I due volti del serpente di Kronos333 (/viewuser.php?uid=62389)
Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.
Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Il primo giorno ***
Capitolo 2: *** Il secondo giorno ***
Capitolo 3: *** Il terzo giorno ***
Capitolo 1 *** Il primo giorno ***
I
DUE VOLTI DEL SERPENTE
La
neve cadeva
dolcemente su New York, la città eterna. I fiocchi bianchi
oscuravano la
visuale e la temperatura costantemente in calo costringevano le persone
ad
infagottarsi con diversi strati di maglie, maglioni, sciarpe, cappelli,
paraorecchie, guanti e cappotti. Un corvo nero, talmente maestoso che
sembrava
uscito da una poesia di Edgar Allan Poe, si alzò da un ramo
parzialmente
coperto di neve lasciando qualche piuma sparsa sul terreno. Nero su
bianco. I
colori complementari si mescolarono quando altri fiocchi di neve
coprirono le
piume dell’uccello trasformando il contrasto in un disgustoso
grigio sporco. Il
corvo sorvolò Manatthan agitando velocemente le ali nel
tentativo, vano, di
riscaldarsi. Il maestoso uccello fu attratto dall’insegna
luminosa di un
locale, un gigantesco panino e una bibita lampeggiavano ripetutamente
sopra il
nome della tavola calda, “Da Joe”. Subito quel
macabro sesto senso posseduto
solo dagli uccelli portatori di sventura si attivò
nell’animale. Il corvo fece
un mezzo giro del locale e arrivò sul vicolo nel retro. Dei
bidoni
dell’immondizia, una accattone… e una finestrella.
Il maestoso animale si
appollaiò proprio sul davanzale di quest’ultima e
si pregustò la scena.
La
minuscola
finestra dava sul bagno del ristorante. Era questi una stanza piccola e
sporca,
con un grande specchio opaco davanti ai due lavandini, di cui uno
guasto. Le
mattonelle del pavimento erano verde acceso. In fondo alla stanza
c’erano tre
piccoli separé, e in uno di questi separé era
seduto un ragazzo esile. Doveva
avere circa vent’anni ma non ne dimostrava più di
quindici. I capelli corvini
gli cadevano in un buffo ciuffo davanti agli occhi e il suo viso non
aveva
ancora perso i tratti infantili tipici dell’adolescenza.
Indossava dei jeans
neri, un orrendo maglione sformato beje che però dava
l’impressione di essere
incredibilmente caldo e comodo e una giacca di pelle nera. Il ragazzo
non stava
bene. Aveva gli occhi rovesciati all’indietro e i muscoli si
contraevano
rapidamente provocandogli numerose convulsioni. Nonostante questo si
stava
incidendo gli avambracci con notevole precisione con un coltello da
carne.
Improvvisamente la porta del bagno si spalancò e ne
entrò un signore di
mezz’età. I capelli grigi e i vestiti curati del
nuovo arrivato stonavano con
lo squallore del bagno. L’uomo non si accorse di quello che
stava succedendo
nel separé e prese a lavarsi meticolosamente le mani. Il
ragazzo si alzò come
in trance e barcollando usci dal separé con il coltello in
mano. L’uomo
nonostante avesse davanti a se l’enorme specchio e potesse
controllare tutta la
sala non si accorse del ragazzo che gli stava arrivando alle spalle
perché con
la sua figura copriva perfettamente quella dell’altro. Quando
si accorse
dell’estraneo fu troppo tardi. Con un colpo preciso il
ragazzo in trance incise
la gola dell’uomo per impedirgli di gridare ma senza
procurare altri danni.
L’uomo cadde a terra stordito e il ragazzo salì su
di lui. La lama del
coltello, già sporca del sangue della vittima e
dell’assassino brillò un’ultima
volta nella debole luce della lampada prima di penetrare in
profondità nel
petto dell’uomo una, due, tre volte. Il sangue si sparse sul
pavimento. Rosso
su verde.
La
macchina, un
utilitaria di colore giallo acceso, si fermò sul
marciapiede. «Non lo sopporto»
si stava lamentando a gran voce il guidatore.
«Perché tutti gli squinternati
della città devono mettersi ad ammazzarsi tra loro proprio
quando in servizio
ci sono io, è slealistico!».
«Sleale» lo corresse a bassa voce una ragazza dai
lunghi capelli color miele legati in una frettolosa coda che occupava
il posto
di dietro. «Quello che è» la
liquidò infastidito l’autista, un ragazzone
pallido con una spettinatissima zazzera rossa che spuntava da sotto il
cappello
di lana. «Ruphert, ci sono omicidi tutti i giorni a New
York» commentò
stancamente la donna bruna accanto al ragazzo scendendo dalla macchina.
«Ma di
più quando in servizio ci sono io»
protestò Ruphert tanto per avere l’ultima
parola. La ragazza con la coda di cavallo sorrise sotto la sua sciarpa
bianca.
«Ragazzi muovetevi!» strepitò la bruna.
«Ok Emily, il capo sei tu» si arrese
alla fine il rosso aprendo la portiera. «Andiamo
Rose» disse rivolto all’altra
ragazza. Rose si affrettò a prendere la borsa a tracolla con
il computer
portatile dal quale non si separava mai e si preparò ad
affrontare il gelo.
L’interno
della
tavola calda era decisamente più… caldo. Rose si
godette il tepore sinceramente
gratificata da quel piccolo regalo, Emily spezzò subito
quell’attimo di relax.
«Accidenti allo sbalzo termico, non lo sopporto»
sbottò togliendosi il
paraorecchie, i guanti e il morbido cappotto di camoscio restando con
uno
splendido maglione a collo alto color salmone. Anche Ruphert si tolse
il
giaccone rivelando una sformatissima felpa blu e azzurra a tema
militare ma non
tolse il cappello di lana dal quale non si separava mai. Rose invece
non si
tolse la giacca color panna ma solo la sciarpa, i guanti e il cappello
in
tinta, il freddo le era entrato nelle ossa. Emily si
avvicinò agli agenti che
stavano riposando seduti al bancone. Appena la videro i tre uomini
saltarono su
come delle molle, ormai conoscevano troppo bene il loro principale.
«Buonasera
commissario Jefferson». «Ciao ragazzi»
salutò Emily appoggiando le sue mani affilate
e curatissime sul bancone. «Ciao Ruphert, buonasera
principessa» salutarono gli
agenti diretti ai due ispettori. Rose arrossì fino alla
radice dei capelli,
detestava essere chiamata “principessa”.
«Allora, cosa abbiamo?» chiese pratica
Emily. «Omicidio volontario, il decesso è
probabilmente avvenuto per
dissanguamento, il colpevole era seduto a quel tavolo dove
però non abbiamo
trovato effetti personali oltre a questo libro». Per
accompagnare quest’ultima
affermazione l’agente sbatté sul bancone un libro
dalla copertina nera. Rose lo
afferrò incuriosita. «La tempesta, di Wiliam
Shakespear». «Non è esattamente
una lettura da omicida» pensò ad alta voce
Ruphert. «Il delitto è avvenuto in
bagno, il cadavere è stato scoperto da un altro cliente.
Sembra che l’assassino
non si sia preoccupato di nascondere le sue tracce, abbiamo anche
rinvenuto
l’arma del delitto». Detto questo
sollevò una busta trasparente contenente un
coltello macchiato di sangue. «La scientifica ha
già fatto i rilievi necessari
e noi stavamo aspettando voi per portare via il cadavere».
«Avete interrogato
la cameriera?» chiese Emily tamburellando spazientita sul
bancone con le lunghe
unghie laccate di rosso. «Certo, ci fornirà un
identikit dell’assassino ma per
il resto non sa niente, né la vittima né
l’assassino sono clienti abituali».
«Come si chiama la vittima?» chiese Rose
improvvisamente. L’agente la guardò a
lungo prima di risponderle «Jhon Robert Senior».
Rose ringraziò e segnò il nome
sul taccuino azzurro che aveva estratto dalla borsetta. Emily si
lasciò
scappare un tenero sorriso, conosceva il significato di quel gesto.
Rose aveva
comprato quel quaderno bianco il suo primo giorno di servizio, tre anni
prima,
e segnava tutti i cadaveri su cui indagava. “Così
mi ricordo i nomi di quelli
per cui devo pregare la sera” le aveva spiegato
una volta. Emily era
rimasta molto perplessa, lei non credeva in Dio. Ma d’altra
parte sapeva che la
fede era una cosa che Rose usava come una stampella per la sua
straordinaria
sensibilità. «Bene»
esordì finalmente
il commissario «Ruphert, Rose… voi due andate a
conoscere questo cadavere, io
faccio un sopralluogo sul retro».
Il
corpo era
disteso in mezzo al bagno in una posizione scomposta. Un lungo brivido
mi corse
lungo la schiena osservando gli occhi marroni ancora aperti.
«Rosie! Guarda
qui!» mi chiamò Ruphert eccitato. Mi sforzai di
togliere lo sguardo da quel
corpo. E mi avvicinai al mio amico. «Guarda,
c’è del sangue in questo
separé»
osservò il rosso. Mi chinai per osservare meglio, era vero.
Nel terzo separé da
destra c’era del sangue. «Deve esserci stata una
colluttazione» dedusse il
ragazzo. Scossi la testa «Non ha alcun senso che la vittima
fosse nel separé».
«Allora cosa ci fa del sangue qua?». Sospirai
lievemente sfregandomi le mani.
«Non lo so». «Va bene, torniamo nella
sala che qui si muore di congelamento».
«Congelati, oppure si muore di freddo se
preferisci» lo corressi
automaticamente, poi un lampo di consapevolezza mi schiarì
la mente. «Ruphert…
qui si muore di freddo!» esclamai come se stessi rivelando la
soluzione a tutti
i problemi del mondo. Il rosso mi squadrò spaesato.
«Perché qui c’è
freddo?».
«Bhè… la finestra è
aperta» osservò lui con semplicità. Mi
alzai e guardai la
finestra osservando bene l’altezza e l’ampiezza del
passaggio. «So da dove è
scappato l’assassino».
“Avrei
dovuto
prendere la giacca” pensai maledicendomi per
l’ennesima volta. Mi sistemai una
ciocca di capelli sfuggita alla crocchia e mi sfregai le mani laccate
di rosso.
Mi voltai verso la porta ma mi accorsi con orrore che si poteva aprire
solo
dall’interno. “Emily sei
un’idiota” mi maledissi un’ultima volta.
Ma ormai ero
lì quindi… Mi avvicinai ancheggiando
all’accattone appoggiato al muro.
«Buonasera» dissi con voce suadente, sapevo che mi
avrebbe dato risposte solo
se avessi giocato bene le mie carte, e la migliore del mazzo era il mio
essere
donna. «Ciao dolcezza!» esclamò il
barbone con occhi avidi soffermandosi sul
mio seno abbondante. Quella situazione mi disgustava ma dovevo
continuare a
recitare. «Come te la passi?». «Per ora
sono vivo, e forse anche domani»
rispose il senzatetto ironico. «Senti amico, mi servirebbe un
favore» dissi con
voce suadente «Stasera in questo locale è stato
commesso un omicidio, tu non
hai visto nessuno?». Immediatamente il barbone
cambiò atteggiamento e mi fissò
per la prima volta negli occhi marroni. «Sei uno
sbirro?» chiese in un soffio.
Leggevo una certa paura nei suoi occhi grigi. Sospirai, mentire era
inutile.
«Si, sono il commissario Emily Jefferson». Il
barbone abbassò lo sguardo. «Io
non ho visto nessuno, nessuno». Sospirai, avevo perso. Mi
alzai infastidita e
mi allontanai. «Ho visto qualcosa» mi
fermò un’ultima volta il barbone. Girai
la testa con studiata lentezza. «Era un essere alto,
indossava un mantello che
lo rendeva praticamente invisibile con un cappuccio calato in
testa». Subito
sentii una morsa allo stomaco. «Però gli ho visto
gli occhi, aveva due occhi
rossi come due tizzoni ardenti e lo sguardo cattivo».
Un’immotivata paura mi
afferrò alle viscere impedendomi di respirare. Corsi via dal
vicolo
accompagnata dalla sinistra risata del vecchio.
