La villa delle arance

di Kokato
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Farse da romanzo gotico ***
Capitolo 2: *** Tieni d'occhio il nemico ***
Capitolo 3: *** Il patto delle anime affini ***
Capitolo 4: *** La morte è la migliore delle ossessioni ***



Capitolo 1
*** Farse da romanzo gotico ***


Autore: Lady Kokatorimon

Autore: Lady Kokatorimon
Titolo: La villa delle arance.
Rating: Arancione.
Genere: Dark, drammatico, sovrannaturale, horror.
Numero frase scelta: 11.
Avvertimenti: Alternate Universe, Shounen ai, non per stomaci delicati.
Introduzione:

Non sapeva cosa lo avesse spinto a decretarlo, ma sperava fosse per il fatto che la loro soluzione era giunta in città.

Profumata, ubriacante, affascinante, perfetta soluzione al suo rifiuto.

“Non voglio”

“Forse hai solo bisogno di qualcosa che ti stuzzichi l’appetito” sorrise. Il cielo notturno tornava sereno.

Osservò la linea della costa con improvviso interesse, passando la lingua arrossata di succo d’arancia sulle labbra turgide.

-Di qualcuno che ti stuzzichi l’appetito-.

1900. Il giovane ed eccentrico reporter Roy Mustang indaga su misteriose morti e sparizioni in un piccolo villaggio scozzese, con una copia del ‘Dracula’ di Bram Stoker in mano.

Ci sono due giovani Conti, uno scoop da fare, tre notti da trascorrere.

TERZA CLASSIFICATA AL “CONTEST OF VAMPIRES” DI MY PRIDE E VALERYA90!


Note dell'autore: Nel complesso questa storia non mi piace, ma ci sono vari elementi che volevo mettere in atto da molto tempo quindi almeno un po’ la gradisco. In realtà sarebbe stata concepita per avere un seguito, ma volendo può anche finire così dato che tutti i punti principali vi sono chiariti. Deciderò sé continuarla in base al posizionamento nel concorso ed al gradimento del pubblico: in linea di massima, se mi posizionerò sotto il podio, il secondo episodio non vedrà mai la luce… e credo sia molto probabile che ciò accada. Fondamentale è poi specificare che per me i veri vampiri sono solo quelli creati dalla mente di Miss Rice, e a parti alcuni elementi (quali il collegamento mentale tra –quasi- tutti i vampiri ed il fatto che di giorno non sono assolutamente in grado di svegliarsi dal loro sonno, neanche per qualche minuto) i miei li ricalcano perfettamente.

La storia si svolge esattamente nell’autunno del 1900. Buona lettura!

 

 

CAPITOLO 1:  Farse da romanzo gotico.

 

Solo i morti sanno quanto sia terribile essere vivi.

Da “Il ladro di Corpi” di Anne Rice.

 

 

Aveva un suo modo di risplendere, nell’oscurità.

Aveva perso la facoltà di serrare le palpebre, di piegare le braccia in modo da incassare il busto nella morsa delle gambe. Non poteva più nasconderlo. La testa abbandonata di lato esponeva il collo bianco su cui una vena sbiancata non pulsava più, lo splendore che lo avvolgeva reclamava attenzioni che i suoi gesti rifiutavano. Lui pensava, guardandolo, che avrebbe dovuto solo aspettare che la sua decadente bellezza si facesse più evidente, ed ogni cosa si sarebbe aggiustata.

“Nii san*” non sapeva dire nient’altro. Era un oscuro stato catatonico dove ogni desiderio era polvere ed ogni piacere un pugno di mosche, ed era impossibile convincerlo del contrario. “Hai fame?”, gli chiedeva, e la sua risposta non era altro che un dilatarsi flemmatico dei grandi e vuoti occhi salmastri, che le palpebre divaricate non sapevano coprire più.

Lui conosceva la risposta.

Quel profumo era il suo modo di controbattere.

“Profumo d’arancia?” chiedeva allora, tremando leggermente sulla poltrona di broccato rosso -i cui ricami di fiori sembravano volerlo ghermire-. Annuiva, osservando il suo corpo abbandonato risvegliarsi dal torpore -a partire dalla coscia bianca visibile da sotto i pantaloncini corti-, il viso ritrovare espressione per sorridergli e il tempo ricominciare a scorrere per fermarsi di nuovo.

“Hai fame, Alphonse?” chiedeva di nuovo. Senza rendersene conto i suoi canini brillavano, mentre confermava che sì, aveva fame, e protendeva le mani per accettare la sua offerta minore. Nelle sue mani le arance sembravano frutti divini caduti da alberi del paradiso, nati da semi piantati su nuvole dolci come zucchero filato, nuvole che solo il cielo che era loro negato avrebbe potuto mostrare. Il tempo che impiegava per posare le labbra sulla scorza era infinito, il suo movimento un’ipnosi inebriante. Quando i denti ledevano la superficie i suoi occhi guardavano già luna, fuori dalla finestra.

Erano passati meno di dieci anni.

Il succo delle arance era troppo rosso.

 

***

 

 

 

Le parole che Roy Mustang si era sentito dire, prima di essere malamente scaraventato via dal suo posto di lavoro, erano state probabilmente parecchio enfatiche, poco gentili ed un poco volgari. Era quindi un bene che non le avesse afferrate con sicurezza.

D’altronde era stato il suo capo, Olivia Milla Armstrong, a pronunciarle, e detto questo era piuttosto scontato che tutta quella faccenda non fosse cominciata con una benedizione, una carezza, o con un qualunque gesto d’incoraggiamento.

Era un idiota, un inetto, un fottuto eunuco senza spina dorsale ed era già fortunato ad aver trovato un impiego come quello, con i tempi che correvano. Quasi quasi cominciava a credere che fosse vero.

Il ’London Central Journal’ era un giornale ancora poco importante ma ben avviato, con una redazione piena di professionisti più che competenti. Certo, la caporedattrice amava rendere noto il contrario con tutta sé stessa -soprattutto parlando di lui-, ma in fondo lei amava il suo lavoro più di qualunque altro professionista competente in tutta Londra.

In quel momento, con una valigia di pelle chiara sbatacchiata dall’Inghilterra alla Scozia -con un entusiasmo sinceramente inesistente- nelle mani, il suo mestiere sembrava il più dannato e il più maledetto nell’intero panorama dei mestieri dannati e maledetti.

Era quasi sicuro che sarebbe stato in grado di sognare quell’arpia del suo capo in posizioni equivoche quella notte, solo per nostalgia della sua città. Odiava la Scozia, odiava il ricordo dei suoi rubicondi zii scozzesi con i loro fottuti gonnellini a scacchi rossi e verdi, odiava essere mandato fuori dal paese per un’indagine che probabilmente non avrebbe portato nessun lustro né alla sua carriera, né a quella del suo capo, né a al giornale.

Che bisogno c’era di mandarlo a cercare a tutti i costi un altro Jack lo squartatore fuori dall’Inghilterra?

Aveva pestato i piedi sulla sua immaginaria linea di confine con tutto il suo disappunto, e non era servito a niente.

Resembool,  piccolo paesino di mare poco lontano da Glasgow e lontanissimo dalle tentazioni, dalle scostumate belle donne, dai bordelli, dalle bettole piene di alcool, dall’oppio, e dal divino piacere, si appropinquava a lui come una condanna ad impiccagione.

Immaginò un cappio ben resistente, con il suo collo che ci passava attraverso.

Dette uno sguardo alle basse case di legno, quasi livide e tristi, battute dal vento freddo che proveniva dal mare. Tutte allineate, rivolte verso la costa dove le barche per la pesca sembravano soldati in prima linea di un battaglione in guerra, chinavano i tetti spioventi come teste di codardi davanti al cielo che minacciava tempesta per la notte. Tra la prima fila di basse casette e quella che stava più in alto, a ridosso del pendio, scorreva una stradina che, volendo fare un paragone, stava a quel posto come Oxford street* stava a Londra. Era stato giorno di mercato, e i banchi di pesce argenteo e ghiacciato che la costeggiavano- fin dove lo sguardo non incontrava il limite sinistro della baia nella quale il villaggio era infossato-, erano accalcati solo dai marinai che si accingevano a portar via la merce invenduta.

C’erano fin troppe persone a cui chiedere, ma ebbe l’impressione di essere finito in mezzo ad un orda di spettri, pronti a scomparire ancor prima che avesse potuto aprir bocca.

 In realtà qualunque essere umano sano di mente avrebbe riso a crepa pelle sentendosi rivolgere la domanda che Roy aveva attenzione di rivolgere loro. Figuriamoci, erano solo storielle da romanzo gotico, romantiche fantasie che non avrebbero potuto riempire un trafiletto di sesta pagina, nemmeno con tutta la faccia tosta e l’abilità di romanziere che un mediocre giornalista poteva tirar fuori.

Doveva chiamare Olivia. Doveva rassicurarla sul fatto che fosse arrivato sano e salvo a destinazione –senza perder tempo a correre dietro a qualche gonnella-: anche se non l’avrebbe dato a vedere nemmeno fosse stata la Regina stessa ad imporle di farlo, sapeva che era preoccupata per lui –e per il suo ricordo poco felice degli zii scozzesi-.  Si fermò davanti il banco di un’anziana signora con un telo di lana bianca a fasciarle la testa ed evidenti cataratte sugli occhi vuoti, spenti, inquietanti, e le rivolse un sorriso malfermo.

“Mi scusi, vorrei un informazione: sa dirmi dove posso trovare un telefono?” non dette segno di aver notato la sua presenza, e continuò a fissare il manico di una chiave inglese con attenzione, senza rispondere. Il suo banco era pieno di oggetti simili, di ferro più o meno arrugginito. Sotto la lana, l’ovale del viso rugoso spiccava appena, pallidissimo e tetro come il suo atteggiamento noncurante di ogni cosa la circondasse.

“Mi scusi, sa dirmi dove posso trovare un telefono?!” alzò la voce, inutilmente.

Se le reazioni erano quelle davanti ad una domanda così semplice, non immaginava come avrebbero potuto reagire alle altre.

“DOVE POSSO TROVARE UN TELEFONO?!” urlò, e la donna si voltò verso di lui come fosse stata investita da una folata di vento che veniva dalla sua parte. Sgranò le perle che pareva avere incastonate nelle orbite, scuotendo la testa, prima di aprire finalmente bocca.

“Cosa ci fai qui, giovanotto?” Voleva solo mettere le mani su un fottuto telefono per cinque fottuti minuti, era chiedere troppo?! Ripeté la domanda, sperando di ottenere una risposta utile, prima di finire a sbraitare contro una vecchietta più morta che viva. Finalmente, mostrandogli l’ugola rinsecchita attraverso la bocca spalancata, sembrò prendere atto della sua richiesta.

“In casa mia”  disse con voce ferma, estraendo una pipa allungata dalla tasca del grembiule.

“Potrei utilizzarlo?” per la prima volta la donna sembrò accorgersi per davvero di lui, alzandosi senza dire nulla.

Ringraziò spazientito, togliendosi il cappello e seguendola. Altri passanti lo fissarono impunemente, mentre camminava in mezzo alle persone che parevano levitare sopra il terreno. Avevano distolto lo sguardo dal vuoto dell’aria gelida e turbinante solo per osservare lui, e lo strano fenomeno che rappresentava.

Il sole era tramontato.

 

***

 

“Hai fame, Alphonse?”

Osservando il collo bianco flesso all’indietro sullo schienale della poltrona, in una posizione scomposta e lasciva, il concetto di sacrificio si esprimesse alla sua mente in tutta la sua sacralità. Ogni suo gesto era lento, evidente, sincero ed era sempre fin troppo semplice rintracciarne le motivazioni. Giaceva lì, ridendo di tanto in tanto sommessamente, vagava piroettando per la stanza con la giacca un po’ calata sulle spalle, lo chiamava, attendeva la domanda che – lo sapeva- sarebbe inevitabilmente giunta. Alla luce della luna capiva subito quando sorridergli e porgergli la mano, quando invitarlo a ballare per passare il tempo che lui non percepiva più. Comprendeva quanto c’era rimasto di ragione e d’oblio nella sua testa ciondolante.

“Tu non hai fame, Nii san?” racchiuso negli abiti neri da funerale, col viso celato per metà dall’ombra di un drappo di velluto rosso che dal soffitto scivolava sulla nuda gamba destra, sembrava una bambola di porcellana le cui giunture erano ormai usurate.

“Ho già mangiato” disse, e quella volta, tra le tante, non era vero.

Lui sorrise, come lo faceva ogni secondo, divaricando le gambe e sfregandosi sul suo giaciglio, la testa che spariva alla sua vista ed il suo collo che tornava a tormentarlo. Decise di lasciarlo struggersi un poco, soffrire la fame che soffriva lui, con la risata folle che lo aiutava a sopportare qualunque cosa. Senza la luce della luna, gli arti non coperti dalla funerea seta nera del suo completo nero si protendevano verso di lui involontariamente, in cerca di un contatto che gli concedeva solo quando ogni cosa diveniva tenebra, e lui si rendeva conto di avere fame.

Molta più fame di quanta il suo Nii san avrebbe mai potuto placare con le sue arance dal succo rossissimo.

“Ho fame… voglio un arancia, nii san! Dammi un arancia!” pigolò, mentre la luna veniva soffocata dai lampi di tempesta, dalla tempra più forte. Improvvisamente Edward non riuscì ad accettarlo. Ignorò l’accenno di lacrime sui suoi occhi, con una mano sul papillon che non si curava più di raddrizzare sul collo da tempo. Molto più tempo di quanto sarebbe riuscito a ricordare, provandoci.

