono indisturbati, per esaudire ogni minimo capriccio.
Loro vanno dove vedono qualcosa che a loro manca, e cercano di impossessarsene; quando si rendono conto che non riusciranno ad averla, la distruggono. La felicità, la pace, il semplice fatto di vivere in maniera diversa da loro», dissi, quasi ringhiando, «rappresentano per loro una minaccia. Loro dettano una legge forgiata sul loro modo di vivere, per proteggere loro stessi. Guarda cosa hanno tentato di fare a te e Edward. Pensa a cosa hanno fatto per cercare di avere Edward e Alice nelle loro file».
Bella rimase in silenzio, ascoltando, con una ruga in mezzo agli occhi. Non capiva dove volessi arrivare.
«Bella voi non siete stati i primi, e sicuramente non sarete gli ultimi, a cui i Volturi hanno dato fastidio. Non so quante persone abbiano avuto la stessa buona sorte di te e Edward, perchè solitamente, quando loro hanno un obiettivo, trovano il modo di raggiungerlo. A qualunque costo».
«E’ solo per questo che ce l’hai con loro? Perché sono dei buffoni prepotenti, arroganti e in più anche esibizionisti?», disse, accennando un timido sorriso.
Mi scappò una debole risata. «Magari Bella, magari fosse solo per quello». Sospirai. «Io faccio parte della schiera delle persone meno fortunate.
Ti ho detto cosa mi disse Vincent prima di dirmi che era un vampiro; mi disse che quello che mi avrebbe rivelato mi avrebbe anche condannata a morte.
Io all’inizio non gli diedi peso, era troppo importante quello che mi aveva detto per pensare a quello che per me era un dettaglio, ero stata vicina alla morte talmente tanto spesso negli ultimi mesi che non mi fece molto effetto la prospettiva di rischiare la vita ancora, soprattutto se era per lui.
Quando finì di dirmi tutto quello che volevo sapere (e ci mise davvero un sacco di tempo a placare la mia stratosferica curiosità, soprattutto dopo avermi nominato l’immortalità e la forza disumana), si buttò a sedere sul letto accanto a me. Si mordeva il labbro, con la testa tra le mani. Sembrava davvero preoccupato.
Pensavo che non si fidasse di quello che gli avevo promesso, che non avrei mai rivelato a nessuno chi era. Lui mi disse che non era di quello che si preoccupava, che si fidava di me.
Mi disse che lui non avrebbe dovuto dirmi cos’era, e che ora che lo aveva fatto questo avrebbe avuto delle conseguenze. Io non riuscivo a capire. Che conseguenze potevano esserci se lui mi aveva detto cos’era? Non mi aveva fatto del male.
Poi mi spiegò, e mi disse che quelli della sua specie dovevano sottostare a delle regole precise; nessun umano doveva mai venire a sapere la loro vera natura, nessun vampiro avrebbe mai dovuto rivelare la propria vera natura in presenza di umani. Quella fu la prima volta che sentii parlare dei Volturi».
«Un momento», mi disse Bella, interdetta. «I Volturi puniscono chi tradisce l’obbligo della segretezza, ma tu sei diventata una vampira, quindi perché avrebbero dovuto fare del male a te o a lui?».
Annuii. «Lo so. Quello fu il mio primo pensiero. Non volevo metterlo in pericolo, e in quel momento realizzai che avrei fatto qualsiasi cosa per rimanere con lui».
Deglutii a fatica. Sentivo un nodo alla gola, benchè sapessi perfettamente che non avrei mai potuto piangere. Eppure, quel riflesso umano al dolore non mi aveva mai abbandonata.
Cercai di riempire i polmoni di aria, per calmarmi, e ripresi a parlare con più fermezza. «Vincent non si dava pace; si sentiva in colpa per avermi messa in pericolo, per aver permesso che io corressi un rischio del genere. Bella, quando lui mi aveva mandata via, io non avevo minimamente capito che l’aveva fatto per proteggermi. Certo, era un modo tutto suo di farmelo capire, ma lui sapeva che la sua vicinanza avrebbe portato a questo rischio. Non avevo minimamente capito che l’aveva fatto perché era innamorato di me». Come io lo ero di lui.
Come lo ero tutt’ora.
Mi si ruppe la voce in gola, quando pronunciai quelle parole. Vedevo ancora nella mia mente quella scena, lui accanto a me, che mi guardava con quei meravigliosi occhi d’oro, ardenti come fuoco vivo, pieni di tristezza, di rimorso, di colpa, e allo stesso tempo colmi di desiderio. Ricordavo la voglia di avvicinarmi a lui, la paura che si allontanasse da me, la paura di perderlo.
Era un pugnale affondato nel petto quello che avevo al posto del cuore, adesso, che si contorceva ogni volta che ci ripensavo.
Era dolore puro.
Chiusi gli occhi per un istante. Se dovevo farmi del male, l’avrei almeno fatto come si deve.
Rivedevo quella piccola stanza di pietra, e lui adesso era davanti a me.
Fui invasa da uno strano calore.
Benché fossero tutti ricordi umani, avevo ripensato a quei momenti talmente tanto che era come se lo stessi rivivendo ancora una volta.
Potevo ricordare perfettamente quello che provai come mi avvicinai a lui, come toccai il suo viso, gelido e bellissimo; volevo eliminare quello sguardo dai suoi occhi, mi faceva male vederlo così.
Lui che prendeva la mia mano nella sua, e la stringeva piano.
I suoi occhi incatenati ai miei, pieni di un desiderio così disperato che straziava il cuore.
Il mio desiderio di placare il suo tormento. Volevo che sapesse, volevo che fosse consapevole del fatto che lui era la cosa più importante della mia vita.
Non doveva stare male per colpa mia. Non potevo sopportarlo.
Ricordavo come mi avvicinai piano a lui, portandogli una mano sul petto. Riuscivo ad avvertire solo il movimento del suo petto per respirare, poi nulla.
La sua mano che accarezzava la mia, le sue dita gelide che sfioravano le mie, bollenti.
Ricordavo vividamente come mi avvicinai al suo viso, e come mi sorpresi quando lui non mi respinse.
Il suo profumo che, poi, mi diede alla testa, il suo respiro freddo che mi solleticava le labbra, le sue braccia che mi avvolgevano, stringendomi al suo petto.
Le sue labbra morbide e dolci.
Poi, una sola, piccola consapevolezza.
Da quel momento, appartenevo a lui.
Qualunque cosa fosse successa.



***



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Capitolo 16
*** Cap. XV ***






***















«Elian?».
La voce di Bella mi giunse da molto lontano.
Ero ancora a occhi chiusi, completamente immersa nei miei ricordi.
Non riuscivo a non pensare a tutte le volte che quelle mani mi avevano sfiorata, tutte le volte che quelle mani mi avevano fatto sentire la persona più amata, più desiderata sulla faccia della terra.
Mi sembrava ancora, a volte, di poter sentire i brividi che mi dava il dolce tocco delle sua dita lungo il mio corpo.
Ma quello era il passato. Non avrei mai più provato quelle sensazioni.
Era ora di tornare alla dura realtà.
«Tutto bene?». Bella mi posò una mano sul braccio, sembrava preoccupata.
Annuii. «Si, tutto bene. Mi sono distratta un attimo».
Era possibile per un vampiro provare freddo? In quel momento a me sembrò possibile. Sentivo un immenso gelo avvolgere le mie viscere, congelando tutto il calore che i ricordi avevano liberato in me.
Stupida. Erano solo ricordi, il passato è passato. Non potevo continuare a vivere aggrappata al ricordo di qualcosa che non sarebbe tornato mai più.
Eppure era l’unico modo che conoscevo per non andare a fondo.
Ancora più stupida.
«Scusa Bella». La mia voce era molto più che roca. Sembrava provenire da una tomba. Me la schiarii immediatamente. «Mi sono fatta prendere dai ricordi».
Bella annuì, ancora un po’ preoccupata. «Elian, sei davvero sicura di stare bene?».
No. Non stavo affatto bene. Ma ci convivevo da quasi due secoli, oramai era diventato sopportabile. «Certo che sto bene, tranquilla», le dissi abbozzando un piccolo sorriso.
Dove ero arrivata?... «Bè, non ci restava altro da fare che affrontare le conseguenze di quello che avevamo fatto. Io oramai sapevo chi era, e non avevo la minima intenzione di andarmene; rimasi a vivere con lui.
Pensai tanto a quello che avrei fatto, a come avrei potuto affrontare la situazione. Ero certa solo di una cosa: io sarei rimasta con Vincent, nel bene e nel male.
Allora presi una decisione: sarei diventata come lui. Volevo diventare una vampira.
Soltanto che, quando glielo dissi, diciamo che non la prese proprio benissimo».
Bella ridacchiò. «Capisco. Nemmeno Edward ne era molto entusiasta, all’inizio».
«Si, ci credo», ridacchiai anche io. «Chissà che avranno mai, questi vampiri, mah…
Comunque, lui si oppose con tutte le sue forze. Mi disse che mai e poi mai mi avrebbe fatto diventare come lui, che mi avrebbe protetta a costo della sua vita, se qualcuno avesse provato ad avvicinarmisi, e che avrebbe fatto di tutto per proteggermi».
Sospirai. «Lui non capiva che io avevo già deciso. Cercai di convincerlo in tutti i modi, ma non ci fu verso. Mi disse che per lui la mia vita era la cosa più importante che esistesse, che non avrebbe mai messo in pericolo la mia vita più di quanto già non fosse, e che quindi non vi avrebbe mai messo fine lui stesso. Mi disse che per lui ero la cosa più importante, che non avrebbe mai sopportato l’idea di perdermi.
E’ stato quando mi ha detto queste cose che mi ha dato l’idea che tanto aspettavo».
Bella mi guardò incuriosita. «Davvero? E quale?».
«Sapevo che lui avrebbe fatto qualsiasi cosa per salvarmi la vita, qualora ce ne fosse stato bisogno. Con questa certezza creai semplicemente la condizione ideale perché lui avesse bisogno di salvarmela», dissi, con un’alzata di spalle.
«E cosa hai fatto?», disse Bella.
«Un giorno stavamo litigando piuttosto animatamente, perché io lo tormentavo sul fatto che volevo lui mi trasformasse, mentre lui non ne aveva la minima intenzione. Cercavo il pretesto per litigare così da giorni», ricordai, con un mezzo sorriso, «decisi che quello era il momento perfetto. Gli dissi che in un modo o nell’altro lui mi avrebbe trasformata.
Mi guardai intorno, e vidi un grosso coltello poggiato sul tavolo».
Bella spalancò gli occhi. «No, non l’hai fatto», sussurrò.
«Oh si, invece», ridacchiai. «Lo afferrai al volo, prima che lui potesse fermarmi, e me lo conficcai nel petto».
Indicai con un dito un punto sopra il mio seno sinistro. Ricordavo perfettamente il punto in cui avevo sentito la lama fredda e arrugginita penetrarmi nella carne. Eppure quello non fu niente in confronto al dolore della trasformazione.
Bella intanto mi guardava sconvolta. «Elian, ma ti rendi conto di quello che hai rischiato? Potevi morire sul serio! Davanti ai suoi occhi, per di più!».
Scossi la testa, ridendo. «No Bella, ti sbagli. Sapevo che non sarei morta. Mi aveva fatto una promessa, e sapevo che l’avrebbe rispettata. So che probabilmente fu un modo piuttosto crudele per ottenere quello che volevo, ma era l’unico modo per farlo. Vincent era forse la persona più determinata sulla faccia della terra. Dopo di me, ovviamente. La sua testardaggine era nulla paragonata alla mia».
«Già, l’avevo capito», disse Bella contrariata.
«Non avevo niente da perdere, e tutto da guadagnare. Sarei morta comunque, prima o poi. Invece, così guadagnai la possibilità di vivere una nuova vita, visto che non c’era più niente a legarmi a quella vecchia.
Durante la trasformazione lui rimase giorno e notte accanto a me; nonostante non riuscivo a capire molto di quello che mi accadeva intorno, lo sentii parlare, a voce molto bassa. Mi chiedeva scusa. Mi ripeteva di continuo che era tutta colpa sua, che incontrarlo era stata la cosa peggiore che mi potesse capitare, che mi aveva rovinato la vita.
Lo sentii anche dire che era colpa sua se avevo perso tutto, se la mia vita era stata distrutta. Al momento non capii perché disse quelle parole.
Tre giorni dopo mi ripresi. Non ci misi molto a prendere coscienza del mio nuovo corpo; era semplicemente fantastico. Mi sentivo forte.
Vincent fu la prima cosa che vidi, quando aprii gli occhi, era rimasto seduto accanto a me». Ricordavo l’emozione nel vederlo davvero per la prima volta.
Semplicemente perfetto.
Ricordavo perfettamente la prima volta che lui mi accarezzò una guancia.
Il suo tocco caldo. Era quanto di più bello avessi mai provato. Al solo ricordo, un brivido mi percorse la schiena.
«Fu uno shock vederlo con i miei nuovi occhi. Era molto più di quello che ricordavo. Era magico.
Io ero a dir poco felicissima; il mio entusiasmo, però, morì quando mi resi conto di come mi guardava Vincent.
Sembrava distrutto. Aveva negli occhi la stessa tristezza che avevo visto poche notti dopo il nostro incontro.
Mi chiese: “Ti senti bene?”. Io riuscii solamente ad annuire. Lui allora mi tirò a sé, e mi abbracciò forte. Lo sentii dire ancora una volta: “Mi dispiace”. A quel punto mi arrabbiai, e non poco; non so cosa mi passò per la testa, ma di colpo pensai che lui si fosse pentito di avermi salvata. Che cosa stupida. Conosci anche tu le esplosioni dei neonati, e devo dire che mi ci volle un bel po’ per calmarmi, contando anche il fatto che sentivo una sete pazzesca. Per poco non gli distrussi casa. Gli urlai contro le peggio cose; lui, però, non si oppose in alcun modo. Ascoltò le mie urla senza fare una piega, e questo mi fece arrabbiare se possibile ancora di più.
Dopo un bel po’, quando placai la rabbia, lui mi venne incontro, e mi prese una mano. Non aveva battuto ciglio, anzi, sembrava ancora più triste di prima. Non capivo. Non riuscivo assolutamente a capire.
Volevo piangere, ma sentivo che le lacrime non arrivavano.
Poi lui mi guardò negli occhi, e mi disse: “Elian, perdonami. Mi merito tutto quello che mi hai detto, merito solo che tu mi odi. Non ti ho detto tutta la verità. Ti chiedo scusa perché sono un vigliacco. Ma ora intendo rimediare”».



***





Piccolo appunto: questo capitolo è leggermente più lungo degli altri, inizialmente infatti la fanfic era composta di molti meno capitoli, ma molto più lunghi, però questo capitolo qui non sapevo proprio come spezzarlo… Per renderla meno pesante da leggere ho allora deciso di suddividerla in capitoli più piccoli, ma per questo è diventata anche parecchio più lunga del previsto…: ) premetto quindi che il viaggio insieme a Elian sarà abbastanza lungo, anche perché so che sul capitolo precedente vi ho lasciato con un po’ di acquolina in bocca (!)
Non vi anticipo niente… ; )
Anche se non mi esprimo spesso, ringrazio tutti quelli che hanno la pazienza di leggere quello che scrivo… grazie di cuore :)
Un bacio a tutti…Al prossimo capitolo!

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Capitolo 17
*** Cap. XVI ***






***















«Su cosa ti aveva mentito?», mi chiese Bella.
Sospirai. «Non aveva esattamente mentito, aveva solo omesso un pezzo di verità», aggiunsi sorridendo. «Ma sinceramente, adesso riesco a capirlo. Non voleva ferirmi.
Era semplicemente rassegnato. Mi disse: “Potrai far di me quello che vuoi, non mi opporrò, lo capirò perfettamente. Anzi, forse riuscirà ad alleviare un po’ il mio senso di colpa”.
Non riuscivo ad immaginare qualcosa per cui avrei voluto vederlo morto. Iniziai ad avere paura.
Ricordo che non dissi nemmeno una parola quando iniziò a parlare; mi disse: “E’ colpa mia quello che è successo alla tua famiglia, Elian. Solo colpa mia”. Mi confuse ancora di più le idee, perché doveva essere colpa sua? Rispose subito, disse: “ Quelle persone che hanno distrutto il tuo villaggio, erano venute a cercare me”.
Rimasi pietrificata. Lui continuò: “Sapevano che c’era un vampiro che viveva in zona, e sono state attirate dalle storie sulle persone che erano riuscite a vedermi nel bosco. Hanno attaccato te e la tua famiglia per prendere me. Mi dispiace, Elian. Hai tutto il diritto di odiarmi, esattamente come io odio me stesso. Ecco il motivo per cui ti chiedevo scusa: è colpa mia se sono morte così tante persone innocenti, ho distrutto la tua famiglia, e adesso ti ho anche tolto la vita. E’ tutta colpa mia. Merito di morire. Elian, io non volevo trasformarti perché non volevo che diventassi il mostro per cui hai perso tutto. Un mostro come me”.
Non so descriverti cosa provai. Fu…troppo. Lui, il mio angelo salvatore.
Eppure sapevo che non era colpa sua. Non lo era affatto. Lui mi aveva salvato la vita, non poteva essere un mostro, lui non aveva colpa».
No. Vincent non era un mostro. Vincent era la creatura più meravigliosa dell’universo. Era tutto quello che io avrei mai potuto desiderare.
Non riuscii a trovare le parole per descrivere quello che provai.
Pena? No, non mi faceva pena.
Rabbia? Si, quella c’era, ma non era rivolta a lui.
Dolore? Anche, mi faceva enormemente male vedere che lui si sentiva in colpa per quello che mi era successo, benchè non ritenessi assolutamente che fosse colpa sua.
No, era qualcosa di diverso.
Mi sentivo esaltata.
Provavo una gioia malata e delirante, del tutto folle. Avevo sempre saputo che quelle persone meritavano di morire, era lo stesso desiderio di vendetta ad avermi spinto fino al limitare del bosco, verso il mio Vincent.
In quel momento, ricordo che mi balenò in mente cosa avrei fatto. Capii quello che dovevo fare.
Ero giunta fino a li cercando qualcuno che mi aiutasse a vendicarmi.
Involontariamente, Vincent mi aveva dato un ulteriore motivo per distruggere quelle bestie.
E me ne aveva dato i mezzi.
Lui non era un mostro. Non meritava di morire.
Nemmeno gli uomini che erano venuti a cercarlo meritavano la morte.
Li aspettava qualcosa di molto, molto peggio.
«Quando finì di dirmi tutto, si lasciò cadere sul letto, con la testa tra le mani. Sembrava davvero disperato; ma io cercai di fargli capire che non era colpa sua. Perché non lo era.
Quando gli posai una mano sulla testa, lui nemmeno si mosse. Forse aspettava che mi sfogassi su di lui, ma non lo feci. Non ne avevo motivo».
Invece doveva capire che lui non era assolutamente responsabile di quello che era successo.
Ricordo la sua sorpresa quando lo tirai a me, abbracciandolo. Si aspettava la mia furia, ma come avrei mai potuto essere arrabbiata con lui?
Lui era tutto il mio mondo. Era per lui se avevo deciso di diventare quello che ero diventata, era per lui se ero sopravvissuta, lui mi aveva salvata; la sua sola esistenza era una consolazione per tutto quello che era successo.
Il profumo del suo corpo. Una fragranza che mi stordiva. Vampira o no, l’effetto che aveva su di me era sempre lo stesso.
Lo amavo.
Lo amavo davvero.
«Gli dissi chiaramente che non lo ritenevo assolutamente responsabile, che non c’entrava niente; io non avrei mai potuto odiarlo. Lui era tutta la mia intera esistenza. Quei fantasmi avevano fatto soffrire tutte le persone a cui tenevo: la mia famiglia, i miei amici, tutta la mia gente.
Avevano fatto soffrire lui. E questo non potevo accettarlo.
Sentii la rabbia montare dentro. Era qualcosa di accecante, molto più forte della normale rabbia a cui ero abituata. Era una furia troppo potente per poterla controllare.
Gli dissi che quelle bestie avrebbero pagato.
Non provò nemmeno a fermarmi». Ridacchiai. «Sapeva che non ci sarebbe riuscito».
Bella sorrise. «L’esperienza gli avrà insegnato qualcosa. Andasti a cercarli?».
Annuii. «Non ci misi molto. Li trovai ad appena due giorni di viaggio da dove era avvenuto il massacro. Lo stavano ancora cercando». Un sorriso cupo mi salì alle labbra, mentre una carrellata di immagini sanguinose mi correva davanti agli occhi. Meglio non scendere nei dettagli.
«Vincent venne con me per un po’. Cercò di farmi cambiare idea, inutilmente. Io avevo deciso da un pezzo quello che avrei fatto. Cacciammo insieme per la prima volta, mi insegnò come fare, mi aiutò a capire come riconoscere gli odori dei vari animali.
Fu durante la caccia che mi disse come mi aveva trovata, quando ero moribonda nel bosco».
«L’odore del sangue», disse Bella.
«Si. Essere caduta in quel cespuglio di rovi è stata la mia salvezza. Lui era troppo distante per sentirmi, e inoltre mi disse che la zona era piena di odore di sangue umano, e per lui era fastidioso. E’ per questo che si aggirava nel bosco, quel giorno; aveva intuito che era successo qualcosa. E poi trovò me». Sorrisi.
Che fortuna.
«Quando capii che ci stavamo avvicinando all’accampamento, gli dissi di tornare indietro. Era una cosa che volevo fare da sola, non volevo che lui intervenisse. Provò ad obbiettare, ma gli dissi a chiare lettere che anche se si fosse messo di mezzo non mi avrebbe comunque fermata.
Lo lasciai li, e proseguii da sola. Dopo pochi minuti raggiunsi il loro campo.
Erano in molti, parecchi più di quelli che ricordavo. A quel punto mi lasciai andare all’istinto, e devo ammettere che a pensarci adesso non credo sai capace di fare ancora una cosa del genere. Solo dopo ho capito perché Vincent non mi fermò: avrei rischiato di ucciderlo.
La furia che provai era incontrollabile, una vera e propria esplosione. Prima ancora che si accorgessero di quello che stava succedendo un terzo di loro era già all’altro mondo».
Sospirai, mente Bella mi ascoltava in religioso silenzio. «Bella, quella fu una grossa stupidaggine.
Non avevo la minima idea di quello che avrei scatenato da quel momento».




***





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Capitolo 18
*** Cap. XVII ***






***















Per tanti anni mi sono detta che quella gente doveva morire. Per tanti anni mi ero giustificata dicendo che qualcuno doveva pur fermarli.
Balle. Tutte balle.
Io ero un’assassina.
Ero la più perfetta delle macchine per uccidere, in fondo. Un predatore micidiale.
Ho sempre avuto la pretesa di giudicare quella gente perché seguiva un folle ideale, ho sempre preteso di dire che loro erano la feccia, che io ero nel giusto. Era giusto per me vederli morire uno per uno, con il terrore marchiato per sempre nei loro occhi.
Se è vero quel che si dice, che l’ultima immagine vista in vita rimane per sempre impressa negli occhi, loro vedranno me per l’eternità.
Li uccisi tutti. Come loro avevano fatto con la mia famiglia; li avevo uccisi perché erano delle persone malvagie, avevano fatto soffrire tante persone innocenti. Avevo messo finalmente fine a quei massacri assurdi.
Erano i cattivi.
Ma io ero forse migliore di loro?
Questo non lo sapevo. Non avevo mai avuto il coraggio di rispondermi.
E non avevo mai avuto il coraggio di fare a qualcuno questa domanda.
La verità è che mi vergognavo.
Mi vergognavo perché ero stata una stupida, una sconsiderata, avevo agito senza pensare alle mie azioni.
Eppure avrei dovuto saperlo.
Eppure, me lo sarei dovuta aspettare.
Nessuno sbaglio rimane impunito.
Soprattutto quelli che vengono commessi dal cuore.
«A cosa ti riferisci?», mi chiese Bella, distraendomi dalle mie riflessioni.
«Al fatto che gli errori si pagano, Bella. E a volte il prezzo da pagare è veramente molto, molto alto».
Bella mi guardò senza capire. «E’ per questo che hai incontrato i Volturi?».
Sentii l’ormai familiare nodo allo stomaco. Annuii.
«Tornai da Vincent dopo aver distrutto tutto il loro accampamento. Alcuni di loro avevano provato a scappare, non sapevano che era inutile fuggire, e li trovai».
Che senso aveva scappare, poi? Li avrei trovati anche in capo al mondo. Non conoscevo il significato della parola pietà. Nessuno di loro sarebbe stato risparmiato.
«Vincent mi stava aspettando, esattamente dove l’avevo lasciato. Lui non era assolutamente d’accordo su quello che avevo fatto, ma non mi disse nulla. Si limitò ad abbracciarmi, senza parlare. Per me era finito un incubo. La vendetta non mi avrebbe restituito tutte le persone che avevo perso, ma avrebbe risparmiato ad altre persone quello che era stato fatto a me, e questo mi faceva sentire un po’ meglio».
Ma c’era una cosa ancora più importante. Sapevo che Vincent era con me. Lui era ancora accanto a me. Era l’unica cosa che importava.
«Per me da quel momento poteva davvero iniziare una nuova vita, e l’avrei costruita con Vincent. Non avevo la minima idea di quello che sarebbe successo dopo. Non avevo minimamente pensato alle conseguenze di quello che avevo fatto. Oh, Bella, è stata tutta colpa mia».
Mi strinsi la testa tra le mani, mentre la disperazione si faceva strada dentro di me. Non riuscivo ad evitarlo, era troppo forte. Ero stata l’unica artefice del mio dolore. E mi sentivo un’idiota.
La voce iniziò a tremarmi. «Passarono alcune settimane. Mi abituai abbastanza presto alla mia nuova vita, ai vantaggi del mio nuovo corpo, nonostante la difficoltà nel mantenere il mio stile di vita vegetariano. L’odore di sangue umano rimase fortissimo per un bel po’, e l’intero bosco ne era impregnato, sembrava che la terra stessa l’avesse assorbito; credo fu anche grazie a questo che mi abituai così bene a sopportare l’odore del sangue umano senza cadere in tentazione.
E poi, non riuscivo a non pensare alla mia famiglia. Mi mancavano, Bella. Mi mancavano davvero tanto.
Tutte le mattine andavo nel luogo dove erano sepolti, dall’altra parte del bosco. Andavo sempre da sola, mentre Vincent rimaneva ad aspettarmi a casa».
Lui mi aspettava. Lui c’era sempre. Era il mio pilastro, la mia certezza, l’unica cosa che tenesse insieme i cocci della mia esistenza. Era la risposta al perché io fossi ancora viva, ed era l’unica ragione per cui valeva la pena di continuare ad esserlo.
Ma la mia vita non era destinata ad essere felice. Non lo era mai stata. L’avevo condannata io stessa all’eterna infelicità.
La mia voce era vuota, bassa. Sapevo che solo Bella sarebbe stata in grado di sentirmi. «Un giorno tornai a casa, e la trovai vuota. Pensai che lui fosse uscito, e aspettai. Ma non tornò.
Aspettai l’intero giorno, la notte, il mattino successivo: niente. Vincent era letteralmente sparito nel nulla».