Matt
Collins si
svegliò e si mise a sedere con uno scatto. Gettò
uno sguardo preoccupato alla
sveglia, quel catorcio non aveva funzionato. Il ragazzo si
alzò stordito e si
accorse di avere ancora addosso i jeans neri e la maglietta bianca a
maniche
lunghe. Cos’era successo l’altra sera? I ricordi
tornarono tutti insieme e lo
schiacciarono con il loro peso. Aveva ucciso un uomo. Gli avambracci
erano
ancora macchiati di sangue. I ricordi erano confusi e rimbalzavano da
un lato
all’altro della testa. Ricordava la tavola calda, poi
l’omicidio commesso. Ma
era stato davvero lui? Matt ricordava distintamente un uomo alto con
indosso un
coloratissimo vestito fatto di piume e pelli che compiva
l’omicidio. Ma la mano
che stringeva il coltello era la sua. Le maniche della maglietta erano
macchiate di sangue, Matt le scostò e dovette trattenere un
conato di vomito.
Si era inciso un curioso simbolo sugli avambracci: un serpente a due
teste. “Cosa
vuol dire questo simbolo? E cosa è successo ieri
sera?”. In quel preciso
momento il telefono squillò. Matt si affrettò ad
andare nel salotto per
rispondere. La casa era incredibilmente vuota da quando Viki, la sua ex
era
andata a vivere da sola, due mesi prima. Il telefono cordless era
appoggiato
sul tavolo e continuava a squillare. Matt stava per premere il pulsante
ma
esitò, non aveva voglia di parlare. Lasciò
scattare la segreteria. «Matt? Ci
sei? Mi chiedevo se volessi venire oggi pomeriggio a trovare mamma e
papà al
cimitero». Il ragazzo non ebbe più dubbi, era suo
fratello maggiore Marcus.
«Marcus? Sei tu?». «Matt!
Perché non rispondevi?». Il ragazzo lo interruppe
subito «Marcus, ho bisogno di parlarti, possiamo incontrarci
subito dopo
pranzo?». L’uomo dall’altra parte della
linea era un po’ spiazzato. «Matt?
Tutto bene?». «Possiamo incontrarci dopo
pranzo?» ripeté Matt aggressivo.
«Bhè…
certo, ma stai bene?» chiese esitante Marcus.
«Perfetto» disse Matt
riagganciando. Dopo quella telefonata si sentiva molto più
tranquillo, se c’era
una persona che lo poteva aiutare quello era Marcus. Mancava meno di
un’ora
all’una, avrebbe approfittato del tempo rimasto per lavare i
vestiti e le
lenzuola sporche di sangue.
Emily
camminava
veloce nelle sue scarpe da ginnastica diretta al suo ufficio. Tutti gli
agenti
scattavano in piedi e la salutavano ossequiosi al suo passaggio. La
donna si
godette quel sottile piacere che provava nel comandare gli altri.
Davanti alla
porta dell’ufficio trovò Rose che parlava con
Jeffrey, un’agente senza infamia
e senza lode. «Non è possibile! Sono
già passati sei mesi!» stava sbraitando
l’uomo davanti ad un’imbarazzatissima Rose.
«Cosa succede qui?» intervenne
Emily brusca. «Buongiorno Commissario» la
salutò l’uomo «Stavo chiedendo al
tenente Callhagan se poteva ricordare al vostro collega che mi deve
cento
dollari». «Non è un nostro
problema» disse pratica Emily entrando nell’ufficio
e trascinandosi dietro la sua collega. «Ma Commissario! Sono
già passati sei
mesi! Non potrebbe esortarlo?». «Perché
non lo fai tu? Sta arrivando proprio
adesso» lo rimbeccò la donna chiudendo la porta.
Jeffrey
si
voltò
famelico verso Ruphert che effettivamente stava arrivando proprio in
quel
momento salutando e scherzando. Appena il rosso vide Jeffrey
impallidì e si
voltò tornando sui suoi passi. «No Ruphert! Adesso
tu vieni qui e mi
restituisci i miei soldi!». Il ragazzo si fermò
elaborando una scappatoia.
Quando ne trovò una abbastanza divertente si
voltò e cominciò a parlare con
fare teatrale. «Jeffrey… tu credi in nostro
signore Gesù Cristo? Tu credi che a
nostro signore Gesù Cristo importi qualcosa del vile denaro?
NO! A nostro
signore Gesù Cristo importa una cosa sola…
è L’AMORE!». Jeffrey lo guardava
spaesato. «Quindi Jeffrey… mia piccola pecorella
smarrita… smetti di pensare al
vile denaro e AMA!». Detto questo Ruphert si
affrettò ad entrare nello studio
prima che Jeffrey protestasse lasciando il collega con un palmo di naso.
«Finalmente
sei
arrivato!» sbottò Emily appena mi vide. Appesi il
giaccone e mi scusai. Rose
sorrise timida. Era bellissima. Quasi quanto Samantha, la mia ragazza.
Improvvisamente mi accorsi che l’ufficiale scientifico,
Garrett, occupava il
mio posto. «Ciao amico, cosa ci fai qui?».
«Garrett è venuto ad aggiornarci sul
caso della tavola calda». «Bene» esclamai
sedendomi su una delle sedie che
Emily usava per ricevere le persone. «Da dove vuoi che
cominci?» chiese
Garrett. «Com’è morto?».
«L’assassino ha dato tre coltellate molto precise
che
hanno reciso le arterie polmonari… è stata una
morte lunga». Un freddo brivido
scorse lungo schiena di tutti. «L’assassino
potrebbe avere qualche conoscenza
di anatomia?» chiese Rose. «Molto
probabile» rispose Garrett
«C’è una piccola
possibilità di colpire quelle arterie, ma è molto
più credibile che sia stato
fatto di proposito». Emily stava pensando «Parlami
del sangue trovato da Rose
nel separé». «L’ho trovato
io!» protestai. Garrett mi ignorò «Il
sangue è
dell’assassino, lo abbiamo trovato anche sulla lama del
coltello e sul
davanzale della finestra». «Abbiamo le impronte
digitali?» chiese Rose. «Certo,
erano sulle posate, sul libro e naturalmente sul coltello».
Rispose Garrett.
«Quindi l’assassino si è ferito prima di
compiere il delitto» dedussi io.
Garrett annuì «Crediamo sia
così». «Ma perché?»
intervenne Rose sconcertata.
«Bhè… ogni professione ha i suoi tipi
strani… perché non “gli
assassini”».
«Abbastanza debole come motivazione»
commentò scettica il commissario. «A
ciascuno il suo Emily, io mi occupo di rilievi e tu di
motivazioni» si
giustificò Garrett serafico. La donna annuì
stancamente, «C’è altro?».
«Si,
abbiamo l’identikit fornitoci dalla cameriera e questo
foglietto». Emily e Rose
presero il disegno ma io fui attratto dal pezzo di carta.
«L’assassino lo usava
come segnalibro» spiegò Garett. Il foglio
era un triangolino di carta palesemente staccato da un
foglio più
grande. Sopra c’era un elenco di cifre incomprensibili.
«Chissà cos’è?»
osservai pensieroso. Rose me lo tolse di mano e lo scrutò
attentamente. «Posso
provare a fare una ricerca in rete».
«Bene» acconsentì Emily. Io mi
documenterò
sulla vittima. Poi la donna si rivolse verso di me. «E voglio
che tu
restituisca i cento dollari a Jeffrey, non ne posso più di
lui». «Cosa?».
I
fiocchi di neve
vorticavano nell’aria gelida posandosi sulle lapidi di marmo.
Amavo il
cimitero. Non per un macabro senso dell’ironia, ma per
l’atmosfera calma e
sospesa che regnava eterna in quel posto. La tomba dei miei genitori
era
parzialmente coperta di neve e mi chinai a pulirla accarezzando a lungo
la foto
nella cornice ovale. Bruce e Lois Collins erano morti insieme, in un
incidente
d’auto. All’epoca io avevo sedici anni e mio
fratello solo dieci.
“Marcus…
dove
sono mamma e papà?”.
“Sono
partiti”.
“Davvero?
E per dove? Perché ci hanno lasciato
qui? Perché non ci hanno salutato?”.
Perché.
Perché.
Perché. Tutti quei punti interrogativi alla quale non era
mai riuscito a
trovare una risposta. Quando avevo preso i voti, io e Matt ci eravamo
allontanati.
“Tutto questo
è
successo per quella tua stupida partita di calcio! Volevi che mamma e
papà
venissero a guardarti a tutti i costi e loro ti hanno accontentato!
È colpa
tua!”.
Le
parole di mio
fratello mi risuonavano in testa tutti i giorni. Guardai
un’altra volta
l’orologio, era in ritardo. Finalmente vidi la sagoma di mio
fratello Matt
delinearsi nella neve. Il ragazzo mi si affiancò e depose un
piccolo papavero
sulla pietra. «Ciao mamma, ciao papà»
salutò Matt. Solo allora si degnò di
guardarmi. «Ciao Marcus». Lo guardai bene, mi
sembrava un rifugiato. «Ciao
Matt» lo salutai abbracciandolo.
«Come
stai? Di cosa mi devi parlare?» indagai preoccupato.
«Ho ucciso un uomo».
“Hai ucciso
un
uomo?”.
“Certo,
più di uno, è la guerra”.
“E
come fai a dormire la notte papà?”.
“Sono
abituato”.
«Cosa?».
Matt si
prese la testa tra le mani. «Ti prego non farmelo
ripetere». «Come è successo?»
annaspai cercando di capire cosa stesse succedendo al mondo. Matt mi
riassunse
la storia, continuavo a non capire. «Marcus, non sono stato
io, devi
credermi!». Continuai a guardarlo come se fosse un alieno.
«Non sono stato io».
Nella sua voce leggevo una lieve incrinatura ma risultava comunque
decisa e
determinata. «Matt… io credo… io credo
che dovresti… ecco insomma…
costituirti». Matt alzò le braccia al cielo
«Accidenti a te Marcus, non posso
costituirmi, devo capire cosa mi è successo!».
« Non potresti allora andare da
uno psichiatra?» tentai di nuovo.
«Non
sono pazzo Marcus, non sono pazzo». Respirai a pieni polmoni
tentando di
mantenere la calma. «Avevo bisogno di parlarne con qualcuno
ma evidentemente ho
sbagliato persona» sbraitò Matt arrabbiato. Mio
fratello si girò e fece per
andarsene «Spero che almeno potrò contare sul tuo
silenzio». «Aspetta».
“Dio…
dov’era il
tuo Dio quando mamma e papà sono morti?”.
“Matt, non
è
giusto che tu disprezzi così la mia fede”.
“No Marcus,
non
hai capito niente, io non disprezzo la tua fede… io
disprezzo te!”.
“È
così? Allora
vattene!”
«Aspetta».
Mio
fratello si girò lentamente. «Io ti credo Matt,
sono solo confuso e
spaventato». Matt si avvicinò sospettoso.
«Forse ho un’idea!». Estrassi dalla
tasca il mio taccuino nero su cui segnavo sempre tutto per evitare di
dimenticarmi alcunché. Sfogliai rapidamente le pagine
trovando finalmente
l’appunto che cercavo. «Ecco
qui» dissi
strappando la pagina e dandola a mio fratello. «È
l’indirizzo di una medium, io
non credo in queste cose ma potrebbe essere un buon punto di
partenza». Matt mi
studiò attentamente, come un animale selvatico scruta
attentamente chi gli dà
il cibo prima di accettarlo, ma alla fine prese il foglio.
«Grazie» mormorò
prima di sparire nella neve. “Sto proteggendo un
assassino” pensai mentre il
ragazzo si allontanava. Mi inginocchiai sulla tomba incurante della
neve e
pregai.
Mi
legai i capelli
color miele con un elastico e mi misi al lavoro. Scrutai attentamente
il
triangolino di carta e segnai su un foglio di word le cifre che
riuscivo a
leggere. Sembravano numeri senza senso ma doveva esserci una logica.
