Fairytales Don't Exist

di innerain
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Fairytales Don't Exist ***
Capitolo 2: *** Welcome to Paradise ***
Capitolo 3: *** We're Coming Home Again ***
Capitolo 4: *** There will be no rules tonight; if there were.. we’d break ‘em! ***
Capitolo 5: *** Are we the waiting unknown? ***
Capitolo 6: *** Ready or not at all. ***
Capitolo 7: *** Louder than bombs and eternity. ***
Capitolo 8: *** Screaming in Silence. ***
Capitolo 9: *** How to breathe: Istruzioni per l'uso. ***
Capitolo 10: *** Running from myself; I am my own worst enemy. ***
Capitolo 11: *** Hey, you! .. Get off of my cloud! ***
Capitolo 12: *** My Messiah is long dead. ***
Capitolo 13: *** Hey, Suburbia! ***
Capitolo 14: *** How do you sleep? ***
Capitolo 15: *** Stop the world, I want to get off. ***
Capitolo 16: *** I'd pray for a good coffee (here's to the past). ***
Capitolo 17: *** A Bullet and a Prayer. ***
Capitolo 18: *** And in the darkest night. (But you still keep on falling down) ***
Capitolo 19: *** Through this night (I might not make it) ***
Capitolo 20: *** Catch My Breath (Kiss the Demons Out of My Dreams) ***
Capitolo 21: *** Cigarette-stained moments ***



Capitolo 1
*** Fairytales Don't Exist ***


Premessa: E' il primo tentativo di una fanfiction sui GD.. Anzi, la prima fanfiction pubblicata sui GD, ecco. xD In ogni caso, sono indecisa se lasciarla così com'è, una one-shot, oppure continuarla; ditemi voi che ne pensate: se volete mandarmi un nobel per la letteratura o se volete sputarmi in un occhio, siete liberissimi di fare entrambi.
E' una storielluccia abbastanza confusionaria.. E, mboh, che dirvi; leggetela per capire meglio. Ah, e, a tutti i fan della mitica coppietta Billie/Adie, non me ne vogliate a male, vi pregooo! (Anche perché io credo siano perfetti insieme.. Fino a che non andrò a sequestrare Mr Armstrong e lo incateno ad una sedia nello scantinato e.. CENSURA.)
Vabbuoh, leggete, commentate, e fatemi sapere! (:
Disclaimer: Purtroppo, il Billino non l'è mio (vocina malvagia: non ancoooora.), come anche la signora Adrienne, non lo è. Non scrivo questa storia a scopo di lucro.

Titolo:
Fairytales Don't Exist.
Colonna Sonora: Scattered, Green Day; Fairytale Gone Bad, Sunrise Avenue.

Billie guardava dritto davanti a se; guardava, eppure non vedeva.
Aveva lo sguardo perso nel vuoto, poteva sentire il battito del suo cuore farsi sempre più lento, il suo respiro sempre meno udibile, il suo pensiero sempre più flebile.

"Adrienne,.. Dove sei stata?"
La silhouette nera, formosa contro la luce dei fari delle macchine che passavano, si irrigidì; nessun suono era udibile, nessun movimento poteva essere percepito.
La casa era nella più sinistra e totale delle immobilità.
"Sono stanco. Dimmelo, poi lasciami riposare."
La voce di Billie, neutrale, piatta, con una vena che aveva dell'implorante.
"Fuori, Billie. Ero fuori. Ora va'."
La donna non perse un colpo nel rispondere; la sua voce era decisa, glaciale. Si mosse quindi verso il marito, seduto sulle sedie nella cucina, di spalle alla porta, e a lei.
"Su, ora. Vai di sopra, ti raggiungo." Ripeté, questa volta con un tono più amorevole. Allungando una mano verso la spalla dell'uomo, osò sfiorarlo.

Billie Joe sembrò reagire al ricordo; sbatté le palpebre, cercando di scacciare via l'immagine, ma senza successo.
Una lacrima scese sulla guancia pallida, scorse fino alla bocca rosata, per inumidirla amaramente.
Dischiuse lentamente le labbra, lasciando libero il respiro, sussurrando parole senza un perché.
Poi, perentorio, serrò la bocca, inaridito d'ogni pensiero, ancora una volta.

"Dove sei stata?" Ripeté Billie, sordo alle parole della moglie, ma non ai suoi gesti.
Il silenzio fece male più delle parole.
"Perché fuggi da me, Adrienne? Io.. ti amo. Ti ho sempre amato. .. Forse.."
Lungo silenzio, suono smorzato di respiri interrotti. Le luci rimasero spente, le figure si delinearono nel buio.
".. Forse, non è più abbastanza?"
"Ma, Billie... Cosa dici?!" Rise con voce rotta la donna, cercando nel senso di colpa di sfoggiare un sorriso spezzato.
"Io so, Adrienne. Io so." Billie scosse la testa impercettibilmente, come a convincere il suo cuore dolorante che fosse la scelta giusta da fare.
"Tu... sai?" Soffiò la moglie, distrutta dalla verità più che dal dolore.
Billie non potè che annuire, sentendo le palpebre farsi improvvisamente pesanti dal sonno.

La testa scivolò lungo le mani, che afferravano disperate i capelli indisciplinati. I gomiti poggiati sulle ginocchia premevano, cominciavano a fare male.. Ma era meglio così.
E' giusto, che faccia male.
Sussurrava più alla sua coscienza che a se stesso.
Poi, incredulo, sentì le guancie inumidirsi. Percepì dei rivoletti caldi fluire giù dalle palpebre, e pianse.

"Tu sai.. " Gemette Adrienne, arresa, lasciando che le sue spalle, sempre così dritte, cadessero impotenti.
"Adrienne, ci credi, ora? Ci credi ancora, alle favole?" Domandò quasi candidamente Billie, dopo un lungo silenzio; un sorriso invisibile, sadico, andava ad increspare le sue labbra carnose.
"Io.. Billie, cosa vai farfugliando?" Gemette lei, mentre l'ombra del suo corpo tremava convulsamente.
No, infatti; non era più un corpo, non lo era più. Billie cercava di convincersi che quella carne, quelle fattezze così incondizionatamente amate, fossero macchiate d'un adulterio che sperava di conoscere soltanto per sentito dire.
E invece, schiacciato sotto il peso soffocante della dolorosa verità, non poteva che essere spettatore del provarlo sulla propria pelle.
"Le favole non esistono, Adrienne." Continuò con un sussurrò Billie, riempiendo i polmoni d'un ossigeno bruciante con un sospiro.

".. Billie.. Ti prego.." Supplicò lei, la voce incrinata, sentendosi tremare le gambe, il corpo, come se fosse insensibile al caldo afoso ed umido che permeava la stanza, quello tipico delle estati californiane.

Stringendo i denti, Billie continuò a piangere, disperato, sentendosi mancare il respiro ad ogni lacrima che scendeva.
Si sentiva perso, privo di vita, eppure si domandava perché soffrisse ancora.
Strinse le mani in due pugni, dove era ancora intrappolato qualche ciuffo corvino, sentendo la gola accaldata cominciare a bruciargli.

Il frontman scosse lentamente il capo, non avendo avuto ancora il coraggio di girarsi, per affrontarla, per affrontare l'entità, la vera portata dell'amore che provava, ancora, nonostante tutto, per lei.

Adrienne cominciò a scuotere la testa, ritmicamente, schiaffandosi una mano sulle labbra, e scoppiando in un pianto soffocato.
Billie si sentì mancare l'aria non appena percepì il suono mozzato dei singhiozzi di Adrienne; si alzò, un movimento fluido e deciso.
Camminò verso di lei, fermandosi di fronte alla figura vacillante della moglie, di sua moglie.
.. Sua? No, non più, oramai.
Percepì il cuore appesantirsi, e, solo allora, capì a fondo il significato delle parole "cuore infranto", e di quanto queste fossero tutt'altro che una metafora.
Si sporse verso di lei, verso la sua pelle diafana, che, seppur non riuscisse a vedere, poteva anche solo immaginare, con gli occhi e la mente di chi ama.
Posò un leggero, dolce bacio sulla sua guancia, lasciando che la sua mano indisciplinata accarezzasse la donna della sua vita ancora una volta; e, solo allora, concesse ad una lacrima di rotolare giù, lungo la guancia.
Allontanandosi poi dalla figura immobile, Billie camminò silenziosamente verso l'ingresso, sfilando dall'appendiabiti la giacca nera in pelle, infilandola con veloci movimenti.
Aprì la porta; poco prima di varcare la soglia, Billie Joe si girò, un'ultima volta, verso Adrienne, ancora immobile nell'adiacente cucina.
"Le favole non esistono, Adie." Concluse, le sue iridi verdi incapaci di guardarla per più di qualche secondo. "Ti amo." Sussurrò, prima di scomparire dietro la porta, ormai chiusa.

-Fin (?)-

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Capitolo 2
*** Welcome to Paradise ***


Note dell'autore: Dopo una certa attesa, eccomi con il secondo capitolo.
Tanto per cominciare, voglio precisare che ho scelto di imboccare una strada che, probabilmente, a molte di voi sembrerà scontata, poco originale, nonché totalmente estraneo a ciò che avevo dapprima in mente di rendere questa fic..
Tuttavia, è necessario ricordare che questa è la prima storia che pubblico, e mi sono voluta cimentare in qualcosa che mi divertisse.. Nonché qualcosa che non fosse troppo impegnativo, sia per voi lettori (e lettrici), sia per me che scrivo.
Questo è un capitolo di "transizione"; non succede granché, a parte il fatto che c'è l'introduzione a due nuovi e fondamentali personaggi.
E' probabile che, una volta terminata questa storia, io riprenda il primo capitolo, al fine di svilupparlo nell'altra direzione, quella che avevo inizialmente preso.. Ergo, gente, non disperate. Tutti saranno accontentati. XD
Concludo ringraziando Fujiko Chan, Mariens, ginnyx e CipollottaPunk, che hanno gentilmente commentato; a partire dal prossimo capitolo risponderò ad ognuna delle vostre recensioni, purtroppo oggi non ho tempo per farlo.
Enjoy, e commentate, mi raccomando!

Disclaimer: I Green Day non sono di mio possesso, come non lo sono Adrienne o i suoi bei pargoli. Sono miei soltanto la fantasia, le mie idee e i due personaggi di Erin e Alice.





Titolo: Welcome To Paradise
Soundtrack: Welcome to Paradise, Green Day





"21st century breakdown

I once was lost but never was found.
I think I'm losing what's left of my mind
To the 20th century deadline"

Le casse, rintanate nella stanza da letto adiacente, schiaffavano la voce di Billie Joe ad un volume esageratamente alto, la batteria alternata a potenti powerchord creavano un mix coinvolgente ed energico, tanto che si sentivano tremare i due vasi posti appena accanto l'apparecchio, in una posizione pericolosamente vicina al bordo del mobile.
Erin sfilò dal cassetto una spazzola giallo-fluorescente e l'astuccio con i trucchi, chiudendolo con un colpo secco di fianchi, facendolo sbattere sonoramente. Canticchiava a labbra strette, accennando appena con il corpo dei movimenti a tempo con la canzone, mentre, sfilati gli occhiali da vista e poggiati su un ripiano, cominciava a passare la matita sul bordo della palpebra, lasciando sulla pelle una linea scura e marcata di trucco.
Dopo qualche minuto, soddisfatta del risultato, chiuse il tutto con estrema velocità, riponendo ogni cosa e fiondandosi fuori dal piccolo bagno, che si affacciava sulla sua altrettanto piccola stanza.

"My name is 'no-one', the long lost son
Born on the 4th of July
Raised in the era of heroes and cons
That left me for dead or alive"

Le casse nere, circa un metro e venti di plastica, metallo e complicati labirinti di cavi, erano uno dei pochi oggetti gelosamente custoditi dalla ragazza, ed ora sembravano scoppiare di musica, tanto era forte la canzone.
La voce di Erin, discretamente profonda per essere quella di una giovane trentenne, si unì in perfetta sincronia con quella del frontman, urlando tra le strofe la rabbia repressa di una (non più così) giovane ribelle con tutta la passione di una vera amante della musica. Di quella musica.
Dieci minuti dopo, Erin stava spegnendo lo stereo fumante, mentre inforcava gli occhiali e raccattava dal letto la sua borsa a tracolla; uscì di casa frettolosamente, gettandosi sui capelli ramati il cappuccio nero della felpa e, scendendo le scale del palazzo due a due, riuscì finalmente a raggiungere la sua bicicletta, poggiata nel vicoletto dietro all'edificio.
Venti minuti più tardi, la giovane costeggiava speditamente una sfilza di villini lungo la 39esima Avenue, lanciando un'occhiata al suo orologio, di tanto in tanto; d'un tratto, si fermò davanti al prato di una villetta color bianco sporco, lasciando cadere la bici contro la staccionata lì accanto, avviandosi verso l'entrata del piccolo edificio.
Suonato il campanello, dopo qualche decina di secondi sbucò fuori della porta una testa di capelli neri e rossi quà e là, e Erin si sentì improvvisamente stretta in una ferrea morsa, seguita da un urletto eccitato proveniente da poco più in alto di lei.
"Reeeeeeeeeee!" La voce, squillante e leggermente roca, strappò un sorriso alla giovane, che si affrettò a sciogliere l'abbraccio, impaziente di vedere come si fosse conciata l'amica.
"Alice...! Porca.. Ma che hai combinato?!" Esclamò Erin, sul punto di ridere, notando lo stato elettrico dei capelli dell'altra ragazza, che non la smetteva di sorridere.
"Io? Niente. Nada. Nichts." Pronunciò secca la mora, incrociando le braccia sul petto, mai perdendo il sorriso, che aveva un che di folle.
"Va beh.. Comunque, sei pronta?" Domandò sorridendo Erin, lanciando un'altra occhiata alienata alla sua mica altrettanto alienata.
"Scherzi? Sono nata pronta. Ora, però, andiamo." Disse perentoria, afferrando per un braccio l'amica, e dirigendosi verso una piccola Chevy parcheggiata nel vialetto.
Mezz'ora dopo, la macchina si infilava in un parcheggio; uscendo, Erin guardò quasi immediatamente alla sua destra, facendo scorrere verso l'alto il suo sguardo.
Oscurando in parte il sole mattutino, c'era un enorme edificio grigio; l'Oracle Arena.
Respirando profondamente, Erin non potè che rimanere immobile nel fissare quello che sarebbe stato il luogo della realizzazione di uno dei suoi sogni più grandi.
Era qui che avrebbe visto i suoi miti. Era qui che si sarebbe fottuta la voce per il troppo cantare. Era qui che avrebbe potuto sentire il suo cuore battere all'unisono con quello di tutti gli altri migliaia di spettatori e, forse, con il loro. Era qui che avrebbe avuto un biglietto diretto, di sola andata per il paradiso.
"Welcome to Paradise." Sussurrò tra se e se, sentendo il cuore batterle forte nelle orecchie.
Fu bruscamente "risvegliata" da una pacca sulla spalla di Alice, che, affiancandosi a lei, rise appena.
"Eccoci qui, Ree. Stiamo per vedere gli idoli della nostra vita.. Qui, ad Oakland. Qui, nella città più sfigata dell'intera America. Dell'intero mondo. .. Ci pensi?" Mormorò emozionata la giovane Irlandese, osservando con la coda dell'occhio la sua conterranea, nonché migliore amica.
Erin non potè che annuire; la sua mentre frullava centinaia, no, migliaia di pensieri, il cui soggetto era, tuttavia, uno solo: Green Day.
"Già.. Cazzo."
_ _ _ _ _ _ _ _

Note di fine capitolo: Come avrete certamente notato, vi sono delle espressioni in Inglese che, secondo me, sono intraducibili in italiano, e che quindi ho scelto di lasciare nella lingua originale; per esempio, il nostro caro "You know", che Billie ripete continuamente nelle interviste.


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Capitolo 3
*** We're Coming Home Again ***


Note dell'autore: Perdonatemi, ancora una volta, questa lunga, lunghissima attesa.
Comincio subito ringraziando ginnyx per aver fedelmente commentato anche il precedente capitolo, nonché tutti coloro che hanno messo la mia fiction nei preferiti e/o nelle seguite. Insomma, grazie mille. A tutti voi. (:
Vi dico subito che questo è forse uno dei capitoli migliori di tutta questa mia storiella, nonché uno dei più lunghi. E mi piace davvero tanto, come è venuto fuori.
Volevo dirvi che qui sia Billie che Mike si comportano in maniera del tutto estranea al loro carattere; io però li ho descritti in questo modo, consapevole che chiunque di noi, in difficoltà, si comporterebbe diversamente dal solito. E' ovvio, ma volevo precisarlo.
Ultime due cose: la parte in corsivo, quella centrale, è un flash-back, e ci sono un paio di riferimenti al DVD "Bullet in a Bible", se voleste capire la fonte da cui provengono un paio di stranezze che ho scritto.
Commentate, commentate, commentate!
Enjoy!
Z.A.


Titolo: We're Coming Home Again

Soundtrack: Homecoming, Green Day

L'aria era pregna di un odore dolciastro e penetrante, giustificato dall'alone biancastro che aleggiava immediatamente sotto al soffitto; da quando era stato permesso a Tré di fumare la lattuga, nessuna stanza o area dei tourbus era salva. Ognuna doveva essere santificata a dovere, ognuna doveva odorare, in un modo o nell'altro, della combustione di quel dannato miscuglio verde che il batterista aveva "adottato" durante l'ultimo tour.
E, nonostante all'inizio si pensava fosse solo una delle sue sceniche trovate da pazzoide, si scoprì ben presto che era tutto fuorché una fissazione del momento... Tutt'altro.
Billie storse il naso, sentendo una pungente zaffata infastidirgli le narici; osservava con aria assente il suo dito tracciare ripetutamente la bocca della bottiglia in vetro della birra, non facendo troppo caso alla confusione circostante.
"Ehi, Billie..! Tutto bene?" La voce di Mike interruppe i suoi pensieri, calma e con un che di apprensivo.
Billie Joe fece scattare la testa in su, incontrando immediatamente lo sguardo preoccupato del bassista, che lo guardò a lungo, prima di fare un cenno con la testa verso la porta. Il frontman annuì appena, alzandosi con estrema lentezza e avviandosi verso l'uscita del tourbus.
Trè e Jason, per qualche attimo, smisero di chiacchierare, osservando l'uscita del loro compare, seguita a ruota da quella del bassista. Facendo spallucce, tornarono alla loro animata questione; Tré dal canto suo, ritornò al suo nuovo divertimento pre-concerto: la creazione del cocktail perfetto.
"Mike.. Sai che giorno è oggi?" Mormorò Billie, una volta uscito dal bus, appoggiandosi su uno di essi e osservando placidamente il cielo, ancora solcato da qualche fascio di luce aranciata, che si era lasciato dietro il tramonto.
Dirnt non potè che annuire silenziosamente, abbassando lo sguardo a terra, dove calciò via con un piede un sassolino d'asfalto.
"Due mesi.. Due fottuti mesi." Disse a denti stretti il moro, sentendosi stringere il cuore talmente forte da provocargli un'ondata di nausea.
Da quando, quella mattina, avevano imboccato l'uscita dall'autostrada per San Francisco, lui non si era sentito più respirare.
Non riusciva più a pensare, non portava la sua mente a concentrarsi su qualcosa per più di qualche secondo, che lo schiacciava d'improvviso un forte dolore, così fisico, nonostante la sua natura psicologica ed emotiva, da sembrare innaturale. Come era possibile soffrire fisicamente quando non credeva neanche più di vivere?
".. Due mesi fa.. Ero qui. Proprio qui.. In questa città." Ripetè come in trance Armstrong, scuotendo appena la testa ed abbassando lo sguardo, sospirando profondamente.
Mike, dal canto suo, non sapeva che pesci prendere. Conosceva bene Billie, probabilmente più di chiunque altro, però non lo aveva mai visto in questo stato, mai nei vent'anni e più che lo conosceva, eccetto che negli ultimi, appunto, due mesi.
Era tutto cominciato alla fine di Agosto; era una serata come tante, una di quelle in cui il bassista si trovava a fare il "single" in casa propria, dopo mesi d'assenza. Era una bella sensazione.
Erano tornati a San Francisco solamente per una settimana, o poco più; il tempo di rivedere i familiari, di riabbracciare quella sensazione di essere di nuovo a casa, per poi ripartire di corsa, diretti verso chissà quale città o capitale di chissà quale paese.
Eppure, quella sera, era stato tutto diverso.

La tivvù trasmetteva reality show e altre cazzate, come al solito.
I vicini avevano voluto ficcanasare, non appena avevano visto del movimento nella casa accanto, dopo mesi di assenza, come al solito.
Faceva un caldo asfissiante, quasi soffocante, come al solito.
Mike, stravaccato sul divano, alternava un minimo movimento del pollice, impegnato a cambiare canale, ad una sorsata di birra, anche quello un movimento discretamente minimo.
Gli mancava vivere così, alla buona. Era qualcosa che non gli era stato più permesso, non più di tanto, dopo l'uscita, anni prima, di American Idiot. Da lì, era cambiato tutto.
Il campanello.
Il suono di per se era fastidioso, eppure fu talmente breve che il bassista si domandò se veramente c'era stato.
Ponderata per qualche secondo la possibilità di non andare, Dirnt sospirò appena, alzandosi e spegnendo la televisione, per poi aprire la porta di casa.
Ringraziò di averlo fatto quanto si maledisse per lo stesso motivo.
Davanti a lui, c'era uno spettacolo a dir poco straziante; era qualcosa che, in vita sua, sperava di non dover mai vedere.
Era Billie; pallido, piccolo, stanco, con gli occhi più disperati che Mike avesse mai visto.
Erano gli occhi di chi si era visto strappare via la vita con un taglio netto, di chi aveva sofferto, di chi aveva un bisogno disperato di aiuto tanto quanto di stare solo.
"Vieni, entra.", era stato tutto ciò che era riuscito a dire il biondo, aprendo la porta abbastanza per far entrare l'amico, richiudendola subito alle sue spalle nel più estremo dei silenzi, come se chiudendola non sarebbe entrato nulla, niente di ciò che li aspettava fuori, niente di brutto avrebbe potuto oltrepassare la soglia di quella abitazione, non quando la porta era chiusa, non quando c'era lui.
Billie si era lasciato cadere, inanimato, sul divano, fissando il niente davanti a se. Mike, per un attimo, credette di non vederlo più respirare, credette di averlo perso lì per lì.
Con estrema lentezza, si sedette anche lui sul divano, a poca distanza dall'amico; abbastanza vicino per comunicargli la sua presenza, abbastanza distante da non essere invadente.
Regnò il silenzio; l'unico rumore udibile era il suono strozzato e flebile del respiro del biondo, che cercava di mascherarne l'udibilità, quasi fosse qualcosa di stonante e fuori luogo.
".. Mi ha tradito.."
Era il più inavvertibile dei sussurri; affranto, incrinato, tremante.
Eppure, Mike lo aveva sentito. E non c'era bisogno di spiegazioni, non c'era bisogno di domande.
Aveva capito.
Dopo qualche secondo, si avvicinò a Billie, cingendogli le spalle con le braccia.
Lo sentì lasciarsi andare immediatamente, rannicchiandosi nella sua stretta; poggiò la testa sulla sua spalla, nascondendo il viso. Billie Joe afferrò due lembi della sua maglietta, stringendoli come se ne dipendesse la sua intera vita.
Mike sentì l'indumento farsi sempre più umido, attaccandosi alla sua pelle; percepì distintamente, dopo qualche secondo, un singhiozzo strozzato.
Billie Joe piangeva. Silenzioso, disperato, distrutto, piangeva.
Mike scosse la testa, sentendosi stringere il cuore in una morsa soffocante, e sorrise impercettibilmente, con la ferma convinzione che il mondo stava andando a rotoli, in quel momento come mai prima.
Si accorse che il petto gli tremava appena, e si stupì nel trovarsi le guancie umide, e le labbra pregne di un sapore salato ed amaro insieme.
Stringendo di più a se Billie Joe, Mike pianse con il suo migliore amico.
Pianse per tutto ciò che era stato, per tutto ciò che li aspettava, e per ciò che erano in quel momento; due persone con il bisogno più assoluto di aggrapparsi l'una all'altra, se non per salvarsi, almeno per salvare l'altro.

Mike sbattè ripetutamente le palpebre, inspirando profondamente l'aria pungente della sera.
Lanciò un'occhiata veloce in direzione del frontman, come per controllare che fosse ancora lì, ancora al suo fianco.
Billie Joe non si era mosso, apparentemente perso anche lui nei suoi pensieri, guardando distrattamente il cielo, ormai quasi scuro.
"Billie.." Mormorò Mike, il tono dolce, eppure deciso. Billie Joe si girò verso di lui, con un'aria di rassegnazione che non potè non causare una stretta al cuore al bassista.
"You can do it." Sentenziò Mike, con un sorriso rassicurante.
Io ci sono, Billie. Io ci sono, e so che puoi farcela. Non c'era bisogno di esplicitarle, queste parole, perché il frontman le capisse. Bastava quel sorriso, e quella dolce sicurezza nella voce.
"Yeah, I know." Sussurrò Billie Joe, sorridendo appena, prima di tornare con lo sguardo verso il cielo scuro.
Billie sospirò, chiudendo gli occhi; già poteva percepire quell'adrenalina pre-concerto cominciare ad insinuarsi nel suo corpo, regalandogli una lunga e potente scossa, un assaggio di ciò che avrebbe provato di lì a poco.

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Capitolo 4
*** There will be no rules tonight; if there were.. we’d break ‘em! ***


Author's Notes: Eccomi di nuovo qui, a postare un capitolozzo; stavolta sono stata brava, eh? Solo cinque giorni di distanza dall'ultimo. .. Gli autografi dopo, dai. Non siate così pieni di zelo, ce n'è per tutti. XD
Dunque, intanto un grazie infinitamente grande alla cara ginnyx, per aver fedelmente commentato anche il precedente capitolo, nonché Mariens; vi ringrazio entrambe per il supporto.
Prima di lasciarvi a questo capitolo (non mi lapidate, vi pregooo.) volevo rispondere brevemente ad una piccola "domanda" che ginnyx mi ha posto nel suo commento del secondo capitolo: dunque, le nostre due eroine hanno si trent'anni e si, è in pratica il loro primo concerto dei GD. E, per quanto sembrerà assurdo, è così. Strano che non siano andate, sin dai primi tempi, no? Beh, la storia è molto, molto più complicata di quanto possa sembrare.. E il motivo per cui hanno aspettato di varcare la soglia dei trent'anni verrà fuori con il tempo, promesso. Per ora rimarrà tutto un grosso punto interrogativo. E, se avete occhio acuto, mie care lettrici, potrete dedurre qualcosa del misterioso passato di una delle due giovani irlandesi da questo capitolo.
Buona lettura, e, mi raccomando:
commentate!

Z.A.

PS: Visto quanto vi è piaciuta l'amicizia Billie/Mike, vedrò di inventarmi qualcosa per inserirla più spesso, in futuro. XD Sono contenta che vi sia piaciuta la "scena"; io avevo il terrore di andare OOC o simili.




"Noi non cerchiamo mai le cose, ma la ricerca delle cose,
non viviamo mai nel presente, ma in attesa del futuro.";

B. Pascal




Titolo:
There will be no rules tonight; if there were.. we’d break ‘em!

Soundtrack: Highway To Hell, AcDc

"I've been waiting a lifetime for this moment to come", così recitava un lungo striscione rosso fuoco, avvoltolato intorno al corpo esile di una ragazza; capelli multicolore, cinta borchiata intravedibile da sotto un lembo del telo scarlatto, pantaloni neri a sigaretta, il tutto completato da smalto nero e braccialetto a spuntoni.
Quella giovane aveva tutti i connotati per essere una tipica fan; fan di quel gruppo che era sulle labbra di tutti, fan di quel gruppo il cui nome, così familiare eppure altrettanto capace di regalare una violenta scarica elettrica d'emozioni se pronunciato, era urlato dai manifesti sui muri o dagli stand che vendevano il merchandising, fan di quel gruppo che, ad occhi chiusi, poteva già far sognare.
Erin era seduta su una transenna, la prima di una lunga fila ammassata di gente, distrattamente intenta ad osservare quella ragazza, poco distante da lei; dondolava la gamba, facendo sbattere sonoramente le Converse nere sfasciate contro il metallo, a ritmo con "Highway to Hell", che canticchiava a labbra strette; la sua mente era incapace di fissare per più di qualche secondo qualsiasi pensiero, lo sguardo vagava, scandagliando la folla nel tentativo di riconoscere l' amica, da tempo alla ricerca di qualcosa da bere e, magari, anche da mettere sotto i denti.
Le sembrava veramente di essere sulla strada verso l'Inferno, e sentiva, dentro di se, che l'apice di quel percorso era in procinto d'arrivare, meraviglioso e terribile allo stesso tempo.
Dovunque guardasse, c'erano chiari segnali di ciò che chiunque, dall'esterno, avrebbe potuto facilmente definire "Inferno"; gente dall'apparenza poco raccomandabile, musica violentemente schiaffata dai punti più disparati dell'area, urla disumane unite a centinaia d'altre, voci che stonavano biascicando le più svariate canzoni.
Si immaginò suo padre; se fosse stato lì, sarebbe inorridito. Le sfuggì un sorriso, oscillante tra il maliconico e il compiaciuto, mentre guardava quel fiume di persone; c'era chi era sdraiato sull'asfalto, catturando avidamente i raggi del sole autunnale, oscurati in gran parte dall'ombra imponente dell'Arena, c'era chi mangiava, chi rideva sguaiatamente, chi fumava, chi cantava a squarciagola una canzone, chi saltellava infreddolito, nervosamente.
E, in quel momento, Erin sentì di non appartenere a niente altro, a nessun'altro, a nessun'altro luogo, che ; quella era la sua casa, quella era la sua gente, quello era il suo posto.
Era Inferno e Paradiso insieme.
Era tutto ciò che avesse mai desiderato, era tutto ciò che aveva sognato, era tutto ciò che voleva che accadesse; era emozione, era passione, era sentirsi uniti, era musica, era amore, era energia allo stato puro.
Si morse il labbro, assaporando la sensazione degli incisivi penetrare nella carne, come se fosse l'unico modo per trattenersi dal saltare in piedi, correre contro il vento, ed urlare al mondo tutta l'emozione repressa che le albergava dentro.
Rabrividì leggermente, stringendo le labbra, quando sentì una folata di vento freddo che le penetrò fin sotto la pelle, e si maledisse per essersi messa solamente una felpa; indossava, infatti, una leggera felpa nera con la zip e il cappuccio, che lei adorava per la sua semplicità, un paio di pantaloni neri a sigaretta e una maglietta verde a maniche corte, con il logo di Warning rappresentato davanti e una frase tratta dall'omonima canzone sul retro. Il tutto era completato da una cinta con le borchie, un paio di Converse nere, alte e semi-distrutte, e del trucco nero sugli occhi, pesante abbastanza da mettere in risalto le iridi ambrate; gli occhiali erano stati, con sua grande felicità, riposti nello zaino, affossati tra un cappello e una bottiglietta d'acqua.
"Ehi, Ree..! Tieni." La voce ovattata di Alice risultò distante, ancora per qualche attimo, prima che, sentendosi pizzicare un fianco, Erin guardasse poco più in basso, trovandosi davanti la faccia semi-seria dell'amica.
Porgendo all'amica una birra, la mora le si sedette accanto, guardando l'orizzonte frastagliato di persone distinguersi in controluce con il cielo ancora chiaro e privo di nuvole.
Erin inspirò profondamente, sentendo un magone all'altezza dello stomaco, un peso, rovente e corrosivo, che le faceva bruciare la gola ad ogni respiro. Percepiva il corpo, percosso da spietati brividi, come inesistente, quasi impalpabile, inavvertibile, come se la brezza autunnale potesse passarvi semplicemente attraverso.
"Ci avresti mai creduto, che sarebbe stato così?" Mormorò Erin dopo un po', rompendo il silenzio, mai scomodo, che si era insinuato tra di loro. Alice scosse la testa, sorridendo, mentre una scintilla sembrava brillare nei suoi occhi color notte.
"Speravo in un atmosfera magica, speravo in un'emozione talmente forte da stordirti la mente, da cancellarti i pensieri, speravo in gente che amava i Green Day.. Ma non questo. Questo è tutto ciò che speravo.. Ma anche molto, molto di più" Snocciolò con la voce quasi tremante Alice, poggiando le mani sulle transenne subito dietro di lei, reclinandosi impercettibilmente all'indietro, come per contemplare meglio ciò che la circondava.
Erin non potè che annuire, mentre sentiva le sue labbra incresparsi in un sorriso che aveva un che di incredulo e di soddisfatto allo stesso tempo.
Qualche ora dopo, il sole cominciava ad abbandonare il suo picco a metà cielo, scendendo verso occidente, lasciando spazio ad una brezza, che cominciava a soffiare, leggera.
Nell'area antistante l'arena regnava il silenzio.
Il silenzio di quando si è uniti, il silenzio di quando non servono le parole, il silenzio di quando si è accomunati da qualcosa di più grande, il silenzio dell'attesa.
Quell'attesa che sembrava non avere inizio, non averne mai avuto uno, sembrava allo stesso modo protrarsi all'infinito, priva di una fine; l'attesa di quando si ha la speranza, l'attesa di chiunque trattiene il respiro, all'unisono con migliaia di altra gente, l'attesa di chi aspetta di vedersi cambiare la vita davanti agli occhi, spettatore e protagonista insieme di un miracolo.
Il tempo era sospeso; deposto dal suo incarico di mutatore dell'esistenza, spodestato da quel suo trono senza età ne limiti temporali. I minuti sembravano non passare, mentre centinaia, no, migliaia di persone attendevano. Migliaia di respiri trattenuti, migliaia di emozioni represse, migliaia di pensieri distinti.
L'attesa di migliaia, volta ad un'unica destinazione, un unico obiettivo, un'unica meta.
La meta.
Quella che Erin sentì, in quel momento, sua, mentre, la mente persa nei più confusi eppure piacevoli pensieri, guardava all'orizzonte, il cui colore ora accennava al cremisi; con il pollice, intanto, faceva delicatamente leva sulla sigaretta, lasciando che la cenere si dissolvesse delicatamente nell'aria, unico, vero indicatore del tempo che trascorreva.

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Capitolo 5
*** Are we the waiting unknown? ***


Author's Notes: Ave. (: Mi ritrovo di nuovo a postare dopo SOLI cinque giorni un capitolo (a quanto sembra) atteso da sempre più persone.
.. E non avete idea di quanto questo mi faccia piacere.
Ok, piccola premessa per il capitolo: è un tantino corto, e ne sono consapevole.. Ma mi rifarò.. lo prometto solennemente. XD
*dun dun duuun* Breve angolo delle risposte:

Elaintarina:  Non sai quanto mi abbia reso orgogliosa e felice il tuo commento; la trama ho sempre avuto paura che fosse banale, la descrizione de personaggi ripetitiva, e via dicendo.. Quindi sentirmi dire con una tale sicurezza il contrario è .. Beh, insomma, grazie. (:
L'idea della colonna sonora è stata per me necessaria, dato che praticamente baso ogni capitolo su una canzone; e molte delle emozioni sono state tratte dal mio primo *vero* concerto, come lo chiami tu, che è quello di Bologna, dei GD, a novembre scorso.
E, si, il titolo è tratto da Out Time Now dei P.W.T's, ci hai azzeccato! (: Brava per averlo riconosciuto.. Loro come gruppo non mi dispiacciono, davvero. (:
Spero che ti piaccia questo prossimo capitolo!

801_Underground: Weee. ^__^ Denghiù, carissima, denghiù. I tuoi complimenti mi rendono davvero felice; sono contenta che ti piace il rapporto tra BJ e Mike.. Come ho già detto, prometto di sviluppare ulteriormente la loro relationship (ma come mi piace descriverla così..) nel corso della storia. (;
Eh, per quanto riguarda le emozioni che ho descritto del pre-concerto, quella è tutta roba genuina e vera! XD Molto di ciò che ho scritto è stato qualcosa che ho provato in prima persona al concerto di Bologna (azzu.. c'ero anche io). Beh, grazie ancora, insomma! (:

ginnyx: Mia affezionata lettrice! (: Mi mancavano i tuoi commenti, sai?
Comunque, si.. Non lo dire in giro, ma me lo ha scritto l'Arcangelo Gabriele, me lo ha spedito per posta prioritaria a casa e.. Beh, questo è ciò che ne è risultato. U__U XD
Che tu ti risca a rispecchiare nelle due piccole eroine è per me un grande traguardo; sono un po' come vorrei essere io, un po' come lo sono.. Piccole grandi persone.
Sono come me, come te, come tutte noi. (: Ah, e per quanto riguarda il PS, ti ho detto che non posso dirti nuuuuuuuuulla. Quindi attendi in pace, giovane Obi-Wan.

SilentMoon: Uuuh. *__* Magguarda, vieni da me.. a recensire.. tu.. NOO. Non ci credo. XD
Comunque, grazie per questo tuo commento, sono contenta che la storia ti incuriosisca.. Questo è solo l'inizio, Watson!
..
Ne vedrete delle belle.. *mhuahuahuhuah* Buona lettura, e grazie ancora per scrivere una fanfiction così bella come la tua! (: E per aver recensito la mia, ovviamente. (;

Grazie ovviamente a tutte coloro che hanno messo questa umile storiella nei preferiti e nelle seguite! (: Buona lettura, ENJOY!
.. e, mi raccomando, commentate!





Titolo:
.. Are we the waiting unknown?
Soundtrack: Are We The Waiting, Green Day



"There they stand, the innumerable stars,
shining in order like a living hymn,
written in light."; 

N.P. Willis




Siamo davvero noi, l'attesa? L'attesa inconsapevole, l'attesa sconosciuta, l'attesa di ciò che non conosciamo ancora?
.. Se ciò che non conosciamo deve ancora arrivare, perché, allora, attendere? Perché alzare gli occhi al cielo stellato, quello stesso cielo a cui vorrei dar fuoco, quel cielo fin troppo ricorrente nei miei sogni, pieno di grattacieli la cui sommità posso solo immaginare, pieno di stelle, pieno di un vuoto incolmabile, lo stesso vuoto a cui appartiene la mia anima, ora, e intravedere niente altro che fiamme, languide leccate sulla mia pelle d'un fuoco talmente scuro ed incandescente da confondersi con quel nefasto vuoto?
.. Cosa c'è veramente ad attendermi, oltre quell'attesa?