***





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Capitolo 19
*** Cap. XVIII ***






***















Bella mi guardò ad occhi spalancati. «L’avevano preso loro? I Volturi?».
Annuii. «Ma questo lo seppi solo molto tempo dopo. Al momento, non avevo la minima idea di cosa fosse successo.
Lo cercai dappertutto. Pensai a qualunque cosa, setacciai il bosco in lungo e in largo», le dissi, sospirando, «ma non riuscii a trovarlo».
Ero disperata. Un attimo prima era nata in me la speranza, un attimo dopo il mio intero universo mi crolla addosso. Di nuovo.
«A spaventarmi era l’odore che circondava la casa. C’erano degli odori nuovi, che non conoscevo; era l’odore di altri vampiri. Non avevo idea del perché sarebbero dovuti venire da noi, o del perché avessero potuto prendere Vincent. Iniziai ad avere davvero paura. Non c’erano evidenti segni di lotta, la casa era perfettamente in ordine, niente era fuori posto. Apparentemente niente lasciava intendere che avessero preso Vincent con la forza, o che lo avessero costretto. Se l’avevano fatto, non avevano lasciato niente che potesse farlo pensare.
C’era solo una cosa: il loro odore. Seguii la loro scia, e gli odori erano talmente tanti che non riuscivo a quantificarli. Erano in molti, ma a me non interessava. Dovevo trovarli.
Seguii la scia per molto tempo, senza badare troppo a dove mi portasse. Raggiunsi il punto in cui l’odore si faceva più forte, più stagnante, e capii quello che era successo.
Ero arrivata all’accampamento».
Non c’era più niente. I resti dell’accampamento e della gentaglia di qualche settimana prima, i segni della mia furia, non c’erano più. Tutto era perfettamente normale, banale; i miei acutissimi occhi vedevano solo una radura ampia e spoglia. Nessun segno del mio passaggio.
Niente.
«Niente lasciava pensare che qualche tempo prima li ci fosse stato un massacro. Erano venuti a fare piazza pulita, ad eliminare le prove, per ripulire il disastro che io avevo combinato. Erano venuti a punirmi.
E avevano trovato lui».
Non ce la facevo. Non potevo riuscirci. Il suo nome mi moriva in bocca, quando ripensavo a quei giorni. Non riuscivo a pronunciarlo.
Ma Bella capì. L’amore sconvolge completamente l’essenza di un vampiro, la sua natura.
Nessuno ha mai detto di quello che può fare il dolore.
Non si limita a sconvolgere l’esistenza; sradica ogni singolo briciolo di buon senso, ogni possibilità di ragione, impedisce agli occhi di vedere, alle orecchie di sentire.
Ci si ritrova in un posto sconosciuto, dove tutto è avvolto dalla nebbia. Mille lame di fuoco attraversano la mente e il corpo; cercano un cuore da trafiggere, un cuore da spezzare. Un cuore che non c’è.
E continuano all’infinito. Nel limbo non è possibile trovare pace. È peggio dell’inferno, è il nulla.
Il vuoto più assoluto.
La cosa più terrificante è la certezza di essere soli. Nessuno sarebbe mai venuto a tirarmi fuori, nessuno mi avrebbe afferrata se fossi caduta nel baratro.
Poco male. Io, nel baratro, ci ero sprofondata già da un bel pezzo.
«Quando capii quello che era successo, quello che io avevo combinato, seppi quello che dovevo fare. Dovevo andare in Italia. Dovevo andare dai Volturi. Speravo di poterlo ancora salvare. Lui non doveva pagare i miei errori. Non avrebbe dovuto.
Quando arrivai in Italia, mi precipitai nella fortezza dei Volturi, ma era troppo tardi.
Trovai Alec e Jane ad aspettarmi. Erano stati trasformati da poco, erano appena stati “reclutati” da Aro.
Fu Jane a parlare. Mi disse che mi stavano aspettando, che sapevano che sarei andata da loro. E mi dissero a chiare lettere che non potevo fare niente. Non avevo idea del perché sapevano che io sarei andata da loro, del perché sapessero chi ero, di come facessero anche solo a sapere della mia esistenza. Vincent era stato portato al cospetto di Aro, Caio e Marcus, per il verdetto finale. Gli chiesi quale diavolo potesse essere l’accusa per cui doveva essere giudicato.
Lo accusavano di aver messo in pericolo la segretezza del nostro mondo, per aver perpetuato un massacro di notevole dimensione allo scoperto, senza occultare poi le prove del suo passaggio.
Lo stavano incolpando di quello che io avevo fatto.
Bella, dovevo fermarli. Loro non sapevano che ero stata io a combinare quel disastro, loro non sapevano che stavano per punire un innocente. O almeno così credevo.
Ero pietrificata. Mi dissero che alcuni esseri umani avevano visto troppo, e che la colpa era sua. Dissero che era stato un grave pericolo per noi, e che spettava una punizione a chi non rispettava la legge. La loro legge. Al diavolo».
Sputai questa parole con puro disgusto.
Li odiavo. Odiavo i Volturi, odiavo quello che facevano, odiavo quello che rappresentavano.
Li odiavo.
Quasi quanto odiassi me stessa.
«Ero disperata. Provai in tutti i modi a dire che in realtà lui non c’entrava niente, che era tutta colpa mia. Non mi credettero. Mi dissero che oramai era troppo tardi, che non potevo più salvarlo, qualsiasi cosa avessi fatto. Non mi ascoltavano; mi dissero che potevo solo aspettare.
Non capivo niente di quello che mi succedeva intorno. Dentro di me nutrivo ancora la piccolissima speranza che in realtà potessi ancora fare qualcosa. Insieme a loro, c’era un uomo, di nome Eleazar. Mi guardava spaventato, come se avesse paura di me. Chiamò gli altri due fuori dalla stanza, così che non potessi sentirli. Mi lasciarono da sola per qualche minuto, e quando tornarono insieme a loro c’era Aro».
Non mancava nessun attore all’appello. Aro era il regista, colui che avrebbe scritto il finale della mia storia.
Per sua sfortuna, non ho mai permesso a nessuno di decidere per me.
E mai l’avrei fatto.




***





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Capitolo 20
*** Cap. XIX ***






***















Intanto, Bella mi stava guardando pensierosa.
Sapevo cosa stava pensando. Le era bastato il nome di Eleazar per capire.
«Elian, perché c’era anche Eleazar? Lui analizza i poteri, ma certo tu da sola non avresti potuto fare molto, con tutto il clan dei Volturi addosso».
Sorrisi. «Bella, io non sapevo chi fosse Eleazar, non sapevo quale fosse il suo compito. Per me lui era solo un altro membro del clan.
Io non conoscevo ancora il mio potere.
Ma loro si, e fu a quel punto che entrò in scena Aro».
«Ti volevano con loro», sussurrò Bella.
Quello era il copione classico, la storia che si ripeteva all’infinito.
I Volturi vogliono quello che non hanno. Desiderano il potere più di ogni altra cosa al mondo.
E quando vogliono qualcosa, la prendono.
Con me non andò così.
Aro, il mellifluo, viscido Aro, che con le sue belle parole, le sue belle promesse, aveva fino ad allora incantato tutti, senza nessuna eccezione.
Anzi, forse a pensarci bene un’eccezione c’era.
Io.
«Elian… il tuo potere… cosa sei in grado di fare?».
Ridacchiai tra me e me. «Bè, in un certo senso, se vogliamo, mio potere è per certi versi l’opposto del tuo.
Tu impedisci agli altri di utilizzare i loro poteri contro di te, e contro le persone avvolte dalla tua barriera».
«Vero», asserì Bella.
«Io faccio esattamente il contrario». Il mio sorriso si allargò alla vista della sua faccia scettica. «Io riesco a fare in modo che gli altri non usino i loro poteri».
«Cosa?!», disse Bella a bocca aperta.
«Già», le dissi ridendo. «Bella, tu blocchi gli attacchi, io inibisco nelle persone la capacità stessa di usare i loro poteri speciali; e devo dire che è un potere che in passato si è rivelato molto, molto utile».
«Ora capisco come mai Aro ti volesse», mi disse sbalordita.
Il mio sorriso svanì, al solo nominarlo.
Aro. La rabbia mi ribollì nelle vene al solo ricordo del nostro colloquio.
A quel tempo non potevo ancora capire.
Non potevo capire il vero motivo del nostro incontro. Non sapevo cosa volesse, non sapevo cosa avesse da dirmi e tantomeno mi interessava.
Volevo solo poter vedere Vincent.
Volevo solo poter porre rimedio al disastro che io stessa avevo combinato.
Ripresi a parlare, con calma. «Si, ma io non potevo conoscere il mio potere. Non è un potere che si manifesta così, visibilmente. Se non fosse stato per Eleazar, molto probabilmente non avrei mai scoperto cosa sono in grado di fare. Quando mi spiegarono perché mi trovavo li, non mi dissero subito del mio potere.
Parlò Aro per tutto il tempo. Mi dissero che il mio compagno aveva fatto qualcosa per cui doveva essere punito, ma che io non avevo nessun motivo di avere paura.
Loro mi avrebbero accolto, mi disse, mi avrebbero permesso di unirmi a loro una volta che fossi rimasta sola.
In realtà volevano una cosa sola. Volevano avere il mio potere a loro disposizione, non gli importava un accidente se fossi rimasta sola.
Aro ambiva ad avermi con se. Loro sapevano del mio potere da molto prima che io arrivassi a Volterra».
«Elian però loro non ti conoscevano, come facevano a sapere quale fosse il suo potere?»
La mia voce si incupì. «Il potere di Eleazar ha un raggio d’azione molto ampio, non si limita a leggere il potere delle persone che ha intorno. Quando si trova nei pressi di un potere particolarmente intenso, pronunciato, riesce ad avvertirlo anche ad una certa distanza».
Bella aprì la bocca, incredula. «Mi stai dicendo che lui aveva avvertito la tua presenza dal bosco?».
Annuii.
Fu allora che Bella capì dove volevo arrivare. La sua espressione incredula divenne una smorfia da film dell’orrore. «Era il loro obiettivo fin dall’inizio», disse con voce appena accennata. «Era il loro obiettivo fin dall’inizio. Vincent era un’esca, una scusa».
Centro.
«Che storia, eh?», le dissi, con la voce colma di amarezza. «Su una cosa ti sbagli però, Bella. Vincent non era una semplice esca. Sono convinta che Aro desiderasse anche lui. Vincent non era centro un agnellino indifeso; il suo potere era anche peggio del mio.
Lui era in grado di ritorcere gli attacchi contro coloro che li mandavano. Non solo, quindi, non subiva l’effetto dei poteri offensivi, ma rispediva al mittente il suo stesso attacco. Come combattere contro uno specchio.
Credo semplicemente che Aro mirasse ad ottenere tutti e due».
Ma dal nostro incontro andò via solo a mani vuote.




***





Lo so, lo so, chiedo umilmente perdono per il ritardo immenso, ma gli esami all’uni sono impossibili, e di questo passo rischio di portare a microeconomia un resoconto degli investimenti della famiglia Cullen, con buona pace del mio professore che non so se gradirebbe…(per me sarebbe sicuramente più facile!!!)
Prometto che aggiornerò più spesso, magari aumentando anche il numero dei capitoli pubblicati a settimana…così non vi lascio troppo sopra le spine :)
Un bacio a tutti voi…alla prossima!





***





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Capitolo 21
*** Cap. XX ***






***















Bella scosse il capo. «Certo che eravate proprio una bella coppia».
Nonostante la tristezza, mi riuscì a strappare un sorriso. «Già, bella e pericolosa, soprattutto.
Ma a me non importava un accidente di unirmi a loro. Io non volevo restare sola. Avrei fatto di tutto per far si che Vincent tornasse a casa con me. Provai per l’ennesima volta a oppormi, a dire che lui non c’entrava niente.
Secondo te mi ascoltarono? Ogni cosa che io dicessi era inutile, sembrava parlassi una lingua che loro non potevano capire. Era come se fossi aria, invisibile.
Aro rimase per tutto il tempo al capo opposto della stanza, e mi guardava come se avesse visto un gioiello in una vetrina, un gioiello che desiderava ardentemente».
Bella aveva in volto un’espressione disgustata. Sapeva di cosa stessi parlando.
«Reagivano alle mie domande come se non mi avessero sentito. Non so dirti sinceramente quanto tempo passò, quanto cercai di farmi ascoltare, urlando, dimenandomi come una matta, prima di rinunciare. Mi sentivo come una tigre in gabbia, sotto gli occhi del domatore. Capii che era tutto inutile.
Fu allora che Aro mi si avvicinò. Mi disse che se per Vincent le speranze erano molto poche, per me ce n’erano molte. Insistette nel dirmi che avrei dovuto pensare seriamente alla loro offerta, che per me era la cosa migliore. Mi disse esattamente queste parole: “Un talento come il tuo non deve assolutamente andare sprecato”. Fu come cadere dalle nuvole, perché non sapevo di cosa stesse parlando, io non sapevo di possedere un talento. E soprattutto, non sapevo di possedere un talento che potesse interessargli. Aro mi disse ancora: “Pensaci. Io tornerò tra poco”, e se ne andò, seguito da Alec e Jane; Eleazar, invece, rimase indietro.
Si era accorto della mia reazione, e aveva intuito quello che stava succedendo; mi disse che voleva aiutarmi, e mi spiegò cosa successe quando vennero a cercarci nel bosco. Fu lui a spiegarmi in cosa consistesse il mio potere». Parlai in un moto di gratitudine. «Devo molto ad Eleazar. E’ anche per merito suo se non sono finita nelle grinfie di Aro.
Mi raccontò esattamente come andò nel bosco.
Mi disse di sentirsi in colpa, perché era stato lui a trovarci. Lui aveva avvertito i nostri poteri, e aveva seguito il più sviluppato. E’ per questo che trovarono prima Vincent, io avevo un potere sì molto forte, ma era meno affinato, meno levigato, per cui era più difficile da individuare con precisione.
Mi disse di essere rimasto sorpreso nell’avvertire dei poteri così forti, eppure quando lo avevano trovato, quando gli dissero perché erano venuti, lui non aveva opposto la minima resistenza. Li aveva seguiti senza dire una parola. Sapeva che stava per essere condotto a Volterra per essere giudicato. Eleazar disse che li seguì tranquillo, pur sapendo dove lo stavano conducendo, pur sapendo che ad attenderlo c’era la morte.
Eleazar non sapeva quello che in realtà era successo, non conosceva la verità. Era solo un servitore devoto, e come tale aveva eseguito gli ordini che gli erano stati impartiti. Mi disse di essere rimasto sorpreso dal modo di comportarsi di Vincent, dalla sua tranquillità, dal suo coraggio.
Lo portarono davanti ai loro capi, ma lui negò qualsiasi tipo di difesa, dichiarava di essere colpevole e di dover essere punito.
Pregai Eleazar di credermi, lo scongiurai di credere che lui in realtà fosse innocente. Gli chiesi di portarmi da Aro e da Vincent, per dichiarare la sua innocenza.
A quel punto Eleazar mi disse semplicemente: “Mi dispiace, ma non servirebbe a niente mentire. Aro ha letto nella sua mente, ha letto i suoi ricordi, qualsiasi tentativo di salvarlo sarebbe inutile. La condanna è stata emessa, probabilmente è già stata eseguita, la fine di quel ragazzo è già segnata. Mi dispiace tanto”».
Sentirsi crollare il mondo addosso è una sensazione bizzarra. Chi ha assistito alla demolizione di un edificio, sa di cosa parlo.
Si parte dalle cariche esplosive nelle fondamenta, per poi passare a quelle posizionane nei vari piani dell’edificio, nei pilastri portanti. È tutto silenzio, fino a quando non avviene la prima esplosione. L’intero edificio ruggisce, soffre, poi pian piano inizia ad accartocciarsi su se stesso, come volesse difendere ciò che ha al suo interno.
Ma non ci riesce. Tutte la sue pareti iniziano a disgregarsi, i pavimenti a cedere, i tetti a crollare; nonostante l’impossibile, pazzesco, sovraumano tentativo di aggrapparsi ai suoi ultimi appigli di stabilità per restare in piedi, finisce inevitabilmente con il rovinare al suolo, seppellendo le sue stesse fondamenta, soccombendo sotto il suo stesso possente peso.
E poi, nient’altro che il vuoto.
«Non credevo potesse essere vero. Nemmeno Eleazar mi credeva, si fidava di ciò che credeva avesse visto Aro, cose che in realtà non avrebbe mai potuto vedere, perché mai si erano verificate. Se Aro era davvero in grado di leggere nella mente, doveva aver visto che lui era innocente. Ma non aveva fatto nulla, aveva lasciato che lui morisse al posto mio. Non riuscivo a capire come la mia vita potesse valere più della sua; non era per i poteri, non era per la giustizia. Io ero colpevole, e inoltre lui aveva un potere forte tanto quanto il mio.
Non so perché Aro non si oppose all’esecuzione di Vincent, e probabilmente non lo saprò mai. Credimi, vivere con l’eterno dubbio che avrei potuto fare qualcosa, aiutarlo in qualche modo, è… troppo. E’ insopportabile».
Mi morsi un labbro. Era il mio modo per sfogare la frustrazione, la rabbia, il senso di colpa, che mi divoravano oramai da tanto, tanto tempo.
«Non so molto di come andò quando venne processato, e non so nulla della sua morte. Non mi dissero niente, nonostante provai all’infinito a chiedere di poterlo vedere almeno per un attimo, almeno per l’ultima volta. Non so chi, non so come, non so quando.
Niente.
L’unica cosa che riuscii a sapere da Eleazar, è quello che accadde quando arrivarono a Volterra, quando incontrò i Volturi.
Non ha nemmeno provato a difendersi. Quando arrivò davanti ad Aro, Caio e Marcus lui ha detto di essere l’unico artefice del massacro, di essere pienamente colpevole. Disse che qualunque altra persona che avesse detto il contrario, avrebbe detto il falso.
E loro gli hanno creduto. Bella, loro l’hanno lasciato fare. Hanno lasciato che scrivesse da solo la sua condanna. E’ morto per proteggere me».
Mi presi la testa tra le mani, mentre sentivo nuovamente la disperazione assalirmi.
Colpa mia.
Era completamente, esclusivamente, totalmente colpa mia.
Chiusi gli occhi, sforzandomi di sciogliere il nodo che mi si era formato nella gola.
Quanto avrei voluto poter piangere.
Difficilmente le persone che posso piangere, che hanno la capacità di versare lacrime, riescono a capire la sofferenza di chi non può farlo, di chi non ne ha modo. Le lacrime sono una dimostrazione di gioia, uno sfogo per la sofferenza, l’espressione dei sentimenti più profondi dell’animo.
Le lacrime spesso aiutano a lavare via il dolore, lo sbiadiscono, lo alleviano.
Chi come me non può piangere, le lacrime che vorrebbe versare se le tiene dentro, le soffoca, anche quando sente che sta per scoppiare.
Ma non scoppiamo mai.
Non possiamo.
Anneghiamo nel nostro stesso dolore, perché non abbiamo modo di sfogarlo.
L’ennesima condanna di una vita come la mia.
La frustrazione, la sofferenza, erano le mie compagne di vita da molto, molto tempo.
La verità è che, dentro di me, incolpavo i Volturi di aver ucciso l’unico uomo che io abbia mai amato, quando non riuscivo ad accettare che la colpa era mia se lui era stato andato a morte.
Era come se lo avessi ucciso io.
Farò tutto quello che è in mio potere per proteggerti, a costo della mia stessa vita. Qualunque cosa, te lo prometto. I secoli non avevano minimamente logorato il ricordo della sua promessa. L’avevano marchiata nella mia memoria, indelebile. Quella dannata promessa, alla fine, era riuscita a mantenerla.
Purtroppo.



***





Tadaaaaaaaaaan! Avevo promesso un capitolo al più presto, ed eccolo qui!
Cercherò di aggiornare anche in futuro piuttosto di frequente, sempre, naturalmente, università permettendo (grrrrrrrrrrrrrrrr)
Questo è stato un capitolo particolarmente travagliato, lo ammetto, e mi sono presa un bel po’ di quelle “licenze” di cui parlo nel intro del primo capitolo…Spero comunque che vi piaccia!
Rinnovo i ringraziamenti a chi commenta e a chi segue questa fanfic…grazieeee siete sempre nel mio cuoricino *_*
Un bacione a tutti…ciauuuuuuu :)





***





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Capitolo 22
*** Cap. XXI ***






***















Plic. Plic. Plic.
Aprii gli occhi. Bella era accanto a me, ma non aveva osato aprire bocca. Sentii la sua mano posarsi timida sulla mia spalla.
Che c’era, poi, da dire? Quella era la mia vita. Niente avrebbe potuto cambiarla, niente avrebbe potuto riportarmi indietro. Ma parlarne mi faceva stare meglio.
Riuscivo a sentirmi meno sola.
Mi alzai in piedi lentamente, guardandomi intorno.
Non avevo idea di quanto tempo fosse passato, ma doveva essere piuttosto tardi, il sole era tramontato già da un pezzo.
Sentii un lieve vento pizzicarmi la pelle. Qualche secolo prima avrei sentito freddo, ma non in quel momento. Ero del tutto insensibile al clima esterno.
Respirai un’abbondante boccata d’aria fredda.
Aveva smesso di nevicare.
La neve accumulata sugli alberi, sui sottili fili d’erba, sulle rocce, si stava piano piano sciogliendo, dando origine a delle piccole pozze d’acqua, tanti piccoli specchi, che riflettevano il cielo quasi completamente sgombro, alimentati dal gocciolare costante della neve che si scioglieva.
Plic. Plic. Plic.
Jacob, di nuovo con sembianze umane, e Nessie, erano a poche decine di metri da noi. Seduti a terra, completamente tranquilli, con il naso per aria guardavano il cielo, giocando ad indovinare la forma delle sporadiche nuvole.
Alzai anche io gli occhi verso il cielo. Era una sera tranquilla, il cielo spruzzato qua e la da luminose stelle e soffici batuffoli di nuvole. Da dietro una nuvola, spuntava timido un piccolo spicchio di luna, che con la sua luce riusciva a rendere la radura una distesa di cristallo, dove gli alberi erano ricoperti da tanti piccoli diamanti.
Non ricordo bene chi, ma ho sentito dire che la vera bellezza sta nel guardare le cose con gli stessi occhi entusiasti e stupefatti di un bambino; i bambini guardano il mondo con innocenza, non vedono il brutto, o il cattivo, o il marcio, ma vedono il gentile, il buono, il dolce, riescono a vedere, e soprattutto ad apprezzare, la bellezza delle cose ovunque essa sia. Loro non hanno la durezza della realtà a filtrare ciò che vedono, non hanno ancora il cinismo di chi nella vita ha sofferto, di chi ha visto la parte più oscura della vita stessa, perché crescendo è così che si impara a vedere le cose, disillusi, disincantati.
Mi venne da sorridere, quando rivolsi lo sguardo a Renesmee, che senza ombra di dubbio apprezzava lo scenario intorno a sé.
Già, l’ambiente che ci circondava doveva davvero essere di una sconvolgente bellezza.
Avrei tanto voluto avere gli occhi di Renesmee per poterla vedere.



***





Sigh sigh sob :( Lo so, sono passati la bellezza di 5 giorni, ma non ho avuto la connessione internet e non avevo proprio idea di come fare :( Sob :(
Mi sono momentaneamente allontanata dall’angoletto in cui mi sono messa in castigo da sola per postare questo capitolinoinoino…
Lo so, lo so, è molto corto, ma prometto che per farmi perdonare domani ne posterò un altro, giurin giuretto! (Piccola premessa, il prossimo capitolo sarà moooooooooolto più lungo e “fantasioso” di questo, capirete perché…eheheh)
Quindi, miei adorati lettori, pazientate ancora un pochino… solo fino a domani!
Un bacioneeeeeeeeeee :*





***





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Capitolo 23
*** Cap. XXII ***