“Forse è
un codice cifrato” pensai inserendo i numeri nel
decrittatore. Il risultato fu
negativo. Tentai di farlo combaciare con centinaia di tabulati: orari
di voli,
tabulati telefonici, conti, bollette, spese municipali e qualsiasi
altro elenco
di cifre. Dopo due ore ero ancora davanti al computer, ormai stava
calando la
sera. Sbadigliai rumorosamente pronta a gettare la spugna, volevo solo
andare a
letto. Spensi il computer e mi misi la giacca. Attraversai la sala
vuota piena
di scrivanie quando una luce attirò la mia attenzione:
Qualcuno aveva lasciato
il computer acceso. Sorrisi stancamente e andai a spegnerlo, ma quando
stavo
per premere il pulsante un’idea mi balzò in testa.
Troppo curiosa per
rinunciare corsi indietro alla scrivania per recuperare il foglio di
carta e
inserii la sequenza numerica in una normale ricerca di Google.
Ovviamente la
cosa più semplice si rivelava la più efficace.
Ero
nella vasca da bagno
quando il telefonino cominciò a suonare. La mia suoneria, la
canzone “All Star”
dei Smash Mouth, risuonò nella casa vuota. Allungai la mano
e risposi alla
chiamata. «Azioni!» urlò Rose
dall’altro capo del telefono. Restai un attimo
scombussolata, cosa intendeva dire? «Rose? Ti senti
bene?». La mia amica era
eccitatissima «Si Emily, certo, ho capito cosa
c’è scritto sul foglio che
l’assassino usava come segnalibro». Immediatamente
prestai più attenzione.
«Sono azioni bancarie, l’assassino lavora in
banca!». Capii perché Rose era
così agitata, era semplicemente ansiosa di sentire i miei
complimenti.
«Grandiosa Rose, sei stata mitica!». Immediatamente
il respiro affannoso della
ragazza si calmò un poco. «Ho scoperto ancora una
cosa». «Sono tutta orecchie».
«Come di certo saprai la carta delle banche è
filigranata, c’è impresso il
codice di identificazione, e sono già risalita alla banca di
provenienza».
Annuii impressionata, in poche ore Rose aveva trovato più
indizi di me. Uno
strano sentimento mi prese al ventre. «Perfetto»
dissi sempre meno convinta. «E
già che c’ero ho trovato un elenco degli impiegati
e ho confrontato le foto con
l’identikit e, tieniti forte, c’è una
corrispondenza!». «Cosa?» saltai su
sollevando acqua e schiuma e sporcando le piastrelle rosa del bagno.
Rose non
aveva semplicemente scoperto qualcosa… aveva proprio risolto
il caso! «Allora
Emily… cosa ne pensi?». Cosa ne pensavo? La mia
collega era stata semplicemente
fantastica, aveva risolto il giallo in poche ore. Aveva proposto lei
cosa fare,
trovato la soluzione e identificato il killer. Da sola. Senza
l’aiuto di
nessuno. Senza il mio aiuto. Cosa ne pensavo?
«Non c’è male… chiamo
subito gli agenti di pattuglia che vadano ad arrestarlo. Dammi nome e
indirizzo». Rose me li disse. Fissai a lungo il telefonino
prima di decidermi a
chiamare gli agenti, alla fine premetti il tasto giusto. «Pronto?»
mi rispose una voce assonnata
dall’altro capo. «Sono il Commissario
Jefferson». «Commissario!»
esclamò
l’altro visibilmente più attento. Esitai ancora un
istante,uno solo. «Ho
risolto il caso della tavola calda, potete andare ad arrestare il
colpevole,
adesso vi do nome e indirizzo».
Note
dell’autore: Buongiorno.
Scusate la mia assenza nelle altre due
long-fic a cui sto lavorando ma mi hanno assegnato un compito a scuola:
scrivere un racconto giallo, questo racconto. Ho deciso di pubblicarlo
in tre
parti, non dovrete attendere troppo visto che la seconda parte
è già completa. Vi
prego commentate, anche perché mi fido molto più
del vostro giudizio rispetto a
quello della mia prof… Al prossimo capitolo.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 2 *** Il secondo giorno ***
La neve scendeva
gelata congelandomi anche le ossa. Mi scostai il ciuffo di capelli neri
dagli
occhi e misi le mani inguantate nelle tasche del piumino nero
insufficiente a
difendermi dal freddo. La casa di Eva, la medium consigliatami da mio
fratello
era nella zona residenziale. Le case erano piccole villette a due piani
ognuna
con il proprio giardino. In estate avrebbero dovuto essere bellissime,
ma tra
la nebbia e la neve gettavano i passanti in un’atmosfera da
romanzo gotico per
nulla rassicurante. Arrivai alla casa giusta e suonai il campanello,
sempre
meno sicuro di quello che stavo facendo. Nessuna risposta. Forse ero
ancora in
tempo per tornare indietro. Proprio mentre formulavo questo pensiero la
porta
si aprì rivelando una donna anziana costretta su
un’antiquata sedia a rotelle.
Gli occhi erano lattiginosi e spalancati verso il vuoto. Era cieca.
«Cosa
cerchi da Eva?» chiese con una voce che ricordava il cigolio
di una vecchia
porta male oliata. «Emm… Posso, posso
entrare?» chiesi esitante. «Certo,
perché
congelarsi qua fuori quando possiamo stare dentro al calduccio? Ti
spiacerebbe
spingere questa sedia figliolo? È terribilmente
pesante». «Certo» risposi
prontamente. Solo allora mi accorsi che la sedia di Eva non aveva i
comandi per
muoversi automaticamente. La casa sembrava esser rimasta qualche secolo
indietro; tutto, dai mobili alla pesante stufa di ghisa, unica fonte di
riscaldamento, era vecchio e antiquato. Persino i vestiti della padrona
di casa
sembravano usciti da un negozio di antiquariato. La donna indossava
infatti un
vestito lungo e ampio, con un corsetto stretto e un alto collo di
pizzo.
Arrivati al soggiorno, una stanza circolare con le finestre oscurate da
pesanti
drappi neri ed un tavolino a tre gambe, Eva mi fermò con un
brusco gesto della
mano. Mi sorprese, non credevo che avesse tanta energia, ma del resto
se viveva
da sola e si spingeva da sola su quella pesantissima sedia a rotelle
doveva
avere altre doti nascoste. «Cosa cerchi da me?»
chiese nuovamente Eva. « Devo
riuscirmi a ricordare una cosa che mi è successa»
dissi mantenendomi vago. «Una
persona non viene da me per sciocchezze del genere!» sbotto
la vecchia irritata
«Sai come mi chiamano? L’ultima
spiaggia». Senza motivo un lungo brivido mi
scosse la schiena. Dovevo essere sincero «Ieri sera sono
caduto in una specie
di trance ed ho ucciso un uomo, ma non ricordo bene i particolari
dell’omicidio. Voglio scoprire cosa mi è
successo». «Così va meglio»
cantilenò
la vecchietta. «C’è altro?».
Esitai ancora un istante ma decisi di essere
totalmente sincero. «Si. Prima di compiere
l’omicidio mi sono inciso questo
simbolo sugli avambracci» dissi svolgendo le bende che
portavo attorno alle
braccia. Eva mi prese gli avambracci e cominciò a tastarli.
Mentre le sue mani
callose e incartapecorite mi esaminavano il ghigno sul volto scomparve
lentamente per far posto ad una smorfia di meraviglia. «Eva!
Conosce questo
simbolo? Cosa significa?» urlai strappando le mani dalla sua
presa. «Calma
giovanotto» mi impose lei con voce ferma, il tono cigolante
con cui mi aveva
accolto era totalmente scomparso. «Forse ho riconosciuto
qualcosa e forse te lo
dirò alla fine di quest’incontro» decise
irremovibile. «Che cosa? Eva mi deve
dire tutto quello che sa!» protestai.
«Devo?» tuonò lei irata. Immediatamente
il palloncino del mio astio scoppiò patetico.
«Siediti» mi disse secca,
obbedii. La donna accese l’incenso e tre candele,
immediatamente l’aria fu satura
di un insopportabile profumo dolciastro. «Dammi le
mani» ordinò di nuovo lei.
Obbedii senza fiatare. «Adesso ascoltami bene, stiamo per
penetrare la tua
memoria inconscia, non è una cosa facile ed ho bisogno di
tutta la tua
collaborazione. Ricordati che devi sempre restare calmo e per nessuna
ragione
devi disubbidirmi, io sarò sempre con te».
Libravo
nell’oscurità più assoluta, senza
nessun punto di
riferimento. «Matt?» mi chiamò una voce
cristallina. «Chi è?» chiesi
spaventato. La voce rise, una risata fresca che ricordava il tintinnare
dei
campanelli. «Ma
come? Non mi riconosci?
Sono Eva!». «Eva?» balbettai stranito. La
ragazza rise di nuovo. Finalmente
riuscii a vederla. Era una ragazza della mia stessa età, con
lunghi capelli
castani che le arrivavano alla vita e due grandi occhi verdi da
cerbiatta. La
ragazza mi fissò divertita «Bhè cosa
c’è?». Non c’erano dubbi sulla
sua
identità, ma mi riusciva difficile far combaciare le due
figure. «Sei pronto?»
mi chiese lei più seria. «Certo» mentii
io. «Allora andiamo!!!» esclamò lei
prendendomi per mano e lanciandosi in un folle volo sopra la
città
misteriosamente apparsa sotto di noi. «Che città
è questa?». Eva rise «La
tua!». «Cosa?» chiesi senza capire.
«In questo luogo sono custoditi tutti i
tuoi ricordi… e la tua mente ce li presenta in forma di
città». «Vuoi dire che
siamo nel mio cervello?». «Non
fisicamente» rise lei. «Dobbiamo trovare la
tavola calda» mi ordinò. Gettai uno sguardo sotto
di me e individuai subito
l’edificio basso con la scritta al neon.
«È quello!». «Bene!»
esclamò Eva
mentre mi prendeva per mano e mi trascinava verso il basso. Il nostro
volo si
fermò davanti alla porta che spinsi con decisione. Subito
una forte ansia mi
prese al petto. «Calmati Matt!» mi
ordinò Eva al mio fianco «Respira. Devi
mantenere la calma». Tentai di respirare più
lentamente e l’oppressione al
petto scomparve. «Osserva, vuoi vedere cosa è
successo? Allora guarda» mi
ordinò Eva con la sua voce cristallina. Vedevo bene, stavo
semplicemente
mangiando una bistecca e leggendo un libro da solo. «Signore
le porto
qualcosa?» mi chiese la cameriera. «Si, un
caffè per favore». La scena sembrava
normale. Mi guardai attorno stordito per esaminare gli altri clienti e
notai
che alcune zone erano delle macchie scure.
«Sono i punti che non hai visto, il tuo
subconscio non può registrare
informazioni che non hai visto» spiegò Eva
impassibile senza distogliere lo
sguardo dal me stesso seduto al tavolo. «Il suo
caffè signore» disse la
cameriera posandomi una tazza sul tavolo con delicatezza. Bofonchiai un
grazie
poco convinto. «Matt! Guarda!» mi
avvertì Eva allarmata. Un uomo alto, dalla
carnagione scura e avvolto in una lunga cerata con cappuccio si stava
avvicinando a me con in mano uno strano sacchetto pieno di polvere
bianca. «Chi
è?» chiesi sospettoso. Il senso di oppressione al
petto mi attanagliò di nuovo
all’improvviso mozzandomi il respiro. Non avevo notato
quell’uomo! Non avevo
notato come mi versava nel caffè quella droga! Che idiota!
«Respira Matt,
calmati» mi sostenne Eva. Ma non ci riuscivo, il rimorso per
l’ingenuità
dimostrata era troppo grande. «Se non resisti non saprai cosa
è successo dopo!»
mi tentò la medium. In quel momento feci lo sforzo in
più richiestomi e riuscii
a controllarmi. «Cosa sta succedendo?» chiesi ad
Eva. «Stai bevendo il caffè…
guarda». Era vero, l’altro me stava bevendo il
caffè e subito un forte tremito
lo scosse. Afferrò velocemente il coltello e andò
in bagno. «No!» urlai
sconvolto. «Calmati Matt, resisti!». Ma ormai
nemmeno la voce argentina di Eva
riusciva a confortarmi. Mi accasciai a terra mentre il ristorante e
tutta la
città mi si scioglievano attorno.
Rinvenni ansimando.