Billie Joe inspirò profondamente, socchiudendo gli occhi per qualche secondo, il tempo sufficiente per esiliare nuovamente i suoi pensieri in un angolo recondito della sua mente.
Era tutto, troppo insieme.
I pensieri confusi, le parole impastate, le lacrime non ancora asciutte, l'animo dilaniato; non credeva che sarebbe riuscito a sopportare il tutto per molto altro tempo.
Cercando di chiarire la sua mente, il frontman inspirò nuovamente, abbassando lo sguardo all'altezza dei suoi piedi; ora, tutto ciò su cui voleva concentrarsi era il movimento ritmico e ripetitivo delle sue gambe, il far capolino ora di una scarpa, ora di un'altra, in un ripetersi quasi rassicurante di azioni consecutive e familiari.
Portò la sigaretta alle labbra, inalandone con tutto se stesso il godimento che ne derivava, per poi lasciarlo fuggire dalle labbra con una lentezza quasi esasperante, come se non volesse privarsi di quel subdolo, deleterio piacere, quasi fosse l'unica soddisfazione rimasta al mondo.
Toccò un paio di volte il filtro con la punta dell'indice, osservando con vago interesse la cenere caduta, che si disperdeva, scomparendo dalla sua vista, nella fresca brezza autunnale.
Alzò gli occhi verso il cielo, tentando invano di contarne le stelle con una sola occhiata; sentiva di non riuscire, allo stesso modo, a controllare la sua vita, le sue azioni, i suoi pensieri, ciò che gli stava accadendo.
Lanciò via, nel buio della sera, la cicca oramai terminata. Guardando di nuovo la strada davanti a se, calciò distrattamente un sassolino di asfalto, osservandolo mentre rotolava velocemente verso la sua ombra, proiettata subito davanti ai suoi piedi.
Era un'ombra lunga, era distorta, era artificiale; si sentì mozzare il fiato. Era come se fosse stato per artificio di quei lampioni sopra la sua testa, delle luci di quella dannata città, che avesse finalmente compreso appieno l'estensione del buio che gli albergava dentro.
Sadico riflesso, contenuto in quella grigia macchia proiettata a terra, di ciò era che veramente. Lui, uomo, piccolo, impotente, insignificante; la sua ombra, più lunga di lui, più grande di lui, che sarebbe arrivata sempre un attimo prima, e che avrebbe avuto sempre un'entità maggiore della sua, anche se di poco, quel vantaggio che non sarebbe mai riuscito a recuperare.
"Are we we are.. Are we we are.. the Waiting.. "
Migliaia di voci, all'unisono, un coro unanime di innumerevoli persone, unite dall'anima di una sola cosa: la Musica.
Billie alzò repentinamente lo sguardo, notando con stupore dove fosse arrivato; era immediatamente a fianco del palco; da questo, lo separavano una decina di metri e due lembi di stoffa nera, a mo' di tenda.
Un passo seguì l'altro, sempre più veloci, finché le due iridi verdi dell'uomo guardavano, incredule, la folla.
E.. fu tutto proprio come la prima volta.
Scarica come d'elettricità pura nelle vene, il cuore che martellava nelle orecchie, che minacciava d'uscire fuori dal petto, l'aria che mancava, la gola che si stringeva, che bruciava.
Billie Joe guardò la gente, la sua gente, e sorrise.
Strinse convulsamente i lembi di stoffa che pendevano da sopra di lui, gli occhi incapaci di separarsi da quella visione, i muscoli tesi, il respiro spezzato.
"Are we, we are.. Are we we are.. the Waiting Unknown.."
Di nuovo, quel richiamo, quella sola voce di un mondo intero di persone, di nuovo quella violenta scossa, che scese così rapidamente lungo la schiena, che Billie si domandò se veramente ci fosse stata; se non fosse stato per la sua intensità, sarebbe stato già convinto d'essersela immaginata.
E, d'improvviso, la mente diventò vuota, bianca, serena. Il cuore batteva, talmente veloce da sembrare un mormorio confuso, da sembrar d'essere sparito.
Un passo in avanti, esitante, ne segue un'altro, mentre il sorriso diventava dei più grandi; un'euforia, una sorda ed evanescente beatitudine avviluppò il corpo dell'uomo, mentre il suo sguardo sembrava non saziarsi di quei volti, così diversi eppure tutti uguali, accomunati da qualcosa di superiore, di quelle voci, all'apparenza così dissonanti eppure capaci di unirsi in un unico suono, in un unico coro,di quell'atmosfera, sospesa nella magia dell'attesa.
Poi, portata una mano al petto, in corrispondenza del cuore, ora stranamente acquietato, il battito regolare, quasi lento, Billie respirò sonoramente, inalò l'aria con corposi respiri, boccheggiava, il sorriso s'allargava.
Poi, rideva. Silenziosamente, all'inizio, poi sempre più forte, sempre più sguaiatamente, sempre con più libertà. Il suono era qualcosa d'indescrivibile, la risata di qualcuno di disperato che sembra aver trovato la sua luce, seppur momentanea, seppur sfuggente, ma che l'ha trovata.
Fece scivolare la mano, dal cuore, verso l'altro, soffermandosi prima sugli occhi, tuffandosi poi nei suoi capelli corvini, unendosi all'altra mano.
La risata s'interruppe, quasi bruscamente, il sorriso tuttavia rimase, beato, raggiante, angelico.
Billie Joe socchiuse lentamente gli occhi, sentendo una lacrima rigargli la guancia, e sorrise ancora di più, sentendosi finalmente libero.
Poi, alzando le mani al cielo, contro il cielo, immaginò ad occhi chiusi il contrasto della sua pelle diafana con la notte, quella stessa notte che riempiva il cielo con la sua familiare oscurità, e con i lampioni, quelle dannate luci artificiali, umane, che voleva solamente veder cadere, distrutte con le sue stesse mani, con il suo pensiero.
Strinse le dita a pugno, avvertendo sordamente il dolore delle unghie che si conficcavano nella pelle, e urlò.
Urlò con tutto il fiato che aveva nel corpo, urlò con la disperazione ormai persa, con la felicità ritrovata, con la beatitudine che aveva trovato, con la rabbia che aveva da troppo tempo represso.
Urlò per Adrienne, per i suoi figli, urlò per Mike, urlò per Tré, urlò per le persone che, là fuori, non aspettavano altro che lui, urlò per la sua anima distrutta, urlò per le fiamme che gli bruciavano dentro, urlò per se stesso.
E, ciò che a decine di migliaia di persone non parve altro che un grido, un urlo quasi indistinguibile dagli altri, per Billie Joe rappresentò tutto.
Era la sua vita ritrovata, era la rabbia, sua fedele compagna, era la sua vita, era la sua libertà.
Era libero, ora.
Libero.

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Capitolo 6
*** Ready or not at all. ***


Author's Notes: Salve a tutti (: Perdonerete l'attesa di quasi una settimana, ma ho avuto una sfilza di impegni, soprattutto scolastici, che sono stati massacranti a dir poco.
E.. Per quello stesso motivo, il capitolo che vi offro, stavolta, è molto, molto corto.. Però anche discretamente intenso, devo ammetterlo. Ed è un piccolo "riscaldamento" per il prossimo chapter (che posterò tra qualche giorno, spero, per ricompensarvi della "cortezza" di questo qui..), che, sinceramente, è venuto piuttosto bene e.. *ssht, basta!*
Insomma, gentaglia, vi ringrazio infinitamente; mi rendete veramente euforica, con tutti i vostri commenti, con i vostri "preferiti", "seguite".. e un grazie anche soltanto a chi legge. (:
Piccola, velocissima risposta a tutti i gentili ascoltatori&commentatori:

801_Underground: Diamine, ragazza.. Rischi che poi ad andare avanti così fai commuovere ME. XD Il che, non essere cosa buona, credi al saggio. (; Io non so davvero come ringraziarti.. Per i tuoi commenti come anche per la tua storiuzza belliccima. (: Insomma, thank you!

Elaintarina: "Sensazioni da concerto"; che meravigliosa definizione..
Beh, guarda, le emozioni, come ho sempre detto, sono tutte original, mie.. E genuine. XD Le numerosissime descrizioni delle sensazioni pre-concerto riflettono tutte una piccola parte dei travolgenti ed incredibili, devastanti sentimenti che ho provato al concerto di Bologna dei GD, il mio primo in assoluto.. E probabilmente il giorno più bello della mia vita.
Io non so, Adie mi sembra una persona molto stabile, ottima per quello spostato di Billie, che di un ancora di salvezza ha proprio necessità.. che però siano una coppia indissolubile, alla "Happily ever after", non saprei..
In risposta alla tua domanda del perché i fan cantassero prima dell'inizio del concerto, ti dico questo: hai presente i cori che si fanno prima del concerto, soprattutto nel parterre? Quelli tipo "Gabba gabba hey!" oppure "Hey, ho! Let's go!"? Ecco, io mi sono immaginata che cantassero quello che io mi sono sempre un po' immaginata essere il "coro" di tutto l'album di American Idiot: "Are we, we are the waiting unknown". Tutto qui. Mi sembrava emblematico, giusto, nonché adatto. (:

ginnyx: Hai colto alla pefezione il vero, intrinseco significato del precedente capitolo; non sarà stato lungo, non sarà stato molto pieno di eventi.. Ma ogni, singola frase è finalizzata a provocare ogni volta una sensazione più forte, più bella, più significativa. E tu, carissima, lo hai capito alla perfezione. (:
Il Billie in versione JOS lo vedo moltissimo pure io.. Avrei messo quella come colonna sonora, se solo non avessi già scelto "Are we the waiting".. O meglio, se lei non avesse scelto me. E sono contenta di sentire che saresti la mia perfetta lettrice.. ne sono convinta anche io. XD
Per quanto riguarda la cosidetta "liberazione" tramite l'urlo.. Io una volta l'ho fatto, in montagna.. e ti assicuro che non c'è nulla di più liberatorio, di più meravigliosamente libero.
E.. no. Non posso dirti nulla e SI, mi mancavano i tuoi commenti!!!! (: A presto, darling. (: Spero ti piaccia codesto capitolo, seppur breve..

SilentMoon: Si, è esattamente il revival degli Italian concerts.. Io, poi, essendo stato il mio primo concerto, quello di Bologna, ho trovato più semplice, più liberatorio scrivere qualcosa riguardo al tornado d'emozioni che mi ha travolto lì tramite un altro personaggio, come Erin o BJ, piuttosto che con riflessioni.. "Riflettere", mi è parso impossibile, quando mi sento devastata al solo pensiero di un occasione che è passata così velocemente.
Noooo, le parole non vanno di moda. U___U Io il precedente capitolo lo avevo scritto da un pezzo, quindi al massimo la moda l'ho lanciata io, tzé tzé. XD
A presto, cara! (:






Titolo:
Ready or not at all.
Soundtrack: Waiting, Green Day



"We are always getting ready to live but never living. ";
Ralph Waldo Emerson



Erin sfiorò la striscia rossa del palco, particolarmente in risalto rispetto al nero lucido del resto della superficie; era quello stesso palco su cui, fino a pochi minuti prima avevano suonato i Kooks, e, dove, entro poco tempo, eppure ancora troppo per il suo animo trepidante, avrebbero suonato loro.
E, quel tempo, sembrava non arrivare, nonostante fosse imminente.
Così vicino da poterne facilmente immaginare il momento d'inizio, così reale da sembrare parte del proprio corpo, così ignoto e scuro da confondersi con il nero della notte che riempiva l'aria, il cielo, l'atmosfera.
Quella notte che precedeva sempre il giorno, non necessariamente caratterizzato dal sole, dal movimento, dallo svegliarsi, dal vivere, semplicemente il giorno; la luce dopo il buio, il nuovo inizio. Quel giorno che è così vicino, così prossimo da sembrar essere già arrivato, eppure si arriva a desiderare quasi che non arrivi affatto, tanta è la paura che passi troppo velocemente, che voli via, lontano dalla propria stretta.
Erin alzò gli occhi verso il cielo stellato, un manto nero e vellutato che si estendeva sopra le loro teste, ed osservò il suo respiro ancora caldo perdersi in una nuvoletta di vapore, per poi scomparire nella brezza.
Chiuse gli occhi, cercò di fare spazio nella mente per un nuovo pensiero, uno che non fosse strettamente collegato o dipendente dal suo nervosismo, dalla sua trepidazione. Voleva che la sua mente, il suo cuore, il suo animo, fossero liberi da ogni catena, di ogni vincolo che avesse a che fare con il passato, durante quella sera; era tutto in vista della nuova era.
Si, quella era la "Dawning of a new era".
Ed Erin era certa che la stesse chiamando a gran voce, e lei, vittima consenziente, non poteva che correrle incontro.
Alice, subito accanto alla sua amica, spalla contro spalla in quella massa di gente in attesa dell'"avvento", le sfiorò un braccio. Erin si girò immediatamente verso di lei, guardandola dritta negli occhi, abilmente nascondendo il tumulto di emozioni che le vorticavano dentro.
La mora puntò gli occhi neri nei suoi, quasi sorridendo, per poi tornare con lo sguardo sul palco, dove avevano finito di mettere a posto in seguito alla performance del gruppo spalla. Ora, l'unica, vera "macchia" di colore erano le scenografie; erano frasi, bianche, mozzate, come se fossero zampillate via da un pennello e finite con uno schizzo sugli sfondi arancioni.
Erano versi, estrapolati da svariate canzoni.
Erano concetti: emozioni, aspettative, pensieri, azioni, racchiuse ognuna in una frase; in una sola, efficace frase.
Erin sentì, ancora una volta, una forte spinta provenire dalle sue spalle, e un coro di voci. Si girò per qualche attimo, lanciando un'occhiata dietro di se; solo allora, si rese conto del silenzio.
Tutto taceva, tutto era sospeso; la giovane portò di nuovo le iridi sul palco, sentendosi mozzare il fiato.
Fu investita dal buio.
Totale, assoluto, nuovo, elettrico.
E, in quel momento, ad un nulla di distanza dalla realizzazione del suo più grande sogno, si convinse di essere la persona più fortunata, più felice al mondo.
Alice, accanto a lei, tese la mano verso il palco, cacciò un urlo spezzato d'emozione, e incrociò, per un attimo, lo sguardo con quello dell'amica. E, in quel momento, entrambe sorrisero, sentendosi complementari; tra di loro, e con ciò che stava per accadere.
"Better thank your lucky stars."
Tutto stava per avere inizio; ed Erin non poteva che ringraziare le sue, di stelle. La sorte aveva, finalmente, virato in suo favore.
Un urlo unanime si levò dalla folla, inondando l'aria della sua pura energia.
Suoni, rumori, interferenze d'una radio, voci piatte, cori.
E, tra la folla, il silenzio.
"Sing us a song of the century.."

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Capitolo 7
*** Louder than bombs and eternity. ***


Author's Notes: Ebbene, avevo promesso che avrei aggiornato presto, invece vi ho fatto aspettare più di dieci giorni. Chiedo umilmente perdono.
Purtroppo durante questo periodo ho avuto una "siccità creativa" impressionante; non riuscivo a scrivere una riga senza dover essere brutalmente richiamata in riga dall'asfissiante studio che caratterizza il fine quadrimestre, non contando poi che ogni cosa che riuscivo a scrivere mi sembrava un obbrobrio. Quindi, ancora una volta, scusatemi per questo mio ritardo.
In compenso questo capitolo è lungo, assai lungo per i miei standard, quindi, insomma.. Meglio per voi, no? (:
Ora, l'angolo delle risposte:

801_Underground: Ti ringrazio infinitamente.. Io non so veramente come ringraziarti per tutti questi complimenti (per altro immeritati, del tutto).
Sono davvero contenta di sentire che ciò che scrivo ti fa rivivere l'11 Novembre.. Per me anche un solo ricordo di quel giorno mi distrugge, e mi ritrovo a piangere. .. Forse ti sembrerà esagerato.. Eppure io non so mai se sono lacrime di gioia o di amarezza, di tristezza. L'ho definito, con una mia amica, "bittersweet migraine"; è un sapore dolce con un retrogusto amaro, o viceversa? Non ho mai saputo rispondere. Ora ti lascio, e, ancora una volta.. GRAZIE INFINITE. =D

Elaintarina: Ehm.. questo lo capirai più avanti, se sarà successo o meno. E' stato il mio sogno per tanto tempo.. ma non l'ho ancora incoronato neanch'io, sfortunatamente.
Comunque, per il coro pre-concerto in un certo senso hai ragione, deve essere qualcosa di nudo e crudo.. E "Are we the waiting" non corrisponde esattamente a quella definizione.. Eppure, ho sentito il bisogno di metterlo, forse perché in Bullet In a Bible, quando fa vedere la gente prima del concerto, c'è sotto il coro della folla che canta, appunto, quelle parole. .. E' mi è rimasto terribilmente impresso, dalla prima volta che ho visto il DVD. .. Che poi sia adatta o meno in quanto melodica non so dirti, io l'ho trovata adatta, più che altro perché si va a riconnettere al discorso dell'attesa che era tanto fondamentale nei precedenti capitoli. Spero che questo prossimo capitolo ti piaccia. (: Bye bye.

Un'ultima cosa: fate caso, se volete (non che sia nulla di trascendentale, sia chiaro..), alla frase con cui termina il precedente capitolo.. E a quella con cui inizia questo. E'.. una sottospecie di piccolo, chiaro collegamento tra questi due capitoli, tanto per comprenderne la continuità. (:

Buona lettura.. E, come sempre..
COMMENTATE! (:

PS: ginnyx, mia fedele lettrice, dove sei finitaaaaaa?!





Titolo: Louder than bombs and eternity
Soundtrack: Song of the Century, Green Day


"I have learned through bitter experience
the one supreme lesson to conserve my anger,
and as heat conserved is transmitted into energy,
even so our anger controlled can be transmitted into a power
that can move the world.”; Mahatma Gandhi


".. that's louder than bombs and eternity.."
Quell'urlo poteva benissimo esserlo.
Era quella, la Canzone del Secolo.
L'unica Song of the Century, quella più forte delle bombe, dell'eternità, di quel silenzio loro nemico.
Era la Song of the Century di cui Billie era in cerca da quando aveva forgiato, non troppo tempo prima, quelle stesse parole su un pezzetto di carta, di cui era in cerca da quando aveva per la prima volta preso in mano una chitarra, la sua chitarra, alla tenera età di dieci anni, di cui era in cerca, forse, da tutta la sua vita.
Racchiudeva, nella semplicità del suo suono, forse caotico, forse la cosa più ordinata e razionale a questo mondo, quella ricerca; non solo la sua, ma quella di ognuno di loro, di ognuno di quei singoli fan, di ogni singolo essere umano presente all'interno di quella folla.
Avevano fatto come lui, no, come loro avevano detto, perché erano loro i fucking leaders, ma erano tutti loro, i fan, ad avere il fucking power.
E, come era stato loro detto, avevano radunato i demoni della loro anima, quelli segregati in un angolo talmente remoto della loro mente, da aver paura anche solo di sfiorarli.
Eppure, lo avevano fatto. Nonostante tutto, avevano "Rallied up the demons of their souls", e li avevano portati lì, apposta per loro.
Per lui.
Billie Joe chiuse gli occhi, respirando ancora una, due, tre volte, prima di tendere le mani in avanti, aprendo e chiudendo a pugno le sottili dita; le sue labbra accennarono ad un sorriso. Gli piaceva la sensazione di non potersi fisicamente vedere, di non avere percezione alcuna della distanza che separava il suo volto dai suoi palmi, che aveva ora rivolto in alto.
Respirò profondamente, sentendo l'aria elettrica riempirgli i polmoni d'una saturazione che gli faceva martellare il cuore ad una tale velocità da sembrargli un mormorio indistinto.
Lì, davanti a lui, nel mero riflesso della notte che inghiottiva l'ambiente esterno, il buio era niente altro che la realtà.
Forse sconosciuta, forse imprevedibile, ma attesa, nella sua più cruda e veritiera delle forme.
Billie inspirò profondamente, e si ritrovò inghiottito dalle ombre, percorrendo l'oscurità con un intorpidimento sempre maggiore della mente, che, eppure, non era mai risultata così chiara, così libera da qualsiasi pensiero.
".. that's leading us into the promised land.."
Il frontman si fermò, d'istinto, respirando silenziosamente. La canzone, di sottofondo, gli solleticava la mente con la sua presenza, alla quale l'uomo sentì un'improvvisa affinità.
Sentiva le mani sudare, il corpo tremare violentemente; poteva già immaginare la sua voce rompersi d'emozione.
Il solo pensiero di riabbracciare la realtà era terrificante, reale, quasi fisico.. Esattamente come lo era il pubblico davanti a lui, la cui presenza riusciva distintamente a sentire, a percepire.
".. tell me a story into that goodnight.."
Prese fiato, cercando di calmare il suo animo bruciante di brama, di energia; era un desiderio, un bisogno così dilaniante da sentirsi la testa, il cuore dolorante. Egli, tuttavia, sapeva bene che cosa desiderasse davvero: riabbracciare loro.
Quella gente che non lo aveva mai tradito, quei fan che lo avevano da sempre, per sempre e ovunque seguito, quelle persone che, con un gesto apparentemente semplice come l'aver ceduto a lui il proprio cuore, non pretendevano nulla in cambio, se non ascoltare la sua voce, sentire il suono della sua chitarra, udire la sua musica.
Eppure, quella necessità fisica di sfiorare il suo pubblico, di ottenere un contatto reale, non poteva che esigere dal frontman l'offrire, con la stessa cieca fiducia, il suo cuore a loro.
Billie sporse appena le labbra; subito qualcosa sfiorò la pelle inumidita della bocca, e il frontman sentì il suo cuore ricominciare a martellare nel petto, così forte da far quasi male. Sorrise appena, e chiuse gli occhi.
Respirò, e schiuse le labbra rosee.
".. Sing us a song.. For me.."
La sua voce si unì, si sovrappose a quella della canzone in sottofondo; c'era una tale dolcezza, una tale serenità, eppure un'emozione così devastantemente toccante, da creare un silenzio assoluto.
Billie chiuse gli occhi, sorrise, percepì una lacrima, una sola, rigargli il viso; quel dolore indolenzito dell'anima si era ora affievolito, fino a scomparire.
E, dentro le sue orecchie, il silenzio improvviso veniva urlato con la stessa, devastante potenza di un grido; le persone, quelle migliaia di persone, stavano gridando in silenzio nella sua mente.
They're screaming in silence.. It's a sullen riot that's penetrating through my mind.
Ascoltando con attenzione, si potevano sentire i numerosi respiri trattenuti, i cuori battere velocemente, le menti dominate dall'assenza di suoni, di pensieri.
Waiting for a sign, to smash the silence with the brick of self control.
Poi, un urlo.
La folla gridò, unanime, come a pieni polmoni; strepiti sporadici macchiavano quel suono di una vita, di una vitalità satura d'energia.
Billie Joe aprì gli occhi, e, un attimo dopo, fu investito dalla luce.
Totale, assoluto, nuovo, elettrico.
Sorrise, sentendo un boato travolgerlo come un'onda devastante, come un maroso che spazzava via la totalità del creato con una tale velocità e potenza da dargli l'impressione di essere rimasto in piedi.
Sentiva dentro di se un bruciore, divenuto in un attimo fuoco, l'attimo dopo una fiammata che gli lambiva il ventre, il corpo; gli ardeva dentro, arroventata, febbrile, vampata di energia, di esistenza.
Dentro di lui, divampavano una rabbia e un'elettricità mai provate prima; tutto era nuovo, tutto era inaspettato, mai provato prima, eppure familiare.
Billie slanciò un braccio, chiudendo le dita in un ferreo pugno, alzandolo, dritto contro il cielo.
L'urlo del pubblico aumentò d'intensità, e all'uomo non parve che una scarica di corrente allo stato puro.
Urlò anche lui, con tutto il fiato che aveva nei polmoni; un urlo disumano, grezzo, crudo, bestiale.
Il suo sorriso si aprì, beffardo, mentre sente i primi accordi del pianoforte partire, seguiti dopo poco dall'applaudire ritmico del pubblico, a tempo con la musica.
Annuì, il suo sorriso non abbandonando mai le sue labbra sottili. Avrebbe voluto battere le mani con loro, avrebbe voluto lasciarsi andare, desidererava, più d'ogni cosa, lanciarsi sulle mani avide di contatto della folla, lasciarsi cullare dall'onda, stavolta di corpi, del suo pubblico.
Poi, la batteria di Tré; era il battito dei loro cuori, era il rullare di una marcia inarrestabile, era quel pulsare ruggente nelle orecchie che rese tutto più reale, tutto più vivo.
I cori; Mike, al suo fianco, batteva le mani anche lui, trasportato dall'inarrestabile travolgenza di quel momento, vittima come Billie Joe dell'overload di quell'intensa, travolgente furia.
Il frontman lasciò scorrere le mani sul ponte logorato di Blue, senza guardare, sentendo il legno levigato fresco e delicato al tocco.
Dopo di che, improvvisamente, punta gli occhi verdi, infuocati sul pubblico; le sue dita esperte si posizionano agili sui tasti, la mano destra colpisce violentemente l'accordo. Le sue labbra si schiudono ancora una volta.
"Born into Nixon, I was raised in hell.."
Le parole rotolavano via dalle labbra con una fluidità tale da renderne il peso quasi impercepibile; il battito del cuore ormai fuso con quello della canzone, scandita da ogni accordo, da ogni parola pronunciata, da ogni coro, da ogni battito delle mani.
Billie sentiva ogni respiro entrare dalle sue labbra, consumato quasi subito dall'immediatezza delle parole, del verso; era un'avidità, una necessità di sentirsi vivo. Era un motivo per respirare, un motivo per continuare a far battere il cuore, un motivo per essere vivi.
".. America!" Non Oakland, non California, non Rodeo, non Berkley.
Era l'America, quella di fronte a lui. Era il mondo, quella massa indistinta di gente che si estendeva oltre la percezione visiva di chiunque si trovasse su quel palco.
Era il suo mondo.
"21 Century Breakdown.. I once was lost, but never was found"
Cantò, scandendo ogni singola parola, eppure fondendola in un unico pensiero, in un unico sentimento; un bruciore dell'animo, piacevole, nuovo, una felicità.. La felicità di essere stato finalmente ritrovato.
Era finalmente ritornato, dopo tanto tempo, a vivere.
Si, era vero; si era perso, aveva smarrito la strada, neanche i suoi più cari amici, neanche la più potente delle emozioni era riuscita nell'intento di ritrovarlo, di riportarlo a galla, dopo essere caduto, dopo essersi perso.
Era stato come saltare da una nuvola, per poi sprofondare nella terra più in basso di prima; e, con il tempo che scorreva, si andava saldando la nozione che le inarrestabili spirali della caduta avrebbero continuato a cingerlo in una morsa sempre più soffocante.
Eppure, ora, a distanza di fin troppo tempo, Billie veniva finalmente salvato. Veniva finalmente ritrovato.
E.. non si era mai sentito così vivo in vita sua.
In quegli attimi, erano la sua anima e il suo corpo, quelli che stava cantando; erano le sue emozioni, la sua vita, e, sopratutto, la sua rinascita.
Lì, alla Oracle Arena.
Lì, spettatore del suo stesso concerto, parte di quell'America che tanto gli apparteneva, a cui si aggrappava quasi disperatamente.
"I think I'm losing what's left of my mind.."
Si, stava perdendo la sua razionalità di più ogni secondo che passava; non risuciva a distinguere null'altro che la musica e il pubblico, e questi sembravano accompagnarlo attraverso lo stesso percorso.. Come avevano sempre fatto.
Che cosa stesse davvero facendo, non lo sapeva con sicurezza; egli era a conoscenza di un solo fatto, in quel momento: non stava sbagliando.
Per una volta, in vita sua, Billie Joe sorrise a se stesso, per se stesso, felice nella sua sicurezza di non aver fottuto almeno una cosa.
In quegli attimi, seppe solo che ciò che stava facendo era giusto, e che, per una volta nella vita, non stava sbagliando.
"To the 20th century deadline.."

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Capitolo 8
*** Screaming in Silence. ***


Author's Notes: Fatemi i complimenti per aver aggiornato così presto.. XD
Che dire, gente, mi avete reso talmente felice con i vostri commenti, che ho deciso di aggiornare a pochissima distanza dall'ultimo capitolo (rispetto ai miei normali standard..); un grazie, quindi, immenso, a tutte coloro che leggono, ma anche a coloro che leggono soltanto.. Senza di voi probabilmente questa fan fiction non andrebbe ne avanti ne indietro!
Che dire di questo capitolo; beh, è di media lunghezza, ma è venuto stranamente bene. E' tutto incentrato sulla canzone "She", quindi vi consiglio di ascoltarla attentamente, e di fare attenzione, come sempre, al testo (che per me è spesso più importante della melodia).
Ora, il solito angolo delle risposte, dedicato alle mie meravigliose lettrici:

RiceGrain: Ave, oh Nuova Lettrice! (:
Non hai idea di quanto mi faccia piacere sapere che apprezzi così tanto la mia storia.. Io personalmente non credo di aver mai messo così tanto di me stessa in un mio qualsiasi scritto, quindi di conseguenza sono molto legata a questa fan fiction. Sapere che poi suscita in te così tante emozioni da farti ritornare a quel Magico, Indimenticabile 11 Novembre per me è più che mai una vittoria, è un piacere assoluto.. Mi lusinghi, davvero. Per quanto riguarda l'accuratezza delle descrizioni, che sia delle emozioni o dei personaggi o dei luoghi o che so io, ammetto di calcare molto la mano a volte, di insistere dove forse non ce n'è bisogno. Tuttavia, se lo faccio, è perché sento la necessità di dare particolare importanza ad un dettaglio piuttosto che ad un altro. Quindi, ancora una volta, grazie. Spero ti piaccia questo capitolo! (:
PS: Figurati, è stato un piacere! Il fatto che questo capitolo sia tutto incentrato su "She" spero che ti piaccia e che tu ci possa fare dei collegamenti con la tua bellissima one-shot! (;

801_Underground: Ah, cara mia.. Cara mia.. (: I tuoi complimenti e le tue lusinghe non saranno mai ripetitive, ne respinte per la loro presunta "ripetitività". Sono davvero contenta che ti sia piaciuto a tal punto il precedente capitolo. L'immedesimazione nel Sua Signoria BJ Armstrong rappresenta per me tanto una difficoltà quanto una sfida che amo cogliere quanto più spesso è possibile. Sono cosciente del fatto che anche lui è umano (in fondo in fondo.. XD), e che comunque devo sempre pensare al genere di persona che è.. E pertanto ho sempre timore di andare OOC. Comunque.. grazie mille! (:

ginny_x: *tira un sospiro di sollievo nel vedere che ha recensito il capitolo* Amica miaaa! (: Non sai quanto mi ha reso contenta vedere che avevi recensito.. I tuoi commenti sempre così dettagliati ed "analizzatori" mi fanno sempre sorridere tantissimo. Sei davvero una fedele lettrice. ^__^ Grazie! (.. e non ti preoccupare di non aver recensito il precedente chapter, tranquilla..)
Tornando al tuo commento: Il fatto che abbia addirittura superato il tuo pezzo preferito (.. o sbaglio?), ovvero quello sui demoni, simboleggia un mio miglioramento, e di questo sono contenta. Quindi grazie per avermelo fatto notare. Per quanto riguarda "Song of the Century", anche io, come te, credo sia sottovalutata come canzone.. Ha delle bellissime parole (la frase "sing us a song for me" mi ha letteralmente rapito..) ed è la perfetta introduzione al CD, a mio parere.
E ora, arriviamo al succo della questione: la lacrima. L'incriminata lacrima sotto accusa.
Dunque, prima di tutto io tengo sempre presente il personaggio in questione, ovvero BJ, e che genere di persona è; posso dirmi discretamente documentata sul suo conto, per quanto riuarda il suo carattere, o meglio, il carattere di cui fa "sfoggio" pubblicamente. Il fatto è che dobbiamo porre anche particolare attenzione al contesto in cui ci troviamo. Billie è stato infatti tradito, abbandonato dalla moglie poco tempo prima, la ferita è ancora aperta, ancora brucia.. Il ricordo è ancora troppo fresco, per farlo essere se stesso fino in fondo. Ed è per questo che questa "liberazione", questa sua rinascita, avvenuta durante il concerto, ha un impatto emotivo così forte. E' qualcosa di.. trascendentale.
E' per questo che la lacrima è qualcosa di emblematico, più che un simbolo della sua debolezza, o come dici tu, del suo dolore. E' una lacrima un po' di gioia, un po' di tristezza. E' una lacrima che simboleggia la sua nuova libertà, che simboleggia il suo ritorno a "vivere".. Eppure rappresenta anche quanto lui si senta liberato, per quanto poi possa essere difficile immaginarlo, dal peso del passato.
Ora però chiudo, altrimenti scrivo più del capitolo! XD Un bacio, cara.. aspetto tue "notizie"! (:

Mariens: Cara nuova lettrice, sono contentissima che ti sia piaciuta la mia umile fan fiction.. (: Sul serio, un'altra lettrice è sempre accolta con il massimo del calore e dello sfarzo. XD (anche se non ho ancora capito perché hai recensito sul primo capitolo, ma amen.. Senza offesa, è una mia curiosità. XD) Spero che ti piaccia questo nuovo capitolo!

Elaintarina: *Ahem* Bonsoir, mia cara! (: Devo dire che anche a me cominciavano a mancare le vostre recensioni.. Grazie quindi a voi fedeli recensitrici (nonostante dubito che esista come parola..). Hai comunque ragione, in parte, per il capitolo.. Infatti mi piaceva pensarli come un unico chapter, nonostante poi i problemi di lunghezza e di punto di vista mi abbiano impedito di renderlo tale.
Purtroppo per "nuovi eventi e nuove sorprese" ho timore che questo capitolo non faccia al caso tuo.. Ma sai come si dice, riguardo alla pazienza, no? XD Intanto, goditi questo piccolo capitolozzo, in attesa di "avvenimenti". (: A presto, grazie ancora per aver recensito! (;

Buona lettura gente!
Enjoy, e mi raccomando..
COMMENTATE!





Titolo: Screaming in Silence.
Soundtrack: She, Green Day



"A painter paints pictures on canvas.
But musicians paint their pictures on silence.";
Leopold Stokowski





Urla nelle mie orecchie, fammele sanguinare, fai sanguinare la mia anima, io non ascolterò altri che te, non avrò orecchie che per te.
Erin sbatté le palpebre, sentendo i piedi scontrarsi di tanto in tanto contro l'asfalto, il suo respiro mozzarsi ad ogni rimbalzo su di esso.
Allungava le mani, allungava il cuore, lo porgeva a Billie, come tante altre volte aveva fatto ascoltando la loro musica, anche solo concentrandosi un attimo sui brividi che le percuotevano il corpo ad ogni ascolto di alcune loro canzoni.
La giovane percepiva distintamente l'aria già calda penetrarle tra le labbra, rubarle tempo, quel prezioso tempo che aveva impiegato, sino ad allora, a boccheggiare, incredula, a piangere, commossa, a cantare, emozionata.
Era uno spreco, una follia, respirare, tremare, piangere, quando tutte le necessità erano incentrate in quell'unica azione: cantare.
Cantare per sopravvivere, cantare per non perdersi in quel "locked-up world" che era stato disegnato appositamente per lei, cantare per rompere quel dannato silenzio, cantare "to smash the silence with the brick of self-control".
Billie era lì, davanti a lei; pochi metri separavano la sua voce, la vera fonte della sua musica, dal suo corpo, eppure era come averlo pochi centimetri davanti a se, era come avercelo vicino a se, dentro di se.
Era un fondersi di voci commosse, di emozioni sguinzagliate, di respiri rotti, di corpi ammassati, fusi in un unico ente; il collante, la sola musica, la sola, divina voce, capace di far tremare l'intera Arena, gremita di persone, come i cieli soprastanti.
"E se qualcosa non va? E se succede qualcosa? E se si rivelerà essere tutto un sogno?"
Erano dubbi che le avevano dilaniato la mente, erano domande a cui non aveva saputo dare una risposta, erano quesiti la cui complicatezza l'aveva terrorizzata.
Si morse il labbro, socchiudendo le palpebre, rifiutandosi di infettare la voce di Billie, così vicina, così dannatamente coinvolgente, con la sua, che era sicura avrebbe emesso tremante e rotta d'emozione.
"She.. She's figured out all her doubts were someone else's point of view.."
Però, quando il melodioso gemito, energico quanto trascinante, di quelle parole le penetrò nelle orecchie, non potè che maledire quella necessità di cantare, di urlare.
Separò le labbra, lasciando che la sua voce urlasse, sanguinante d'emozioni, tutto il bisogno, tutta la rabbia, tutta la felicità, quell'assoluta felicità che sentiva ruggire dentro di se.
Erin inghiottì, prese fiato e guardò dritto davanti a se, con le lacrime nella gola che le bruciavano amaramente, con il cuore tremante, con il sangue che le pulsava impietoso nella mente in fiamme, con le mani protratte in avanti, a tentare di sfiorare quel sogno che l'aveva inghiottita nel suo invisibile oblio.
"Waiting for a sign.."
Ecco, ciò che aspettava; un segnale.
Un segnale, e tutto sarebbe cambiato. Un segnale, e tutto si sarebbe frantumato, si sarebbe sgretolato. Tutto ciò che la opprimeva, quel dannato "locked-up world" sarebbe stato distrutto da lei, dal suo urlo, dalla sua voce.
Tutto ciò di cui necessitava era un segnale, e i suoi dubbi si sarebbero dissolti, e lei sarebbe stata di nuovo libera da quelle catene che la obbligavano a stare rinchiusa in quella stanza, che la obbligava ad urlare in silenzio.
Perché, in fondo, i dubbi non erano i suoi; erano paure, erano domande, ma a cui Erin aveva saputo dare la più chiara e sicura delle risposte nello stesso momento in cui erano state poste: "Nulla. Nulla andrà male, nulla succederà che non dovrà succedere, nulla succederà se si rivelerà essere stato tutto un sogno.."

Perché tutto questo è un sogno.
Il più meraviglioso, fisico, surreale e magico dei sogni.
E ho intenzione di viverne ogni singolo momento.

"To smash the silence with the brick of self-control.."
E ora, avrebbe distrutto tutto; il silenzio, la stanza chiusa a chiave da quello stesso silenzio, i suoi dubbi, lo stereotipo che la rendeva un "social tool" senza un fine, uno scopo preciso.
Prendendo ancora fiato, Erin osò ascoltare la sua voce cantare; si, era vero, era sanguinante d'emozioni, ma era anche forte, era anche sicura, era anche riflesso del suo stato d'animo, del suo aver ceduto anima e corpo a quel concerto, a quella band, a quel frontman, quell'uomo che ora, visibilmente carico d'elettricità emotiva, correva lungo la passerella, trascinando con se la sua vecchia Blue e il microfono quanto l'energia e quella rabbia che lo caratterizzava.
Il microfono, l'asta ora a terra, sfiorò le sue labbra, emettendo quella voce carica e spiazzante.
"Are you locked up in a world thats been planned out for you?"
Sembrò guardare il pubblico negli occhi, allargando appena le braccia, con un'aria di sfida e di curiosità; sembrava domandare ".. Allora? Are you locked-up or not? .. Come on, tell me.", con un'espressione che aveva un che di diabolico, lo sguardo verde intenso a completare l'immagine.
Erin allungò la mano, aprì il palmo, cercando invano di sfiorare il palco, di percepire realmente ciò che le si parava davanti; la realizzazione del suo sogno.
Cantò, sorridendo; lo sguardo guardava oltre la spessa coltre della notte, volendo intravedere quel qualcosa che sentiva fervere nel cuore, il picco di quel vertice irraggiungibile posto tra la realtà e il sogno, il rumore e il silenzio, il buio e la luce, la notte e il giorno.
Se lo sentiva bruciare dentro, quel desiderio di lasciarsi andare, di rompere tutto, tutti, di essere finalmente libera.
La giovane annuì appena; avrebbe voluto esplicitamente rispondere a quella domanda, avrebbe voluto parlare, avrebbe voluto ascoltare, avrebbe voluto urlare, avrebbe voluto essere ascoltata.
"Scream at me, until my ears bleed.."
L'anima batteva veloce, martellava nella mente, l'emorragia emotiva inarrestabile, una sensazione di continuo affogare in un oblio fatto di "shadows and lights", di "rage and love", di "heroes and cons", e il successivo, subitaneo riafforare della mente da quelle onde che trasudavano beatitudine, e una boccata piena d'aria e di ossigeno quanto di realtà, che feriva e curava insieme l'anima di quell'illusione.
Billie allargò le braccia, guardando dritta negli occhi la folla, attendendo impazientemente una risposta; era lì per ascoltare il loro grido, il loro urlare non più in silenzio, il loro fluire continuo di vitalità e sentimento.
"I'm taking heed just for you", fu tutto ciò che urlò il pubblico, e Billie sorrise.
Le sue pennate sul ponte della chitarra erano veloci, i suoi tipici scatti della testa erano rimasti quelli d'una volta, il suo sorriso sghembo sembrava aver trovato fissa dimora sulle sue rosee labbra, che ora si muovevano di nuovo per regalare alla sua gente dei nuovi sogni.
Sarebbe davvero stato lì, per loro, per lei, pronto ad ascoltarla urlare, sfogarsi, lasciar fluire quel fiume di dubbi e rabbia che le prosciugava ogni pensiero, fino ad incatenarla alla mera idea di essere uno strumento nelle mani di chiunque avesse voluto farne uso ed abuso? Sarebbe davvero stato disposto a stare in silenzio così a lungo, ad aspettare che lei fosse finalmente libera?
Eppure, Billie era lì, a suonare, a cantare imperterrito, fermamente convinto ad ottenere una risposta dal suo pubblico dalla sua "She", da quello che sembrava essere l'unico destinatario della sua Donna, della sua Musa; la Musica.
Poi, quell'acuto strillo così improvviso, eppure così familiare, fu il suo; stavolta era lui ad urlare.
Erin seguì con lo sguardo la figura del frontman, che scattò improvvisamente all'indietro, le labbra ancora increspate in quel sorriso che sfiorava la beatitudine, e prese a correre verso il palco.
Erano quegli accordi, quelle veloci, feroci note sovrapposte a creare l'immagine, quella corsa frenetica a costituire il soggetto.
E, mentre guardava Billie Joe scorrazzare per il palco, correre, suonare spalla contro spalla con Mike, con quella contagiosa energia da overdose di Musica quanto di impulsi vitali, sentiva i suoi stessi piedi sollevarsi da terra, sfiorare l'aria senza essere di nuovo trascinati per terra, senza dover tornare di nuovo nella realtà, alla gravità che la incatenava a tutta quella merda che costituiva il suo mondo.
Gravity wants to bring me down. Gravity.. Stay the hell away from me.
La giovane irlandese si trovò ad essere parte di quel coro di "Hey! Hey!" che risuonavano mozzati tra le note acide e spezzate di Blue; era un sentirsi parte di quella canzone, del sentimento che essa veicolava, di quella libertà appena acquisita, di quel mondo completamente nuovo e non più isolato dal resto del mondo, non più incatenato con quel lucchetto psicologico che le impediva tutto forché di parlare, di urlare in silenzio.
Due passi, una corsa veloce, un salto che si portava dietro Blue, altre urla; tutto era trascinato via in un vortice di emozioni.. E forse anche di follia.
E poi, improvvisamente, eccolo di nuovo davanti a lei, il suo sguardo nervoso a scandagliare il palco, come se stesse di nuovo alla ricerca di quella risposta; forse retorica, forse già conosciuta, forse già sentita.. Ma lui sarebbe stato sempre lì ad ascoltarla, ad ascoltare loro, il suo pubblico.
Li avrebbe ascoltati, sempre; Erin ne era certa.