“È una menzogna”, sussurrò. Non avrebbe piovuto, ed Alphonse avrebbe smesso di piangere con un sorriso bianco ed una richiesta di ballare il valzer. Alphonse lo guardò, come non lo guardava da anni, probabilmente. Neanche la luna, di nuovo libera, attenuò la sua impressione che stesse per comprendere cos’è che non andava aldilà della sua arrendevolezza, aldilà delle scorze rosse sul pavimento di marmo regale.

“Non è d’arance che hai fame”

C’era qualcosa, una vibrazione diversa nello scorrere dei secondi nei minuti, dei minuti nelle ore, delle ore nelle notti.

“Mi annoio” -il tuo sacrificio m’annoia, la pena che ho per te m’annoia, la mia noia mi terrorizza e l’amore che provo per te lo fa anche di più-.

“Non lo fare”, si voltò verso di lui, mentre la luce lo inondava e la minaccia di tempesta si rilevava per ciò che era. Una menzogna. Come i suoi desideri e come l’illusione di contentezza che la follia aveva provveduto a costruirgli addosso. Non sapeva cosa lo avesse spinto a decretarlo, e sperava fosse per il fatto che la loro soluzione era giunta in città. Profumata, ubriacante, affascinante, perfetta soluzione al suo rifiuto.

“Non voglio”

“Forse hai solo bisogno di qualcosa che ti stuzzichi l’appetito” sorrise. Il cielo notturno tornava sereno.

Osservò la linea della costa con improvviso interesse, passando la lingua arrossata di succo d’arancia sulle labbra turgide.

-Di qualcuno che ti stuzzichi l’appetito-.

 

***

 

Lady Pinako Rockbell  gli dava una strana sensazione di deja vu, anche se non aveva l’aspetto di una persona minacciosa nel senso che lui intendeva. Era piccola, a tratti minuscola se la si guardava da seduta, con un paio d’occhialetti che le rimpicciolivano gli occhi ed un codino di capelli grigi simile al picciolo di una rapa. Ma sapeva molte delle cose che Roy voleva sapere, ed aveva la capacità di farle sembrare vere e più inquietanti del dovuto.

Roy Mustang aveva ancora vergogna della storia che sarebbe andato a ricamare, non lo negava, ma mentre osservava la zuppa tanto gentilmente offertagli pensò che sarebbe bastato renderla verosimile.

“Me lo sarei dovuta aspettare”

“Che cosa?” era stupito. Pensava che non gli avrebbe rivolto la parola, che la sua espressione diffidente sarebbe bastata a farlo desistere. Dalla credenza a qualche metro dalla tavola, imprigionata nella carta di una fotografia, una ragazza dai lunghi capelli biondi, di non più di vent’anni, gli sorrideva abbracciando un grosso cane. Era l’unico oggetto nella camera che non fosse un martello od una scatola di chiodi. La fissò per qualche secondo.

“Che qualcuno del mondo là fuori sarebbe arrivato, prima o poi”

Era un villaggio di fantasmi malinconici, rarefatti e rassegnati al loro legame col mare e con una lisca di pesce. L’immagine gli tornò alla mente, calzando a pennello con quella definizione del mondo da cui proveniva. “Quanti sono i morti?”

L’anziana donna aveva saputo sin dall’inizio dov’è che voleva giungere, e stette in silenzio per qualche tempo, ponderando su fantasie di cui aveva subito il lato reale. Era ancora abbastanza attaccata alla terra per dispiacersene e cercare vendetta. La luce del camino rendeva il suo viso meno spettrale. “Non mi fido di voi”

“Lo immaginavo”

“E nemmeno voi di me, suppongo”

“Il mestiere che svolgo rende il mio atteggiamento ambivalente, Milady” disse, indossando la sua maschera di candido ammaliatore. Doveva riporre la sua fiducia in chi poteva ricambiare lasciandogli tra le mani vitali segreti, sussurri e tracce su una mappa da disegnare. Allo stesso tempo doveva fare in modo che i gentiluomini e le gentildonne avessero fiducia in lui, o che perlomeno lo ritenessero tanto insignificante da pensare che, parlare o meno con lui, fosse irrilevante. Nessuna di quelle condizioni si era verificata, tra di loro.

“Èqui per gli Elric?” era una domanda, ma era abbastanza sicura della risposta che avrebbe ricevuto da non infondervi un tono interrogativo.

“Allora ci sono già dei sospetti”

“Fesserie”

“Perché avete parlato di questi Elric, allora?”

“Pensavo foste in cerca di fesserie anche voi. Non troverete altro, signore”

Mentre la luce della luna rendeva più chiari i lineamenti del suo volto allungato, Roy pensò che non fosse il caso di trattarla come qualunque altra donna –o uomo, se è per questo-. Si rimise nelle sue mani, sorridendo, come avesse un potere oltre quello conferitole da ciò che sapeva.

Annuì quasi meccanicamente. Era esattamente ciò che aveva pensato, ma quelle fesserie  si adattavano a lui e le meritava perfettamente, anche senza i fumi dell’oppio nella testa o senz’avere quest’ultima infilata sotto le vesti di una gentile donzella. Sorrise, annuendo quasi soddisfatto.

“Cinquanta vittime, tra abitanti del villaggio e commercianti in transito, da un anno a questa parte. Tutte completamente private del loro…”

“… sangue” lo disse soprappensiero, mentre lo diceva lui, creando un’eco che fece tremolare la fiamma della candela che stava sul tavolo. Nel gioco di luce e ombra, il suo sorriso non parve credibile. Tutte quelle dannate storie venivano fuori proprio quando denti aguzzi e creature succhia sangue, nel frattempo, si pavoneggiavano sulle pagine di romanzi da due soldi. Avevano incominciato a farlo, da due anni a quella parte, con una presunzione discutibile. “Vi offendo se confermo che mi sembrano fesserie?”

“È solo ciò che molti qui intorno hanno visto. Ma del resto voi del mondo là fuori ritenete che troppe cose siano fesserie”

Abbassò il capo, cercando di nascondersi da lei per qualche attimo. “La carta stampata c’ha rivelato troppo, forse? Non saprei, Milady. Sono qui per scoprirlo, non anelo altro” con un gesto di biasimo appena accennato parve voler liquidare la faccenda, con un po’ di quell’omertà degli spettri immorali, che non hanno nulla da perdere a lasciare che gli uomini si dannino per il loro divertimento.

“Avrei molta più facilità a crederlo, è solo che non lo desidero. Non voglio credere che loro siano…”

“… vampiri” lo disse con la noia nel tono di voce. Sgranando le minuscole iridi si ritrasse di scatto, trotterellando giù dalla sedia e fuori dalla casa prima che avesse potuto pentirsi della sua fretta. Aveva dimenticato che, superstizioni o no, delle persone c’avevano lasciato le penne nella stessa razionale realtà che lui riconosceva. La luna fuori era piena come un occhio pieno di terrore. Il cielo e il mare erano uniti dallo stesso colore nero, impenetrabili se non dalla luce della luna.

“Potrei dissipare tutte le vostre paure, se me lo permetteste” Fece per voltarsi verso di lui, ma il suo sguardo l’oltrepassava: su uno sperone di roccia, che pendeva sulle loro teste come la lama di una ghigliottina, stava una costruzione che sì stupì di non aver notato prima.

“La residenza degli Elric” Spiegò Lady Rockbell, con voce atona. Era comparsa insieme alla notte, non c’erano altre spiegazioni. Non si poteva dire se quella figura fosse davvero nera, o se fossero state le tenebre a farne una sagoma indistinta, la cui coppia di torri parevano il profilo di un paio di rachitiche braccia. Un castello costruito nello stile dei peggiori romanzi dell’orrore. “Mio dio, tutto ciò è troppo divertente”

“Non mi siete simpatico, signore”

“Non so perché l’avevo intuito”

Roy  sorrise ancora, alla vista, come avrebbe potuto fare davanti ad una bella donna.

“La popolazione del villaggio si è dimezzata da quando gli ultimi due rampolli della famiglia Elric sono tornati alla loro residenza estiva. E non parlo solo di morti. La mia unica nipote è scomparsa nel nulla qualche mese fa, perciò potete ridere ,dall’alto della vostra raziocinante intelligenza inglese, di questa storia da superstizione. Ma fatelo quando non posso vedervi”

Neanche allora riuscì a prenderla sul serio, e le rivolse un espressione quanto più possibile incolore. Dentro di sé non vedeva l’ora di scovare quel pazzo e sbatterne la foto sulla prima pagina del suo giornale, con una spiegazione scientifica e tangibile.

Niente trucchi da circo o castelli infestati.

“Parlatemi di questi Elric vi prego, Milady. Immagino di non potermi recare da loro l’indomani mattina, ho bisogno di tenermi occupato.

Suvvia, parlatemene!”

 

***

 

“TU! BRUTTO IDIOTA!” tuonò la cornetta del telefono.

Roy cominciava a temere di avere una malaugurata sfortuna con le donne: o gli urlavano contro, o si rifiutavano di parlargli.

Anche se Olivia Milla Armstrong aveva perso da tempo quella caratteristica che la gente comune chiama femminilità, consacrando la sua vita alla politica del terrore –specie se applicata su di lui-. Giusto qualche volta poteva essergli sembrato che il suo modo di terrorizzarlo fosse in qualche modo femminile, ma probabilmente era solo un’ impressione -messagli in testa dal dondolare dei suoi seni o cose simili, magari-.

“Se stai pensando quello che pensi di solito –ed io so che tu lo pensi- sappi che, ora, è alquanto ridicolo pensarlo”

“Vuoi dirmi che non hai trascurato il tuo lavoro per correre dietro a qualche gonnella nemmeno per un attimo?”

“Se ne avessi trovate di appetibili…”

“MUSTANG!”

“Ho notizie, My Fair Lady!”

Olivia odiava che la chiamasse a quel modo, ma soprattutto odiava il fatto che avesse il coraggio di farlo quando lo aveva mandato in un paesino sperduto ad occuparsi di qualche bega da superstizione paesana, solo per toglierselo di torno.

“Se mi chiami ancora così ti spezzo un braccio. Non chiedermi come, ma sai meglio di me che ho i miei mezzi!”

“Ne sono cosciente. Ma so riconoscere quando c’è un bella messinscena da smascherare, e stavolta non so dire se il nostro uomo sia davvero più incline all’omicidio che all’inganno” Olivia sapeva che era vero, che –quasi- ogni cosa che diceva era del tutto attendibile, ma non seppe trattenersi dal dubitarne un poco. Era pur sempre il migliore elemento della sua redazione, pur con tutte le sue dannate ossessioni nichiliste, e per questo andava tenuto sotto controllo. Acconsentì con un grugnito a farlo continuare.

“La serie di omicidi e sparizioni sembra sia iniziata in concomitanza col ritorno di due giovani conti ‘in città’. Poco più che ragazzini. La loro famiglia possiede la residenza che domina la baia fin da quando fu costruito, si dice, e, ad intervalli che vanno da cinque a dieci anni, tornano ad alloggiarvi per qualche tempo. Esattamente dieci anni fa, quando avevano rispettivamente sette e nove anni, i due fratelli passarono un soggiorno di qualche mese qui con i loro genitori. Ne sono sicuro perché un anziana signora mi ha raccontato che sua nipote, della stessa età del fratello maggiore, aveva stretto con loro all’epoca una fortunata amicizia. Almeno fin quando non se ne sono andati, e sono tornati poi con l’acquisito ‘savoir faire’ del nobile: troppo superbi per curarsi di lei. Per quanto abbia provato ad incontrarli i domestici le sbattevano sempre la porta in faccia. Ed ora è scomparsa nel nulla”

“Ma come avrebbero potuto due ragazzini uccidere in quel modo?” sbottò Olivia grattandosi la testa.

“Si tratta di un lavoro da professionisti: litri e litri di sangue tirati via dalle vene lasciando solamente due piccole punture, senza versarne una goccia e senza infliggere nessun’altra ferita. Sia che abbiano tramortito le vittime e che le abbiano poi dissanguate da un'altra parte, sia che abbiano raccolto il sangue in un contenitore, la cosa risulta infattibile senza che nessuno se ne accorgesse”

Doveva trattarsi quindi di un medico. Aveva già fatto un ragionamento simile, ed il risultato era stato lo stesso.

“Forse lasciano l’incarico a qualche servitore” azzardò quindi Roy.

“Possibile”

“Credi davvero che le due cose siano correlate?”

Ricordò il profilo della residenza, e riuscì ad immaginare una farsa tanto ben architettata da far ridere ed inorridire allo stesso tempo: un castello infestato, due giovani conti dalla vita solitaria su cui, imbastire una montatura di follia e decadenza, sarebbe stato fin troppo semplice.

“Tutto combacia” disse al termine della sua catena di pensieri.

“Cosa ti aspettavi? I grandi assassini sono fuori dalla nostra portata attualmente, e comunque sai quanto poco m’interessino. Il mondo è un alcova di pazzi, ormai, non capisco cosa ci sia da farsi uscire le pupille dalle orbite ogni volta”

“Grazie mille per la tua considerazione per me, allora. Farò quel che potrò. E grazie anche per avermi ricordato perché questo mondo fa tanto per me”

Protese le labbra verso la cornetta. Lo schiocco rese il tono di voce di Olivia più sbrigativo.

“Prego, idiota. Smettila di fare l’idiota, idiota, e fai un buon lavoro… nei limiti del possibile. Ah, e lascia perdere quel fottuto libro!”

Era forse il terzo telefono che rompeva quella settimana… forse.

 

 

*Nii san= fratellone, fratello maggiore. Scusate, so che essendo in Inghilterra non dovrebbero parlare giapponese, ma “fratellone” e “fratellino” mi suonano veramente male in bocca a loro xD

*Oxford street è, ai nostri giorni, la strada dello shopping di Londra. Non so se esistesse già nel 1900 e se avesse già questa fama, ma passatemi il paragone per piacere xD

*Otouto= fratellino, fratello minore.