«No!» urlai ancora una volta alle pareti. Un
violento schiaffo mi fece
rinsavire completamente. «Ti ho ripreso per i
capelli» commentò Eva, di nuovo
tornata al suo aspetto terreno. «Hai rischiato di impazzire
giovanotto». Mi
guardai le mani mettendo gradualmente a fuoco i particolari.
«Lei… lei conosce
quell’uomo vero Eva?». «Apri le finestre
ragazzo, c’è quest’odore
d’incenso
insopportabile». «Lei sta tentando di cambiare
discorso, chi era quell’uomo»
chiesi calmo. «Non sono ancora sicura di quello che ho visto,
ho bisogno di
tempo per riflettere ed analizzare» disse lei serafica.
«Ma Eva! Io devo
sapere!». «E saprai, ti chiedo solo di pazientare
un altro giorno». La guardai
sospettoso. «Tra un giorno esatto saprai la
verità». Sospirai esasperato ma la
vecchia era irremovibile. «Bene, domani alla stessa ora
verrò qui» decisi.
La piccola macchina
gialla sfrecciava per la città a velocità folle.
«Ruphert! Vuoi forse finire
nella cronaca nera alla velocità della luce?»
urlò Emily nelle orecchie del
rosso. Osservai bene la mia amica, era decisamente più
nervosa del solito…
strano visto che avevamo arrestato Collins. «Va bene,
scusa» bofonchiò Ruphert
offeso. Improvvisamente la canzone “All Star”
risuonò nella macchina ed Emily
iniziò a frugarsi in tasca alla ricerca del cellulare. Alla
fine riuscì a
rispondere «Emily Jefferson… Cosa?…
Siete degli incapaci!… Come cosa? Mettete il
palazzo sotto sorveglianza!… E interrogate tutti i suoi
parenti e conoscenti,
forse si rifugerà da qualcuno di loro… Voglio
tutto questo fatto alla
perfezione e lo voglio, ieri. Ci siamo capiti?». Alla fine
della conversazione
chiuse il telefono di scatto. «Matt
Collins non era in casa» ci comunicò furente. Fu
un vero schiaffo morale per
me. Ormai nella mia testa il caso della tavola calda era chiuso, chiuso
grazie
a me. Avevo dato per scontato che Collins si sarebbe fatto arrestare
senza
problemi. Scossi le spalle, io avevo fatto il mio lavoro, adesso
toccava agli
agenti di pattuglia trovarlo ed arrestarlo. Il pensiero mi
confortò. Ruphert
finalmente arrivò a destinazione, una piccola lavanderia a
gettoni. Scendemmo
tutti e tre dalla macchina stringendoci le braccia per riscaldarci.
«Odio
questo posto, stavo per andare a letto quando mi avete
chiamato» si lamentò
Ruphert. «Hanno chiamato noi perché hanno trovato
un collegamento con il caso
della tavola calda» spiegò la bruna entrando nel
locale. Lì ci aspettava
Garrett. «Ciao
Emily, lieto che tu sia
qui» la salutò galante come al solito. Il
commissario rispose con un grugnito.
«Ruphert, principessa» salutò ancora
rivolto a noi. «Cosa abbiamo?» chiese
Emily brusca e irritata. «Hai presente l’omicidio
alla tavola calda? Stessa
cosa» riassunse l’ufficiale scientifico.
«È stato Collins?» chiese Ruphert in
un soffio. «No, c’è una differenza tra i
due casi» rispose Garrett. «Cosa?»
chiese Emily. «L’assassino si è
suicidato subito dopo aver compiuto il delitto,
si è conficcato il coltellino tascabile che ha usato per il
delitto nell’occhio
sinistro». Rabbrividii, il solo pensiero mi diede i brividi.
«Come si
chiamavano?». «Aghata McGonagall e Bruce
Kane» rispose Garrett. Ringraziai e
annotai i nomi sul mio quaderno azzurro.
Ruphert si
chinò
sul cadavere della donna. «Tre coltellate vicino al cuore,
scommetto che hanno
reciso le arterie polmonari» commentò il rosso.
Rose gli si avvicinò e confermò
la sua tesi. Io stavo guardando invece il corpo dell’uomo.
Aveva gli avambracci
incisi. Incuriosita guardai meglio, su entrambi gli avambracci era
inciso il
simbolo di un serpente. «Quindi ricapitoliamo…
stesso identico modus
operandi di Collins, ma non è stato
lui». «Unica differenza è che qui
l’assassino si è suicidato»
puntualizzò Rose. Annuii infastidita, odiavo il
fatto che Rose fosse sempre un passo avanti a me. I miei colleghi si
chinarono
sul corpo dell’uomo «La morte deve essere stata
istantanea» commentò Ruphert.
«Avete notato questo simbolo?» osservò
Rose. «Si! Non c’è bisogno che voi due
sottolineate l’ovvio!» sbottai io furiosa
allontanandomi. I due si guardarono
sconcertati. «Andiamo» ordinai.
«Ma… non abbiamo ancora
finito…» protestò
Ruphert. «La scientifica ha già fatto tutti i
rilievi necessari. Non discutete i
miei ordini!» sbraitai furiosa fissandoli feroce. Ruphert mi
restituì uno
sguardo astioso, Rose no. I suoi grandi occhi nocciola erano
preoccupati e
confusi, non si spiegavano il mio comportamento. Non immaginava certo
che era
proprio lei la causa di tutto quello. La odiavo. Per la sua falsa
ingenuità,
per la sua falsa modestia, per la sua falsa fede. La odiavo.
«Andiamo, ho
sonno» sillabai gelida uscendo dalla lavanderia.
Ormai era notte
fonda, la polizia sorvegliava la mia casa e non sapevo dove andare.
Disperato
presi la metro dirigendomi nell’unico posto che mi era venuto
in mente. Da
Marcus non potevo andare, ero sicuro che fosse stato lui a
smascherarmi, quindi
restava solo un’altra persona in tutta New York che forse
avrebbe accettato la
mia scomoda compagnia. Scesi dalla vettura di malavoglia e mi avviai
vero la
casa che conoscevo bene. Ci misi un po’ a suonare il
campanello, alla fine il
freddo fu più convincente di tutti i miei dubbi. Dopo
qualche minuto sentii un
trafficare di chiavi e chiavistelli e alla fine Victoria Potter, la mia
ex
ragazza, mi aprì.
Era da un pezzo
passata la mezzanotte quando Matt suonò alla mia porta
chiedendomi ospitalità
per la notte. Era un sogno che si avverava! Era da un mese che volevo
riconciliarmi con lui ma il mio orgoglio mi frenava sempre davanti al
campanello di casa sua. Adesso finalmente era stato lui a fare il primo
passo.
Purtroppo non fu come me lo aspettavo. Matt si sedette sul mio divano
color
crema e mi raccontò tutte le sue ultime avventure. Rimasi ad
ascoltarlo
incantata. «Viki mi devi credere, non sono stato io ad
uccidere quell’uomo» mi
disse alla fine del lungo monologo fissandomi con i suoi profondi occhi
neri.
Leggermente sconvolta misi sul fuoco la teiera, niente mi schiariva
bene la
mente come una buona tazza di the nero con il miele. «Io ti
credo Matt… ma come
farai con la polizia?». «Devo scoprire cosa mi
è successo, procurarmi delle
prove concrete e poi potrò andare a costituirmi».
Rimasi a guardarlo con i miei
occhi verdi, ancora dubbiosa. «Ti chiedo solo
ospitalità per la notte, domani
me ne andrò… ti prego» mi
supplicò lui. La teiera fischiò e andai in cucina
a
versare il the in due tazze e le portai in soggiorno.
«Allora?» insistette lui.
«Vado a prenderti delle coperte» acconsentii alla
fine.
Sospirai di
sollievo, Viki aveva accettato. E almeno per quella notte il problema
“morte
per congelamento” era scongiurato. La ragazza
tornò in soggiorno con tre
pesanti coperte che stese sul divano bianco. «Ti va bene
dormire qui vero?».
«Certo» risposi senza esitare, mi sarei
accontentato anche dello zerbino pur di
restare al caldo. Viki si sistemò un ricciolo rosso che le
era finito davanti
agli occhi portandoselo dietro l’orecchio in un gesto che
conoscevo a memoria.
«Sei bella come sempre» pensai ad alta voce. Lei
sorrise e arrossì, ma non
commentò. “Idiota! Sei venuto qui per dormire, non
per riconquistarla” mi
maledissi. Però era bella. La pelle bianca metteva in
risalto i capelli rosso
scuro e gli occhi verdi. Il corpo era generoso e proporzionato e la sua
voce
aveva una cadenza musicale. In ogni caso tra noi era finita, non avevo
nessuna
intenzione di riprovarci. «Sei fidanzato?» mi
chiese improvvisamene lei mentre
sistemava le coperte. «Emm… no» risposi
esitante. Mi sembrò di vedere un
sorriso illuminarle brevemente il viso. «Sai, ti sta bene la
barba, ti dà
un’aria da uomo vissuto» mi vezzeggiò
sedendosi accanto a me. Mi toccai la
barba incolta: era da due giorni che non mi rasavo.
«Trovi?» dissi tentano di
apparire gioviale. «Si, mi piace»
replicò lei in tono sensuale. Tentai di
simulare una risata. «In questi giorni fa davvero freddo non
trovi?». «Troppo
per dormire da soli» ribatté lei guardandomi negli
occhi. Le sue labbra carnose
si avvicinarono pericolosamente alle mie. Riuscivo ad avvertire il
profumo
piccante ed esotico della sua pelle. I capelli rossi mi sfiorarono la
fronte e
i nostri nasi si sfiorarono. Il mondo sembrava con il fiato sospeso. Le
nostre
labbra si sfiorarono in un bacio casto. «No!» urlai
allontanandomi da lei di
scatto. «Non sono qui per questo». Viki mi
fissò delusa. «Sei un idiota, certi
treni passano una sola volta». «Credo che questo
treno non sia il mio» replicai
serio. «Viki, mi dispiace, ma non ha funzionato, e non vedo
perché dovrebbe
funzionare questa volta». Lei abbassò lo sguardo
delusa «Forse hai ragione». La
rossa si alzò lentamente guardandomi un’ultima
volta. Io abbassai lo sguardo
per non incrociare quegli occhi verdi pieni di delusione. Dovevo essere
impazzito, solo due giorni prima avrei dato il mio braccio destro pur
di
rimettermi con lei e ora…
Rose si alzò
di
cattivo umore. Aveva dormito poco e male, e lo strano comportamento di
Emily
continuava a tornarle alla mente. “Cosa ho fatto di
male?” continuava a
ripetersi la ragazza. Perché di questo Rose era sicura,
Emily era arrabbiata
con lei. Aprì la doccia e si gettò sotto
l’acqua bollente, uno dei pochi
piaceri che veramente si concedeva. Restò sotto
l’acqua almeno una decina di
minuti, poi uscì avvolgendosi nel morbido accappatoio di
spugna, asciugò con cura
i lunghi capelli e si vestì con calma. Era il suo giorno
libero. Una volta
indossati dei morbidi pantaloni di tuta azzurri e una maglietta con le
maniche
lunghe dello stesso colore si sedette alla scrivania ed accese il
portatile.
Tutta la notte era stata tormentata da quello strano pensiero fisso, il
serpente a due teste. Quell’inquietante simbolo aveva
popolato i suoi sogni e
le era entrato nell’anima. Inserì nel database
della polizia e nel motore di
ricerca la parola “serpente a due teste”. Nessun
risultato. Rose sorrise, non
si aspettava certo di trovare quello che cercava così
facilmente. Inserì le
parole anche nel motore di ricerca, i primi risultati facevano
riferimento
all’Idra, il mostro della mitologia greca e ad alcuni
serpenti con mutazioni
genetiche. Rose scosse la testa e modificò la parola da
cercare. “Serpente
bifronte”. Anche questa non diede risultati. Rose fu presa da
un’illuminazione:
“Serpente bifronte mitologia”. Niente. Rose si
scostò una ciocca di capelli
dagli occhi e sbuffò. “Forse dovrei ampliare la
ricerca” pensò annoiata.
“Serpente mitologia”.
Subito apparsero
diversi risultati. Rose scorse attentamente la lista e alla fine scelse
quello
del museo nazionale.