***















«E’ piuttosto tardi, credo dovremmo rientrare».
Bella, che nel frattempo si era alzata, annuì, andando verso Nessie e Jacob. La seguii a ruota, mentre diceva ai ragazzi che era ora di tornare a casa.
Jacob saltò in piedi, correndo via. Tornò dopo pochi secondi trasformato, e fece salire Nessie sulla sua schiena pelosa. I due ragazzi ci precedettero, mentre Bella gridava dietro di loro: «Ci vediamo a casa!».
A quel punto, Bella si voltò verso di me, sorridendo appena: «Te la senti di tornare a casa?».
Casa.
I Cullen erano la mia casa, la mia famiglia. Erano tutto quello che mi rimaneva.
Si, era proprio ora di tornare a casa.
«Non mi hai ancora detto come hai conosciuto Carlisle e gli altri», mi disse Bella, mentre prendevamo a correre.
Sorrisi. «Bè, all’epoca in cui ho iniziato a vagabondare conoscevo Carlisle solamente di nome, effettivamente non avevo idea di chi fosse», le dissi. «Quando i Volturi mi fecero chiaramente capire che il loro unico interesse era avere accesso al mio potere, me ne andai seduta stante. Il problema era che non sapevo dove andare».
È stata dura realizzare davvero che ero rimasta sola. Mi ero aggrappata all’utopica possibilità di tornare con Vincent; non avevo mai pensato nemmeno per un secondo che lui non sarebbe tornato.
«Toltomi Vincent, ero sola al mondo. Non avevo famiglia, non avevo amici. So che la maggior parte dei vampiri vive isolato, da nomade, e difficilmente riesce a resistere a lungo in un clan, ma per me era diverso. Io ero abituata a stare sempre con qualcuno, non ero mai stata sola, e la cosa mi terrorizzava. Ma non avevo altra scelta.
In quel periodo, che durò qualche decina d’anni, mi abituai a vivere in solitudine, da nomade. Mi è capitato di incontrare altri vampiri, ma non mi fidavo di nessuno, con il risultato che finii per isolarmi completamente da tutto il resto del mondo.
Bella, quel periodo è stato molto difficile per me, anche perché abbandonai la strada della vita vegetariana, e iniziai a bere sangue umano. Non vado particolarmente fiera di quel periodo della mia vita», dissi con una smorfia, «ma mi è servito, e molto. Mi ha fatto capire cosa non volevo assolutamente diventare. La solitudine, Bella, per me era la più grande delle disgrazie, la peggiore delle malattie, ma imparai a conviverci. Placavo la sofferenza che avevo dentro nutrendomi di sangue umano. Non che servisse poi a molto, visto che dopo ogni battuta di caccia mi sentivo un vero schifo, perché avevo la perenne sensazione di stare tradendo tutto quello per cui ero rinata. Vivevo con dei fantasmi, con l’ombra di quello che avevo fatto sempre dietro alle spalle, sguazzavo in uno stato di perenne disperazione che non mi abbandonava mai.
Eppure, è stato proprio in quel periodo che ho capito molte cose di me; la solitudine ti obbliga a guardarti dentro, a capire cosa c’è che non va, perché sei sola con te stessa. Prima di tutto, ho capito quello che non volevo diventare: non volevo continuare ad uccidere delle povere persone che non c’entravano niente.
Dopo, ho capito quello che, invece, era giusto fare, quello che sapevo mi avrebbe aiutata, così decisi di partire per l’America. E’ stato allora, lungo uno dei miei vagabondaggi, che ho conosciuto Carlisle. Bè, a dirti la verità, non so di preciso se sono stata io a trovare lui o lui a trovare me», dissi ridacchiando.
Bella aggrottò le sopracciglia. «Perché?».
«Di certo sai che Carlisle passò parecchi decenni in giro per l’Europa, in particolare in Italia», le dissi io. «Carlisle era molto conosciuto nel nostro mondo già all’epoca. Era un rivoluzionario, un anticonformista, e benché non fossero in molti quelli che condividevano il suo stile di vita (anzi, direi proprio nessuno, tolta la sottoscritta), era sicuramente rispettato. Un vero leader».
Bella scosse il capo, sorridendo. «Non avevo mai pensato a Carlisle in questi termini», disse, pensando alle mie parole.
Sorrisi. «Carlisle è un uomo straordinario. Il ruolo di padre di famiglia, di mentore, gli sta talmente bene che è facile dimenticarsi che, in fondo, lui è il capo di un clan, per quanto particolare, unito e legato da un profondo affetto.
La prima volta che ci incontrammo eravamo entrambi nei dintorni di Chicago, lui era appena arrivato in America. Io vivevo qui già da alcuni anni, ma evitavo accuratamente il centro abitato, uscivo dal mio nascondiglio molto raramente, rigorosamente di notte; quando non ero a caccia, mi mettevo a correre come una forsennata, correvo spesso fino alle prime luci dell’alba, mi aiutava a scaricare la tensione, a smettere di pensare per qualche ora. Durante una delle mie passeggiate notturne incontrai Carlisle, proprio mentre era a caccia. Quando lo vidi mi fermai, perché credevo non ci fossero altri vampiri in zona, e anche lui sembrava particolarmente sorpreso. Non capii chi era fino a quando non vidi il colore dei suoi occhi. Bè, effettivamente anche quando vidi che aveva gli occhi dorati non pensai subito che fosse proprio lui, ma comunque era il primo vampiro vegetariano che vedevo dopo molti anni, quindi puoi immaginare la mia sorpresa».
Sorpresa.
Che eufemismo.
Accennai un piccolo sorriso, che Bella mi restituì, fraintendendomi.
Ecco, non le avevo detto esattamente tutta la verità riguardo al mio primo incontro con Carlisle.
Certo, era vero che io non sapessi che lui era a Chicago, ma sapevo perfettamente che c’era un vampiro in città, e sapevo perfettamente che era vegetariano.
L’odore di un vampiro vegetariano è diverso da quello degli altri vampiri, quindi è facile distinguerlo da tutti gli altri.
La prima volta che sentii il suo odore ero in città, durante una caccia notturna.
Quasi mi prese un colpo; non sentivo l’odore di un vampiro vegetariano da secoli.
Da quando Vincent se n’era andato.
Non so cosa questo scatenò nella mia mente, ma per un breve, brevissimo istante pensai che fosse lui.
Sapevo che era una cosa assurda, che lui se n’era andato, che non poteva essere lui, ma una piccola parte della mia mente analizzò la follia di quel pensiero, e decise che non era poi così folle.
Io non l’avevo visto morire.
Forse era ancora vivo.
Razionalmente rigettavo quel pensiero, perché era talmente tanto assurdo, talmente tanto pazzesco da essere impensabile. Il vero problema era che si era accesa dentro di me una speranza, un qualcosa di talmente tanto radioso, vivo e luminoso, da essere insopportabile. Rassegnarsi alla sua morte aveva inaridito il mio spirito, e mi aveva reso insensibile oramai al dolore; la speranza che potesse non essere così aveva sfondato con la forza di un carro armato le convinzioni con le quali convivevo.
L’odore che avevo sentito aveva rischiarato il buio che avevo dentro, aveva acceso una piccola fiammella di speranza, che presto diventò una vera e propria ossessione, un incendio tale da bruciare il bozzolo dentro il quale mi ero riparata dal mondo esterno.
Arrivai sull’orlo della follia, uscivo tutte le notti per controllare che ci fosse ancora, ma non mi avvicinavo mai troppo al punto dove immaginavo si trovasse, quindi l’odore rimaneva confuso, e non riuscivo a distinguere se fosse davvero il suo.
Ero come impazzita. Avevo seguito il suo odore per tutte le strade della città, tenendomi sempre a debita distanza dalla fonte primaria, naturalmente, ma quella notte mi ero decisa finalmente a vedere chi fosse.
Probabilmente anche lui sapeva che c’era qualche altro vampiro in zona, perché sapevo anche io di non essere l’unica, ma io a quell’epoca mi nutrivo ancora di sangue umano, sebbene cercassi di mortificarmi il più possibile, andando a caccia molto di rado, lasciandomi soffocare dalla sete, divorare dal bisogno di sangue, per puro autolesionismo.
Anche lasciarmi andare a quella stupida e inutile speranza era un modo per farmi del male. Sapevo perfettamente che non poteva essere lui, altrimenti perché non mi aveva cercata?
Però, in fondo, ero stata io la causa delle sue sofferenze, ero stata solo una disgrazia per lui. Perché mai avrebbe dovuto cercarmi?
Una parte del mio cervello mi suggeriva che quello non era il suo odore, che conoscevo bene l’odore della sua pelle, e che quello che sentivo non era altrettanto buono come il suo. Ma, in fondo, erano passati molti anni, potevo anche averlo dimenticato, no?
Invece mi sbagliavo. Non avrei mai potuto dimenticare il suo odore, come mai avrei potuto dimenticare ogni singolo particolare della sua intera esistenza. Eppure nulla riusciva a spegnere quel piccolo scorcio di luce, la fiamma che brillava incurante nelle tenebre che avevo dentro, nonostante tutti i tentativi di soffocarla, di soffiarla via.
Ma gli occhi dei vampiri sono infallibili, esattamente come lo è il nostro olfatto.
La notte che lo vidi seppi all’istante che non poteva essere lui, che lui non era Vincent.
Quindi si, è decisamente un eufemismo usare la parola “sorpresa” per descrivere quello che provai in quel momento. Sinceramente, non credo esista qualche vocabolo che riesca a racchiudere tutto quello che accadde nell’istante in cui realizzai quella che poi, effettivamente, era una verità che conoscevo, visto che sapevo perfettamente che Vincent non c’era più, e che niente l’avrebbe riportato indietro. So solo che, all’improvviso, sentii una folata di vento gelido attraversarmi da parte a parte.
E tutto tornò ad essere buio.



***





Et voilaaaaaaaaaaaaaaà promessa mantenuta :)
Come ho preannunciato nel prologo di questa storia, per cercare di rimanere il più fedele possibile alla storia originale ho dovuto fare non pochi salti mortali, e questo capitolo può essere inteso come un triplo salto carpiato con doppio avvitamento a testa in giù (madonna mia ma che salto è?!?!); ecco, è un modo carino per dire che non mi ha reso la vita molto facile, perché non sapevo proprio come caspita farli incontrare… Non so come sia il risultato finale, spero di essere stata abbastanza realistica e convincente :)
Spero anche che sia lungo abbastanza da tenervi impegnati fino al prossimo capitolo… che posterò il prima possibile! Al prossimo post… un bacio grande a tuttiiiiiiiii :*





***





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Capitolo 24
*** Cap. XXIII ***






***















«Lui invece sapeva chi eri?», mi chiese Bella, ad un tratto.
Scossi la testa. «No, non lo sapeva. O, meglio, mi disse che conosceva la mia storia, ma non sapeva che faccia avessi. Sai, fu li ad avvicinarsi», dissi sorridendo. «Mi disse che ero la prima vampira che incontrava da quando era arrivato in America, e che lui era arrivato da qualche settimana. Capii da subito che era una persona speciale, diverso dagli altri vampiri, e per molti giorni successivi ci incontrammo. Gli raccontai tutto quello che mi era capitato nel corso degli anni, mi riusciva facile fidarmi di lui». E a chi non riusciva? «Lui mi disse che si sentiva solo, che gli sarebbe piaciuto formare una piccola comunità vegetariana, di persone come lui. Era stanco di vivere in solitudine. Sai, quando gli raccontai che per qualche tempo ero stata vegetariana, mi chiese di unirmi a lui».
Bella si voltò a guardarmi sorpresa. «Dici sul serio? Io sapevo che la prima persona a unirsi a lui fu Edward».
«Infatti, e fu proprio perché io inizialmente rifiutai», le dissi. «Non perché non volessi anche io, ma non mi sentivo in grado di vivere insieme a qualcuno. Non mi sentivo ancora pronta. Avevo bisogno di riordinarmi un po’ le idee prima, di mettere in ordine alcune cose nella mia vita. Io stavo andando a fondo, non volevo trascinare nessun altro con me».
Bella annuì, seria. «Cosa ti fece cambiare idea?»
Eravamo vicine a casa, oramai. I ragazzi erano già rientrati da un pezzo, visto che io e Bella avevamo rallentato di molto l’andatura. A quella domanda, praticamente mi misi a camminare.
Soppesai i pensieri, cercando una risposta. «A dirti la verità, non lo so», dissi alla fine, pensierosa. «Quando non era a lavoro in ospedale, veniva di tanto in tanto a trovarmi. Mi raccontava delle innumerevoli morti che c’erano, delle sofferenze a cui assisteva. Un giorno, alla fine, si presentò da me con Edward», le dissi sorridendo. «Il resto lo sai già. Mi disse che stava costruendo la sua famiglia, e che, se un giorno avessi voluto, per me la porta era sempre aperta. Fu in quel momento che capii che volevo tornare ad essere quella che ero all’inizio, e non il mostro che si era impossessato del mio corpo. Nel frattempo, a lui si unii anche Esme, mentre io dovevo prima affrontare un periodo di “rieducazione”. Fu molto più difficile rispetto alla prima volta. Sai, quando assaggi il sangue umano, per quanto ripugnante possa razionalmente sembrarti, è comunque difficile tornare indietro», e ridacchiai. «Volevo dimostrare a me stessa che Carlisle aveva ragione, che poteva esistere un luogo per noi che potessimo chiamare casa, quindi quando riuscii a trovarlo, a seguito della mia “riabilitazione”, fui davvero felice di vedere che era riuscito a formare una vera famiglia. Poco dopo di me, arrivarono Alice e Jasper».
«Però tu non sei rimasta, a differenza degli altri». Non so bene se fosse una domanda o un’affermazione, ma dall’espressione di Bella la interpretai come una semplice constatazione.
«Sono una solitaria, uno spirito libero, mi piace essere libera come l’aria», le dissi cercando di ridere.
Ma Bella non ci cascò. «Elian…», mi disse, sorridendo di traverso.
Sospirai. «No, hai ragione. È solo che… non mi sentivo tagliata per la vita familiare, mi sembrava di essere in gabbia. Non è che non volessi rimanere, adoro Carlisle e gli altri, non fraintendermi», mi affrettai a dire.
«Non lo farò», mi rispose lei prontamente.
«Spesso, mi capita di avere bisogno di tempo per me, di staccarmi da tutto. Loro non c’entrano niente, e capiscono che se me ne vado non è perché io non voglia loro bene, ma è meglio così, per tutti, per me e per loro». Soprattutto per loro. Le cruente battaglie con i miei demoni, con le ombre del mio passato, sono lunghe ed estenuanti, e non voglio assolutamente fare del male a nessuno, non più; coinvolgere delle persone che non hanno nessuna colpa nei miei assurdi casini mentali non è la cosa migliore. Soprattutto per me. «Torno dai Cullen a periodi alterni, ma non riesco mai a rimanere troppo a lungo. Non ti stavo prendendo in giro quando ti dicevo che mi sento un lupo solitario. Dopo tanti anni vissuti in solitudine, ho finito col fare mio quel modo di vivere, fino a farlo diventare l’unico con cui sto davvero bene. Eppure, mi riesce facile considerare Carlisle, Esme, Edward e tutti gli altri la mia famiglia. Effettivamente, li considero a tutti gli effetti l’unica casa che ho al mondo. Non so spiegartelo meglio, lo so che è una cosa strana».
«Bè, effettivamente si, lo è», mi disse lei sorridendo, «ma credo di poterti capire».
Le feci un gran sorriso, mentre mettevamo piede nel giardino di casa Cullen, camminando con tutta calma. «E così, adesso finalmente puoi dire di conoscermi bene come gli altri, spero di aver soddisfatto le tue curiosità».
Lei mi restituì il sorriso. «Altrochè, più che soddisfatte», e ci mettemmo a ridere insieme.
Vidi Edward uscire a grandi passi dalla casa, venendoci in contro. Quando lo vidi sorrisi anche a lui, ma il sorriso mi si gelò in volto. Aveva l’espressione preoccupata e contratta, le labbra serrate. Qualcosa non andava.
Bella accellerò il passo, e fu davanti a lui in meno di un secondo. «Edward, che succede?», gli chiese, visibilmente tesa. «E’ successo qualcosa alla bambina?», disse, mentre un’accesa nota di panico le si mescolava alla voce.
Edward le mise una mano sul braccio. «Bella, amore, stai tranquilla. Nessie sta bene».
Questo però non sembrò tranquillizzare Bella, e nemmeno me. Edward alzò lo sguardo verso di me, e notai i suoi occhi farsi ancora più cupi, e preoccupati. «Non c’è nulla di cui preoccuparsi, ma è meglio rientrare. Vi stavamo aspettando».
Bella fece per andare verso casa, ma io non mi mossi. Conoscevo quello sguardo, sapevo cosa voleva dire. Sentii nuovamente montare dentro una rabbia accecante.
Edward continuava a fissarmi, sempre più preoccupato. Era impossibile nascondergli qualcosa, per cui decisi di scoprire le carte. Se dovevo esplodere, era meglio non farlo in casa.
Guardai Edward negli occhi. I Volturi. C’entrano loro. Lui strinse le labbra, ma sapeva che era inutile cercare di nasconderlo.
Quindi annuì, molto lentamente.



***





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Capitolo 25
*** Cap. XXIV ***






***















Doveva trattarsi di una sorta di incubo senza fine. O forse di una maledizione, di una qualche fattura, che so, ma qualcosa doveva pur essere. Non era possibile, non era logico. Forse mi seguivano, forse erano sulle mie tracce, forse mi volevano ancora con loro. Non riuscivano a lasciarmi in pace, non riuscivo a liberarmi di loro.
Forse ero davvero maledetta.
Evidentemente, non gli bastava quello che avevano già fatto, dovevano mettersi a disturbare anche la mia famiglia. Ma stavolta non l’avrei permesso. No. Mai. A qualsiasi costo.
Ero rimasta piantata nel punto dove mi trovavo, senza muovermi. Sentivo la lava scorrermi in corpo, mentre stringevo i pugni con tutta la forza che avevo, cercando di mantenere la calma. Edward mi guardava serio, aspettando. Bella era poco distante da lui, sembrava non capire la mia reazione. Fu Edward a parlare per primo. «Elian, andiamo dentro, ti spiegherò tutto. Non c’è nulla di cui preoccuparsi, puoi stare tranquilla».
«Ti sembra facile», sibilai tra i denti, «con loro non c’è mai da stare tranquilli, e lo sai meglio di me». Bella sussultò. «Edward, sono i Volturi? Vogliono ancora Renesmee? Alice ha visto qualcosa?», disse in preda ad una vera e propria crisi d’ansia.
Edward sospirò, rassegnato. Prese Bella tra le braccia, tranquillizzandola. «Bella, sta tranquilla. Alla piccola non succederà niente», disse, poi si voltò verso di me. «Se mi lasciaste spiegare vi evitereste preoccupazioni inutili».
Serrai la mascella, imprecando mentalmente. Al diavolo le preoccupazioni inutili. Se non ci fosse stato niente di cui preoccuparsi non saresti corso fuori da noi, non prendermi in giro, pensai acida.
Ma lui fece finta di non sentirmi. «Andiamo dentro», disse semplicemente, ma dal modo in cui ci guardammo, capii che la discussione non era finita li.
Li precedetti all’ingresso, e mi diressi immediatamente verso il grande tavolo ovale della sala da pranzo, dove trovai tutti gli altri. Sembravano tutti piuttosto tranquilli, il clima era rilassato, non teso e preoccupato come mi sarei aspettata. Non riuscivo a capire.
Mi sedetti accanto ad Esme, che mi rivolse un sorriso incoraggiante, mentre entravano nella stanza anche Edward e Bella. Edward continuava a fissarmi, e la cosa non mi piaceva per niente. Notai che anche Alice mi guardava in modo strano, ma a parte loro non sembrava ci fosse niente di strano.
Quando anche gli ultimi due arrivati si sedettero, mi appoggiai con i gomiti sul tavolo, guardandomi intorno. «Allora, volete dirci che succede?».
«Alice ha avuto una visione», disse Carlisle. Mi voltai verso Alice, che annuì.
«Cosa hai visto?», chiese Bella.
«Nulla di catastrofico o disastroso», disse, lanciandomi un’occhiata, «visto che in fondo ce l’aspettavamo. Tra qualche giorno verranno a farci visita i Volturi».
«Perché?», chiesi io, con una nota di irritazione nella voce che non riuscii a mascherare. Fui improvvisamente invasa da un piacevolissimo senso di tranquillità, che mi fece capire che Jasper si era messo all’opera. Mi voltai verso di lui, cercando di apparire contrariata, ma lui mi rivolse un mezzo sorriso, e una nuova ondata di pace mi tolse ogni voglia di ribellione.
«Verranno a controllare la piccola, semplicemente. Quando se ne andarono, l’ultima volta, ci dissero che sarebbero tornati a controllare la sua crescita. Sapevamo che prima o poi sarebbe successo, ma non c’è nulla di cui preoccuparsi». Mi guardava cercando di apparire il più naturale possibile, ma si vedeva da un miglio che sembrava pensare tutt’altro. Anche Bella se ne accorse.
«Alice, cos’hai visto di preciso?», le chiese preoccupata.
«Ho visto cinque vampiri dirigersi verso Forks, li ho sentiti parlare di Renesmee, e tra questi c’era Aro». Un ringhio mi uscì dalla gola, non riuscii a fermarlo. Si voltarono tutti nella mia direzione, ma Alice continuò a parlare, in direzione di Bella, mentre sentivo una nuova ondata di calma invadermi. «Non vogliono fare del male alla piccola, e nemmeno portarla via. Vogliono vedere come sia cresciuta, sanno che non hanno niente a cui appigliarsi per portarla via, e non hanno intenzione di farlo. Bella, puoi stare tranquilla. Non portano combattenti con loro, e poi ti assicuro che se avessi visto qualcosa che non andava avremmo immediatamente pensato a mettere al sicuro Renesmee». Usava un tono rilassato e convincente, sembrava stesse dicendo la verità. Sicuramente Alice non avrebbe mai messo in pericolo la piccola, e ancor meno lo avrebbe fatto Edward, che l’avrebbe immediatamente visto se Alice avesse mentito. Ma c’era ugualmente qualcosa che non mi quadrava.
«Non c’è niente da temere, se ne andranno non appena vedranno che la nostra bambina è cresciuta, non le faranno del male», disse Edward tranquillo. Bella annuì, cercando di sorridere. L’idea che di li a poco i Volturi avrebbero rimesso piede nella sua vita sembrava metterla a disagio tanto quanto me.
Mi voltai nuovamente verso Alice. «Quando?»
«Cinque, sei giorni al massimo», disse.
Bella e io trasalimmo insieme. «Così presto???», chiese lei. Edward le sorrise. «Si, ma non c’è nulla di cui preoccuparsi, non si tratterranno qui, partiranno subito».
Bella disse qualcosa, o forse parlò Rosalie, ma da quel momento non badai più alle voci intorno a me.
Cinque giorni. Solamente cinque giorni e mi sarei ritrovata faccia a faccia con l’essere che odiavo di più sulla faccia della terra.
Cinque giorni.
Sentii, dopo non so quanto tempo, una mano posarsi sulla mia spalla. Era Alice; mi sorrise raggiante, era tornata alla sua solita spensieratezza. «Elian, vieni di sopra con me, oggi pomeriggio ho preparato una cosa speciale per te». Traduzione: ho bisogno di parlarti lontano da occhi indiscreti, quindi non fare domande e vieni immediatamente con me. Avevo imparato abbastanza di Alice da capire che se ci fosse stata davvero una sua nuova strabiliante creazione sarebbe riuscita a coinvolgere l’intera famiglia. Feci finta di nulla, e annuii, sorridendo.
«Andiamo».
Gli altri non badarono a noi, mentre seguivo Alice lungo le scale che portavano al piano di sopra, ma notai, con la coda dell’occhio, che Edward ci stava guardando, pensieroso.
Avevo la spiacevole sensazione che non avessero detto tutto, ed Alice e Edward erano gli unici che avevano la possibilità di conoscere tutta la verità.
Non dicemmo una parola lungo il corridoio, e nemmeno mentre entravamo dentro la sua camera. Mi fece entrare per prima, e io mi avvicinai al grande letto a baldacchino. Adesso ero davvero preoccupata. Alice si chiuse la porta dietro, e finalmente mi guardò. Lessi una profonda preoccupazione nel suo sguardo, una preoccupazione che fino a poco prima non c’era. Mi colse di sorpresa. «Alice, che succede?».
Lei si morse il labbro per qualche istante prima di parlare. «Sono preoccupata, Elian, molto preoccupata, e non mi capita molto spesso di esserlo».
Annuii, sebbene non avessi ancora capito un emerito accidente. «Ho intuito che c’è qualcosa che non va, e so anche che gli unici a saperlo siete tu ed Edward, ma sinceramente non capisco. Hai visto qualcosa di così brutto da non poterlo nemmeno dire agli altri?».
Alice scosse la testa. «No, no, non ho visto niente di terribile, se intendi questo, ma ho visto qualcosa che non mi so spiegare». Si morse ancora una volta il labbro. Aspettai, ma la mia pazienza si stava esaurendo. «Cosa, Alice?», le chiesi, esasperata. «Riguarda la bambina? Riguarda me?».
Solo in quel momento realizzai che doveva esserci qualcosa di davvero molto, molto strano, se me lo stava dicendo così. Avrei combinato qualcosa di sbagliato? Avrei fatto del male a qualcuno? Alice mi aveva visto fare qualcosa che non avrei dovuto?
«Alice, ti prego, vuoi dirmi cosa hai visto?»
«E’ proprio quello il problema», mi disse lei alla fine, frustrata, «che non so dirti cosa ho visto! Era una visione troppo confusa, troppo fumosa, non so esattamente cosa sia successo. L’unica cosa che so per certo è che riguarda te».



***





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Capitolo 26
*** Cap. XXV ***






***















La guardai perplessa. Era inutile chiederle se ne fosse certa. Alice non si sbagliava mai. «Bè, però, se non hai visto niente di preoccupante…».
Ma mi interruppe. «Non ho detto che non ho visto niente di preoccupante, ho solo detto non so di preciso cosa ho visto. Si è trattato più che altro di una sensazione».
Eppure, continuavo a non capire. «Tu ed Edward pensate che io voglia fare qualcosa quando i Volturi verranno, non è vero?».
Scosse energicamente la testa. Si vedeva che non era tranquilla. «Non intendevo questo. E’ solo… mi inquieta non riuscire a capire cosa sia successo. Ho provato più volte a cercare di nuovo quella visione, ma non sono riuscita a ritrovarla. Né nel tuo futuro, né in quello degli altri. È per questo che sono così preoccupata. Edward se n’è accorto, ed è preoccupato anche lui. La sensazione che ho avvertito non era qualcosa di brutto, ma è comunque strano che io abbia un flash e che poi, di colpo, sparisca dal futuro. Nessuno cambia idea così velocemente da impedirmi di vedere persino la conseguenza di una decisione. È stata come una sorta di interferenza. Il futuro cambia in fretta, ma non ho mai avuto una visione così poco definita. E’ come se avessi sbirciato dal buco di una serratura, e qualcosa mi avesse subito buttato fuori».
L’ascoltavo parlare, sempre più perplessa. «Ti rendi conto che è una cosa strana, vero?»
«Altrimenti secondo te perché sarei preoccupata?», mi rispose lei, cupa.
Certo, che idiota che ero. «Lo so, Alice, scusami», le dissi mortificata. «Credi che sia un limite del tuo potere, che ne so, magari c’è qualcuno di cui non puoi vedere il futuro?».
Alice mi guardò, sospirando. «E’ una sensazione strana, non so come spiegartela», mi disse. «Si, è vero, potrebbe essere, ma… non lo so. Finora, oltre ai licantropi, nessuno era mai rimasto escluso dalle mie visioni. Nemmeno Bella, che ha uno scudo potentissimo, riesce a bloccare la mia capacità di vedere nel futuro».
«Bè, non è esattamente così», la interruppi io, meditabonda, «dimentichi che io posso impedirti di avere qualsiasi tipo di visione».
Fece un debole sorriso, venendo verso di me. «Già, ma se tu mi avessi impedito di usare il mio potere non avrei avuto nessuna visione, non una visione parziale, quindi non vale».
Non faceva una piega, come ragionamento. Ma c’era ancora qualcosa che non mi era chiaro.
«Alice, credi che dovrei andare via? Voglio dire, va bene che mi hai detto che non hai avuto una vera e propria visione, ma io non voglio ugualmente correre il rischio di fare del male a qualcuno, soprattutto qui», le dissi molto chiaramente.
Alice, che nel frattempo aveva preso a gironzolare per la stanza, si fermò di colpo, voltandosi verso si me. «Certo che no! Non intendevo dirti che devi andartene. Voglio solo che tu stai molto, molto attenta. Non mi piace sapere che c’è qualcun altro che sfugge al mio potere. State diventando un po’ troppi», disse infine, stizzita.
Ridacchiai. «Va bene, sta tranquilla, terrò gli occhi bene aperti, te lo prometto».
«Io intanto continuerò a cercare, dovessi sbirciare il futuro dell’intera umanità. Devo trovare quella visione».
Certo che quando Alice si metteva qualcosa in testa, diventava peggio di Rosalie. «Alice, tranquillizzati, vedrai che non è nulla di preoccupante».
Ma lei non era del mio stesso avviso. La sua espressione si indurì, mentre parlava. «Elian, ascoltami. Il mio potere, insieme a quello di Edward, è fondamentale per la nostra famiglia. Se uno di noi due fallisce, tutti correremmo dei rischi. Probabilmente è come dici tu, non c’è niente di cui preoccuparsi, ma l’esperienza mi insegna che bisogna sempre stare all’erta in questa casi. Se non riesco a prevedere il futuro di qualcuno, o se ho delle visioni strane come quelle di poco fa, può voler dire che c’è qualcosa che mi impedisce di vedere, ma può anche voler dire che c’è qualcuno che non vuole che io veda. E se è così, non può essere niente di buono». Mi colpì il senso delle sue parole. Mi limitai ad annuire, seria.
La quasi totalità delle persone non conosce il proprio futuro, per loro è naturale, semplice, vivere senza avere la certezza di quel che succederà. Conoscere il proprio futuro è un qualcosa al di fuori dall’ordinario; eppure, una volta che ci si abitua ad avere la certezza di poter conoscere il proprio avvenire in qualsiasi momento, perderla è spiazzante.
Su una cosa Alice aveva perfettamente ragione. Qualunque cosa fosse, certamente, non era niente di buono.