 

NOTE FINALI!

Bene, stavolta sto avendo un inflazione di terzi posti xD quando arriverà quella dei primi? Credo mai.

Comunque la prima condizione necessaria affinché io scriva il seguito s’è verificata: sul podio ci sono arrivata! Non mi rimane da vedere se questa fic piacerà o no a voi del pubblico. Tutto sommato mi è andata bene, per il momento. La fic sarà formata da quattro capitoli e posterò ogni sabato.

Al prossimo capitolo e commentate in molti *O*

 

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Capitolo 2
*** Tieni d'occhio il nemico ***


CAPITOLO 2: Tieni d’occhio il nemico

CAPITOLO 2: Tieni d’occhio il nemico.

 

Prima notte.

 

<< La donna era immersa in suo sonno di vampiro, così piena di vita e bellezza voluttuosa che io ho tremato, come se stavo per commettere un assassinio.

Ah, non ho dubbio che, in tempi antichi, quando queste cose accadevano,  più di un uomo con mio stesso compito poteva scoprire in ultimo che coraggio aveva abbandonato lui e che i suoi nervi avevano ceduto.  Così esitava, esitava e ancora esitava,  finché la bellezza e il fascino della lasciva non- morta ipnotizzava lui.

E restava là fermo fino a tramonto,  quando Vampiro si risvegliava.  Allora, i begli occhi della donna si aprivano con uno sguardo pieno d’amore, e la sua bocca voluttuosa si apriva al bacio – e uomo è debole. E un'altra vittima restava tra grinfie di vampiro; uno in più per ingrossare le tetre e spaventose truppe di non morti!>>*

 

Lascia perdere quel libro, aveva detto, col tono con cui s’intima ad un bambino testardo di metter giù le mani da un giocattolo sporco.

Ma lo svolgimento dei fatti era stato fino ad allora divertente e semplicistico: lui era il bene e quei ragazzini nobili il male, il male che non poteva sfuggire al potere della sua penna dispensatrice di verità.

Non poteva sperare, di trovarsi in una situazione di quel genere? Ridicolaggine per ridicolaggine.

Quel castello poteva benissimo esser saltato fuori dalle pagine del libro che aveva in mano –‘Dracula’ di Bram Stoker-, il mondo poteva esser divenuto tutt’ad un tratto o tutto bianco o tutto nero… e dubitava di entrambe queste considerazioni.

Certamente, davanti alle tre avvenenti mogli del Conte Dracula, avrebbe avuto un atteggiamento diverso da quello dell’assennato avvocato Jonathan Harker o da quello del virtuoso Dottor Van Helsing. Non le avrebbe uccise, né ignorate, né tanto meno temute: sarebbe stato uno dei tanti poveri uomini descritti in modo sgrammaticato dall’esimio professore olandese.

Non gl’importava di quell’alcova di pazzi in cui viveva, né del motivo di quella pazzia. Amava le cose semplicistiche e divertenti.

 Bussò alla maestosa porta, con un sorriso a divaricargli la testa in modo artificioso. Tutta la costruzione si stagliava nella notte buia con i bastioni protesi, come un’ombra acquattata o come uno spettro evanescente i cui contorni erano stati erosi dalla morte e dal tempo. Più attendeva che le porte gli venissero aperte, più ogni cosa perdeva di verosimiglianza ed una risata gli montava alla gola.

Le porte si aprirono lasciando uno spiraglio da cui uscì solo una voce maschile. “Chi siete?”

“Roy Mustang, inviato del Central Journal di Londra” Senza poter vedere chi gli stava parlando la conversazione era impossibile, ed il trattamento era quanto meno irrispettoso -era quanto ci si poteva aspettare in una casa mandata avanti da due mocciosi-. Il fatto che non gliene importasse nulla indicava che era adatto a quel mestiere più di quanto pensava, ma questo lo sapeva già.

L’uomo che vide attraverso la porta aveva il volto illuminato dal basso dalla luce della candela che aveva in mano, non riusciva a distinguerne nulla a parte le sbarre degli zigomi perfettamente paralleli che delimitavano gli occhi che, per il resto, parevano sospesi nel vuoto.

“Cosa volete?”

“Conferire con i Signorini Elric, se m’è concesso”

“Per quale ragione?”

“Non potrò venirne a parte io stesso, finché lo scambio non sarà avvenuto” Ciò che vedeva del suo interlocutore bastava a dargli un’impressione d’incorruttibilità. Le sue parole non l’avevano confuso. “Dovreste averne un’idea seppur minima”

“Vi basti sapere che nulla nella mia persona può arrecarvi danno. La notte è nera ed affamata, ed io non so dove andare”

La fiammella tremolò per un istante prima che la porta si aprisse su una tonalità di nero altrettanto notturna. L’uomo che si offrì di fargli strada aveva la pelle olivastra e gli zigomi squadrati -come quelli che aveva intravisto poco prima-. Gli occhi di un singolare color scarlatto erano infossati, vitrei ed indifferenti al tal punto da dare l’impressione che fossero stati a malapena adagiati nelle orbite. A giudicare dal frac doveva essere il maggiordomo.

“Dovreste essere qualcosa evidentemente non siete, per arrecare danno al mio padrone” Disse, accendendo una grossa torcia sulla parete, rendendo visibile il pavimento di pietra levigata.

“Grazie della considerazione” rise.

Senza più rivolgergli la parola l’uomo accese cinque torce su ciascun lato della sala, illuminandola a giorno. Un imponente scalinata conduceva ai piani superiori, con i pomi di legno smaltati che riflettevano la luce in profondità. Estrasse una delle torce, facendogli cenno di seguirlo sopra le ampie scale bianche, almeno due metri più in alto da dove si trovavano. La distanza gli parve raddoppiata a causa dell’insistente, compassionevole sguardo di una Madonna: dalla cima delle scale i suoi piatti occhi sembravano volerlo squadrare dall’alto in basso, rifiutandogli una benedizione.

Il maggiordomo la oltrepassò come si aspettasse da lei lo stesso trattamento, senza guardarla e senza pretendere null’altro, dirigendosi verso altre scale. Ne superarono due prima di giungere in un salotto con due sedie di velluto rosso e un caminetto acceso, -ogni altra cosa era invisibile, nel qual caso ci fosse stato qualcos’altro-.

“Attendete qui”

“Perché mi avete fatto entrare?” tutto quel buio gli stava facendo perdere la pazienza.

La prima espressione che vide sul suo volto fu d’irritazione e biasimo, tirata e corrucciata sui lineamenti già marcati.

“Sono in grado di dire cosa non siete, ma non so dire chi siete. Ciò vale anche per il mio padrone, ed è quel che non conosce che lui al momento sta cercando”

“Credo sia reciproco” Sorrise, per l’accordo delle loro opinioni. Ma l’uomo non rispose, scomparendo con un inchino nervoso.

Si sedette,  guardando i particolari della stanza attraverso la poca luce che ne lasciava nascosti gli angoli.

Dovendo  immaginarsi in che modo il vampiro si sarebbe presentato, lo vide uscire da uno di quelle nicchie di tenebre, con la carnagione di un bianco lucente, un ghigno di superiorità sul volto e la presunzione di spaventarlo. Stranamente il fuoco nel camino, invece di farsi meno lucente, estese sempre di più la propria aura sulla stanza. Un orologio a cucù, un mobile d’antiquariato di legno verniciato, una armadietto per gli alcolici , una spazzola col manico d’avorio, una statuetta di marmo in stile classico raffigurante una donna –immersa in un utopia di felicità e sensualità, come qualunque altro soggetto di quel tipo-,  una tetra atmosfera medievale. Era quanto ci si poteva aspettare in un stanza fatta arredare da due mocciosi: non c’era epoca, non c’era stile, non c’era attenzione.

Si alzò dal divano e prese la spazzola, analizzandola. Tra le setole c’erano lunghi capelli castani, intrecciati in un viluppo. Erano troppo lunghi per essere di uno dei due conti, e la spazzola era troppo bella per poter essere usata da una qualunque serva del maniero. Pensieroso continuò a girarsela tra le mani, come se fosse stato fondamentale ai suoi scopi conoscere la proprietaria di quell’oggetto…  non poteva esserne sicuro.

Per un attimo gli occhi della Madonna del quadro lo fulminarono, costringendolo a schiarirsi la vista.

“È una copia della ‘Madonna dell’umiltà’, di Masolino da Panicale”

Voltandosi lo vide, seduto sulla poltrona di velluto rosso. Un ragazzo dai lunghi capelli biondi legati con un nastro nero, il viso da fanciulla, un’anomala espressione di disinteresse. L’osservava con le gambe accavallate e le mani unite in grembo. La luce aranciata del fuoco contribuiva poco a diminuire il contrasto dei vestiti neri e merlettati con l’incarnato, rendendolo una figura evanescente. Non verosimile, come qualunque altra cosa avesse visto fino a quel momento. Non rispose, sedendosi davanti a lui.

“Devo aver parlato ad alta voce”

“Evidentemente”

“Era veramente squisita” Odiava parlare in quel modo. Odiava rivolgersi ad un nobile ed usare il linguaggio richiesto per farlo, ma non era  il caso d’inimicarsi il suo padrone di casa. Sottolineò la frase con un sorriso, ritenendolo troppo giovane per non trovarlo irritante.

“Il suo stesso creatore la bollò come un abominio. Non dovreste neanche averla vista”

 “Non merita di essere celata agli uomini degli esseri umani, tutt’altro”

“Cosa volete?” Tagliò corto, come se il discorso lo stesse innervosendo.

“Brusco il servo, brusco il padrone”

“Scar fa solo quello che io voglio, anche se non glielo ordino…” disse, assestando il capo sul palmo della mano. Il gomito poggiava sul bracciolo del divano, e la sua posizione si era fatta più sconveniente di quanto avesse notato all’inizio. “… ma sono costretto a rinnovarvi la domanda”

“Provate ad indovinare”

“Omicidi e sparizioni?”

“Perspicace” Il giovane Conte sorrise, stirando i suoi lineamenti prima contratti e dilatando e le iridi simili a pozze d’acqua. Ma non era un’espressione benevola, tutt’altro: sembrava aver capito il meccanismo di qualcosa che, fino a quel momento, non era riuscito a capire. Era una sfida che, proprio come Roy, non voleva perdere.

“Presumo sia stata Lady Rockbell ad indirizzarvi qui da me”

“Sua nipote, la signorina Winry, è scomparsa qualche mese fa. La conoscevate?”

“Eravamo amici d’infanzia”

“L’avete incontrata recentemente?” Il Conte inclinò la testa e sollevò il mento, in modo da mettere in mostra il suo collo da cigno, elegante ed inadatto per un uomo di qualsivoglia ceto sociale. Tutti quei particolari catalizzavano la sua attenzione senza motivo, distogliendolo dal monito di condurre accuratamente la conversazione. Ma l’altro non rispose per qualche lungo secondo.

“Non la vedo da diciannove anni, se non erro” Inaspettatamente sapeva che non si sarebbe contraddetto, perché sembrava avere degli ottimi motivi per non farlo. La rigidità delle spalle suggeriva testardaggine, come volesse sconfiggerlo e fargli capire che, contro di lui, non avrebbe vinto mai. L’osservazione di lui era un operazione ingrata, che lo stava confondendo nonostante non avesse saputo cosa dire fin dall’inizio.

Non poteva accusarlo apertamente d’omicidio, d’altronde. “È venuta a suonare alla vostra porta qualche settimana prima della scomparsa, n’est pas?”

Davanti al tono francese e all’espressione ammiccante, il Conte irrigidì il profilo delle labbra, sprezzante.

“Dove volete arrivare?”

“Dove, secondo voi?” Il Conte sospirò, smise di guardarlo negli occhi per educazione, scoppiando poi a ridere. Senza considerare il volto che Roy stentava a mantenere serafico si alzò, dirigendosi verso l’armadietto dal quale estrasse una bottiglia di brandy. Gliela porse senza nemmeno versare la bevanda  in un bicchiere,  posandola sul tavolino con un tonfo, mentre la strana allegria che l’aveva invaso gl’ illuminava la faccia da schiaffi.

“Io lo so” Disse, risedendosi e accavallando la gamba destra sulla sinistra.

“Cosa sapete?”

“Dove volete arrivare” Era un bambino, e non sapeva come trattarci. Grattandosi la testa non dette segno d’aver capito.

“Pensate sia stato io, o la mia famiglia” Nella stessa posizione di prima, poco signorile, mosse una delle gambe magre per indicarlo. O non lo riteneva degno di alcuna cortesia, o voleva proporgli qualche affare o malaffare che sapeva non avrebbe rifiutato. Confidò nella seconda possibilità, e ricambiò il suo sorriso. “Non sono il solo a pensarlo”

“Lady Pinako mi conosce. Mi provoca dolore pensare che abbia così poca fiducia in me, nonostante questo”

“Questo è ciò che i fatti le hanno suggerito”

“E ciò che hanno suggerito a voi”

“Esattamente”

Il Conte fissò la bottiglia che aveva offerto, come soprapensiero. Irritato dal silenzio -e dalla vista dei fianchi affusolati da cui le gambe s’irradiavano, piccole e nervose-, la prese, la stappò, e ne bevve un lungo sorso. Qualche goccia gl’inumidì il collo, e trovò il gesto  più piacevole del bere in un bicchiere. L’altro lo stava aspettando, con la bocca infantile aperta. Poi parlò.