______________________

Note sul piede della pagina: Ho inserito, verso la fine, un verso tratto da una canzone di John Mayer, "Gravity"; è una canzone veramente notevole, e mi sembrava perfetta, quella frase, da inserire in quel contesto, in quel punto esatto.

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Capitolo 9
*** How to breathe: Istruzioni per l'uso. ***


Author's Notes: Pubblico questo capitolo in onore del compleanno dell'uomo a cui devo praticamente la vita, dell'uomo che mi ha insegnato cosa sigifica lottare per se stessi e per gli altri, dell'uomo che mi ha fatto capire di voler essere una Minority, dell'uomo che con la sua musica mi ha dato la vita, dell'uomo che mi ha salvato da me stessa, dell'uomo that made me See the Light.
All'uomo più meglio del mondo. (:
.. Auguri, Billie.
Auguri.

Titolo:
How to breathe: Istruzioni per l'uso. ("Music to me is.. It's the air that I breathe, it's the blood that pumps through my veins, that keeps me alive. Without it.. I don't know what I would do.")

Soundtrack: I Was There, Green Day


Amo la pioggia, lava via le memorie dai marciapiedi della vita.” ;
Woody Allen


Aria; si riemerge, si sprofonda, si respira, si soffoca.
Quando giunge l'aria, la investe, quando manca la annulla.
Le annulla la capacità di pensare, la capacità di vivere, di essere.
Ma è davvero l'ossigeno, l'aria di cui sopravviveva, quella sera? Non era forse la sua Musica, la sua ragione di vita? Non era forse il motivo per cui respirava, per cui cercava sempre quell'ossigeno nuovo, per cui scopriva sempre nuovi modi per catturarne la rarefatta ebbrezza?
Luce; forte, dorata e bianco latte, accecante, paradisiaca, dolorosamente fisica. Appariva e scompariva, ad ogni salto, ad ogni separazione dei piedi, del corpo da terra. E le sembrava finalmente di respirare, di vivere, ogni volta che si risaliva, anche solo per vedere quel centimetro di più che le era nascosto l'attimo prima; è tutta una scoperta, l'esperienza, la Musica.
Tante dita si stagliavano controluce, delineando ogni individuo, ciò che faceva, ciò in cui credeva, ciò che sognava.
.. Sono davvero solamente gli occhi lo specchio dell'anima?
Un paio di braccia forti l'afferrarono, le cinsero sicure il bacino, quasi brutali, con un'immediatezza che rese il tutto immediatamente comprensibile; era stata scelta.
"Come on, I need someone on stage.. !" Aveva sfidato l'uomo, forse non del tutto ignaro del tumulto che aveva scatenato nelle prime file della sua gente.
Le due braccia strinsero ancora, i piedi si allontanarono da terra, e stavolta non per proprio desiderio o forza.
Le sembrò di poter respirare finalmente l'aria del paradiso, più pura e illibata di quella elettrica del parterre, appartenente all'olimpo di quel concerto. Che non sembrava poi così alto, irraggiungibile, non allora, non quando  aveva la possibilità di raggiungerlo.
E proprio quando sentì i suoi piedi sfiorare e scavalcare le transenne, venne spinta di nuovo a terra, più dalla devastante potenza del rifiuto e dell'occasione mancata che dalla vera e propria forza bruta del bodyguard.
E, per un attimo, si sentì sperduta.
Si sentì minore, si sentì piccola, si sentì surclassata, si sentì persa.
Poi, bastò che soffiasse un paio di parole una conosciuta voce da sopra il palco, e tutto sembrò scomparire; anche se solo temporaneamente, tutto sembrava non avere più significato.
Non quando si aveva un sogno a portata di mano.

Erin si svegliò di soprassalto, gettandosi a sedere sul morbido materasso matrimoniale, ansimando, gli occhi spalancati di un terrore che non sapeva nemmeno di provare.
Sudore, cuore martellante, testa pulsante; la caduta all'indietro, e il familiare abbraccio del materasso che le permise di socchiudere gli occhi, di riprendersi.
.. Era stato davvero tutto un sogno?
Uno sguardo al passato; veloce, fuggente. Bastò una fuggitiva occhiata al passato per dissipare ogni possibile dubbio.
I was there.
E furono le lacrime, amare, ad inumidire il cuscino come le guance pallide, a confermare il ricordo.
Dolce, meraviglioso, meravigliosamente glorioso.. Eppure doloroso.
.. Perché?
E ancora quella sensazione di soffocamento alternato a profonde boccate d'aria la assalì, offuscandole la mente di ricordi che trasudavano vita, che trasudavano dolore, che trasudavano sogno e realtà.
At times I feel overwhelmed.. I question what I can give.
Cosa avrebbe ancora avuto da offrirle la vita? A cosa poteva rivolgersi, come speranza, come obiettivo, quando si sarebbe sentita persa? Quando avrebbe perso tutto ciò in cui credeva?
Urlò; brevemente, con voce rauca e mozzata.
Altalenò il peso del corpo finché riuscì a piazzarsi seduta sul letto. Tirò su con il naso, chiuse gli occhi, respirò, cercando di fermare il cuore in corsa; se non per stare meglio, almeno per porre fine a quel purgatorio d'emozioni.
In qualsiasi altro giorno, avrebbe curiosamente sorriso al suono dei suoi piedi scalzi mentre schiaffavano contro le fredde mattonelle del piccolo corridoio, ancora abituati alla morbidezza del letto o a quella della moquette, mentre si avviava dalla sua stanza all'adiacente soggiorno, più precisamente verso l'angolo cottura, in cerca della sua abituale dose di caffeina.
In qualsiasi altro giorno, ma non quello.
Si passò una mano tra i capelli, finendo per scompigliarli con un gesto quasi rabbioso, desiderando carbonizzare il piccolo felino color antracite il momento in cui le attaccò le gambe scoperte con il solito, peloso affetto.
"Sciò, gattaccio.. Ringo, vattene." Poche parole, sottovoce, soffiate con quel poco di forza che le sembrava di possedere in corpo; bastarono tuttavia ad allontanare il povero animale, che si rifugiò nei meandri del divano grigiastro, che, era evidente, aveva reso l'oggetto dei suoi numerosi sfoghi dettati dall'istinto.
Cingendo la tazza bollente con le mani, piena di nero liquido dall'odore pungente e altamente riconoscibile, Erin sospirò profondamente, e sperò con tutta se stessa che quel mal di testa scemasse durante la mattinata, ma qualcosa le suggeriva che c'erano ben poche speranze che questo sarebbe successo.
Osò ancora una volta ripensare alla sera prima; una lacrima le corse giù, lungo la guancia, e lei fu fulminea a scacciarla, come se temesse il momento ultimo in cui avrebbe perso ogni sua difesa, in cui si sarebbe abbandonata alle crude emozioni che aveva provato la sera prima, in cui avrebbe dovuto fare i conti con se stessa. E quella sola lacrima era simbolo della sua debolezza, quella che avrebbe voluto non aver mai provato sulla propria pelle.
Ed ecco che sentiva dissolversi nel vento come nulla, piangendo dentro di se amare lacrime cadute dal cielo, dalle stelle, e una netta sensazione di soffocare, come un nero lenzuolo ad avviluppare il cuore, la mente, le labbra; sapeva di poter respirare, ne era cosciente, eppure quasi non voleva. Era una sopravvivenza ai limiti della sopportazione, era la coscienza di riuscire a vivere solamente per pura e materiale energia, nonostante la vita vera e propria avesse da lungo tempo fugato quel vuoto corpo.
Socchiuse gli occhi, dischiuse appena le labbra per far fuggire un respiro ancora caldo; bastò un solo ricordo a farle stringere il petto, a farle sentire di nuovo quell'aria elettrica, priva di vento, che le accarezzava dolcemente le guance, umide di un pianto di gioia, a farle assaporare di nuovo quell'odore che impregnava l'aria, un sapore di vita, sudore e sigarette che annullava in puri attimi qualsiasi altra sensazione, a farle martellare violentemente il cuore, a farle correre un brivido lungo la schiena, aggrappandosi ovunque potesse al suo fragile corpo come alla sua mente.
Looking back upon my life, faded memories on the wall.
Strinse con i polpastrelli la ceramica color pistacchio, i cui rilievi premevano sulle dita tanto da sbiancarle, da farle mancare la circolazione, con un freddo ramificante e sempre maggiore che si insinuava fin nella coscienza. Abbassò la testa, osservò il suo freddo, distorto riflesso nella lastra di vetro del tavolo; quello che vide realmente fu l'immagine schernitrice e sadica del suo pallido viso, che sembrava farsi beffe della sua ostentata sicurezza, del suo apparente benessere, quasi fosse a conoscenza della devastazione che le dilaniava le viscere.
Looking now at who I am (who am I?), I don't let it get me down.
Erin scosse la testa, e sorrise amaramente della sua ingenuità; perché vivere qualcosa, fare tesoro di un'esperienza, se poi si vive il resto della propria vita ripensando con dolore all'attimo in cui si è sfiorato il paradiso? Perché cercare davvero la felicità in un'occasione, se poi si è a conoscenza del fatto che tutto ha una fine?
Lanciò il capo all'indietro, chiudendo gli occhi e provando a ridere di se stessa con tutta la disperazione di quel momento. Ciò che le uscì fu nient'altro che un rantolo, un respiro reciso sul nascere, una risata bisognosa d'intenzione, che dopo qualche secondo si tramutò in un singhiozzo, e in un altro ancora, finché la giovane comprese che doveva semplicemente dar sfogo alle fiamme che le lambivano il ventre con un bruciore a dir poco insopportabile, e pianse silenziosamente.
Fu solo quando si sentì arida d'emozioni, priva di ogni altra volontà se non quella di respirare, scivolò giù dall'alta sedia, e si avviò verso il proprio bagno, sicura di trovare conforto sotto il caldo getto della doccia, dove i fantasmi delle proprie lacrime si sarebbero mischiati alle tiepide gocce che le sarebbero scivolate giù, lungo il corpo, e, con esse, forse anche i suoi pensieri.

_____________________________________

Angolo delle risposte:
Si, ehm, per non rovinare quel piccolo idillio dedicato a Sua Altezza Billie il Nano, vi risponderò qui, oh mie illustrissime lettrici (:

Guitarist_Inside: Emaaaaaa. *____* Waah, che onore averla qui, signò! Lei, illustrissima.. Qui, a commentare il mio umile lavoro.. *__*
Ahem. *si ricompone* Sinceramente non mi aspettavo proprio un nuovo commento, soprattutto dato che ho pubblicato il precedente capitolo ormai un bel po' di tempo fa; ergo, il tuo commento mi fa ancora più piacere. (: Ti ringrazio infinitamente per tutti i complimenti che mi hai fatto (del tutto immeritati, per altro..); come hai ben notato, tra le cose che amo di più scrivere ci sono indubbiamente le descrizioni. In questo caso però, come hai giustamente detto, sono descrizioni di stati d'animo, le emozioni. L'averle rese fedelmente, sia quelle di Erin, che rispecchiano o che hanno rispecchiato moltissimo le mie, che quelle di Billie, che ho sempre avuto paura di rendere male, mi fa sentire come se avessi veramente raggiunto l'apice della mia capillare introspezione dei personaggi. E mi fa riconoscere di non essere una fallita al 100%, almeno nella scrittura. Il concerto era ciò che più mi premeva, un miscuglio soffocante di emozioni che mi porto dietro da quando ho cominciato a camminare verso l'albergo, a notte inoltrata, l'11 Novembre.
Spero davvero che ti sia piaciuto questo capitolo. (: A presto, Guitarist!

Peacemaker: Non posso che ringraziarti più e più volte per esserti lasciata convincere dalla tua curiosità e aver letto la mia fan fiction. (: Poi, il fatto che ti sia piaciuta mi rende ancora più contenta, dato che, come ho potuto notare dal genere di storie che scrivi e dal tuo commento, non ami le storie "straight".
Ti ringrazio poi per i complimenti; speravo che le emozioni, quel bagaglio, quel carico di sentimenti che, chi più, chi meno, ci portiamo tutti appresso, quando ascoltiamo la voce di "quel nano da giardino", potesse esser reso fedelmente. E se tu mi dici che ci sono riuscita, beh.. Non puoi che rendermi contenta. Grazie.
Poi BJ, è un altro discorso. Lui, le sue emozioni.. Alla fine, come dice lui in BIAB, non è che ho parlato necessariamente di me, è che alla fine quelle emozioni vengono da qualche parte dentro di te, da un angolo nascosto dentro la tua anima.
A presto, cara! (: I hope you liked this chapter!


801_Underground: Mia fedele, fedelissima lettrice. (: Spero davvero che Sua Maestà Billie ti accolga come si deve, quando ti presenti al suo cospetto! XD Scherzi a parte,
essere riconosciuta come mezzo per vivere altrove, che sia il concerto o.. O vivere respirando dell'ossigeno che emana Billie in ogni sua parola, in ogni respiro, in ogni sua mossa.. Mi fai pensare, sai? Mi fai pensare a come vorrei essere io, di tanto in tanto, ad essere trascinata via da ciò che scrivo, arrivare al cospetto del Signor BJ e.. Bah. Scusa, attimo di "spariamo-fesserie-tanto-non-fa-differenza". Insomma, cara, spero che anche questo capitolo ti abbia fatto viaggiare con la mente e con l'animo. (: A presto!

Ginnyx: "Hai capito la vera essenza dei Green Day". Io.. Io non ho capito. Io semplicemente ho smesso di capire il momento in cui ho aperto gli occhi, appena nata. Io vivo.. E poche altre cose. Io sento di appartenere a loro, ad ogni nota che esce dai loro strumenti, ad ogni parola che sfugge dalle labbra di Billie.. Io so di appartenere alla loro musica. Loro mi hanno dato la vita, capisci?
E, forse hai ragione. Forse ho scavato più in fondo di quanto avessi dovuto, forse ho visto ciò che agli altri sembra superficiale, inutile, forse ho capito dove altri non potrebbero. E forse ho capito l'essenza di ciò che mi tiene in vita. Loro.
.. Forse hai ragione, sai?
Per il problema della lacrima.. Lasciamo perdere. Capisco perfettamente cosa intendi, e ti darei anche ragione normalmente.. Ma io non mi sono potuta non comportare come se mi trovassi in quella in cui ero: una situazione straordinaria. La rinascita di Billie. E, in quanto tale.. Gli strappi alla regola ci saranno sempre, no?
D'altra parte, BJ è indubbiamente, per noi, un personaggio polisemico. C'è chi lo vede solo come un Bad Boy, c'è chi lo vede come un dolce e premuroso padre di famiglia, c'è chi lo vede come l'esecutore di una ribellione, emotiva e/o politica che sia.. Io ho scelto di vedere tutto e niente allo stesso tempo. Ciò che uscirà fuori da questi personaggi è tutto ancora da vedere, anche per me.
Per Erin, purtroppo non posso rivelarti ancora nulla.. Però quello che hai detto tu è essenzialmente giusto; avrai modo più avanti di capirla meglio. E', come hai detto tu, un personaggio che ha un suo perché.. Ha mille e uno sfaccettature ed é una persona molto difficile da definire.
Spero che ti sia piaciuto questo capitolo, carissima! (: A presto, spero. =D

Mariens: Non ti preoccupare assolutamente per il commento! (: Era solo una mia curiosità.. XD Ti ringrazio infinitamente per aver commentato.
Quella frase.. Quando l'ho scritta, è stato come prendere una scossa. E' stato descrivere l'essenza dell'elettricità che mi percorre, che ci percorre tutti quando ascoltiamo la loro Musica.. E' stato pazzesco, pensare come un impulso emotivo potesse essere così vitale per noi. Eppure.. Eppure lo è. (: Non c'è molto che possiamo farci, non credi?
La Musica è vita. E' la NOSTRA vita.. E non ci rinuncerei per nulla al mondo. (:
Grazie ancora tantissimo, aspetto un tuo commento! (:

Bene, gente.. Spero vi sia piaciuto questo capitolo. So che non è molto lungo, e so anche che il cambio di "scenario" è un po' brusco.. Ma avevo bisogno di farlo. Avevo bisogno di cambiare.
L'unica cosa che posso dire è che descrive in modo piuttosto dettagliato i sentimenti che ho provato dopo il concerto, che provo tutt'ora se getto uno sguardo indietro e ripenso al ciò che mi rimane dei ricordi del giorno più bello della mia vita.

Come sempre,
Enjoy, e..
.. Commentate, gente, commentate! (:

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Capitolo 10
*** Running from myself; I am my own worst enemy. ***


Author's Notes: Perdonatemi per questi dieci giorni d'attesa, ma questo capitolo è stato pressoché impossibile da scrivere, e sto passando un periodo soffocante di verifiche, versioni e altro.. E purtroppo non ho più tanto tempo da dedicare a.. Tutto il resto, diciamo. In ogni caso, volevo precisare alcune cose.
1) La strada che verrà descritta più avanti, Adeline Street (Adeline, vi dice niente? XD), esiste realmente. E il fato ha voluto che esistesse proprio ad Oakland, dove si svolgerà una gran parte della nostra storia. .. Una coincidenza, direte voi.
Ma io, come una volta disse il grande V, non gioco con i dadi e non credo nelle coincidenze.
Puntualizzazione numero due: questo capitolo è frutto della mia follia nel suo stato più puro, quindi agite di conseguenza. Spero di aver reso giustizia alla meravigliosa persona che è Billie, al quale dedico questo capitolo, sperando di non averlo fatto apparire come uno psicopatico mnemofobico.
Perdonatemi ancora per il ritardo.
E ora, piccolo commento ad ognuno dei vostri commenti. XD

RiceGrain: Ti ringrazio ancora una volta per aver commentato, e non preoccuparti assolutamente di non aver recensito il precedente capitolo. (; Potrai rifarti più avanti, volendo.. XD
Grazie mille per tutti i commenti che mi fai.. Anche se credo di non meritarli, non posso che essere felice che la mia storiella ti piaccia così tanto..
So bene come ci si prova dopo il concerto.. E questo capitolo è stato frutto di tutta la profonda disperazione che ho provato nel periodo immediatamente successivo. Mi fa piacere sentire che ti sei potuta riconoscere in Erin.. In fondo lei è un po' tutte noi.. no? (:

Peacemaker: *tanti uguuuri a teeeh.. tanti uguri a teeeh* ^__^ Viva il nanoo. XD
Ti ringrazio per i complimenti; non posso che essere d'accordo con te.. In fondo ciò che ci separa non è tanto un baratro o un abisso, quanto la consapevolezza che noi non vivremo mai quel sogno.. Non quello in cui c'è BJ in mezzo, ecco. Non.. semplicemente non è il nostro futuro, ecco. E la cosa mi fa venir voglia di mangiarmi le mani. XD Spero ti piaccia questo capitolo.. Anche questo è parecchio intenso..

801_Underground: Arrrr, mozzo! Mi fa piacere come sempre vederla in forma a commentare con una fedeltà degna di pochi.. Sarà premiata, vedrà, vedrà! (: So benissimo di che cosa parli, riguardo all'atmosfera paradisiaca, anche perché avevo in mente di scrivere un capitolo sull'ultima canzone (.. indovina quale? XD) e ci ho provato, però senza particolare successo. Ho capito di aver bisogno di un drastico cambio, anche perché la ff stava diventando ripetitiva e stancante, a mio avviso. Per quanto riguarda la mancata salita di Erin sull'olimpo, purtroppo ho avuto bisogno di essere un po' realista.. E comunque tu non ti preoccupare perché ho i miei piani.. (; A presto, cara.. Spero ti piaccia questo chapter!

Ginnyx: Realismo.. Ce n'era, hai ragione. Tanto, forse troppo. Io.. Non so davvero come dirti che hai azzeccato ogni singola cosa, che quella fierezza d'animo, forse che va un po' sgretolandosi, è tipica di Erin.. ma avrai modo di capirla meglio con il tempo, questa ragazza. Non è una persona semplice. In tutti i sensi.
Il simbolismo, ogni parola emblema di qualcosa di più grande.. E' esattamente ciò che la mia mente fa di giorno in giorno. Ogni cosa serve ad uno scopo maggiore, e non sai quanto mi faccia piacere che tu l'abbia capito. Come sempre mi stupisci con le tue magistrali interpretazioni. (: Conosco bene il problema dell'OOC, ed è una delle mie più terribili paure nello scrivere (infatti temo di aver esagerato in questo capitolo.. ma questo sta a te, e alle altre lettrici, dirmelo) Starei qui a discutere con te ogni cosa, ma purtroppo devo scappare. Ripeto, spero che questo capitolo non sia solo follia, spero di aver rispettato Bi.. Insomma, poi dimmelo tu.
(per la tua FF, prometto di andarle a dare subito un'occhiata.. non avevo visto il tuo commento, ma ora lo faccio! (; A presto, cara!)

Ringrazio tutti coloro che commentano, ma anche solo che leggono.. Spero vi piaccia questo nuovo capitolo. (:
Enjoy, e mi raccomando..
Commentate!




“'But I don’t want to go among mad people,' Alice remarked.
'Oh, you can’t help that,' said the Cat. 'We’re all mad here. I’m mad. You’re mad.'
'How do you know I’m mad?' said Alice.
'You must be,” said the Cat. 'or you wouldn’t have come here.'”
[Alice in Wonderland, Lewis Carroll]




Titolo:
Running from myself; I am my own worst enemy.
Soundtrack: Restless Heart Syndrome, Green Day

Frammenti di un sogno forse mai fatto si dispersero negli angoli più reconditi della mente, tentando di fuggire ai primi bagliori della coscienza.
Una febbre, una calda, rovente pulsazione si diramò insidiosa nella mente dell'uomo, facendogli bruciare gli occhi ancora chiusi, più per pigrizia che per timore di essere feriti dalla luce mattutina.
Billie Joe sospirò ripetutamente, cercando di capire che cosa stesse pensando, percependo un sapore amaro e indefinito infastidirlo, poi, con fatica, riuscì a socchiudere un occhio, incurante dei raggi del sole che gli sfioravano l'iride verde ancora sensibile alla luce.
Chiuse ancora gli occhi, mugugnò parole d'insulto dalla provenienza ignota e, tirandosi su con l'aiuto del braccio, si dondolò fino a ritrovarsi seduto sul letto, osservando fisso e senza particolare interesse la moquette verdastra della stanza.
Si concesse il lusso di respirare, profondamente. Fece scivolare le iridi verso la finestra, dalla quale filtrava una luce grigiastra, celata dalle tende; fuori, pioveva.
Il rasposo, immutante mormorio delle gocce sul vetro risuonava secco, l'eco si ripeteva preciso nella mente dell'uomo, come il rintocco di un orologio senza tempo.
Pioggia.
Billie scosse la testa, con un'improvvisata aria di rassegnazione. Guardò di nuovo verso terra, verso le sue mani intrecciate tra di loro, fredde, tremanti.
Pioggia, acqua.
Inspirò di colpo con il naso, facendo scattare la testa di lato; guardò in basso, verso il proprio cuscino, tentando disperatamente di dimenticare la finestra, la pioggia..
Pioggia, acqua, sudore.
Il frontman strinse, serrò gli occhi ora chiusi con forza, mentre delle boccate sempre più veloci, sempre più prive d'aria nutrivano il suo soffocamento.
Flash improvvisi gli sferzarono la mente; braccia alzate, sorrisi, cori, musica, chitarre, sudore, cielo scuro, notte.
Billie cominciò ad ansimare, stringendo convulsamente le sue mani tra di loro, cercando una via di fuga da quel tornado improvviso.
Le sue memorie, dolorose eppure piacevoli, dolci eppure profondamente amareggianti, vennero poi velocemente riaffiorando, ora ben definite, e una scossa d'elettricità emotiva lo fece tremare; se poi avesse tremato sul serio, non lo avrebbe mai saputo.. Si rendeva conto a malapena dei suoi pensieri.
I feel like I’ve been crucified to be satisfied.
Davvero aveva perso tempo a respirare l'aria dell'olimpo proibito, della libertà, di quella vita che tanto agognava, quella senza ricordi e senza rimorsi, quella con il solo futuro davanti a se come unico pensiero? Davvero aveva sperato di potersi liberare dei fantasmi del passato con uno schiocco di dita, con una lacrima versata, con la convinzione di aver liberato il proprio animo?
.. Ma forse non era così, che erano andate le cose.
Forse aveva davvero sfiorato con un dito il paradiso, forse aveva davvero respirato l'aria cristallina della libertà, priva delle ramificate, vischiose ragnatele della propria coscienza, dei propri ricordi, che aveva, più d'ogni altra cosa, desiderato dimenticare.
So send me to the pharmacy, so I can lose my memory.
Momenti persi a rianimare illusioni di un passato forse mai vissuto, distanze senza punti di partenza ne d'arrivo, domande senza un punto interrogativo gli infestavano la coscienza, ma i suoi ricordi si districavano abilmente tra quella matassa di 'indefinizioni'.
Era tutto così netto, così preciso da non lasciare spazio ai dubbi, ne alle domande; e ricordare era così piacevole, che le sue labbra s'incresparono in un sorriso lieve, quasi invisibile.
Eppure, quando si rendeva conto di ciò che era successo, quando il passato, più terrorizzante e tormentato di quanto lo fosse mai stato, tornava a soffocarlo con le sue distorte e indiscutibili realtà, gli sembrava di essere ancora troppo piccolo, troppo umano, per poter anche solo pensare di sopravvivere; nulla gli sembrava possibile, non quando il futuro spariva nell'ombra del passato e dei ricordi.
Il profondo piacere, un subdolo, deleterio godimento, reminiscenza della notte passata a vivere la libertà inseguendo il sogno di una vita senza catene, si stava insinuando velocemente nella sua coscienza, come una mano che si protendeva a sfiorare i suoi sensi, pervadendo ed invadendo il suo corpo con un tiepido, piacevole calore.
Una stretta al cuore, una soffocante sensazione di mancanza d'aria al petto, e Billie capì di voler provare quel piacere così legato ai suoi ricordi tanto quanto non lo volesse; si sentiva trascinato via da una forza che lo gettava violentemente a terra, privandolo delle sue piacevoli rimembranze, delle sue emozioni, della sua libertà. E la consapevolezza del fatto che l'unico momento in cui avrebbe realmente sfiorato la felicità sarebbe stato quando avrebbe provato dolore fu la definitiva spinta che fece cadere il muro d'ostentata razionalità che Billie aveva provato ad erigere, nel vano tentativo di credersi immune alle proprie incomprensibili emozioni.
Voleva ridere di se stesso e della sua pateticità, ma tutto ciò che sfuggì da quelle labbra involontariamente serrate fu un rantolo spezzato, che ricordava fin troppo un singhiozzo per essere una vera risata.
Somebody take the pain away, it’s like an ulcer bleeding in my brain.
Alzò lo sguardo, osservò di nuovo la finestra; il vetro era rigato da centinaia di gocce trasparenti, che scivolavano via, rincorrendosi tra di loro, unendosi l'una all'altra, separandosi, scomparendo, fondendosi, ora seguendo una direzione ben precisa, ora un'altra. Qualche goccia scompariva oltre il cornicione, qualcuna estingueva la sua corsa senza intaccare il morbido fluire delle altre sorelle.
Billie inarcò la schiena in avanti, percependo ogni singola vertebra schioccare ed allungarsi con vuoto piacere, e, appoggiando i gomiti sulle cosce, nascose la testa tra le mani; le lunghe dita affusolate afferrarono debolmente qualche ciocca degli indisciplinati capelli, come se tentassero di risollevare tanto la testa quanto l'animo dell'uomo.
Chiuse gli occhi, cominciando a respirare con una lentezza esasperante; ascoltò attentamente, scrupolosamente, il picchiettare ripetitivo e monotono della pioggia sul vetro. Accarezzando il temporale con la mente, il frontman osò interrompere per qualche attimo il suo respiro, mentre moriva ogni rumore, eccetto il battito del suo cuore.
So what ails you is what impales you.
Billie Joe si ritrovò improvvisamente a scendere le scale davanti al piccolo porticato del villino ceruleo, lo sguardo puntato dritto in avanti, verso quella strada, quell'asfalto così grigio da sembrare melmoso, quelle lacrime che dal cielo si schiantavano al suolo, come innumerevoli martiri di un volere superiore.
Ogni passo che compiva, ogni scalino che scendeva, era scandito dal rintocco secco delle scarpe contro il legno bagnato, mentre l'uomo nascondeva le mani tra le fredde pieghe delle tasche; lo sguardo, le iridi ora di un verde quasi color giada, sembravano non trovare il coraggio per guardare in alto.
In alto, verso quel manto di invisibili gocce che ora, sceso l'ultimo scalino, lo avvolsero con un immediato, freddo abbraccio.
Mano a mano che le gocce si abbattevano su di lui, Billie sentì la felpa aderire  sempre di più al suo corpo, facendo crollare le spalle verso il basso, gravate dagli indumenti ormai fradici quanto dalla sua sovrastante coscienza.
Qualche altro passo, e si ritrovò in mezzo alla strada.
L'asfalto ramato di Adeline St. rifulgeva di una tetra riflessione di un sole celato dietro a neri banchi di nebbia e nuvole, e le macchine, saltuariamente parcheggiate vicino ai villini, risuonavano di quella monotona sinfonia di gocce, ora con schiocchi, ora con trilli e tintinni sugli autoveicoli dalla carrozzeria più usurata.
I villini, schierati con la disordinata disciplina e accuratezza tipica delle città americane, sembravano avvolti da un'aura lattiginosa e incostante di migliaia di piccole, intangibili saette provenienti dal cielo plumbeo.
"Ma che cazz.. Billie?! Ma che ci fai qui fuori..?!"
Una voce improvvisa e roca, che trasudava preoccupazione e incredulità, anticipò una serie di passi, veloci e sguazzanti nelle pozzanghere marroncine e poco profonde che avevano colonizzato l'asfalto, mentre una presenza si faceva sempre più vicina a Billie, che, stringendo gli occhi, provava, colto da un attacco di infantilismo, a cercare di capire da dove, esattamente, stessero cadendo tutte quelle gocce.
"Billie, diamine.. ! Che cosa ci fai qui?!" Ripeté Mike, la cui voce apprensiva ora raggiunse, finalmente, la mente del suo amico, che abbassò gli occhi fino ad incontrare la sottile linea di nebbia che si estendeva a perdita d'occhio al lato, davanti, e dietro a lui.
"Non lo trovi ironico?" Proferì improvvisamente Armstrong, con voce piatta e disinteressata.
Mike, tuttavia, riuscì a percepire tra quelle parole una sottile vena di ironia, che poi fu confermata nelle parole successive del frontman.
".. Questa.. E' Adeline Street. .. Adeline. Street." Continuò, ora con una sfumatura sempre maggiore di amarezza, scandendo velenosamente quelle ultime due parole, mentre, girando con uno scatto la testa verso l'amico, e subito con essa il suo corpo, reso ancora più piccolo e impotente dai vestiti fradici che vi gravavano pesantemente.
".. Sai perché si chiama così, Mike? Eh, lo sai?" Sibilò Billie, i cui occhi erano accesi di rabbia mista a disprezzo; disprezzo per se stesso, disprezzo per essere diventato l'ombra dell'uomo che era un tempo, disprezzo per la vita che gli era scivolata via dalle mani senza che lui se ne rendesse neanche conto, rabbia per non essere riuscito ad essere libero, a liberarsi dai propri ricordi.
Mike non osò accennare ad una risposta, guardando con occhi spalancati, impotente, il primo vero, insensato, folle sfogo dell'amico, da quella sera.
E forse era la follia, ora, a guidare quell'uomo.
"Billie, ti prego.. Non fare cazzate, vieni dentro. Avanti, entra.." Lo pregò il biondo, facendo uscire le parole dalle labbra più come una cantilena sussurrata, una preghiera, che una vera richiesta. Seppe che non lo avrebbe ascoltato nel momento in cui Billie gli puntò quelle brucianti iridi nelle sue; tuttavia, quello che il bassista vide in quegli occhi non fu follia o rabbia, non fu odio o disprezzo, bensì fu tristezza, un'amarezza abissale che gli fece capire quanto i fantasmi del passato non lo avessero mai abbandonato.
"Questa fottutissima strada si chiama così.." Tre brevi respiri, spezzati dal battito del suo cuore che risuonava secco nelle sue orecchie, come uno schiocco di qualcosa che andava rompendosi. "Si chiama così.. Perché Dio mi vuole male. Perché Dio mi odia."
Billie si girò su se stesso, improvvisamente, passandosi una mano tra i capelli fradici che gli pendevano sugli occhi, appiccicati sulla fronte e sugli zigomi, improvvisando poi una risata sguaiata, che suonò a Mike come un patetico tentativo di mascherare i gemiti, più che una vera e propria risata. E questo lo sapeva bene anche lui.
"Ora io vado." Dichiarò Billie, facendo spallucce e girandosi sui tacchi per dare di spalle all'amico, prima di cominciare a compiere qualche passo lontano da lui. La pioggia ora gli sembrava ghiacciata e pungente, come una miriade di aghi che gli trapassavano la pelle infreddolita.
".. Dove vai?" Chiese Mike, quasi balbettando, dopo qualche secondo, incapace di pensare a come formulare una frase coerente tanto quanto di reagire. I suoi occhi cobalto seguivano increduli quella figura minuta e tremante che veniva inghiottita sempre di più dalla fitta coltre di nebbia.
"Scappo." Fu la secca risposta, sempre più distante, sempre meno sicura.
".. Da chi?"
Billie fece ancora una volta spallucce, infilando le mani in tasca e reprimendo il desiderio di girarsi e dare un'ultima occhiata al bassista, accelerando invece il passo, accompagnato dal morbido scroscio dell'acqua delle pozzanghere sulle sue scarpe.
".. Da me stesso." Mormorò, la sua voce ormai ridotta ad un guaito privo di speranza e sicurezza. Mike faticava sempre di più a distinguere la piccola, nera silhouette dell'uomo che avanzava verso una meta a lui sconosciuta.
I need to find a place to hide, you never know what could be waiting outside.
"E poi.. Voglio una sigaretta." Aggiunse, impunito.
Detto questo, il suo profilo scomparve nella pioggia e nella nebbia, trascinando via con se anche il fantasma di quella voce che, come l'uomo a cui apparteneva, sembrava aver perso sicurezza, emozione.
Che, come l'uomo a cui apparteneva, sembrava aver perso tutto.

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Capitolo 11
*** Hey, you! .. Get off of my cloud! ***


Author's Notes: .. Ebbene si, sono tornata. Si, non scrivo da febbraio, e non comincerò a giustificarmi con "la scuola", "gli impegni".. Per il semplice motivo che la scuola è finita da quasi un mese. Il motivo, l'unico, è che non riuscivo a scrivere. Avevo le idee ben definite in mente, ma la signora Musa ha deciso di prendersi una pausa caffé un po' troppo prolungata per i miei gusti. E ora sono di nuovo qui, con un capitolo.. Tutto grazie al concerto di Parigi. Io sono tornata dal concerto, e la Musa con me. E ho (finalmente!) terminato il capitolo.
Purtroppo quella meravigliosa, seppur tenue, felicità che avevo trovato dopo il concerto è stata, con molto poco garbo, cacciata a calci nel didietro dall'Heineken Jammin Festival, e dagli eventi ad esso annessi e connessi. Tutti sapete cos'è successo, non tutti lo avete provato. Vi auguro di non provarlo mai in vita vostra.. Ma a voi, comunque, questo non interessa. Detto ciò, devo avvertirvi che il capitolo è ad uno stato grezzo, preistorico; non l'ho rivisto a dovere, non l'ho ben corretto.. Ma, soprattutto, non mi sono impegnata a far sì che potesse essere accessibile emotivamente anche a coloro che non hanno provato le emozioni descritte (trattasi soprattutto di emozioni post-concerto). Non ce l'ho fatta, mi dispiace. Mi sento un po' traditrice, ma spero che abbiate pietà di me, e che chi non ha provato sulla propria pelle questi stati d'animo possa provare ad immedesimarsi con un po' più di impegno, stavolta. Scusatemi tanto.

Ringrazio tutte voi, ginnyx, RiceGrain, sweetevil e Drunky Bunny, per aver recensito. Mi avete dato la forza e la voglia di continuare questa storia che credevo abbandonata. Grazie anche a chi legge, a chi ha messo questa storia tra i preferiti, seguiti, o altro. Grazie a tutti. (:

Dopo tanto, troppo tempo.. Eccovi il capitolo.
Spero vi piaccia; se si (ma anche se no, eh..) commentate!

PS: Questo capitolo è un plagio bello e buono alla canzone "Last of the American Girls". Credo che dei riferimenti più chiari di come ne ho messi io non esistano.. XD








Titolo: Hey, you! .. Get off of my cloud!
Soundtrack: Last of The American Girls, Green Day; Girl Who Lives on Heaven Hill, Husker Du




It's like.. Living off of garbage and finding beauty in it.;
Billie Joe Armstrong




Lo spoglio, vuoto corridoio sembrava non finire, scandito ritmicamente da un alternarsi di passi cadenzati, pesanti, e appariva innaturalmente bianco, d'un bianco abbacinante, che tanto più lo si guardava, tanto più si dovevano stringere gli occhi, e pregare che quella dannata porta di composito ligneo potesse arrivare presto.
Sbuffò una, due volte.
Quel posto non le era mancato.
Finalmente, come qualcosa di troppo simile ad un miraggio, le apparve davanti quella targa di metallo tanto scura da sembrare bronzo, che sembrava sfidare la legge di gravità, così malamente appesa al lato dello stipite della porta; subito la sua mano sinistra ne strinse il pomello, prima di farvi una leggera pressione con la spalla.
"'Ngiorno, Erin! .. Come va?"
".. Una merda, grazie."

La sveglia l'aveva eccessivamente sfidata, quella mattina, e l'irlandese aveva dovuto a lungo combattere contro i suoi istinti più primitivi per evitare di scaraventare elegantemente contro il muro quel piccolo aggeggio, che in soli cinque minuti era riuscito ad assomigliare prima ad un ordigno sul punto di esplodere, e subito dopo ad un codice morse dagli incomprensibili significati.

La voce smielata del suo collaboratore, Joel, la pedinava quasi quanto il suo proprietario, che la seguiva passo per passo nell'apparentemente vano tentativo di districare quella giungla di lavoratori, sedie girevoli e scrivanie in finto legno, per arrivare finalmente alla sua, di scrivania, dove l'aspettavano una risma di fogli dal dubbio equilibrio e tanto, troppo lavoro.
Erin sbuffò di nuovo.

La pioggia le aveva sferzato il viso impietosamente, quella mattina; sentire ognuna di quelle fredde gocce correrle lungo la nuca, lungo la pelle ancora tiepida del collo..
La bici era stata una pessima idea. Le mille gocce sferzavano come aghi la pelle infreddolita, la nebbia che andava condensandosi sopra l'asfalto inghiottiva sempre di più, di minuto in minuto, i raggi di quelle ruote di bicicletta che denunciavano, con graffi e ruggine, uso e abuso di quel veicolo la cui scelta era stata forse ben poco appropriata quel giorno.
Erin strinse i denti, e rise tra se e se. Pensare di sentirsi sempre più come una di quelle della Massa Critica (che di massa aveva ben poco, ma di critico anche fin troppo) era qualcosa di semplicemente assurdo, dato che lei era la prima a pensare di non volersi inserire in quelle massicce manifestazioni di gente che magari non sapeva neanche per cosa manifestavano, ma per i quali la sola idea di una scampagnata in bici per la città era un allettante pretesto per fare della saltuaria attività fisica.
Sbuffò, calcandosi con una mano, in modo del tutto precario, il cappuccio fradicio sui capelli, nonostante fosse consapevole che il solo tentare di proteggersi dalla pioggia fosse ormai inutile.