***





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Capitolo 27
*** Cap. XXVI ***






***















Lasciai Alice in camera sua, e mi diressi verso le scale, meditabonda. Ripensai a quello che aveva detto davanti a tutti gli altri, e poi a quello che mi aveva rivelato, quando eravamo rimaste sole. No, non avrebbero mai corso il rischio di mettere in pericolo la famiglia solo per farmi restare. Sarei partita subito, semmai avessi avvertito la minima avvisaglia di pericolo. Eppure… come poteva averne la certezza? Era davvero una buona idea restare, nonostante quello che mi aveva detto Alice? È la tua stessa presenza a non essere niente di buono, devi andartene, per il bene di tutti, mi suggerì una piccola, maligna voce nella mia testa. Effettivamente, non aveva tutti i torti. Che senso aveva restare, con il rischio che potesse accadere qualcosa di brutto? Nessuno, appunto.
Bè, la mia visita sarebbe stata più breve del previsto. Dovevo andarmene, avevo deciso.
«Te lo puoi anche scordare». Trasalii, e mi voltai di scatto. Non lo avevo minimamente sentito arrivare.
Era in piedi, appoggiato di fianco al muro, con le braccia conserte. «Edward, devo». Per il bene di tutti.
«No che non devi», disse Edward con tutta calma, mentre si staccava dal muro e avanzava piano verso di me. «Hai sentito Alice, non c’è un pericolo imminente. Se ci fosse stato, credimi, Alice sarebbe stata la prima a dirtelo. Io mi fido di lei, dovresti cominciare a farlo anche tu», disse accigliato, in tono di disapprovazione.
«Sai bene che anche io mi fido di lei», gli risposi, corrucciata, «non è quello il problema».
«Lo so», disse lui, sospirando. «Elian, è inutile scappare. Non puoi fuggire in eterno dai tuoi fantasmi, devi affrontarli».
«E chi ha detto che sto scappando?», risposi, sarcastica. «Ci sto talmente bene in compagnia, perché mai dovrei scappare dai miei compagni di vita?»
«Smettila». Edward mi guardava dritto negli occhi adesso, serio. «Non è colpa tua. Smettila».
Distolsi lo sguardo, abbassando gli occhi sul pavimento di parquet lucido. Certo che era colpa mia, era sempre colpa mia. Era sempre stata colpa mia.
«Basta Elian!». Edward mi afferrò per le spalle, costringendomi a guardarlo. Sgranai gli occhi, presa alla sprovvista, quando incontrai i suoi. Erano pieni di dolore, un dolore che non mi spiegavo.
Riprese a parlare con voce ferma, ma colma di preoccupazione. «Piccola, devi ascoltarmi. Smettila di autocommiserarti, ti stai facendo del male da troppo tempo, e io non riesco più a sopportare di vederti così. So cosa ti passa per la testa da quando ci siamo conosciuti, e devi cercare di capire che la colpa di tutto quello che è successo non è tua!».
Chissà perché cercava di convincermi di una cosa così assurda. Che senso aveva?
Ripensai a Vincent, e quanto ne avessi sentito la mancanza. A quanto ne sentissi la mancanza, ancora adesso.
E adesso, i Volturi che facevano visita ai Cullen. Alice che aveva problemi con il suo potere. Visioni, o, come aveva detto Alice, “sensazioni”, che lei non sapeva spiegarsi, ma che riguardavano me. Ero una fonte inesauribile di problemi. Li attiravo, ero una calamita. L’unica cosa che potevo fare era limitare i danni il più possibile, ed evitare che le persone che volevano rimanermi accanto ne rimanessero coinvolte. Non più.
«Capisco che tu voglia evitare che succeda di nuovo», mi disse Edward, «ma non succederà. Andartene non servirà a farti stare meglio, né tantomeno a far stare meglio noi. Elian, te lo dico perché ti voglio bene, e te ne vogliono anche gli altri. Non è colpa tua, mettitelo in testa. Anche lui lo sa».
Non osavo nemmeno pensarla una cosa del genere. Era troppo per me, troppo doloroso, troppo intenso. Le mie labbra ebbero un fremito. Edward mi abbracciò. «Sei appena arrivata, non puoi andartene di nuovo. Non hai nessun motivo per scappare, hai noi al tuo fianco, devi capire che non sei più sola. Sei parte della famiglia, qui è casa tua. I Volturi non ti faranno più del male, te lo prometto».
Non trovai le parole per esprimere quello che provai in quel momento. Ma, almeno in quell’occasione, sapevo che, mai, nessun altro meglio di Edward avrebbe potuto capire.



***





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Capitolo 28
*** Cap. XXVI ***






***















Che cosa straordinaria che è la famiglia.
Chi ha la fortuna di averne una, spesso non se ne accorge mai veramente. Sarà crudele, ma, purtroppo, il saggio che ha detto che non si riesce ad apprezzare quel che si ha finchè non lo si perde, la sapeva davvero lunga.
Probabilmente, era qualcuno che ha sofferto molto.
Chi, invece, di famiglia se ne costruisce una da zero, non può non conoscerne lo straordinario potere. È straordinariamente confortante sapere di avere un luogo da poter chiamare casa, con delle persone a renderla calda e accogliente; la mia vera famiglia era quella che mi ero scelta.
Non so se fosse stato l’effetto delle parole di Edward, o la costante tranquillità che regnava a casa Cullen, ma i cinque giorni che seguirono l’annuncio dell’arrivo dei Volturi furono stranamente piacevoli. Nessuno degli altri membri della famiglia sembrava essersi accorto di ciò che era successo quella sera, o forse lo sapevano, e facevano finta di niente. Non so, ma qualunque fosse il motivo, sentivo di aver riacquistato un po’ di calma. Ogni tanto notavo Alice lontano dagli altri, con lo sguardo vacuo e l’aria persa, ma cercavo di non preoccuparmi eccessivamente. Mi aveva detto, un po’ perplessa, che niente nel mio futuro sembrava essere cambiato, che tutto sembrava scorrere esattamente come dovrebbe; della misteriosa visione, niente di niente. A suo avviso, non c’era niente da temere, ma, si sa, la prudenza non è mai troppa.
Nessuno sembrava preoccupato dall’arrivo dei Volturi; solo Bella sembrava lievemente a disagio.
La capivo perfettamente. Una sera ci ritrovammo in giardino, mentre il sole era oramai prossimo al tramonto. Bella era seduta su una piccola sporgenza rocciosa, e guardava la piccola Renesmee, seduta sull’erba qualche decina di metri più in là, intenta a fare collane con le margherite selvatiche.
Lei si accorse della mia presenza, e si voltò verso di me, sorridendo. Sembrava stanca.
«Bella, va tutto bene?».
Lei si alzò in piedi, venendo verso di me. «Si, si, credo di si», disse lei. Non mi sbagliavo, sembrava decisamente provata.
«Non si direbbe», le dissi io, «ma credo di riuscire a capire».
Fece un debole sorriso. «Già, credo di si».
«Bella, alla bambina non succederà niente, lo sai. Edward non la metterebbe mai in pericolo».
«Si, questo lo so, so che non dovrei preoccuparmi, eppure… non posso farne a meno. Non mi piace sapere che loro vengono per lei. Preferirei di gran lunga se la lasciassero in pace». Si mordicchiava il labbro, pensierosa. Cercai di consolarla, in qualche modo.
«Desiderio più che comprensibile, ma cerca di non preoccuparti troppo. Lei qui è al sicuro».
Bella annuì, convinta. «Elian, darei la mia stessa esistenza per lei. Lei e Edward sono le cose più preziose che ho al mondo. So che non devo preoccuparmi, ma non posso fare a meno di farlo. Lei è la cosa più importante». Lanciò uno sguardo amorevole verso la piccola, concentratissima sulle sue margheritine.
In quel preciso istante, la invidiai.
La invidiai come non avevo mai invidiato niente in vita mia.
Mi aveva detto che avrebbe dato tutto per lei, anche la vita; che Edward e Renesmee erano la ragione della sua esistenza. Aveva una famiglia meravigliosa, aveva tutto quello che si poteva desiderare.
Ma non era per questo che la invidiai.
Lei aveva qualcosa di davvero importante, qualcosa per cui avrebbe dato tutto. Aveva qualcuno per cui sarebbe stata disposta anche a rischiare la vita.
Aveva qualcosa che amava più di se stessa.
Quel qualcosa che io avevo perso tanti anni fa, e che sapevo non sarebbe mai più tornato.
Qualcosa per cui valesse la pena di morire. Qualcosa per cui valesse la pena di vivere davvero.



***





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Capitolo 29
*** Cap. XXVIII ***






***















C’era un sole splendente, nonostante l’aria fosse pervasa da un freddo pungente, in quella mattina. Mi affacciai alla vetrata della mia stanza, appannata dal sottile strato di brina, ghiacciata dal vento gelido. Vedevo gli scuri scheletri degli alberi, spogliati dalle prime avvisaglie dell’inverno, stagliarsi fuori dalla finestra della camera. Toccai con la punta delle dita il vetro ghiacciato, ma non notai la minima differenza di temperatura. Sospirai. Oramai eravamo agli sgoccioli, nonostante cercassi il più possibile di non pensarci. Sorrisi tra me e me; che cosa stupida, logico che mi era impossibile non pensarci. Ero rimasta chiusa nella mia stanza per tutta la notte, e non avevo fatto altro. A quanto aveva detto Alice, sarebbero arrivati oggi.
Aprii l’immenso armadio della mia stanza (riempito a dovere dalla mia cara sorellina), ma degnai a malapena di uno sguardo la gigantesca distesa di vestiti. Scelsi le prime cose che mi capitarono sotto le mani, un maglioncino verde e un paio di jeans, e mi avviai verso la porta. Avevo passato tutta la notte a guardare fuori dalla finestra, non avevo voglia di fare nulla.
Scesi le scale e li trovai tutti li, in salone. Si voltarono verso di me, sorridendomi. Risposi con un sorriso piuttosto tirato, ma nessuno sembrò farci caso.
Nessuno sembrava particolarmente agitato, o preoccupato; notai, però, che all’appello mancavano Alice e Jasper. Mi avvicinai al grande divano bianco, e mi sedetti su un bracciolo, accanto a Bella. Solo lei sembrava risentire della tensione che provavo anche io. Edward, che aveva un braccio intorno alle spalle di Bella, allungò la mano fino a sfiorarmi un braccio. Sto bene, sta tranquillo. Ce la faccio. Lui fece un microscopico segno d’assenso, e posò nuovamente la mano sulla spalla di Bella. Lei, invece, non sembrava affatto stare bene. Si guardava intorno nervosamente, mentre stringeva la manina di Renesmee, beatamente accoccolata sul divano, accanto a loro. Sembrava una leonessa pronta all’attacco. Bella non sembra stare altrettanto bene, pensai, ed Edward strinse istintivamente il braccio intorno a lei. Renesmee, che aveva la testa appoggiata sulle gambe del padre, sbadigliò, socchiudendo i suoi grandi occhi nocciola. Jacob, invece, era seduto a terra, con la testa poggiata sul cuscino del divano , ai piedi di Nessie, sonnecchiando.
Il chiacchiericcio intorno a me, a cui non avevo minimamente prestato attenzione fino a quel momento, si spense nel momento in cui Alice scese le scale, seguita a ruota da Jasper.
«Saranno qui a momenti».
Mi alzai di scatto, quasi il divano mi avesse dato una scossa elettrica. Jacob saltò in piedi quasi nello stesso momento, sogghignando e facendo scrocchiare i pugni. «Li aspetto a braccia aperte». Rosalie gli scroccò uno scappellotto sulla nuca (dovette quasi arrampicarsi sul tavolino del salotto per arrivarci), guardandolo storto. «Finiscila, sacco di pulci. Nessuno farà a cazzotti oggi».
Alice si avvicinò a Bella, e la sentii sussurrare appena: «Bella, è tutto apposto. Andranno via presto». Vidi Bella annuire, poi sorridere alla piccola, che nel frattempo si era messa a sedere. Non sentii quello che si dissero, mi ero avvicinata alla grande vetrata del salotto, e guardavo fuori, semplicemente perché avevo bisogno di fare qualcosa.
Il cielo si era riannuvolato. Il sole era scomparso dietro ad una spessa cortina di nuvole chiare, sembrava di trovarsi sotto un gigantesco batuffolo di cotone.
Stavano arrivando. Sentii nuovamente montare dentro la tensione. Cavolo, perché non riuscivo a tranquillizzarmi? Era come un sesto senso, qualcosa che mi suggeriva che la tranquillità dei Cullen in vista dell’arrivo dei Volturi era eccessiva. O forse ero io ad essere troppo paranoica?
Quasi sicuramente, la seconda. Ma non riuscivo ugualmente a stare tranquilla. Mi voltai verso Alice, che mi stava guardando. «Elian, dobbiamo andare nel giardino sul retro. Arriveranno dal bosco». Annuii, e mi avvicinai a lei. Dovevo chiederle una cosa, ma non volevo che gli altri mi sentissero. Aspettai che tutti fossero usciti, poi le parlai a voce molto bassa.
«Nessuna novità?».
Mi aspettavo di sentire un no, come era stato per tutte le sante volte che glielo avevo chiesto, e invece Alice mi rispose con voce strana. «Ne ho avuta un’altra, di quelle visioni strane, intendo».
Trasalii. «E me lo dici solo adesso? Quando? Che hai visto?».
Lei mi lanciò un’occhiataccia. «Non te l’ho detto prima perché l’ho avuta poco fa. Era lo stesso tipo di visione, fumosa e confusa. Eppure, mi è sembrata molto diversa dalla prima. E nemmeno questa so che fine possa aver fatto».
Che diavolo significava? Dannazione, proprio adesso che stavano arrivando i Volturi. «In cosa era diversa?». Eravamo ferme, immobili al centro del salotto. Non osavo nemmeno muovermi.
«La sensazione che mi ha trasmesso», mi disse alla fine Alice. «Questa era molto più… tesa, quasi ansiosa. Elian, non ho la minima idea di quello che possa significare. Questa volta ho prestato più attenzione a quello che c’era nella visione, e ad un certo punto mi è sembrato di vedere me e Jasper, ma non ne sono molto sicura», mi disse, tormentandosi un labbro.
«Quindi non c’entro io, questa volta?».
Alice scosse il capo, più per schiarirsi le idee, credo, che per dirmi di no. «Non lo so. Elian, non ci capisco più un accidente, non so dirti cosa riguardava. Chiunque, o qualunque cosa fosse, non era tranquillo. Ma il perché, non so dirtelo». Sembrava davvero preoccupata. «Non so spiegarmelo, non lo capisco».
«Pensi possa essere collegata all’arrivo dei Volturi? Voglio dire, hai avuto lo stesso tipo di visione proprio quando hai previsto il loro arrivo, e adesso quando hai visto che stavano per arrivare! Credi che abbiamo fatto qualcosa loro?».
Alice mi guardò di sottecchi, pensierosa. «Lo escludo. Non ho mai avuto problemi a guardare nel loro futuro, non vedo cosa potrebbe essere mai cambiato».
Annuii. Rimanemmo un minuto in silenzio, finchè non entrò Jasper, venuto a cercare Alice.
Mentre Alice andava incontro al suo fidanzato, io rimasi leggermente indietro. No. Da come la vedevo io, le due cose dovevano per forza essere collegate. Altrimenti, non avrebbe avuto alcun senso. Effettivamente, non ce l’aveva nemmeno se immaginavo un collegamento con i Volturi, ma comunque era qualcosa di strano. E l’esperienza mi insegnava che quando qualcosa andava male, nove volte si dieci era colpa dei Volturi.
Quando raggiunsi gli altri in giardino, vidi che Edward mi stava fissando. Anche lui adesso sapeva.
Quindi, mi misi dietro tutti gli altri, e aspettai.



***





E’ finalmente arrivato il TANTO atteso momento della verità… Cosa sta succedendo ad Alice? E’ veramente colpa dei Volturi? (eheheh…mi sembra di stare annunciando la prossima puntata di Superman XD Ce la faranno i nostri eroi??? Ok, chiedo perdono per l’idiozia, ma i tre esami che sto preparando mi stanno friggendo il cervello…)
Per saperlo…non resta che aspettare il prossimo capitolo!!! :)
Naturalmente, non dimentico di ringraziare tutti coloro che seguono questa fanfic e tutti quelli che commentano…vi adorrrrrrrrrro *_*
Un bascino a tuttiiiiiiiiiiiiiiiiiiii :*





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Capitolo 30
*** Cap. XXIX ***






***















Non dovemmo attendere molto. Si era alzato un leggero vento, che muoveva appena i lunghi rami e le chiome dei sempreverdi ai margini del bosco.
Dopo nemmeno una decina di minuti, vedemmo delle figure scure, incappucciate, uscire dal folto del bosco. Le lunghe vesti grigie erano appena mosse dal vento, e nonostante fossero abbastanza distanti era impossibile non riconoscerle.
Vidi Bella, che era esattamente davanti a me, accelerare il respiro, e stringere ancor di più a sé la piccola Renesmee. Dal canto mio, smisi del tutto di respirare. Alice poteva dirmi quello che voleva, ma io di loro non mi fidavo.
Si avvicinavano a passo lento, come in una sorta di marcia. Erano cinque in tutto, ma non riuscivo a distinguerne i volti.
Mi sentivo inquieta. Tutta la famiglia era immobile, come un gruppo di statue di pietra.
Edward mi lanciò un’occhiata preoccupata, ma io non ci feci quasi caso. Non mi interessava fargli credere che ero tranquilla, che stavo bene. Non mi importava un accidente di fingere in quel preciso momento.
In mezzo a quel gruppetto, c’era l’essere che mi aveva rovinato la vita. Jasper cercò di calmare gli animi, facendo leva sul suo potere, ma la rabbia che avevo in corpo difficilmente sarebbe potuta scomparire. Si avvicinavano sempre di più; i miei muscoli erano tesi nello sforzo di rimanere immobili, ma pronti a scattare, qualora ce ne fosse stato bisogno. Guardai per un istante Alice; aveva l’aria di chi ha appena preso una botta in testa. Aveva avuto un’altra di quelle strane visioni, c’avrei scommesso. E scommettevo anche che erano loro i responsabili.
«Elian». La voce di Edward attirò la mia attenzione. Alice ha avuto un’altra visione, vero?
Edward annuì, ma mi fece segno di non muovermi. Scordatelo Edward. I Volturi stanno facendo qualcosa a Alice. Dobbiamo intervenire. «Resta dove sei». Sia io che Edward guardammo Alice, stupiti. Oramai, anche gli altri si erano accorti che qualcosa non andava, e si voltarono tutti preoccupati in direzione di Alice, ma lei si affrettò a dire: «E’ tutto ok», lanciandomi poi un’occhiata in cagnesco. Stavo per controbattere, ma dovetti rimanere zitta, visto che da quel momento sarebbe stato impossibile parlare senza che loro mi sentissero.
Erano a poche decine di metri da noi. Tre di loro si fermarono, mentre gli altri due venivano verso di noi. Quello che era più avanti si fermò ad un paio di metri da Carlisle, e si tolse il cappuccio.
Sentii una dolorosissima fitta allo stomaco quando Aro ci rivolse il più mellifluo dei suoi orrendi sorrisi. Ne dedussi che la figura che lo seguiva, più bassa e sottile, fosse Sandra, la sua personale guardia del corpo.
Carlisle non fece una piega, mentre parlava, rilassato e tranquillo. «Aro, benvenuto».
Aro, dal canto suo, non sembrava sorpreso dalla nostra accoglienza. «Carlisle, amico mio! È un vero piacere rincontrare te e la tua famiglia. Sapevo che il nostro arrivo non vi avrebbe colto di sorpresa», disse, infine, rivolto ad Alice. Alice rispose con un sorrisetto sfrontato e sicuro di sé, ma glielo leggevo in faccia che qualcosa non andava. Sembrava inquieta, anzi, peggio. Sembrava insicura. Da quando conoscevo Alice, non le avevo mai visto quell’espressione sulla faccia. Edward doveva sapere quello che stava succedendo, ma quando lo guardai, sembrava concentrato su tutt’altro, quindi non mi tornò di grande aiuto. Aro, finiti i convenevoli, fece cenno al resto del suo gruppo di avvicinarsi, mentre lui si faceva largo verso Renesmee. Aveva uno sguardo disgustoso, mentre osservava la bambina. Lo stesso sguardo che molti anni prima aveva riservato a me, e come me a tutti coloro che aveva attirato nella sua rete. Bella sembrava non avere la minima intenzione di allontanarsi dalla bambina, e c’era da capirla, ma Edward le fece cenno di stare tranquilla. Aro si chinò verso la piccola. «Ciao, Renesmee», le disse, amichevole. Vomitevole. «Sei cresciuta davvero tanto dall’ultima volta che ci siamo visti, eh?»
Sentii la bimba dire qualcosa, ma adesso la mia attenzione era per le figure che si erano avvicinate alla nostra famiglia.
Nessuna di loro si era ancora tolta il cappuccio. Sentii una fitta di inquietudine, guardandole. Il mio solito sesto senso.
Come oramai facevo praticamente di continuo, guardai Alice. Sembrava in preda ad un forte mal di testa. Si teneva una mano sulla fronte, mentre Jasper la guardava preoccupato.
Avevo bisogno di capire cosa diavolo stesse succedendo.
Mi avvicinai ad Alice, e le sussurrai: «Alice che diavolo ti prende?»
Alice non mi guardò, e parlò in modo che anche io dovetti quasi sforzarmi per sentirla, il che è tutto dire. «Ho provato a guardare il futuro dei membri del gruppo di Aro, ma non ci riesco. Non lo riesco a capire. Elian, ho paura che ci sia qualcosa che non vada, sul serio. Ho paura per te»
Mi colse di sorpresa. «Perché?»
Mi guardò negli occhi, e per la prima volta da quando conoscevo la mia sorellina, vi trovai la paura. «Non riesco più a vedere il tuo futuro».



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Capitolo 31
*** Cap. XXX ***






***















Era come se qualcuno l’avesse data a me, adesso, la botta in testa. «Cosa?»
Alice fece per dire qualcosa, ma venne interrotta dalla zuccherosa voce di Aro.
«Elianor, che piacere vederti! Sono sorpreso di vederti qui».
Aro superò elegantemente Edward, che sembrava aver appena visto un fantasma, e Bella, fino a giungere a meno di un metro da me. La distanza giusta per ammazzarlo.
«Non prendermi in giro, Aro», gli risposi, acida, «credo tu sapessi benissimo che ero qui».
Aro fece finta di non sentirmi, come farebbe uno zio con un nipotino indisponente, e continuò la sua farsa imperterrito. «Ti trovo molto bene, cara ragazza».
Ridacchiai senza allegria. «Non certo grazie a te». Lo squadrai volutamente dalla testa ai piedi, arrogante. «Ti trovo bene anche io, purtroppo».
Emmett non riuscì a trattenere un ghigno, ma io ero troppo impegnata a pensare ad Alice, per dar eccessiva corda ad Aro, che, come prima, non raccolse la provocazione. «E’ proprio questo che io ammiro di te, la tua tenacia, la tua aggressività positiva».
«Tu non sai niente di me», gli ringhiai addosso, non trattenendo più la rabbia. Jasper mi inondò con una mastrodontica dose di calma, che spense all’istante la mia furia.
A quel punto, intervenne Carlisle. «Aro, come mai sei venuto solo? Marcus e Caio hanno avuto qualche problema?»
Aro capì che probabilmente non era la migliore delle idee continuare a stuzzicarmi, soprattutto sapendo quello che ero in grado di fare, quindi mi rivolse un sorriso, e si voltò verso Carlisle. «No, nessun problema», disse Aro, amabile, «ma ho ritenuto più saggio venire solo, insieme a qualche nostro collaboratore».
Sentii Jacob dire piuttosto rumorosamente: «Per forza, non credo che Caio avesse particolare piacere a tornare nel luogo della sua più cocente umiliazione».
In quel preciso momento, guardando l’espressione di Aro, adorai sino alla follia Jacob e la sua deliziosa faccia tosta.
Aro si voltò verso Jacob. «Nessuna umiliazione, quando ci si trova davanti ai propri sbagli», disse sorridendo, «anche dei grandi saggi come noi commettono errori».
Jacob sbuffò, ma a me interessava molto poco quello che aveva da dire Aro. Alice mi aveva appena detto che ero magicamente sparita dal futuro, ma con Aro così vicino non potevo chiederle cosa diavolo stesse succedendo senza essere sentita.
Anche gli altri si erano accorti che qualcosa non stava andando come avrebbe dovuto. Edward si guardava intorno guardingo, e lo vedevo lanciare dei piccoli segni d’assenso o diniego, sicuramente in risposta a qualche tacita domanda.
Mi sforzai di pensare. No, non poteva essere Aro, lui poteva leggere nelle menti, ma anche se avesse sviluppato una qualche variante al suo potere, aveva comunque bisogno del contatto fisico, e, per quanto mi riguardava, non aveva nemmeno osato sfiorarmi. Probabilmente, sapeva che non glielo avrei assolutamente permesso.
Nemmeno Sandra, la guardia che gli stava appiccicata addosso, sembrava particolarmente pericolosa, almeno per quello che mi interessava.
Rimanevano gli altri tre accompagnatori. Alice mi aveva detto di non essere mai riuscita a vederli in volto, quindi non avevamo la minima idea di chi fossero. Si trattava di tre emeriti sconosciuti, perché lei aveva setacciato il futuro di tutti i Volturi che conoscevamo, ma nessuno di loro era presente al momento dell’arrivo di Aro a Forks.
Guardai le tre figure che erano rimaste indietro, ad una decina di metri da Carlisle. Non si erano tolti il cappuccio, che erano rimasti esattamente dove erano prima, completamente calati sul volto. Dalla corporatura, piuttosto imponente, sembrava fossero uomini. Erano inquietanti, non mi sentivo tranquilla. E poi, il mio sesto senso mi suggeriva che loro, in qualche modo, c’entravano qualcosa con l’improvviso blackout di Alice. Il cielo si era fatto più scuro, e io sperai, magari, in un’improvvisa folata di vento che scoprisse loro il viso.
La verità è che mi facevano paura.
Notai che anche Rosalie lanciava verso le tre figure incappucciate degli sguardi piuttosto eloquenti. Inquietavano anche lei.
Sinceramente, non so cosa mi prese in quel momento. Sentivo il bisogno di fare qualcosa, non so bene perché. Lo feci e basta.



***





Lo so, vi sto esasperando con tutte queste incertezze, ma vi prometto una cosa…dal prossimo capitolo credo comincerete ad avere dei chiarimenti…ve lo assicuro…:)
Portate ancora un po’ di pazienza…giusto un pochettino!
Ne approfitto sempre per ringraziare tutti coloro che hanno aggiunto questa storia tra i preferiti e tra i seguiti <3 e a tutte le persone che commentano, anche se siete pochini grazie milleeeeeeeeeeeeee <3 vi adoro *_*
Vi aspetto al prossimo capitolo… Un bacio a tuttiiii :*





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Capitolo 32
*** Cap. XXXI ***






***















«Aro». Aro, che nel frattempo si era riavvicinato alla piccola Nessie, si voltò verso di me, sorpreso. Subito dopo di lui, anche tutti gli altri mi guardarono allo stesso modo.
«Si?». Quanto odiavo quella voce. Falsa e raccapricciante.
«Stavo pensando ad una cosa», dissi, mentre, con la coda dell’occhio, intravidi Edward sgranare gli occhi. «Non ti pare poco educato che i tuoi “collaboratori” non si facciano vedere in viso? Non è gentile da parte degli ospiti nascondersi ai padroni di casa».
Tutti gli altri mi guardarono come se fossi impazzita. Bè, probabilmente a Esme e Carlisle non gliene importava un fico secco di guardare la faccia di quelle persone, ma a me si. Era una curiosità strana, morbosa, come se sapessi già che c’era qualcosa di strano, qualcosa che non andava.
A ripensarci adesso, lucidamente, era qualcosa di piuttosto stupido.
Aro, però, non sembrava particolarmente stupito dalla mia richiesta. Anzi, avrei giurato che se lo fosse aspettato. Ma perché avrebbe dovuto aspettarselo? Che motivo aveva?
Non disse niente, ma si limitò a sorridere. Quando riprese a parlare, aveva la voce più vellutata che io avessi mai sentito in vita mia. «Elianor, hai perfettamente ragione. Mio caro Carlisle, Esme», disse, rivolto a loro due, «mi scuso infinitamente per la mia mancanza di buone maniere».
Carlisle aveva l’espressione guardinga di chi si aspetta qualche colpo gobbo. Probabilmente, aveva avuto la mia stessa impressone, ma, nonostante questo, parlò con voce calma e tranquilla. «Non hai nulla di cui scusarti, Aro. Nulla di grave».
Aro gli rivolse il suo miglior sorriso. Poi si voltò verso il suo seguito, facendo loro un impercettibile segno, e il primo di loro si abbassò il cappuccio, rivelando un volto spigoloso, scuro, segnato da profonde cicatrici. Ma, nonostante questo, comunque di notevole bellezza. Si guardava intorno con diffidenza, poi posò la sua attenzione su Carlisle, e si presentò con voce bassa a calda. «Mi chiamo Gregory, signor Cullen, è un piacere incontrarla. Signora Cullen, lieto di conoscerla».
Caspita. Anche Carlisle rimase sorpreso dalla gentilezza e dal tono di voce del vampiro, che stonava con il suo aspetto duro e malandato; ma, conoscendo i Volturi, c’era poco da fidarsi, in qualunque caso. Esme rispose con un sorriso. Anche Carlisle accennò un sorriso conciliante. «Piacere mio, Gregory».
In contemporanea al vampiro chiamato Gregory, anche la seconda figura, leggermente più alta e slanciata rispetto alla prima, si era tolta il cappuccio. Sotto, si nascondeva un vampiro dall’aspetto quasi angelico, con i capelli del colore del sole, che si guardava intorno curioso, con i suoi grandi occhi cremisi. Aveva un’inquietante sorriso stampato in volto, che lo faceva assomigliare ad un joker. Era un mix decisamente strano. «Io invece sono Marshall», disse con voce squillante, squadrando Esme e Carlisle molto attentamente. Notai che si soffermò un istante di più su Esme. «E’ un onore incontravi, finalmente». Poi, rivolse lo sguardo, a turno, su tutti noi. Mi metteva i brividi.
Carlisle gli rispose con un piccolo cenno della testa, ed il vampiro-joker si voltò a fare l’occhiolino a Rosalie. Lei alzò gli occhi al cielo, sbuffando, mentre Emmett, se solo avesse potuto, l’avrebbe incenerito con lo sguardo.
Ma la mia attenzione era tutta per l’ultimo vampiro. Non sembrava essersi minimamente scomposto, e sembrava non avere la minima intenzione di scoprirsi il volto.
Aro si schiarì debolmente la voce, come per attirare l’attenzione, e vidi uno strano lampo di gioia brillare nei suoi occhi. Il che non era mai niente di buono.
Tornai a fissare l’ultimo vampiro, che, riluttante, aveva afferrato il lembo del suo cappuccio. Molto più lentamente degli altri due, poi, si scoprì il viso.
In quel preciso istante, sentii la terra mancarmi da sotto i piedi.
Non ricordo nulla di quello che successe in quel momento intorno a me. Non avevo le forze necessarie per ascoltare, parlare, o scappare. Le uniche forze che avevo erano tutte concentrate nello sforzo di non impazzire. Non riuscivo a fare nulla.
Rimasi li, impietrita.
No, non poteva essere vero. Era soltanto un incubo, brutto, orrendo, il peggiore che potesse esistere; la speranza viva che quello che avevo davanti agli occhi, altro non era che il frutto dell’oblio di un sonno profondo. Ma come poteva essere un incubo?
Io non dormivo. Non potevo dormire. Alla mia dannata esistenza il sonno era negato.
No, non era possibile.
Eppure era tutto vero, dannazione.
Sentii le ginocchia cedere sotto il peso di quello che i miei occhi avevano appena visto. Lo sentivo schiacciarmi, dimenarsi nelle mie gelide vene, distruggere tutta la mia intera esistenza.
Volevo urlare.
Un’immensa voragine mi si aprì nel petto, proprio dove un tempo c’era stato un cuore, un cuore che batteva, un cuore vivo. Ora non c’era più. Non c’era più niente, solo un gigantesco, silenzioso vuoto.
Avrei voluto squarciarmi in due il petto, strappare via quella cosa strana che adesso sentivo pulsare, agitarsi in maniera sconosciuta e insopportabile, e mettere fine a quell’ondata di dolore accecante che mi stava invadendo, ma sapevo che sarebbe stato inutile.
Ero immobile, lo sguardo fisso su un punto in mezzo al piccolo gruppo davanti a me.
E un paio di occhi dorati finalmente incontrarono i miei.
«Il mio nome è Vincent. Lieto di conoscervi».