“Vi voglio aiutare a risolvere la questione, perché non sopporto questi sospetti. Vogliate rimanere qui questa notte, e collaboreremo”

Annuì, con in testa il ricordo di giovani avvocati in manieri bui e solitari, ospiti di ricchi ed eccentrici uomini anziani con i denti troppo aguzzi ed un irritante accento dell’est*. Quel ragazzo era giovane, ben poco nobile pur abitando in un castello ed indossando bei vestiti, impudente e detestabile per la presunzione che il suo piccolo corpo infantile emanava. E lui non era un avvocato.

Annuì senza pensarci.

Gli porse la mano. “Edward Elric”

“Roy Mustang” La strinse, ricambiando adeguatamente la forza della stretta. Se fosse stato solo un ragazzo presuntuoso avrebbe potuto smettere di analizzarlo,  perché non sarebbe stato più un nemico di cui prevedere le mosse.

Sperò di avere presto una prova certa della sua innocenza: non riusciva a negare attenzione a nulla di quel presunto, giovane, arrogante assassino.

 

***

 

Alphonse detestava risvegliarsi da solo, gli pareva di resuscitare dopo un periodo di morte apparente.

Viveva nell’oscurità, ma le tenebre che lo avvolgevano quando apriva gli occhi sul mondo dopo tanto tempo erano le peggiori, e non sapeva mai come affrontarle se non c’era Edward a stringergli una mano e a rassicurarlo del fatto che, alla fine, sarebbe riuscito a vedere oltre. Qualunque fosse la cosa, la questione, o la persona che l’avevano portato via da lui, già l’odiava. Nell’aria Edward aveva lasciato una rassicurazione, con un sussurro, ma non bastava.

Stava giocando con una scorza d’arancia, che fantasticava essere il responsabile dell’assenza di suo fratello, quando quest’ultimo entrò correndo e saltellando con una smorfia gioiosa e perversa sul volto. Raddrizzò il capo per guardarlo, ma non si dimostrò felice.

“È arrivato, Alphonse, è arrivato! Qualcuno del mondo di fuori è venuto ad aiutarci!”

“Dove sei stato, Nii san?”

“È venuto, come immaginavo! Lo sapevo fin dall’inizio che sarebbe venuto qui! Non poteva andare altro che così!” Si sciolse i capelli, afferrò la spazzola in un cassetto di cui non ricordava mai l’esistenza –era strano che riuscisse a ricordarlo proprio allora-, li strigliò con una mano mentre si toglieva la giacca con l’altra, rimanendo in camicia bianca. Il grande specchio, al quale stava chiedendo un silenzioso parere, restituiva la sua figura esile mentre finiva l’operazione, cingendo di nuovo i capelli con il nastro di seta nera. Venne verso di lui, con l’intento di cambiargli i vestiti e pettinarlo, ma Alphonse si ritrasse.

“Cosa c’è che non va, otouto*?” Non era nelle sue intenzioni fare i capricci, né pretendere qualcosa che Edward non avrebbe potuto dargli spontaneamente, ma l’aveva fatto prima di poterci pensare. Lo voleva sempre con lui, ma comprendeva di non avere motivo per stare sempre lì, al buio, senza desiderare di vedere null’altro che il cielo stellato ed il viso di suo fratello. Era inevitabile che, di tanto in tanto, Edward avesse bisogno di uscire da lì, vedere il sole, altri luoghi e altre persone. Pur desiderando di essere con lui, Alphonse sapeva di non poter andare oltre la soglia della porta senza perdere la capacità di camminare o fare alcunché, ed in ogni caso le loro notti danzanti gli placavano l’anima per qualche tempo.

Eppure, questo, il suo corpo non l’aveva capito.

“Perché credi che quell’uomo ci possa essere utile?”

“Viene dall’Inghilterra! È un giornalista! Conosce il mondo, conosce la storia, conosce l’animo umano! Abbiamo imparato così poco, negli ultimi dieci anni… lui potrebbe farti uscire di qui, potrebbe farti amare di nuovo il mondo come una persona viva!” Era euforico, e desiderava abbracciarlo, accostare le loro labbra e ballare. Scosse la testa, rifiutandogli ognuna di queste cose.

“Ti piace così tanto questa persona?” chiese quindi Alphonse.

“Oh, affatto… decisamente lo detesto! È così spocchioso e arrogante! Avrei voluto uccidere lui e la sua maledetta faccia di schiaffi per almeno tre quarti del tempo” Gesticolò molto, per enfatizzare l’idea del suo astio, ma ciò non gli fece tirare alcun sospiro di sollievo. Riuscì a parlare male di quell’uomo per poco più di venti secondi appena, poi, insistendo per fargli cambiare la giacca, sostituì l’animosità  con un altro sorriso.

“Voglio che parli con lui, al resto penserò io! Quel bastardo lo diceva sempre, no? Quando perdi i contatti con il mondo devi sempre ricucirli, prima che sia impossibile farlo… ricordi?” Scosse la testa, ma Edward amava tanto parlare di quel famoso ‘bastardo’ da non preoccuparsi più se Alphonse rispondeva, o se le sue ennesime ciance facevano parte d’un monologo pietoso.

“Domani notte” Promise quindi, sapendo che avrebbe detto la stessa cosa tutte le notti.

“D’accordo, sapevo che ti ci sarebbe voluto del tempo. Gli ho chiesto molto gentilmente di aspettare mentre Scar prepara la cena, ma avevo già intenzione di chiedergli di fermarsi qui per la notte… anche se non so quanto lo farò dormire! Ho così tante cose che vorrei sapere da lui!”

Si fece cambiare il resto del vestiario senza protestare, anche se non c’era nessuno per cui avrebbe voluto essere elegante. Edward sarebbe andato via da quel vuoto che non sapevano riempire, se non con una musica fatta di silenzio. Alphonse approfittò del tocco gelido delle sue mani mentre gli lisciavano la schiena ossuta, della dolcezza delle sue cure e della transitoria possibilità di sfiorare il suo corpo.

C’era qualcosa di sbagliato in quello che provava facendolo: si aspettava un conforto che non arrivava e veniva un dolore senza spiegazione.

Come ci fosse stato qualcosa che non sapeva, qualcosa che gli mancava.

“Ti amo, Otouto”

Avrebbe voluto crederci.

 

***

 

Edward Elric era la curiosità fatta persona, una curiosità che non veniva soddisfatta da molto tempo.

Il maggiordomo servì la cena poco prima che il padrone di casa avanzasse all’interno dell’immensa sala da pranzo illuminata da candele, con una camicia di seta bianca slacciata sul collo -di cui non era riuscito a mettere a posto i polsini con i gemelli di rubino-, una giacca a code sotto la quale, secondo la moda, avrebbe dovuto porre un gilet. Ignorando la lunghezza spropositata del tavolo in stile medioevale si diresse all’altro capo, sedendosi accanto a lui con una mano sotto il mento.

“Come sta la ‘La libertà che illumina il mondo’*?” Chiese, senza né salutare né trattenersi dal catapultarsi sulla sedia.

“Scusate?” strabuzzò gli occhi.

“Quella strana statua che i francesi regalarono agli americani per non so per quale motivo! L’ultima volta che l’ho vista mi pareva che il viaggio l’avesse un po’ consumata, quindi mi chiedevo se adesso fosse ancora integra” Aveva citato la Statua della libertà come fosse stata una sua vecchia conoscenza, ed aspettava che gliene parlasse ciondolando il piede in maniera discreta ma infantile. Spiegò che era stata posta su un isoletta a New York, e che era divenuta un monumento caratteristico degli Stati Uniti, ma non soddisfatto Edward chiese cosa ne pensasse in senso artistico. In seguito chiese del progresso di vari movimenti pittorici, delle recenti pubblicazioni in fatto di romanzi, delle ultime scoperte scientifiche, dei conflitti in corso e dei cambiamenti politici dell’ultimo decennio. Chiese persino se, alla fine, fosse stato catturato o meno Jack lo squartatore.

S’informò sull’Esposizione universale del 1889, rammaricandosi per non aver potuto assistere all’inaugurazione di quella che, seppe, era diventata la torre principale, il simbolo, e l’orgoglio di Parigi. Parlarono dello stile di vita, delle credenze e delle abitudini dei sudditi della Regina Vittoria, mentre Roy beveva un tè dal colore scarlatto in una tazzina di porcellana. Sembrava fosse vissuto fuori dal mondo per dieci anni, e che Roy rappresentasse il primo appiglio che questo gli tendeva per riemergere da un isolamento che gli aveva chiuso occhi e orecchie.

Quando la sua cena finì si trovò talmente intontito dalla soddisfazione e dalla serenità che aleggiavano sul suo viso che Roy non avrebbe mai detto che fosse o che fosse stato un assassino, né allora né in seguito.

“Da quanto vivete in questa villa?” il Conte si coprì il viso con un sorriso di circostanza.

“Un anno, più o meno. Vivevo in Francia e ho deciso di tornare qui per nostalgia… amo Orange manor

“Come l’avete chiamata?” Improvvisamente si chiuse la bocca con una mano, come ritenesse di aver parlato troppo. Aveva delle belle guance –anche se non aveva motivo per averle notate…  preferiva avere tutto sotto controllo-, ed abbassando il capo la sfumatura che la luce vi formava fece del suo viso una maschera di tristezza. Da un lato lo impietosì, dall’altro s’era aspettato di trovare in lui una zona d’ombra.

“Mia madre chiamava così questa villa”

“Come mai?”

“Aveva fatto portare qui delle piante di arancia rossa, dalla Sicilia, ed era riuscita a farne crescere qualcuna nel nostro giardino nonostante il clima inadatto. Fu un miracolo, in verità. Si sono seccate da tempo, ma in ogni caso questa casa porta ancora quel nome”

Avrebbe evitato di parlare di sua madre, lo promise a sé stesso. Annuì.

Non aveva interesse nell’addentrarsi in un'altra anima frantumata, i frammenti ti ferivano i piedi nella maggior parte dei casi.

Soprattutto non aveva importanza che l’avesse riconosciuto per quel che era, perché era un indizio che avrebbe lasciato cadere.

Volse il capo dall’altra parte. Andò dritto al punto. “In che modo intendete aiutarmi a trovare l’assassino di quelle persone?”

A quella domanda la sua espressione cambiò, irrigidendosi. Da bambino avido di sapere il Conte parve trasformarsi in un perfetto gentiluomo, che soppesò quelle parole con apatia prima di rispondere. “Ditemi voi, signore. Metterò a disposizione tutte le mie risorse”

“Quanti uomini ci sono nella vostra servitù?”

“Soltanto Scar, non abbiamo mai avuto bisogno d’altri”

Odiando il tono indispettito di quelle parole, Roy si passò una mano sui capelli per prendere tempo. Edward non sopportava quei capelli, né la sua faccia che sembrava fatta apposta per sfidarlo. Era stato così con tutti i suoi maestri, con tutti coloro che, si presumeva, avrebbero dovuto sapere più di quanto sapeva lui. Era stato così con lui.

Aveva giurato che non avrebbe mai messo in atto nessuno dei suoi insegnamenti, né cercato aiuto.

Non sopportava le sue insinuazioni, il suo modo d’indagare ogni suo atteggiamento con un dito sotto la grossa mascella -l’indice a sfiorargli il collo lasciato visibile-, gli occhi nerissimi ed inclinati verso il basso. Era bello, inglese e ciò che più gli premeva al mondo era conoscere e far conoscere agli altri. Era l’uomo per lui, ma allo stesso tempo odiava dover ammettere di aver bisogno di chicchessia.

“E quali sarebbero allora le risorse che dicevate di voler mettere a mia disposizione, se m’è concesso saperlo?”

Edward ridacchiò, districando le gambe. “Dipende da quante ve ne servono, ma io non sono certo il Re”

“Volete appostarvi voi stesso?”

“Non abbiamo bisogno di una grande quantità di uomini. Il nostro uomo è intelligente ma abitudinario, sapendo che il campo non è libero sicuramente attenderà fin quando non crederemo che abbia gettato la spugna o che se ne sia andato altrove. È inutile riempire i dintorni di guardie con lance e forconi, non faremmo altro che perdere tempo… noi e lui”

“E cosa intendete fare, allora?”

“Lady Pinako non vi ha detto tutto, lo immaginavo” Tacque, sorridendogli in modo diverso. Quel bambino saccente lo stava facendo impazzire, lui e i suoi misteri. “Cos’altro avrebbe dovuto dirmi?” Chiese, volendo far credere che non gl’interessava.

“Nulla d’importante, non vi preoccupate. È molto tardi, andate a dormire e domani in giornata ne parleremo più dettagliatamente. Scar vi farà strada verso la vostra camera” Il modo in cui aveva tagliato la loro conversazione aveva il sapore di scherno, e di una certa sottovalutazione di lui. Annuì, senza perdere la certezza che, se ce ne fosse stato bisogno, avrebbe saputo come cavarsela. La sua sicurezza irritava il Conte in una maniera che non gli dispiaceva, perciò ammiccò verso di lui mentre il maggiordomo lo conduceva verso la porta. Edward arrossì, in piedi in mezzo alla sala come un minuscolo elfo in una landa solitaria. Volevano parlarsi fino a non aver più voce… volevano farsi tacere l’un l’altro.

Pensando a lui Roy si chiese com’è che il Conte sapesse così tanto dell’assassino che cercavano.

 

 

***

 

La sua stanza era così ampia, barocca e presuntuosa che, se avesse potuto, Roy si sarebbe rifiutato di dormirci.

Ogni angolo della villa sembrava esser stato strappato da un'altra abitazione e trapiantato lì con malgarbo. Il maggiordomo ne aveva aperto la porta con una chiave arrugginita, ma il lussuosissimo letto a baldacchino con le pesanti tendine di velluto rosso era stato appena sistemato per lui e reso impeccabile. Non ringraziò per l’ospitalità né sì godé quello sfarzo, perché non era lì per questo. Dormì su di un fianco tutta la notte, risvegliandosi dolorante proprio mentre una bella donna dai lunghi capelli biondi, in corpetto e reggicalze e stesa sotto di lui, si sollevava per avvicinare le labbra alle sue.