“SERPENTE: nella
mitologia e nel folclore mondiale, rettile che, a volte, assume valenze
positive e benigne, altre, demoniache. Nelle credenze ebraiche e
cristiane, il
serpente e spesso associato al diavolo.”
Recitava
la prima parte. Rose interessata continuò
a leggere, se non altro avrebbe imparato qualcosa. “Nella Genesi
(3: 1) il serpente viene descritto come «la più
astuta delle bestie selvatiche
fatte dal Signore Dio»… Secondo il
Libro dei Numeri… antico Egitto,
il serpente-mostro Apep… simbolo di
rinascita e guarigione… la dea sumera
Inanna…
generato
dal dio del male Loki”. Rose
continuò a leggere per
diverse ore fino a quando non si abbatté in una cosa che la
fece sobbalzare.
Ogni paragrafo era accompagnato da un’illustrazione, e quella
che stava
fissando era proprio l’illustrazione, il
simbolo che l’assassino si era
segnato sugli avambracci. Accanto all’immagine
c’erano tre brevi righe di
spiegazione. “Quetnitlan era
il serpente guardiano dei morti nella
mitologia Maya, sono in pochi a conoscere il vero significato di questo
dio
pagano e i riti legati al suo culto, in mancanza di fonti attendibili
preferiamo non riportare altre notizie”. Rose
fissò
impietrita lo schermo del computer. Il dio dei morti. Ma
perché l’assassino si
era inciso sugli avambracci il simbolo di una divinità Maya?
Non importava, ora
che era in possesso del nome poteva fare una ricerca approfondita.
Tornò al
motore di ricerca principale e digitò il nome di Quetnitlan.
Il primo risultato
era del sito della polizia. Rose ci cliccò immediatamente
sopra. Il link
portava ad una pagina in sfondo giallo con l’elenco di tutte
le società
registrate della città di New York. Le fu richiesta una
password che la ragazza
inserì senza esitare. Scorse l’elenco fino alla
voce “Quetintlan” e cliccò sul
nome. “Quetnitlan, circolo di
lettura e club
esclusivo per persone che abbiano una verificabile discendenza
Maya”. Rose
stampò la pagina, si vestì ed uscì in
tutta fretta… e pazienza
per il suo giorno libero.
Arrivai alla
centrale a tempo di record, sembrava che anche i mezzi pubblici
volessero
aiutarmi. Mi precipitai verso il mio ufficio ma intercettai qualche
parola di
una conversazione fatta da un gruppetto di agenti. «Certo che
è stata proprio
brava… risolvere il caso in così poco
tempo». Mi sollevai di qualche palmo da
terra: stava parlando di me! «In effetti non si capisce
perché sia così di
cattivo umore, dovrebbe essere contenta». “Cosa? Io
non sono di cattivo
umore?”. «Già… chi la capisce
è bravo. Ma dopotutto è il nostro Commissario, ed
è la migliore che abbiamo mai avuto». Il mondo mi
crollò addosso. Ecco perché
Emily era così di cattivo umore, ecco perché mi
trattava così. Si era presa lei
il merito della soluzione del caso. Mi aveva tradita per gelosia, per
invidia.
I fogli delle mie ricerche mi sfuggirono di mano e caddero sul
pavimento blu.
Giallo su blu.
Quando mi alzai era
già passato mezzogiorno. «Buongiorno»
trillò Viki mentre armeggiava
ai fornelli. «Che ore sono?» chiesi stordito.
«Ora di pranzo» esclamò la
ragazza mettendo la pentola di pasta sul tavolo già
apparecchiato. «Ero sicura
che ti saresti svegliato, i miei spaghetti fanno alzare anche i
morti».
Sorrisi, ricordavo bene la cucina di Viki. «Aspetta, prima ti
sistemo il
divano» mi offrii. «Lascia lascia, tu piuttosto
bevi un po’ di caffè che mi
sembri ancora addormentato» scherzò lei.
«Ma…» protestai.
«Fila!» mi ordinò
Viki «Ormai deve essere freddo ma sarà meglio di
niente». Decisi di abbassare
il muro difensivo, del resto avevo tanta voglia di essere coccolato.
Viki finì
di sistemare il divano e di mettere a posto le coperte quando bussarono
alla
porta. «Polizia di New York, apra la porta». La
tazzina bianca mi sfuggì dalle
mani e si ruppe sul pavimento. «Apri la porta»
sussurrai sgattaiolando in
camera da letto chiudendo la porta dietro di me. Sentii il rumore della
porta
che si apriva. «Signorina Potter?». Non potevano
arrestarmi adesso, non dopo
tutto quello che avevo passato. «Si?». Mi guardai
attorno spaventato. «Sono il
commissario Emily Jefferson, mi farebbe entrare?». La
finestra? No, non potevo
richiuderla e non avevo nemmeno il giaccone.
«Certamente». Il giaccone! Era
rimasto sull’attaccapanni in salotto! «Aspettava
qualcuno?». Sotto il letto?
No, era il posto più insulso che si potesse trovare.
«Si, il mio fidanzato, ma
mi ha appena chiamato per dirmi che non verrà».
Viki era un’attrice fantastica,
quasi quasi ci credevo anch’io. «Non l’ha
presa bene a quanto vedo». L’armadio?
No, era impossibile infilarsi dentro. «Oh, quella
l’ho rotta per sbaglio, stavo
per mettere a posto quando ha bussato». Mi guardai in giro
come una bestia
braccata. «Senta… cosa vuole da me?».
Viki andava diretta al punto, avrebbe
potuto guadagnare ancora qualche minuto… «Conosce
Matt Collins?». Non poteva
finire così. «Si, siamo stati fidanzati per circa
un anno, ma ci siamo lasciati
due mesi fa’. Perché?». Mi girai verso
un angolo dove Viki teneva una
gigantesca montagna di peluche. «E quando l’ha
visto l’ultima volta?». Un’idea
mi balzò alla mente. «Credo un mese fa, quando
sono andata a casa sua per
prendere alcune cose che avevo lasciato lì.
Perché?». Dovevo sbrigarmi. «Posso
dare un’occhiata alla casa?». Stava per arrivare!
«Emm… certo». Finito.
Spalancai la porta
della camera da letto guardandomi attorno attentamente. Quella specie
di oca mi
seguiva timorosa e confusa, se stava mentendo lo sapeva fare
maledettamente
bene. «Scusi il disordine commissario»
tentò di giustificarsi la donna ma la
zittii con un gesto brusco. Mi chinai ad osservare sotto il letto ed
aprii
l’armadio, la finestra era chiusa dall’interno.
Sospettosa passai al bagno ma
anche lì non c’era nessuno. Ritornai in soggiorno
leggermente delusa. «Niente»
commentai. «Mi vuole spiegare cosa sta succedendo?»
strepitò alla fine l’oca.
«Collins è un assassino, se lo incontrasse non
esiti a chiamarci». Gli occhi
verdi si riempirono di meraviglia. Se stava mentendo lo sapeva fare
maledettamente bene. «C-certo» balbettò
spaventata. «Buona giornata» dissi
avviandomi verso la porta. Alla fine notai un particolare sospetto.
«Di chi è
questa giacca?». Negli occhi verdi della donna
passò un lampo di paura, durò un
millesimo di secondo, ma mi bastò. «È
del mio ragazzo, lo avrà scordato qui»
balbettò incerta. Non era poi così brava.
«Capisco» mormorai aprendo la porta e
uscendo nella tormenta.
Quando Viki chiuse
la porta respirai rumorosamente. La rossa entrò come una
furia in camera
chiamandomi a gran voce. «Calma, sono qui» risposi
riemergendo dalla montagna
di peluche sotto la quale mi ero nascosto. «Ho avuto
paura». «Sapessi io»
commentai ironico. Poi notai che una delle fasciature agli avambracci
si era
strappata. «Emm… Viki… non è
che avresti delle bende?».
La rossa mi
condusse in bagno e sbendò le mie braccia.
«Gesù Matt! Cosa ti sei fatto?»
chiese inorridita osservando l’incisione. «Me lo
sono inciso prima di… non so
cosa significa» risposi evasivo.
«Aspetta!» esclamò Viki vincendo la
repulsione
e fissando meglio il simbolo. «Io questo disegno
l’ho già visto».
«Dove?» urlai
eccitato. «Bhè… dove lavoro, al museo
archeologico». «Che
cos’è?». «Non lo so,
credo un dio Incas, o Maya». «Un dio
Maya?» ripetei incredulo. «Credo»
precisò
lei. «Viki, devi portarmi immediatamente al museo, dobbiamo
scoprire cosa vuol
dire questo simbolo». Lei mi fissò a lungo,
un’espressione incerta dipinta sul
volto. «Ti prego» insistetti io «Oh
bhè… tanto ormai la pasta si è
raffreddata».
Esultai. «Ma non puoi uscire così… ti
riconoscerebbero subito, ormai la tua
foto è ovunque!». «Cosa consigli di
fare?». Viki borbottò qualcosa
accarezzandomi i capelli, poi si illuminò «Lascia
fare a me!»
Entrai
nell’ufficio
fischiettando, allegro come al solito. Afferrai al volo il pallone da
basket e
feci alcuni palleggi godendomi la solitudine. Emily era in giro e Rose
aveva il
giorno libero. Dopo una serie di giochetti con il pallone tirai
finalmente a
canestro. La palla sbatté sul ferro e rotolò
dietro la scrivania di Rose.
Imprecando feci il giro della scrivania per recuperarla e fu allora che
vidi
Rose. Era accucciata per terra, in lacrime. La scena mi
spiazzò, non ero
decisamente preparato. «Ehi Rose! Chi è
morto?» scherzai accucciandomi accanto
a lei. La mia amica non si degnò nemmeno di guardarmi e
continuò a
singhiozzare. «Rose! Cos’è
successo?» chiesi sinceramente preoccupato
accarezzandole una guancia. «N-niente»
singhiozzò lei tra le lacrime. «Rose…
con me puoi parlare» la rassicurai carezzandole una guancia.
Lei non si
sottrasse dalla mia presa, evidentemente voleva essere consolata.
«Cosa è
successo? Rose devi dirmelo se vuoi che ti aiuti!» sussurrai
con dolcezza.
«E-e-emily» balbettò lei.
“Cosa può essere successo?” pensai
sorpreso. “Non capisco
come possano aver litigato quelle due”. «Cosa ha
fatto?». Rose riuscì a
prendere un profondo respiro e mi spiegò «Ho
risolto il caso ed Emily si è
presa il merito». Tutto si congelò per qualche
istante. «Che cosa?». «È la
verità». Mi alzai di scatto «Scusami un
attimo, vado a spaccarle le faccia»
dissi con fare risoluto. «No!» mi fermò
Rose disperata. Mi girai e la fissai
con occhi di fuoco «Cosa ci fai ancora qui?». Lei
mi guardò smarrita. «Perché
non stai andando da lei ad affrontarla? Perché stai solo
piangendo?». Lo shock
per Rose era stato talmente forte da farla smettere di piangere. Adesso
poteva
o esplodere contro di me e rimettersi a piangere, oppure trovare la
forza di
affrontare Emily. Dovevo solo incanalare le sue energie nella giusta
direzione.
«Quello che ha fatto Emily è gravissimo, non puoi
e non devi piangerti addosso,
devi solo affrontarla» le spiegai in tono duro. Odiavo
recitare quella parte ma
a volte un bello schiaffo morale serve più di mille
consolazioni. Perché essere
amici vuol dire anche questo. «Cosa sta aspettando?
Muoviti!» urlai irato. Rose
si alzò e si asciugò le lacrime.
«Ruphert, vai sul sito della polizia.
C’è una
lista delle associazioni e dei club registrati di tutta la
città, cerca la
società “Quetnitlan”, come simbolo ha il
serpente a due teste. Troverai
l’indirizzo e tutto, te ne occupi tu?».
«Conta su di me» risposi serio. «Io
vado a cercare Emily» disse determinata uscendo
dall’ufficio. Sospirai
sedendomi alla scrivania e accendendo il computer. “Non mi ha
nemmeno
ringraziato, vabbè pazienza. L’importante
è che quelle due si chiariscano”.