***





*BOOOOOOM*
…ecco…ho lanciato la bomba…:)
Sorpresi??? Bè, posso dirvi che le sorprese non finiscono qui, perché c’è ancora tanto da spiegare, e siamo solo all’inizio… presto le cose diventeranno chiare, e finalmente Elian avrà la sue risposte…voi che ne pensate? :)
Un bacio a tutti…al prossimo capitolo :*





***





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Capitolo 33
*** Cap. XXXII ***






***















Era senza ombra di dubbio un’allucinazione. Non c’erano minimamente dubbi, probabilmente si trattava di un sosia, o di qualcuno che gli assomigliava parecchio, perché non poteva essere lui. Oh, ma si, certo. Aro voleva giocarmi un brutto scherzo.
Ah, ah, ah.
Ok, molto divertente, ci ero cascata, ma poteva bastare, quel ragazzo poteva dire il suo vero nome, poteva smettere di fingere.
Perché il suo nome non era Vincent. Non poteva essere, sarebbe stata una coincidenza troppo grande. Anche la straordinaria somiglianza fisica, era quasi irreale.
Ma Vincent era morto da quasi due secoli, andiamo, era assurdo.
Perché Vincent era morto. Ne ero certa.
Non mi avrebbe mai fatto una cosa del genere.
Non avrebbe mai potuto fingere. No. Non l’avrebbe mai fatto.
Mi avrebbe cercata. Mi avrebbe fatto sapere che stava bene.
Perché mi aveva detto che mi amava.
Mi amava.
Non avrebbe mai potuto farmi questo.
No.
Mai.
Quello che avevo davanti agli occhi non era lui. Non avevo la benché minima idea di chi fosse, ma non era lui.
Era un perfetto sconosciuto. Ne ero certa.
In quel momento non mi rendevo conto di nulla, dimenticai momentaneamente persino dove mi trovassi.
Quel vampiro non poteva essere Vincent, e nessuno meglio di me poteva dirlo. Ricordavo alla perfezione il suo viso. Oh, si se lo ricordavo.
Vincent era davvero bellissimo. L’incarnato pallido, che a prima vista mi era sembrato chiarissimo, quasi trasparente, mentre in realtà aveva conservato una lieve sfumatura ambrata, eco del suo colorito umano; le spalle larghe e forti, che a me sembrava potessero sopportare qualsiasi tipo di peso, qualsiasi difficoltà, ed i suoi occhi così strani, così straordinari, dello stesso colore dell’oro fuso. Il ricordo era così vivo, così reale, che era impossibile dimenticarsene.
E fu in quel momento che mi resi conto, stupidamente, forse per la prima volta davvero da quando l’avevo guardato, che quello che stavo descrivendo non era il ricordo che avevo io di Vincent.
Era esattamente la descrizione della persona che avevo davanti.
Non so quanto tempo ci misi a capire quello che stava succedendo. Sentivo tutto il corpo intorpidito, non avevo la facoltà di muovere un solo muscolo. Anche il mio cervello lavorava a rallentatore.
Ci pensai un attimo. Mi venne un’improvvisa illuminazione, che spiegava alla perfezione tutto quello che stava accadendo.
Stavo morendo.
Era così semplice, così ovvio. Era l’unica spiegazione plausibile, visto quello che mi stava succedendo.
Non era poi una sensazione così spiacevole. Morire, intendo, anche se sinceramente mi dispiaceva non aver potuto salutare gli altri. Ma, vabbè, non dipendeva da me. Non se la sarebbero presa.
Qualcosa, però, venne a disturbare il mio momento di riflessione. Uno strattone, forse, o qualcosa del genere.
Ci misi un po’ a rendermi conto di cosa stesse succedendo. Mi sorprese il fatto che riuscissi a muovere ancora i muscoli del collo, quando mi voltai lentamente verso l’origine della mia distrazione.
Edward.
Che mi strattonava un braccio, molto poco delicatamente.
Ci misi meno di un nanosecondo a riprendermi del tutto.
E non fu affatto un bene.
Non ero affatto morta, stupida che non ero altro.
Edward mi guardava sconvolto. Mi guardai intorno. Erano tutti pietrificati. Non capivo.
Lo scricchiolio dei rami mossi da vento mi fece capire che non ero improvvisamente diventata sorda. Semplicemente, nessuno parlava. Era calato il silenzio più assoluto.
Sapevo di certo che Edward aveva capito, gli altri, non so. Ma c’avrebbe pensato lui, in qualunque caso, a spiegarglielo, in un secondo momento.
Io non ne avevo il tempo.
Dovevo andarmene.
Le mie gambe si mossero troppo velocemente perché fossi stata io a dargli l’impulso, si mossero da sole. Mi voltai verso la scura parete di tronchi che circondava il giardino, e mi ci lanciai a tutta velocità.
Non avevo mai corso così veloce. Volevo scappare da quel giardino, volevo scappare da quella situazione. Non importava da cosa, ma volevo scappare.
«ELIAN!». Sentii Edward gridare, mentre correvo; probabilmente provò a seguirmi, ma io ero già lontana.
Nonostante questo, riuscii chiaramente a sentire una voce, dietro alle mie spalle. «No. Lasciala andare. È meglio così».
Non rallentai minimamente la mia andatura. Non sapevo dove andare, ne dove mi stessi dirigendo. Non importava. Non avevo la minima intenzione di tornare indietro, al momento.
Mi inoltrai nel profondo del bosco, e gli ultimi echi di quelle voci scomparvero del tutto.



***





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Capitolo 34
*** Cap. XXXIII ***






***















Pace.
Che bella parola. Ma cos’è, in fondo?
Uno stato d’animo, un pensiero, una scelta di vita?
Può essere tutto questo. Ognuno è libero di darle un significato, di interpretarla come meglio crede. Per me, la pace era un luogo. Una piccola radura nel buio del bosco, un tronco contro il quale appoggiarsi, le nuvole che passano nel cielo, il vento che soffia tra gli alberi.
Chiudere gli occhi, e sentire.
Il terreno duro, compatto. Solido. Stabile.
I mille rumori della natura, così silenziosa per le orecchie umane, invece così rumorosa, così viva, per chi come me aveva un udito sopraffino.
L’odore di freddo, l’odore di inverno, il profumo del bosco intero.
La pace era stare lontana dal mondo, lontana dalla civiltà, lontana da tutto.
Si, per me, quella era la vera pace.
Aprii gli occhi, e mi guardai intorno.
Sospirai. Non era esattamente lo stesso paesaggio, ma poteva andare bene lo stesso.
Ero seduta sotto una grande quercia, nel bel mezzo di un gigantesco bosco, da qualche parte lungo il confine con il Canada. Non avevo la minima idea di quanti chilometri avessi fatto, o di quanto tempo avevo passato a correre lontano da Forks. La minuscola radura in cui mi trovavo mi ricordava il posto dove ero stata fino al mio ritorno dai Cullen, quindi avevo deciso di fermarmi li per un po’.
Mi piacevano i posti freddi e umidi. Mi facevano sentire meno fuori posto, meno sbagliata.
Sarà anche per questo che mi piaceva così tanto il brutto tempo. Mah.
E poi, la solitudine mi aveva sempre fatto bene. Soprattutto in quel momento, l’ultima cosa di cui avevo bisogno era vedere qualcuno.
Dal punto dove mi trovavo riuscivo a vedere uno spicchio di cielo. Era ricoperto di nuvole grigio chiaro, che presagivano una lieve pioggerellina, non certo un acquazzone.
Mi andava bene lo stesso.
Doveva essere circa metà pomeriggio. Erano passati quattro o cinque giorni da quando ero andata via da casa dei Cullen, e di loro non avevo avuto notizie.
Se avessero voluto cercarmi, mi avrebbero sicuramente trovata, non ero granchè distante da casa.
Probabilmente gli aveva detto lui di non cercarmi.
Saggia decisione. Mi doleva ammetterlo, ma su questo mi conosceva bene.
Non volevo vedere nessuno. Mi dispiaceva per Carlisle, Esme, Edward e tutti gli altri, ma era meglio per tutti. Sapevo che molto probabilmente erano tutti preoccupati per me, e questo mi faceva ancora più rabbia.
Mi faceva rabbia perché non dovevano mettersi in pena per me. Non dovevano preoccuparsi. Io me la sarei cavata, come sempre. Io ero forte.
E furiosa. Furiosa come non lo ero mai stata in vita mia.
Ero furiosa con lui.
No, furiosa non era esattamente la parola giusta. Qual è il sentimento giusto da provare quando si è passato due secoli della propria esistenza vivendo nella menzogna, convinti che la persona che più hai amato al mondo, la persona che ti ha salvato la vita, è morta a causa tua, e poi di colpo ricompare come per magia, senza la benché minima spiegazione logica? Io non lo sapevo. Qualsiasi cosa mi sembrava dannatamente inadeguata.
Ero passata, così velocemente che quasi non riuscivo a distinguerle, dalla disperazione più totale, al dolore accecante, fino alla rabbia più nera. E adesso?
Come tutto il resto, anche la rabbia sembrava destinata a passare. Mi sentivo vuota, come se qualcuno mi avesse scavato dentro, rimuovendo tutto quello che avevo nel corpo.
Mi rimaneva solo la delusione, forse il peggiore dei mali. Ero delusa, ed era una cosa così grande che mi provocava un dolore quasi fisico. Bruciava dentro in maniera insopportabile, e sapevo che, questa volta, difficilmente sarebbe passata presto; a dirla tutta, dubitavo fortemente che sarebbe mai passata.
In fondo, era tutta colpa mia. Ero stata io a vedere qualcosa che non c’era, ero davvero stata così stupida da non accorgermi che in realtà io per lui non ero niente? Evidentemente, si, quindi avevo poco da lamentarmi. Me l’ero cercata.
Che stupida. Stupida, stupida e ancora più stupida.
Ma come diavolo avevo fatto a non riconoscere il suo odore? Come diavolo avevo fatto a non accorgermi di niente? Chissà. Già una volta mi ero lasciata ingannare. Anzi, non solo una volta. Mi sono fatta ingannare per molti, molti anni.
Appunto: stupida.
Non mi restava altro che aspettare. E sapevo che questa volta non avrei aspettato invano.



***





Capitolo di transizione, una pausa tra i mille pensieri di Elian. Ulteriori sviluppi sono in arrivo, quindi non resta che andare a fare compagnia alla nostra Elian e aspettare il prossimo capitolo...:)
Au revoir! :*





***





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Capitolo 35
*** Cap. XXXIV ***






***















Avevo ragione: non dovetti aspettare molto. Sapevo che prima o poi sarebbe venuto.
Non aspettavo altro.
Era quasi scesa la sera, potevo fare qualcosa per distrarmi, andare a caccia magari, nonostante ci fossi stata già il giorno prima, ma avevo il vago presentimento che era meglio rimanere dov’ero.
Infatti, non passò molto tempo prima di sentire dei rumori estranei a quelli della natura che mi circondava.
Passi. Leggeri, felpati, veloci. Era qualcuno che correva, ma sembrava lontano.
Il buco nero che avevo al posto del cuore prese a vorticare furiosamente, facendo accelerare il ritmo del mio respiro.
Si stava avvicinando. Ma io non volevo muovermi.
Avevo già previsto che prima o poi mi avrebbe cercata, quindi mi ero già preparata a livello psicologico. Ma quanto si poteva essere preparati a trovarsi davanti i propri fantasmi?
Era ormai vicino. Si accorse anche lui della mia presenza, perché rallentò l’andatura, camminando più rumorosamente. Mi fiorì un ghigno sulle labbra. Che sciocco, con chi credeva di avere a che fare? Mi ero accorta della sua presenza da molto prima di quanto lui si immaginasse. Non aveva bisogno di questi stupidi trucchetti.
Camminava molto, molto piano adesso. Era a poche decine di metri da dove mi trovavo io. Dai miei calcoli, mi sarebbe sbucato davanti. Io ero rannicchiata contro il tronco di un grosso albero, le gambe al petto, il viso affondato nelle ginocchia.
Non mi mossi di un solo millimetro, quando lo sentii fermarsi a qualche metro da me. Sentivo i suoi occhi addosso, ma io non osavo alzare lo sguardo. Avevo un milione di domande da fargli, mi doveva qualche decina di migliaia di spiegazioni, ma non avevo la minima idea da dove avrei cominciato. Sinceramente, non ero nemmeno tanto sicura di voler sentire quello che aveva da dirmi, semmai ce l’avesse avuto qualcosa da dirmi.
Poi, mossa da qualche strana o oscura forza, piano mi misi in piedi. Non alzai mai lo sguardo verso di lui, ma sentii chiaramente il suo respiro accelerare. Ipocrita. Con che diritto si sentiva agitato lui?
Ci misi qualche secondo prima di riuscire a guardarlo in faccia. Alzai piano lo sguardo verso di lui, e fu quasi peggio di quando l’avevo visto dai Cullen.
Quella era stata una sorpresa. Quando si era tolto il cappuccio e avevo visto che era lui, era stato come morire una seconda volta. Mai, mai e poi mai mi sarei aspettata una cosa simile. Avevo ripensato tanto a quell’immagine, ben diversa dal ricordo che io avevo di lui. Mi era sembrato stanco, segnato; eppure, sprigionava chiaramente una rabbia disumana. Contro chi, non so dirlo con certezza (anche se qualche idea me l’ero già fatta), ma mi era sembrato furibondo; eppure, c’era ancora qualcosa. Non il suo viso, ma erano stati i suoi occhi a farmi ancora più male. Guardava me, ma non avrei saputo dire cosa c’era nella sua espressione, indecifrabile. Qualsiasi cosa fosse, era annegato nella rabbia.
In quel preciso momento, invece, quando c’eravamo solo io e lui nel mezzo della foresta, era ben diverso.
Ci separavano circa due metri, e potevo chiaramente vederlo bene negli occhi, nonostante il buio di quel cielo senza stelle, coperto di spesse nuvole.
L’oro dei suoi occhi era chiaro quasi come il mio. Probabilmente era andato a caccia abbastanza di recente. Rimasi a guardarlo senza nemmeno avere il coraggio di respirare.
Cosa c’era in lui? Non riuscivo a capirlo del tutto, ma quel che vidi mi lasciò comunque sconvolta.
Era infelice. Non ho idea di come facessi a dirlo, me lo sentivo chiaramente. Emanava dolore da ogni poro della pelle, come se fosse circondato da un’impalpabile aura di tristezza.
Perché? Perché, se era stato proprio lui ad abbandonarmi? Perché, se era stato proprio lui a prendermi in giro, a raccontarmi un sacco di bugie, a fingersi morto?
Aveva il volto contratto, come se il solo guardarmi gli provocasse del male fisico.
Ma, del resto, potevo capirlo benissimo. Mi dimenticai del dolore, della rabbia, della frustrazione.
Guardavo quella creatura davanti ai miei occhi, e non riuscivo a provare niente di tutto questo, riuscivo solo a pensare a quanto fosse ingiusto il mondo. Tanta sofferenza dovrebbe essere bandita, non dovrebbe essere permessa. Non dovrebbe essere permesso alle persone di soffrire così tanto.
Chissà dove era finita la mia voce. Mandavo dei chiari messaggi alle mie corde vocali, ma sembravano essere entrate in sciopero.
Dannazione.
Fu lui a rompere il silenzio per primo.
Sembrava incerto se parlare oppure no. Aprì la bocca, ma la richiuse subito. Passò ancora qualche istante prima che parlasse, guardandomi negli occhi. «Non ti chiedo di perdonarmi, e nemmeno di capirmi. Non lo farei mai». Sospirò, abbassando lo sguardo a terra, assorto.
Che strano, sentire il suono della sua voce. Caldo, dolce, appena sussurrato, eppure così chiaro, così profondo. Toccava delle corde del mio essere che mi ero completamente dimenticata di avere. Era come se non lo avessi mai dimenticato, come lo risentissi dopo appena pochi minuti dall’ultima volta.
Invece no. Erano passati secoli, nel vero senso della parola.
«Hai ragione, sai». Di chi diavolo era quella voce?
Oddio, era la mia. Ma che mi era successo? No, non potevo essere io. Quella voce non mi apparteneva, quella voce era tetra, buia, non la conoscevo. Era fredda.
Mi faceva paura.
Lui non osava alzare lo sguardo. Vigliacco. Sentii nuovamente montare dentro la rabbia.
«Hai ragione, non me lo puoi chiedere, non puoi farlo. Non ne hai il minimo diritto».
Provai l’irresistibile impulso di alzargli il viso da quel dannato terreno, perché mi guardasse. Lui riuscii a rendersi solo conto che mi ero mossa, fino a lui, e gli scagliai qualcosa di molto simile ad uno schiaffo sotto il mento, per fargli alzare lo sguardo.
Nonostante questo, non riuscii a smuoverlo di un solo millimetro. Fu lui, da solo, ad alzare lo sguardo verso di me. «Guardami, vigliacco», gli sibilai furiosa. «Guarda cosa mi hai fatto diventare. Guarda cosa mi hai fatto».
Eppure, nonostante le mie parole, mi accorsi di non essere in grado di sostenere quegli occhi. Era troppo. Distolsi lo sguardo, dandogli le spalle. Lo sentii sospirare.
«Elian». Mi vennero i brividi sentendo il mio nome uscire dalla sua bocca. Mi arrabbiai mentalmente con me stessa. Fino a qualche giorno prima avrei dato tutto per risentirlo ancora una volta pronunciare il mio nome. Ma, adesso, le cose erano notevolmente cambiate.
Non mi voltai, e aspettai che continuasse a parlare.
«Ti chiedo solo una cosa. Ti prego, ascoltami. Ti chiedo solo questo. Poi sarai libera di fare quello che vuoi, uccidimi, torturami, fai quello che vuoi. Ti chiedo solo di ascoltarmi, prima».



***





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Capitolo 36
*** Cap. XXXV ***






***















Mi voltai verso di lui. Era ancora immobile, come prima, ma aveva lo sguardo alto, rivolto verso di me. Sembrava concentrato su qualcosa, aveva lo sguardo penetrante, quello sguardo che, da che lo conoscevo, mi era sembrato potesse attraversarmi da parte a parte, come se riuscisse a leggere tutto di me.
Ma adesso no. Non glielo avrei permesso.
Non sapevo che fare. La parte di me arrabbiata, furiosa per l’abbandono, assetata di vendetta, mi suggeriva di sfogarmi su di lui senza nemmeno lasciargli il tempo di parlare; ma c’era un’altra parte, la Elian che voleva sapere la verità, che sarebbe impazzita se non fosse riuscita a sapere almeno perché.
Ci pensai un attimo, e decisi che la mia brama di sapere era troppo forte. «Parla», gli dissi con voce tombale.
Una folata di vento gelido attraversò la radura, scompigliando i miei capelli e muovendo appena il suo lungo mantello scuro. Lui continuava a fissarmi, negli occhi aveva l’espressione più triste del mondo.
«Alice non ti ha visto arrivare», gli dissi io, visto che lui non si decideva a parlare.
Lui annuì, sempre assorto. «Lo so, ho bloccato io i suoi tentativi di vedere il mio futuro».
Ripensai ai blackout di Alice degli ultimi giorni. Adesso avevano un senso, almeno.
«Non le ho impedito di vedere del tutto il mio futuro, altrimenti non avrebbe potuto vedere nemmeno il futuro delle persone che sarebbero entrate in contatto con me, e quindi il nostro arrivo», disse, «ma solo quando sapevo che avrebbe potuto vedermi in viso, senza cappuccio. Lo portavo da settimane oramai. Non volevo che mi vedesse».
«E perché mai?», gli chiesi io, a denti stretti.
Lui mi lanciò un’occhiata strana. «Edward legge nel pensiero», disse, come se gli sembrasse la cosa più ovvia del mondo. «Lui poteva aver saputo dai tuoi ricordi, in passato, chi fossi, che faccia avessi, e avrebbe capito tutto vedendo la visione di Alice».
«Ah, è così?», gli dissi io, non senza una nota di sorpresa nella voce, stringendo i pugni fino a farmi entrare le mie stesse unghie nella carne. «Questo però non ti ha lo stesso impedito di presentarti qui».
Rimase qualche attimo in silenzio. «Aro mi ha ingannato», disse, alla fine. «Non sapevo ci saresti stata anche tu, oggi. Ovviamente, Aro lo sapeva, e mi ha portato con sé apposta. L’ultima volta che sono venuto dai Cullen, due anni fa, tu non c’eri».
Alzai un sopracciglio, con disappunto. «Non mi interessa se Aro ti ha preso in giro o meno», gli dissi, acida. «Voglio sapere perché sei sparito per la bellezza di duecento anni, cosa è successo».
Lui continuò, scuotendo la testa. «Elian, non ho scusanti, lo so».
Ma lo interruppi. «Non mi interessano le tue non-scuse», gli dissi, alzando la voce. «Lo so da me che non hai scusanti, ma adesso parla! Mi hai chiesto di ascoltarti, bene, e voglio sapere cosa diavolo è successo, dal principio alla fine! Non mi interessano le storielle su Aro e il resto della compagnia, queste sono solo cazzate!»
A quel punto, lui mi guardò dritto negli occhi, con la stessa espressione che aveva usato in circostanze del tutto diverse, molto, molto tempo prima.
«Allora non ti annoierò con queste cazzate, chiedimi quello che vuoi, e io ti risponderò».
Era stranamente calmo, quasi rassegnato. Quel suo aspetto serafico altro non faceva che aumentare la mia rabbia. Cercai di mantenere un tono calmo. «Comincia da quando ti sono venuti a prendere», dissi, con la voce che tremolava odiosamente.
Lui, invece, non fece una piega. Era estremamente irritante. «Credo tu sappia perché erano venuti. Ho parlato con Eleazar, mi ha detto della vostra conversazione».
«Eleazar mi ha anche detto che tu eri morto», gli dissi irritata, mandando al diavolo ogni tentativo di sembrare calma.
«Quando ha parlato con te, lui non sapeva che non c’era nessuna condanna in realtà», mi disse lui.
Questo mi spiazzò. Vista la mia espressione sorpresa, continuò. «Aro sapeva perfettamente che non ero stato io ad uccidere tutte quelle persone; ho provato a modificare i miei ricordi, ho cercato di mostrargli le immagini che mi ero creato io in mente, ma non è servito a niente. Ha un potere immenso, e mi ha scoperto subito.
Ha fatto credere a tutti che ero io il vero responsabile, perché voleva avermi in pugno. E voleva anche te».
«Questo lo so», gli dissi io, con un tono di voce di due ottave più alto di quello che avevo normalmente. «Ma io non avrei mai accettato di sottomettermi a lui, non se sapevo che avrei dovuto lasciare te». Queste ultime parole mi uscirono come un sussurro, quasi non le sentii. Ma lui le comprese benissimo.
«Se avessi avuto altra scelta, credimi, non l’avrei mai fatto. Ma dovevo fare qualcosa per tirarti fuori dal pasticcio in cui ti avevo messa.
Elian, nessun altro sa quello che è successo veramente durante quel massacro. Aro ha fatto credere a tutti che il vero colpevole fossi io. Sono stato io a chiederglielo».
«E per quale motivo?», gli chiesi, sgranando gli occhi.
Lui sorrise appena, ma non era un sorriso felice. Era solo l’ombra di un sorriso vero. «Elian, se ti conosco abbastanza bene, so quello che tu avresti fatto. Ma l’hai confermato poco fa.
In casi come quello, esistono solo due alternative: sottomettersi, ottenendo la grazia da Aro, Caio e Marcus, o morire. E io sapevo che tu mai saresti entrata a far parte della loro combriccola».
Rimasi per un istante a bocca aperta. No… no, non ci credevo. Era pazzesco. Cercai di metabolizzare mentalmente quell’informazione. Sembrava più difficile di quanto avessi mai immaginato. Quindi qualcuno doveva essere punito per il massacro, e allo stesso tempo Aro voleva le nostre abilità, quindi ha fatto incolpare Vincent perché fosse costretto a scegliere di unirsi ai Volturi, e lui in cambio aveva chiesto di lasciare andare me???
Scossi la testa, scacciando questi pensieri. Era assurdo. «No. Non ci credo. È troppo assurdo. Tu menti». Non poteva essere.
«Elian, è così», mi disse Vincent, cercando nuovamente i miei occhi. «Non voglio fare l’eroe, perché non lo sono, ma era l’unica cosa che potevo fare. Aro ha accettato il compromesso: aveva capito che non sarebbe stato facile convincere te, così lui avrebbe avuto almeno un potere, il mio, anziché perderli entrambi, e tu saresti stata libera».
Lui continuava a parlare, ma io capivo ben poco di quello che mi diceva. Ero come in trance.
Non riuscivo a crederci. Aro sapeva tutto. Sapeva che era innocente. Lo aveva costretto a scegliere tra la mia vita e la sua libertà. Non potevo crederci.
«Mi aveva promesso che non ti avrebbe mai rivelato che ero ancora vivo, ma quel bastardo si è divertito a prendersi gioco di me». Queste parole, dette quasi ringhiando, mi risvegliarono dal mio torpore.
«Cosa?», gli dissi, credendo per un istante di aver capito male. «Sei stato tu a chiedergli di farmi credere che eri morto?».
Lui annuì, piano. Ci impiegò qualche istante prima di riprendere a parlare, con la sua solita voce bassa e graffiante, colma, allo stesso tempo, di un dolore grande, antico. «Sapevo che se lo avessi saputo avresti fatto qualche stupidaggine. Non volevo assolutamente che tu cercassi di metterti contro i Volturi, e tantomeno che ti unissi a loro. Non volevo correre il rischio di mettere ulteriormente in pericolo la tua vita. Sapevo che Aro ne avrebbe approfittato, e non potevo permetterlo».
Detto questo, chiuse gli occhi, sospirando. Era la personificazione del dolore.
Rimasi alcuni minuti in silenzio, senza parlare, senza pensare, ascoltando solo il silenzio. Non riuscivo a sopportarlo.
«No. No», ripetei.
Strinsi i pugni, perché sapevo che la bomba stava per esplodere. Iniziai ad avere il respiro affannato. «Non ti azzardare a farti vedere dispiaciuto». Io avevo gli occhi rivolti al suolo. Mi tremavano le gambe. Alzai gli occhi, e lui mi guardò senza capire.
«Non – ti – azzardare – a – dirmi – che – l’hai – fatto – per - ME». Quello che mi uscì poi dalla bocca erano duecento anni di sofferenza, di dolore. E mi uscirono gridando come mai avevo gridato in vita mia.
«HAI LA MINIMA IDEA DI QUELLO CHE HO PASSATO IO? DI COME DIAVOLO SONO STATA IO TUTTO QUESTO TEMPO? IO CREDEVO FOSSI MORTO! E NON C’E’ COSA PEGGIORE CHE IO POSSA IMMAGINARE! LE TUE GIUSTIFICAZIONI NON MI RIPORTERANNO INDIETRO, NON MI TOGLIERANNO IL DOLORE CHE HO PROVATO, NON CAMBIERANNO NIENTE DEL PASSATO! NON PROVARCI NEMMENO A DIRMI CHE HAI SOFFERTO, PERCHE’ NON PUOI PERMETTERTELO!».
Urlavo con quanta forza avevo nei polmoni. Era uno sfogo totale, anni e anni di sofferenza di cui lui era la causa. E in quel momento non riuscivo a vedere se l’avesse fatto per una giusta causa o meno, perché, per quel che mi riguardava, non esisteva nessuna buona ragione, nessuna che valesse una cosa simile.
«SAPEVI PERFETTAMENTE CHE IO SAREI MORTA, PIUTTOSTO CHE PROVARE UNA COSA DEL GENERE! NON MI HAI DATO LA LIBERTA’, MA HAI DISTRUTTO L’ESISTENZA! TU NON SAI COSA SI PROVA A PASSARE DUE SECOLI CONVINTI CHE LA PERSONA CHE AMI E’ MORTA E CHE LA COLPA E’ TUA! NON PUOI SAPERLO! TU ERI LA COSA PIU’ IMPORTANTE DELLA MIA VITA, DANNAZIONE! CON TE DUECENTO ANNI FA SONO MORTA ANCHE IO!».
Lui mi ascoltava, in silenzio. Non provò mai nemmeno per un istante a fermarmi. Probabilmente, mi conosceva abbastanza da sapere che in situazioni come quelle era meglio non contraddirmi.
Poi, di colpo, smisi di gridare. Non serviva a nulla. Non serviva gridargli contro, non serviva fargli del male, non serviva niente. Ero distrutta. Totalmente, completamente, assolutamente distrutta.
Caddi in ginocchio, con la testa tra le mani. Non c’era altro che potessi fare.