La luce aveva camminato verso di lui, strisciando sotto la stoffa che copriva la finestra, fino a posarsi sulla sua fronte. Era sembrato che quella donna, accarezzandogli la fronte con una mano calda, l’avesse fatto destare dal loro sogno. Sì era buttato giù dal letto, rimettendosi giacca e pantaloni che aveva adagiato su una poltrona, decidendo di andare a cercare il Conte.

Ogni singola finestra della villa era coperta da una tenda, di modo che ogni stanza e corridoio sembrassero  inondati come di una luce lieve e soffocata che ne rendeva impalpabile l’atmosfera. Camminò in su ed in giù perdendo la cognizione del tempo, salendo e scendendo scale, con la testa rivolta alle alte pareti di pietra sopra di lui, innervosito. La vide proprio mentre il suo pensiero la sfiorava come un tocco di dita.

La Madonna dell’Umiltà.

Teneva gli occhi abbassati verso un bambino che non c’era. Non l’aveva notato.

Maria stringeva il vuoto con lo sguardo vacuo, malinconica.

Come aveva potuto avere l’impressione che l’avesse guardato con rimprovero, la prima volta che l’aveva vista?

“Come ci sono finito qui?” Sarebbe uscito di senno prima di rendersene conto, se non se ne andava da lì il più presto possibile.

Eppure non riusciva a negare attenzione alla tristezza di quella donna dal viso grande e pallido. Volse il capo dall’altra parte con fatica.

La casa sembrava vuota, eccezion fatta per lui… e per lei. Non aveva controllato la sala da pranzo o il salottino dov’era stato la sera prima, ma in qualche modo sapeva che li avrebbe trovati altrettanto vuoti. Velocizzò il passo, finendo a correre sulle scale.

Era come essere in trappola. Ricordò l’espressione saccente sul bel viso del Conte, e digrignò i denti.

Lui lo sapeva, lo aveva sempre saputo. Sia che fosse stato innocente sia che fosse stato un sadico assassino, non avevano mai smesso di essere nemici, ed aveva deciso d’imprigionarlo. Smise di agitarsi, strisciando con la schiena fino al pavimento.

“Si fa giorno e tutti scompaiono! Se questo è uno scherzo devo ammettere che è davvero ben riuscito…” Ghignò tra sé.

Camminò, poi, toccando le maniglie bronzee e scolpite di ogni porta. “’’Domani in giornata ne parleremo più dettagliatamente’ un corno! Cosa diavolo stavo guardando per farmi beffare da un fottuto moccioso?” Il suo bel collo, le sue belle labbra, i suo gesti vaghi e scostanti che un normale ragionamento non sapeva seguire. “Sei tu, non è così? Sarebbe così assurdamente semplice…”

Cominciava a parlare con lui, anche senza averlo di fronte. Lo sguardo poteva captare fasci di luce bianca a perdita d’occhio, rendendo ogni cosa sfocata e fluttuante. “… così semplice e così normale! Può essere solo il capriccio di un bambino?”

Si coprì la bocca con una mano, perché nessuno avrebbe risposto alle sue domande. Nemmeno quella Madonna malinconica che i suoi pensieri non smettevano di sfiorare. “Cosa diavolo sto facendo?” Rise tra le spalle tremanti, con la mano sul collo di un leone di bronzo.

La maniglia cedette e lasciò che la porta si aprisse. Fino ad allora tutte le stanze erano state chiuse, impossibili da esplorare.

“Mi prendi in giro, piccolo idiota?” La voce del Conte non giunse a rispondergli per le rime.

Probabilmente avrebbe riso e detto che sì, quello era stato il suo obbiettivo fin dall’inizio. Giocare con lui come fosse stato un giocattolo.

La camera che si trovò davanti era più piccola della sua. Gli dette l’impressione che le pareti, vedendolo entrare, avessero cercato d’abbracciarlo. Nemmeno ad un raggio di sole era stato permesso d’entrare, ma ciò che più che colpiva l’attenzione era il drappo di velluto rosso che, dal soffitto, scendeva a dividere a metà lo spazio disponibile.

“Bingo”

Se vuoi sconfiggere un nemico cerca il suo punto debole, era la regola più ovvia di questo mondo. Davanti al tallone d’Achille del piccolo idiota, il suo volto era divenuto sicuramente diabolico. Il piccolo fratello minore indifeso… era una trama così lineare da essere perfino noiosa.

Solo metà del suo corpo - abbandonato come un cadavere su una poltrona- era visibile. Gli stessi bellissimi lineamenti del fratello, capelli un poco più scuri, la linea delicata delle palpebre chiuse in un sonno profondissimo ed avvelenato. 

Aprì gli occhi mentre lo guardava.

“Ti ho chiamato io qui?” Chiese.

“Può darsi” Rispose.

Si strofinò gli occhi gonfi, assonnato, senza ricomporsi. “Ho dormito qui ed ho lasciato la porta aperta per voi”

“Volevate parlarmi?” Il ragazzo tentennò la testa mordendosi le labbra. “Il termine esatto sarebbe pregarvi… credo”

“Pregarmi di cosa?”

“Di andarvene. Voglio rimanere qui ancora un po’, non voglio vedere il mondo che Edward vuole che mi mostriate” Annuì, comprendendo. Quel ragazzino aveva le idee molto più chiare riguardo a ciò che voleva, ed in qualche modo rendeva le cose più facili. Non lo odiava, ma non lo voleva lì.

“Non sono qui per questo” Lo rassicurò.

Sorrise, reclinando il collo all’indietro, come fosse stato appena liberato d’un peso. “Non sono ancora pronto”

“Per fare cosa?”

“Per vedere il sole” Dire quella parola l’aveva fatto ridere, rabbrividire, e rannicchiarsi con le ginocchia nude al petto.

Roy stette a guardare come dormicchiava per qualche secondo, incapace di mantenersi sveglio, con un espressione di biasimo –per sé stesso- sul volto. Non sentì di dover stare in guardia, davanti a lui. Stette al centro della stanza, accontentandosi di quello che vedeva e di quello che riusciva a comprendere dagli gesti indolenti, dalle parole vaghe. “Da quanto non lo vedete?”

“Dieci anni”

“Perché?”

“Nostro padre… non volle più. Disse che ci avrebbe uccisi”

“Come mai?” Scosse la testa, per dire che non lo sapeva.

“La mamma era con noi… è con noi. Questo mi basta, anche se siamo a Reesembool” Parlava per parole chiave, come lasciando delle briciole di pane sulla strada per la verità. ‘Sole’, ‘Padre’, ‘Mamma’, ‘Reesembool’. La sua ingenuità rivelava ogni cosa il fratello aveva cercato di nascondergli, e ciò faceva di lui un folletto buono di cui ascoltare gli indizi e gli indovinelli. “Perché non dovreste essere a Reesembool?”

Il suo viso cambiò, mentre si rendeva conto di quella domanda. Toccandosi il mento con un dito mugugnò, pensandoci.

La bocca morbida si modellò in un ghigno. “È per la nostra maledizione”

“Maledizione?”

“La mamma la chiamava così” Un lampo rosso brillò negli occhi improvvisamente sottili. “Una maledizione che gli Elric lanciarono su Reesembool”

Roy rise. Il ragazzo, sghignazzando, non fece nulla per fargli credere che scherzava. “Esattamente la storia che qualunque sciocca nobildonna londinese amerebbe alla follia” Giudicò, fra sé.

“Non saremmo mai dovuti tornare qui… mai. La gente muore quando lo facciamo”

Tremò. Se era il modo di cominciare una confessione, doveva ammettere che era davvero originale. Non c’era nessun errore nella pista che stava seguendo, e l’improvvisa perversione che aveva intravisto nel sorriso sghembo del giovane Conte glielo confermava. Non commentò quell’affermazione. “Ma io voglio rimanere qui… non voglio essere portato via. Non lo voglio io… non lo vuole Edward… non lo vuole la mamma…”

Il suo collo fu stretto nelle sue mani bianche prima dello scorrere di un secondo.

Allibito, rimase immobile.

“… non voglio ricordare…” Sussurrò, cingendogli i fianchi con le braccia. “… sarei disposto ad uccidervi, per non ricordare…”

Poggiò il capo sulla sua schiena. “… per non ricordare e rimanere qui con la mamma e con Edward… per sempre…”

Le mani sul grembo della Madonna gli tornarono alla mente nel momento meno opportuno. Deglutì per mantenere la calma, senza troppi risultati. Ma quell’immagine non la smetteva di fluttuare nei suoi pensieri come un velo che non riusciva a togliersi dal capo.

“Dov’è vostra madre?” A quella domanda la morsa in cui era imprigionato si sciolse, ed il Conte camminò verso il drappo rosso.

“Ora che ci penso, non mi sono presentato, Signor Mustang. Perdoni la mia scortesia…” Mosse il corpo sottile, afferrò la stoffa, sollevandola.

“Il mio nome è Alphonse…”

Il cadavere della Madonna del dipinto giaceva su una poltrona nera. “… e questa è Trisha. Mia madre”

Imboccò la porta, persuaso dell’idea di avere un altro nemico.

 

*Passo tratto dal “Dracula” di Bram Stoker, romanzo pubblicato esattamente tre anni prima dell’anno in cui si svolge questa storia. Il punto di vista è del professor Van Helsing, il quale, essendo olandese e non conoscendo bene l’inglese, si esprime in maniera un po’ sgrammaticata.

*Si riferisce al modo di parlare di Dracula che, com’è noto, era rumeno.

*La “Libertà che illumina il mondo” è il vero nome della Statua della libertà.

 

 

Note dell’autrice!

Salve a tutti, come vi va la vita? xD questo è il secondo capitolo che, sono sicura, avrete aspettato con profonda ansia (ahah).

Tanto che mi piace riempire ‘sti spazi con informazioni del tutto inutili vi svelo qualche retroscena della fic: originariamente questa storia doveva essere di Naruto e, detto alla buona, Roy era Naruto, Edward era Neji e Alphonse era Hinata, Scar era Gai (con l’ausilio di un altro cameriere che era Rock Lee), i cadaveri imbalsamati erano due ed erano Shino e Kiba xD Al posto di Pinako avevamo Itachi con il piccolo Sasuke. Ripensandoci adesso mi fa quasi strano vedere com’è venuta fuori alla fine.  Va buo, ci vediamo la prossima settimana… a meno che non mi arrivino secchiate di commenti imploranti del tipo “muoio se non aggiorni immediatamente!”, ma dubito che sarà così.

A sabato prossimo!

 

Covianna: Tu mi dici che dovevo avvertire su facebook? xD ma se quando l’ho fatto hai commentato là e non su efp! Se quello è l’effetto preferisco evitarmi quel tipo di pubblicità, che perlopiù è sempre stata inutile.  So che non c’era molto da giudicare nel primo capitolo, ma diciamo che era d’introduzione e verso la fine di questo entriamo nel clou della storia, l’azione vera e propria ci sarà poi negli ultimi due capitoli.

Setsuka: Che dirti, non so come facevi ad essere già così entusiasta solo leggendo l’introduzione xD i tuoi commenti mi rimettono sempre al mondo, sono già delle piccole opere d’arte di per sé. Mi dispiace che non ci sia molta azione nemmeno in questo capitolo, ma spero di potermi rifare con gli ultimi due.

Icaro smile:  Grazie per il commento, spero che tu abbia apprezzato anche il secondo capitolo *O* baci.

My pride & Valerya90: A voi non serve che risponda nel dettaglio, ma grazie ancora xD

 

 

 

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Capitolo 3
*** Il patto delle anime affini ***


CAPITOLO 3: Il patto delle anime affini

CAPITOLO  3: Il patto delle anime affini.

 

Seconda notte.

 

Edward riemerse dal suo sonno vedendo che nella stanza qualcosa era cambiato.

Alphonse era già sveglio, e lo guardava, appoggiato al suo capezzale con le braccia conserte sotto il mento.

Era strano, quella vista lo mise in agitazione. Alphonse non sorrideva in quel modo da anni, ed aveva sempre sperato che non lo avrebbe fatto più. Erano quelle strane idee che quel padre -che non considerava padre- gli aveva messo in testa… lo avrebbero ucciso. Il cadavere del suo fratellino, con quell’espressione sul viso bianco, appariva nei suoi sogni quando tutte le cose che amava stavano per sfuggirgli di mano.

Eppure stavolta era reale. 

“Ti sei svegliato finalmente” Si ritrasse, lasciando che Edward riemergesse dal suo giaciglio, rimanendo inginocchiato a terra poco più in là.

“Cos’hai fatto, Alphonse?” Non rispose subito, dondolando il corpo in maniera ipnotica e guardando come tutti i piani predisposti erano stati distrutti dai suoi capricci, sentendosi potente. “L’hai ucciso?” Sarebbe stato il danno minore, perciò sperò che fosse andata così. Ma Alphonse era un assassino disordinato, e sapeva quali segni cercare su di lui per capire cosa aveva fatto e come lo aveva fatto.

Era ancora innocente.

“Vuoi fuggire di qui, non è così? Vuoi lasciarmi solo?”

“NO!”

“No dici?” camminò verso di lui, come un’ombra di sé stesso. “Per quale altro motivo l’hai portato qui?”

“Sarà la nostra guida nel mondo, ricordi? Ne parlava papà! Lui può farti tornare la voglia di vivere!” Alphonse gli prese il mento, considerando le sue parole con derisione. Non poteva incolparlo per la stretta al petto che quel comportamento stava provocando… accadeva. Era la maledizione, ed il suo modo sciocco e lassista di gestirla, Edward lo sapeva: era questione di tempo, di amore e di saggezza.