Un tonfo secco e improvviso, un morbido e quasi impercettibile frusciare, due occhi color nocciola chiaro che si sollevavano con una scettica curiosità, e improvvisamente le minuscole ed irregolari intaccature della scrivania apparirono infinitamente più interessanti di quel viscido sorriso che le si parava davanti, appartenente alla giovane caporedattrice, che si stagliava con aria di sufficienza dall'alto dei suoi tredici centimetri di tacco. I capelli raccolti in perfetti boccoli, le labbra che svettavano come una voluta protuberanza che richiamava insistentemente l'attenzione, gli occhi spiritati e leggermente socchiusi non aiutavano che a richiamare sulla sua pelle un brivido di disgusto.
"Mi auguro soltanto che questa tua vacanza ti abbia fatto venir voglia di lavorare un po', O'Brien. Il tuo zelo lavorativo ci è mancato, qui in redazione, sai?"
La tua bastardaggine, invece, neanche un po', sai? avrebbe ardentemente desiderato rispondere la giovane, ma si morse invece la lingua, offrendo invece come reazione un teatrale sorriso da copertina.
La figura languida e serpeggiante della vice-caporedattrice offrì un ultimo cenno col capo, prima di scomparire, apparentemente soddisfatta, dietro qualche altra scrivania.
Vacanza, certo. Vacanza.
Una voce amareggiata, dal tono sospeso tra il malinconico e l'arreso, le invase la testa, mentre ritornava con lo sguardo su quella risma di fogli, quindi sul legno del tavolo.
Si sentiva come sospesa, la mente libera di vagare in una pozzanghera ristagnante di apatia mista a un tenue dolore, il corpo del tutto privato dell'abituale energia, nutrito da respiri più che mai superficiali. Sentiva di non essere in grado di poter godere di quelle boccate d'aria che tanto le erano sembrate necessarie fino a qualche giorno prima. E, per quanto fosse superficialmente sorpresa del fatto che ancora sopravvivesse, desiderava, da qualche parte in quel grigio stagno che costituiva la sua mente e le sue mute emozioni, poter vivere.
Desiderava semplicemente poter tornare a respirare per qualche secondo, giusto il tempo di potersi rendere conto che quel sogno era davvero terminato.
Eppure, continuava a domandarsi come fosse possibile considerare parte del passato un ricordo così intenso e così fresco da sembrare di viverlo ancora. Continuava a pensare a come fosse possibile sentirsi in debito verso la realtà a cui era ora tornata, per il semplice motivo che i sogni realistici sono sempre meno convincenti e meno meravigliosi di una dream-like reality. Di una realtà che assomiglia fin troppo ad un sogno.
.. E lei che si ostinava ancora a non risvegliarsi.
".. Erin!"
L'irlandese sospirò, sentendosi trascinare bruscamente in piedi, ritrovandosi davanti la sua amica, che, come suo solito, non le aveva dato neanche il tempo di registrare la sua presenza, prima di strattonarla poco lontano verso un angoletto appartato della redazione.
"Finalmente..! Ieri non ho fatto altro che provare a chiamarti." Esclamò con voce apprensiva, sommessa, quasi timorosa di essere scoperta. Erin abbassò lo sguardo, stringendo i pugni, e fallì nel tentativo di impedire al suo viso di contrarsi in una smorfia dolorosa. Alice sospirò, socchiudendo gli occhi per qualche secondo.
"Ree.. Dimmi che stai bene."
La voce di Alice ritornò dolce, così come i suoi occhi, scuri e penetranti, si ammorbidirono d'uno sguardo quasi materno. Le sfiorò l'avambraccio con i polpastrelli, accarezzando quasi impercettibilmente la pelle fredda e appena tremante dell'amica.
"Te lo dirò.. Quando mi saprai dire perché dovrei godere degli attimi belli della vita, delle esperienze, quando poi questi sono niente di meno che interruzioni di una vita soffocante e di una realtà che non voglio vivere. E perché continuo a combattere per una causa persa in partenza: quella di una felicità che non ho mai trovato. Non per lungo tempo, almeno." La voce, dura e meccanica, veniva sempre più soffocata dal calore nella gola, dal rasposo dolore delle lacrime non ancora versate. La sua sicurezza si ridusse ad un sussurro, quando Erin si rese conto che non desiderava altro che raccontare la guerra che era in corso nel suo animo tormentato.
Alice la guardò a lungo, tentando invano di catturare la scintilla nei suoi occhi ambrati. Sapeva di non averla persa.. Semplicemente, la doveva ritrovare.
".. Perché sei l'eroe delle cause perse, perché sei una guerra aperta con te stessa. Perché non collabori. Perché sei l'unica tra le fottute persone che qui in America può fare una fottuta differenza." La voce di Alice scandiva ogni parola con una rabbia secca e con una decisione rovente e diretta. Il suo sguardo era penetrante, vero. Impossibile da fuggire. Un mezzo sorriso soddisfatto le sfiorò le labbra.
".. E quando arriverà la sera in cui ogni cosa andrà a puttane, tu sarai lì, con i tuoi fottuti vinili, a cantare le canzoni per i poveri, i ribelli e gli angeli caduti. E nessuno potrà dirti nulla. Perché sei l'ultima, fottutissima ragazza americana. E perché non sei mai stata così vicina alla felicità, Erin. Anzi. L'hai avuta, l'hai sfiorata. E' stata tua, in quel momento. .. Tua, capisci?"
'Cause I was so much closer than I had ever known.
Queste, le parole che le martellavano nella mente. Era stata così vicina, da non accorgersi nemmeno di esserci veramente riuscita.
La felicità era stata lì. E lei l'aveva avuta. E lei l'aveva vissuta.
" O'Brien! Non siamo qui per fare gli scioperi della fame per coloro che non arrivano a casa per cena, siamo qui per lavorare!". Una voce contrariata e un rumore cadenzato di tacchi, e entrambe sembrarono ricordarsi dove si trovassero.
E bastò un'occhiata e un sorriso spezzato per capire che le parole avevano centrato in pieno.
Tornata davanti alla scomoda realtà della scrivania, della pila dei fogli e della redazione, Erin si ritrovò presto inghiottita da tutto quel dannato lavoro, con quel caldo bruciore di amarezza nel corpo che andava lentamente scemando, senza mai tuttavia spegnersi. Rimaneva lì, ad ardere di quella che si ostinava a vedere come la mancata felicità, di quello che desiderava essere il pretesto per ribellarsi a tutto e a tutti. Tuttavia, s'insinuava nella sua mente una sorta di incredulità nei confronti della realtà, nei confronti di ciò che aveva vissuto, un sentimento tiepido e piacevole che riportava a galla immagini e sensazioni gelosamente custodite nel cuore, così recenti da sembrare vere, vive di fronte a lei. E, in quel turbinio, sentiva di vivere un infernale paradiso, e un paradisiaco inferno. Sentiva di vivere di una felicità annegata nello stordimento dei sensi, alla deriva verso chissà cosa, nel passivo tentativo di ritrovare se stessi, di ritrovare quella dannata capacità di respirare la vita. E amava, e odiava sentirsi così dannatamente felice.
Dopotutto, era pur sempre una figlia dell'odio e dell'amore.





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Capitolo 12
*** My Messiah is long dead. ***



Author's Notes: E' mezzanotte. Di lunedì (o forse di martedì.. ormai?). Dovrei dormire, e invece sono qui a postare un capitolo che sono quasi tre mesi che aspetta di vedere la luce. Quindi ci tenevo a farlo il prima possibile, soprattutto dato il crescente numero ed intensità dei compiti e dei vari impegni, che riescono sempre, in un modo o nell'altro, a mutilarmi i giorni, le settimane e quindi i mesi. Scusatemi.. Ma prometto che mi rifarò. Il capitolo nuovo è già pronto al 90%, e spero di finirlo il prima possibile. Ringrazio infinitamente tutti voi per aver commentato una fic (apparentemente) perduta nel tempo, per non esservi dimenticati di una sciocca ragazzina che scrive dell'unica cosa che le permette di respirare, di farle battere il cuore, e vibrare l'anima: la Musica (in particolare Loro, i Green Day). Ho tentato, per quanto possibile, di tornare all'accuratezza con cui scrivevo inizialmente i capitoli; questo, in particolare, potrebbe avere delle parti e dei collegamenti difficili da capire, e potrebbe risultare un po' ostico (secondo me, è colpa della colonna sonora. U_U raramente ho scritto dei capitoli senza la Loro musica come sottofondo..) e anche incomprensibile.
Va beh, ho parlato troppo. Commento velocemente ognuna delle vostre recensioni, che mi hanno reso davvero felice. Grazie!

 Drunky Bunny: Ah, tu il primo concerto.. Mi dispiace molto. Io almeno avevo già assistito ad altri due. Ti ringrazio per i complimenti, spero ti piaccia anche questo capitolo! (:

ginnyx: Ah, mia cara, mai perdere le speranze.. Anche se si tratta di una folle scrittrice (?) da due soldi che plagia le canzoni. XD Si, so bene che il capitolo non è stato curato come tutti gli altri, ma la motivazione, ahimé, trascendeva ciò che potevo fare; io ho fatto comunque il possibile. Ti ringrazio infinitamente per i complimenti; i tuoi sono davvero moooolto graditi. (; Ora ti lascio, sperando che Madame Ispirazione stavolta si sia fatta aspettare non invano! (:

409inMyCoffeeMaker: Erin.. Personaggio complesso. E' la figlia dell'odio e dell'amore, è genitrice di un sentimento tutto suo, è sorella della Ribellione. E' una storia difficile, la sua. Non la solita storia di perdite e traumatica infanzia, è la storia di qualcuno che ha trovato la forza di urlare, quando il silenzio possedeva ogni cosa, quando il silenzio era il nemico.
.. Lo scoprirai molto presto, cosa si nasconde dietro a quest'ombra, a questa figura. Intanto, spero ti piaccia questo capitolo.. E grazie per le tue meravigliose recensioni. (:

Asuka96: Martina, che piacere leggere una tua recensione. (: Ti ringrazio infinitamente, anche per me incontrarti all'HJF è stata una (l'unica?) piacevole sorpresa. Non so davvero come ringraziarti per tutti questi commenti (immeritatissimi, per altro); il mio modo di scrivere è dotato di una forza propria, dici.. Ma io credo che le parole abbiano una forza solo quando vengono lette o dette come tali. Come parole cariche di un significato più profondo, più forte, più "scavato". La forza, alle mie parole.. La date voi, leggendole. La dai tu. Quindi, sono io a doverti ringraziare.
Grazie infinite di tutto, e scusami per non aver avuto tempo di rispondere a dovere al tuo magnifico commento. Spero ti piaccia questo nuovo capitolo.. (:

Bubiii: E io che ero sul punto di scrivere "Puscia:", pensa te. .-.
PUSCIAAA. <3 Non hai idea di quanto tu mi abbia fatto piacere vederti recensire queste quattro ca.. ehm, questi quattro pensieri in croce; di volta in volta avanzavi di un capitolo, raggiungevi un piccolo traguardo, e hai disseminato pezzi della tua gloria di Scalatrice di Fan Fiction in giro per le tue meravigliose recensioni (non mi chiedere il significato di questo assurdo viaggio mentale.. .-. Non so neanche da dove venga..).
Ah, Paris. Il nostro luogo d'incontro; il luogo del ricordo smarrito, e di tante altre cose. ..Che forse non voglio ricordare, non ora.
"Home is where your heart is", Ire. E noi, il nostro cuore, lo avevamo lasciato lì. In quella città. In quell'arena. Su quel palco. .. E forse, da allora, non lo abbiamo mai riavuto indietro. (Anche se io, il mio, di cuore, l'ho lasciato a Bologna, l'undici Novembre..).
Erin is me, my friend. In un certo senso, mi sto rendendo conto che tutto ciò che io non ho mai scritto sui concerti, sulle mie esperienze pre e post.. Me lo sta dicendo lei. Lei sta (ri)vivendo per me ogni singolo attimo, ogni emozione. E mi aiuta, tanto. E' come un'amica, ormai.
Però Erin è anche tutte voi. She is whoever you'll want her to be. Me, you. Anybody.
Ora ti lascio, Puscia. Ti voglio bene, si? (: Ti piace il capitolo nuovo, si? (: Bààii.


Dedico questo capitolo alla Ire (la cara Bubiii), che non solo ha avuto il coraggio di leggersi tutta la fic, e arrivare fino ad ora, ma si è anche rivelata essere un'aiuto inestimabile.

Bene, vi lascio. Buona lettura.. e, come sempre.. COMMENTATE! (:

PS: Scusatemi tantissimo per eventuali errori di vocali scambiate, orrori di sgrammatica e via dicendo; purtroppo tendo a scrivere di sera,  e non mi accorgo degli errori che faccio.






Titolo: My Messiah is long gone.
Soundtrack: The Man Who Sold the World (Cover), Nirvana





But every night I burn, But every night I call your name.
Every night I burn, Every night I fall again.

[Burn, The Cure]






Charlie cominciò a correre, sentendo l'erba spazzolargli contro le scarpe già leggermente schizzate di fango, tentando di intuire la traiettoria della palla, scorgendola sfrecciare poco oltre il suo piccolo naso a patata.

Quella piccola, dura sfera bianca sfrecciava oltre il cappellino degli Yankees, che il suo Daddy gli aveva portato poche settimane prima da New York, al ritorno da uno degli innumerevoli viaggi di lavoro che lo costringevano a macinare troppi chilometri in pochissimi giorni, a volte anche ore; Charlie non lo aveva più levato dalla sua piccola testolina mora da allora.

Girandosi di colpo, il bambino provò la familiare soddisfazione nel sentir atterrare la palla da baseball praticamente in grembo, perfettamente al centro del suo guantone esageratamente fuori misura per quelle piccole dita tozze. Cominciò a saltellare animatamente, mentre esibiva un sorrisone sdentato verso la figura che lo osservava attentamente con uno sguardo paterno ed orgoglioso.

“L'ho presa, Daddy! L'ho presa! Battitore eliminato, battitore eliminato!1” Trillò il bambino, sgambettando verso il padre, che si rassegnava con finto dispiacere a cedere il suo posto da battitore.

Charlie corse in braccio al padre, che lo aspettava a braccia aperte, pronto ad accogliere il suo piccolo campione.

Qualcuno, non troppo distante, stava osservando Charlie con lo stesso sguardo paterno ed adorante.

Tuttavia, non era Charlie che vedeva, negli occhi della sua mente, bensì il suo, di figlio; stesse gambette tozze, stessa capigliatura scura e ribelle, stessa passione per il baseball.

Vedeva se stesso e suo figlio, il minore, tentare di correre dietro ad una palla che il fratello maggiore aveva battuto con una forza tale da girare su se stesso. Vedeva una ombra morbida e familiare sotto un albero appena fuori il campo da baseball osservare con dolcezza infinita quel trio di bambini; chi evidentemente tali, e chi, se non nell'aspetto, sicuramente nell'anima. Vedeva se stesso caricare in spalla il piccolo Jakob e girare velocemente su se stesso, facendolo scoppiare in una risata a dir poco contagiosa, a cui si univa il maggiore dei due, Joseph, che si lasciava cadere, felicemente stanco, sull'erba accarezzata dal sole.

.. Ma non era il nome di Jakob che sentiva chiamare. E non era neanche quello di Joey.

Era il nome di qualcun altro; qualcuno a cui altri erano affezionati, qualcuno che altri abbracciavano, qualcuno che altri chiamavano e qualcuno con cui altri venivano a giocare a baseball. Non era il nome del suo Jakob, o del suo Joey. Era il nome di qualcun altro.

Ma sopratutto.. Vedeva se stesso. E il proprio padre.

Quello di cui non avrebbe mai dimenticato il viso, e il sorriso gentile. Il calore dei suoi abbracci. Quello che riusciva a vedere, con un ricordo quasi nitidamente reale, lanciare la palla da baseball così in alto che, dalla sua ridotta visuale di bambino, era sicuro di veder superare la vecchia staccionata, e finire nel giardino dei vicini. Quello che lo caricava in spalla e, tra le risa dell'uno e dell'altro, lo faceva roteare così forte da lasciargli sfuggire da quelle piccole, rosee labbra qualche gridolino di piacere.

E vedeva le sue labbra muoversi, scure e sottili, per chiamarlo, in un sorriso sempre presente, orgoglioso e anche un po' birichino, mentre aspettava che gli corresse incontro con il suo solito zelo di bambino.

.. E, nonostante fosse il suo nome che sentiva chiamare in quel momento, non era la voce profonda e dolce del padre che sentiva risuonare nelle proprie orecchie.

Era quella nasale, perennemente allucinata e cazzona di Tré Cool.

“Hey, Billie! .. Biiillieee!” urlò, allungando con tono svogliato le vocali del nome del frontman, nonostante stesse energicamente sgambettando verso il compare, seduto sul muretto appena fuori la rete che circondava il campo da baseball. Dentro di esso, padre e figlio si avviavano verso l'uscita del campo, tenendosi per mano, il bambino impegnato in un'animata descrizione di chissà cosa.

Earth to Billie, come in Billie..2 Gli sibilò Cool, improvvisamente ad un palmo di distanza dall'orecchio; con le mani chiuse sopra la bocca, tentando di imitare la voce metallizzata degli astronauti. Billie spostò lo sguardo, degnando finalmente di uno sguardo il povero batterista; un sorriso spezzato e uno sguardo che celava malamente il dolore fu tutto ciò che gli rivolse, momentaneamente incapace di mascherare l'anima.

Tré lo fissò, contrariato (nonostante fosse incapace, per indole, di ostentare un'espressione seria), le braccia pallidissime piantate sui fianchi. Billie non poté che sbuffare, semi-divertito, nel vedere il suo amico tentare di fare il serio; già il fatto che indossasse un maglioncino color cachi sopra dei pantaloni viola e fucsia a quadri in stile scozzese gli impediva di tenere il muso, ma anche di credere che la sua fosse vera ed autentica serietà.

Dopo qualche attimo, la mano grassottella di Tré Cool si piazzò sulla spalla di Billie con un sonoro schiaffo, mentre sul suo viso si faceva velocemente strada il suo sorriso trademark, che esprimeva in modo chiaro ed immediato la sua indole ilare e cazzona.

“Billie, don't fret, che ti troviamo un bel pargoletto da spupazzare entro prossimo show, ok? Sta' tranquillo. In alternativa, Mike sarà felicissimo di infilarsi un succhiotto in bocca e lasciarsi coccolare da mamma Billie, con tanto di cuffietta di pizzo e un sonaglio quattrocorde! Lascia fare allo zio Frank..” Annunciò con fare complice, dando di gomito tra le costole del frontman con l'aria di chi la sa lunga.

Vedendo che la reazione di Billie ritardava a manifestarsi, Cool sfoderò dalla sua tasca una serie di fogli spiegazzati, piazzandoli davanti agli occhi di Billie con uno scenico “Ta-dah” e un sorriso a trentadue denti.

“E' la lista delle richieste per le interviste..” aggiunse, in risposta all'occhiata perplessa del moro “Sono tutti giornali importanti, però c'è anche qualche pesce piccolo che quella sant'anima del nostro paparino ci ha infilato. .. Non mi chiedere quali siano, però; la replica della seconda serie di Beautiful non ha prezzo.” Pronunciò con aria sognante, ripensando alla scena struggente della dichiarazione d'amore tra Bridget e Nick, che lo aveva costretto a stare incollato davanti allo schermo di casa per più di due ore, armato di fazzoletti e pop-corn al caramello, noncurante della lunga spiegazione riguardo la lista appena sfornata di nominativi, che il manager aveva per lungo tempo, ed invano, sventolato davanti al naso del batterista, che a malapena si rendeva conto della sua presenza. “Il nostro paparino ha intuito che non avevamo una gran voglia di macinare chilometri solo per fare del gossip con una gallinella californiana.. Anche se a me, l'idea non dispiaceva affatto..” Aggiunse sussurrando, sghignazzando con finta complicità, mentre Billie allungava la mano verso il foglio, scorrendo con magra curiosità tra i nomi, in gran parte a lui sconosciuti. Non si reputava un grande fan dei tabloid.

Il suo sguardo scorse immediatamente alcune delle riviste più note, a cui però aveva ben poco desiderio di concedere anche una minuscola fetta del suo tempo libero, anche solo per sentir tessere le lodi della sua ultima creatura, 21st Century Breakdown e di come, anche a distanza ormai di quasi un anno e mezzo, stesse ancora ottenendo grandi risultati, spesso sperati e attesi, in quanto degno erede del suo predecessore, American Idiot.

Scoraggiato e poco interessato, Billie pensò a come venissero ingiustamente scartati i nomi locali, provinciali, in virtù della loro scarsa notorietà, mai giudicati in base alla veridicità e attendibilità delle proprie notizie o alla bravura dei propri dipendenti. Ed era una cosa che purtroppo si estendeva a qualunque ambito, dall'economico al politico.

Picchiettò delicatamente l'indice su un nome quasi in cima alla prima colonna.

The Suburbia Journal.” pronunciò, in un sussurro, quasi tra se e se “Dove ha la sede?”

Tré fece spallucce, poco interessato a quel nome poco rilevante e posto decisamente e miseramente in basso nella sua scala d'interesse.

“Credo sia di Oakland, ma non ci scommetterei. ..” Mormorò disinteressato Cool, il suo sguardo attratto da una ventina di ragazze in tuta che, entrate nel campo da baseball, cominciavano un energico riscaldamento. “Di' un po', Armstrong, non preferiresti forse portarti a casa una di quelle PPP: pupe perfettamente palestrate?” E giù ancora con quel sorrisetto da intenditore e un movimento di sopracciglia fin troppo eloquente.

Billie osservò quel nome a lungo. Non era detto che fosse ispirato a "Jesus of Suburbia", sarebbe potuta tranquillamente essere una coincidenza, dato anche l'utilizzo sempre più ampio della parola, che andava a ricoprire un ambito semantico sempre maggiore. Non era detto che fosse un giornale interessante, politicamente influenzato o meno, o anche soltanto che fosse interessato ad intervistare i Green Day per ciò che erano, ovvero veterani della scena musicale internazionale nonché una delle band più sotto i riflettori dall'uscita dell'ultimo album, ma semplicemente un buon modo per ottenere quel palcoscenico tanto anelato che era costituito principalmente dai grandi nomi giornalistici della Bay Area.

Nonostante tutti le mille preoccupazioni e i mille pensieri che gli spuntavano in mente, la sola l'idea di poter visitare una modesta, locale redazione, per altro senza dover fare grandi viaggi, non gli dispiaceva, anche solo per assaporare un po' di meno l'atmosfera della notorietà e un po' di più quella dell'anonima normalità, che sentiva in quel momento come poche altre volte mancargli tanto da tormentargli la mente come un fastidioso, piccolo e insistente tarlo.

Forse non sarebbe stato poi tanto male immaginare un piccolo ufficio messo sottosopra dalle nenie del folle batterista, o rincoglionire il povero intervistatore con i sottili ma onnipresenti giochi di parole suoi e di Mike.. E poi, ci avrebbero beneficiato entrambi. Se davvero i fan chiamavano così tanto a gran voce un ritorno alle origini da parte dei re indiscussi del punk, forse, prima della loro musica, loro stessi dovevano imparare di nuovo a vivere la vita più come uomini e meno come semi-dei idolatrati come tali, nonostante nessuno dei tre si fosse mai montato la testa o avesse approfittato della propria fama.

"Hey, Bì.. Mike e White ci stanno aspettando per una bella pinta di bionda. Ti accodi o resti qui ad aspettare il Messia?" Domandò il batterista, arricciando il naso in una smorfia di perplessità, tentando di capire cosa stesse passando per la mente contorta del suo amico. .. Forse aveva veramente bisogno di un amico dello zio Frank e delle sue note amiche notturne, pensò, inarcando un sopracciglio, mentre sceglieva quale giorno sarebbe stato adatto ad una simile sorpresa, forse non necessariamente gradita dall'integerrimo e fedele frontman.
"My messiah is long dead, Tré." Mormorò a denti stretti il moro, saltando giù del muretto su cui era seduto da chissà quante ore, assorto, la sua mente avvoltolata in innumerevoli e complessi ricordi, pensieri e parole.
Cominciando a camminare verso la macchina di Cool, parcheggiata qualche decina di metri più giù, gesticolò concitatamente verso quest'ultimo. "Mike ci aspetta, Tré; Cm'on!" Intimò energicamente all'amico, rimasto ancora con il braccio a mezz'aria, con i fogli dei nominativi in mano, rimasto alquanto interdetto dal suo repentino cambiamento.
Facendo spallucce, Tré si avviò sgambettando verso l'amico, scegliendo di ignorare un comportamento che andava diventando sempre più strano, incostante e in continuo cambiamento.
.. Sperava soltanto non si trattasse di una crisi d'età fin troppo prematura.

-

Un calore improvviso ed una zaffata di odore nettamente alcolico investì le narici di Billie, stordendolo per qualche attimo, mentre Tré, al suo fianco, entrava sicuro in quello che sembrava essere il suo habitat naturale - palco per concerti escluso.
"Hey, bambola! Indovina un po' chi è tornato?" Una mora, ben in carne e dalle forme generose, si sporse appena oltre il bancone, sentendo le squillanti parole del batterista, che si avvicinava spavaldo. "Di' un po', dolcezza.. Hai visto Mikey e gli altri? Sono arrivati?" Le chiese, dopo qualche parola svelta e concitata, e qualche occhiata tutt'altro che fredda e disinteressata da parte della barista verso Billie che, dal canto suo, non osava avvicinarsi al duo; il suo sguardo vagava senza meta in quel posto familiare dove, per anni, Tré li aveva portati per delle sonore sbronze con della buona birra da pub Irlandese. Dopo un veloce cenno di dissenso della donna, Tré si avviò verso un tavolo in fondo alla sala, dove svettavano vecchie sedie in legno e tavoli rustici d'altrettanta fattura.
"Ehi, Dolly.. Ci porteresti una bionda a testa? Poi quando arrivano gli altri passiamo a roba più seria", Seduto comodamente al tavolo, con Billie di fronte, Tré gesticolò appena, quasi conscio del doppio senso di cui le sue parole sembravano essere perennemente intrise. "Allora, Bì.. Vuoi spiegare allo zio Frank cosa ti passa per quel meraviglioso zuccone? Non sarò Mikey, certo; lui si che sa ascoltare, cazzo. Mi ricordo quella volta di quando gli ho parlato di Frankito, e di come quei fottuti pannolini finissero sempre al rovescio anche quando tu ce li mettevi bene, e poi ti ci impegnavi, mica per niente..-"
"Non è niente, Tré." Interruppe bruscamente Billie, nonostante il suo sguardo fosse concentrato sulle sue mani giunte, davanti a sé, sopra al tavolo; emanava un'aria stanca, assente.. Quasi fosse passivamente assorto in pensieri con cui avrebbe preferito non convivere. "Proprio niente. .. Non insistere." Ripeté, stavolta con più enfasi, lasciando che il suo sguardo saettasse qualche attimo verso il volto perplesso del batterista, che aveva sperato, fino a quel momento, in cuor suo, che fosse semplicemente un problema di momentaneo giramento di palle; se non avesse conosciuto a fondo l'amico, avrebbe subito bollato l'accaduto come "menopausa maschile".. O, in alternativa, più semplicemente, uno scazzo temporaneo.
".. Ecco, lo sapevo. Mi hai depresso il frontman." Una voce, improvvisa, gioviale, altalenante nel tono, irruppe nel breve silenzio tra i due musicisti. "Tré, sei proprio un coglione. Fattelo dire." Seguito a ruota da Jason, il cui volto appariva più che mai imperscrutabile, complici le luci soffuse del vecchio locale, Mike si lasciò cadere pesantemente su una sedia accanto al batterista, occupato a finire le ultime gocce della sua birra, arrivata non molto tempo prima.
"Ehi, non è colpa mia, accidenti. L'ho trovato che se ne stava a fare il povero cucciolo abbandonato vicino al campo da baseball del Sobrante Park" Si giustificò Tré, gesticolando, cercando di pensare ad una buona scusa per motivare quegli improvvisi cambiamenti d'umore del frontman, che il suo istinto gli suggeriva non essere stato l'unico a notare.

Non ci pensare, idiota. Non ci pensare. O lo dimentichi? .. Lo hai già dimenticato?
L'hai dimenticata, la sconfitta? E l'umiliazione? Sobrante. Sobrante.. Lui, lo hai dimenticato?
Ricorda, Billie. Ricorda di dimenticare ciò che hai perso. .. Hai ceduto. Lo hai già dimenticato?
Non credere di essere stato l'unico a cedere. Tutti, ad un certo punto, devono cedere. Ricordi? La mamma non ce la faceva. Lo diceva lei stesso. Diceva di non ricordare neanche perché vivesse ancora.
Sobrante, fanculo, ha ceduto anche lui. Lui per primo. Ha preferito lo studio alla musica. La serietà al divertimento. Le lacrime alla gioia.. Sobrante. Al Sobrante. Al.. John. Chissà dov'è adesso.
Ogni volta.. La mamma diceva di non farcela. .. Perché?

"Perché, senti un po', Jason.. Non puoi pretendere che la gente vada in giro a chiacchierare con l'altra gente, e sperare che tengano la bocca chiusa. Non puoi.. Capisci? La gente parla, la gente racconta, la gente spiffera. .. La fottutissima gente sapeva che avremmo firmato per quella fottutissima major prima di noi, cazzo!" Esclamò Tré, infervorato, preso da chissà quale assurdo argomento.
White, interdetto, alzò il dito, pronto a rispondere, quando furono piazzati davanti quattro bicchieri pieni di liquido ambrato. "Hey, Frosco, Jack è mio.. Mio! Capisci?!3" rimproverò piccato il batterista, mentre allungava le sue dita tozze verso il bicchiere quasi pieno del liquido dorato.
"Hey, Cool.. Pat te l'ha più data la lista delle interviste? Perché se non abbiamo ancora preso impegni, pensavo di fare un grosso Thanksgiving tutti insieme.. Sai, invitare un po' di amici.. L'anno scorso ce l'abbiamo a malapena fatta a ritornare dall'Italia. Adie e Brit erano incazzate da morire.." Propose Dirnt, tentando di attirare l'attenzione di Tré, dopo che quest'ultimo aveva cominciato a bere dal bicchiere di White con un'assurda cannuccia rosa che aveva tirato fuori da chissà dove.

Adie.. Adie! Ah, non respiro. Non respiro, manca l'aria.. L'aria..
Adie, dove sei? Perché sei andata via? Perché sei tornata? .. Perché mi hai rubato l'anima? .. Il cuore? .. La ragione? ..
Adie, perché mi hai rubato il respiro?
.. Lo ricordo ancora, sai? L'ultimo Thanksgiving. Cazzo, che tacchino..
Sembrava uno di quelli che cucinava Andy. Ricordo anche quelli. Uno di quelli che sognavi per tutto l'anno, e che quando si avvicinava Novembre già ne sentivi l'odore..
C'erano Joey, e Jakob.. E Mike, e Tre.. C'erano tutti. Tu, però.. Tu c'eri?
Non ti ricordo. Non ricordo che la tua ombra, Adie. Non ricordo che i tuoi singhiozzi. Non ricordo che il tuo sorriso sconfitto di fronte ai miei fallimenti, alle mie assenze, alle mie incomprensioni. Non riconosco che i vuoti che mi hai lasciato, Adrienne.
Quelli..
Quelli li ricordo bene.

"Santoddio, non capisci?! Nessuno si prende la briga di andare nella maledettissima savana o che so io, Cool. I bimbi vanno saltellando per i vialetti e vedono i leoni, le zebre, gli elefanti.. E le mucche! Di' un po', tu ce lo porteresti tuo figlio a vedere una mucca fottutamente selvaggia?!"
Jason puntò il dito sul tavolo, deciso a far valere il suo punto, per nulla intimorito dallo sguardo assurdamente serio e semi-posseduto del batterista, che lo osservava a braccia conserte, mentre Mike, del tutto disinteressato alla questione, ordinava quello che sarebbe potuto essere tanto il terzo quanto il quinto round di alcolici.
"Io credo che gli animali dello zoo debbano essere rispettati, cazzo. Siamo animali anche noi, o no?! Insomma, a noi mica nessuno ci tiene dentro una gabbia!" Rettificò il batterista e, prima ancora che potesse continuare con il suo discorso, White ribattè, agitando il dito con fare infervorato, approfittando dell'interruzione offerta dalla barista che raccoglieva i bicchieri.
"Si, invece: il Potente! Il grande Jack Black non ti ha insegnato niente? Il potente, amico! Il potente!"
Mike lanciò un'occhiata di sottecchi al frontman, che, in più di un'ora che si trovavano lì, non aveva proferito mezza parola. Sfortunatamente, il bassista conosceva l'amico anche troppo bene per confondere il suo per un semplice cattivo umore passeggero.
"Va bene, Jason, allora.. Facciamo così. Ti porto allo zoo, ok? Così vediamo se "il Potente" ha ancora voglia di scherzare dietro ad un paio di sbarre e con una banana in mano! Te lo prometto, ti ci porto.. Domani stesso!" Proclamò con aria teatrale Tré, gesticolando.

Non capisco. Cos'altro c'è che non va? What the hell is wrong with me?
Fatemi dimenticare.. Vi prego.. Domani stesso.
Domani.
.. Domani?

"Domani andiamo al Suburbia Journal." Annunciò Billie, alzandosi di colpo dalla sua sedia, piazzando le mani sul tavolo, la schiena appena china in avanti, guardando dritto negli occhi a turno ognuno dei tre; Jason, ancora poco abituato, nonostante i lunghi anni passati in loro compagnia, ai continui, altalenanti sbalzi tra calma e follia, lo osservò con gli occhi sbarrati, allucinati. Tré si limitò ad un'alzata di sopracciglio. Mike, visibilmente preoccupato, aspettava chiarimenti che, forse, conoscendo Billie e riconoscendo nei suoi umori più recenti non solo un'imprevedibilità estrema, ma anche una vena di follia allo stato puro, non avrebbe mai ricevuto.
".. Il Principino Verde si è svegliato, bimbi! Accorrete al reame, dolciumi e caramelline per tutti!" Sghignazzò Tré, battendo le mani e ridacchiando, interrompendo quello che sembrava poter facilmente divenire un interminabile silenzio.
"Billie, what the hell?! Siediti un secondo, parliamone.. Dimmi di che cosa di tratta.." Tentò il bassista, allungando quasi timidamente una mano verso il pallido braccio del cantante. "Avanti, siedi.."
Billie ritirò il braccio, improvvisamente, lanciando all'amico un'occhiata carica d'astio. "E' solo una fottutissima intervista, Mike." Ringhiò bruscamente, avvelenato dal comportamento dell'amico, che gli appariva più che mai incomprensibile. Erano davvero arrivati al punto di non potersi più abbassare ad un nome sconosciuto per concedere loro un po' della fortuna che avevano ricevuto in sorte? Erano davvero arrivati al punto dove lo sguardo d'intesa, la comprensione non bastavano più a mantenere così eternamente saldi quei rapporti?
"Fanculo." mormorando a denti stretti le poche sillabe, Billie si separò bruscamente dal tavolo e dai tre compari, avviandosi velocemente verso la porta del locale, che sbatté dietro spalle con un rumore secco e improvviso.
Scambiandosi perplesse e preoccupate occhiate tra di loro, Jason e Tré fecero spallucce, tentando di capire cosa accidenti stesse passando per la mente del loro amato leader. "He's the boss." Giustificò Cool, alzando le braccia e sventolando le mani alzate in segno di resa e ignoranza in merito.
Mike, preoccupato, si alzò di scatto, intenzionato a seguire l'amico; se non per parlargli, almeno per assicurarsi che i demoni che dimoravano nella sua ombra, in quell'ombra che sembrava accompagnarlo da mesi, ormai, non avessero la meglio.
Per assicurare, soprattutto a se stesso, di non aver perso il proprio migliore amico.. Non ancora del tutto, almeno.

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1) Battitore eliminato: per chi non lo sapesse, è, in parole povere. quando nel baseball la balla colpita dal battitore viene presa al volo da uno dell'altra squadra.

2) Earth to Billie.. Come in Billie: E' come dire "terra chiama Billie", o qualcosa di simile.

3) Frosco: Il nome di Jason nei Foxboro Hot Tubs. (Frosco Lee per intero); Jack: chiaramente riferito al Jack Daniel's.. Lo so, specificazione inutile. XD Scusate.

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Capitolo 13
*** Hey, Suburbia! ***


Author's Notes: Questo capitolo ci ha messo davvero più del dovuto; e pensare che la seconda metà era già stata scritta da tempo immemore.. (Almeno però è venuto lungo!) Sarà la scuola, ormai ricominciata a piena forza, sarà l'indolenza, sarà che aspettavo alcune recensioni che non ho visto.. E ahimé, io sono profondamente dipendente dalle recensioni. Proprio per questo vorrei ringraziare Malakite (Puscia! <3), come sempre aiuto insostituibile, ShopaHolic, la Grande Ema (Guitarist_Inside) e Asuka96. Siete davvero state il motore che mi ha spronato a continuare. Grazie anche a chi legge, o mi mette tra i preferiti et cetera. (:
A parte ciò, questo capitolo segna decisamente una svolta nella storia; da ora le cose prenderanno una piega decisamente più movimentata.
Spero davvero che vi piaccia. :D
Due righe di risposta ad ognuna delle meravigliose persone che hanno commentato:

Malakite: Intanto, un grazie enorme a te, Mon Puscia, perché sei sempre così meravigliosamente aiutante e disponibòl! *3* Sono molto contenta che ti sia piaciuta la parte iniziale, ma soprattutto che il fatto che, avendola scritta io, non l'abbia resa pesante e forse difficile da leggere. E' stato un pochino difficile scrivere quella parte, devo dirti, perché non è facile scrivere di emozioni e pensieri, in questo caso paterni, che io non ho mai provato in vita mia. Sono solo una ragazzina, cosa posso saperne? Eppure, ci sono riuscita. (: Grazie. Anche per avermi dato quel meraviglioso nome, che ora ci porteremo appresso per molto, moltissimo tempo.. Vedrai, mia cara! With love, Puscetta.

ShopaHolic: Intanto ti ringrazio, tu mi lusinghi davvero. E io che ti ammiro instancabilmente per molte cose che hai scritto, prima di tutto per "No Billie Joe, grazie a te", che personalmente ritengo.. Indescrivibile, letteralmente. E' meravigliosa. Così perfetta, nella semplicità di ogni parola..
A parte ciò, non so davvero come ringraziarti per tutti questi complimenti (immeritatissimi, secondo me.. però grazie comunque), spero davvero che, andando avanti, tutte queste caratteristiche che ti piacciono così tanto del mio stile non vengano meno; spero infatti che questo capitolo ti piaccia, mi ci sono impegnata parecchio. (; Anyway, sappi che da ora in poi questo "misterioso" personaggio di Erin andrà piano piano "schiarendosi" (ma mai chiarendosi, perché è molto complesso e non sarà mai del tutto svelato) e vedrai come imparerà ad interagire anche con questo Billie così vicino al Billie reale che immagini tu. Insomma, grazie mille ancora una volta. (:

Guitarist_Inside:"Ti risucchia in un dannatissimo tornado che cattura i tuoi occhi sullo schermo per tutta la durata della narrazione" .. Ecco, donna, ora dimmi: come dovrei rispondere io? Non so. Tu mi scrivi elogi su complimenti per il mio personalissimo "sclero mentale formato famiglia".. E poi boh. IO ti stimo, per ciò che scrivi, per ciò che fai, e poi tu.. *3* Grazie. Non so neanche mettere due parole di fila che abbiano senso, ma grazie.
Chapter 10: Sono contenta che anche secondo te Billie non sia apparso come completamente OOC, oltre che come uno schizofrenico diosolosacosa. Quella frase che hai citato piace inspiegabilmente anche a me, ma sono contenta che tu l'abbia scelta fra tutte. Spesso e volentieri in una frase c'è tutto, tutta l'essenza di ciò che si scrive. E non è poi così facile, quando si vorrebbe parlare e dire ogni cosa che ti passa per la testa.
Chapter 11: Si, beh, gran bella gratitudine che devo a quel HJF demmerd; onestamente, se non fosse che mi ha permesso di (ri)-incontrare così tanta gente, brucerei volentieri ogni traccia che ne rimane. Lo sai che ho ancora quel fottutissimo braccialetto verde al polso? .___. Tra poco saranno cinque mesi e io ancora ce l'ho. Insomma, è dura parlarne, per tutti. Lo sappiamo.
Sono contenta che ti sia piaciuto il capitolo, anche se semi-incasinato e caotico. E decisamente plagiante a tutti gli effetti!
Chapter 12: "un Billie a cui manca l’affetto paterno. Sia quello suo verso i suoi figli che gli mancano indescrivibilmente, sia quello troppo presto mancato da parte del padre, che, se possibile, gli manca ancor di più"; ci hai preso in pieno, darlin'. Il punto è esattamente quello.
Billie è perso. Senza padre, senza essere padre. Di certo non deve essere facile. Poi piccole aggiunte simpatiche, da quella improvvisa comparsa del Tré compicoglioni al riferimento a School Of Rock, che sono contentissima che tu abbia colto. Onestamente, quella conversazione è stata scritta in un momento di delirio. XD E' veramente uscita così, dal nulla della mia follia.
Ora vedrai, mia cara.. E forse non sei poi così lontana dalla verità.. (; See ya soon, grrl! :D An' thanks again!