Le scarpe da
ginnastica sprofondavano nella neve ormai troppo alta, facendo entrare
freddo
ad ogni passo. «Manca ancora molto, mi sto
congelando» mi lamentai mettendo le
mani sotto le ascelle per riscaldarle. «Siamo
arrivati» rispose Viki al mio
fianco. Entrammo in un’anonima porticina che non avrei
nemmeno notato se fossi
stato da solo. «Ciao George, devo parlare con il professor
Flint. Questo
ragazzo è con me». «Passa pure
Viki» rispose l’anziano agente di polizia.
Quando ci passai accanto un lungo brivido di terrore mi percorse la
schiena. Il
poliziotto aveva sicuramente visto la mia foto in giro e non ero sicuro
che un
paio di occhiali vecchi e i capelli tinti di un appariscente biondo
platino
potessero bastare. «Sei troppo rigido, sciogliti un
po’ o ci farai scoprire» mi
sussurrò Viki con discrezione. Immediatamente sciolsi i
muscoli delle spalle e
del collo e tentai una camminata più naturale. La rossa
alzò gli occhi al cielo
esasperata ma non disse niente.
Il professor Flint
era un uomo alto e dinoccolato, con una pelata scintillante e le
braccia
innaturalmente lunghe. «Victoria! Oggi non è il
tuo giorno libero?» esclamò il
professore raggiante. «E chi è il tuo
amico?» curiosò poi rivolto a me. «Un
mio
amico, appassionato di mitologia Maya, che avrebbe tanto voluto
parlarle»
rispose angelicamente Viki. La adorai, sapeva esattamente come giocare
le sue
carte. «Bhè, gli amici di Victoria sono miei
amici, cosa vorresti chiedermi?»
acconsentì Flint senza esitazione. «Ho sentito
parlare di una divinità Maya
particolare, un serpente a due teste». Il volto del
professore si illuminò.
«Quetnitlan! Pochi lo conoscono! Vieni, te lo faccio
vedere». Detto questo
accompagnò me e Viki in una stanza adiacente alla prima e ci
mostrò un
bassorilievo. Il mio cuore perse un battito. Davanti a me
c’era il serpente a
due teste, quello che mi ero inciso sugli avambracci. «Questo
è Quetnitlan, il
serpente a due teste» esordì.
«È il fratello minore di Quezcolat, il serpente
piumato protettore della vita, e a differenza del fratello cura la
morte.
Secondo la credenza Maya questo serpente aveva una testa nel nostro
mondo e una
nel regno dei morti. Quando una persona moriva Quetnitlan apriva
entrambe le sue
fauci e l’anima passava attraverso il serpente
nell’altro mondo». Osservai
affascinato il bassorilievo. «Ed erano
legati dei sacrifici umani a lui?» chiesi avido.
«Naturalmente» rispose il
professore mostrandoci un secondo bassorilievo che mostrava un
sacrificio.
Oltre alla vittima c’erano due persone, una con una grande
maschera piumata e
l’altra che stava uccidendo la vittima. «Vi spiego
cosa sta succedendo, la
vittima viene uccisa recidendo le arterie polmonari, in modo che la
morte sia
il più lenta possibile. Più è lenta
l’agonia più è lungo il tempo che
Quetnitlan tiene aperte le fauci. In questo lasso di tempo
l’oracolo può vedere
il regno dei morti, parlare con loro e farsi dire il futuro, tutto
attraverso
il serpente». «Non è l’oracolo
a compiere l’omicidio?» osservò Viki
perplessa.
«Oh no!» esclamò Flint come se avessimo
detto un’eresia. «L’oracolo non deve
macchiarsi mai del crimine. Di solito delega questo compito ad una
persona a
caso, dalla folla. Questa persona viene fatto entrare in trance e
diventa
l’esecutore materiale dell’omicidio, ma prima di
uccidere l’esecutore si incide
sugli avambracci il simbolo di Quetnitlan». Io e Viki ci
guardammo
terrorizzati. «E… e cosa succede
all’esecutore quando… quando ha compiuto il
sacrificio?». Chiesi timoroso. «Di solito si
suicida» disse il professore con
noncuranza. «Nei rari casi che l’esecutore
sopravviva diventa un Garganta,
un soggetto da eliminare».
Controllai ancora
una volta l’indirizzo prima di entrare. Ero nel posto giusto.
Mi calai bene il
cappello di lana sulle orecchie facendo sfuggire solo qualche ciocca
rossa.
Suonai ad un campanello a caso «Chi è?»
chiese una voce alta e stridula.
«Posta» mentii pronto. La porta si aprì
all’istante ed entrai sottraendomi al
gelo. Dall’ascensore si diramavano due strade, una che
portava alle scale e un
altro più grande che conduceva a due appartamenti. Su una
delle porte notai il
simbolo di Quetni…coso. Suonai con decisione e aspettai una
risposta. Notai che
il campanello posizionato fuori dalla porta non somigliava minimamente
a quello
di un’abitazione, anzi. Era provvisto di telecamera e
rilevatore di impronte
digitali. Studiai bene anche la porta, era blindata. Tutta quella
sicurezza era
sospetta. «Cosa cerca?» chiese una voce sepolcrale
alle mie spalle. Sobbalzai
spaventato. Un uomo abbronzato con folti capelli neri e gli zigomi
fortemente
pronunciati era spuntato dalla porta alle mie spalle e mi stava
fissando con i
suoi profondi ed imperscrutabili occhi neri colmi di disprezzo.
«Cosa cerca?»
ripeté lui spazientito visto che non mi decidevo a
rispondere. Mi riscossi
dalla sorpresa. «Buongiorno, mi chiamo Ruphert
Alman» mi presentai simulando
allegria. «Questo non risponde alla mia domanda»
osservò l’uomo freddo. «Emm…
certo…» balbettai disorientato «Sono
venuto per chiedere qualche informazione
sul club… mi hanno detto che la sua sede è qui ed
io…» lasciai la frase in
sospeso. L’uomo mi scrutò ancora di più
con i suoi occhi acquosi, come per
esaminarmi. «Mi segua» disse con voce calma e
misurata. L’uomo posò il pollice
sul rilevatore di impronte che si illuminò di luce verde
dopo pochi secondi, la
porta si aprì silenziosa. Entrammo in una saletta piccola ed
austera, arredata
con una semplice scrivania, due sedie ed un piccolo schedario
metallico.
«Certo, me la immaginavo un po’
più… colorata» osservai allegro.
L’uomo mi
osservò con disprezzo, senza raccogliere la battuta.
«Questa è solo
l’anticamera, solo i soci possono accedere ai locali
riservati» spiegò
indicando una semplice porta che era passata inosservata fino ad
allora. «Cosa
desidera sapere?» mi chiese sedendosi alla scrivania.
«Come posso diventare
socio?» chiesi senza esitazioni. «Innanzitutto deve
dimostrare una parentela
Maya, senza la quale non può essere ammesso, poi deve
compilare questo modulo»
spiegò cortese ma freddo mettendomi sotto il naso un foglio
pieno di domande.
Ne lessi alcune mentalmente. “Chi è Quetnitlan?
Chi è Quezcolat? Quali
differenze c’erano tra i due culti? Qual’era la
maschera rituale degli
oracoli?”. Fissai con sguardo interrogativo l’uomo.
«La prima parte è un test
di cultura Maya, se si commette anche un solo errore non si
può essere
ammessi». Annuii pensieroso mentre voltavo il foglio e
leggevo le altre
domande. “Qual è il suo colore preferito? Qual
è il suo piatto preferito? È
credente?”. «La seconda parte è invece
un test comportamentale, anche qui
osserviamo parametri molto severi» mi illustrò
l’uomo. «Accidenti… non ci
saranno molte persone che riescono a superare il test
d’ingresso… Quanti soci
avete?» buttai lì come una battuta.
«Abbastanza» rispose l’uomo impassibile.
«Abbastanza per cosa?» insistetti curioso.
«Lei non vuole iscriversi al nostro
club… ispettore Alman. Per cosa siamo sospettati?»
mi chiese glaciale l’uomo.
Mi sfuggì un’imprecazione sottovoce.
«Non si preoccupi, anche se mi avesse dato
un nome falso l’avrei riconosciuta, l’ho vista
diverse volte in televisione» mi
rassicurò lui con un tono leggermente ironico.
«Non sono preoccupato e
tantomeno in incognito. Ero sinceramente interessato ad iscrivermi al
vostro
club» mentii tentando di rigirare la situazione.
«La prego ispettore di non
insultare la mia intelligenza, so benissimo che lei ha origini
irlandesi come
qualsiasi idiota potrebbe intuire dalla sua carnagione e dai suoi
capelli, e so
anche che non è un uomo interessato alla storia o alla
mitologia avendola
vista, come ho già accennato, diverse volte in
televisione». Deglutii a vuoto,
quell’uomo era davvero impressionante, ma c’era
qualcosa in lui che mi
attirava. «Ora, per dimostrarle che né io
né il mio club abbiamo niente da
nascondere alla polizia per qualunque motivo lei sia venuto, la invito
a fare
un giro all’interno delle stanze riservate ai soci,
nonostante lei non abbia un
mandato». Lo guardai stupito «Come… come
fa a sapere che non ho un mandato?».
«Lei continua ad insultarmi» sospirò
l’uomo «Se avesse avuto un mandato non le
sarebbe servito tutto questo teatrino». Mi diedi dello
stupido, ma quell’uomo
riusciva a confondermi. Lui si alzò ed aprì la
porta lasciandomi intravedere
una stanza sfarzosa e riccamente decorata prima di rivolgermi di nuovo
la
parola. «Oh! Tra parentesi, il mio nome è
Estéban Garcia».
Ruphert
aprì la porta dello
studio rumorosamente e la sbatté dietro di sé
incurante del rumore. Rose
sobbalzò sulla sedia spaventata. «Ruphert! Mi
stava venendo un infarto!» lo
accusò. «Scusa» borbottò lui.
«Hai parlato con Emily?». La ragazza si morse le
labbra «Non sono riuscita a trovarla, non mi risponde al
cellulare e non è a
casa sua, ma sono comunque decisa a parlarci». Ruphert
grugnì la sua
approvazione. «E tu?» indagò Rose
«Come è andata al club?».
«Bhè… se ti
aspettassi di trovare qualcosa di interessante…».
«Aspettavi» lo corresse Rose
automaticamente. «…preparati ad una
delusione» continuò Ruphert imperterrito.
Detto questo il rosso si affrettò a raccontare del suo
colloquio con Garcia.
«Poi mi ha fatto entrare nelle stanze riservate, avresti
dovuto vederle Rose,
erano favolose! Ognuno dei dieci soci ha una camera da letto personale
una più
ricca dell’altra, e il salone è grande come un
campo da calcio. Tutte la pareti
sono coperte da quadri, incisioni o disegni sui Maya, alcuni autentici
eseguiti
dai Conquistadores! Ci sono anche numerosi cimeli tra cui anche un
pugnale
rituale autentico che risale a più di tremila anni
fa!». Rose lo ascoltò
meravigliata. «Sei senza parole vero?»
osservò Ruphert entusiasta.
«Già… hai
parlato per quasi un quarto d’ora azzeccando tutti i verbi,
deve essere una
specie di record» scherzò lei. Il ragazzo assunse
un’espressione offesa.
«Comunque a parte l’affascinante arredamento del
loro quartier generale non hai
individuato nessun particolare sospetto che li colleghi ai
delitti?». «No»
disse Ruphert abbattuto. «Pazienza, non avevo sperato troppo
su questa pista»
commentò filosoficamente Rose. Improvvisamente la porta
dell’ufficio si
spalancò con violenza. Emily li guardò furiosa.
«Ah!
Siete qui! Muovetevi!». «Chi
è morto?» chiese in tono
scherzoso il ragazzo. «Un uomo e una donna in un negozio di
dischi, tra la
sesta e la ventitreesima strada» rispose Emily glaciale.
Ruphert abbassò lo
sguardo imbarazzato. «Oh… capisco».
|
Ritorna all'indice
Capitolo 3 *** Il terzo giorno ***
Dopo
le sconvolgenti rivelazioni del professor Flint mi ero chiuso in casa
di Viki a
guardare la televisione. Viki era uscita da poco, doveva fare delle
commissioni
Avevo paura. Se ero davvero un Garganta, come mi
aveva chiamato il
professore, allora non potevo espormi troppo. Avevo deciso di restare a
casa
per il resto del giorno, senza andare nemmeno
all’appuntamento con Eva, facendo
zapping di controvoglia e reso irascibile dalla mia prigionia forzata.