Gli mancava l’ultimo dei tre tasselli.

“Non volevi che lo ricordassi, Nii san… ma io ricordo!” Strinse le dita sul suo viso, facendolo gemere. Avvicinò il viso al suo, stando sospeso in quell’attimo per quelle che sembrarono ore. Non tremava solo perché non ne era più capace, ma capiva che ogni cosa sarebbe stata distrutta di lì a breve. Ogni cosa avesse faticosamente cercato di ricomporre di ciò che la maledizione aveva annientato. Pianse, senza muovere alcuna compassione.

“Io sono morto, non è così?” Lo sussurrò sul suo collo, prima di affondarvi i denti.

Non ne vezzeggiò la superficie con le labbra morbide, come faceva con le arance.

Riconobbe suo fratello in quel gesto, il fratello che amava, ma urlò comunque dentro di sé.

Era un gesto che pensava di conoscere, ma che gli stava portando via l’anima… con immenso dolore. Non urlò per semplice orgoglio, e solo perché aveva sbagliato. I denti avevano perforato maldestramente i tessuti, tintinnando contro le ossa con un rimbombo che lo rese sordo e lacerando e sollevando la carne troppo rossa. Si concesse di aggrapparsi alle spalle di chi stava bevendo da lui, come fosse stato un calice, per non annegare.

Sarebbe irrimediabilmente successo, se non lo avesse fatto.

Sarebbe annegato e coagulato nel mare di sangue in cui stava sprofondando.

Alphonse, cessando la tortura, lo baciò sulle labbra prima che il suo corpo fuggisse da lì sbattendosi la porta dietro le spalle.

“Roy… Roy… Roy… Roy… Roy… Roy…”

Ammetterlo sarebbe stato inutile, suonava come una bugia: io voglio andare via di qui con te. Ma il mondo avrebbe spezzato suo fratello prima ancora di poggiarvi piede… e stessa cosa avrebbe fatto la colpa. Introdurre quell’uomo nella loro vita era stata la scelta più stupida che avesse mai fatto, eppure non riusciva a pentirsene. Chiamava il suo nome corto, breve, cinico e spocchioso mentre arrancava verso il nulla.

Non riusciva a desiderare di non aver mai messo gli occhi su di lui, quella sera che lo aveva notato mentre guardava il mare davanti alla casa della Signora Rockbell. Ma Alphonse lo odiava e -anche se lo aveva sempre creduto incapace di odiare- Roy sarebbe dovuto morire come lui voleva.

“Roy… Roy… Roy… Roy… Roy… Roy…”

Lo vide seduto sotto al ritratto di sua madre.

Alzò la testa verso di lui, non appena si accorse della sua presenza, indurendo i tratti del viso.

“Mi stavi chiamando, piccolo idiota?” Si alzò in piedi ed Edward notò che aveva una pistola in mano e che un forzato senso dell’ironia rendeva innaturali ed inconsulti tutti i suoi movimenti. Non stava in piedi da tutto il giorno –probabilmente-, i vestiti e i capelli neri erano stropicciati, il gilet marrone era slacciato sul torso ansante, la camicia disordinata attorno al collo scoperto.

“La mia vita sarà anche inutile… sarò anche un uomo spregevole che non merita di stare al mondo… ma io non mi faccio ammazzare da due fottuti mocciosi!!!” disse, brandendo la pistola verso di lui con il respiro sempre più pesante.

“Non so quale sia il vostro problema… MA IO NON MI FACCIO AMMAZZARE!”

“Io non ti voglio uccidere” Ma prima o poi sarebbe stato costretto a farlo. Voltò il collo dall’altra parte, ignorando l’aperta ostilità dell’uomo davanti a lui, scusandosi senza parole per la sua ingenuità…  perché non era cambiato nulla. Tutti morivano, quando era necessario e quando non lo era, chiunque potesse perdere la vita vicino a loro la perdeva. Era la maledizione, e non aveva ancora imparato ad accettarla del tutto.

“Non ti ho voluto qui per ucciderti… non te”

“Ma il tuo fratellino sì, non è vero? Avanti, dimmi la verità: quale stupido trauma infantile vi ha fatto diventare dei sadici bastardi?”

“Non sai di che cosa parli”

“So esattamente di che cosa parlo!” Si avvicinò, puntandogli la pistola alla gola. “Io finisco a drogarmi, a desiderare la morte e ad andare a prostitute come se ognuna di queste azioni fosse l’ultima che farò nella mia vita. Voi dissanguate la gente e vi tenete cadaveri imbalsamati in casa come fottuti oggetti d’arredamento… è la stessa cosa! La stessa identica cosa: malattia! Malattia del vivere! Questo non giustifica i vostri dannati giochetti!”

Pur non comprendendo quelle parole si morse le labbra, infuriato, rimanendo fermo davanti all’arma puntata alla sua fronte.

Si avvicinò a Roy lentamente, lasciando che se ne rendesse conto e decidesse di lasciarlo fare, ma in un attimo l’altro lo aveva colpito in testa e costretto a terra con un braccio sul collo. Era un uomo spaventato, sapeva bene come erano fatti: si sentiva come lui e sapeva di non esserci più abituato.

“Arrogante, come tutti gli abitanti del mondo di fuori… sarà per questo che non ti ho sopportato fin dal primo momento”

Rimase a terra, senza ribellarsi, senza dimostrare apparentemente alcuna emozione sul bel viso che Roy non era ancora riuscito a smettere di fissare. Tutt’ad un tratto vide la donna bionda del suo sogno, nel corpo abbandonato sotto di lui, nelle gambe sottili piegate ed immobili, nel collo bianco, sottile e scoperto. L’unica cosa che identificava Edward come vivo erano gli occhi aperti… dorati.

Aveva pensato che fosse la notte a creare quel colore, ma non era così.

“Non ti ucciderò piccolo idiota, non temere, ma me ne andrò di qui ad ogni costo!”

“Vorrei potervi aiutare… ma a questo punto non fa molta differenza” Roy non capì, soprattutto perché Edward aveva di nuovo distolto il viso.

“Quanti ne avete uccisi? Come avete fatto? Dove sono i cadaveri?”

“Quante domande!”

“Racconterò tutto, quindi è inutile nasconderlo!”

“Non ti crederanno”

“Ah no?” lo costrinse a guardarlo direttamente, e premette la bocca della pistola sulla sua fronte. “Ho i miei mezzi! Hai altra scelta? Mi farai uccidere dal tuo maggiordomo e buttare in mare?” Non aveva nessun mezzo, e forse era anche impossibile farglielo credere: era un nemico più ostico di qualunque altro, e più detestabile del previsto.

“Non ce n’è bisogno, e non c’è neanche bisogno che tu mi creda” Si sollevò verso di lui, lasciando che una serie d’immagini si sovrapponessero l’una all’altra all’interno della sua mente, disorientandolo. Il Conte Elric era bello, ed era dannatamente stupido ammetterlo in quel momento. Era ciò che la gente chiama anima affine, un folle, un visionario –come lui-, una mente distorta da chissà cosa e nascosta nella corolla di un fiore che, tremolando, resisteva all’avvizzimento. Pur mancandogli molti elementi della faccenda, ne era comunque attratto e respinto con eguale forza.

Una mano stringeva il manico della pistola, l’altra, posata a terra, resisteva all’impulso di toccare i capelli biondi sparsi a terra.

“L’unico che può capire quanto male faccia vivere qui sono io…” Lo sussurrò, vicinissimo alle sue labbra.

Era una sensazione incoerente con il contesto… quella voglia incontrollabile di toccarlo come si faceva con una donna. Scoprire la pelle oltre il collo che lo aveva ipnotizzato, rimuovere gli abiti neri e bianchi come fossero la materializzazione dei suoi segreti e di ciò che non sapeva di lui. Improvvisamente tutta la voglia di morire, di sparire, di annientarsi che aveva avuto prima di giungere a Reesembool affondò nella visione di Edward Elric abbandonato sotto di lui, con le braccia sopra la testa, le gambe che lo avvolgevano, i capelli sparpagliati sul pavimento di pietra.

Lo baciò prima che potesse impedirsi di farlo, afferrandogli la testa con la mano libera.

Vezzeggiò la cute con le dita. Edward non si ribellò, né mosse le labbra gelide contro le sue.

Lo erano davvero, gelide. Rigide contro le sue ma perfette nella forma. Assaggiava vampate d’aria ghiacciata dalla sua gola che si contraeva.

Quando si staccò da lui non aveva più fiato. Il corpo gli doleva di un dolore avvelenato, esteso e freddissimo.

Edward sorrise, triste.

“… perché io sono già morto”

Perse i sensi.

 

 

***

 

Spesso Roy Mustang si svegliava con l’immagine di una donna dai capelli neri avvolta dalle fiamme.

All’inizio urlava, raschiava le pareti del mondo onirico con le unghie per trovare una via d’uscita.  In seguito aveva imparato ad abbassare la testa e ad aspettare che, una volta diventata cenere, sparisse dalla sua vista. Non era mai stato un uomo equilibrato, ma aveva un forte senso della giustizia. Partecipava alla corruzione del mondo bevendo, facendo sesso, annientandosi, ma allo stesso tempo lavorava per Olivia, quella gentil signora sadica e schiavista che, nonostante tutto, apprezzava il suo lavoro. Ma quella donna moriva nell’indifferenza, tutte le notti.

 Non era un uomo equilibrato perché non aveva mai avuto una famiglia, o forse era solo quell’assurdo male di vivere su cui si poteva fare la solita, inutile filosofia. In ogni caso c’era sempre la ragione a salvagli la vita.

Accettò di guardare il volto sorridente della donna dai capelli neri per un altro po’, pur di non scoprire che anche la sua ultima dea aveva rifiutato di porgergli la mano.

Il volto di Edward Elric fu la prima cosa che vide svegliandosi.

Il desiderio di baciarlo ancora fu il primo dolore che il suo corpo avvertì.

“Ti sei svegliato finalmente” Edward sussultò dicendolo, ricordando come glielo aveva detto Alphonse qualche ora prima.

Roy si guardò attorno: era sulla poltrona di broccato sul quale aveva visto il fratello minore la notte precedente.

Il velluto rosso calava dietro la sua schiena, lambendogli la nuca e facendolo rabbrividire, come a consigliargli di non guardarsi troppo attorno. Alle sue spalle c’era lei, la Madonna del dipinto che tanto lo aveva ossessionato, ma non osava accertarsene. La concretizzazione della sua seconda ossessione, lì davanti a lui, stringeva le labbra con le braccia conserte, cercando di dare un’ impressione di menefreghismo nei suoi confronti.

Tutto l’impegno e le promesse in cui aveva creduto parvero una sciocca filastrocca composta per prenderlo in giro, musicata magistralmente. Odiava Edward Elric per ciò che aveva intorno e per ciò che aveva provocato… lo voleva per ciò che era. Non riuscì a condannare le sue menzogne fino in fondo, e non parlò.

“Avresti potuto ucciderlo subito, perché l’hai fatto svegliare?” Una risata giunse dalle sue spalle, e ruppe la promessa fatta a sé stesso riguardo il non parlare e al non muoversi di un millimetro.

Era ancora il fratellino capriccioso con le labbra inclinate dalla malizia. Abbracciava il corpo della madre, livido e lucido, con le palpebre chiuse da miriadi di vene bluastre e la bocca gonfia in modo innaturale. I capelli castani erano perfettamente pettinati, il velo sulla testa candido come i vestiti leggeri che indossava. Le era stato impedito di putrefarsi… soffriva aspettando quel momento.

Che considerazione paradossale.

“Non ci sarebbe stato il tempo degli addii, Nii san!”

Sospirò, senza assentire e senza negare, avvicinandosi al fratello per sistemargli il colletto. Fu un atto goffo che lasciò un foulard sgualcito su un collo ancora scoperto, anche perché Alphonse afferrò la sua mano prima che potesse finire. Edward si ritrasse e, passandogli accanto, si chinò sul suo orecchio. “Lascio la tua vita nelle mani della fortuna, Sir Roy Mustang”

Roy non capì.

Fece ciò che aveva imparato a fare fin dal primo momento in cui l’aveva visto: odiarlo col sorriso sulla faccia ed osservare le sue mosse.

Quando aveva capito che il fratello era il vero punto debole del suo nemico, Roy non aveva immaginato che ciò lo avrebbe portato a rischiare la vita. Qualcuno come Edward non lasciava mai  nulla al caso, ma aveva deposto la sua strategia a causa del bambino affamato che si stava avvicinando a lui. Era un bambino, avrebbe trovato una via di fuga. Ma qualcosa gli diceva che non sarebbe stato così semplice.

“Non avete proprio voglia di raccontarmi il motivo per il quale avete passatempi così… inusuali?”

Edward stette in silenzio, con le braccia di nuovo raccolte in petto ed il corpo inclinato contro il muro: ebbe l’istinto di dimostrargli ancora che, alla fine, avrebbe vinto contro di lui. Probabilmente lo aveva già fatto: era prigioniero dell’ossessione del fratello.

Non c’era gusto a vincere nessuna battaglia contro di lui.

“Passatempi, li chiama…” Sussurrò, dopo un po’ di tempo. “… non ho più voglia di starlo a sentire”

Alphonse lasciò il corpo della madre, accogliendo quelle parole con una felicità smisurata. Afferrò il collo di Roy con i polpastrelli, facendo ondeggiare le dita sulla pelle increspata, stuzzicandolo. “È questo che volevi, no?”