Asuka96: Un film, ecco cos'era. Una scena, un primo piano, forse al rallentatore, con questo bambino carezzato dal vento, e.. Come l'hai capito? Era proprio quello, ciò a cui pensavo. Un film.. Una cosa che rimanesse impressa, marchiata a fuoco nella mente. E poi "ricordi di una vita mai vissuta", è meravigliosa quest'espressione, non saprei perfettamente dirti perché, ma combacia con ciò che ho scritto, e che pensavo. E' perfetta. (: E poi Billie è anche me, ma sono contenta di sapere che riesci ad immedesimartici.. E' quello il mio intento, principalmente. La verità assoluta, ma personale, come quella di Socrate; un'emozione mia, personale, ma che vedo che anche gli altri condividono. Mi fa sentire benissimo.
Grazie ancora, e spero davvero che ti piaccia il nuovo capitolo. (:

Questo capitolo lo dedico a mia madre, anche se probabilmente questo non lo saprà mai. (:
Fatemi sapere che ne pensate, mi raccomando. (: Ci tengo.






Titolo: Hey, Suburbia!
Soundtrack: Minority, Green Day; Hopeless Dreamer, Nasty Cats



"Idealism is guilty middle-class bullshit"
[SubUrbia (1996)]




Lasciando che il suo sguardo corresse lentamente su quella stanza gremita e vivace di colori e suoni, Billie si addentrò ancora di qualche passo. Nel tentativo di trovare un qualche punto di riferimento tra quei volti fin ad allora inesistiti per lui, sperò di essere notato da uno dei dipendenti, che sembravano tuttavia indaffarati e pieni fino al collo di quella frenesia che tanto gli sembrava sconosciuta. La sua, di frenesia, era piuttosto data da una prestazione che faceva pieno affidamento sugli altri, e raramente su se stesso, se non nel momento cruciale in cui ogni cosa si annullava in quelle ore dove regnava l'emozione e l'energia allo stato più puro, in quel tempo in cui ogni sforzo compiuto dai suoi collaboratori (e che si ostinava a chiamare tali, o colleghi) era gratificato ed esaltato nell'espressione più pura della musica stessa.
Solo in quell'attimo si rese conto di quanto la sua mossa fosse stata avventata e forse anche egoista; la sua presenza, una volta riconosciuta, avrebbe probabilmente stravolto quei delicati ingranaggi che costituivano l'insieme di quel piccolo organo lavorativo.
Ma poco importava.
Si avvicinò a passi lenti verso una porta di legno laccato, dove svettava una targa dorata di cui, tuttavia, non riuscì a decifrare le lettere; nel tentativo di avvicinarsi ulteriormente, una figura gli occultò improvvisamente la vista, imponendogli prepotentemente alla vista una tonalità di carnagione olivastra e con un che di sintetico, e un sorriso scintillante e quanto mai languido.
Una donna, i cui trent'anni venivano evidenziati più dall'evidente desiderio di non mostrarli tramite vari ritocchi alla sua fisionomia che dagli effettivi segni del tempo, si accomodò dietro ad una scrivania.
"Buongiorno. .. Lei è?" Una viscida domanda e un ghigno d'altrettanta natura, e il frontman non fu più tanto sicuro della validità della propria idea.
".. Billie Joe Armstrong." Tentò casualmente, mentre lanciava un'occhiata all'ambiente attorno a se, sperando che quel nome, che quasi temeva di pronunciare, non fosse riconosciuto. "Il direttore può ricevermi?"
Qualcosa nella mente della donna dovette scattare, poiché, seppure l'identità dell'uomo di fronte a lei le era probabilmente sconosciuta, ogni cosa che le si parava davanti, se analizzata anche con minima cura, puntava ad una possibile fama di quest'ultimo.
"Ha un'appuntamento? La direttrice sa della sua presenza qui?" Al cenno di dissenso del cantante, la donna sfoderò l'ultimo sorriso, prima di abbassarsi sinuosamente sopra un microfono ed una segreteria, dove mormorò velocemente due parole, prima di rivolgersi di nuovo al suo ospite.
"Mi segua" aggiunse, girandosi, indicando con un movimento veloce dell'indice di seguirla sino alla porta in fondo alla stanza, dove Billie riuscì finalmente a leggere le parole incise nella targa, "Alice N. Scott, Dir.", poco prima che la sua attenzione, assieme al suo braccio (che la formosa donna aveva avuto cura di strattonare appena), venissero catturati dalla dipendente, che con gesto teatrale aprì la porta dell'ufficio e vi condusse l'uomo, ancora non completamente sicuro di essere padrone della propria autonomia, fintanto che fosse rimasto in quell'edificio, alla presenza di quella signora dai dubbi obiettivi.
La stanza che gli si parava davanti era semplice, arredata con il minimo necessario: un mobile a cassettoni, un tavolo con una macchinetta per il caffé americano, accanto alla quale svettavano pile di fogli ammassati alla rinfusa, una scrivania con due sedie sul lato più vicino alla porta. Ciò che, tuttavia, più lasciò il frontman piacevolmente spiazzato furono le pareti; tappezzate da cima a fondo (anche se tuttavia con criterio ed ordine), poster, articoli e locandine ufficiali ne riempivano ogni angolo. Il soggetto, soprattutto al diretto interessato, fu facile da intuire.
"Mi scusi, direttrice.. Ma il signor Billy.. Ehm, Joel Armstrong desidera parlarle. Posso farlo entrare?"
Due occhi, i cui pozzi neri delle iridi sembravano indistinguibili dalla pupilla, si sollevarono di scatto, e, nel momento in cui incontrarono quelli dell'uomo sulla soglia, perplessità, sorpresa e ansia li sconvolsero, fulminei. Il suo volto, i cui occhi nerastri rilucevano, scuri, sui lineamenti regolari e giovanili, era costellato di piccole efelidi marroncine, ed incorniciato da lunghe ciocche color paglia spento, che sfuggivano dispettose ad uno chignon improvvisato con due matite incrociate sulla nuca.
La giovane donna rimase impietrita per interi minuti, le sottili labbra aperte, appena boccheggianti; Billie sorrise appena, quasi egli stesso imbarazzato, quasi un intruso troppo ingombrante per quella piccola realtà, che era arrivato a sconvolgere senza riguardo.
Dopo qualche attimo, che sembrò eternità, Alice si alzò di colpo, e le sue labbra si arricciarono in un sorriso silenziosamente gioioso, eppure appena marcato dalla fugace apparizione del suo vero e proprio sorriso, bianco e gentile, da dietro quelle rosee labbra; i suoi occhi, tuttavia, brillavano d'una pienezza del cuore e di una sorpresa, di una gioia che rifulgeva di quella che appariva essere gratitudine.
Billie rimase del tutto spiazzato; quel turbine d'emozioni che gli piovevano addosso da quella ragazza sembravano essere un ciclone, un fulmine squarciante a ciel sereno, improvvisamente investito di chissà quale importanza.
.. Dopo più di vent'anni, ancora non era giunto alla piena accettazione di questo oneroso incarico; uomo, marito, padre, cantante, idolo, forse mezza-divinità. Billie viveva tutti questi ruoli, ma era, e si sentiva d'essere, a volte, molto meno.
"Io, ehm.. Piacere, Billie- Signor Armstrong." L'accento, che, nonostante potesse, ad un orecchio attento, apparire leggermente contaminato da quello americano, era fortemente riconoscibile a causa dell'inflessione, marcatamente irlandese.
Un'occhiata interdetta e Alice si rese conto che gli appellativi, onorifici, ufficiali o meno, non erano molto graditi, come aveva sospettato. Sorrise ancora, il cuore martellante nelle orecchie, mentre tentava, con le mani tremanti, di raccogliere la forza per porgergliene una delle due, possibilmente quella giusta.
".. Io la stimo, sa'?" Proferì, decisa, dopo essersi osservata le mani tremanti abbastanza a lungo, sperando in un'improvviso gesto di nobiltà da parte della propria dipendente, per aiutarla in quella situazione che sembrava uscita da un romanzo rosa di Nicholas Sparks. .. Non che ne avesse mai letti. Tuttavia, la donna era già uscita, intuendo forse dove la conversazione potesse andare a parare.
Billie sgranò appena gli occhi, poi sorridendo appena. "E io vorrei avere il numero del suo parrucchiere." esordì, con estrema serietà, forse non del tutto convinto che il suo fosse solamente un tentativo di alleggerire la situazione.
Alice scoppiò a ridere, con uno squillo argentino e breve che risuonò nell'aria, e sulle labbra del suo interlocutore il sorriso si fece strada con anche maggiore ampiezza.
Gesticolando appena verso le sedie sui due lati della scrivania, la direttrice chinò appena la testa. "Prego, si accomodi" Invitò, con voce ancora leggermente instabile, mentre si sedeva di fronte al cantante, mai abbandonando quel sorriso incredulo e felice che quasi le faceva venir voglia di piangere; anche se solo per un attimo.
Billie sorrise appena, ancora pienamente consapevole delle tante, piccole e grandi riproduzioni di se e della sua band, che tappezzavano i muri aranciati attorno a se. Alice sembrò intuire, perché arrossì, chinando appena la testa.
"Posso chiederle perché è qui?" Dopo qualche attimo, mentre gli occhi del cantante vagavano ancora nell'osservare l'ambiente circostante, la voce giovanile della donna interruppe i suoi pensieri, diretta.
Billie incrociò il suo sguardo con quello scuro della direttrice, mentre tentava anche egli stesso di estrapolare dalla sua mente, o di dedurre dalle sue azioni, il vero, logico motivo per cui si trovasse in quel luogo, a tu per tu con una donna mai vista prima; lei, invece, sembrava conoscerlo bene, a giudicare dalla passione evidente che sembrava voler uscire fuori da quegli stessi manifesti e articoli, appesi ed incorniciati alle sue spalle.
"Signor Armstrong, la prego di capire, io non avrei mai pensato che di tutte le innumerevoli riviste che le hanno certamente chiesto la sua disponibilità, lei scegliesse proprio la nostra; io non mi sono neanche lontanamente preparata ad una simile eventualità. La mia è stata una scelta avventata; anzi, a dirla tutta, non è stata neanche una mia scelta, ma ho fatto ciò in vista del suo ritorno alla Bay Area e del concerto che si è appena svolto alla Oracle Arena. .. Io, onestamente, non so neanche da dove cominciare, come intervistarla, a proposito di che, poi-"
".. Che cos'è Suburbia?" proferì improvvisamente Billie, mentre il fantasma di un sorriso gli increspava le labbra.
Alice si bloccò di colpo, sgranando gli occhi.
".. M-mi scusi?" Stringendo gli occhi, tentò di capire il senso di quella domanda.
"Cos'è Suburbia? Per lei. Per i fan. .. Per noi." Ripeté ancora il cantante, mentre i suoi occhi, con uno sguardo quasi paterno, cercavano nello sguardo, nel viso della sua interlocutrice una risposta che, forse, neanche lui conosceva. "Che cos'è Suburbia?"
Quello che era stato uno sguardo profondamente perplesso e confuso, diventò ben presto meravigliato, mentre quelle iridi profonde si dilatavano, come per l'improvvisa comprensione di qualcosa di enorme.
The rage and love; the story of my life. My home. My broken home. Where My heart beats the same; the same pace as the others'.
Il suo sorriso, prima appena accennato, fiorì improvvisamente, e il suo viso s'illuminò, come se avesse appena assistito ad un miracolo; e, forse, non era convinta che la realtà fosse tanto lontana da ciò.

-

"Io credo che sia un'ottima proposta, Sign- Ehm, Billie Joe.. Davvero, secondo me-"
Alice non potè finire la frase, che immediatamente il suo sguardo puntò la porta, e il sorriso, fino ad allora così magistralmente mostrato, le morì sulle labbra.
La porta dell'ufficio, infatti, si spalancò pochi secondi dopo; entrò, trafelatissimo, un uomo abbastanza giovane, sulla quarantina, con una faccia a metà tra il terrorizzato e l'arrabbiato.
"Mi perdoni, Capo, ma.. Io.. Non sapevo davvero come gestirla." Disse gesticolando il dipendente, prima che, dalle sue spalle, comparisse un'altro uomo, anche lui sulla quarantina; i suoi occhi spiritati la dicevano tutta, come anche il livido che andava formandosi sotto la sua mascella.
Alice sospirò profondamente, massaggiandosi le tempie, prima di lanciare al suo illustre ospite un'occhiata di scuse.
"Mi perdoni, Billie, ma, come sa.. Il lavoro chiama." Lui, di rimando, sorrise gentilmente, facendole segno con la mano che poteva tranquillamente andare, che l'avrebbe aspettata.
Alice si fiondò fuori della porta, sul punto di urlare quando fu davanti al penoso spettacolo della sua migliore amica; un labbro sanguinante e un articolo stretto convulsamente nella mano che andava gonfiandosi.
Erin si girò verso di lei con un sorriso soddisfatto, con un'aria di sfida.
"Ree, cosa è successo, ora?!" Alice perse quasi del tutto la pazienza, già immaginando il motivo di una tale zuffa. Accadeva spesso che tra i suoi dipendenti migliori, ovvero Erin e Nathan, entrambi eccellenti reporter, si verificassero degli scontri, che sfociavano spesso in insulti.. Ma questa volta avevano veramente superato il limite.
Erin si limitò ad alzarle il foglio che teneva in mano, che urlava con lettere cubitali: "Vittoria Schiacciante per il governatore della California" e sotto: "L'onestà e la perseveranza del candidato, ormai governatore, Gary Bakers, hanno avuto la meglio sul rivoluzionario Hanson, che ha subito una vergognosa sconfitta."
"Questo fottuto venduto.. - Gli affaticati respiri della migliore amica pesavano ognuno, singolarmente sul cuore della caporedattrice - .. Questo fottuto figlio di puttana vuole andare in giro per la Bay Area a raccontare stronzate.. Mentre io, qui, 365 giorni l'anno, combatto il sistema e l'intero paese per divulgare quattro notizie striminzite, ma notizie degne di quel nome! Non voglio essere presa in giro, va bene?! Bakers, quel fottuto cane, ha truccato le elezioni, si è comprato il voto di tutti quei degenerati degli americani.. E noi, che cosa facciamo?! Non solo non diciamo nulla, ma gli diamo anche ragione?! No, no.. Non esiste.."
Ritornò con estrema lentezza quello spavaldo sorriso sulle labbra di Erin, che scuoteva la testa con aria di finta resa.
Presala da parte, Alice la guardò dritta negli occhi, così vicina da avvertirne il fiato caldo sul collo.
"Erin, tu sei una scrittrice eccezionale, sei una reporter invidiata da chiunque, e ancora non capisco perché tu sia ancora in questo fottuto buco di topo, e non a lavorare per il Times, ok? .. But, you know, I can save your sorry ass no longer, if you keep on doing this. Ne ho avuto abbastanza. Non sei una ragazzina, mi capisci bene. So please, stop.1"
Piantati i suoi due occhi color topazio nei suoi, Erin la guardò dritto negli occhi, dando l'impressione di aver capito il messaggio, dopodiché sorrise appena, con pungente sarcasmo espressivo, l'espressione che mal celava l'estremo fastidio che le fremeva addosso, scivolando via da quell'angolo, e andando verso la sua scrivania, raccogliendo da lì la sua giacca e la sua borsa.
"Ci vediamo domani, 'Lice.." Detto questo, scomparì oltre la porta principale della redazione, che chiuse sbattendola alle sue spalle, lasciando Alice con un'aria perplessa e infastidita.
Billie Joe sorrise appena, appoggiando la spalla allo stipite della porta dell'ufficio della Capo-redattrice; aveva sentito tutto, ed era rimasto allo stesso tempo divertito e colpito da tutta la scena.
Sapeva della storia delle elezioni per il governo della California, e sapeva anche di quanto i media avessero mantenuto il silenzio, di quanto la gente, per strada, avesse paura a dire la verità, ad ammettere che chi li avrebbe governati per i successivi 4 anni era niente di meno che un truffatore, un uomo reo di frode.
Sistemandosi meglio il chiodo in pelle sulle spalle, Billie si incamminò verso Alice, che stava parlando con il povero malcapitato che aveva scritto l'articolo, impegnato a tenersi il ghiaccio sulla guancia e in parte sull'occhio, dove si andava sempre di più formando un grosso livido, nero e violaceo.
"Alice, io ora devo andare. Grazie per la disponibilità e garantisco che tornerò presto qui, magari per chiacchierare con un po' più di calma, va bene?"
Nonostante le insistenze di Alice nel cercare di mantenerlo più a lungo alla redazione, Billie declinò le offerte, avviandosi verso l'uscita.
Una volta fuori, notò che, alla sua destra, all'angolo dell'isolato, c'era la ragazza di prima; sorrise appena, e si avviò verso di lei.
La giovane stava rovistando nella borsa a tracolla nera, tirando fuori poi un pacchetto di sigarette da cui estrasse una sigaretta e l'accendino, che utilizzò, con mani tremanti.
Billie, che si dirigeva verso di lei, d'un tratto si fermò; le sue gambe si bloccarono, e una sensazione di smarrimento lo colpì improvvisamente. Il suo sguardo, prima ancorato con una tale determinazione su quella figura non troppo distante, era ora fisso a terra, appena oltre le due ombre delle proprie scarpe.
L'immagine della reazione della caporedattrice del Suburbia Journal gli ferì la mente, infastidendo e facendo germogliare ogni suo nascente dubbio.
Chi era lui per permettersi di imporre la sua presenza?
Forse credeva di poter apparire come dal nulla e giocare a fare il burattinaio con le vite altrui, ancora illuso di non essere nessuno nella sua piccola bolla d'ignoranza. Forse era ancora convinto che nel mondo la sua presenza e la sua opinione non contassero nulla. Forse ancora vedeva allo specchio quello stesso ragazzino con mille dubbi e più incertezze di più di vent'anni prima, che a fine giornata doveva scegliere se comprarsi da mangiare o fare il pieno per furgoncino.
I suoi occhi catturarono distrattamente la figura della giovane donna che spariva oltre il muro laterale dell'edificio, e le sue mani impresse ora nella sua mente, che tremavano, vacillando nella loro presa, non poterono che ricordargli la profonda fragilità della ragazza, seppur abilmente compensata da un feroce ardire e dal coraggio, che qualcosa gli suggeriva non essere troppo lontano da un'audace sfrontatezza.
Scosse appena la testa.
Forse non era poi così lontano dalla verità.
In fondo, chi era? Cos'era?
Who the hell do you think y'are?
Un uomo, uno su migliaia, su miliardi. Un uomo che nell'economia dell'esistenza di chiunque valeva come portatore d'intrattenimento, e ben poco di più. Cosa gli faceva pensare di essere qualcuno? Forse chiunque, a vederlo, per strada, si girava stupido a guardarlo, come una divinità scesa in terra?
Strinse i pugni, sentendosi più che mai insignificante, perso; avvertiva i denti, stretti sul labbro inferiore, penetrare a fondo, con una fitta di dolore.
Chi gli diceva che lei desiderasse un complimento per ciò che aveva detto e dimostrato d'essere? Chi gli assicurava che lei avrebbe accettato la sua benedizione? Cos'era, un fottutissimo prete?
Eppure, la verità non era troppo distante dall'uno né dall'altro pensiero.
Lui viveva immerso nelle sicurezze del suo lavoro, migliaia e migliaia di persone pendevano dalle sue labbra, ogni sua parola, ogni suo gesto era legge ed aveva un impatto profondo su quella schiera di gente che lo seguiva, chi da anni, chi da tempi più recenti, con più o meno interesse per alcuni, ed ossessione per altri.
Who do you think you're fucking around with, Billie?
In quel momento, spuntò fuori la ragazza, faticosamente portandosi dietro una vecchia bici, e, con un sospiro ed un ultimo tiro dalla sigaretta, si preparava ad affrontare chissà quale tragitto, diretta verso chissà quale meta.
Home.
Billie si sentì stupido. E piccolo.
Cosa credeva di poter insegnare a quella gente che non era neanche sicura che avrebbe vissuto sotto allo stesso tetto ad un mese di distanza? Chi si credeva d'essere, nel tentare di convincere che una luce, alla fine, c'era davvero, per tutti?
Lui non era più quello stesso ragazzino di Rodeo, cresciuto sotto le raffinerie, respirando povertà e gas nocivi. Non era più lo stesso giovane uomo, lacerato tra un gruppo sul filo del rasoio, in bilico tra fedeltà ai propri ideali, alle proprie radici e un salto nel vuoto che poteva rivelarsi tanto fruttuoso quanto disastroso, e una paternità forse fin troppo prematura. Non era più quel trentenne che aveva alzato la voce contro l'uomo più potente del mondo, e forse contro il mondo intero.
Non aveva più niente a che vedere con chi, la vita, la rischiava davvero. Con chi, giorno dopo giorno, combatteva.
Combatteva. Lei, combatteva.
E, mentre la guardava allontanarsi su quella malridotta bici, una fuggitiva da quell'ombra di conformismo e false ideologie, non poteva che avere una sola certezza, nella sua mente.
Nonostante tutto, lei combatteva.
E lui avrebbe di nuovo imparato a fare lo stesso.

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1 Traduzione: Non posso più pararti il culo, se continui a fare questo. […] Quindi, per piacere, finiscila. 

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Capitolo 14
*** How do you sleep? ***


fde new chapter Author's Notes: Questo non è un capitolo facile, né da capire, né lo è stato da scrivere. E' un capitolo breve, un capitolo anche troppo onirico, se volete. Ho scelto di non rivederlo più di tanto, è giusto così. Però è anche un capitolo che ha aspettato tanto prima di essere finito, il piccolo bastardo. Un parto difficile. Spero vi piaccia, e spero di non metterci così tanto la prossima volta.
Grazie, grazie a tutti.

@Guitarist_Inside: Ti ringrazio, come sempre riesci a cogliere pienamente nel segno, sai leggere tra le righe come pochi. Non sai quanto mi dispiaccia per non esserci incontrate. Mi rendo conto di aver fatto una cazzata, di aver agito senza pensare. Ma mi farò perdonare in qualche modo.. A patto che io non venga su a Milano e tu, allo stesso modo, non ti faccia trovare. XD Anyways, intanto grazie per aver messo a tacere le mie paure: i ragionamenti di Billie sono per me sempre un po' un camminare sulle uova, è un personaggio talmente difficile ed a me, nonostante tutto, estraneo. Soprattutto poi perché l'ho scritti di corsa; non mi sono voluta soffermare molto, per timore di cadere nella paranoia. E in fondo siamo tutti un po' così, troppo umani per sentirci dei davanti ad altri, troppo orgogliosi per ammettere a noi stessi quand'è che sappiamo di aver detto troppo, fatto troppo. E arriva un momento in cui dobbiamo fare i conti con la nostra deliberata cecità. E Billie lo deve fare, e deve combattere per ritrovarsi, in tutti i sensi. Ed Erin.. Beh, questo è solo l'inizio, non voglio rivelare niente. Ma lei giocherà un ruolo molto importante. E poi grazie per i complimenti riguardo la scena in cui Billie fa quella battutina idiota, in verità ho sempre timore di risultare tutto fuorché brava a far ridere insomma, non ho un gran senso dell'umorismo.
Comunque, grazie, grazie, grazie ancora.. Spero che l'originalità che ha "impregnato" questo "non-incontro" continui ad esserci, perché detesterei essere convenzionale e ripetitiva.
Thanks again, Dearest!
Em.

@ShopaHolic: Non ti stupire, cara. Quando c'è talento e bravura, quei complimenti sono anche pochi.. Eppure sembra che a ricevere il maggiore plauso siano, il 99% delle volte, quelli che meno lo meritano.. Sembra una legge dell'universo. Tu sei un'eccezione, e ne sono felice. Ti ringrazio ancora, sono contentissima che ti sia piaciuto il capitolo, che il mio stile continui a "non smentirsi"; significa tanto, per me, che io riesca a mettere anima e corpo in una storia e riuscire comunque a renderla "condivisibile", insomma. Suburbia è un pretesto, è un simbolo.. Sembra rappresentare molto, ed è così.. La domanda è cosa? E questa è una domanda a cui Alice sembra non saper rispondere. E forse neanche Billie. Forse non è una domanda retorica, non fino in fondo. Billie è un uomo in se, ad altri divinità, ad altri ancora padre, marito, amico, musicista. E' tanto, troppo forse, ed è per questo che forse sente sempre meno di essere uomo e basta, un uomo con le sue battaglie, i suoi forse, le sue delusioni e la sua vita da vivere giorno per giorno. Forse è questo ciò di cui sente la mancanza, e forse sta cominciando a capire di dover aprire gli occhi e di dover cercare tra le "scattered pictures" della sua vita la maniera di ritrovare un pochino di sé.
Grazie, grazie ancora. Scusami per aver aggiornato dopo così tanto tempo, ma diventa difficile scrivere in maniera giusta, senza affrettare le cose né renderle noiose e lente. Insomma, è difficile, lo sai bene anche tu. Ma grazie comunque. Ognuna delle vostre recensioni makes my day, come si dice in inglese. Grazie.

@Malakite: L'incontro, o meglio, il "non-incontro". L'ho trovato giusto così, non sarebbe stato giusto farli incontrare subito, come "per volere del Fato" o che so io. Erin è una persona particolare, Billie è Billie, non posso liquidarli così e basta. Insomma, poi lei combatte. Come hai detto te. Combatte per non perdersi, e Billie ora comincia a capire di dover combattere per ritrovarsi. E forse lei lo sta facendo nella maniera giusta, lui deve aprire gli occhi. La politica non è l'unico problema, il mondo sta andando a puttane, ma forse anche il suo mondo interno sta subendo la stessa sorte. Come combattere per gli altri se dentro la tua anima è in corso una sorta di genocidio? Non rimane altro da fare, come hai detto. Deve levarsi la brillantina e la polvere di stelle di dosso, e ricominciare ad assaggiare la polvere. Grazie, quindi; "non ci sarebbe potuto essere un incontro migliore, tra i due", è uno dei più bei complimenti che tu potessi farmi. Sei riuscita a rendermi speciale anche questo, Puscia. Grazie, grazie.. Grazie. Mi sento felicissima, sapendo che posso ancora riuscire a stupire qualcuno, a non cadere nell'ovvio. Ti ringrazio, e spero che ti piaccia questo veloce tuffo nel subconscio di-.. No, aspetta. Leggilo, poi mi dirai. (; Grazie ancora. <3


E' scritto in prima persona, scritto al presente, contrariamente a quanto scrivo di solito. Vediamo come va, ditemelo voi.
Grazie ancora, e, fatemi il piacere, commentate!
Non servono grandi filosofeggiamenti, solo un consiglio, una critica, un complimento, qualunque cosa è gradita come poco altro al mondo.
Grazie.

M.






Little drops of rain whisper of the pain,
tears of loves lost in the days gone by..
[Thank You, Led Zeppelin]





Titolo: How do you sleep?
Soundtrack: Before the Lobotomy, Green Day


Chiunque abbia detto che si sta davvero soli quando non c'è nessuno intorno a te, nessuno da cui tu senta nettamente irradiare amore e affetto, nessuno che ti degni di uno sguardo, nessuno per cui tu esista oltre l'essergli materialmente accanto..
Beh, non ha capito davvero nulla.
Sono solo. Davvero solo.
Diamine, al piano di sopra posso quasi sentire il respiro flebile e dolcemente sibilante di Brixton, e se chiudo gli occhi percepisco ancora sulla pelle il calore di Brittney.
Eppure, sono solo.
Perché è nel momento in cui ti viene meno l'affetto, l'appoggio, la presenza di anche una sola di quelle persone, quelle a cui affidi la tua vita intera, quelle senza le quali non sapresti neanche come respirare, è in quel momento che sei solo.
La casa è vuota, e risuona solo il silenzio vuoto dei miei respiri, che si fanno ora profondi, ora superficiali, per poterli sentire sempre meno.
Fuori, piove. Tante gocce che si rincorrono su uno sfondo di grigiore illuminato da un baglione soffuso e giallastro. Lo scroscio è la culla di mille gocce che s'infrangono contro l'asfalto, contro le macchine, contro qualunque cosa, nenia regolare e cadenzata, continua.
Chiudo gli occhi, respiro.
Vedo danzare delle figure fluorescenti, scure, ombre familiari di qualcosa che mi manca, di cui sento nostalgia, e che eppure non ho mai conosciuto.
Mi tendono una mano, sorridono di labbra che non hanno, dove invece si trova solo una macchia scura e opaca, come una macchia caduta per sbaglio proprio dove più hai desiderio di conoscere.
Chi sei?
Volti di un altro tempo, canzoni che affogano in un ricordo che forse non è neanche mio. Conosco forse questo luogo? Ricordo forse di aver vissuto questo momento?
E' solo una risata assente, quella che risuona, nascosta come profugo tra queste immagini sparse che mi feriscono la mente.
Mi getto seduto, gli occhi aperti di terrore, le iridi dilatate dal battito del cuore che trema, quasi sembra mormorare, per la velocità. Mi gira appena la testa, volgo lo sguardo di lato, dove, dall'altra parte della stanza, le finestre vengono ora accarezzate, ora ferite da quelle gocce inerti.
Geme d'improvviso nella mia mente il suono del cellulare, che probabilmente mi aveva svegliato.
.. Dormivo?
<<.. Pronto?>>
La mano ha già trovato il piccolo aggeggio vibrante e suonante alle mie spalle, prima che ogni altro pensiero si formuli tra gli altri, che si avviluppano confusi tra un brandello di sogno ed un ricordo evanescente. La mia voce impastata s'impone flebile su quel silenzio regolare che regna nella casa.
<<Dormivi?>>
La voce, quella. La sua.
Pesante, scura, stanca.
Ironicamente, voce dei miei stessi, incomprensibili pensieri.
Una pausa di appena qualche minuto, le mie labbra inspegabilmente non vogliono schiudersi per formulare una risposta; mi batte il cuore, mi pare quasi di ricordare sempre meno la sua voce con ogni secondo che passa.
<< Cos'è successo, l'altra sera?>> Tento, timoroso della domanda stessa quanto della risposta. Non mi è mai sembrato di essergli così lontano quanto l'altra sera. Non ho visto oltre quel suo silenzio, non ho saputo vedere oltre il semplice dolore che nascondeva, non sono stato capace di stargli vicino come avrei dovuto.
.. Dov'è finita quella mia convizione di essere il suo più solido, incrollabile sostegno?
<<Sai, credo di aver capito dove vanno tutte le anatre del lago, Mike. Quando gela il lago, lì.>> La sua voce mi pare dannatamente piccola.
Quasi inconsciamente, sospiro. Sento un groppo alla gola farsi sempre più grande, un desiderio di urlargli ogni mia paura, ogni mio attimo d'angoscia nel telefono si fa strada nella mia mente; cerco di contare ogni secondo di paura tra una sua frase e l'altra, sperando che ogni attimo di più possa aiutarmi a trovare le parole che non ho. Che, forse, non esistono nemmeno.
<<I need you back, Billie - Imploro, ostentando un tono di sicurezza mal celata dai soffi della voce, che mi si spezza in gola. Sono sicuro che riesce sentire ogni mio convulso battito anche tramite il telefono. - Dove sei ora?>>
Mi ci vuole qualche attimo per raccogliere i pensieri. Non sono bravo con le parole, non lo sono mai stato. Quello bravo è lui. E' Billie. Con quella sua disarmante sincerità, la pungente ironia, la piangente gioia. Ogni parola sembra nasconderne cento d'emozioni.
Io sono sempre stato il più silenzioso, fra tutti. Sia chiaro, non quello con meno rotelle fuori posto, come ama dirlo Pat, con quella brava aria da manager la cui parola è legge e gesto onnipotenza in terra, semplicemente ho spesso difficoltà a sentirmi pienamente a mio agio tra gli estranei, senza la mediazione del mio quattrocorde.
Ho tanti pensieri, poche parole. Poche, buone; le mie.
E, nel momento in cui mi rendo conto che non otterrò alcun aiuto da queste, mi arrendo alla necessità; ho un desiderio fisico, bruciante, nell'anima, di sapere dove si trovi Billie, che sia tutto intero, che non abbia fatto saltare in aria la propria vita e la (labile?) stabilità mentale con la stessa facilità di una volta.
<<In the space that's in between insane and insecure >> Ride sguaiatamente; posso sentire ogni rantolo spezzato dietro i suoi respiri, mi si accappona la pelle. Chiudo gli occhi, respiro a fondo. Se fosse possibile, brancolo in un buio ancora più fitto.
Tiro un lungo sospiro.
<<Billie.. Ho bisogno di sapere dove sei. Se hai bevuto, se hai assunto qualcosa. Dove sei? >> Ripeto, nella stupida convinzione che ripetendo la domanda mi ascolti, e forse risponda.
Sento il suo respiro pesante accarezzare la cornetta.
<<Hey, Mike.. - Riapro gli occhi, forse speranzoso. Qualunque parola, qualsiasi cosa è meglio di quel silenzio riempito di parole inutili. - Ma ascolti mai quello che dicono alla radio? Intendo, tutta quella gente che si crede un fottuto pezzo grosso, e poi non sai neanche se dal vocione sono dei maledettissimi ciccioni col doppio mento o degli omini con gli occhiali da sfigati e gli occhietti piccoli. >>  Ride di nuovo, ora un risolino quasi isterico che va scemando con il suo respiro, che si fa sempre più pesante e difficile, quasi ansante. Pesano singolarmente, quei respiri, sul mio cuore; ognuno lo schiaccia più del precedente. Ognuno più impietoso, più bruciante.
Sospiro di nuovo, questa volta sento la gola stretta nella morsa calda dell'angoscia, che mi spezza ogni respiro.
<<Billie, ti prego.. - tento ancora, questa volta più insistente, pregando dentro di me che risponda alle mie domande - Ho bisogno di sapere dove sei, se stai bene.. - Non sento più il suo respiro, e ritento con la domanda che, egoisticamente, più mi preme sul cuore - Cos'è successo l'altra ser->>
<<Smettila! - esplode, con una vena che ha dell'implorante, dell'isterico - Smettila di credere che io non sia più capace di capire i miei errori! So ancora vivere, Mike!>>
Il fiato mi si spezza in gola. Ho fallito, di nuovo.
Sospiro.

<<Ti prego, ascoltami.. >>
<<No, basta! Non posso continuare ad ascoltare. Tutti mi dicono cosa fare, tutto mi opprime.. Non ho bisogno dell'aiuto di nessuno, lo capisci? Neanche del tuo. Non lo voglio, il tuo aiuto. Non m'interessa se ti preoccupi. Fanculo. - Il suo respiro torna veloce, tarpato di sofferenza fisica in ogni tentativo di soddisfare i polmoni. Soffre, fatica. Lo sento. - Non so più niente, Mike. >>
Scelgo il silenzio.
Non so dove andrà a parare, lo lascio sulla scia dei suoi pensieri incolti, mentre la mia mente pulsa di mille parole; eppure nessuna mi sembra appropriata, giusta.

<<Come sta andando a scuola Jakob? E Joey, suona ancora con il suo gruppo? .. Si staranno prendendo cura di Cleo? E il pesce, lui mangia? Speedy mangia? Non è morto, vero? - Continua freneticamente, e quasi lo sento chiudere forte gli occhi, e ingannare la sua mente nel suo finto tentativo di mettere ordine in quella matassa di indefinizioni e ricordi rubati ad un'altra vita, seppur la sua. - Joey assomiglia ancora a.. >>

Eccolo, punto di domanda ad una frase che non ne desidera uno. Non vuole domandarselo, non veramente. Adrienne, Lei; il suo viso definito e forte, i suoi occhi dolci e quella pelle nivea e lucida. Come dimenticare una persona se questa è in ogni cosa che vedi?

<<Billie, sei ancora a casa, vero?>> Domanda vuota, inutile; quella non è casa. Ha affittato un appartamento sulla East 12th street da qualche settimana, ad una decina di minuti da dove abito io. E' un buco, se messo a confronto con quelle ville del Lakeshore a cui era abituato, tra parchi, laghetti e villette sommerse dagli alberi, un buco piccolo e miserabile. Ma non l'ho fermato.

"E' vicino al Green Deli. Hanno la birra buona, lì." è stata la sua giustificazione, con tanto di alzata di spalle. Come posso permettergli di dilaniarsi ancora il presente con le affilate lame del passato?

<<Mike, no.. No, aspetta. Mike, fermo! - Ora c'è la paura, il panico nella sua voce. Troppe ombre? - Mike, non venire.. Non c'è niente qui. .. Non c'è niente. - Un lungo, interminabile silenzio, scandito dai respiri ovattati di entrambi. - Neanch'io.>>

Mi alzo di scatto, cercando con lo sguardo le chiavi della macchina, nascoste chissà dove nella stanchezza del piacevole ritorno alla quotidianità.

<<Billie, sto arrivando.>>

Non voglio lasciarlo solo, non un altro minuto.

Attacco; la sua voce scompare dal telefono, ma nella mia mente resta ancorata come una continua scarica elettrica che mi fa martellare il cuore.


Dimentica, impara a dimenticarle, quelle serate trascorse tra la bottiglia di whiskey e i mozziconi, dimentica quella realtà brutale che t'impedisce di sognare; sono altri i volti che devi ricordare, non quelli che bruciano tra ricordi e benzina.

Non sei perduto, Christian.

Non ancora.