***





Bè, che dire, spero che questo capitolo abbia finalmente diradato un pò la nebbia che avvolgeva gran parte della storia…
Molte cose sono state chiarite, finalmente Elian ha saputo la verità…
…e adesso???
Le sorprese non finiscono qui…e per sapere a cosa mi riferisco non vi resta che aspettare i prossimi capitoli :)
Un megabacio gigante a tutti voi che mi seguite…*me vi lovva ^_^ *(e anche se sono pochini…i commenti sono sempre graditi^^)…a prestoooo!!!





***





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Capitolo 37
*** Cap. XXXVI ***






***















Era troppo. Non potevo sopportarlo, non riuscivo a sopportare una cosa del genere. Tutta la vita che io avevo sempre sognato, la vita che mi era stata poi portata via, adesso era davanti a me.
Era lui la mia vita. Quando se n’era andato, si era portato dietro tutto il mio futuro. Non c’era più niente in me.
Rimasi li, a terra, a tormentarmi i capelli, per non so quanto tempo.
Quindi non era vero niente. Vincent non era morto, e io avevo perso tutto quel tempo ad incolparmi di qualcosa che non avevo fatto.
Eccola, nuovamente, quell’incredibile voglia di piangere, di avere delle lacrime da versare.
Poggiai le mani a terra. Ripensai a tutto quello che aveva detto, alle sue spiegazioni. Facevano male quasi quanto la menzogna in cui avevo vissuto fino a quel momento.
Sentii un fastidio agli occhi, improvvisamente secchi, come se non bastasse l’assenza di lacrime.
Chiusi le palpebre. Mi sembrava che tutto fosse immobile, il bosco, il cielo, la terra stessa, ogni creatura vivente in quel momento tratteneva il fiato, come se qualcuno avesse fermato il tempo.
Poi, ad un tratto, sentii qualcosa adagiarsi piano sul dorso della mia mano.
Aprii gli occhi per vedere cos’era.
Un fiocco di neve. Lo guardai, stupita. Piccolo e freddo, se ne stava li, accoccolato sul dorso della mia mano.
Subito dopo, altri lo seguirono.
Stava nevicando.
Guardai i mille piccoli cristalli di ghiaccio che si depositavano leggeri intorno a me. Ero sempre stata convinta di assomigliare alla neve, così fredda, imperturbabile, perfetta.
Che sciocchezza. Il ghiaccio non ha emozioni, non può soffrire, non può amare, non può star male.
Io si.
La neve cadeva indisturbata, non importava su cosa si adagiasse, cosa coprisse.
Avrei voluto essere davvero fatta di ghiaccio, così non avrei mai provato cos’era il dolore. Se non avessi avuto emozioni, non avrei mai sofferto. Nessuno mi avrebbe mai fatto del male.
E invece no, io ero condannata a soffrire, non potevo rendermi invulnerabile. Peccato. Sarebbe stato bello.
La neve cadeva copiosa, mentre io ero ancora in ginocchio sul terreno duro, oramai quasi interamente coperto da una soffice coperta bianca.
Dovevo guardare in faccia alla realtà.
Cominciai a singhiozzare. Era una cosa strana, nuova, un vecchio riflesso umano sopito in fondo ai miei ricordi. Era l’unico modo che avevo per dare sfogo al dolore.
Dopo poco, vidi una lieve ombra allungarsi verso il punto dove mi trovavo io. Poi, le gambe di Vincent, mentre si inginocchiava davanti a me.
Le sue braccia che mi circondavano.
Cercai di scacciarlo via, malamente. «Non ti azzardare a toccarmi! Vattene, lasciami!», gli ringhiai contro, mentre provavo a ribellarmi. Cercavo di spingerlo via, lontano da me, ero troppo arrabbiata, troppo sconvolta. Ma lui era forte, e non mi lasciò andare. Provai a dibattermi in tutti i modi, gli tirai i pugni sul petto, come una bambina, provai a divincolarmi, ma lui non aveva la minima intenzione di lasciarmi andare.
Dopo un po’ mi arresi, abbandonandomi contro il suo petto forte. Sentivo solo il suo respiro lento e regolare, mentre mi stringeva ancora più forte a sé. Appoggiò il viso sui miei capelli, senza parlare.
Era inutile cercare di scappare. Non sapevo ancora se l’avrei perdonato, ma era tutto talmente tanto irreale, talmente tanto assurdo, che in quel preciso istante non me ne importò un fico secco. Avevo sofferto troppo. Affondai il viso nel suo petto, e cominciai a singhiozzare più forte.
Lui era vivo.



***





Eeeeehhhhh, l’amore… a volte è davvero inspiegabile, ci fa fare delle cose davvero inspiegabili, che a mente lucida nemmeno ci passerebbero per l’anticamera del cervello… sarà anche per questo che è così bello, perché ci rende tutti un po’ folli??? :)
Ok, esaurito il mio momento di follia spacciato per saggezza (!), c’è da chiedersi solo una cosa… che succederà adesso??? E chi lo sa… più di una volta Elian è riuscita a stupirci… chissà se ci riuscirà anche questa volta… :)
Come sempre, vi rinnovo l’appuntamento al prossimo capitolo… un bacione a tutti!:*





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Capitolo 38
*** Cap. XXXVII ***






***















Sentire il tepore del suo corpo era qualcosa a cui non ero abituata. L’avevo avuto troppo poco tempo accanto a me, nella mia nuova vita, per poter assaporare appieno il calore di un corpo accanto al mio. Nessuno, dopo di lui, mi si era avvicinato tanto da darmi quella sensazione. Non l’avevo permesso a nessuno.
Era un calore diverso da quello che ricevevo dalla mia famiglia, era qualcosa di più. Non era come ricevere un abbraccio da Alice, o da Esme. No, era diverso.
Mi sentivo come un puzzle lasciato in soffitta, che nessuno vuole più perché senza alcuni dei suoi pezzi, ma che all’improvviso, dopo tanto tempo, quando oramai si è rassegnato a dover rimanere incompleto, scova le sue parti mancanti in un piccolo, vecchio e sperduto negozietto impolverato, senza nemmeno averli cercati.
Mi sentivo sospesa. Non so dove fosse finita tutta la mia rabbia. Da qualche parte c’era ancora, lo sapevo, perché era impossibile che fosse sparita così facilmente, ma in quel momento non riuscivo a trovarla.
Era bastato sentire il profumo della sua pelle vicino a me per farmi dimenticare il resto del mondo, come se un forte e portentoso calmante adesso scorresse nelle mie gelide vene.
Non mi importava dove eravamo, o cosa era successo. Importava solo il fatto che, adesso, quel profumo così dolce, così inebriante, non era il frutto di una mia illusione. Era vero.
Appoggiai il palmo delle mie mani sul suo petto, sentendo il liscio tessuto della camicia che portava sotto il mantello.
Avevo smesso di singhiozzare, ma lui non accennava a lasciarmi. Forse, pensai, non voleva farlo. Forse non voleva semplicemente consolarmi perché si sentiva in colpa. Forse voleva avermi vicino.
Forse ero semplicemente impazzita. Come riuscivo a non odiarlo dopo tutto quello che era successo? Come potevo stare così, tra le sue braccia, senza provare il minimo desiderio di ucciderlo, di fargli del male, come lui l’aveva fatto a me? Era quello che razionalmente chiunque si sarebbe dovuto aspettare.
Non lo so, non so perché non gli ho fatto pagare in quel momento tutto quello che mi aveva fatto. Avrei tranquillamente potuto, ma non l’ho fatto.
Non mi importava, non quanto il fatto che lui in quel momento fosse li.
Come se i decenni precedenti non fossero mai esistiti.
Devo ammettere che c’era ben poco di razionale in me in quel momento.
L’amore è semplicemente folle. E spaventoso.
Ma che diamine mi prendeva? Iniziavo a sentirmi strana, assurdamente confusa, mi ronzava la testa. Forse era il caso di rinunciare definitivamente a cercare di capirci qualcosa.
Provai l’improvviso terrore di vederlo svanire, di sentirlo scivolare via. Dopo tutto quel tempo, in cui sapevo di averlo perso, in un modo o nell’altro ero riuscita a sopravvivere lo stesso, a vivere un qualcosa di molto simile ad una vita vera.
Ma se lui mi avesse abbandonato di nuovo non ce l’avrei mai fatta. Sarebbe stato insopportabile.
Lui non si era mosso di un solo centimetro. Era fermo li, e non mi lasciava andare. Le sue braccia mi circondavano e tutto sembrava immobile, come se non dovesse finire mai. Solo la neve continuava a cadere, copiosa e soffice.
Eppure, sentivo che mi mancava qualcosa, ma non riuscivo a capire, e la cosa mi turbava.
Mi sentivo agitata da qualcosa che non riuscivo a decifrare.
Volevo guardarlo, per cercare di capire cosa stesse pensando, ma avevo paura di quello che avrei trovato nei suoi occhi. Non sapevo cosa aspettarmi, e sinceramente non sapevo nemmeno perché avrei dovuto aspettarmi qualcosa.
Oh, al diavolo tutti questi problemi, non mi interessavano.
Alzai piano il viso verso di lui, percorrendo lentamente il suo petto, il profilo del suo collo, il suo mento, il contorno morbido delle sue labbra, la linea dritta del suo naso, gustando anche il più insignificanti dei suoi lineamenti, giusto per vedere se era tutto ancora al posto giusto.
Poi, risalii ulteriormente il suo volto, fino ad arrivare ai suoi occhi.
Mi guardava a sua volta. Sembrava concentrato; pensai in preda alla più totale e assurda follia che forse stava facendo con me la stessa cosa che stavo facendo con lui, come se il tempo avesse potuto cambiarci, benché sapessimo entrambi perfettamente che sarebbe stato impossibile.
Mi sembrava di essere tornata indietro nel tempo.
C’erano ancora tante cose che volevo chiedergli, cose che doveva spiegarmi, ma in quel preciso istante me le dimenticai tutte.
Erano bastati i suoi occhi a ipnotizzarmi. Mi tuffai in quello sguardo dorato fino a perdermici.
Non so cosa mi prese da quel momento. Sentivo qualcosa che gridava dal profondo del mio petto, ma non riuscivo a sentire cosa stesse dicendo. Non mi interessava ascoltarlo, era fastidioso, volevo zittire quella voce, avevo bisogno di qualcosa che la mettesse a tacere.
Avevo bisogno di lui.
Avvicinai il mio viso a lui, e la voce che avevo dentro prese a strillare furibonda, ma la ignorai.
Decisi di smetterla di pensare, e tanti saluti alle conseguenze.
Lui mosse il suo viso assieme al mio, e, da quel momento, non riuscii a sentire altro che il suo dolce sapore.



***





Non so se la mia impressione sia giusta, ma credo sia arrivato il momento che molti di voi stavano ardentemente aspettando…che dire, se non grazie per la pazienza?!?! :)
Bando alle ciance, la vostra pazienza sarà pienamente ripagata nei prossimi capitoli…(o almeno lo spero!)
Non mi resta che dirvi…al prossimo capitolo!!!
See you later…kissssssssss :*





***





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Capitolo 39
*** Cap. XXXVIII ***






***















Adoravo le sue labbra. Sapevano di buono, di un qualcosa a cui non sapevo dare un nome. Era la cosa più dolce che avessi mai assaggiato.
C’era un qualcosa di molto simile al gusto della vittoria, in quel bacio dato a fior di labbra, quasi timido, incerto.
Un bacio dolce, piccolo, casto.
Ma fu proprio quel timido bacio a scatenare dentro di me un vero e proprio putiferio.
Mi sentii invadere da un demone sconosciuto, più forte di qualsiasi cosa avessi mai provato.
Feci scivolare le mie mani fino al suo viso, accarezzando le sue guance, finchè non portai le mie braccia dietro al suo collo, tirandolo a me. Lui reagì accarezzandomi la schiena, premendomi contro il suo petto.
Non ricordo di aver mai desiderato con tanta forza qualcuno, ed era la cosa più incredibile del mondo.
Continuai a baciarlo con foga, come se avessi paura che lui potesse sfuggirmi ancora, che potesse scomparire da un momento all’altro. Affondai le dita nei suoi capelli neri, umidi di neve, premendo con furia il suo viso verso il mio.
Era assurdo quanto lo avessi aspettato. Veramente assurdo.
Dopo alcuni minuti, alcune ore, o forse alcuni anni, lui staccò leggermente il viso dal mio, guardandomi negli occhi. Aveva il respiro affannoso, esattamente come me.
Mi guardava intensamente, gli occhi profondi come la notte, mentre con una mano mi accarezzava il viso. Io sgranai gli occhi, mentre lo guardavo. Era bello come un angelo.
Lui mi fissò pensieroso per qualche istante, prima di aprire la bocca, come per dire qualcosa.
Ma io lo fermai. Gli misi un dito sulle labbra, per zittirlo.
Lui sembrò sorpreso, e gli sussurrai: «Non dire niente».
Non mi importava più niente. Al diavolo tutto, al diavolo tutti.
Le parole in quel momento erano del tutto inutili, perché qualsiasi cosa avesse detto sarebbe stata priva di significato per me. L’unica cosa importante in quel momento era Vincent. Nient’altro aveva la benché minima importanza.
Lui rimase immobile per un momento, poi sorrise appena. Feci per togliere la mano dal suo viso, ma lui me la bloccò con la sua. Baciò la punta delle mie dita con dolcezza, mentre io ero incantata dai suoi movimenti. Poi, spostò la mano sul suo petto, prima di riavvicinarsi al mio viso.
Nel momento in cui lui riavvicinò le sue labbra alle mie, sentii qualcosa scatenarsi nel profondo del mio corpo.
Non aveva niente a che vedere con quello che mi scatenavano i ricordi che avevo di lui.
Quello che provavo in quel momento era reale. Non era il frutto di un ricordo, o di un desiderio. Era davvero lui quello che mi stringeva contro di sé, era davvero lui quello che mi sfiorava il corpo, era davvero lui quello che mi baciava con furia, con una passione fino ad allora sconosciuta.
Già, sconosciuta. Quando ero ancora umana lui non mi aveva mai potuta baciare così, ero troppo piccola, troppo fragile; quando mi ero trasformata, ero stata impegnata nel controllo del mio nuovo corpo, della mia sete, della mia rabbia, ma in quel caso pensavo che avremmo avuto tutto il tempo del mondo, quindi non mi ero mai messa fretta. Non potevo nemmeno lontanamente immaginare quello che, invece, sarebbe successo.
Adesso volevo rimediare. Non avevo mai provato niente di così forte, di così totalizzante verso di lui. Ero travolta da un’ondata di sensazioni che mai era stata così forte prima di allora.
Era ora di recuperare il tempo perduto.



***




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Capitolo 40
*** Cap. XXXIX ***






***















Lo desideravo. Lo desideravo con ogni fibra del mio corpo.
Mi sembrava di impazzire.
Ogni cosa che facevo sembrava non bastare mai. Ogni bacio che gli davo era sempre troppo breve, ogni centimetro del suo corpo che toccavo era sempre troppo poco.
Lui sembrava provare la stessa cosa. Teneva una mano dietro la mia schiena, per tenermi stretta a lui, mentre con l’altra vagava per il mio corpo; mi spostò i capelli umidi, baciandomi dietro l’orecchio, per poi spostare la sua bocca sul mio collo.
Chiusi gli occhi, mentre lo sentivo accarezzarmi delicatamente con le labbra. Provai un brivido lungo tutta la schiena, mentre istintivamente stringevo le dita sulla sua camicia.
Lo sentii sorridere, mentre con il viso mi sfiorava l’incavo tra la spalla e il collo, poi le sue mani abbandonarono per un istante il mio corpo. Aprii gli occhi, giusto il tempo di vedere le sue dita slacciare rapidamente il nodo del lungo mantello nero, che stese con una mano dietro di me.
Mi prese nuovamente tra le braccia, guardandomi negli occhi. Con il suo corpo mi spinse leggermente indietro, fino a quando non mi ritrovai con la schiena poggiata a terra, sul suo mantello.
Vincent riprese a baciarmi subito. Aveva una mano appoggiata sul terreno, per reggersi, mentre con l’altra mi accarezzava il viso. Io gli gettai le braccia al collo, tirandolo a me. Intrecciai le dita nei suoi capelli, mentre la mano che mi accarezzava il viso scendeva lungo il mio fianco, sfiorando la mia vita, i miei fianchi, fino a giungere al bordo del mio maglioncino. Infilò una mano sotto la stoffa, sfiorando appena la pelle della mia pancia, senza però spingersi oltre. Quel tocco delicato, dolce, mi mandò fuori di testa.
Non riuscivo più a resistere. Stavo davvero impazzendo.
Presa da una foga incontrollata, spostai le mani fino al suo petto, dove trovai i bottoni della sua camicia. L’aprii in meno di un istante, molto probabilmente strappai tutti i bottoni, non lo so, e sinceramente non mi interessava. Lui rise, le labbra ancora sulle mie, e mi guardò con gli occhi che brillavano.
Guardandolo negli occhi, feci scivolare le mani su tutto il suo petto muscoloso, sentendo i muscoli contrarsi ad ogni mio tocco. La sua risata si spense, ma i suoi occhi no, e prese a mordicchiarmi il labbro inferiore, mentre sentivo il suo respiro diventare più rapido.
Si sfilò rapidamente la camicia, mentre accarezzavo le sue spalle, la sua schiena liscia e forte, i suoi addominali tesi. Era quanto di più bello le mie dita avessero mai toccato.
Ma non mi bastava. Sentivo le sue dita accarezzarmi piano, lentamente, risalendo lungo il fianco, fino alla vita. Il mio maglioncino, a differenza della sua camicia, era ancora esattamente al suo posto. Vincent l’aveva lasciato li. Non so se lo fece per galanteria, o perché non voleva forzarmi, ma in quel momento decisi che era arrivato il momento di farlo sparire. Mi alzai leggermente, giusto quel che serviva per togliermi di dosso quel fastidioso indumento. Lo lanciai da qualche parte, a brandelli.
Lui continuò a vagare lungo il mio corpo, fino ad arrivare al mio seno. Ebbi un sussultò quando mi sfiorò, ma non volevo che smettesse. Per nessuna ragione al mondo.
Ma Vincent non sembrava averne la benché minima intenzione. Fece scivolare la sua mano dietro la mia schiena, sollevandomi. Mi mossi più rapidamente di lui, mentre mi toglievo un altro ingombrante pezzo di stoffa di dosso.
Lui mi guardò incantato. Riappoggiai nuovamente la schiena a terra, mentre lui scendeva e copriva di baci la strada che dalle mie labbra portava fino al mio seno turgido.
Un gemito mi scappò dalle labbra. Era una cosa incontrollabile, mentre affondavo nuovamente le dita nei suoi capelli. Lui risalì fino al mio viso, baciandomi con foga.
Avevo un disperato bisogno di sentire la sua pelle sulla mia, come se quei pochi centimetri di distanza tra di noi fossero dei chilometri. Gli misi le mani sulla schiena e lo attirai a me; sentii la sua pelle, deliziosa e morbida, premere su di me, il mio corpo schiacciato contro il suo. Era una sensazione quasi dolorosa, lo desideravo, lo desideravo come mai nulla al mondo, non era paragonabile a niente.
Nonostante il freddo gelido che ci circondava, sentivo dentro un fuoco incontenibile. Sentivo i piccoli fiocchi di neve scivolarmi sulla pelle, e mi sorprese che non evaporassero all’istante.
La mia pelle, a contatto con quella di Vincent, mi sembrava bollente. Era la sensazione più straordinaria del mondo.
Poi, un nuovo gemito mi uscì dalle labbra, nel momento in cui Vincent, con una mano, percorse tutto il mio corpo, dal collo fino alla vita. Coprì le mie labbra con le sue, mentre la sua mano scendeva oltre i miei fianchi, fino ai miei jeans.
Sparirono nel giro di un istante. Chissà che fine fecero...
Percorse la mia gamba lentamente fino al ginocchio, poi, con un movimento rapido, lui si girò, mettendosi seduto, e mi fece sedere sulle sue gambe. Accarezzai piano il suo corpo, lasciando baci lungo tutta la scia delle mie mani, partendo dal collo fino al suo petto. Mi soffermai a baciargli la mascella, mentre con le mani scendevo lungo i suoi addominali, fino alla cintura. Sfiorai con le dita la fibbia ghiacciata, prima di slacciarla con un movimento rapido. A quel punto, Vincent mi prese il mento con una mano, e mi catturò nuovamente le labbra con un bacio.
Mi abbracciò stretta, facendomi di nuovo stendere sulla schiena. Lui era un ginocchio sopra a me, aveva il respiro corto e affannato, adesso, almeno quanto lo era il mio.
Prima che me ne rendessi conto, erano spariti anche i suoi pantaloni.
Mi guardò per un istante, accarezzandomi i capelli. «Sei stupenda».
La sua voce era profonda, roca, affannata. Eccitata.
Lo volevo. Volevo qualcosa, volevo di più, volevo fosse mio.
Non riuscivo più ad aspettare.