L’altro annuì, mentre una ciocca di capelli cadeva a coprirgli la visuale. “Uno vale l’altro” rispose infine.

“Quindi sto per scoprirlo, non è così? Come uccidete…” rise, vedendosi fuggire attraverso la porta che pareva chiusa per sempre. In quanto uomo piuttosto forte sapeva che il maggiordomo avrebbe avuto un ruolo nella faccenda… non lo faceva impazzire l’idea di lasciare il proprio corpo a quel tipo. Rise, stupito dal fatto che l’idea di morire non lo spaventasse poi così tanto.

Il fatto era che non riusciva a smettere di fidarsi di Edward Elric.

“… quando arriverà quell’uomo, il maggiordomo?”

Edward ciondolò la testa, ridacchiando, Alphonse toccò più a fondo la sua carne, incantato.

“Non ce n’è bisogno… ” disse quindi Alphonse. “… tu sei qui per me. Non c’è bisogno di nessun’altro”

Si voltò giusto in tempo per vedergli spalancare la bocca.

Era così assurdamente banale. Lasciò che la chiudesse sul suo collo, appoggiando la testa sulla sua spalla come se lo aspettasse una sensazione piacevole -anche se i libri e l’immaginario collettivo avevano sempre detto il contrario-.  Provò a prevedere come sarebbe andata.

Denti aguzzi che affondavano nella carne, sangue, annebbiamento, denti, ancora sangue. Rise.

Era un sogno da cui svegliarsi il prima possibile e a cui non credere. Oppure, ridestandosi tra le braccia del suo angelo dai capelli biondi -o tra quelle del demone dai capelli neri riemerso dal fuoco-, avrebbe capito di essere inevitabilmente morto. C’era andato vicino troppe volte per avere paura.

Chiuse gli occhi, mentre l’intorpidimento invadeva il suo corpo insieme al dolore freddo e pungente che già conosceva.

Lì riaprì nella speranza di vedere Edward rassicurarlo con un sorriso prima di togliergli la vita. Non era che l’onnipresente parabola del loro incontro.

Mistero, ironia, incanto, fascinazione, inganno.

Labbra che lambivano le sue, l’abbraccio di gambe dure come il marmo che avvolgevano i suoi fianchi erano le ultime immagini nel suo cervello. Era quello che voleva, in fondo: fidarsi tanto scioccamente di qualcuno da stare bene anche mentre questo gli toglieva tutto.

L’aveva lasciato vincere d’altronde.

Alphonse martoriò il suo collo abbastanza da fargli pensare che lo avesse spezzato, perché non sapeva più dove rintracciare la differenza tra quel doloroso oblio e la morte. Era più il sangue che lasciava cadere a terra in grandi perle rosse che non quello che finiva nella sua gola.

Volle vedere il mondo per l’ultima volta e lo scorse. Il suo angelo. Gli sorrise.

“Non vuoi favorire anche tu, piccolo idiota?” Sembrò stupefatto dalla sua proposta, e dal modo con cui aveva allungato un braccio facendogli segno d’avvicinarsi. Con il petto ormai completamente nudo, i capelli neri che ricadevano intorno alla faccia, Roy aveva smosso il suo infantile pudore.

Si unì al banchetto, salendo sulle sue gambe. Carezzò l’altra parte del suo collo non perché voleva eccitarlo o stuzzicarlo, ma perché era indeciso sul da farsi. Roy sospirò, sentendosi sbattuto indietro di qualche centimetro dall’ingresso dell’eterno silenzio.

Aveva i capelli sciolti, i vestiti in disordine, l’indecisione nei bei tratti del viso contratti. La frizione delle loro cosce lo stava facendo impazzire.

Non appena Edward lambì la pelle con le labbra sentì i denti di Alphonse dilaniare e smuovere la carne, aumentando il flusso di sangue in uscita.

Aveva raccolto i capelli su una spalla, e gli sfioravano il volto mentre il petto bianco riempiva la sua vista e i suoi desideri.

Cambiò idea, chinò le spalle. La bocca turgida passò per un attimo davanti ai suoi occhi, incantandolo, poi sussurrarono all’orecchio.

“Vuoi proprio morire?” Sorrise, riconoscendo quella domanda come sensata.

“Se sei tu ad uccidermi, volentieri”

Strinse le gambe attorno a lui di scatto, udendo quella risposta. Sembrava rabbia, quella nei suoi gesti.

“Non toglietevi la vostra ultima possibilità, Roy Mustang. Non fate una simile stupidaggine!”

“S… sei… sei… così formale dopo tutto quello che c’è stato fra noi? Sei proprio un bravo bambino”

“NON SCHERZARE!”

Improvvisamente il suo collo venne lasciato andare.

“Alphonse”

Ebbe appena la forza di lanciargli un occhiata. Edward era balzato in piedi.

Alphonse era di nuovo il moccioso dalle maniere pacate che aveva visto la prima volta, dondolante come in una culla.

“Cosa ho fatto?” si chiese, tappandosi la bocca con le mani e vedendole poi diventare rosse. Terrorizzato cercò il fratello, tremando.

“Cosa ho fatto, nii san?” Risvegliatosi dal sogno provocato dalla fame, la colpa cadde sulle sue spalle facendolo barcollare. Edward, sospirando, lo avvolse in un abbraccio nel quale Alphonse si rannicchiò e si nascose.

“L’ho fatto di nuovo, nii san?”

“No, non hai fatto nulla”

Era stato allenato a far sembrare quelle parole vere, a rendere suo fratello innocente da qualunque crimine.

Prendendolo per mano lo guidò, lo avvolse in un abbraccio prima d’invitarlo a rinchiudersi in quella che sembrava una bara.

Cosa doveva vedere per crederci ancora? Edward si strinse le tempie, sospirando con l’aria assorta mentre le sue spalle si rilassavano e si rendeva di non essere rimasto solo. Non ancora. Fece alzare il corpo senza forze di Roy, trascinandolo . Aprì la porta.

“La fortuna ti ha assistito, Roy Mustang. Quando calerà di nuovo la notte voglio che tu sia già lontano da qui”

Lo baciò, con un tocco fugace delle loro labbra. Lo scaraventò fuori.

Il sole stava per sorgere.

 

***

Roy aveva sempre pensato di essere destinato a morire in mezzo alle fiamme, come quella donna.

Ma aveva perso troppo sangue e probabilmente sarebbe morto lì, per dissanguamento, ed il suo corpo sarebbe stato buttato in mare la sera successiva. Quasi era deluso: una morte così assurdamente meschina e nessuno a ridere della sua disgrazia.

C’era sempre qualcuno, quando sognava di morire, a sghignazzare sotto i baffi mentre un cappio gli stringeva il collo o la falce di una ghigliottina gli staccava la testa. Era tutto sorprendentemente luminoso e paradisiaco.

Il suo respiro affannato era il solo rumore che riempiva lo spazio sospeso intorno a lui.

Pensò ad Olivia, ai colleghi del giornale… e poi, dandosi come scusa il fatto che non aveva più qualcun altro a cui pensare, pensò a lui. Cercò di odiarlo, di maledirlo se possibile, immaginò che la sua anima sarebbe tornata a tormentarlo per l’eternità –e sapeva che il moccioso aveva davvero un eternità da sprecare a farsi perseguitare dal suo rancore-. Era la normale prosecuzione di una storia di quel genere, così come l’avrebbe redatta qualunque scrittore. Morendo col sorriso sulle labbra avrebbe salvato l’umanità da quella minaccia, dando un senso alla sua insulsa vita.

Che stupidaggine.

La sua risata baritonale divenne lieve e ovattata contro l’aere bianco e galleggiante.

Forse era stato ucciso dopo essersi addormentato leggendo ‘Dracula’ -trovandolo tremendamente noioso-, o forse si sarebbe svegliato accanto ad una donna mai vista prima, con un mal di testa da sbornia a fracassargli le tempie. Rise ancora un po’, con quel suo macabro senso dell’umorismo che gli faceva vedere l’ultima minaccia come suo salvatore.

Sorrise al maggiordomo grande e grosso che venne a sovrapporsi alla sagoma del sole.

“Sei venuto a buttarmi via?” Cercò di girarsi su un fianco, ma tutto ciò che ottenne fu una vibrazione di dolore su tutta la parte sinistra del corpo. Non essendo riuscito a nascondersi lo guardò dritto negli occhi, attentamente, come fosse lieto di vederlo.

“Il mio cadavere sarà bianco, livido e spettrale… non è vero?”

“Lo è anche adesso, signore” Rispose Scar, senza scomporsi.  Aveva una tazza in mano. Chinandosi e sollevandogli la testa gli fece bere il liquido che vi era contenuto, rosso, denso ed amaro. Intuì che fosse un ricostituente. Aveva la mascella paralizzata ed una voglia insensata di morire subito, non un giorno lontano in cui l’immagine di quel dannato angelo dai capelli biondi sarebbe stata sfocata e indefinita nella sua mente.

Non gli aveva concesso di morire tra le sue braccia, ma andava bene, non cercò di gettare via la sua fiducia per lui.

Sicuramente gli aveva anche lasciato un opzione con cui  rifiutare la salvezza offertagli. Smise di bere, e rise.

 “Parlatemi di voi” Chiese, allontanando la tazza.

“Non saprei cosa raccontarvi”

“Da dove venite?” Scar non cambiò espressione, ma abbassò il capo impercettibilmente.

“Dall’India” Rispose,  incapace di negare qualcosa ad un moribondo. Lo aveva detto con sospiro, come si fosse strappato di dosso quella notizia per porgergliela, piena di sangue e budella. “Da quanto vivete qui con i Conti?” Le sottili iridi rosse si dilatarono a quella domanda.

Si alzò di scatto, dandogli le spalle e  rimanendo fermo in mezzo al corridoio con le braccia lungo i fianchi squadrati.

“Cosa cercate di dirmi?” Chiese quindi Roy.

Non voleva insistere, non era per niente desideroso di sapere altre cose che avrebbero provato a rendere mostruosa la sua ultima consolazione -senza riuscirci-. Ma voleva conoscerlo, almeno un po’, almeno il necessario per serbare di Edward Elric un ricordo che potesse fargli compagnia all’inferno –dove Edward, effettivamente, non sarebbe giunto mai-.

La voce di Scar fu chiara ma inespressiva. “Nessuno degli abitanti di questa villa è più in vita”

“Capisco” Disse, per niente stupito di quell’ennesima beffa.

“No, voi non capite. Non sono quello che state pensando”

A questo punto nemmeno gl’importava: gli bastava chiudere di nuovo gli occhi e vederlo, o tenere aperte le orecchie e sentir parlare di lui. Adagiò la schiena sul muro, sospirando e sentendo la testa leggera. Scar insistette per fargli bere ancora un po’ di quell’intruglio, ma si rifiutò, certo che nessun rimedio al mondo sarebbe riuscito a riportarlo in vita. “Cosa sono loro?” Scar lo fissò, con -ancora una volta- la neutralità più assoluta sul volto.

Aveva molti altri dubbi da risolvere. “Da quanto sono al mondo e chi li ha resi quello che sono?”

“Il padroncino ve ne avrebbe parlato prima o poi”

“Fatelo voi al posto suo”

Ogni suo movimento era rigido, la sua voce era roca come quella di chi non parla spesso. Nel complesso era un immagine di tristezza profonda quella che dava, sia tacendo sia parlando, perché nulla lo aveva toccato e nulla lo convinceva ad essere triste per questo.

A parte l’idea della morte.

“Il signor Hohenheim non voleva farlo” Fu come una scusa declamata a gran voce, una giustificazione per qualche grave crimine.

“Non voleva fare cosa?” Scattò in avanti senza accorgersene, avvertendo ampie parti del suo corpo divenire insensibili. L’unica cosa che impediva a Scar di dimostrarsi timoroso era il fatto che, forse, non ricordava più cosa fosse il timore. Muovendo solo le gambe si rialzò dalla sua posizione supina, lasciando la tazza vuota per metà accanto a lui. Si allontanò con falcate lunghe e veloci lungo il corridoio.

 “Dove diavolo stai andando?” Tremò. “IO NON MORIRÒ SENZA SAPERNE LA RAGIONE!”

Si sentì improvvisamente furioso, e la furia risvegliò le sue gambe prima paralizzate. O forse fu quella promessa -che aveva giurato di non farsi fino a pochi secondi prima- a convincere il suo corpo a muoversi, ad inseguire la conoscenza che andava cercando fin dall’inizio.

Teneva sott’occhio la sagoma nera a stento, trascinandosi lungo la parete con fatica. “MI HAI SENTITO, BASTARDO?”

Non correva, ma in breve tempo attraversò tutto il corridoio giungendo alle scale, che Roy riuscì ad affrontare a stento aggrappandosi il più possibile alle ringhiere di ottone lucido. Lo avrebbe seguito ovunque, a costo di morire per la sua stessa stupidità, a costo di sapere qualcosa che nessun giornale avrebbe pubblicato o per cui qualunque redattore lo avrebbe ritenuto un pazzo. Voleva tenere tutto per sé, in modo che corrodesse la sua mente ed il suo raziocinio per gli anni avvenire, nella consapevolezza di essere l’unico in mezzo alla gente, in mezzo all’universo.

Senza voltarsi mai a dare attenzione alle sue urla patetiche uscì fuori dalla villa, giungendo là dove si vedeva il mare.

Aveva visto il sole su Reesembool solo una volta, durante il giorno trascorso sotto l’ospitalità di Lady Pinako per raccogliere informazioni dagli abitanti. Molti avevano previsto i suoi guai,  altri avevano scosso la testa davanti alla stupidità degli inglesi boriosi. Lui aveva solo liquidato tutto con un ghigno presuntuoso.