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Capitolo 15
*** Stop the world, I want to get off. ***



Author's Notes: Fa piacere pensare che si promette di aggiornare "presto" e si finisce per aggiornare quasi tre mesi dopo. Però.. Insomma, questo è il capitolo della svolta; questo lo posso dire, ve lo dico, lo vedrete presto (o almeno lo vedrà chi arriverà a leggere fino alla fine della pagina). Anyway, intanto grazie ancora - si lo so, sono terribilmente ripetitiva - a tutti/e coloro che mi seguono, che leggono, che commentano; nuovi lettori, non avete idea di quanto mi faccia piacere. Spero che questo capitolo sia all'altezza delle vostre aspettative, anche se, sarò sincera, ne sono molto orgogliosa (tranne l'ultima parte, ma solo perché è stata scritta in un secondo momento e non mi convince..). Il nuovo capitolo è under construction, per cui portate pazienza.. Almeno questo è bello lungo, per cui rifatevi gli occhi. (; Un breve ringraziamento/commento a coloro che hanno commentato:

Malakite: Wela. (: Non ti preoccupate, Puscia, so benissimo che "la scuola" non è una scusa, ma una realtà a cui (purtroppo) non si può sfuggire; anche io mi sento uno schifo a dire sempre di no per la scuola, perché la scusa sembra vecchia.. Ma non lo è. Quindi, tranquillissima. (; Piuttosto, sappi che questo è stato un regalo di compleanno decisamente apprezzato.. E non hai idea quanto! Quando ho letto il tuo post su facebook mi brillavano gli occhi.. Ero euforica. Comunque. *ahem*  Intanto grazie per questo complimento; la prima persona mi ha spaventato molto, perché per me, un'assidua sostenitrice della terza, è un grande salto. Però se funziona, se me lo dici tu, allora potrei provarci qualche volta.. Soprattutto perché si, Mike è così, proprio come l'hai descritto, ci tiene comunque, a tutti i costi, in barba alla moglie che dorme e all'ora della notte corre in aiuto di Billie. E mi hai scritto che "Mke si sente perso senza Billie; accidenti, non ci avevo pensato. Mike si sente perso quando Billie lo è.. E' grandioso.
E poi si, ti ringrazio anche tantissimo per aver "notato" tutti questi piccoli particolari che io mi diverto ad inserire; è soddisfacente, in un certo modo. E ora, per quanto riguarda il finale e "l'incontro, il primo bacio e tante rose-e-fiori tra i due piccioncelli" cara mia.. Vedrai cosa ha in serbo per te questo capitolo! Appena l'ho finito di scrivere ho pensato che sarebbe stato perfetto per le tue "richieste".. :P Insomma, vediamo come va..
Grazie per gli auguri, grazie per il regalo-recensione, grazie per tutto. :3 <3
Ti voglio bene anche me! <3

Guitarist_Inside: Intanto grazie per i complimenti; non mi aspettavo di essere riuscita così bene nel mio intento. Scrivere in prima persona non è stato facile, ma vedere che alla fine è venuto fuori bene (testimoni i commenti) non posso che essere soddisfatta. Non saprei dirti se però già mi balenava in mente l'idea di scrivere un capitolo simile; la verità è che io programmo le cose poco per volta, per cui non direi.. Comunque it was advice I was looking for. (: Holden è lì, forte, è lui. Lui e le "anitre", lui e quelle sue domande apparentemente sconclusionate, eppure.. Così piene di verità e di schiettezza, e di qualcosa che non sapresti definire, eppure sai che ti hanno colpito, sai che sono lì, incise nella tua mente.
Intanto sono contenta di vedere che le reazioni di Mike siano state adeguate stavolta.. In un capitolo precedente mi era stato detto che nonostante la situazione un po' surreale la reazione di Mike sarebbe dovuta essere più incisiva. Stavolta mi sono immedesimata terribilmente nel personaggio, e vedere che sono riuscita a rendergli giustizia non può che rendermi felice.
Quella frase, dove Billie dice a Mike di non andare, perché "non c'è neanche lui", mi è sempre piaciuta, ma ha sempre avuto un che di contorto che poi davvero è, evidentemente, sfociata nell'inquietante, come dici. E Billie è proprio lì, tra la "vana ricerca di sé stessi", tra la resa e la solitudine. Come sempre hai perfettamente inquadrato il punto, grrl. :D
La riflessione iniziale di Mike ero terrorizzata che fosse troppo confusa, confusionaria.. E la fine devo dire credevo fosse solo una scopiazzatura dai loro testi. Ma non è così, mi dici.. E non posso che ringraziarti. E' tutto come dici, come sempre.. (:
Hey, one more thing.. Scusa per non aver recensito, ma adesso che ho un po' di tempo libero posso farlo in tutta calma.. (;
Thanks again, Ema! (:

ShopaHolic: Intanto non ti devi scusare, sono contenta di vedere che hai continuato a leggerla e ora a recensirla. "Perdere" lettori per me è sempre un dramma, sono terrorizzata di scrivere in maniera noiosa, di aggiornare troppo, troppo tardi (che per altro so essere comunque vero), ma comunque ti ringrazio, perché mi provi - evidentemente - il contrario.
Ti ringrazio per i complimenti, per questa "capacità" che mi attribuisci di saper "catapultare" il lettore non solo nella storia, ma negli stessi personaggi, nei loro stati d'animo.. E' una cosa grandiosa. Ti ringrazio!
Spero che ti piaccia questo nuovo capitolo, e di continuare a vederti leggere e recensire questa umile storiella. (:
Grazie ancora.

veru_echelon: Intanto è grandioso il fatto che tu sia una "Echelon" come me. *-* Io seguo i Mars da ABL e sto seriamente pensando di scrivere una fanfic su di loro.. Sarebbe un'idea che ho scartato molte volte, soprattutto dopo che ho tentato di scriverne una in inglese..
Ma comunque. Grazie per aver letto tutti i capitoli, spero che ti piaccia anche questo e che mi dirai bene che ne pensi, dove posso migliorare, cosa va invece bene.
Grazie mille! (:


Detto ciò vi lascio alla lettura di questo nuovo capitolo, sperando che mi perdonerete per questo ritardo.. E sperando che commenterete! (Perché lo farete.. Vero?!)
Buona serata. (:

M.




What is nearest the heart is nearest the mouth.
[Proverbio Irlandese]





Titolo:
Stop the world, I want to get off.

Soundtrack: When I Come Around, Green Day; Another day, Nine Days




Il trucco era entrare nello Starbucks evitando accuratamente i colleghi appostati come falchi ai tavolini lungo la vetrata, sbilanciarsi su un piede per vedere quanta fila la separava dalla cassa, e mentalmente fare l'ardua scelta: brownies oppure chocolate chip cookies?
Personalmente non aveva preferenze, ma Alice riusciva a cambiare opinione ogni secondo, annullando ogni possibilità di azzeccare tra i due quando arrivava il momento di scegliere.
"Un Caffé Mocha e un Frappuccino, per favore." Proferì, con lo sguardo puntato sul tabellone, come se non lo ricordasse perfettamente a memoria, come se non avesse già preso il caffé il quel posto o in qualunque altro Starbucks in città milioni di altre volte.
Il suo sguardo poi virò verso il piccolo cestino al lato; uno pieno di brownies e l'altro altrettanto di enormi biscotti, con ogni genere di decorazione e farcitura all'interno quanto sulla superficie. Tirò un lungo sospiro.
"E' tutto?" La voce squillante della giovane cassiera la distolse dal compiere mentalmente l'ardua scelta. Erin annuì, convinta che Alice avrebbe saputo apprezzare il suo gesto anche con i chocolate chip cookies di cui teneva segretamente nascosta una confezione sull'ultimo scaffale nel suo ufficio.

E' semplice. Devi solo entrare nella redazione con questi due affari bollenti.

Cercando di destreggiarsi tra persone e occhiate stralunate di caffeinomani che non avevano ancora ricevuto la propria dose di "droga" legale, Erin si avviò con passo sicuro fuori dal locale.

Entrare nella redazione con questi due affari bollenti. Evitare Nathan-occhio-pesto.

Lanciò un'occhiata all'ora, che svettava lucente accanto all'insegna dell'enorme CVS che correva lungo quasi metà dell'isolato, e si meravigliò ancora di quanto fosse presto. Forse ce l'avrebbe fatta a passare da Alice prima che cominciasse il solito round mattutino di chiamate. Lo stomaco si strinse appena mentre ripensava alla sua reazione di qualche giorno prima; non si sentiva in dovere di chiedere scusa a nessuno, e probabilmente avrebbe reagito nei confronti del suo collega (parola che gli attribuì con estremo disprezzo) nello stesso, identico modo, in qualunque situazione.
Era nei confronti di Alice che si sentiva in dovere di chiedere scusa per il proprio comportamento. Le creava tante di quelle grane nella redazione, eppure lei l'aveva sempre, assiduamente difesa. Non che pensasse di avere torto, ma lei era probabilmente l'unica vera amica che aveva, e a costo di sacrificare un pezzettino dell'orgoglio non tipicamente femminile che si ritrovava, lo avrebbe fatto.

Ed ecco a cosa servivano quei due caffé.

Entrare nella redazione con questi due affari bollenti. Evitare Nathan-occhio-pesto. Sgattaiolare oltre quella orrida segretaria figlia-di-papà.

Sospirò ancora, mentre dava di nuovo un'occhiata all'ora, stavolta sul piccolo orologio digitale che portava al polso. La porta della palazzina rossastra della redazione si intravedeva due isolati più avanti, ed Erin accelerò il passo.
Ripensò al giorno precedente, che l'aveva vista impegnata in un reportage a San Francisco, che Alice le aveva affidato circa una settimana prima. Era un'occasione che aspettava da molto tempo, e l'aveva conclusa con un tale entusiasmo e devozione che era tornata a Oakland un giorno prima del previsto. Approfittando di questo anticipo, sperava di farsi perdonare da Alice.. Ammesso e non concesso che si fosse effettivamente arrabbiata. In caso contrario, aveva speso qualche dollaro in più per un caffé.
Entrare nella redazione con questi due affari bollenti. Evitare Nathan-occhio-pesto e Joel voce-finocchia. Sgattaiolare oltre quella orrida segretaria figlia-di-papà. Aprire la porta dell'ufficio di 'Lice con uno scenico "Ta-dah!", un sorrisone e il suo caffé preferito.

Salendo i tre scalini per entrare nell'edificio color terracotta, Erin lanciò l'ennesima occhiata all'orologio, ripassando mentalmente la scaletta di cose che avrebbe dovuto fare per portare a termine la sua "missione" e constatando che aveva ancora una ventita di minuti prima che la redazione cominciasse a brulicare di persone, urla, ticchettii sulle tastiere e ronzii di fax.
Arrivata al quinto piano, uscì dall'ascensore e percorse il lungo corridoio bianco e spoglio al cui termine sapeva attenderla quella noiosa porta con la targa laccata, che avrebbe anche stamattina aperto con uno strattone poco aggraziato.

".. Buongiorno, Erin!"

Si morse la lingua per non urlare, mentre si girava per salutare Joel, che trovò seduto davanti alla sua scrivania, sventolando la sua mano destra come se fosse un foglio o una bandiera. Con muta minaccia gli fece capire che aveva da fare, e si diresse con un soddisfatto sorriso verso la direzione; la porta era appena nascosta da un enorme mobile a cassettoni e dalla scrivania della segretaria, la quale non sembrava essere presente al momento, con grande sollievo della ragazza, che ringraziò mentalmente tutte quelle pubblicità sul sonno rigenerante di bellezza, che teneva la cara segretaria ancora impegnata, evidentemente.
Abbassando energicamente con il gomito la maniglia della porta, Erin sfoggiò il suo sorriso più entusiasta, già divertita da ciò che sarebbe successa.

".. Hey, Platypus, indovina un po' chi ti ha portato il Frappucc-"

Si bloccò di colpo.

Sul suo viso, incredulità.
L'incomprensione della realtà, la confusione, il terrore, lo stupore; il caos.
Dipinto su quegl'occhi color ambra, grandi e spalancati.

Seduti davanti a lei, i Green Day.

Uno davanti all'altro; Tré più verso di lei, che copriva parzialmente Mike, seduto al centro, e in fondo, quasi sul lato opposto della stanza, Billie. La mente si rifiutava di capire, il cuore di battere; erano Loro. Non una foto, non un video clandestino su YouTube, non un poster, non il booklet di un CD. Non un sogno.

Erano Loro.

Seduti davanti a lei, con l'espressione a metà tra l'incuriosito e l'interrogativo, erano i Green Day; ordinatamente disposti su tre sedie una di seguito all'altra, ordinatamente poste davanti alla scrivania, dall'altro lato della quale sedeva ordinatamente Alice, sul cui viso, passati i primi cinque secondi di pura immobilità e shock, Erin osò passare con lo sguardo.

E, in quel momento, mentre vedeva fondersi sul viso della caporedattrice stupore, vergogna, dispiacere e rabbia, capì tutto.

.. O forse non capì assolutamente niente.

"Erin.. Io.. scus- Spetta, no.. Io.." gemette Alice con un fil di voce, farfugliando e gesticolando con mani tremanti.

".. Sia benedetto Belzebù!"

Tré, in tutto il suo divertentissimo morbidume, le corse improvvisamente incontro agitando le mani al cielo, e, dopo essersi abbassato per annusare a turno i due bicchieri chiusi dalla copertura bianca, con aria solenne le strappò di mano il Frappuccino dalla mano sinistra.
"Mine. E comunque la prossima volta ci voglio anche la doppia panna." Puntualizzò, stringendo a sé il bicchiere.
Da dietro di lui, due brevi risate; Mike, di cui intravide solo la testa, accennava ad un sorriso, mentre Billie, sbilanciandosi all'indietro con la sedia, sorrise divertito, osservando per brevi momenti ora Erin, ora Alice.
"Hey, Tré, watch out.. C'è chi si è beccato un occhio nero per molto meno."
Erin alternò il suo sguardo tra i tre. Sentì le sue gambe cedere, le sue mani tremare, la sua testa pesare come il piombo, il suo cuore battere, martellarle nelle orecchie, scoppiare.

Deglutì.

"O'Brien, ci servi per l'articolo su L.A.!"
La voce della segretaria, che trasudava tutto fuorché desiderio di fare ciò per cui veniva pagata, la distolse per qualche attimo dalla realtà.
"Io.. Io devo andare."
La porta si chiuse con un impercettibile clack, mentre, ancora con gli occhi puntati sul punto esatto dove Erin era stata fino a qualche attimo prima, Billie sorrise.

"Allora, signori, dove eravamo rimasti..?"


___________________________


La punta di una delle due Converse rimbalzava risuonando appena, sordamente, sulla ringhiera; Erin abbassò la testa, stringendo gli occhi già chiusi, i pugni, le dita attorno a quella sigaretta che bruciava troppo velocemente tra le sue mani tremanti.


Se ne sarebbe dovuta accorgere. Dopotutto, l'amica non era mai stata particolarmente brava a tenere i segreti; da bambina le aveva rivelato che il fratello, dopo tanti anni, l'aveva cercata, quando i suoi genitori le avevano espressamente vietato di dirglielo. Eppure.. Non aveva saputo vedere oltre l'apparentemente solita routine di interviste e incontri.

Il suo stomaco si torse, e tremò appena, le mani ora gelide, una convulsamente aggrappata alla scrostata ringhiera del balcone condominiale su cui si trovava, l'altra si sollevava ad avvicinare il piccolo schifo di nicotina alle labbra, che ne aspirarono avidamente il fumo.

Sollevò lo sguardo, faticando a credere che
loro fossero qui, o meglio,.. Veri, reali, esattamente come lo era l'Oakland Inner Harbor che intravedeva in lontananza, o il fast-food Subway alla traversa accanto, tra la Terza Strada e la Madison. Faticò a credere nell'immediatezza, nella realtà di ciò che aveva visto.. E forse non compreso, non fino in fondo.
Era davvero così? Davvero ciò che c'era di sotto era ciò che aveva visto? Ciò che aveva inteso? Davvero Alice le aveva nascosto tutto? Davvero l'aveva.. tradita?

L'incredulità lasciò immediatamente il posto ad un accesso d'ira improvviso, violento, che le torse ulteriormente lo stomaco e le lasciò la testa vuota che girava vorticosamente, un pulsare nelle tempie che non fece altro che aumentare la sua rabbia.

Aspirò nuovamente dalla sigaretta, lasciando poi cadere la mano di nuovo sulla ringhiera, su cui si appoggiò, guardando distrattamente lo Shoreline che le si apriva nelle sue piccole insenature tra i magazzini e i parcheggi abbandonati del quartiere dell'East Peralta. Sentiva le mani tremare violentemente, fredde, e cercava di nasconderle al suo stesso sguardo; le odiava, quelle mani. Ognuno di quei piccoli spasmi le bruciava dentro come una profonda umiliazione.
".. It sucks, doesn't it? Being lied to from the ones you love.." Una voce, maschile, ruvida, calda, eppure non molto profonda. Improvvisa, un tono indefinito; a metà tra la comprensione, la compassione, eppure un sorriso evidente tra quelle parole, caldo e compassionevole anche quello. Eppure, anche di profonda umanità.
"Nascondere la verità è ancora menzongna? - Rispose dopo qualche attimo, ogni parola carica d'odio e rabbia. Rise appena, amaramente, tra sé e sé - .. Io lo chiamerei più un codardo tradimento." Erin chiuse gli occhi, sentendo ogni goccia della sua bruciante ira saturare di puro veleno la sua risposta, senza domandarsi alcunché o preoccuparsi del destinatario delle sue parole. Si trovò a stringere ancora più convulsamente i pungni, sentendo la sigaretta bruciarle appena, di solo calore, la pelle bianchissima dell'indice.
"Maybe betrayal is just a way to keep your own rage from destroying your love.. And yourself." Il sorriso nella voce più marcato, eppure disteso, soave, quel tono scuro, così semplicemente arreso alla vita.

Erin si bloccò, sentendo l'aria abbandonare il suo corpo in maniera così improvvisa da lasciarle il viso improvvisamente pallido, più di quanto già non lo fosse; un freddo addosso, improvviso, la gola bruciante, bloccata, la mente vuota.


Rage.. Love... Rage.. Love... Rage.. Love... Rage. Love.

Rage and love.


Quella voce.


Si girò di scatto.

Con un sorriso gentile, appena accennato, sulle labbra, i capelli neri che si muovevano appena al leggero vento salmastro, le mani chiare e tatuate nelle tasche dei pantaloni; Billie Joe Armstrong.

Si avvicinò lentamente ad Erin, che ancora lo fissava con i grandi occhi color ambra, mentre muoveva ogni passo, come se fosse allo stesso tempo il materializzarsi dei suoi pensieri più reconditi e una realtà discesa da un'altra dimensione. Eppure, in quello sguardo, non c'era adorazione, non c'era adulazione, non c'era falso desiderio di avvinghiarsi alla sua fama solo per il suo nome e la sua gloria mondana.
".. Cat got your tongue?" Rise appena, quando fu davanti a lei. La osservò a lungo; quei suoi capelli castani, ramati, che incorniciavano, lunghi, morbidi, quel viso bianchissimo e appena costellato di lentiggini marroncine, su cui spiccavano quei due occhi, grandi, appena allungati, quasi gialli in quei momenti in cui catturavano i raggi del freddo sole di Novembre.
Abbassò lo sguardo, il viso riprese appena colore. Le sue scarpe malconce sembravano infinitamente più interessanti dell'irreale realtà che aveva davanti. Fece spallucce, mentalmente affogando nel suo stesso battito del cuore, impazzito, nel tentativo di riacquistare la voce che sapeva l'avrebbe tradita, tremante.

"Immagino non sia una roba da tutti i giorni incontrare l'uomo che ha dato voce alla tua vita".

Non "una celebrità", non "il mio idolo".

Billie si era sentito chiamare in tutti i modi possibili, dallo schifoso venduto al dio disceso in terra, dallo sfigato a rockstar, e forse neanche quell'espressione, in qualche modo, era stata del tutto nuova. Eppure, era stato il tono di disarmante sincerità, quasi resa incondizionata. Lo aveva guardato negli occhi, nei brevissimi attimi in cui aveva pronunciato quelle parole, ed era riuscito a guardare ben oltre il loro semplice e letterale significato.
"Forse mi sarei dovuta preparare un discorso.. Di quelli che i bambini si preparano la sera prima, a letto, in vista dell'incontro con il proprio eroe. - Un lungo sospiro -.. Le parole hanno scelto di abbandonarmi proprio ora. "
Ridacchiò tra sé e sé, senza vera intenzione; nervosa emozione, le si leggeva in faccia.
Billie sorrise appena, poi sfilò le mani dalle tasche, prendendo la mano sinistra di Erin nella sua, e le sfilò dalle dita quello che ormai era praticamente un mozzicone; lo avvicinò alle labbra, rubando un'ultima boccata, prima di spegnerlo sulla ringhiera e lanciarlo in un vaso pieno di erbacce che giaceva dimenticato qualche metro più in là.
".. Billie Joe Armstrong, molto piacere." Le porgeva la mano, con quelle labbra increspate impercettibilmente in un'espressione indecifrabile che aveva qualcosa di profondamente buono, eppure di divertito da tutta la situazione.
Erin guardò a lungo la sua mano, mentalmente stringendo le sue a pugno chiuso, com'era solita fare; si impose di non pensare, di non guardare, di agire come avrebbe dovuto fare con chiunque altro, forse più per un discorso di cortesia che altro.

Per poi chiedersi cosa cazzo centrasse la cortesia in presenza di Billie Joe Armstrong.

Inspirò profondamente, sentendo di nuovo la sua mente farsi vuota e vorticosamente pulsante.

".. Hey, mica mordo" rise appena, ed Erin alzò lo sguardo, accennando un sorriso nervoso.
Gli porse la mano.

"Erin O'Brien."

Odiava le presentazioni formali, le presentazioni dettate dal galateo, gli sapevano di falso, tipo "Hey, piacere, sono un miliardario che ha fatto strada grazie alla depressione e rabbia adolescenziali"; eppure qualcosa lo aveva spinto a presentarsi con una semplice stretta di mano; una maniera per togliere quella ragazza dall'impaccio, un modo per presentarsi per ciò che era, prima ancora di essere celebrità, rockstar, cantautore o padre: un uomo. Uomo comune, uomo come tanti altri.
Si appoggiò alla ringhiera, lanciando una brevissima occhiata al mare scuro che costeggiava la Freeway 880, tra le scure strade di cemento che sembravano pietrificate vene di quella piccola città dimentica di ogni cosa. Non ricordava che il mare fosse così vicino, così immediato.
Un sospiro, breve eppure profondo.

"Credo che impazzirò.." Un sussurro appena, quasi taciuto tra pensieri che forse non dovevano neanche essere espressi.

Billie si girò subito verso di lei, il viso corrucciato in confusione.
Impazzire?

"Si, insomma. Cazzo. - Una mano su, tra i capelli, lo sguardo abbassato a terra, gli occhi spalancati. Sorrideva? - Cazzo. Tu sei qui, e non lì. Non ora, non ieri. Cazzo, ti ho visto l'altro giorno, su quel palco. Eri lì sopra, e ora qui. - Sorrideva nervosamente, quasi ridacchiando. -Qui, e qui ci sei tu, e ci sono gli altri.. E c'è Alice. - Attimi di silenzio, lo sguardo si indurisce, i pugni cadono lungo i fianchi, stretti convulsamente. - Alice. Fanculo, Alice. Non mi dice le cose, mi lascia sola, non lo ha mai fatto. Non mi ha mai detto una bugia.. Non me ne ha mai detta una.." Il respiro si fece superficiale, veloce, la gola sempre più calda, si stringeva. La voce cedette in un sibilo, strozzato in gola per non far sentire la sofferenza. "Prima però.. Lo sapeva, cazzo. In faccia, era tutto scritto, lo sapeva.. Ce lo aveva scritto in faccia. L'ho visto. L'hanno visto tutti. Tutti sapevano tutto.."
Lo sguardo si ancorò a terra, le palpebre semi-chiuse, temendo più di ogni altro momento che il corpo la tradisse in maniera troppo evidente.

Alice sapeva tutto. Sapeva cosa sarebbe successo, eppure non ha fatto nulla. Non ha mosso un dito.. E le avevo anche portato il caffè, cazzo. Un fottuto caffè, non ho riavuto neanche quello. Ma certo, fai pure. Compro un caffè per la mia fottutissima migliore amica che fa le cose alle mie spalle, che cazzo importa. Tanto hanno da ridire pure gli altri, ci commenta chiunque. Ti fregano il caffé e ti fregano tutti.. E hanno pure da ridire..

"Aspetta.." Lo sguardo si alzò di colpo, intento, intenso.
Perché ha commentato? Perché così?
Gli occhi che prima guizzavano si fermarono, improvvisi; il respiro, fermo d'improvviso anche quello. Il suo sguardo rimase ancorato a quello dell'uomo, mentre la sua mente frullava di pensieri, collegamenti, lampi di domande e risposte a tanti pezzi che ora venivano finalmente ad incastrarsi.

Oh.

"Aspetta un attimo.. Cosa cazzo.. - Gli occhi si stringono, già venati di sofferente incredulità. - .. L'occhio nero.. Come facevi a..?" Caduta. La voce, il corpo. Cedettero come cosa sola, le spalle, il tono spezzato della voce, ora strozzata, rantolo nella gola stretta bisognosa più che mai d'aria.
Can't you see the evidence when you're looking for it?
E lo sguardo di Billie era più che mai evidente. Era chiaro, trasparente, quasi ingenuo, confuso. Poteva quasi scorgervi i ricordi, il pensiero che si formulava nella sua mente, dietro a quella fronte corrucciata, che sembrava urlarle contro; non lo aveva forse capito? Non era forse ovvio? Lui era stato lì prima ancora di quell'intervista. Era stato lì, forse chissà quante altre volte, e Alice le aveva tenuto nascosto tutto, ogni cosa.
Come aveva fatto ad essere così cieca?

Erin alzò di nuovo lo sguardo, gli occhi grandi ed increduli ad incontrare le iridi verdi del frontman, appena socchiuse le palpebre dal sole ormai freddo; lo sguardo penetrante, interrogativo, sincero. Un pugno allo stomaco, improvviso.

Leave it all behind.


Senza lasciarle il tempo di pensare, le gambe si mossero, cominciando a compiere veloci passi di corsa verso la porta che dava sulla scala condominiale, strappando via allo sguardo quella vista così incredibile, così surreale che ora era lì, immobile davanti al suo comportamento improvviso ed incomprensibile; gli occhi per un attimo appena chiusi, stretti, volendo strappare via ogni ricordo all'anima e alla mente, più che mai d'aver incontrato lui.


Leave it all behind.


D'improvviso, l'intero corpo della ragazza fu bruscamente strattonato indietro, trattenuto dalla ferma mano dell'uomo. La stretta sul polso ferma, eppure non dolorosa, seppure Erin opponesse forte resistenza.

Il suo viso si girò improvvisamente, con rabbia, verso di lui, i suoi occhi puntati sui suoi con accusa e poche, furenti tracce d'incredulità.
Come si era permesso?
Ed è questo ciò che capì Billie appena un momento dopo, quando lesse con chiarezza nei suoi occhi una ferita dolorosa e forse non così nuova. Come un bambino che si accorge della verità, dopo una menzogna durata anni. Hey, ragazzino, tuo padre è morto. Che ci vuoi fare?
Tradita. Ecco tutto ciò che si leggeva nei suoi occhi. Uno sguardo perso, tradito, abbandonato.
Cosa aveva a che fare lui con tutto ciò?

"Dove stai andando?" Domanda sincera, candida nel tono, nello sguardo; un bambino anche lui, nel suo domandare.
Aspetta. Dove stai andando? Perché non rimani?
Uno strattone, e la presa si fece inconsciamente più dura.
"Cos'è, adesso vuoi cantarmi una canzone sul tradimento, tanto per dire che ne sai più di me?" Rabbia pura, diretta tra labbra strette e sguardo gelidamente rabbioso, amareggiato, ora rabbioso, ora deluso.
Billie lasciò immediatamente la presa.
Cos'era stato, tra quelle parole? Un senso di smarrimento, di dolore improvviso. E aveva fatto male.
La osservò scappare via, le dita ancora incurvate e il braccio proteso, forse sentendo ancora sulla propria il fantasma della pelle della ragazza, improvvisamente bollente, improvvisamente troppo da sopportare.

Davvero ne sapeva più di lei?

Chissà che storia si portava dietro. Chissà che ricordi, che vicende. E lui aveva saputo scrivere canzoni in vita sua, forse pretendendo di saper esprimere qualunque cosa attraverso di esse, forse era stata sua la pretesa di descrivere una generazione intera di americani e non, di città, paese, e mondo andato a puttane, e forse ancora prima pretendeva di saper suonare e cantare la vita di chiunque.
Si scosse appena. Come poteva pensare certe cazzate? Cos'è, ora la prima ragazzina poteva dire due parole e sconvolgere quarant'anni di vita, vent'anni e più di carriera? Vent'anni e più di musica, di sudate parole, di melodie sofferte e sognate.
Cosa aveva pensato, che si sarebbe impressionato davanti alle lacrime nascoste e alle urla infantili e rabbiose del primo sconosciuto? E davvero credeva di poterlo trattare così, come se niente fosse, come se volesse insultare il primo idiota che si sarebbe posto come ostacolo tra lei e la sua rabbia da sfogare?
L'aveva spodestato con due gesti qualche giorno precedente, due parole in quei pochi momenti. L'aveva spodestato, tirato giù dalla sua nuvoletta di gloria e fama eterna ed internazionale, l'aveva trattato come avrebbe trattato chiunque, lo aveva reso fastidiosamente chiunque.

Ritirò la mano, osservando il ricordo della sua mente proiettato sulla piccola porta poco distante, ombra che correva, forse verso casa, forse verso un luogo lontano, quella ragazza così abbandonata dal suo piccolo, personalissimo mondo, si accorse di quanto forse il suo fosse ormai troppo grande, lui troppo smisurato rispetto a ciò che era giusto vivere ed avere.

Cosa c'era stato tra quelle parole? Cosa c'era stato tra quegl'attimi di silenzi e parole? Cosa era successo, tutto insieme, in quegli ultimi giorni?

Chi diamine era quella ragazza?

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Capitolo 16
*** I'd pray for a good coffee (here's to the past). ***


Author's Notes: Hi again. E' un po' di tempo che non aggiorno, è vero. Solite scuse, vacanze estive in mezzo, tante cose da fare, e pochi commenti. Ma la Zia Miriam vi ama lo stesso. E mentre ascolto gli attacchi di rabbia di mia madre che urla ai 23 mondi (emmezzo) paralleli che è indecente che vengano lavati i calzoncini di un pigiama ma non la maglietta, penso che domani di tornare a scuola non mi va. Concludo. Ringrazio la mia Capa, fedelissima come sempre, che ha commentato ormai mesi fa il precedente capitolo, con una dedizione che non ho mai visto (di certo non in un commento). Pazzesco. Grazie.
Un grazie anche a ShopaHolic, a cui dedico questo capitolo, sperando che non ti deluda, e che continui a commentare così fedelmente. (; Non so come ringraziare. (Prometto di rispondere al tuo commento nel prossimo capitolo.. Perdonami.)

Grazie a tutti voi che leggete.
Fatevi sentire, perplease.

PS: Aggiornamento del giorno dopo: scusatemi tanto per le frasi mancanti. Evidentemente EFP si è divertito a cancellarmi qualche cosa, dove meglio gli aggradava. Pertanto, lo riposto, sperando che mettendo le frasi mancanti al loro posto vi venga un po' più di voglia di leggerlo. Cheers.







And where will we all go when it's too late?
[Letterbomb, Green Day]


Titolo:
I'd pray for a good coffee (here's to the past).
Soundtrack: East Jesus Nowhere, Green Day; Here's To The Past, A Day To Remember.
 
"O Romeo, Romeo, wherefore art thou Romeo?"
Un grugnito. Il letto cigolò sotto il peso che si spostava.
Una serie di colpi. Secchi, deboli.
"We are once again reminded that America can do whatever-"
Altri colpi. Altri grugniti. Imprecazioni.
Do you mind?!
Vibrazione improvvisa, e la vecchia tivvù della vecchia signora del piano di sopra e la vecchia signora del piano di sopra improvvisamente non sembrarono più così fastidiosi.
Erin socchiuse un occhio, dopo aver girato appena la testa. Storse il naso per la luce del display del cellulare, che le ferì gli occhi ancora assonnati.
"Lice", sapeva che vi avrebbe letto.
Il telefono vibrava allegramente nella sua mano esattamente come aveva fatto le altre ventisette volte nell'ultima ora. E, come le altre ventisette volte, Erin sbuffò e lasciò cadere il piccolo aggeggio sul materasso.
Nascose il cellulare sotto al cuscino, tuffandovi il viso nell'attesa che quella dannatissima vibrazione finisse.
Sospirò.
"Try the new Big N' Tasty! With extra salad-"
Grugnito crescente in esasperazione.
Vibrazione.
«This is East Jesus fucking Nowhere! Ti spiacerebbe andare all'inferno?»
Urlare nel cellulare non era sembrata proprio l'azione più meditata, ma il sollievo era tale che-
Una breve risata dall'altro capo della linea. Maschile.
Erin sentì il sangue gelarsi nelle vene.
«I'd love to, ma mi seccherebbe buttare tutto questo caffé.. Ah, e ho anche quella canzone che mi avevi chiesto ieri. .. Anzi, non è neanche tanto male.»
Erin lasciò cadere il viso nel cuscino, tentando di sopprimere l'urlo disperato che le stava nascendo in gola; respirò profondamente, e avvicinò di nuovo il telefono all'orecchio.
«You've got to be kidding me.» Una risatina soffocata, appena isterica, nervosa.. Esasperata.
Si alzò dal letto, una mano tenendo il cellulare all'orecchio, l'altra afferrando qualche ciocca disordinata di capelli che tirò indietro.
Si affacciò alla finestra, e rimase sospesa tra lo scoppiare a ridere e il cadere a terra per lo shock.
«Dimmi che non sei quello in piedi qui sotto.. Vicino all'insegna del cinese.»
Breve silenzio.
«Allora, che fai.. Scendi o no?»
Oh.
«Arrivo.» Risposta secca, con una traccia di ansia.
Erin lanciò il cellulare sul letto, mentre con lo sguardo sceglieva e scartava i vestiti che pendevano alla rinfusa dal vecchio e malridotto armadio, facendo slalom tra mucchi di vestiti gettati sul pavimento e un gatto così prepotentemente appollaiato sopra la sua borsa a tracolla, anch'essa a terra.
Non credette di essersi mai sbrigata tanto in vita sua.
Sette minuti dopo usciva dal portone biancastro del palazzo sistemandosi gli occhiali sul naso, al contempo mentalmente domandandosi se avesse chiuso la porta di casa e come avesse fatto a scendere le scale senza gli occhiali e di corsa senza schiantarsi e-
Cosa cazzo ci facesse Billie Joe Armstrong davanti al suo portone di casa con due caffè e un sacchetto con ciò che pareva essere un brownie in mano.
Dovette rimanere imbambolata per almeno dieci secondi; il suo viso era contratto in una lieve smorfia, qualcosa a metà tra l'addormentato, l'incredulo e l'infastidito, ma quest'ultimo per colpa del sole semi-nascosto dalle nuvole che le feriva gli occhi.
"Coffee?" Billie le allungò uno dei due bicchieri; sorrise appena, divertito dall'impaccio e dall'espressione della ragazza.
Erin grugnì, buttando giù per la gola rasposa una sorsata del liquido bollente, per poi allontanarne il contenitore e osservarne con naso arricciato la nota marca verdastra stampata sul cartoncino anti-ustione-dita-consumatori. Poi guardò Billie, con un'espressione che appariva ancora più confusa.
".. Perché mi hai portato il caffé?"
Cristo, Erin. Di tutte, le domande che potevi fargli.. Sai com'è, perché si trovi qui, perché proprio ora, come ha fatto a sapere dove abitassi, dove abbia pescato il mio numero.. No, eh? Niente.
Billie rise appena. "Tré non ama svegliarsi prima delle due di pomeriggio senza quattro o cinque caffé.. Volevo ringraziarti per il favore che hai reso alla nazione ieri. - Erin sorrise appena; Billie si schiarì la voce, facendo poi spallucce. - E comunque volevo darti almeno un motivo per non uccidermi selvaggiamente per averti svegliato".
Erin annuì, sentendo gli ultimi due interrogativi che si era mentalmente posta premerle tra i pensieri. Un attimo prima che potesse aprire bocca, Billie fece un gesto per invitarla a camminare.
Costeggiavano la grigia Telegraph Ave. sotto un grigio cielo, lungo sfilze di Café, pizzerie e lavanderie a gettoni, lei tenendo tra le due mani infreddolite il caffè, lui sorseggiando il suo con una mano in tasca, avanzando con quel suo strano incedere che ricordava i tempi di Dookie, in cui non riusciva a mettere un piede davanti all'altro senza che sembrasse che si stesse perdendo i piedi, come se li facesse rimbalzare troppo in là per la gamba e il resto del corpo. Come se non avesse proprio voglia di camminare.
Billie alzò gli occhi, scontrando lo sguardo con l'enorme facciata di un'altrettanto enorme cattedrale. Alte mura, enorme rosone, la bellezza di tre entrate pesantemente decorate con le strutture in marmo. Ebbe una sensazione di fastidio addosso, improvvisa, e scostò lo sguardo, sospirando. La punta delle sue Converse sembrava infinitamente più interessante.
"Stupide marionette di una salvezza che si sono costruiti da soli, ecco cosa sono." Aria uscita dal naso, brevemente, con evidente disapprovazione. Uno sguardo di lato, subito tirato via; eppure non c'era solo disdegno in quegl'occhi..
"Vuoi spiegarmi allora perché vivi in un quartiere di ferventi protestanti?" La domanda non era solo curiosità; affronto, forse?
".. Per masochismo." Rise aridamente Erin, tra sé e sé, mentre finiva il suo caffé per buttarlo in un cestino lungo la strada. "Mio fratello e mio padre hanno avuto sempre rapporti migliori con dio che con me."
Billie girò lo sguardo verso di lei, alzando un sopracciglio, perplesso. Ma non ebbe neanche il tempo di processare il tutto e di fare ulteriori domande che cominciarono a venire giù grosse gocce d'acqua.
"Ecco. Merda, lo sapevo.." Billie ed Erin cominciarono a correre sotto la pioggia che si intensificava di momento in momento, mentre cercavano di coprirsi alla meglio. Billie si sfilò il chiodo in pelle, porgendolo ad Erin, che non aveva nulla con cui coprirsi. Erin lo guardò con un'espressione indecifrabile, un misto di ammirazione, confusione, gratitudine e orgoglio, prima di accettare la giacca e riprendere la corsa.
Chissà per quale motivo, finirono nel campo da baseball del liceo principale di Oakland, dove si ripararono sotto alle tribune coperte.
Lasciandosi cadere su uno dei sedili in plastica, Billie sospirò, chiudendo gli occhi. Riaprendoli qualche attimo dopo, si ritrovò davanti la mano di Erin che gli rendeva la giacca, con un'espressione in viso piuttosto eloquente; i capelli erano zuppi, come anche il viso e gli altri vestiti. Sorrideva appena.
"Grazie comunque." disse, tentando di rimanere impassibile.
Dopo averla guardata qualche secondo, Billie scoppiò a ridere. Erin alzò gli occhi al cielo.
"Cazzo, grandioso! Prima il cavaliere dei miei sogni viene sotto casa brandendo un caffé, poi viene giù il diluvio universale, e ora il suddetto cavaliere ride pure di me? Davvero, Erin, ti sei superata." L'irlandese alzò appena le braccia, lasciando che cadessero pesantemente sui pantaloni, che produssero quel tipico suono di indumenti bagnati. Billie rise anche di più, Erin si sfilò gli occhiali per stringere tra due dita il dorso del naso, con gli occhi chiusi. Sospirò.
Billie ridusse la sua risata ad un sorriso, lanciando un'occhiata laterale ad Erin, prima di sedersi con i gomiti sulle cosce, sporto in avanti. Osservò distrattamente l'enorme campo da baseball, con l'erba bagnata e fangosa in alcuni punti, ricordandosi di come Tré, quella mattina di qualche tempo prima, lo avesse trovato proprio presso un campo da baseball.
Infilando una mano nella tasca dei pantaloni, Billie tirò fuori un foglietto spiegazzato e umidiccio, che porse ad Erin, senza spostare lo sguardo dal campo davanti a lui.

Il foglietto sembrava cedesse sotto alle sue dita che tremavano appena; schiuse la carta appesantita, respirò. Lesse.

Is this a tale
the ones you used to tell?

Cos'era, una storia? Un ricordo? Una favola?
Erano storie di amori e coraggio, quelle dei libri, quelle che ricordava. Quelle che non si era mai sentita raccontare. Ne aveva sapute inventare tante, ne aveva sapute raccontare innumerevoli, ma mai per se stessa. Erano sempre state per suo fratello.
Non c'era stato nessun padre, nessuna madre ad evocare nelle loro menti assonnate ambientazioni fantastiche di boschi incantati, castelli stregati e case di dolciumi e marzapane. Non c'era nessuna storia, nessuna fiaba che finisse, nella sua memoria. E lei aveva imparato che ogni cosa, ogni cosa vera, aveva una fine.
Le fiabe, quelle.. Non finivano. Quelle erano solo finzione.

I was lost when I couldn't find you
Now you're nowhere to be found


Alzò lo sguardo dal foglio, appena indirizzandolo verso l'uomo che sedeva accanto a lei. Il suo era uno sguardo illegibile, cupo e lontano; non era il presente, né la realtà ad avere stretta in pugno la sua mente.
Era lontano.

Rilesse la frase.
Chi aveva perso? Cosa lo aveva spinto a brancolare nel buio?
Eppure c'era un tale amore in quelle parole, in quel primo verso, una tale dipendenza da una persona..
I respiri diventavano più forzati, gli occhi rileggevano quelle due righe come fossero un mantra.
Perdevo me stesso quando non ti trovavo.. E ora non so neanche più dove cercarti.
Ti ho perso, ho perso me stesso.
Così apparentemente chiaro, così crudo. Una perdita, improvvisa. Ma non una perdita inevitabile, ma era semplicemente.. Qualcuno che aveva scelto di nascondersi. Che aveva scelto di non farsi trovare.
La fiaba, la menzogna di qualcuno che sceglie di perdersi, via da ogni cosa.