***




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Capitolo 41
*** Cap. XL ***






***















Non riuscivo a capire cosa mi stesse succedendo. Era una brama incredibile, folle, completamente fuori controllo.
Lo attirai a me, succhiando le sue labbra come se contenessero linfa vitale.
Lui mi accarezzò i capelli, mentre io scendevo con le mani dove prima mi ero fermata. Lo sentii sussultare, mentre arrivavo alla fine dei suoi addominali. Accarezzai il suo incontenibile desiderio attraverso la stoffa del suo intimo, e soffocai il suo gemito con la mia bocca.
Premeva con forza le sue labbra sulle mie, accarezzandomi meno delicatamente adesso, con più foga, con più desiderio. Le sue mani mi lasciavano una scia elettrica lungo la pelle, fin dentro al mio corpo. Non l’avevo mai visto così, e nemmeno sentito. Non l’avevo mai toccato come stavo facendo in quel momento, e lui non mi aveva mai accarezzata come in quell’istante.
Sfioravo la sua imponente potenza con le mie dita, mi piaceva sentirlo gemere. Fui nuovamente invasa dal più prepotente dei desideri, volevo ancora una volta di più.
Scomparvero anche gli ultimi centimetri di vestiti che ci coprivano. Non c’era più niente a frapporsi tra me e Vincent.
Lui infilò le mani dietro la mia schiena, avvolgendomi contro il suo petto.
Mi sfiorò le labbra, poi, quasi con furia, si spinse dentro di me, con un basso e rauco ringhio.
Strinsi istintivamente le mie braccia intorno sua schiena, con gli occhi chiusi. Era come se adesso mi si fosse riversata addosso una colata lavica. Aprii la bocca, come per gridare, per liberare tutte le sensazioni che mi stavano invadendo in quel momento, ma lui mi mise subito a tacere con la sua.
Lo sentivo ansimare forte, mentre io avevo del tutto smesso di respirare. Passò qualche istante prima che entrambi rinsavissimo. Lui uscì piano, per poi rientrare più lentamente della prima volta. Da me, questa volta, uscì un gemito che nemmeno le sue labbra riuscirono a fermare, tanto era forte.
Mi sembrava di impazzire. Il calore che prima sentivo nel mio corpo adesso sembrava nascere dal punto esatto in cui i nostri due corpi erano uniti, allacciati alla perfezione. Era qualcosa di talmente tanto potente, di talmente tanto unico, da essere quasi insopportabile.
Lui continuò a muoversi piano, lentamente. Mi teneva premuta contro il suo corpo, senza lasciarmi un solo istante.
Era come se avessi aspettato l’intera vita per quello che stavo provando in quel momento. Aprii finalmente gli occhi, e trovai che lui mi stava guardando, ansante, coinvolto quanto me.
Non riuscii a distogliere gli occhi dai suoi. Quegli occhi d’oro, vellutati, caldi e pieni di passione, pieni d’amore. Guardavano me.
Non mi sembrava possibile che stesse accadendo davvero. Eppure era tutto assolutamente reale, reale come le emozioni che mi scuotevano il corpo in quel momento, reale come i brividi che mi attraversavano la schiena, reale come il fatto che lui fosse dentro di me.
Si muoveva piano, adesso, e la cosa contribuì a mandarmi ancora più fuori di testa. Mi faceva impazzire il modo che aveva di guardarmi, il modo che aveva di muoversi, il modo che aveva di accarezzarmi.
Si fermò un istante, mentre mi accarezzava una guancia con la mano. Posai la mia mano sulla sua, e la strinsi forte, intrecciando strette le mie dita con le sue. Lui, a quel punto, avvicinò nuovamente il viso al mio, mentre ricominciava a spingersi dentro me.
Era meno lento, adesso, si muoveva con più intensità, con più vigore. Mi morsi un labbro, gemendo, mentre lui scendeva con le labbra fino al mio collo, succhiando e mordicchiando piano tutto quello su cui si posavano. Vincent strinse con più forza la mia mano, mentre aumentava il ritmo serrato delle sue spinte.
Mi piaceva da impazzire. Mi riempiva di baci ogni centimetro che riusciva a raggiungere del mio corpo, mentre sentivo crescere dentro un qualcosa di incontrollabile. Volevo sempre di più, pensavo che sarei impazzita tanto era quello che stavo provando. Avviluppai le gambe intorno alla sua vita, spingendolo ancora di più verso di me. Lui strinse gli occhi, poggiando la fronte sulla mia, ansimando senza controllo.
Non riuscivo a smettere di baciarlo, mentre muovevo il bacino verso di lui, desiderandolo ancora di più. Portai la mano libera sopra la mia testa, e mi sentii quasi morire quando lui mi accontentò, spingendosi ancora più a fondo.
Quella cosa che sentivo crescere dentro, calda, piena, piacevole oltre i limiti del sopportabile, arrivò quasi al suo culmine, prendendo quasi del tutto il controllo di me. Era un piacere troppo grande per poterlo esprimere con le semplici parole, qualcosa di troppo profondo per poter essere descritto nei dettagli.
La sentii crescere sempre di più, con l’aumentare dei movimenti di Vincent; non volevo per nessuna ragione al mondo che finisse, che smettesse di muoversi. Inarcai la schiena, gettando la testa all’indietro, gli occhi chiusi, mentre dalle mie labbra, dapprima ansimanti, uscii un grido quasi liberatorio.
Sentii i brividi spargersi lungo il mio corpo, mentre Vincent si rituffava sulla mia bocca.
Ero senza fiato, era la cosa più straordinaria del mondo, un fiume in piena, un uragano, un terremoto che mi squassava il corpo e lo riempiva di sensazioni incredibili.
Lui, che nel frattempo si era fermato, aveva ricominciato a muoversi lentamente, poi, pian piano, riprese il ritmo di prima, riempiendo ancora una volta il mio corpo di brividi.
Lo sentivo ansimare contro il mio viso, fino a quando non lo sentii respirare ancora più velocemente, completamente coinvolto, mentre io lo stringevo più forte con le mie ginocchia.
I suoi movimenti erano rudi, adesso, pieni della sua forza, concentrato sui nostri due corpi. Poi, lo sentii gemere più forte, stringere gli occhi, mentre apriva la bocca in un grido muto. Sentii la sua voce uscire incontrollata, il suo respiro ansante, mentre mi stringeva forte contro di sé. Sospirò forte, e si abbandonò tra le mie braccia, scosso da un tremito, il respiro spezzato.
Rimase così, per alcuni istanti. Lo strinsi forte a me, non volevo che andasse via.
Tenevo gli occhi chiusi, mentre sentivo il suo viso appoggiato al mio, le sue mani che mi accarezzavano i capelli, il suo respiro di nuovo normale. Gli circondai la vita con le mie braccia, sperando che quel momento non finisse mai.
Non aveva ancora smesso di nevicare. Sentivo i piccoli fiocchi di neve posarsi sulla mia pelle, e scivolare piano, lasciando una piccola scia bagnata sul mio corpo. Era piacevole.
Lui si spostò al mio fianco, tirandomi con se. Mi stringeva al suo petto, mentre mi baciava i capelli.
Mi sentivo leggera come l’aria. Non volevo pensare a nulla, non mi interessava niente di quello che mi circondava. Solo io e lui.
Forse avevamo fatto una cosa sbagliata, avventata, ma non mi interessava.
Io volevo farlo.
Quello a cui non ero preparata, però, erano le conseguenze a cui questo avrebbe portato.
Nonostante il momento di oblio, il mio incubo era sempre li. Non aveva mai smesso di aspettarmi.



***





Eeeehhhh le vacanze…chiedo scusa per il ritardo con cui ho postato questo capitolo, ma il richiamo del relax è stato più forte di me *_*
Comunque, spero vivamente che vi piaccia…(altrimenti siete assolutamente autorizzati al lancio dei pomodori!XD )
Un bacio grande a tutti…alla prossimaaaaaa!!!





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Capitolo 42
*** Cap. XLI ***






***















Il sesso è la droga più potente che esista, e chi ha avuto il coraggio di dire che non fa male era un perfetto idiota.
No, non poteva essere tutto risolto così. Il sesso distoglie momentaneamente dai problemi, fa sentire bene, riempie il cervello, senza lasciare spazio per pensare a nient’altro. Ma, come il resto, ha un gigantesco difetto: l’effetto passa troppo in fretta.
E nel momento in cui passa l’euforia, il problema è sempre li, immobile, anzi, solitamente ancora più grande di prima, se possibile.
Volevo credere che quello che avevamo fatto non era sbagliato, volevo crederci davvero. Ma per quanto mi sarebbe piaciuto pensare che quello non era un errore, purtroppo non ci riuscivo.
Non mi resi conto di quello che era successo fino a quando non sentii Vincent parlare, dopo molti minuti in cui eravamo rimasti in silenzio, io persa nell’oblio dei miei non-pensieri, lui in chissà quali altri.
«Mi dispiace Elian, davvero», mormorò, con il viso sui miei capelli. Una piccola parte del mio cervello si chiese il perché di quelle parole, ma la stragrande maggioranza dei miei neuroni si rifiutavano categoricamente di riprendere a funzionare. Non volevo ricominciare a pensare. Continuavo a cullarmi con il dolce suono della sua voce, senza dar retta a quello che diceva.
Sospirò. «Io.. scusami». Un paio di neuroni diedero segni di vita. Non capivo bene perché, ma sembrava che Vincent si sentisse in colpa. E non per quello che credevo io. «Sono stato stupido, non volevo che succedesse.. mi dispiace. Per tutto».
Non volevo che succedesse.
Fu come ricevere un pugno in pieno viso.
Era come se mi fossi svegliata di colpo, stordita, dopo un lungo sonno.
Ma che diavolo avevo fatto? Cosa mi era mai passato per la testa?
Mi alzai a sedere, di scattò, gli occhi sbarrati. Lui mi guardò, senza dire una parola, e si mise lentamente a sedere accanto a me.
Si sentiva in colpa per essere venuto a letto con me. Non voleva farlo, non voleva che succedesse, e me l’aveva appena detto.
Mi ero sbagliata. Le cose non erano cambiate affatto. Erano peggio di prima.
Lui non mi voleva. Non mi voleva più. Per questo se n’era andato. Per questo mi aveva lasciata.
Illusa. Era stato così fin dall’inizio.
Serrai le ginocchia al petto, mi vergognavo come una ladra.
Ero solo una povera stupida.
«Elian», mi disse piano, sfiorandomi una spalla con la mano. Ma io lo scacciai via.
«Vattene via». Lui sussultò sentendo il tono della mia voce, nero come il mantello si cui ero seduta.
Affondai il viso tra le mani, disperata. Cos’era stato? Uno capriccio, un puro desiderio fisico, o che altro?
Ma perché l’avevo fatto? Perché mi ero lasciata andare a quello che probabilmente era l’errore più stupido di tutta la mia esistenza?
Vincent, intanto, era immobile al mio fianco. «Io non me ne vado», provò a dire, cauto.
«No. Ti ho detto di andartene», gli ripetei, testarda, senza muovermi di un millimetro. Non avevo la minima intenzione di starlo a sentire.
Esattamente come lui non sembrava avere la minima intenzione di andarsene via.
«Elian, ascoltami, non hai...», provò a dire lui. Ma era davvero troppo, e non lo lasciai finire.
«VATTENE!», gli gridai, con quanta più forza avevo nei polmoni.
Lui si ammutolì di colpo. Sentivo il suo sguardo addosso, ma pregavo che lo distogliesse. Non volevo che mi guardasse, non volevo che mi vedesse in quello stato. Dopo alcuni istanti, sempre senza dire una parola, lo sentii alzarsi in piedi. Raccolse qualcosa da terra, e subito dopo sentii il tessuto del suo mantello avvolgermi, posato sopra le mie spalle.
Lo sentii camminare piano verso il limite della radura, poi, silenzioso, lo sentii sparire nel bosco, a tutta velocità. Pian piano scomparve anche l’impercettibile suono dei suoi passi.
Se n’era andato.
Ero rimasta sola. Di nuovo. Alzai il viso, e mi guardai intorno. Era tutto esattamente come prima.
Passai alcuni minuti a guardarmi intorno, come aspettandomi di vederlo comparire dal folto del bosco, come se nulla fosse. Era del tutto senza senso.
Pazza. Ero stata proprio io a mandarlo via.
Dovevo essere fuori di testa, non c’erano dubbi. Mi sentivo come se fossi dentro un frullatore, frastornata.
Fare l’amore con lui era stato l’errore più madornale e meraviglioso di tutta la mia vita.
Ma dovevo saperlo che questo non avrebbe risolto i problemi. Ero stata una folle anche solo a pensarlo.
Adesso lui era andato via. Chissà dov’era in quel momento, chissà se sarebbe mai tornato.
Ne dubitavo. La prima volta che se n’era andato l’avevo creduto morto, la seconda volta ero stata proprio io a mandarlo via, perché era vivo.
Appoggiai il viso sulle ginocchia, affondandomi le dita nei capelli.
Ma cosa avevo fatto?



***





Chiedo umilmente scusa per l’immenso ritardo con cui ho postato questo capitolo…la preparazione di un esame, una capricciosissima connessione internet e, da non trascurare, gli ultimi strascichi d’estate mi hanno impedito di avvicinarmi al computer con tutte le loro forze, senza lasciarmi via di fuga.
Adesso mi metto buona buona in un angolino in punizione, non prima di aver postato il capitolo :)
A tutti voi…un bacio gigantesco…au revoir! :*





***





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Capitolo 43
*** Cap. XLII ***






***















Ero circondata dal buio. Era notte fonda, non c’erano nemmeno più i rumori della natura a farmi compagnia. I miei occhi vedevano solo una coltre di neve bianca e ghiaccio, sovrastato da un cielo tetro, ingombrato da uno spesso strato di nuvole scure. Tutto, intorno a me, era silenzio, come avvolto da un insolita aura di stanchezza, di sonnolenza; era il risposo del bosco, il sonno della natura.
L’unica creatura vigile, probabilmente nel raggio di miglia, ero io.
Ero ancora accovacciata per terra, con il pesante mantello ancora posato sulle mie spalle, come molte ore prima, e da quella posizione non mi ero mossa di un solo millimetro. Immobile come pietra. Quello era il mio personale modo di dormire, di illudermi, anche solo per qualche ora, di poter provare anche io la pace del sonno.
Desideravo solamente svuotare il mio cervello, cercavo disperatamente qualcosa che mi potesse distrarre, qualcosa su cui concentrarmi, qualcosa che non avesse a che fare né con i Volturi, né con Vincent.
Ma era un tentativo inutile. Non riuscivo a non pensarci, dall’orlo del baratro su cui mi reggevo, nel più precario degli equilibri. Non sapevo cosa fare.
Aguzzai le orecchie nel tentativo di cogliere qualche suono lontano, qualche segno di vita, ma niente. Il silenzio era così opprimente da dare persino fastidio alle orecchie.
Aspettavo il momento in cui averi iniziato a sentire dolore, il momento in cui sarebbe arrivata la totale disperazione. Ma quel momento non arrivava.
Mi sentivo insensibile, come se fossi rimasta immersa a lungo in una vasca colma di ghiaccio. Aspettavo l’esplosione, la rabbia, la delusione, e mi rendevo conto che stavano tardando un po’ troppo ad arrivare. Sembrava mi fosse stata succhiata via ogni possibile emozione, ogni possibile sentimento. Non provavo nulla, ero completamente vuota. Vuota, e sola.
Di nuovo sola. Erano successe talmente tante cose che faticavo a rendermi davvero conto di tutto quello che era successo. Che cosa avrei fatto, adesso?
Non potevo tornare dai Cullen. No, era del tutto escluso. Non ce l’avrei fatta.
Avrei iniziato a girovagare, magari mi sarei trovata una qualche sistemazione, in giro per il mondo; magari avrei trovato un posto che riuscisse a farmi sentire a mio agio, a farmi sentire meno sbagliata.
Chissà, magari sarei davvero riuscita a trovarlo. Avrei potuto cominciare una nuova vita, una delle mie tante nuove vite.
Mi resi conto da sola delle assurdità che stavo pensando. Derisi i miei stessi pensieri, erano ridicoli. Ma dove pensavo di andare? Non esisteva nessun posto per me. Sapevo che, ovunque fossi andata, non sarei mai riuscita a liberarmi di tutte le mie sofferenze.
Perché, poi, avrei dovuto liberarmene? Non aveva senso. Esisteva forse un valido motivo per tornare a vivere? No, non esisteva. Non potevo permettermi niente che mi legasse al mondo esterno, nessun desiderio, nessun affetto. I desideri difficilmente si avverano, e gli affetti prima o poi finivo con il distruggerli.
Ero davvero condannata a passare l’eternità in quello stato, in quella specie di coma vigile in cui mi trovavo in quel momento. Che fare, allora? Non lo sapevo. L’unica cosa che riuscivo a fare, in quel momento, era stare seduta li, in quella minuscola radura, nel bel mezzo del niente.
Magari sarei rimasta li per sempre, seduta sul terreno duro e umido, a guardare le stagioni passare intorno a me, sul mio corpo, che impunemente non subiva gli effetti del tempo.
Sarei diventata parte integrante del bosco, come una roccia. Sarei scomparsa per sempre, nessuno mi avrebbe mai cercata.
L’unica persona che avrei voluto mi cercasse sapevo già che non l’avrebbe fatto. Mi aveva cercata una volta, e io l’avevo mandato via.
Vincent non sarebbe più tornato, e stavolta per davvero.
Ne presi mentalmente coscienza, forse per la prima volta davvero. Non sarebbe più tornato. Ero rimasta completamente sola. Ancora. Era un ciclo destinato a ripetersi all’infinito.
Dovevo smetterla. L’unico modo che mi venne in mente, l’unico che conoscevo per porvi fine, era restare da sola. Non avrei cercato più nessuno, avrei vissuto da sola per il resto della mia esistenza. Ero sempre stata fonte di sofferenza e dolore per tutte le persone a cui ero legata. Liberarli dalla mia presenza avrebbe solo giovato a tutti quanti.
Ormai era deciso.
Richiusi gli occhi, e mi abbandonai ancora una volta ai miei più profondi pensieri.
Pensai a Carlisle, a quanto fosse stato buono con me; mi aveva accolta come una figlia, e nonostante la mia indole piuttosto turbolenta mi aveva sempre accolta a braccia aperte.
Pensai a Esme, la dolce, cara Esme. Mi ricordava tanto Margaret, mia madre, una donna così dolce, così forte, pronta a tutto per i suoi figli. Lei era davvero una mamma per me, lo era sempre stata.
Mi venne in mente Rosalie, e la sua proverbiale cocciutaggine; ci eravamo fatte tante di quelle litigate insieme da far tremare le pareti di casa… Più di una volta, nei decenni scorsi, era dovuto intervenire Emmett, e il solo pensare alla sua buffa faccia ogni volta che veniva a interrompere un battibecco mi fece sorridere. Che coppia che erano. Estremamente diversi, eppure estremamente bene assortiti, Emmett così scanzonato, Rosalie così testarda. Eppure, nonostante il suo essere apparentemente così burbera, era una persona profondamente onesta, sincera, una persona su cui avevo sempre potuto contare.
Mi sarebbero mancati.
Mi si strinse il cuore, pensando al resto della famiglia che avevo lasciato.
Alice. Chissà se lei aveva visto quello che era successo, chissà se sapeva. Probabilmente si. Mi era stata così vicina in tutti questi anni, molto più di chiunque altro.
Alice era una roccia. Così piccola, all’apparenza così fragile, era un vero ciclone. L’adoravo.
Per me era qualcosa di speciale; era una parte di me, la cosa più vicina ad una sorella che avessi mai avuto. Di fratelli ne avevo avuti tanti, ma di sorelle, no. Lei era la sorellina che non avevo mai potuto avere, in tutta la mia vita. Era buona, Alice, dava tutta se stessa per gli altri. Anche quando aveva incontrato Jasper, si era fatta in quattro per lui.
Dal canto mio, avevo imparato a conoscere Jasper nel corso degli anni, e non avevo mai smesso di pensare a quanto fossimo simili. La sofferenza era sempre stato uno degli aspetti dominanti nella sua vita, il tormento, la depressione che l’avevano accompagnato non riuscivano ancora a dargli tregua, nonostante gli anni che passavano. Come lui stesso mi aveva ammesso, in una delle rare occasioni in cui si era aperto, in cui eravamo riusciti a parlare, la sua salvezza era stata proprio Alice. Il suo raggio di sole, la luce che aveva rischiarato le tenebre.
Jasper mi ricordava me. Lui aveva la sua Alice, io avevo avuto Vincent.
Mi augurai con tutto il cuore che le cose per lui potessero andare a finire diversamente.
Pensai a Bella, al poco tempo che avevamo avuto per poterci conoscere; ne aveva passate tante quella povera ragazza, mi sarebbe davvero piaciuto passare più tempo con lei.
Esattamente come avrei voluto approfondire la conoscenza con la mia piccola nipotina, Nessie. Lei e Bella dovevano essere davvero delle persone speciali, avevano stravolto la vita di una delle persone più importanti della mia; avevano reso felice il mio fratellino, meritavano il meglio, esattamente come lui.
Edward. Sentii una fitta allo stomaco, al pensiero della sua espressione quando ero scappata via. Non era stato un bel modo per andarmene, ma era l’unico decisivo, il meno doloroso per tutti quanti.
Conoscevo Edward, non mi avrebbe fatta andare via altrimenti. Lui ed Alice erano le persone che mi conoscevano meglio, le persone alle quali ero più legata.
Odiavo il modo in cui li avevo lasciati. Odiavo l’ultimo ricordo che avrebbero avuto di me, la mia fuga.
Non potrò mai dimenticare il dolore nei loro occhi, quando avevano capito cosa avrei fatto.
Non meritavano di provare ancora dolore a causa mia. No, non potevo farlo.
Loro avevano fatto tanto, troppo per me, ed era venuto il momento di farla finita.
Non avrebbe più sofferto nessuno a causa mia, nessuno.
Era la fine più giusta.



***





Ehm…lo so, nuovo ritardo. Minore del precedente, ma comunque ridardo (sobh).
Oramai ho attrezzato il mio angolino con tutto quello che può servire alla mia penitenza: ceci, frusta, bacchetta da tirare sulle mani e martellone di gomma gigante modello Kodocha da tirarmi in testa quando non mi viene in mente altro… se mi manca qualcosa, accetto suggerimenti =_=
Grazie a voi che nonostante i miei continui ritardi continuate a seguire questa fic…I love all of you *_*
Rinnovo l’appuntamento al prossimo capitolo…alla prossima!!!:*





***





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Capitolo 44
*** Cap. XLIII ***






***















Che fosse già mattina? Eh, si, mattina lo era sicuramente, ma non riuscivo a capire di quale giorno fosse. Non ricordavo altre giornate di sole, da quando ero accovacciata a terra, come la notte in cui avevo rincontrato Vincent. Non c’era più la neve a ricoprire il paesaggio circostante, non c’erano nuvole ad ingombrare il cielo sopra di me.
Quanto tempo era passato?
Forse una, due settimane. Chi lo sa. Noi vampiri viviamo il nostro ultimo giorno per l’eternità, non abbiamo futuro, per noi il tempo non scorrerà mai. Il nostro ultimo giorno di vita è l’unico giorno, che si ripete per sempre. Il tempo, per noi, è solo l’infinito alternarsi del giorno e della notte, le stagioni sono poca cosa.
Abbassai lo sguardo sul dorso della mia mano, stretta intorno alle mie ginocchia. Un piccolo raggio di sole aveva fatto capolino dai lunghi rami spogli degli alberi intorno a me, e faceva risplendere di mille colori la mia pelle di diamante.
Avevo sete.
Sentivo il bruciore alla gola divorarmi fin dentro le viscere, mi stupii che le fiamme non uscissero dal mio collo, lacerando la pelle. Era doloroso, insopportabile, estenuante. Provai a deglutire l’eccesso di veleno che mi inondava la bocca, ma non ci riuscii.
In quelle condizioni, sarebbe bastato il minimo odore di sangue umano, anche lontano chilometri, per farmi uscire fuori di testa.
Dovevo andare a caccia. Pensai che, magari, nei dintorni avrei potuto trovare qualche branco di cervi, in fondo mi trovavo in un bosco.
Dovevo assolutamente stare lontana dai centri abitati. Avrei potuto fare del male a qualcuno.
Dovevo alzarmi, dovevo mettermi in piedi. Coraggio, dovevo fare qualcosa.
Ma non riuscivo a muovermi. Le mie gambe sembravano atrofizzate, non rispondevano ai miei comandi. Non avevano la minima intenzione di muoversi, come fossero staccate dal mio corpo.
Mah, poco male, sarei andata a caccia più tardi. Difficilmente sarebbe passato qualche essere umano da quelle parti.
Non mi importava di soffrire. Non mi importava di soffocare dalla sete. Non mi importava nulla. Punto.
Ritornai nel mio abisso senza fine, sprofondando nuovamente nel nulla più assoluto. Svuotai la mente, chiusi gli occhi, e non pensai più a nulla...





Non c’era più il sole, doveva essere di nuovo notte. L’aria era fredda, più fredda dell’ultima volta che avevo aperto gli occhi. Il mantello sulle mie spalle sembrava più pesante del solito, pesante come un macigno. Mi accorsi che era bagnato, completamente zuppo, esattamente come i miei capelli. Che avesse piovuto? Non me n’ero accorta. Mi guardai intorno. Si, doveva esserci stato un bell’acquazzone, viste le pozzanghere che mi circondavano.
Forse stavo impazzendo. Ero diventata talmente tanto insensibile al mondo esterno da non rendermi conto più di nulla.
Alla fine non ero nemmeno andata a caccia quella mattina... o forse era un’altra mattina? Non me lo ricordavo più...
Si, stavo proprio impazzendo...
Chiusi di nuovo gli occhi; le mie orecchie ronzavano senza sosta, mi sembrava di non sentire più niente. O forse c’era troppa confusione e non distinguevo i rumori... ma aveva forse importanza?
No, non ce l’aveva.
Poi, all’improvviso, sentii uno strano calore avvolgermi. Era un calore piacevole, una bella sensazione... continuavo a sentire dei brusii indistinti, non capivo...
Poi, all’improvviso, mi sentii scuotere con violenza, come se qualcuno mi avesse afferrata e avesse iniziato a strattonarmi.
I rumori divennero più forti, la sensazione di calore più intensa.
Un momento.
C’era davvero qualcuno che mi aveva afferrata e mi stava strattonando.
Qualcuno stava urlando. Anzi, non stava semplicemente urlando, chiamava qualcuno, sembrava terrorizzato. Non me lo stavo immaginando.
Finalmente aprii gli occhi, ma non riuscii immediatamente a focalizzare quello che mi trovai davanti.
Un visetto piccolo e pallido, completamente scavato e contratto, un viso preoccupato, stanco, segnato, contornato da una massa di capelli neri tutti arruffati.
Quel viso lo conoscevo.
«Alice».



***





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Capitolo 45
*** Cap. XLIV ***