Cambiai
canale all’ennesimo reality show e finalmente trovai un
notiziario. Era già
cominciato, ma arrivai in tempo per la notizia fatale.
«Notizia dell’ultima
ora, è stato trovato il corpo di una giovane donna, Victoria
Potter, assassinata
in un negozio di dischi tra la sesta e la ventitreesima strada. Oltre
alla
vittima è stato trovato anche il corpo del proprietario del
negozio, Carl
Green. Un altro omicidio-suicidio esattamente simile a quello della
lavanderia
a gettoni o a quello della tavola calda. Restate in attesa di altri
aggiornamenti». Rimasi a fissare lo schermo mentre cominciava
a parlare del
campionato di calcio. Un profondo senso di alienazione mi colse
violente tra la
gola e lo stomaco. Viki… morta. Mi guardai attorno. Quella
era la casa di Viki!
Quelli erano gli spaghetti che non avevano mangiato, quelli erano i
suoi
peluche, quello il suo letto. Viki era morta. Il peso di quelle parole
mi
schiacciò. Nevermore. Quella parola mi
rimbalzò in testa all’infinito.
Non avrei più visto i suoi occhi verdi, o i suoi riccioli
rossi. Nevermore.
Non avrei più sentito il suo profumo di boschi. Nevermore.
Non avrei più
ascoltato la sua voce roca e sensuale. Nevermore. Non
avrei più
ruzzolato tra le lenzuola con lei, aspettando il mattino. Nevermore.
Poi
un’altra consapevolezza mi colpì. Quella era la
casa di Viki, la polizia
sarebbe venuta a controllare. Fui tentato di lasciar perdere la mia
insensata
ricerca alla verità. Ma si! Che mi trovassero pure! Tanto
ormai… Alla fine
l’istinto di conservazione prevalse ed uscii nel freddo.
La
neve era fredda e pungente e mi restava tra i capelli scuri come
decorandomi di
una sottile reticella di perline. Dove potevo andare adesso? Mentre
camminavo a
casaccio pensai a quello che era successo. Forse non era stato per caso
che
Viki era stata scelta come vittima, forse gli oracoli volevano colpire
qualcuno
vicino a me per destabilizzarmi. L’idea mi risultò
intollerabile. Quei pazzi
fanatici erano riusciti a rovinare completamente la mia esistenza.
Mentre
rimuginavo su questa atroce verità uno sparo
risuonò alle mie spalle.
Immediatamente la folla che mi circondava cominciò ad urlare
terrorizzata. La
prima cosa che pensai fu che la polizia mi aveva trovato, per questo fu
una
grande sorpresa vedere due uomini vestiti elegantemente ma con il volto
coperto
da passamontagna che correvano all’impazzata puntato dritto
dritto su di me.
“Gli oracoli!” pensai allarmato mettendomi a
correre. I due uomini continuavano
a sparare all’impazzata ma ebbi fortuna. Svoltai in un vicolo
appartato e vidi
che davanti a me stava una rete di recinzione che lo tagliava a
metà. Senza
esitare saltai e mi arrampicai per l’ultimo metro. Poi mi
issai, scavalcai e mi
lasciai cadere dall’altra parte proprio mentre i due
spuntavano dall’altra
parte del vicolo. Un proiettile mi sfiorò la spalla
lasciandomi un sottile
graffio rosso ma riuscii a svoltare nella via principale prima che
riuscissero
a sforacchiarmi ancora. Frenetico mi guardai intorno e notai la fermata
della
metro dall’altro lato della strada. Il semaforo era rosso ma
dovevo rischiare.
Senza esitazione mi buttai in mezzo alla strada dove le macchine
sfrecciavano a
velocità folle. Due vetture si fermarono bruscamente
suonando e venendo
tamponate dalle auto dietro. Ma l’ultima si fermò
troppo tardi investendomi in
pieno e facendomi rotolare sul cofano. Per fortuna mi fermai
lì e mi rialzai
con un leggero stordimento. Mi guardai intorno frenetico, I due uomini
avevano
scavalcato la recinzione e si stavano dirigendo verso di me. Con uno
scatto mi
rizzai in piedi ignorando le proteste degli automobilisti attorno a me
e mi
tuffai nella stazione del metrò. Scavalcai il tornello con
un salto e corsi
verso il primo treno in partenza. Subito l’agente di
sicurezza mi urlò qualcosa
dietro e si mise ad inseguirmi. Nel frattempo anche i due uomini
avevano
scavalcato i tornelli e continuavano ad inseguirmi. Veloce mi infilai
nel
vagone che stava per chiudere le porte, cosa che fece appena fui
entrato
lasciando tutti i miei inseguitori con un palmo di naso. Mi resi conto
che tra
quattro fermate sarei arrivato alla chiesa di Sant’Andrea,
doveva viveva e
lavorava Marcus. “È l’unica”
mi dissi fissando il cartello con le fermate.
Quando
arrivai alla fermata giusta scesi con cautela, se mi avevano trovato a
casa di
Viki avrebbero potuto farlo anche lì. Ma nessun killer
mandato da una setta di
fanatici adoratori di un dio pagano esistente mille anni fa mi
aspettava alla
fermata del metrò. Sempre con la stessa cautela uscii dalla
stazione e vidi
proprio davanti a me la piccola chiesa di Sant’Andrea.
Socchiusi gli occhi per
distinguere meglio la figura che stava per entrarci. Era Marcus.
«Marcus! Ehi
Marcus!» urlai cercando di attirare l’attenzione.
Lui non mi vide. Impaziente
di parlargli e notando il semaforo verde mi gettai dall’altra
parte della
strada chiamandolo. Proprio in quel momento una macchina sportiva
grigia
attraversò l’incrocio con il rosso, a tutta
velocità. L’auto mi colpì in pieno
facendomi saltare in aria. Ebbi il tempo di pensare “Deve
essere la giornata
nazionale degli investimenti, oppure sono solo molto
sfortunato” prima di
piombare come un sasso sul duro asfalto. Tutti urlavano spaventati,
l’auto
grigia non si era fermata. Lentamente il buio calò su tutto.
«Matt!».
Rose
si chinò ad esaminare il corpo di Victoria Potter. Era una
ragazza bella e
sensuale, con morbidi riccioli rossi e profondi occhi verdi che ora
però
fissavano vitrei il vuoto. Rose
soffocò
un brivido e si rialzò rivolgendosi ai suoi compagni di
squadra. «La causa del
decesso è sempre la stessa» confermò
sicura. «Si direbbe un assassino seriale»
commentò Ruphert pensieroso. «Non può
essere un assassino seriale! Gli
assassini sono diversi!» sbottò Emily irritata.
«Ma deve esserci qualcuno che
muove le fila di tutta questa faccenda, non è possibile che
tutto questo sia
casuale!» esclamò Rose convinta.
«Collins?» suggerì il rosso. Rose lo
contraddisse «No, secondo me Collins è solo
un’altra persona costretta ad
uccidere, non potrebbe essere qualche setta segreta adoratrice di
Quetnitlan?».
«Bhè… si ma…»
tentennò Ruphert. «Ma come farebbero a costringere
le persone ad
uccidere?» completò pratica Emily
«Secondo me è Collins che dobbiamo
cercare».
Emily e Rose si scambiarono uno sguardo pieno di tensione, lavoravano
fianco a
fianco solo perché era il loro compito, il loro dovere, ma
non si erano ancora
parlate chiaramente. Emily intuiva che l’amica avesse
scoperto qualcosa,
altrimenti lei e Ruphert non si sarebbero coalizzati così. E
nemmeno Rose
sarebbe stata così sfrontata se non fosse stata
assolutamente sicura di aver
ragione. D’altra parte Rose non era ancora riuscita a parlare
con il suo capo,
anche se ne aveva avuto l’occasione. Quel pomeriggio, carica
delle parole di
Ruphert, l’aveva cercata disperatamente e, non trovandola al
cellulare, era
andata di persona dove sperava di vederla. Aveva violato il suo
computer solo
per guardare la sua agenda e l’aveva seguita fino a casa di
Viki. Rose era
arrivata in tempo per vedere la bruna uscire dalla graziosa casa e le
si era
avvicinata ma poi… uno strano terrore si era impossessato di
lei. Era una paura
profonda e innegabile,più forte della paura della morte o
dei cadaveri che da
sempre Rose nascondeva. Era la paura di perdere Emily. Rose non poteva
sopportare di restare senza il conforto, i modi bruschi, le battute,
l’esigenza, il sorriso, le ramanzine e l’affetto
della sua più grande amica.
Quindi era fuggita in mezzo alla neve, lasciandosi dietro un problema
grande
quanto il mondo.
Ci
infilammo di nuovo tutti in macchina: Ruphert alla guida, io accanto a
lui e
Rose dietro, come sempre. Il rosso tentò di avviare il
motore ma quello si
spense tossicchiando. Ruphert imprecò ad alta voce
«Non è possibile! È già la
quarta volta questo mese!». Poi si slacciò la
cintura ed aprì lo sportello
facendo entrare una raffica di freddo. «Voi due restate qui,
io cerco di
sistemare la cosa». Detto questo chiuse la portiera e mi
lasciò in macchina con
Rose. Ci guardammo e la temperatura scese subito sotto la soglia di
sopportabilità. «Allora… come
và?» chiesi esitante dopo qualche minuto di
silenzio spesso come il marmo. «Credo che tu lo
sappia» fu la risposta gelida.
Fu come ricevere un pesante ceffone. Rose non mi aveva mai trattata
così, non
aveva mai trattato nessuno così. «Non capisco cosa
vuoi…». Non mi lasciò finire
la frase. «Non mi mentire!». L’urlo era
stato acutissimo, mi aspettavo che
Ruphert aprisse la porta da un momento all’altro.
«Rose…». «Mi hai usato, ti
sei presa tu il merito per una cosa che non hai fatto e mi hai mentito.
Non so
se capisci come mi sento…» continuò lei
mentre le prime lacrime scendevano
lungo le guance. «Io… io
ho…». Tesi le orecchie disperatamente.
«… paura… di
perderti». Quando completò la frase non si
trattenne e scoppiò finalmente in
lacrime. Lunghi serpenti di vetro serpeggiavano veloci sulle guance,
sugli
zigomi, sulle labbra per poi scendere lungo il mento e scomparire
dietro la
sciarpa bianca. Immediatamente scoppiai a piangere anch’io e
mi infilai nei
sedili posteriori per abbracciarla. «Scusami… non
l’ho fatto per danneggiare
te. Io mi sono preoccupata, perché non eri più la
mia piccolina, perché non ti
potevo più aiutare». Poi mi staccai
dall’abbraccio e la fissai negli occhi
tenendola per le spalle. «Per paura che ti facessi male
volando ho strappato le
tue ali, perché so che non ti potrò seguire
quando le spiegherai al vento».
Rose mi fissò incredula, persino le lacrime che le rigavano
le guance si erano
fermate. Poi ci riabbracciammo con trasporto, guancia contro guancia, e
le
nostre lacrime e i nostri sorrisi si fusero. Fu in quel momento che
Ruphert
entrò fischiettando allegramente «Il motore
è a posto, possiamo partire». Poi
ci fissò imbarazzato. «Oh!…
Ho… ehm... ho interrotto qualcosa... ?». Ci
studiammo per una manciata di secondi, in silenzio, prima di scoppiare
a ridere
tutti e tre.
Trascrissi
accuratamente la data sul taccuino e lo riposi sul piccolo scrittoio
accanto al
crocifisso. Una debole voce alle mie spalle mi sorprese.
«Vi-ki». Mi girai
entusiasta, Matt si era svegliato! «Matt!» esclamai
chinandomi sul suo
capezzale e osservandolo con apprensione. Mio fratello aveva gli occhi
socchiusi e stava tentando di rimettere a fuoco il mondo intorno a se.
«Marcus?» chiese poi con voce esitante.
«Si fratellino! Sono qui!». La sua voce
era debole e spezzata. «Cosa…
è… successo?» ansimò.