Is this a tale
the ones you used to sell?

Una menzogna venduta senza troppi problemi; non è difficile mascherare la verità ad un bambino che non ha conosciuto altro che la realtà della tua voce, della tua presenza, non è vero?

Erin chiuse gli occhi, respirò a fondo.
Sentiva il cuore pulsarle nelle tempie, le mani tremare di rabbia e risentimento e dispiacere e chissà cos'altro, imbottigliato nella gola bollente e chiusa, come mille parole sotto pressione, che aspettavano solo di essere versate rabbiosamente contro il mondo intero.
Respirò ancora, cercando di scacciare dalla mente il ricordo insistente, paurosamente nitido e minacciosamente vicino, di Alice.
Alice che la guardava con tutto e niente scritto sul viso, dispiacere e stupore, vergogna, rabbia. Alice che le aveva coscientemente mentito. Alice che l'aveva coscientemente, ripetutamente ingannata. Come nelle fiabe, ecco. E ora chissà chi l'avrebbe salvata in groppa ad un bianco destriero, a spada sguainata.
Contro la realtà era sola. Come, improvvisamente si rese conto, lo era sempre stata.

Chiuse velocemente, ermeticamente il foglio, piegandolo su se stesso; guardò via, non volendo leggere oltre quelle parole che avevano strappato via ogni maschera, e non solo dai suoi stessi pensieri e sentimenti.
Guardò Billie, con uno sguardo pieno di tensione, di perplesso dispiacere; non sapeva bene per cosa dovesse dispiacersi, era semplicemente quel peso terribile che gravava su quelle stesse parole, era stata quella frustata così netta di realtà, ad averla resa quasi dolorosamente sensibile.. A cosa, non lo sapeva ancora bene.
Tese la mano con il foglio, sperando non si notasse che desiderava allontanarlo il più ed il prima possibile.
Qualche secondo ancora, e Billie si girò, guardandola prima negli occhi; quasi inespressivi, i suoi, in genere sempre così accesi di quel verde pieno di tutta l'anima. Sorrise debolmente, sfilandole il foglio dalle mani e lentamente piegandolo, per infilarlo nella piccola tasca dei pantaloni ancora umidi.
"Non è sempre così che vanno le favole, sai. Ricordo di averne letta qualcuna con un lieto fine.." Billie rise appena, amaramente, quasi tra sé e sé, forse di qualche ricordo improvvisamente riaffioratogli in mente. ".. Semplicemente, non era la mia."
Si girò, la guardò ancora negli occhi, sorridendo ancora, appena alzando gli angoli della bocca; sperava forse che quel sorriso potesse mascherare anche lo sguardo infinitamente triste, senza successo.
Si alzò, passando velocemente le mani sui pantaloni, come a volerli ripulire, come se volesse ripulirsi le mani della conversazione appena avuta. Dimenticarla, forse, annoverarla negli scaffali del passato e cercare di dimenticarla, o di farla passare inosservata alla sua stessa coscienza.
Erin rimase seduta a guardarlo mentre si sistemava, mentre si infilava il chiodo di pelle ancora lucido di pioggia, improvvisamente troppo grande per le sue spalle piccole e stanche. Rimase seduta a domandarsi se fosse il suo posto, quello, di vedere tutta l'umanità del proprio eroe, del proprio idolo, tutta l'umanità, tutta la debolezza più miserabilmente umana, tutta insieme.
Non si alzò, non lo seguì; forse più per egoismo, per cercare mentalmente di non far coincidere l'immagine di uomo apparentemente immortale, sempre pieno di energie, di rabbia costruttiva, di parole, di vite che portava nelle sue parole e nella sua musica, con quell'ombra che si faceva strada tra i sedili della tribuna, con l'alone della propria pioggia interiore su ogni centimetro di sé.
Le sarebbe costato troppo. Avrebbe perso anche l'ultimo granello di quell'ultima spiaggia.
Prima di scendere l'ultimo scalino, si girò, rivolgendole un sincero, piccolissimo sorriso; gli occhi si accesero appena. "Se mai dovessi ritrovare quella forza che ti ha spinto a combattere le favole degli altri.. Vorrei esserci."
I'd like to feel what it's like.
E dopo che anche l'ultimo angolo di persona fu scomparso dalla strada, Erin rimase lì, a fissare il vuoto del presente in quel campo da baseball così vuoto. Ma non era il passato, quello riflesso nei suoi occhi, bensì il futuro.
Will I ever find the truth behind my own fairytales?

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Capitolo 17
*** A Bullet and a Prayer. ***


Author's Notes: Insomma, si è capito che questa storia, per quanto io possa desiderare il contrario, sta cadendo inevitabilmente nel dimenticatoio. Da parte mia, perché non aggiorno, ma il motivo è che (da parte vostra) nessuno ha il coraggio, o meglio, nessuno ha voglia di cliccare quel cazzo di link che dice niente di più difficile di "Inserisci una recensione". Non avete un account? Benissimo, fate pure, non m'interessa. Ma è un po' umiliante vedere il numero di volte che l'ultimo capitolo è stato letto, e poi vedere che il numero totale di recensioni ammonta a uno. Una recensione. Fatevi un po' schifo, almeno un pochino. Fatemi sentire meglio.
Comunque, basta di queste pseudo scenate da pseudo scrittrice rinnegata e passiamo al commento dell'UNICA recensione.

ShopaHolic: Come posso non ringraziarti dopo che mi lasci un simile commento? Tu ti scusi per non essere riuscita a scrivere "un commento che riguardasse un po' più nello specifico ciò che hai scritto e il modo in cui lo hai scritto", ma io non posso che ringraziarti per avermi fatto capire, ancora una volta, la forza della scrittura. Non necessariamente di quello che scrivo io, non sono né abbastanza consapevole delle mie capacità né abbastanza finta per negarle del tutto e fare della finta modestia, ma semplicemente ciò che la scrittura riesce a trasmettere singolarmente ad ognuno di noi. Io non do un'unica interpretazione di ciò che scrivo, non pretendo di impartire agli altri lezioni su come leggere o leggermi, tutto il contrario. Non dico niente a nessuno perché neanche io saprei precisamente cosa leggerci; mentre lo scrivo una cosa, quando lo rileggo, un'altra. Quindi, ancora, ti ringrazio. Questo sogno che tu dici di aver letto e vissuto tramite le parole che ho scritto, non può che essere uno dei pochi motivi rimasti per me per continuare a scrivere qui sopra, e una motivazione mia, personale, per continuare a fare ciò che così tanto amo fare, ma così poco rivelare agli altri. Grazie.


Buona lettura. Venite a ritirare la bambolina dopo la recensione.
E se avete da criticare in merito alla mia amarezza e scenata sul suddetto argomento, siete liberissimi di farlo.

Buone vacanze a todos.
E chiunque vada sulle piste non lo dica, che la pazienza è poca e la tendenza a rosicare molta.






I was told to stay away
Those two words I can’t obey.
Pay the price for your betrayal,
Your Betrayal.
[Your Betrayal, Bullet for My Valentine]






Title: A Bullet and a Prayer.
Soundtrack: Letterbomb, Green Day; Colder Than My Heart If You Can Imagine, A Day To Remember.


Senza neanche distogliere lo sguardo dallo schermo bianco e luminoso del computer, Erin allungò una mano per cercare il calore della sua fedele tazza verde pistacchio, senza tuttavia rimanerne appagata; inutile dirlo, la tazza giaceva abbandonata accanto al piccolo, malmesso portatile, il caffé da lungo tempo raffreddatosi.
Che poi, a volerlo dire, il caffé era decaffeinato, il latte era a lunga conservazione e puzzava, e quelle poche righe scritte sul computer erano rimaste invariate durante l'ultima ora e un quarto.

Erin sospirò; forse una gitarella fino all'isolato successivo per stanare dei viveri al supermercato era diventata necessaria.
Si passò una mano tra i capelli, lasciando che riposasse qualche attimo sulla nuca, poggiando il gomito sulla scrivania. Quell'articolo la stava facendo penare già da qualche ora, e lei non aveva altro desiderio che fare a pugni con il cuscino prima di crollare addormentata fino al giorno dell'apocalisse.
 Si sfilò gli occhiali, poggiandoli accanto al computer, massaggiandosi gli occhi stanchi.
Rilesse mentalmente la prima frase che aveva scritto. “Pugnalata alle spalle per il neo-eletto Gary Bakers”.

Si frustò mentalmente per essersi lasciata trascinare dalla propria rabbia e dai propri sentimenti. Va bene la satira, va bene la pungente ironia e il velato antagonismo, ma apertamente urlare il proprio odio ai quattro venti nei confronti di Bakers era forse un po' troppo.
 Sospirò di nuovo.

Forse non era al corrotto politico che era indirizzato l'articolo, e tantomeno la “pugnalata”.
La ferita era fresca e lei non poteva fare a meno di stuzzicarla, ripensando con rabbia all'accaduto e meditando possibili litigate e rappacificazioni improbabili.
 Forse non voleva semplicemente più sapere nulla di Alice, forse desiderava con tutta se stessa dimenticare ogni cosa, lei compresa.
Strinse i pugni, guardando via dallo schermo, sentendo la rabbia crescerle dentro, ricordandole ogni momento dell'accaduto con mille dolorosi flashback.
 Si alzò improvvisamente, afferrando cellulare e portafoglio prima di uscire velocemente da casa, noncurante del computer rimasto acceso, unica fonte di luce nell'appartamento rimasto al buio durante tutta la giornata.
Non appena fu in strada, chiuse gli occhi e inspirò profondamente, grata di quell'aria appena fredda che le pungeva i muscoli indolenziti dalla quasi totale immobilità delle ultime ore. Ripensò brevemente all'accaduto di quella stessa mattina; Billie (chiamarlo così sembrò improvvisamente una libertà troppo grande da prendersi, pur avendolo sempre fatto prima di averlo conosciuto di persona) che si presentava sotto casa sua, i caffé bollenti, la pioggia, la canzone.
Scosse la testa.
Troppi pensieri, congetture e ricordi per poterli affrontare con nervosa lucidità.
Decise di rimandare l'analisi dello strano fenomeno “Billie” alla mattina successiva, davanti al dovuto caffé mattutino.

Bastarono pochi minuti di camminata sotto il freddo venticello serale di Novembre, per entrare nel caldo, accogliente pub irlandese, appena oltre l'angolo tra la Telegraph Ave e la 25th St.

Erin si avvicinò al bancone, appoggiandosi al suo bordo smussato con un mezzo sorriso, nostalgico ed affettuoso insieme, mentre ne accarezzava con i polpastrelli il legno intaccato e scuro; osservò il barista, un omone pelato dalla pelle innaturalmente nivea e costellata di efelidi, mentre si muoveva indaffarato tra liquori e boccali, asciugandosi di tanto in tanto le mani sul grembiule nero, un tic nervoso che aveva acquistato con gli anni di professione, assieme all'innata abilità nel mestiere che lo aveva portato ad avere il locale quasi perennemente pieno di persone.
Quando finalmente si girò verso l'irlandese, gli occhi gli si illuminarono appena. Sorrise appena e si affrettò verso di lei con passi grossi e pesanti.
“Ree, my little Carrot! E' tanto che non ti vedo.. Come stai?”

Erin sorrise appena e si sedette, poggiandosi pesantemente sul bancone con i gomiti.

“Potrei stare meglio, Aemonn.”
 Aemonn annuì, come se avesse improvvisamente capito tutto. Sorrise tristemente per poi allungare verso la ragazza un boccale di birra doppio malto.
“Aspettami qui. Ho ciò che fa al caso tuo, Carrot.” E le fece l'occhiolino, sparendo dietro alla tenda improvvisata che era una grossa, lunga bandiera dell'Irlanda appesa verticalmente al muro a mo' di divisorio per la stanzetta che nascondeva.
Erin buttò giù la maggior parte della mezza pinta, sorridendo alla scelta del barista, che conosceva fin troppo bene i suoi gusti. Osservò distrattamente gli altri consumatori mentre s'intrattenevano in chissà quali conversazioni, che, notò, cercavano spesso di far apparire infinitamente interessanti.
Aemonn tornò qualche minuto dopo con una serie di bottiglie, stringendone con particolare cautela una, di vetro vermiglio piena per metà, contenente un liquido apparentemente nero. Sorrise complice ad Erin, per poi tirare giù dagli scaffali altre bottiglie e un bicchiere di vetro, dove cominciò a preparare una strana miscela a metà tra il rosso e il marrone scuro.
“L'“Oblivion”, tesoro. E' ciò che ci vuole per te, dato che mi pare che tu non sia in vena di sputar fuori ciò che ti pizzica. Comunque, il vecchio Aemonn è sempre qui, nel caso volessi rendermi partecipe di qualche gossip.”
Erin sorrise appena quando gli indirizzò un breve occhiolino, per poi osservarlo accarezzarsi la lunga barba color carota mentre ascoltava l'ordinazione di tre ragazzi poco più in là, un altro tic che si portava appresso probabilmente da quando aveva orgogliosamente cominciato a crescere la folta barba di cui andava tanto fiero.
Un paio d'ore e qualche “Oblivion” dopo, Erin accarezzava il bordo del bicchiere con aria assorta, piacevolmente intorpidita grazie all'alcol che le circolava in corpo, tuttavia ancora sobria, abbastanza da scuotere la testa infastidita e dolorante ogni qualvolta la sua mente errante sfiorasse il doloroso ricordo dell'accaduto. La capacità tipicamente irlandese di reggere l'alcol non era sempre comoda, soprattutto quando si avevano una migliore amica da avere in odio e una giornata (forse non tutta) da dimenticare.
Il cellulare cominciò a vibrare. Erin fece un cenno al barista che sarebbe tornata di lì a poco, e sgusciò via verso l'uscita secondaria del pub, che dava su un vicoletto interno a due schiere di bassi palazzi biancastri, che la luce smorta dei lampioni sulla strada rendeva scuri e sporchi.
Sfilò il cellulare dalla tasca dei pantaloni, rabbrividendo all'improvviso cambiamento di temperatura. Rispose senza neanche guardare lo schermo, infastidita di essere stata interrotta durante la sua sessione di riflessione masochistica.
“Pronto?” Voce stanca, seccata. La mano nella tasca dei pantaloni, il piede ciondolante a calciare via qualche sassolino d'asfalto.

“Erin? Sei tu, tesoro?” Una voce distintamente femminile dall'accento irlandese, calorosa e apprensiva, si poteva quasi percepire un sorriso nella voce stessa.

Erin sgranò gli occhi, e smise immediatamente di camminare su e giù per il vialetto.
 “Abigail? .. Sei tu?”
Incerta, quasi incredula. Strinse gli occhi, come a poter vedere mentalmente meglio la persona con cui stava parlando.
“Erin, tesoro.. Come stai?” Voce adesso più concitata, più emozionata. Erin sorrise appena, amaramente.

“Sto.. - Breve sospiro. - Sto bene. Voi come state? Come sta Patrick, si è ripreso?”

“Si, si.. Stiamo tutti bene, insomma, si tira avanti. - Una breve risata, cristallina e coinvolgente. - Abbiamo visto il tuo articolo, sei stata fenomenale, tesoro! L'abbiamo appeso accanto a quello di Alice, nella bacheca in cucina.” La ragazza si rabbuiò, abbassando lo sguardo a terra; sentì lo stomaco stringersi di astio e risentimento.
“... Grazie.”

“La nostra Allie ci ha detto di averti aiutata tanto, non è vero? Siete sempre inseparabili, eh, come eravate da piccoline...”

Erin rimase in silenzio; strinse i pugni, chiudendo gli occhi e inconsciamente trattenendo il fiato. Contò i battiti, lenti, regolari, nel tentativo di arginare l'ondata il veleno che le si insinuava nel corpo. Respirò profondamente.

“.. Io.. Io devo andare, Abigail. Scusami, ma devo proprio andare. Ci risentiamo a Natale, eh? Come sempre. Ciao.”
Chiuse il malmesso cellulare di scatto, soffocando nelle mani l'impulso di scaraventarlo contro il muro del palazzo che si ergeva di fronte a lei. Lasciò cadere il piccolo aggeggio nella tasca, pescando nell'altra il pacchetto di sigarette semivuoto.
Accesa una sigaretta con mani tremanti, inspirò a pieni polmoni, grata di quel vuoto sollievo che assaporò ad occhi chiusi, noncurante del freddo.
Rubata dalla sigaretta anche l'ultimo respiro di nicotina, rientrò nel locale, passandosi una mano tra i capelli e mentalmente ripensando all'assurdità della situazione, della chiamata. Alzò gli occhi quando fu quasi al punto in cui si era seduta prima, per bloccarsi improvvisamente, congelata. Sentì il cuore cominciare a martellarle nel petto, mentre un gelo di rabbia e infinita tristezza le saliva fino al viso. Strinse i pugni.

“Che cosa vuoi?”

Non credette di aver mai parlato con tanta freddezza, con tanto veleno nelle parole. Occhi duri e carichi d'odio in occhi disperati ed eloquenti, quasi domandassero mille cose, mille scuse.
Alice cercò di avvicinarsi a lei, tentando un passo appena accennato. Erin indietreggiò, facendo scattare il suo sguardo sul viso dell'altra ragazza, tentando di capirne le intenzioni.

“Erin, ti prego.. - Implorante, arresa - Fammi spiegare, ti prego."

Strinse i pugni, spostando lo sguardo altrove. Non riusciva a guardarla senza sentire la gola improvvisamente soffocata, bollente, stringersi di lacrime che avrebbe voluto versare. Poi, fece scattare gli occhi di nuovo in quelli dell'altra.

“Non mi devi mandare i tuoi genitori per rappacificarti con me. Sei una persona adulta e matura o no?”

Alice strinse gli occhi, perplessa, per poi cercare di nuovo di avvicinarsi all'amica, tendendo appena un braccio verso di lei.
 “Io non so di cosa stai parlando, davvero. Non sapevo nulla, devi credermi-”
“Non ti è bastato nascondermi le cose, tradirmi?! Ne ho abbastanza. Ora devi coinvolgere anche i tuoi, devi avere qualcuno che sappia dire le cose che tu non hai avuto il coraggio di dirmi in faccia.” Dito puntato contro di lei, la voce ormai veleno puro.

“Smettila! Non centrano nulla loro, non gli ho chiesto nulla. Non osare incolparli così, alla leggera, non dopo tutto ciò che hanno fatto per te!”

Erin sentì un fremito gelido percorrerle la schiena, e la testa che le girava. L'effetto dell'alcol era stato spazzato via dall'adrenalina e dalla rabbia, che ora sentiva pulsare nelle tempie.

“ .. Non mi rinfacciare nulla! Tu non hai idea di cosa sia affezionarsi a qualcuno così tanto da doversi continuamente ricordare che non sono i tuoi di genitori!”

Alice si bloccò; boccheggiava, con gli occhi sbarrati, incredula, negli occhi il dispiacere, la disperazione. Abbassò il viso, socchiudendo gli occhi. Mormorò un “mi dispiace”, mordendosi il labbro per trattenere le lacrime, prima di scappare via, fuori dal pub.

Erin rimase ferma qualche attimo, il petto che si alzava e si abbassava ritmicamente nel tentativo di recuperare fiato. Sentiva la testa pesante, le tempie che le pulsavano, le mani tremare. Respirò profondamente, prima di varcare quasi correndo la soglia del pub, verso la 25th St.
Alice era dall'altra parte della strada, seduta su una panchina, di spalle. Il suo esile corpo era scosso da singulti, tremante e rannicchiato su se stesso.
Era forse il momento giusto di porre fine a tutto quell'infinito dolore, che, ormai era evidente, non era la sola a dover sopportare? Non voleva lasciar andare tutto così, come se fosse stata una litigata stupida, di quelle che alla fine non si sanno neanche per quale motivo siano cominciate. Non riusciva a dimenticare quell'immagine dell'amica che la guardava, senza riuscire ad articolare parole, mentre lei si rendeva conto di ciò che le stava di fronte. Non riusciva a lasciar andare la nuova, dolorosa consapevolezza che ormai non avrebbe avuto più nessuno di cui fidarsi ciecamente, neanche più Alice. Non riusciva ad accettare che la propria migliore amica le avesse intenzionalmente mentito, nascosto la verità, tradita..
Non riusciva a ritrovare la fiducia e la speranza di far ritornare tutto come prima.
La guardò qualche altro momento, lo sguardo buio e infinitamente triste, prima di avviarsi lungo Telegraph Ave., verso casa.
Anche stanotte non avrebbe dormito.

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Capitolo 18
*** And in the darkest night. (But you still keep on falling down) ***


Author's notes: Come altre volte, i mesi passano e io, per pigrizia, per impegni scolastici o per mortificazione, finisco per non aggiornare, o per rimandare a data-da-definirsi.
Il capitolo successivo a questo è ancora in fase di scrittura, purtroppo; mi rendo conto di quanto sto portando avanti questa storia a rilento, e di quanto poco io possa essere ispirata in questo periodo, in cui scuola e vari impegni incombono. Ma farò del mio meglio in ogni caso.. Chiuderla (temporaneamente) sarà l'ultima spiaggia.
In ogni caso, questo capitolo ha molti richiami al capitolo 14, ma curiosamente rivoltati in molti modi.. Me ne sono accorta solo posteriormente.
Come al solito ringrazio ShopaHolic, fedelissima nel suo commentare, e nei suoi consigli. Ho scoperto che mi trovo meglio a rispondere ad personam alle recensioni, per cui credo che comincerò a fare così.. Un grazie immenso anche alla Capa, che non solo illumina le mie giornate con le sue recensioni accuratissime, affettuosissime e meravigliosamente chilometriche (inteso in tutto e per tutto come un complimento e per me motivo di gioia!), ma mi aiuta anche a concepire sviluppi e idee per la storia. <3
Spero di riuscire ad aggiornare di qui a poco.. (: Magari verso la fine della scuola, quando avrò più respiro.

Valeo si valetis!

M.






Title:
And in the darkest night. (But you still keep on falling down)
Soundtrack: Useless, Nasty Cats; Glass In The Park, Alex Turner.





"Ebrietas est voluntaria insania."
[Seneca]






L'eco della porta sbattuta le risuonava ancora tra i pensieri, lontano anni luce, lontano nella mente, lontano nel tempo, così lontano mentre rigirava tra le dita il vecchio telefonino, guardandolo rotolare tra le sue mani fredde e nervosamente tremanti.
Cosa avrebbe dovuto fare? Non era una scelta, la sua, in fondo. Azzardarsi o non azzardarsi. Provare o non provare. Cosa avrebbe avuto da perdere?
Tutto.
Era una situazione che la ingolfava, che le fagocitava qualunque pensiero, qualunque agire o pensare ragionevole o razionale, un dominio dell'istinto tale da farle perdere la cognizione della surrealtà della situazione, che sfiorava appena con un barlume di coscienza, forse l'unico rimasto.
Il numero compariva sul display, tra le chiamate ricevute. Era semplice, era chiaro, e non richiedeva poi tanto. Cosa le impediva di premere quel pulsante verde scolorito? Cosa la fermava dall'affrontare la sua voce, la sua presenza, inevitabilmente ad essa annessa? Chiuse gli occhi, lasciandosi cadere seduta sul letto, il minuscolo appartamento ancora nella penombra, unica fonte di luce le persiane ancora semi-aperte, da cui filtrava la luce dei lampioni e quella più fioca e lattea della luna.
Si passò una mano tra i capelli, per poi stringere il dorso del naso tra l'indice e il pollice, una volta lasciati cadere gli occhiali da vista in un posto dimenticato da D-o, e pure da lei.
Si strinse nelle spalle con forza, reprimendo l'istinto di urlare. Non aveva scelta, e se anche ne avesse avuta, l'aveva già fatta.

".. Pronto?"

La mano premuta sul cellulare, attaccato all'orecchio, era la stessa che aveva sfiorato il tasto di risposta, senza nemmeno far caso al nome che lampeggiava fastidiosamente sullo schermo, unica fonte di luce in quella stanza altrimenti quasi buia, se non fosse stato per la lampadina a basso consumo energetico della cucina, che non contava certamente tra le sue competenze quella di rischiarare l'ambiente assegnatogli, bensì quella di diffondere una luce giallastra e uggiosa in uno spazio estremamente limitato.
Billie allungò il braccio verso il telecomando, notando con muto divertimento le bocche improvvisamente azzittite degli ospiti del dozzinale talk show, mentre, senza abbandonare la sua posizione supina, si sistemava meglio sul divano, evitando accuratamente di far cadere con un gesto improvviso dei piedi scalzi i cartoni di take away mal accatastati e in precario equilibrio sul bracciolo opposto del divano.

"Billie, sei tu?"

Mani nervosamente torte intorno ad un lembo del lenzuolo, che pendeva dal letto ancora disfatto, respiro pesante, ansioso, ansimante, voce incrinata, occhi chiusi come in vana speranza di qualcosa, e nell'altrettanto vano tentativo di trattenere le lacrime.

".. Erin?"
Voce ed espressione altrettanto sorpresa, mentre il suo corpo istintivamente si tirava su a sedere, come per prestare più attenzione, per poter sentire, capire meglio.
Dopo aver passato l'intera giornata nel più totale ozio ed apatia, abbandonato alla non-scelta dell'azione successiva e alla passività brada più totale, sembrò come improvvisamente svegliarsi da un dormiveglia incosciente.

"Si, Billie, io.. Ciao.." Un mezzo sorriso in una breve esalazione, nervosa e di sollievo, mentre la mano cominciava ad attorcigliare il lenzuolo attorno all'indice, noncurante della sensazione fastidiosa della circolazione mancante, quasi le servisse come punizione costante di ciò che aveva fatto; dell'averlo chiamato, delle sue parole, del disturbo, dei suoi errori..

"Erin, cosa c'è? E' successo qualcosa? Dimmi.."
Voce sorridente, eppure colorata da una venatura di inequivocabile apprensione, come se fosse pronto ad ascoltare qualunque cosa. Billie si passò una mano fra i capelli, ora perfettamente seduto sul divano, i gomiti poggiati sulle ginocchia.

"No, no.. Non è successo niente. E' solo che..  Alice.. Io.."
Coperta convulsamente stretta nel pugno, infilatasi tra le dita come il dolore che le si insinuava tra le parole che non riusciva a dire, o nemmeno a formulare nella mente. Sentiva il petto stringersi, la mente urlare la sua inettitudine, la sua incapacità, rinfacciarle la sua più totale idiozia manifestatasi nella sola, insulsa iniziativa di chiamarlo, di chiedergli.. Chiedergli cosa, poi? Chi credeva che fosse, la nonna sempre pronta ad accoglierti in casa propria, piena di quell'odore di generazioni passate e di armadi chiusi, disposta ad ascoltarti, a darti consigli, a lasciarti piangere sulla sua spalla? Chi credeva che fosse, un vecchio amico, un confidente? Respirò a fatica.
Aspettava una sua parola, un suo invito ad andare avanti, ma nulla, solo il silenzio. Era in attesa, come lo era lei stessa, di capire quanto fosse successo.
Attacca, attacca, le urlava la coscienza nella mente, che esasperatamente s'insinuava nei suoi pensieri, attacca, avanti, cosa aspetti? Cosa credi, che voglia stare qui a parlare con te?
Un sospiro lungo.
Improvvisamente sentì dall'altra parte del telefono un rumore forte, voci gioviali e un battere di mani, e una voce che riconobbe istintivamente come quella di Tré.

".. Avanti, Billie-mogio-Joe, alzati quel tuo culetto da nano e vai a recuperare le birre dal frigo, qui intanto lo zio Tré si organizzerà per allestire la migliore serata all'insegna dei vecchi tempi, con vaschette di gelato senza fondo, maratone di fiction anni '90 - no, Mike, è inutile che ci speri, Fonzie e gli altri lesi di quel programma non li vedremo - e un sacco di altri-"

"Tré, che cazzo ci fate qui?" La voce di Billie, a metà tra il seccato, il perplesso e il piacevolmente stupito, interruppe l'attacco di logorrea del batterista, che Erin era stata ad ascoltare con altrettanto sconcerto.
"Billie, dai.. Andiamo, su. Abbiamo tanto da fare." Un sorriso che impregnava le parole del bassista, apparentemente insignificanti, scontate, eppure..
Billie sorrise appena, rincuorato. Avevano qualcosa da fare. Avevano molto da fare. Da quanto non aveva uno scopo a dare senso alle sue giornate, il cui scorrere si ripeteva, monotono, di giorno in giorno, di ora in ora. Avvicinò il cellulare all'orecchio, con un mezzo sorriso che gli piegava un angolo delle labbra.
"Erin, io, scusami ma..-"

Dall'altra parte, la mano destra, che non reggeva il cellulare, coprì gli occhi serrati, mentre il cuore della ragazza palpitava come un tamburo nelle sue orecchie. Cosa ti ha fatto pensare che ti volesse parlare, eh?!
Sentì il suo respiro mozzarsi nei polmoni, e un grosso peso materializzarsi nello stomaco, pieno di senso di colpa e di quella terribile consapevolezza, che Billie non potesse avere in alcun modo, in alcun momento, anche solo un secondo da dedicarle. Lui aveva ben altro a cui pensare, lui aveva migliaia, no, milioni di vite da rappresentare, da cantare nelle sue parole.. Perché mai avrebbe dovuto pensare a lei?
Allora cosa aspetti ad attaccare, idiota?
Strinse convulsamente il cellulare tra le dita, incurante dell'alta probabilità che si rompesse, mentre stringeva i denti, urlandosi nella mente la sua inadeguatezza, e quanto avrebbe desiderato sparire nel nulla, in quel preciso momento.
".. C-certo. Scusami." Mormorò con voce impercettibilmente rotta. Soffocò un singhiozzo di rabbia nella gola, mentre davanti ai suoi occhi vedeva correre immagini di un deja-vu che avrebbe dato qualunque cosa per non rivivere, in quel momento. Suo fratello, una chiamata in piena notte, lacrime amare. Scosse la testa, tentando di scacciare il ricordo; lasciò cadere il cellulare sul letto, e se stessa con esso, affondando la testa nel cuscino, sperando di soffocare con i suoi pensieri e ricordi anche quel bruciante senso di colpa che le opprimeva il respiro.

Aveva bevuto troppo, e parlato altrettanto. Era riuscito a rimanere sobrio abbastanza da godersi la serata con Mike e Tré, ridere alle battute vecchissime e non più così divertenti dei programmi televisivi di vent'anni prima, rubare l'ultima cucchiaiata del Chocolate Chip Cookie Dough ice cream, essere trascinato tra le risa generali ad un parco divertimenti alle due di notte, dove aveva preteso di fare il giro per tre volte di seguito sulla ruota panoramica, che ricordava essere la giostra, forse l'unica, su cui il padre, Andy, lo portava, indicandogli di volta in volta i luoghi dove era cresciuto, dove aveva suonato con il suo gruppo jazz, la loro casa, ricordando con affetto a Billie che la madre, Ollie, li aspettava lì, fedelmente, amorevolmente, come ogni altro giorno.

".. E' come dico io, ti assicuro! Io su queste cose la so lunga, sai.." Biascicò Billie, con quel suo stringere le labbra in un serissimo broncio, ed agitando l'indice con fare da predicatore.
Mike sospirò. “Billie, non credo che se la prenderà per così poco..” Cercò di rassicurarlo, sorridendo appena, cercando di capire dentro di sé il motivo di tanta preoccupazione.
Billie scosse la testa, serio. “No, tu non capisci.. Io lo sapevo, vedi? E’ che poi basta. Boh, nevica e uno ha freddo, uno è arrabbiato e poi piange, e non sai se piange perché piange o se piange perché è arrabbiato..”
“Billie, ti prego...”
“Vedi che uno poi si mette a pregare? Io però non prego. Io no. Io credo..” Avvicinò le gambe al petto, raccogliendole a se, come se volesse diventare sempre più piccolo, più compatto. “Io credo che lei non preghi. Altrimenti non si sarebbe messa a piangere, no? Non mi avrebbe chiesto aiuto..”
Mike sospirò, ma non riuscì ad aprire neanche bocca, prima che Billie continuasse a biascicare frasi sconnesse e apparentemente, almeno per lui, di grande significato.
“E invece mi ha chiesto aiuto. Ma io no.. Io zitto. Io.. Mi odio. Io non voglio più vedermi..”
“Billie, smettila! Sai che non è vero per niente-”
“Smettila tu! Zitto, zitto, zitto. Non ti voglio sentire! Zitto, zitto..” Billie strinse gli occhi più che poté per chiuderli, premendo le due mani sulle orecchie, ripetendo come un’esasperata litania la stessa parola.
“Zitto, zitto! Io ho ragione, le so queste cose! Io lo so che lei avrebbe potuto non chiamarmi, e invece mi ha chiamato, e mi ha chiamato perché voleva parlarmi, e io non ho parlato, e io sono un idiota.. E mi odio, non ci voglio credere.. Mi odio e non posso farci niente, e non posso fare niente per lei.. Perché mi odia, mi odia.. Mi odia... ”
“Billie!” Mike lo interruppe bruscamente, prendendo, strette tra le sue, le due mani, gelide, tremanti, di Billie, che con l’ascendere della sua sofferenza si aggrappavano sempre più impietosamente al suo viso, ai suoi capelli, alla sua pelle..
“Smettila di torturarti.. Lasciati vivere, Billie. Devi saperti perdonare, mi capisci? Respira. Respira, ecco.. Bravo..” Con la delicatezza e la familiarità che solo a lui erano date e concesse, Mike allentò la presa di quelle piccole ma lunghe, un dito alla volta, con il fantasma di un sorriso sulle labbra, inspiegabilmente a metà tra compassione, disperazione e affetto.
“Ascoltami.” riprese, con la voce apparentemente serena, quasi lenitiva. “Ora non c’è nulla che tu possa fare, capisci?”
Billie scosse la testa, sempre più convulsamente. “Lei mi odia. E io non riesco a dormire. Mi odia..”
Mike sospirò. “Non c’è niente che tu possa fare, adesso. E’ tardi, Billie, non puoi parlarci adesso, né puoi chiamarla.. Dovrai aspettare domani, va bene?”
La massa di capelli corvini si sollevò rapidamente, e due occhi scuri, appena striati di verde alla luce artificiali dei lampioni sparuti nel parchetto, lo guardarono pieni di uno stupore che il bassista non riuscì a decifrare.
“No che non va bene. Perché noi la chiamiamo adesso.” Proferì, con la voce candidamente risoluta, chiara, come se stesse riferendo l’ora, o il colore del cielo, come se stesse esponendo la verità più ovvia del mondo.
“.. Cosa? Ma che dici, Billie, sono le quattro e mezza di notte, ma che chiamare e chiamare...” Commentò Mike, quasi sul punto di esasperarsi, riuscendo a mantenere la calma grazie ad un profondo respiro.
Billie ebbe da protestare sonoramente, imbronciandosi, lagnando e lanciando occhiate omicide all’amico.
“Non puoi pensare di chiamare quella povera ragazza a notte fonda..” Ribadì un’ultima volta il bassista.
Billie lo guardò intensamente per qualche secondo, e per un attimo sembrò a Mike che i suoi occhi si fossero accesi di un qualche lampo mefistofelico. “Infatti. Io non la chiamerò.” Sorrise appena, questa volta con aria di sincera serenità e accettazione di un fatto già dato per scontato. “La chiamerai tu.”
Mike lo guardò sbigottito, senza proferire parola. Passarono una decina di secondi prima che, con voce piatta, con una vena che sperava di essere scoraggiante, il bassista potesse rispondere.
“Tu stai scherzando”.
Billie non fece altro che scuotere la testa energicamente, ridacchiando tra se e se, come se solo lui fosse partecipe della più grande trovata di tutti i tempi. Il suo divertimento di fronte alla faccenda, nonostante tentasse di evitarlo, era fin troppo evidente.
E mentre Mike cercava di dissuaderlo dal compiere un tale atto di vandalismo psicologico, Billie gli porse il telefono, su cui campeggiava una scritta bianca, chiara, inequivocabile: il nome della povera malcapitata.
“Billie, no, aspetta! .. Che stai facendo, imbecille..!” Mike tentò di strappargli il telefono di mano, ma senza successo, perché il frontman aveva cominciato a saltellare, quasi correndo, sventolando il telefono che squillava, con piccoli urletti di gioia e di scherno
“Tanto non mi prendi!”, squittiva ridacchiando sguaiatamente. Quando finalmente Mike riuscì a prendere il telefono e ad allontanarlo dalla presa dell’amico, sentì una voce femminile, impastata di sonno, roca, forse anche il risultato del fumo, rispondere.
“... Pronto?
Mike si pietrificò, terrorizzato. Cosa avrebbe detto a quella povera ragazza? Come le avrebbe risposto? Come avrebbe spiegato il motivo della chiamata, come la folle idea di chiamarla nel cuore della notte, come scusarsi per-
“Ciaaao Erin!” Sentì Billie urlare accanto a lui, mentre si sporgeva sulla sua spalla, aggrappandosi a Mike per aiutarsi a raggiungere, o quantomento avvicinarsi al telefono, che il bassista aveva alzato al di sopra di quanto Billie potesse arrivare con le braccia.
“.. Billie?” Sentì la voce dall’altro capo del telefono, dal tono perplesso, stupido, ed ancora innegabilmente assonnato.
“Pronto, Erin? Ciao, scusami, sono Mike.” Aggiunse velocemente lui, accostando il telefono all’orecchio, passandosi una mano sulla nuca, sospirando.
Si, lo so.. Cioè, lo avevo capito.” Qualche secondo di silenzio, un sospiro. “Scusami.”
“Senti, piuttosto, qui-”
“Ciaaaaaaao Erin!” Esasperando ulteriormente la vocale, Billie si era sporto verso il telefono aggrappandosi al braccio flesso di Mike, tentando di farsi sentire.
Billie..! Sono le quattro.. E’ successo qualcosa?” Una traccia di ansia non troppo nascosta.
“Ma no, figurati.. E’ solo che-”
“Qui fa freddo, ci sono i lampioni, l’erba, le panchine.. L’erba.. C’è l’erba, Mike? C’è l’erba?” Cominciò a ripetere ridacchiando Billie, tirando la manica della giacca all’altro, che tentava, esasperato, di campare quattro scuse per spiegare la situazione.
“Erin, mi devi scusare tanto, è stata una malsana idea-”
Billie cominciò improvvisamente a tirare la manica del bassista, con insistenza. “Falla venire qui, falla venire qui!” lagnava, ma, dato che Mike lo ignorava, Billie si sporse verso il telefono.
“Mike, dille di venire qui!”
Mike lo guardò allucinato, per qualche secondo, registrando il silenzio dall’altra parte del telefono.
Dopo una manciata di secondi, sentirono di nuovo la voce della giovane.
“... Dove siete?
Domanda semplicemente posta, senza pretese, e che non avrebbe accettato altra risposta se non l’ubicazione richiesta.
“Siamo a Christie Park, e c’è tanta erba!” Urlò Billie, sghignazzando, facendo ancora leva sul braccio di Mike, sul suo viso stampata un’aria compiaciuta e gli occhi che gli brillavano.
Arrivo.

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Capitolo 19
*** Through this night (I might not make it) ***


Author's note: Al quasi-termine di queste strane vacanze estive, mi trovo di nuovo in camera, di nuovo con la voglia di scrivere, la mente piena di idee, ma le parole che si fanno pregare com'è loro solito.
Però mi sono fatta una promessa - anche se non so a quanti interesserà a questo punto.

Questa fan fiction ha per me un significato ed un'importanza affettiva ed emotiva che va ben oltre quella che si può avere verso la propria creazione o, come tanti si dilettano a chiamarla, la propria "bambina". Tra poco saranno tre anni da che l'ho cominciata - ed ho pensato che il ritmo della storia non è ciò che meriterebbe di essere. Credo che la storia abbia fin'ora progredito poco e ad un ritmo terribilmente lento, solo per colpa di una mia pretesa di tenere il livello di scrittura dei capitoli sempre ad un certo standard minimo - standard che molti mi hanno detto essere discretamente alto.
A questo punto mi rimane una cosa da fare - sia per rendere la storia più interessante ed "avvincente" (per quanto possibile) per voi lettori, sia per riaccendere in me la voglia di scrivere e di continuare questa fic: ho deciso che mi imporrò di scrivere più spesso, ad un livello che non sia necessariamente dei migliori, di non cestinare qualunque cosa tenti di scrivere a priori; cercherò anche di rendere il ritmo più narrativo e meno riflessivo, in modo da privilegiare uno sviluppo di eventi piuttosto che di introspezione.
Ovviamente il mio stile rimarrà sempre introspettivo, perché pur volendolo è come scrivo, quindi non posso semplicemente ignorare lo stile che ho sviluppato in anni di scrittura. Più semplicemente, farò uno sforzo di rendere i capitoli più snelli da quel punto di vista, pur cercando di mantenere un certo livello.