***















Alice.
Alice? Che diavolo ci faceva li Alice?
Era un’allucinazione.
«No, stupida che non sei altro, non sono un’allucinazione! Sono io!».
Caspita. Non mi ero nemmeno accorta di aver parlato.
Sentivo una presa ferrea sulle mie braccia, e vidi che erano le braccia di mia sorella che mi scuotevano con forza. Continuava a chiamarmi, terrorizzata, come se non potessi sentirla.
«Elian, Elian mi senti? Che ti prende? Elian, ti prego, parlami!»
Scossi con violenza la testa, come per scrollarmi di dosso qualcosa.
Un momento. Alice era li, davanti a me, non me la stavo immaginando.
Alice era davvero li.
Alice era davanti a me, era reale, e mi stava sballottando da una parte all’altra come per svegliarmi.
Ma io ero sveglia. Come poteva essere altrimenti?
Ero sveglissima. Alice era riuscita a trovarmi. Alice mi aveva cercata, ed era riuscita ad arrivare fino a me.
L’afferrai per le spalle, in modo che la smettesse di scuotermi come un ossesso, e la guardai dritto negli occhi.
«Alice, smettila di sbatacchiarmi, ti sento».
Alice sembrò lasciarmi andare per un istante, per poi tuffarsi addosso a me, stringendomi forte fin quasi a spezzarmi in due.
«Elian, devi essere impazzita! Non hai idea di quanto ci hai fatto preoccupare! Ti cerchiamo da mesi, oramai, non sapevamo più come fare! Ma cosa ti è saltato in mente, di sparire così! Non farlo mai più, ci hai fatto impazzire tutti!».
Si staccò da me, mentre continuava a parlare. «Ti abbiamo cercata dappertutto, ci siamo spaventati da morire, pensavamo avessi fatto qualche sciocchezza», disse, con un labbro che le tremava, «e infatti avevamo ragione. Elian, ma da quanto tempo è che non vai a caccia? Hai un aspetto orribile». Poi, si girò a prendere qualcosa da dentro la borsa, e ne tirò fuori quello che a me sembrò un grande foulard colorato, e me lo mise addosso, sopra il mio oramai logoro mantello nero.
Ero del tutto sconvolta. Riuscii a chiederle, con un filo di voce: «Come mi hai trovata?»
Lei abbozzò un sorriso, per nulla allegro. «Qualche tempo fa ho avuto una visione di te a caccia», mi disse, «quindi ho potuto vedere bene il luogo dove ti trovavi, non solo questa anonima radura. La visione, però, è scomparsa subito, devi aver cambiato idea alla fine, ma ho avuto comunque modo di poter veder il posto in cui ti trovavi. Non saremmo mai riusciti a trovarti, altrimenti».
«Si», le dissi, ancora vagamente sotto shock, «stamattina mi era venuta voglia di andare a caccia, ma poi... che c’è?».
Nella sua espressione c’era qualcosa che non andava. «Elian», mi disse, con cautela, «quando ti ho detto che la visione l’ho avuta qualche tempo fa, intendo dire davvero qualche tempo fa... L’ho avuta il mese scorso. Elian, sono quasi tre mesi che ti cerchiamo».
Sgranai gli occhi a quell’informazione. Tre mesi? Erano passati tre mesi?
Balzai in piedi senza quasi accorgermene, lasciando scivolare a terra il mantello e lo scialle di Alice. Quello che a me sembrava successo quella mattina era in realtà successo più di un mese fa?
Finalmente, a quell’informazione, il mio cervello riprese a lavorare a pieno regime.
Fino a quel momento non mi ero realmente resa conto di quello che stava succedendo.
Alice si alzò dopo di me, raccogliendo dal groviglio ai miei piedi il foulard che mi aveva avvolto addosso.
Avevo deciso di rimanere lontano da tutto e tutti, per sempre. Non dovevano trovarmi. Non dovevano preoccuparsi per me. Non avrebbero nemmeno dovuto cercarmi.
«So tutto, Elian», disse infine Alice, guardando verso il limitare della radura. «So tutto quello che è successo, so quello che è successo dopo che te ne sei andata, so quello che volevi fare».
Poi, di scatto, alzò gli occhi verso di me, fiammeggiante di rabbia. Non avevo mai visto quello sguardo nei suoi occhi. Istintivamente, arretrai di un passo. «Come diavolo ti è solo potuto venire in mente», sibilò, «che sparendo così avresti fatto felici tutti quanti? Sai cosa ha significato per noi cercarti così, non sapere che fine avessi fatto, non avere la minima idea di quello che ti fosse successo? Sei stata egoista, Elian, molto egoista. Non hai pensato a noi, a come siamo stati? Edward è andato fuori di testa quando ha capito cosa volevi fare! Per non parlare degli altri, ad Esme hai quasi spezzato il cuore! Non è scappando via che si risolvono i problemi, non c’hai reso la vita migliore andandotene via, e questo dovresti saperlo meglio di chiunque altro. Tu sei mia sorella, e io non posso accettare di perdere una sorella solo perché si è messa in testa questa stupida idea che è un peso per gli altri!».
La rabbia nei suoi occhi si spense, lasciano il posto ad una grande tristezza.
Dal canto mio, ci misi un po’ a realizzare quello che Alice mi aveva appena detto.
Ero sparita senza dire niente, non volevo farli soffrire più di quanto non lo avessi fatto già.
Avevo fatto esattamente la stessa cosa che aveva fatto Vincent con me. Avevo abbandonato la mia famiglia pensando che senza di me sarebbe stata meglio, mi era costato tanto, tantissimo, ma l’avevo fatto pensando che quella fosse la soluzione più giusta.
Non avevo minimamente pensato a come loro avrebbero potuto reagire.
Non avevo minimamente pensato al fatto che li avrei fatti soffrire.
Pensavo che senza di me, per loro le cose sarebbero andate meglio.
Stupida.
Avevo fatto il suo stesso errore. Avevo fatto esattamente la stessa cosa che aveva fatto lui.
Avevo fatto del male alla mia famiglia, pur volendo solo il loro bene.
L’avevo fatto perché li amavo, li amavo tanto.
Qualcosa, nella mia testa, si accese, prese forma una stana idea, una cosa del tutto assurda.
Avevo sbagliato, avevo fatto un errore colossale.
Ma adesso capivo.
Adesso potevo capire.
Lo capivo, riuscivo perfettamente a capirlo.
Vincent aveva fatto lo stesso, l’aveva fatto per me.
L’aveva fatto perché mi amava, perché mi amava troppo.
Era una cosa sconvolgente, rendersi finalmente conto, per la prima volta davvero, di una verità così semplice. Forse ero davvero impazzita, probabilmente non ci stavo più con la testa, ma non mi interessava.
Mi sentivo frastornata, in una girandola di pensieri che mi facevano girare la testa.
«Elian?»
Guardai sorpresa Alice, come se mi accorgessi solo in quel momento della sua presenza. Mi guardava preoccupata, forse pensava fossi caduta un’altra volta in catalessi.
Venni presa da un’improvvisa frenesia, da un’incredibile voglia di fare, era del tutto folle, ma mi sentivo rinata.
Non tutto era perduto, non tutto era finito.
Per la prima volta dopo tanti, troppi anni, sentii dentro nascere una speranza. Non era una speranza fasulla, dettata da un’illusione, era qualcosa di vero, di reale, di tangibile.
Alice era ancora immobile davanti a me, mi guardava come fossi impazzita. Poi, senza preavviso, le gettai le braccia al collo, stringendola a me.
«Grazie Alice, grazie». Lei non poteva sapere perché la stessi ringraziando, non lo sapevo bene nemmeno io in effetti, ma sentivo che era in mio dovere farlo.
Quando l’allontanai da me, mi guardava ancora come se fossi del tutto uscita di testa. Scoppiai a ridere, la prima, vera risata che sentivo uscire dalla mia bocca da tempo immemorabile. Mi rendevo perfettamente conto che la mia improvvisa felicità non aveva il minimo senso, ma non riuscivo a metterla a tacere. Effettivamente, non ne avevo nessuna voglia.
Le tolsi il foulard dalle mani, e me lo legai addosso, come un vestito.
«Alice, ascoltami bene», le dissi, alla fine, «io devo andare via, tornerò, te lo prometto. Non scapperò più via, ho imparato la lezione», dissi sorridendo, «prometto che tornerò a casa. Dì a tutti gli altri che mi rivedranno molto presto, ma adesso non posso venire a casa. C’è qualcosa che devo fare, prima».
«Non ho capito una parola di quello che hai detto», mi disse Alice, confusa.
«Non preoccuparti, capirai prima di quanto immagini», le dissi. «Ti prometto che tornerò presto».
L’abbracciai velocemente, e mi misi a correre verso sud. Lasciai Alice immobile al centro della radura, e mi misi a correre come una forsennata verso il limitare del bosco.
Poi, però, mi ricordai che era la bellezza di tre mesi che non andavo a caccia. Subito, quasi mi sentii svenire per il dolore alla gola e allo stomaco.
Decisi che era ora di una bella battuta di caccia, poi sarei partita.
Non sapevo nemmeno quello che stavo facendo, sapevo solo che dovevo farlo.
Avevo l’eternità per pagare i miei errori.
L’unica cosa che mi interessava, in quel momento, era sapere che potevo ancora fare qualcosa per cambiare il mio futuro.



***





Beh, meglio tardi che mai, no??? Alla fine è riuscita a capirci qualcosa in più…e spero anche voi:)
Chissà che avrà in mente, Elian…alla prossimaaaaaaaa!!!:*





***





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Capitolo 46
*** Cap. XLV ***






***















Non potei fare a meno di ridacchiare, quando uscii dalla boutique di Seattle dove ero andata a fare compere. Il commesso del negozio non la smetteva di guardarmi imbambolato, come se avesse visto un’apparizione divina. Bé, effettivamente non riuscivo a biasimarlo, non capitava sicuramente spesso di ritrovarsi una ragazza mezza nuda nel negozio. Mi ero resa conto che andando in giro in quel modo per la città avrei attirato più sguardi indiscreti del solito, avevo assolutamente bisogno di vestiti. Anche se avessi usato la migliore delle mie tecniche di persuasione, difficilmente mi avrebbero fatta salire sull’aereo nelle condizioni in cui mi trovavo prima.
Adesso, invece, con un cappotto leggero e un paio di jeans, ero decisamente meno appariscente, per quanto possa passare inosservato un vampiro.
Guardai distrattamente un’insegna luminosa che dava il segnale orario, e pensai che forse era il caso di andare all’aeroporto, o avrei rischiato di perdere l’aereo.
Mi avvicinai al marciapiede, dove erano parcheggiati una lunga fila di taxi, e mi avvicinai al più vicino. Quando aprii lo sportello posteriore, il tassista alla guida, un omaccione scuro con dei folti baffoni neri, alzò distrattamente lo sguardo dal giornale che stava leggendo, e io gli rivolsi un sorriso. Sgranò gli occhi non appena mi vide, e subito si affrettò a metter via il giornale ingiallito, ficcandolo appallottolato al lato del sedile. «Dove la porto, signorina?», disse, cercando di schiarire la voce bassa e rauca, da fumatore incallito.
«All’aeroporto, grazie», gli risposi, con un sorriso. Mi voltai verso il finestrino, distrattamente, ma lo vidi, con la coda dell’occhio, scrutare se stesso nello specchietto retrovisore, intento ad allisciarsi i baffoni arruffati.
Gli uomini. Tutti uguali.
Il taxi partì sgommando, a tutta velocità; sarei arrivata certamente prima se avessi fatto una corsa da sola, ma, nonostante tutto, il tassista si muoveva con destrezza nell’intenso traffico cittadino, forse per abitudine, o forse per fare colpo. Qualunque fosse il motivo, arrivai all’aeroporto prima del previsto.
Non appena il taxi si accostò al marciapiede, presi una banconota qualsiasi dalla borsa (anche i vampiri usano i Bancomat!), e gliela misi in mano. «Tenga il resto», gli dissi, facendogli l’occhiolino. Lui si stampò un sorriso beota sulla faccia, e rimase con quell’espressione anche dopo che scesi dal taxi, e continuò imperterrito ad averla anche quando la cliente successiva per poco non lo prese a borsettate, per cercare di farlo riprendere.
Attraversai la grande porta automatica dell’aeroporto quasi correndo. Tutto intorno a me era un caos di viaggiatori, turisti, valige e hostess. Ignorai la confusione, e mi diressi a passo spedito verso la biglietteria. Seduta dietro al banco, c’era una ragazza molto giovane, con i capelli ricci e scuri raccolti dentro il cappellino verde della sua divisa. Mi rivolse un sorriso luminoso, mentre mi avvicinavo al bancone. «Buongiorno, in cosa posso esserle utile?», mi disse, cortese.
Guardai il tabellone che segnava i voli in partenza e in arrivo, e, dopo averlo studiato qualche istante, le dissi: «Vorrei un biglietto di prima classe per l’Italia, qualsiasi sia l’aeroporto di arrivo».
La ragazza mi rivolse un nuovo sorriso senza dire nulla, anche se nella sua espressione si leggeva la sorpresa per la mia bizzarra richiesta, e abbassò il viso sul monitor del suo computer. «Bene, quando vorrebbe partire?».
«Il primo volo a disposizione andrà bene», le dissi. L’hostess alzò il viso verso di me, leggermente confusa.
«Intende... adesso?», mi disse titubante, lanciando un’occhiata alla mia piccola borsa, mio unico bagaglio.
Le sorrisi, divertita. «Si, mi prenoti un posto sul primo volo in partenza, per favore».
Lei mi squadrò, incerta se stessi scherzando o se stessi facendo sul serio, ma vedendo il mio viso sicuro e rilassato finì per rassegnarsi, abbassando nuovamente il volto sullo schermo del computer.
«Allora», disse, dopo un paio di secondi, «c’è un volo che parte tra quaranta minuti, con arrivo all’aeroporto di Fiumicino». Alzò solamente gli occhi dallo schermo. «Le va bene?».
Le rivolsi un gran sorriso. «E’ perfetto», le dissi.
Stampò il biglietto e me lo porse, sempre guardandomi con sospetto. «Ma ne è davvero sicura?», mi disse, alla fine.
«Sicurissima», le risposi allegra, porgendole il denaro. Mi voltai ancora prima che la ragazza potesse ribattere qualcosa, semmai avesse avuto qualcosa da dire.
Mi avviai a passo deciso verso la fila di gente pronta per l’imbarco.
Avevo assoluto bisogno di arrivare in Italia il prima possibile, ed ero impaziente di partire.
Speravo solo che non fosse troppo tardi.



***




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Capitolo 47
*** Cap. XLVI ***






***















Guardai il cielo scuro sempre di più alto sulla mia testa, mentre ci preparavamo ad atterrare in aeroporto. Ero finalmente arrivata in Italia, eppure il viaggio mi era sembrato troppo corto, molto più corto di quello che mi ero immaginata.
Quando le ruote dell’aereo toccarono la pista d’atterraggio, realizzai quello che avevo fatto.
Mi trovavo in Italia, a pochissime ore dalla mia vera destinazione. Mi trovavo davvero in Italia.
Certo, era stato facile farmi venire questa brillante idea negli Stati Uniti, a migliaia di chilometri da li. Adesso che mi trovavo vicina al mio obiettivo, le mie convinzioni presero a vacillare pericolosamente.
Ero pazza. Non c’era nessunissimo dubbio, ero veramente fuori di testa. Forse avrei dovuto riflettere un po’ di più, magari mi sarei dovuta chiedere cosa avrei fatto una volta arrivata.
Già, cosa avrei fatto?
Non lo sapevo. Non avevo davvero idea di quello che avrei fatto.
Sospirai. Di stupidaggini ne avevo fatte tante nella mia vita, una in più non mi avrebbe cambiato la vita.
O forse avrebbe potuto?
Sorrisi tra me e me, mentre mettevo piede a terra, insieme al resto dei passeggeri. Sentivo che dovevo tentare il tutto per tutto, dovevo rimettere ordine nel gigantesco casino che avevo combinato, anche a costo di prendere l’ennesima batosta.
Dopo un po’ mi staccai dal gruppo di viaggiatori, mentre loro si dirigevano verso il nastro rotante alla ricerca dei loro bagagli, io mi diressi spedita verso l’uscita.
Mi ritrovai all’aperto, avvolta dalla fresca e limpida sera. Mi guardai intorno, alla ricerca di qualche mezzo di trasporto, possibilmente veloce e poco appariscente. Notai qualche centinaio di metri più in là l’indicazione per un parcheggio, il parcheggio dell’aeroporto. Mi avviai in quella direzione, sperando di trovare qualcosa che facesse al caso mio.
C’erano davvero molte macchine, per lo più utilitarie. Notai che sul cruscotto di ognuna c’era un bigliettino dell’aeroporto, ognuno con una data, sicuramente la data del rientro dei proprietari delle auto. Bè, se ne fosse mancata qualcuna, credo difficilmente se ne sarebbero accorti, all’aeroporto; oltretutto, il parcheggio sembrava incustodito. Sorrisi, era senza dubbio una serata fortunata.
Cercai tra tutte quelle con le date di rientro meno prossime, e tra queste scelsi un’auto sportiva, scura e dall’aspetto aggressivo, con una cilindrata e un motore che mi avrebbero sicuramente permesso di spostarmi abbastanza velocemente. L’aprii senza sforzo, salendo sul sedile anteriore e mettendola in moto, e dal rombo che fece capii di aver fatto la scelta giusta. Certo, non era sicuramente al livello della mia Audi bianco perla, ma per il momento mi sarei dovuta accontentare.
Uscii dal parcheggio a tutta velocità, più tardi, poi, avrei pensato a come far recapitare la macchina al legittimo proprietario, quando non mi fosse servita più. Avevo fretta di lasciarmi alle spalle il grande aeroporto, le luci, la folla di gente, quindi mi diressi spedita verso l’autostrada.
Riuscivo ad orientarmi abbastanza bene nel posto, nonostante fosse notevolmente cambiato dall’ultima volta che vi ero stata, e non ebbi grandi difficoltà ad imboccare l’autostrada.
Ci misi molto meno tempo del previsto, l’autostrada era deserta e potei viaggiare senza problemi, fino a quando non lessi su un cartello “uscita FIRENZE – 500 metri”.
Sterzai verso l’uscita dell’autostrada, mentre sentivo la tensione crescere di attimo in attimo. Volterra era molto più vicina di quanto mi fossi aspettata, e io non avevo ancora la più pallida idea di quello che avrei fatto una volta arrivata. Adesso vedevo la campagna toscana scivolare veloce dai finestrini dell’auto, e seppi con certezza che non mancava molto.
Riuscii a scorgere, da lontano, la spessa cinta muraria che circondava la città, appollaiata al di sopra di una collinetta, e l’unico accesso alla città, una strada stretta che sotto la luce notturna assomigliava in modo impressionante ad un serpente, sinuoso e sull’attenti, teso verso la sua preda.
Chissà se sapevano del mio arrivo. I Volturi non avevano nessuno come Alice al loro servizio, ma conoscendo quello di cui erano capaci era anche possibile che avessero saputo del mio arrivo. Dentro di me, speravo ardentemente di essere ancora in tempo per poter contare sull’effetto sorpresa.
Mai si sarebbe aspettato di vedermi tornare a Volterra. Mai si aspetterebbe di vedermi attraversare la piccola piazza della città, diretta verso la sua dimora, mai, nemmeno con la più fervida delle immaginazioni.
Attraversai l’ingresso vuoto e silenzioso della città, e da quel momento seppi che non sarei più potuta tornare indietro.
Abbandonai la macchina a qualche centinaio di metri di distanza dal Palazzo dei Priori, mentre nella mia testa, come se improvvisamente si fosse diradata una fittissima nebbia, si delineavano i contorni di un’idea strana, pazza, folle, che però mi diede la carica per arrivare fino all’ingresso del cunicolo che portava dai Volturi. Giunta alla fine dello stretto vicolo sul retro del Palazzo, spostai la grata del pavimento, e scivolai nel tombino. Camminavo silenziosa lungo il buio e accidentato corridoio, cercando di fare il meno rumore possibile. Non volevo che si accorgessero della mia presenza, anche se dubitavo che non se ne fossero già accorti.
Quasi non mi sorprese non incontrare nessuno di guardia, alla fine del corridoio, nei pressi della grande grata che dava accesso al palazzo sotterraneo. In fondo, chi avrebbe mai osato entrare di soppiatto nella dimora dei Volturi?
La grata era aperta, quindi non ebbi difficoltà ad entrare, e la cosa mi insospettì non poco. Poi, però, mi ritrovai davanti un grande salone chiaro, all’altro capo del quale si trovava una bassa e massiccia porta di legno, e capii perché. In fondo, era notte fonda, la gente comune a quell’ora dormiva, mentre i vampiri possono muoversi indisturbati in giro per la città, magari a caccia. Nonostante questa logica deduzione, però, iniziai a sentirmi meno tranquilla. Avrei preferito incontrare un manipolo di guardie inferocite, piuttosto che il nulla assoluto. Era piuttosto strano. Era stato troppo facile.
Ma quando attraversai la bassa porta di legno, vidi una figura alta e massiccia, in piedi accanto ad un ascensore. L’avevo già incontrato in passato, si chiamava Felix, e nonostante gli anonimi abiti civili che indossava, una semplice camicia e un paio di pantaloni scuri, non potei non riconoscerlo come una delle guardie dei Volturi. Dalla sua espressione, sembrava mi stesse aspettando.
«Ben arrivata, signorina», mi disse, ironico, mentre mi avvicinavo cauta al punto in cui si trovava. «Ti stavo aspettando».
«Ma davvero?», gli chiesi, in tono sarcastico, senza fingere cortesia.
Lui scosse la testa. «Non hai fatto molto per nasconderti, quando sei arrivata in città», disse, con un sorrisetto. «Era logico che ci accorgessimo della tua presenza».
Mi fermai a meno di due metri da lui, che era immobile, con la schiena appoggiata al muro, le mani in tasca, lo sguardo fisso su di me. «Cosa vuoi?», mi chiese alla fine, mettendo da parte il sorrisetto ironico e diventando improvvisamente serio.
«Ho bisogno di incontrare una persona», gli dissi, avanzando di un passo nella sua direzione.
Lui piegò la testa a un lato, sempre guardandomi serio. «Ah, si? E chi dovresti incontrare?».
Gli feci un mezzo sorrisetto. «Devo vedere Aro», gli dissi, tranquilla. «E ho bisogno di vederlo subito».



***




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Capitolo 48
*** Cap. XLVII ***






***















Felix mi guardò come se fossi impazzita. Sgranò gli occhi, sorpreso. «Come hai detto?».
«Hai capito benissimo», gli dissi, non riuscendo a nascondere il sorrisetto che mi era fiorito in viso.
Avevo ragione. Non se l’aspettavano minimamente.
A quel punto, Felix riacquistò la sua espressione seria, mettendosi dritto davanti all’ascensore. «Mettiamo caso che io adesso ti accompagni da Aro», mi disse, fissandomi negli occhi con ironico scetticismo. «Cosa mai potresti volere, tu, da lui?».
«Questi non credo siano affari tuoi», gli dissi, senza abbassare lo sguardo. Stavo cominciando ad arrabbiarmi, non mi piaceva il tizio che avevo davanti, e in più l’attesa mi stava innervosendo. Strinsi gli occhi, avanzando ancora di un passo, e vidi passare nei suoi occhi un’ombra di dubbio. «Ti ho gentilmente detto cosa sono venuta a fare, ma credo tu sappia perfettamente che non chiederò ne il tuo permesso ne aspetterò che tu mi apra la porta per andare da lui, quindi ti conviene farti da parte e farmi salire, non ho tempo da perdere con te».
Detto questo, mi abbassai leggermente, mantenendo i muscoli in tensione, pronta ad un suo attacco. Felix mi guardava in cagnesco, adesso, era sparita ogni traccia di ironia nel suo volto. Sapevo di averlo provocato, ma questa volta fui io a rimanere basita. Rimase a guardarmi per qualche istante, poi si girò, dandomi le spalle, e subito dopo vidi il grande ascensore aprirsi. Si voltò nuovamente verso di me, con un sopracciglio alzato. «Bè, allora? Non avevi tutta questa fretta di andare?».
Aprii la bocca, sbalordita. Mi sciolsi immediatamente, mentre guardavo la sua faccia infastidita. Doveva esserci qualcosa sotto, non potevo averlo convinto così facilmente. «Oh…Si, si certo», dissi, mentre entravo nell’ascensore insieme a lui.
Le porte si richiusero, e cominciammo a salire. Non dissi nulla, ma, passato il momento di sorpresa iniziale, rimasi sull’attenti. Era meglio non fidarsi.
«Per la cronaca, sappi una cosa». Lo guardai, sorpresa. Era accanto a me, ma aveva lo sguardo ostinatamente fisso in avanti, accigliato. «Non pensare che siano state le tue parole a farmi decidere di farti salire. Ti avrei fatta passare comunque, Aro accetterebbe in qualunque caso di incontrarti, e credo tu lo sappia».
«Non ne sono così sicura», dissi, abbozzando un sorriso.
«Come ti pare», disse Felix alla fine, imbronciato. Mi venne istintivamente da ridere, e sentii la un po’ della tensione accumulata prima sciogliersi.
Nello stesso istante di aprirono le porte dell’ascensore, eravamo arrivati. Precedetti Felix nel grande salone chiaro, illuminato al neon, che ospitava una scrivania ordinata e una serie di poltroncine; nell’insieme, l’arredamento ricordava quello di un studio di un avvocato.
Mi fermai al centro del salone, e Felix mi superò, dirigendosi verso una delle porte di legno situate su un lato del salone. «Aspetta qui», mi disse, senza voltarsi.
Rimasi esattamente dove ero. Cominciai a guardarmi intorno, forse per stemperare la tensione che sentivo rinvigorirsi nel mio corpo. Sentivo distintamente l’odore umano che c’era nell’ambiente, e provai un’irrefrenabile moto di disgusto verso quel luogo, e verso tutto quello che rappresentava.
Io ero diversa. Nonostante i miei passati momenti di debolezza, i miei errori, io potevo dire di essere diversa da loro in qualcosa. I miei occhi testimoniavano la mia diversità, il mio voler essere migliore di quanto non fossi, il mio voler essere più forte della loro arroganza.
Anche Vincent lo voleva, l’aveva sempre voluto, anche nei secoli che era rimasto con loro, anche quando se n’era andato via. Non aveva abbandonato il suo stile di vita, nonostante fosse circondato da persone che disprezzavano e denigravano il suo modo di intendere la sua condizione di vampiro.
Lui mi aveva dato qualcosa per cui combattere. I suoi occhi dorati erano un motivo più che sufficiente per continuare a lottare, i suoi meravigliosi, unici occhi dorati.
Speravo con tutto il cuore che non fosse troppo tardi. Non poteva, non doveva essere tardi.
Era tutto quello che mi rimaneva.
Dopo qualche minuto, poi, sentii dei passi, e vidi Felix ricomparire, a passo svelto.
«Vieni», disse, impassibile, «Aro ti aspetta».
Annuii, seria. Era arrivato il momento che tanto aspettavo.
Mi avviai rapida dietro Felix, che procedeva a passo spedito ad un paio di metri da me. mi precedette oltre la porta il legno, che dava su un lungo corridoio dalla moquette cammello, con le alte pareti bianco panna. C’erano molte porte lungo il corridoio, tutte di legno chiaro, ma Felix le oltrepassava tutte senza degnarle di uno sguardo. Il lunghissimo corridoio svoltava di tanto in tanto, ma ad ogni svolta mi ritrovavo davanti sempre la solita infinita sfilza di porte di legno chiaro.
Sembrava non finisse mai, l’incredibile sequenza di porte tutte uguali, fino a quando, dopo parecchi minuti, arrivammo a quella che mi sembrò la versione gigante delle porte che avevamo incontrato fino a quel momento. Era perfettamente uguale alle altre, la stessa lavorazione a cassettoni delle altre, lo stesso legno, le stesse proporzioni, solo in scala uno a cinque. Trovai la cosa quasi comica.
«Aspetta qui», disse Felix. Bussò una volta alla porta, poi entrò senza aspettare risposta.
«Signore, è arrivata».
«Falla entrare, falla entrare! Non voglio far aspettare una così gradita ospite!», disse una voce all’apparenza allegra e gentile, che, mio malgrado, conoscevo molto bene.
Non aspettai che Felix venisse a prendermi, ma entrai nella stanza alle sue spalle, proprio mentre lui si girava. Mi guardò per in istante, sempre inespressivo, e mi oltrepassò senza battere ciglio.
Quando uscì, chiudendo la grande porta alle mie spalle, notai dove mi trovavo. Era una stanza gigantesca, scura, che contrastava enormemente con il candore del resto dell’edificio. La sala, grande tanto quanto il salone d’ingresso, era fiocamente illuminata dalla luce di alcune lampade appese al soffitto e alle pareti, ed era stipata della più grande varietà di oggetti che io avessi mai visto. Vasi, dipinti, mobili antichi, che dall’aspetto sembravano provenire dalle più svariate epoche, da alcune lampade liberty ad una grande scrivania con il piano superiore di legno intarsiato. A catturare la mia attenzione, però, fu un’immensa libreria, che occupava interamente tre pareti della stanza: era ricolma di volumi, manoscritti ed enciclopedie che, a occhio e croce, sembravano valere un occhio della testa. Un vero e proprio tesoro.
Se non fosse stato per quell’onnipresente sentore di minaccia, che aleggiava nell’aria come un gas tossico, avrei detto che quell’ambiente aveva il suo fascino. Ma, quando mi ricordai dove mi trovassi, l’idea scomparve immediatamente.
«Elianor, mia cara! È davvero sorprendente trovarti qui!» Mi costrinsi a distogliere lo sguardo dalle pareti, e con sommo disgusto guardai la figura sorridente che avevo davanti.
«Mai visita fu più inaspettata, e più gradita di questa!», disse, con le braccia aperte. «Se l’avessi saputo prima, ti avrei riservato un’accoglienza più decorosa!».
«L’accoglienza dei tuoi sottoposti è stata sufficiente, ma grazie del pensiero», risposi io, sarcastica. «Ti hanno risparmiato la fatica».
«Mi scuso se Felix si è mostrato scortese nei tuoi riguardi», mi disse, amabile, «ma di questi tempi», sospirò, con fare teatrale, «non si può mai sapere! Ma tu, tu mia cara sei sempre la benvenuta!», disse infine, avanzando verso di me, con la lunga veste scura frusciante ad ogni suo passo.
Notai, nella penombra della stanza, una piccola figura avanzare lesta dietro Aro. La guardai bene, e riconobbi Sandra, la sua guardia del corpo. Evidentemente, lo seguiva anche in giro per il palazzo.
«Vedo che ti porti la scorta anche in giro per casa», dissi io, e io e Sandra ci fissammo per qualche istante.
«Abitudine, credo», disse Aro, sorridendo. «E’ talmente tanto preziosa, per me, che non riesco a farne a meno nemmeno qui».
Sandra mi guardava sospettosa, come se si aspettasse qualche tiro mancino.
Bè, non aveva certo tutti i torti.
«Già, molto preziosa», commentai laconica, rivolgendole un sorriso sornione. Lei, per tutta risposta, emise un basso e rauco ringhio, mentre si preparava a mettersi sulla difensiva.
«Calma, calma!» disse Aro, e Sandra tornò esattamente alla stessa posizione di prima, guardandomi in cagnesco. «Elianor», disse Aro, «sai, mi fa un immenso piacere la tua visita, ma mi sembra di dedurre che non è una semplice visita di cortesia».
«No infatti», risposi io, sorridendo. Stavo aspettando che me lo chiedesse.
Aro rimase ad aspettare, paziente, sempre con quel suo odiosissimo sorriso stampato sulla faccia, ma nei suoi occhi potevo leggere la curiosità, la sorpresa.
«Sono venuta a farti un regalo», dissi io, mentre non riuscivo a trattenere un sorriso, alla vista della faccia di inaspettata sorpresa che fioriva sul viso di Aro, «un regalo che credo apprezzerai molto».



***





L’università mi ucciderà.
Chiedo umilmente venia. Lo so, sono imperdonabile con i miei immensi ritardi, so quanto è irritante dover aspettare tanti giorni per leggere i nuovi capitoli.
Chiedo scusa =_=
Grazie a tutti coloro che continuano a seguire questa storia, nonostante la mia immensa disorganizzazione ^^ Un bacione grande grande a tutti voi :*





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