«Sei stato investito»
risposi in tono grave, per fortuna che eri davanti alla chiesa e ti ho
potuto
raccogliere io, altrimenti ti avrebbero portato all’ospedale
e da lì in
carcere. La mia voce decisa sorprese anche me, fino a pochi secondi
prima non
ero così sicuro che mio fratello fosse innocente. La cosa
non passò inosservata
nemmeno a lui. «Tu… tu mi credi?» chiese
pieno di meraviglia. «Si» risposi
senza esitazione. Questo ebbe l’effetto di tirare un
po’ su mio fratello. «Viki…»
cominciò lui, ma non lo feci finire. «Lo so, i
funerali si terranno questa
sera». Matt spalancò gli occhi e fece per alzarsi
ma una violenta fitta al
costato lo costrinse a sdraiarsi di nuovo. «Piano! Non hai
nulla di rotto ma
non puoi pretendere di uscire completamente illeso da un incidente
d’auto. Non
continuare a mettere alla prova Dio». Subito mi pentii
dell’ultima
affermazione, Matt non credeva in Dio e non gli piaceva sentirlo
nominare. Ma,
contrariamente alle mie previsioni, Matt sorrise debolmente.
«Che ore sono?»
chiese sempre con voce debole. «Circa le dieci, hai
fame?». Scosse la testa.
«Devo riposare, stasera voglio esserci».
«Ma Matt! Non puoi, di sicuro avranno
trovato il legame tra te e Viki e controlleranno che tu non ti
avvicini!». Matt
si girò fissando l’alto soffitto del piccolo
monolocale attiguo alla chiesa
dove vivevo. «Sicuramente» commentò
impassibile. «Matt! Hai deciso di
consegnarti?». «No». «E
allora?» chiesi spazientito alzandomi dalla sedia e
misurando la stanza a grandi passi. Avevo appena ritrovato mio
fratello, non
potevo perderlo ora. «Marcus, io devo andarci». Il
suo tono era calmo e
distaccato. «Perché? Capisco che provavi ancora
qualcosa per lei ma correre un
rischio così grosso è da stupidi».
«Marcus, io devo andarci» ripeté lui in
tono
piatto, poi si voltò a fissarmi. «Lei è
morta per causa mia».
Marcus
mi fissava spaventato. «Cosa?». «Lei
è morta per causa mia» ripetei con la
massima calma. Lui si prese la testa tra le mani. «So cosa
devo fare» aggiunsi
con una voce impassibile. «Hai un piano?»
sussurrò Marcus guardandomi tra le
dita. «Si, e per metterlo in pratica devo andare al funerale
di Viki stasera».
La
nebbia era sparita e restava solo una leggera neve bianca e pulita,
quasi
poetica a decorare l’aria fredda. Non c’era nemmeno
vento, o almeno nessuno dei
presenti lo sentiva attraverso i pesanti strati di vestiti. Il parroco
recitava
un discorso vuoto, non ricordavo che Viki fosse mai stata
“generosa con i
poveri” o “amata dai bisognosi”. Viki era
una persona solare, questo sì.
Simpatica, sensuale, bellissima, provocante, ospitale e generosa con
gli amici
ma estremamente egocentrica con chi non considerava importante per lei.
Quel
discorso, forse più crudo e meno splendente, mi sarebbe
piaciuto di più di
quella sfilza di aggettivi vuoti e privi di significato. Anche la
riunione di
persone mi disgustò vagamente. C’erano diverse
ragazze amiche di Viki che
discutevano animatamente mostrando le unghie smaltate e le labbra
lucidate.
C’era il professor Flint che parlottava con alcuni suoi
colleghi. C’erano la
sua affittuaria che non aveva nemmeno la decenza di parlare a bassa
voce dentro
il suo cellulare. E poi c’era una ragazza che non conoscevo
che fissava triste
la tomba. Aveva lunghi capelli color miele sciolti lungo le spalle che
risaltavano sul cappotto bianco. Mi scostai il ciuffo nero che mi
ricadeva
sugli occhi e la tenni d’occhio.
Quando
la funzione finì tutti se ne andarono parlottando tra di
loro, io no. Sapevo
che mi guardava dall’inizio del funerale, ma non avevo
intenzione di scappare.
Quando tutti se ne furono andati mi voltai e lo guardai di sottecchi.
Matt
Collins mi si avvicinò e guardò la tomba di
Victoria. «Mi dispiace» commentai
malinconica. «Anche a me» rispose lui impassibile
stringendosi nel cappotto
nero. Poi si voltò verso di me. «Lei è
Rose McDemos, ispettrice della polizia
di New York». Io sostenni il suo sguardo «E lei
è Matt Collins, ricercato per
l’omicidio di Jhon Robert Senior dalla polizia di New
York». Ci guardammo
intensamente, non servivano altre parole. «Devo
parlarle» mi disse con la sua
voce profonda. «E anche io, ma anche il commissario e
l’ispettore Alman
ascolteranno questa conversazione» replicai respirando
affannosamente. Eravamo
ad una distanza pericolosa, troppo pericolosa. «Per me va
bene» rispose lui
senza staccare gli occhi dai miei. Poi ci baciammo. Fuochi
d’artificio e
schizzi di fiamme inondarono il nostro universo freddo e sterile
aprendo
passaggi verso mondi sconosciuti. Le stelle ci passarono accanto mentre
respiravamo in perfetta sincronia e gigantesche farfalle di tutti i
colori del
mondo ci offrirono il loro doso per viaggiare fino alle porte del
paradiso.
Incontrammo Dio stesso, perché solo nell’amore
più violento e prorompente si
può trovare Dio e gareggiammo in bellezza con le alte
montagne e gli sconfinati
oceani. L’amore ci travolse come solo l’odio
può fare ma lasciandoci un sapore
di miele in bocca e un profumo di vaniglia nelle narici.
Era… bello. “Bello”
era l’unico aggettivo che poteva descrivere cosa provammo
durante quell’unico
lungo bacio. Bello. Una parola semplice, senza troppi fronzoli, ma
straordinariamente evocativa e potente. Bello.
Era mattina presto, e
Ruphert ed Emily erano corsi a casa di
Rose che aveva chiamato loro
con molta urgenza. Lì avevano trovato Matt Collins. Tra la
confusione generale
Rose era riuscita a spiegare l’intera situazione e i quattro
si erano
confrontati. Tutti erano molto interessati al racconto di Matt,
soprattutto
alla parte riguardante il culto di Quetnitlan. Poi toccò ai
poliziotti
raccontare le loro indagini. Quando infine Ruphert descrisse il suo
incontro
con Estéban Garcia Matt sobbalzò. «Cosa
succede?» chiese Rose preoccupata.
«Garcia… è lui che mi ha messo la droga
nel caffè» mormorò con voce strozzata.
Tutti sobbalzarono. «Lui… e quella setta di
fanatici…» continuò a balbettare
tra i denti. Rose esultò. «Cosa
c’è di bello?» ringhiò Matt.
«Ma non capite?»
esclamò Rose felice mentre anche sul volto di Ruphert si
disegnava un sorriso
consapevole. «Noi… » cominciò
la ragazza «Abbiamo risolto il caso!»
completò
Ruphert eccitatissimo agitando le braccia ed improvvisando un balletto
con Rose
in mezzo al salone. «No che non lo abbiamo risolto»
ribatté Matt cupo. Gli
altri due lo guardarono straniti. «E
perché?» chiese Ruphert sospettoso. « In
quale tribunale accetteranno come prova una memoria
inconscia?» commentò Emily
realista. Subito Rose e Ruphert si afflosciarono sulle sedie.
«Allora cosa
facciamo? Andiamo da Garcia e gli chiediamo gentilmente se non ha
drogato
qualcuno ultimamente per farne un oracolo Incas».
«Maya, e comunque non diventi
l’oracolo ma solo l’esecutore del…
». «Rose! Ti prego!».
«Scusa». «Io ho un
piano». Tutti si girarono verso Emily che sorrideva con
un’insopportabile aria
di superiorità. «E sarebbe?» chiese Matt
speranzoso. «Ma dipende tutta da una
cosa… quanto sei disposto a rischiare».
«Tutto» rispose il moro senza
riflettere. «Sicuro?» chiese Emily stringendo gli
occhi e fissandolo seria.
Matt chiuse gli occhi e respirò a fondo. Quando li
aprì conosceva la risposta.
«Si».
Mi
avvicinai alla porta del club esitante, loro dovevano essere dentro. Mi
accarezzai le labbra, lì dove Rose mi aveva dato quel bacio
di saluto leggero e
delicato come zucchero a velo. Presi un profondo respiro e suonai al
campanello. Dopo
alcuni minuti una voce fredda mi
rispose. «Matt Collins? Entra entra». La porta si
aprì silenziosamente. Mentre
entravo la accarezzai lievemente sentendo sotto la mano il metallo
freddo.
Dall’altra parte c’era Garcia che mi aspettava.
Vestiva in modo elegante e mi
fece un sorriso amichevole. «Benvenuto Matt Collins, ci hai
trovati
finalmente». Lo guardai disorientato.
«Cosa?». «Sapevi che dovevi venire da noi
vero, hai scoperto tutto del culto di Quetnitlan e hai saputo che stavi
per
diventare un oracolo vero?». Lo fissai con sguardo smarrito.
«Dunque tu non
sai?» mi chiese lui stupito, quasi indignato.
«Cosa?» balbettai esitante. «Gli
esecutori che non si suicidano… diventano a loro volta degli
oracoli!» mi
rivelò teatrale. Io trattenni il fiato sorpreso, ma vedevo
che mentiva. Il
tremito delle mani era incontrollabile e la fronte era imperlata di
sudore.
Dovevo stare al gioco. «Grandioso! Quindi adesso sono uno di
voi?». «Certo»
sussurrò Garcia dolce aprendo la porta che dava sul
soggiorno del club. Era
esattamente come Ruphert lo aveva descritto: meraviglioso. Oggetti di
tutti i
tipi decoravano le pareti con i quadri, le pagine di diario e i disegni
autentici dei Conquistadores. Su divani comodi e ampi stavano sedute
sei
persone, tutti con gli stessi zigomi pronunciati e la carnagione
abbronzata.
Appena entrai Garcia chiuse la porta dietro di noi e
sogghignò. «Piccolo
profano idiota! Credevi davvero che un Garganta
potesse diventare uno di
noi? I poteri sacerdotali si trasmettono solo da maestro a
discepolo!».
Immediatamente tutti gli oracoli si alzarono di scatto puntandomi
addosso le
pistole che fino a quel momento avevano tenuto nascoste. «Sai
perché ti ho
fatto vedere questa stanza?». Lo guardai spaventato.
«Sai perché ho permesso
che questi preziosi cimeli si sporcassero con il tuo sguardo
impuro?». Feci un
cenno di diniego. «Questa stanza, questa magnifica stanza,
è completamente
insonorizzata» rise Garcia, accompagnato dagli altri sei.
«E adesso sudicio Garganta,
adesso muori!».
La
polizia arrestò Estéban Garcia e gli altri
adoratori del serpente a due teste.
Gli altri tre membri che non erano presenti nella stanza furono fermati
all’aeroporto mentre stavano per imbarcarsi su un aereo per
la Turchia. La
carica di dinamite che Matt Collins aveva piazzato sulla porta blindata
permise
agli agenti di irrompere nell’appartamento del club e di fare
il proprio
lavoro. Fu scoperto un magazzino sotterraneo pieno di armi da fuoco e
di quella
strana droga bianca che trasformava le persone in assassini. Il caso fu
archiviato nel grande schedario verde dei casi risolti. In quanto a
me… Rose
McDemos, quando entrai nello sfarzoso salotto decorato e vidi il corpo
esangue
di Matt ebbi la tentazione di uccidermi. Poi Matt si alzò,
un brutto taglio
sulla guancia che sanguinava copiosamente, ma illeso. E ora, che nella
lunga
gravidanza aspetto il parto di mia figlia, ho voluto partorire anche la
storia,
bella e terribile, di come io e Matt ci siamo incontrati. Di come ci
siamo
amati.
|
Ritorna all'indice
Questa storia è archiviata su: EFP /viewstory.php?sid=424576
|