Questo è quindi l'ultimo capitolo ancora pienamente appartenente al "vecchio regime", al quale capitolo ne seguirà uno di transizione tra la prima parte della storia e la seconda, quella che inaugurerà il sopracitato ritmo "narrativo".
Detto ciò, vi lascio, ringraziando di nuovo tutti coloro che mi seguono, che leggono e che commentano, in particolare (e come poteva mancare?) la mia fidatissima e fedelissima Capa, la cui pazienza, fantasia ed entusiasmo mi hanno sostenuto, convinto e spronato nelle mie scelte, nell'ideare la storyline dei prossimi capitoli e soprattutto a non lasciarmi mai sola con la mia pigrizia creativa, la mia abituale mortificazione e conseguente (o precedente?) incapacità.


Fatevi sentire.

M.




Title:
Through this night (I might not make it).
Soundtrack: Hope For The Hopeless, A Fine Frenzy; Carry You Home, Nashville Skyline






You're wrong, you know? You do count. You've always counted and I've always trusted you.
But you were right... I'm not ok.

[The Reichenbach Fall, Sherlock]







Le luci che correvano rapidamente sul cofano della vecchia Ford Farlaine sembravano minacciare di accecarla ad ogni comparsa, e le sue mani tremanti si stringevano sul volante grossolanamente largo e ricoperto in una sorta di ecopelle, che non aiutava la situazione. La Interstate 580 correva lungo la scura e roboante chiazza di nero che era l’oceano, abbracciato dalle lunghe e presumibilmente solide strutture e ponteggi del porto di Berkeley; il lungo tratto rettilineo le permetteva di girarsi, di tanto in tanto, a lanciare un’occhiata al sedile posteriore, dove con un morbido, intimo cullare, Mike stringeva a sé Billie, che sembrava essersi fatto improvvisamente più piccolo, indifeso, nel sonno inquieto e sfinito che finalmente si era concesso tra le braccia del suo migliore amico.
Erin sospirò, cercando di concentrarsi sulla strada scura e deserta che scivolava sotto le ruote, distogliendo la sua mente dal suo continuo approdare ai momenti vissuti nelle ultime ore, rivivendoli con un’intensità forse distorta dagli stessi fantasmi che bruciavano da dentro, impietosi.

Non riusciva a fermare le sue gambe dal correre, instancabili, verso una meta che conosceva solo per istinto, per pura convinzione del cuore. Sentiva il cuore pulsarle nelle orecchie, un battito irregolare, frenetico. Aveva paura.
Non che non conoscesse la sensazione, non che non ne avesse mai provata. Non aveva neanche motivo di esserlo. Sapeva esserlo al sicuro, sapeva di non avere nulla a che fare con lui. Sapeva essere tutto un errore.
Non sarebbe mai dovuto succedere nulla di tutto questo.
Sarebbe forse tutto rimasto come prima? Un’esistenza mai uguale a se stessa, eppure volta alle stesse dinamiche, con le stesse persone, le stesse guerre quotidiane da combattere come se la vita ne dipendesse.. Forse le cose sarebbero ancora come prima? Forse nulla del suo piccolo, insignificante mondo sarebbe crollato come in preda ad una feroce mareggiata, e lei avrebbe ancora avuto quella fidata spalla su cui...
Scosse la testa, sentendo il cuore, la gola stringersi in quella ormai tristemente familiare morsa di calore e dolore, che nulla anticipavano, se non amare lacrime. Respirò a fondo, e prese a correre con rinnovata energia, intravedendo finalmente in lontananza due figure in controluce.

Erin scosse la testa, in un obbligato richiamo istintivo al ricordo, mentre ritornava con chi occhi fermamente sulla strada davanti a lei.
“Mike..” Chiamò, la voce bassa, eppure non ridotta ad un sussurro, né ad un mormorio. Non aveva desiderio di nascondere nulla, o di far sembrare come se lo stesse facendo. Sentiva come di tradire qualcuno, in qualche modo.
Il biondo fece scattare gli occhi nello specchietto retrovisore, facendo scomparire ogni traccia di malinconia e tristezza di cui lo sguardo era gravato, mentre, fino a pochi secondi prima, guardava con aria assente fuori dal finestrino; forse il suo stesso riflesso, e con esso quello del piccolo uomo che abbracciava a sé.
Erin sospirò ancora. Abbassò di nuovo lo sguardo sulla strada, umettandosi il labbro inferiore, per poi morderlo appena. Aveva paura, anche adesso.
“.. What went wrong?” Chiese, la sua voce adesso incrinata appena, impercettibilmente, di timore del non ritorno. Come se stesse lei stessa pronunciando una condanna. Come se dirlo ad alta voce lo facesse sembrare più vero, ed improvvisamente incurabile.
Mike distolse lo sguardo, ritornando al suo vuoto osservare di ciò che li circondava. La tonante e scura distesa dell’oceano ormai alle loro spalle lasciava il passo agli imponenti cavalcavia della Freeway, e ad ogni secondo si avvicinavano al centro di Oakland, e ad ogni secondo il suo cuore si faceva più pesante.
Il bassista fece fuggire lo sguardo verso la ragazza un’ultima volta.
“I don’t know”.

Non sapeva minimamente come li avrebbe trovati, eppure eccoli lì, entrambi. Come due saltimbanchi fuggiti dal circo per la follia di uno e per l’affetto e il protettivismo dell’altro, alla ricerca di un’alternativa che non sapevano neanche loro di volere, o di che natura potesse essere.
Vedeva l’ombra di Billie in controluce danzare allegramente, quasi a ritmo con una canzone che sentiva solo lui, nella sua mente in quel momento compromessa, distorta.

Trattenne il fiato, cercò mentalmente di fermare il cuore in corsa. Qualcosa le urlava di girare le spalle, di non farsi vedere, sentire. Non era quello il suo posto, non era lei a dover essere presente, non pensava di essere abbastanza forte per se stessa, figurarsi per entrambi. Avrebbe fatto lo stesso, appena qualche giorno fa, quando ancora la sua piccola bolla di vita non era scoppiata, quando ancora tutto il suo mondo girava intorno al prossimo articolo, alla prossima serata passata con Alice a dar fondo a vasche di gelato e ad intere stagioni di sitcom televisive? Avrebbe risposto ugualmente senza esitazioni alla surreale richiesta di aiuto di quella stessa persona che con il suo di aiuto l'aveva tenuta in vita?

“Credo che la cosa migliore sarebbe portarlo a casa. Io.. Non credo di sapere cosa fare altrimenti. Non so, forse altrimenti potremmo-”
“No, casa va bene.” Interruppe Mike, il viso teso in una consapevole determinazione, lo sguardo che tentava di perdersi nell'asfalto scuro che scorreva fuori dal finestrino, come se cercasse di scovare nella propria espressione la preoccupazione che aveva tentato di nascondere; se non più da se stesso, almeno dal suo migliore amico. “Casa va benissimo.” Ripeté, per convincere anche se stesso che fosse la scelta migliore, la migliore soluzione in quel momento.
Erin annuì, la sua attenzione solo parzialmente concentrata sulle indicazioni fornite dal bassista, mentre quell'apprensione e ansia pulsanti che le bruciavano con costanza in ogni respiro conducevano la sua mente lontano, nuovamente.

L'ombra si fermò, improvvisamente. Curva, accartocciata in avanti, piccola la statura che emanava squilibrio, impazienza, si girò verso di lei, le braccia ritirate appena verso il petto, le piccole dita, fino a poco prima frementi, improvvisamente immobili.
Anche la ragazza, come se fermata da una trazione improvvisa, si bloccò. I suoi occhi puntati negli altri; grandi, verdi, spalancati. Riflettenti una luce innaturale, impropria, che nulla rifletteva o risplendeva di quella scintilla abituale, instancabile, brillante, volendo anche con una vena di follia.
Improvvisamente l'ombra si mise a correre verso di lei, tendendo le braccia. E fu solo quando si rese conto di averle strette attorno al proprio corpo in una morsa disperata e piena di bisogno, solo allora osò riconoscere la materialità dell'ombra. Fu un sussurro a farle stringere le braccia nello stesso modo, fu un sussurro a suggerirle di chiudere gli occhi, fu un sussurro a ordinare al suo cuore di pulsare con improvviso dolore, a rubarle un respiro, improvvisamente troppo pesante e troppo da sopportare per il suo corpo.

“Tell me that I won't feel a thing..”

Fu un sussurro a farle dimenticare se stessa in quell'abbraccio.

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Capitolo 20
*** Catch My Breath (Kiss the Demons Out of My Dreams) ***


Author's note: Stanca di studio e di frustrazioni continue, sto cercando di abbandonare la speranza di trovare anche solo un paio di commenti sui capitoli. Vi ringrazio come al solito della partecipazione.
Capitolo breve, non necessariamente chiaro né facile, ma sicuramente fondamentale per i prossimi capitoli, che non è detto che posterò di qui a poco. Vedremo.
Ringrazio come sempre chi mi è vicino nei miei deliri, nelle mie fasi di perdita totale di speranza e di abbandono, nei miei voli pindarici come nelle mie melense eredità romantiche (nel senso improprio del termine).
Adieu.




Title:
Catch My Breath (Kiss the demons out of my dreams)
Soundtrack: Give me Novacaine, Green Day; Hospital, Lydia; Never let me go, Florence + The Machine.







“The mind is its own place, and in itself can make a heaven of hell, a hell of heaven..”
[Paradise Lost, John Milton]








Dammi un ricordo che non ho memoria di avere, dammi una gioia che non so più come provare, regalami un respiro tra queste nubi soffocanti di realtà, perché la memoria di me stesso non fa che scorrermi via tra le mani come i granelli di polvere che si perdono nell'aria, irriconoscibili tra gli altri.


Out of body and out of mind, kiss the demons out of my dreams.


Sento le mie labbra lasciar fuggire un suono che mi vibra nel petto, ogni muscolo teso nell'inutile tentativo di raggiungere un attimo di pace da questa pressione, da questo ardere non ancora insopportabile che mi pulsa nella testa.
Tento di chiudere gli occhi ma li ritrovo aperti, tento di stringere i pugni ma le dita si schiudono, e mi accorgo che lo sfiorare di altre dita conquista i movimenti della mia stessa mano, come i petali che si aprono al calore del sole. Ogni contatto incerto, ovattato dal dolore, mi fa respirare, come se mi liberasse da questa ferita che si ramifica ovunque, nella mia mente, nel mio corpo.


Its like a throbbing tooth ache of the mind.


E' dolce, il contatto.
Ed altrettanto amara è la realtà.

“Billie, rilassati.. respira.” Voce dolce come balsamo sulla mia pelle.

Chi sei?


Tento di definire, tento di capire. Una voce mi apre la mente, i pensieri stanchi rifuggono la coscienza che lentamente si insinua tra i miei movimenti. Non sono sicuro di volermi svegliare.


Tell me that I won't feel a thing, so give me novacaine.


Un altro contatto, stavolta deciso, come di chi già ne ha avuti fin troppi di momenti come questo.

Sento l'eco dei miei pensieri tra i lembi ed i limiti di questo limbo, dove ogni respiro rimbalza sull'orlo della coscienza, unico indicatore del fatto che sono ancora vivo. Sono vivo, ma vivo?

“Non ti preoccupare, adesso ci penso io. Tu vai pure.. Vai.” La voce stavolta è dura, stanca, difensiva. La difesa è il timore di un attacco che è già avvenuto, e il cui fantasma brucia sulla pelle ancora sensibile. E' una voce che non vorrei mai sentire o sapere lontana.
E' familiare la presenza, vicina come sento che è sempre stata.
Un respiro, un attimo di silenzio. Incertezza, discrezione, timidezza, fiducia.

 “.. Va bene. Il mio telefono è sempre acceso, per qualunque cosa.”

Frasi di circostanza che vorrebbero essere taciute, ma il silenzio che incombe in loro assenza sarebbe anche peggiore.

La voce si avvicina, diventa scura macchia di corpo, respiro d'aria e di presenza. Vorrei raggiungerla, vorrei definirla, conoscerla. Non sono neanche più sicuro di vederla, mentre mi sento lentamente perdere ogni contorno di coscienza.

Riconosco qualcosa sotto di me che cede sotto un peso, ed anch'io cedo.


Apro gli occhi, non sono solo.

Ogni mano si allunga verso di me, protuberanze nascoste dall'insondabile confusione di questa realtà. E' una pressione onnipresente, una presenza che vorrei vedere, ma non riesco. Schiudo le labbra, vorrei farmi sentire, vorrei scacciare ogni cosa, rimanere solo. Vorrei dare voce a quest'ansia, ma non sento alcun suono.

Vedo un colpire frenetico agli angoli di ogni cosa, allungo una mano per violare la distanza, ma ogni cosa scompare.


I get the funny feeling that's alright.


Sfiorare di tessuto sul viso, mi chiudo su me stesso. E' tutto più facile quando si è piccoli, lontani dal mondo.
Un respiro profondo, una mano (la mia?) che a forza preme sugli occhi, sul viso, sugli zigomi. Voglio alleviare il dolore, ma nessuno mi ha mai insegnato a combatterlo.

“.. Io sono nell'altra stanza. Buonanotte.” Parole sussurrate tra un'arresa non ben mascherata e un affetto che in quel momento fa solo star male.

Adesso la vedo, l'ombra. Si appoggia in fondo, si fonde con il buio. La sento respirare, sento i suoi occhi su di me.

Vorrei scomparire.


Scompaio.


Battito di cuore, pulsazione di coscienza.

Amaro domina nella bocca e corpo. Perché il risveglio deve sempre essere improvviso parto di realtà?


Onde di suono intense, trema ogni parte di me, boato basso ed indistinto che mi assorda le orecchie. Allungo una mano, ma ogni attimo è pesante, e soffoco nella fatica. Elettricità nell'acqua, movimenti improvvisamente immobili, nessun rumore. Tutto è troppo forte, troppo da sopportare.



Take away the sensation inside - bittersweet migraine in my head.


Dolce è un nuovo sfiorare delicato di tre dita sul mento, sulla guancia - e il respiro di un profumo che vorrei fosse familiare mi fa abbandonare di nuovo ogni luce.

Di nuovo la presenza, strisce di luce sulla superficie grigia sopra di me.


Jimmy says it's better than here.


Dimmi che sarà una buona notte, e tutto andrà bene.


Give me a long kiss goodnight, and everything will be alright.


Un sospiro d'aria sulla pelle - come il fantasma della carezza di un amante perduto - ed il sonno cominciò ad eludere ogni assonnato tentativo di inseguirlo fino ai lembi più remoti della tiepida incoscienza, fino a poco prima padrona di membra stanche e pesanti. Una mano allungata a stringere un lenzuolo arricciato e ruvido, mentre il viso veniva affondato nell'incavo centrale del cuscino, unica isola di salvezza rimasta dai respiri di luce solare che riscaldavano il letto e il corpo occupante.

Billie aprì un occhio, sperimentalmente. Qualcosa nella sua mente gli prometteva che se la luce non fosse stata buona con lui, si sarebbe potuto chiudere di nuovo in un meraviglioso fagottino, una bianca e lenzuolosa crisalide che lo avrebbe protetto dalle noiose ingerenze di tutto ciò che lo circondava – luce compresa. Bastava chiudere gli occhi con abbastanza forza, e sarebbe scomparsa anche quella.


Quando l'unico occhio socchiuso si rifiutò di definire con precisione l'ambiente circostante, tentò con il secondo occhio, con il solo risultato di richiuderli con forza entrambi subito dopo, la luce impressa impietosamente anche sulle palpebre chiuse, mentre un grugnito discontinuo e roco fuggì dalle labbra socchiuse. No, no.. dormiredormiredormire. Buio, dormire. E basta. Una voce cantilenava nella sua testa con fare forse anche troppo insistente per essere d'aiuto nel ristabilire la pace dei sensi, necessaria per poter tornare a dormire.

Senza preavviso, come se si fosse pianificata perfettamente il momento ideale per depennare anche l'ultima, flebile speranza di tornare nel mondo dei sogni, cominciò a ramificarsi nella sua testa una pulsazione di inconfondibile e spietata emicrania. Billie represse un principio di urlo esasperato nell'isoletta non-più-così-felice del cuscino, una qualche remota parte nella sua coscienza consapevole del fatto che altrimenti la situazione non sarebbe di certo migliorata.

Dopo qualche tempo, soddisfatto di aver mentalmente sconfitto le malvagie influenze del risveglio almeno nell'immediato futuro, il frontman tentò nuovamente di avventurarsi nel mondo circostante almeno con lo sguardo. Soddisfatto dei propri risultati – quasi del tutto positivi – tentò di tirarsi a sedere, con movimenti lenti ed instabili. Passata la prima ondata di vertigini, si avviò verso la stanza adiacente.

Non fu tanto la figura dormiente di Mike che lo lasciò perplesso – quante volte l'avesse visto in quello stato ormai erano inestimabili – quanto il fatto che fosse addormentato sul divano, con un'orrenda coperta di flanella avvinghiata alle caviglie,  una tazza di ceramica scolorita ai piedi del divano e il cellulare stretto gelosamente tra le dita. Sembrava che avesse pianificato di addormentarsi sul divano, piuttosto che essersi semplicemente lasciato cadere su di esso dopo una notte fin troppo distorta dall'alcool, troppo stanco per trascinarsi fino al letto di Billie, men che meno a casa propria, ma ormai troppo disabituato a dormire sul pavimento. Billie sorrise appena – non erano più quelli di una volta.

Ignorando la dolorosa pressione alle tempie, si trascinò verso il triste angolo cottura, ancora dominato dalla penombra. Tuttavia la scarsa luce non bastò a nascondere un piccolo pezzo di carta – le parole, sopra, scritte frettolosamente, con una calligrafia irregolare, obliqua, quasi come se l'autore stesse cercando di nascondere un tremolio nella mano.


 “Ora siamo pari. Per il brownie rimedierò.

- Erin”



Il frontman non poté reprimere un sorriso dalle sue labbra, mentre il suo sguardo individuava il liquido scuro nella macchinetta, tenuto in caldo da chissà quanto tempo. Mentre con le dita accarezzava inconsciamente il biglietto, cercò di ricordare, o almeno di capire le circostanze che avevano causato quella curiosa situazione. Da che ricordava, l'ultima volta che si erano sentiti era stata quella telefonata improvvisa, di sera, durante la quale-


Bastò il ricordo dell'improvviso arrivo di Tré e Mike a spiegare il vuoto di memoria, così come non ci mise tanto a capire che in qualche assurdo momento della sua ebbra follia doveva aver trascinato in mezzo anche quella poveretta.


E pensare che l'aveva chiamato per avere aiuto. E pensare che l'aveva sentita così persa, così in cerca di una presenza di silenzioso sostegno. E pensare che non aveva fatto altro che essere in mezzo nei momenti meno adatti, e quando finalmente gli aveva dato la possibilità di esserci, lui aveva fallito miseramente, cedendo al triste piacere di una bevanda alcolica in più e di un doloroso ricordo in meno. E pensare che-


Il mugugnare sommesso e soffocato da un cuscino di Mike lo fece tornare alla realtà del caffé, del biglietto e della realizzazione improvvisa di ciò che avrebbe dovuto fare.


E, mentre scovava il numero sulla rubrica del telefono, la sua mente dolorante e ancora assonnata cercava di sbloccare il buio cubo di oblio che racchiudeva gli eventi della notte precedente, nel tentativo di rendersi almeno scusabile per l'essersi sicuramente abbassato alle peggiori azioni e parole che il suo alter-ego ubriaco era straordinariamente capace di inventare.


Tre squilli e due respiri dopo, una voce.


 “.. Pronto?


La sua.


Billie sorrise.

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Capitolo 21
*** Cigarette-stained moments ***


Author's note: Non so bene come giustificare un aggiornamento dopo più di un anno di attesa. So che potrà sembrare che io abbia smesso del tutto di interessarmi a questa storia - ma ad essere sinceri è vero esattamente il contrario. Per quanto ci siano stati mesi in cui non ho scritto nulla (quelli tra marzo/aprile e luglio), causa maturità e conseguente studio, l'affetto e l'amore che provo per questa storia non mi ha mai permesso di "dimenticarmela". Ora che la vita universitaria mi sta riservando un anno di grandi difficoltà e di scelte - ma anche di tanti momenti morti - con l'aiuto di due persone meravigliose e meravigliosamente disponibili e generose, sto riprendendo le fila di tutto con quella che spero sarà rinnovata ispirazione e voglia di scrivere.
Se vorrete essere con me in questo "viaggio", vi prometto che potrò riprendere ad essere consistente - e, chissà, magari anche a divertirvi un po'.

Per farmi "perdonare" di questa attesa vi lascio un capitolo particolarmente lungo. Voi, però, fatevi perdonare lasciandomi almeno qualche commento. Sappiate che fanno tutta la differenza - davvero.

Rage & love,

M






Title: Cigarette-stained moments
Soundtrack: Maria, Green Day; Resolve, Foo Fighters





 
John: Because I had a row in the shop with a chip and PIN machine.
Sherlock: You had a row with a machine?
John: Sort of. It sat there and I shouted abuse.

["The Blind Banker", Sherlock ]
 
 
 




Prendere le carote, passare le carote sulla macchina. Mettere le carote nella busta.

Erin non era più neanche tanto sicura che quella voce nella sua testa fosse la propria, quanto più probabilmente quella della noiosissima voce automatica del chip and pin machine, che approvava ogni prodotto passato sulla lastra a raggi infrarossi ripetendo con mono-tono il nome ed il prezzo del prodotto – come a voler aiutare con caustica ironia la semi-dormiente e da giorni insonne Erin, facendole notare di quando in quando qualche confezione di caffé di troppo, o un prezzo troppo alto per il suo budget troppo ridotto.

Beeep.

Ed eccola di nuovo, la voce. Mai colorata da intonazione, così odiosa. Erin prese alla cieca il successivo alimento.

Prendere il latte (1% fat milk, two-dollars and seventy-nine cents, le ricordava la macchina), passare il latte (1% fat milk, two-dollars and seventy-nine cents) sulla macchina. Mettere il latte (1% fat milk, two-dollars and seventy-nine cents) nella busta.

Beeep.

Erin provò a lanciare un'occhiataccia alla macchina, tanto per ricordarle il suo posto nella scala gerarchica della loro società tecnologizzata, ma la stanchezza fece risultare la silenziosa minaccia come semplice esasperazione, come se non desiderasse altro che quella donna irritante nascosta dietro allo schermo luminoso se ne stesse zitta per qualche minuto.

Prendere il burro d'arachidi (piccolo e lussurioso piacere - Jif Creamy Peanut Butter, three dollars and eighteen cents, sentì blaterare), passare il burro d'arachidi (Jif Creamy Peanut Butter, three dollars and eighteen cents) sulla macchina. Mettere il-

“Unexpected item in bagging area.”
Rimproverò con voce melliflua la donna/macchina. “Please try again”.

Erin si risvegliò improvvisamente dal suo stato di trance, tirandosi su con uno scatto e guardando la macchina come se avesse detto la più incomprensibile delle frasi.
Riprovò a passare il burro d'arachidi sulla lastra.

“Unexpected item in bagging area.” Ripeté la macchina. “Please try again”.

Respirando profondamente, l'irlandese provò a passare nuovamente il piccolo barattolo sui raggi infrarossi, facendo particolare attenzione ad accompagnare lentamente il codice a barre precisamente sul punto di lettura.

“Unexpected item in bagging area.” Ribadì la voce. “Please try-”.

"Va bene, ho capito! Grazie!” Esclamò la ragazza, poggiando rabbiosamente il burro d'arachidi in un apposito ripiano per i prodotti indesiderati. “Tienitelo, non lo prendo più. Contenta?”

Con un sospiro esasperato, tentò con il successivo alimento, tentando di calmarsi. Ci mancava solo che me la prendessi con una macchina..
Con i chocolate chip cookies fu il momento del “Item not scanned”, che si ripeté anche con i bagels, ai quali però Erin non volle rinunciare, quando improvvisamente arrivò fulmineo un aiutante della catena di supermercati che inserì il codice, passò la confezione sul punto di lettura e scomparve, il tutto nel giro di qualche secondo.
Quando infine la donna elettronica osò sfidarla con un “Card not authorized. Please use an alternative method of payment.”, Erin alzò gli occhi al soffitto, trovando la frase del 7/11 a graziarle ulteriormente la vista.

Home is where your heart is - we are your heart and your home. Oh, Thank Heaven for 7-11!”

Erin soppresse un urlo esasperato, mentre con la coda dell'occhio notava che tutte le persone in fila dietro di lei si spostavano verso altre macchine.
But what a shame, 'cause everyone's heart doesn't beat the same, le venne da pensare, con un arreso mezzo sorriso che le increspava inconsciamente le labbra.
Mentre tentava di appoggiare le buste di plastica a terra, le squillò il cellulare. Cercando di equilibrare il peso di due buste e mezza - un manico aveva deciso che l'integrità era roba da pivelli, da buste conformiste e troppo obbedienti - in una sola mano, si appoggiò il telefonino tra la spalla e l'orecchio, recuperando le ultime buste rimaste a terra.
 
“Pronto?”

Non fece neanche a tempo a sentire la risposta, che il cellulare scelse esattamente quel momento per tentare un'ultima fuga per la libertà, scivolandole via dalla spalla per poi rimbalzare più e più volte sul pavimento. Come se non bastasse, la donna nascosta nell'apparecchio tecnologico decise che era assolutamente necessario che Erin ritirasse il suo scontrino, rendendole noto il fatto con una voce che ad Erin parve più che mai stizzita e velenosa – fu allora che le sue origini campagnole irlandesi non tardarono a farsi sentire in una colorita espressione di rabbia ed esasperazione.

Una volta recuperato il telefono e trovato un tavolino appartato nel coffee shop alla fine delle casse, Erin osò rispondere.
 “Era un momento decisivo nella mia personalissima lotta contro la tecnologia. Chiedo scusa per aver importunato eventuali ascoltatori.” Annunciò, con finto tono gioviale.

Fu nel momento in cui sentì una mezza risata dall'altra parte della linea, che le venne da chiudere gli occhi e pregare un dio nel quale neanche credeva di farla risvegliare da quello che le sembrava fosse un sogno di pessimo gusto.
 “Da ora in poi allora ti invierò un piccione viaggiatore, considerando anche quanto ami rispondere al telefono..” La voce, quella voce, inconfondibile - la sua.

Tentando per l'ennesima volta di ingoiare l'imbarazzo quanto i suoi istinti di rabbiosa distruzione dell'intera stirpe dei dispositivi elettronici, Erin sospirò.
 “Dimmi che hai un qualche radar che ti permette di sapere quali sono i momenti peggiori per chiamare, perché sembra quasi che ti piaccia mettermi in imbarazzo in questo modo..” Erin rispose, stanca ed innervosita. Era tutto così assurdo..

Accidenti, Erin. Veramente meravigliosa come frase – più un insulto di così non ti poteva uscire.

Il breve silenzio che seguì non fece altro che aggravare il desiderio della ragazza di scomparire dalla faccia della terra.

 “Sei al 7/11?” domandò Billie, con voce quasi perplessa.

La semplice pronuncia del nome del supermercato, di quel semplice nome bastò a far stringere il cuore ad Erin, che per un attimo chiuse gli occhi, la sua mente ancora una volta richiamata alle parole di quella canzone. Sospirò.

“Come fai a saperlo?”

Billie rise appena. “Solo lì hanno i chip and pin machine così odiosi. Lascia perdere la battaglia contro la tecnologia, Erin.. E' una causa persa.” Leggermente amareggiato, forse, nelle ultime parole? “Dimmi almeno che non hai preso uno di quei penosi caffè con il bicchiere di Obama o di Romney..” Aggiunse, tentando forse di alleggerire quanto avesse detto subito prima.

Erin rise appena. “No, per quanto la politica sia il mio pane quotidiano non mi abbasso a tanto..” Concesse, sorridendo ancora. Da quando le conversazioni con il signor Billie Joe Armstrong sono diventate così.. Rilassate? Naturali?

Da quando sto al telefono con il signor Billie Joe Armstrong?


“A proposito di politica.. Avrei una cosa da proporti. Un possibile lavoro.” La voce di Billie interruppe lo scomodo flusso di pensieri. Il frontman si concesse una breve pausa, come se stesse considerando accuratamente le parole che stava per pronunciare. “Però.. E' una cosa importante, un po' delicata. Se fossi interessata, vorrei parlartene di persona.”

Considerando brevemente quanto avesse desiderio di lavorare lontano dalla redazione – lontano da Alice, le ricordò un'indesiderata voce di coscienza – Erin pensò che forse avrebbe potuto ignorare l'immenso imbarazzo che l'aveva trattenuta dal voler contattare Billie durante la settimana che era trascorsa da quella sera. Aveva fatto di tutto per pensarci il meno possibile, anche se con scarsi risultati.
Rivederlo adesso sarebbe stato ricordare immediatamente tutto l'accaduto; lo stato in cui l'aveva trovato, le parole che aveva sentito pronunciate da quella stessa persona, la persona, che ora la stava invitando-

A vedersi per una questione di lavoro. Niente di più. Perché mai dovrebbe volerti vedere? Perché dovrebbe volere la tua compagnia? E' lavoro, è politica, è un incontro di lavoro. Falla finita, Erin.

“Si, direi che si può fare. Dimmi tu dove possiamo incontrarci, e quando..”


                                                                                                                                                                                                                                   

 
Nonostante le temperature si aggirassero intorno ai 10 gradi, il piccolo Awaken Café si era comunque dimostrato un accogliente e tiepido riparo dalla fitta e violenta pioggia invernale che scuriva i palazzi della grigia Broadway, i cui lattiginosi palazzi e piccoli grattiacieli si interrompevano improvvisamente per aprirsi all'intersezione tra la 15esima Avenue e l'inizio della Telegraph. Appena affacciato all'angolo della lunga strada si apriva un angolo di colore e musica, il brusio di rilassate conversazioni che si amalgamavano con il brontolio sommesso delle macchine per il caffé, il trillo dei boccali, dei bicchieri e dei piatti, prefigurazione delle serate musicali in programma e ricordo di quelle già passate, delle quali le più salienti venivano orgogliosamente rappresentate con fotografie e manifesti incorniciati ed affissi al muro, donando al locale quello stile tipico della Bay Area, vissuto e familiare.

Facendo tamburellare le dita sul tavolo davanti a sé, Erin guardava distrattamente fuori dalla vetrata, cercando con qualche parte remota della sua mente di determinare dove sarebbe caduta la successiva goccia sull'asfalto. Un brivido rapido le percorse la schiena quando la porta alle sue fu aperta brevemente, ricordandole sulla sua pelle con una fulminea folata di vento il fantasma dell'umidità che ancora non si era asciugata. Cercò di non farci caso – la pioggia era diventata una sua familiare inquilina, ultimamente.

Il bar si presentava come una piccola isola felice di artisti, impiegati fuggiti dalle bigie giornate lavorative d'inizio inverno, studenti universitari della vicina California University e qualche hippie sotto mentite spoglie della California League of Conservation Voters, una di quelle organizzazioni politicizzanti non-partisan che non si sapeva bene come andassero avanti, dato che militavano in favore di un'interesse verso l'ambiente che tutti volevano ma per il quale nessuno era pronto a fare veri e propri sacrifici – non in America. Erin guardò quegli uomini in curiosi completi verdolini o di tweed scolorito sorseggiare il caffé della casa o una birra artigianale, come se il mondo, fuori da quelle vetrate rigate dalla fitta pioggia, non stesse andando a rotoli.

Sul lungo bancone in legno chiaro e levigato venivano offerti boccali, calici e scuri piatti in ceramica pieni di tiepidi dolci e ricchi aromi che riempivano il piccolo locale con aromatiche volute di mille diversi profumi invitanti. Svettavano ai lati del bancone stesso delle lavagne riempite con i colorati elenchi dei piatti e delle bevande della casa, degli eventi della serata o in programma, o venivano semplicemente usate per scrivere una comunicazione o un benvenuto rivolto ai clienti. Giovani camerieri impegnati nelle ordinazioni erano guidati ed alternati nelle loro mansioni da un trio di baristi dall'aria rilassata e gioviale, che frequentemente si perdevano in chiacchiere con clienti evidentemente abituali. Un barista in particolare, probabilmente il proprietario, le ricordò Aemonn: avevano lo stesso modo di gesticolare animatamente, la stessa corporatura e quel modo di muoversi dietro al bancone che emanava anni di esperienza, totale controllo della situazione, tranquillità e familiarità – come se non fossero nati per fare altro. Il solo pensiero le strappò un sorriso inconscio, mentre con la mente ripercorreva le circostanze del loro primo incontro, anni addietro.

“Gloria, where are you Gloria?”

Erin alzò improvvisamente gli occhi, riconoscendo istintivamente la voce che l'aveva tirata così repentinamente fuori dai propri pensieri. Quella melodia, quella canzone, quella voce...

Lo sguardo stupito si alzò rapidamente verso l'origine della voce, tuttavia quell'espressione durò poco di fronte a ciò che le si presentava davanti: Billie, fradicio, con la bocca torta in una smorfia a metà tra lo scherzoso e il colpevole, mentre letteralmente ogni singola fibra dei suoi vestiti appariva grondante d'acqua. Di certo non sembrava aiutare il fatto che avesse scelto di indossare ovviamente il solito giubbotto di pelle sopra una leggera maglietta a maniche corte. Sembrava sul punto di congelarsi – la poggia era diventata particolarmente impietosa nell'arco delle sole ultime tre ore.

Erin non poté che sorridere.

“Maybe you should learn to weather an actual storm with an umbrella before asking me to do anything..”

Billie ridacchiò appena, la bocca tirata in un mezzo sorriso che tuttavia non gli illuminava gli occhi, che si persero a fissare un punto impreciso oltre la spalla di Erin.
La ragazza invece si morse prontamente la lingua – Bene, davvero. Brava, Erin, accidenti. Ti invita per parlare di lavoro e tutto ciò che sai fare è rispondere a tono. Sei qui per un motivo, fammi la cortesia di tenerlo a mente.

Concedendosi un respiro profondo, la mano destra che andava a premere sugli occhi per qualche secondo da sotto gli occhiali, Erin alzò poi di nuovo lo sguardo verso Billie, che, come se fosse tornato in sé al solo sguardo dell'irlandese, fece scattare lo sguardo verso di lei, accennando un sorriso e inclinando appena la testa da un lato, facendo battere insieme le mani.

“.. Shall we?”

Zack Mitchell, giornalista e critico musicale per l'East Bay Express, politicamente impegnato quanto lo erano gli album, le band e gli eventi che recensiva, era un amico di Billie dai tempi dell'uscita di Warning, quando ancora Zack lavorava come freelancer, occasionalmente per il Kerrang!, come volle quel giorno in cui si incontrarono per i Kerrang Awards che nell'Agosto del 2001 si tennero a Londra.

Si erano incontrati qualche giorno prima in occasione di un'intervista che Billie aveva deciso di concedere all'East Bay Express, uno di quei nominativi sulla lista che aveva richiesto un colloquio con la band. Con l'occasione, i due avevano deciso di incontrarsi prima della data prefissata per discutere insieme i dettagli di quella che sarebbe risultata essere quasi soltanto una chiacchierata tra amici di lunga data.

In quell'occasione, Zack aveva accennato appena ad un problema sorto nella redazione – gli eventi dell'elezione del governatore Gary Bakers erano velocemente decaduti in un intrigo complesso e pericoloso di eventi, una ragnatela di conoscenze e voci di corridoio che puntavano il dito in direzione di uno scandalo che tentava di uscire allo scoperto, ma che nessuno ancora aveva affrontato a mani nude tanto da renderlo finalmente noto al pubblico.

La sfortuna aveva voluto che il notista politico più acuto e sagace dell'Express fosse andato in pensione appena qualche mese prima e nel frattempo la direzione non era stata capace di rimpiazzarlo con qualcuno che fosse all'altezza di un simile scoop – che era, a tutti gli effetti, potenzialmente capace di sovvertire la già instabile co-esistenza delle delicate relazioni politiche e ideologiche della fitta rete giornalistica e attivista dell'East Bay.

“.. E' per questo che ho voluto parlartene. Mi è sembrata una buona proposta, conoscendo il genere di giornalismo verso cui sei orientata e dal momento che ormai..” La frase, dapprima enfaticamente pronunciata, morì sulle labbra del frontman, che abbassò lo sguardo, sentendo le proprie mani ritrarsi debolmente verso di sé. Provò ad alzare lo sguardo verso Erin – la trovò con un sorriso accennato, negli occhi, fissi su un punto lontano, distante, un'ombra che aveva già visto nei propri, innumerevoli volte.

Billie chiuse gli occhi con un sospiro, per poi riaprirli guardando di lato, in basso. Sentiva ogni secondo di quel silenzio pizzicargli la pelle, facendogli formicolare la nuca in una sensazione di sgradevole impaccio e di cose non dette, di cose che non volevano essere ricordate.

“Senti, per l'altra sera, volevo scus-”

“No, sono io che mi devo scusare.” Erin lo interruppe, la voce tirata, faticosamente mitigata, alzando una mano per far segno al frontman di non proseguire nel suo discorso. Lo guardò negli occhi, sulle labbra un sorriso tirato e mal riuscito che non rasserenava quell'espressione di colpevolezza e dispiacere che le aleggiava negli occhi. “Non avrei mai dovuto coinvolgerti. La chiamata di quella sera – è stato un errore. Non si ripeterà.” Aggiunse, cercando di non rendere troppo seria la propria espressione, il proprio tono, come se tentasse di non far pesare le proprie parole, soprattutto a se stessa.

Non avrei mai dovuto pensarti vicino a me.
I should've known there was a distance.

In quel momento, i powerchord iniziali, potenti e rabbiosi e poco dopo la voce altrettanto secca ed energica di She's a Rebel riempirono improvvisamente l'aria, quasi in ribellione all'atmosfera creatasi.

Le mani di Erin corsero subito, impacciate, a recuperare il vecchio cellulare dalla tasca dei pantaloni, mentre la ragazza sentiva le proprie guance andare in fiamme. Si ripromise brevemente di cambiare suoneria alla prima occasione – al costo di avere quell'orrenda melodia che il telefonino offriva per default, e che si imparava a detestare dopo appena un paio di chiamate.

La chiamata fu breve – Billie la vide annuire, dare risposte secche, brevi, mentre una consapevolezza crescente si faceva strada sul suo viso, togliendole anche l'ultimo accenno di vitalità da quegli occhi color ambra che l'avevano così entusiasticamente seguito durante la loro conversazione riguardante la proposta di lavoro.

Dopo appena qualche decina di secondi, Erin chiuse la chiamata, nascondendo velocemente l'odiato cellulare nella tasca dei pantaloni, per poi concedersi un breve respiro.

“Billie, scusami – devo andare. Ti ringrazio davvero tanto per l'opportunità che mi stai offrendo.. Come ti ho già detto ne parlerò sicuramente di persona con il tuo amico ed eventualmente con il direttore. Mi potresti inviare i contatti come mi hai detto?” Domandò rapidamente, mentre si alzava dal tavolo, e il frontman con lei.

“Certo.. Ti farò avere notizie più precise appena avrò parlato con Zack..” Aggiunse Billie, annuendo.

Ci rivedremo ancora? Questa sarà una scusa – sarà la mia scusa?

Perché dovrei averne una?

Erin annuì di rimando, improvvisando un sorriso che sentì fin troppo di circostanza. “Allora grazie.”
Billie tentò un sorriso, guardando la ragazza che frettolosamente infilava la tracolla della propria borsa e lanciava un'occhiata di sfuggita alla pioggia che sferzava ancora rabbiosamente sul vetro del piccolo locale. Erin si avviò quindi verso la porta d'ingresso, poco distante, poi incontrò il suo sguardo, e gli concesse per un attimo un sorriso sereno, seppur appena accennato.

“Ti devo un'altro caffé, allora.” Aggiunse, per poi salutarlo con un cenno, chiudendosi alle spalle quella piccola crisalide di familiarità, calore e buoni odori e preparandosi ad affrontare la pioggia impietosa del pomeriggio che l'aspettava.
 

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