Era una cittadina piccola abbastanza perché il sole la illuminasse con un solo raggio, d’altronde. Scar la guardava, ma non avrebbe saputo dire cosa ne pensasse o quale sentimento suscitasse in lui quella vista: una lieve stretta al petto, che non sapeva come identificare, nella sequenza di dolore perpetuo che aveva finito per dimenticare in una parte remota del suo essere.

“Dove siamo?”

Scar voltò la testa. Lo imitò e li vide: un gruppo d’aranceti stretti in un piccolo tratto di terreno, come accoccolati.

Ricordò le parole di Edward al riguardo di un miracolo, ed effettivamente erano delle arance troppo belle per essere cresciute nel freddo della Scozia. Scar ignorò la sua domanda, prese un arancia inginocchiandosi poi ai piedi di uno degli alberi con il capo chinato in avanti, le braccia abbandonate.

Voleva fargli vedere quegli alberi, o si era semplicemente lasciato seguire da lui?

Si avvicinò, perché aveva l’impressione che quell’uomo avesse bisogno di essere consolato. La luce bianca dell’alba creava delle lacrime lattee sotto gli occhi rossi, sul viso che non cambiava e che non poteva esprimere la tristezza in altro modo… appoggiò una mano sulle spalle curve, chiedendosi perché.

Perché non gli era concesso di capire e perché, nonostante non capisse, continuava a pensare a lui.

Ad Edward Elric, al suo fottuto bell’aspetto da principino tormentato.

Non aveva idea di chi fosse, eppure non aveva nessun altro a cui appellarsi per trovare sollievo.

“Chi è davvero Edward Elric?”

Scar addentò il frutto, da cui il succo uscì quasi immediatamente. Era rosso, rossissimo. Troppo rosso.

Era sangue. La succhiò con avidità, senza sbucciarla, inondandosi le labbra di liquido che imbrattò i vestiti e la pelle scura.

L’azione trasformò il suo volto in una maschera nera di ferocia e bramosia, che contrasse i lineamenti prima immobili.

Fece un passo indietro, disgustato, sentendo distintamente un conato di vomito salirgli su per la gola. Per un attimo non ci fu nulla oltre le macerie del suo raziocinio di fronte al bivio che gli rimaneva da affrontare: impazzire od ignorare. Si limitò a tremare e a stringersi la gola vibrante.

Poi comprese, come aveva desiderato, e la consapevolezza giunse al suo cervello con un inchino ed una riverenza. Guardò ai piedi dell’albero.

Non poteva essere altro che così, così come diceva la sua dannata logica. S’inginocchiò e non dovette scavare molto prima di trovarlo.

Un braccio umano.

Scar ridacchiò, mentre Roy si voltava per rivolgergli un espressione sconvolta.

Gli occhi normalmente rossi, piangendo, sembravano sciogliersi in gocce di sangue scintillanti.

Sorrise. “È ancora così sicuro di voler conoscere il padroncino, signore?”

 

Note dell’autrice!

Salve a tutti! Come vi va la vita? A me di cacca puzzolente… ma non è una novità U-U siccome come al solito ho finito gli argomenti vi chiedo: avete visto ‘New Moon’? E non vi chiedete anche voi come cavolo fai a fare una scena drammatica con un tizio che sembra appena uscito da Baywatch? Va buo, andiamo avanti con le risposte ai commenti va.

 

Giaggia: Oddio, non avrei mai detto che è ‘tiranneggiato’ ma più o meno dà l’idea di quanto il mio Roy sia alla deriva della sua vita xD è la mia versione di un Roy Mustang senza alcuna ambizione nella vita: vuoto e passivo, poveretto, quindi perfettamente ‘tiranneggiabile’ xD grazie del commento.

Icaro smile: Non avevo visto Psyco e sono andata a leggere la trama… e beh devo dire che l’idea era molto simile O_O l’ho plagiata involontariamente, però adesso è proprio il caso che io lo veda xD spero che il capitolo ti sia piaciuto, baci.

Covianna: Come Roy è ooc? O_O ALLARME! ALLARME! D’accordo che l’idea mi era venuta per un altro fandom, ma l’ho comunque riadattata! Roy non è lo stesso personaggio che sarebbe stato Naruto nella sua parte, ed ho cambiato parecchie cose che se proprio vuoi alla fine ti spiegherò nel dettaglio, ma non era assolutamente mia intenzione farlo ooc, anzi! Hai presente il Roy del dopo Ishbar? O quello della quarta sigla della prima serie dell’anime che guarda malinconico fuori dalla finestra con un bicchiere di non so quale alcolico in mano? Ecco, il mio Roy è senza speranze e senza ambizioni. Cioè non so in quale frangente ti sia sembrato ooc, ma se segue questa caratterizzazione allora per me è Ic, nei limiti di quanto possa esserlo in Au. Per quanto riguarda Al riconosco che possa essere un po’ ooc, ma è perché lui è frutto di una mia concezione della sua parte oscura (che spesso faccio impersonare all’armatura che prende vita, e che si è vista in altre mie fic come ‘Il battito della rosa’ o “The seven of destruction’). Comunque grazie anche a te, dimmi che ne pensi del nuovo capitolo, bye! *O*

My pride & Valerya90: A Valerya dico che, come ho già detto, i personaggi sono molto diversi da come sarebbero dovuti essere quelli di Naruto nella stessa situazione, ma è una faccenda lunga da spiegare xD Comunque vi ringrazierò fino all’ultimo capitolo, I’m sorry xD grazie!

 

Ci vediamo sabato prossimo per la conclusione, a scanso di secchiate di commenti imploranti di un seguito xD bye!

 

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Capitolo 4
*** La morte è la migliore delle ossessioni ***


CAPITOLO 4: La morte è la migliore delle ossessioni

CAPITOLO 4: La morte è la migliore delle ossessioni.

Terza notte.

 

Appena sveglio, Edward si chiese immediatamente quanto Roy Mustang fosse ormai lontano da lì. 

Si mise a sedere di scatto con una mano a tenersi il petto, con l’immagine di quell’uomo che, come la rimanenza di un sogno, martellava la sua testa fino a farla dolere.  Non era il senso di colpa, perché aveva fatto di tutto per riparare ai suoi errori, non era  il bruciore della sua maledetta fame.

Sentì che il sole era appena calato dietro l’orizzonte.

Alphonse dormiva ancora nella bara chiusa, dove lo aveva condotto la sera prima come faceva sempre –come un bambino verso la culla-, ed in una notte limpida e perfetta per uscire dal castello… rimase immobile.

Roy Mustang, l’uomo la cui vita era stata salvata per un suo capriccio, fu davanti a lui con la malizia sulle labbra fine, per poi scomparire, ridendo di lui.

Con la sua voce nella testa a mandargli brividi giù per la schiena si alzò, pettinandosi i capelli in modo distratto davanti allo specchio.

Guardò il riflesso del suo viso opalescente, e se ne rese conto.

Erano di nuovo soli in quel mondo che non conoscevano.

Alphonse era un riflesso che non avrebbe fatto altro che seguirlo, amarlo, venerarlo senza riserve, senza mutare mai in funzione delle epoche.

Quel pensiero, improvvisamente, lo fece soffocare.

Gli rivelò qual’era la sua casa, com’era davvero la prigione buia ed immutabile che aveva tentato di aprire.

 Man mano che ci pensava il cielo si faceva più scuro, e cominciò a sperare nell’arrivo della luna consolatrice. Lo consolava sempre, mandando un fascio di luce a prelevare dal suo petto ciò che l’opprimeva, diradando le tenebre in cui avrebbe dovuto vivere per sempre. Per sempre.

Quel pensiero gli fece venire fame. Osservò le unghie affilate delle sue dita, ghignando, spalancando la finestra per saltare giù.

Era la notte perfetta per dimenticarlo.

Ci si poteva riuscire velocemente, annegando nelle interiora di un uomo di robusta costituzione.

Il sangue era una panacea, capace di curare ogni ferita, ogni sofferenza. Ma sentì la sua voce, e capì che il sangue non sapeva risanare un ossessione.

“Perché non vuoi andartene via dalla mia testa?” Si chiedeva la voce, e trasalì perché era una domanda che si era posto a sua volta.

Lo vide, imbrattato dal sangue delle maledette arance, con gli occhi dilatati e le mani che frugavano il terreno.

Cercò di essere il più veloce e scattante possibile, ma Roy fu lì a fissarlo quando giunse davanti a lui.

Sorrideva tristemente, con le labbra ed il mento rossi. “Perché non mi rispondi, almeno? Continui ad essere nella mia testa… sempre… sempre…”

Ricambiò con un sorriso altrettanto triste. “Potrei farti la stessa domanda, stupido inglese”

Si sedette accanto a lui sul terreno rosso pieno di scorze d’arancia strappate. Improvvisamente, avendolo accanto, smise di pensare a lui lasciando che un vuoto nero e vibrante ne prendesse il posto, e lo convincesse a non distogliere mai lo sguardo da lui. Non lo aveva ucciso, ma l’aveva fatto impazzire. Avrebbe avuto il tempo di sentirsene in colpa, ma per ora era solo contento che Roy fosse lì, a farlo respirare.

A distoglierlo dal riflesso del ragazzo biondo dalle gote bianche, che la prigione di vetro aveva già fatto uscire di senno.

“Chi è Hohenheim?” Edward, con le gambe rannicchiate non si stupì, e non cercò di nascondere nulla.

Lo avrebbe raccontato come una favola, a lui, perché non poteva accompagnarlo oltre il limite della prigionia, ed era tutto ciò che poteva lasciargli.

Una giustificazione per ciò che aveva desiderato.

“Era nostro padre...” Strinse la presa su una scorza d’arancia, ricordandolo. Lui, l’inizio di tutte le sue disgrazie, l’uomo che li aveva amati fino al limite della propria anima e poi li aveva rinchiusi e resi mostri. “… o almeno Alphonse lo considera ancora in questi termini, e nostra madre lo amava… io lo odio. Ci ha salvati dalla strada, dalla fame, dalla miseria. Ci ha amati fin quando la sua mente gliel’ha permesso… ma non riesco a perdonarlo”

Roy non parlò, incantato. Era tutto ciò che gli era rimasto di bramare… che quella creatura si svelasse.

Che avesse abbastanza considerazione di lui da porgergli i suoi segreti, o che non ne avesse affatto per ritenere ogni rivelazione un dettaglio insignificante. Non aveva importanza, andava bene così… era lo scoop della sua vita. Una storia fuori dall’ordinario di follia e di mostruosità.

Un po’ come lo era lui. Era il colpo giornalistico che non sarebbe mai riuscito a pubblicare.

Rise, in modo folle. Mimò il gesto di trascrivere qualcosa su un taccuino.

“Qual è la vostra data di nascita?”

Edward, sbattendo le palpebre, non comprese per quale motivo desiderasse saperlo. “Non lo so… non me lo ricordo”

“E quando avete incontrato il suddetto gentiluomo?”

Non seppe perché, ma Edward rise a sua volta. “1877” . Non l’avrebbe dimenticato mai. Roy amò l’espressione di sognante beatitudine che apparve sul suo volto, riportandolo per un attimo indietro dal baratro della follia… della follia che il pensiero di lui aveva indotto. Era inevitabile, gli aveva rovinato una vita già rovinata, una mente già distorta, non aveva nulla da recriminare. Era il suo angelo, il suo pensiero fisso.

Gli prese la mano e la baciò, come si fa con una gentildonna.

“Datemi il vostro cuore, my lord. Confessatemi cosa vi affligge nel sonno, cosa non vi fa respirare, cosa vi arreca sofferenza… io lo custodirò per voi”

Vibrò, con l’impulso di toccarlo, di prendere da lui qualunque cosa avesse. Ma non avevano detto tutto.

“Io ti ho maledetto, Roy Mustang…” Sussurrò.

“… ti dimenticherai di me non appena te ne andrai di qui”

“Maledetto, dite?” Poteva credere a tutto, tranne che a quello. “Sicuramente. Non vi conosco che da tre notti”

“Era un mio capriccio, il capriccio di un decennio. Avrei potuto conoscere questo mondo anche per conto mio…” Sospirò, sentendo di non meritarsi quel calore, la perfetta realizzazione del suo inganno. Non aveva avuto bisogno di Roy all’inizio, ma ora ne aveva. Un disperato, ossessionante, terrificante, asfissiante bisogno che era molto simile ad una dipendenza.

“… lui, Hohenheim, lo aveva fatto. Ci aveva concesso il lusso di ammirarlo… prima dei dieci anni d’isolamento”

Dieci anni, dieci anni per dipingere quella Madonna che, alla fine, aveva perso il suo bambino. Li aveva rinchiusi tra le tenebre che parevano eterne, mentre tentava di ricrearla in modo impeccabile. Il vecchio vampiro non aveva fatto altro, dal 1890 in poi, altro che dipingere lei, Trisha, le cui mani non riuscivano mai a tenere in braccio il figlio in maniera sicura. Le immagini di vernice e i corpi imbalsamati non bastavano a compensare il dolore di averla persa sulla strada dell’eternità.

Era convinto di star facendo un errore, prima di averli resi mostri ed abbandonati.

Ma Edward  questo non lo disse. Si premette il petto, ancora, incapace di pretendere che lo facesse davvero: capire, abbracciarlo, rassicurarlo sul fatto che non era colpa sua. Non poteva.

Posò la mano libera sul suo capo, sorridendo, come faceva il Re con i propri vassalli nel medioevo. Lasciò che lo baciasse, come lo spingeva a fare l’illusione d’inevitabilità che il suo mistero aveva lasciato in lui, la follia che lo avrebbe lasciato inerme in mezzo alla massa di persone normali che non sapevano, che non immaginavano. Non fu un bacio gentile, ma un accavallarsi di zanne affilate che si adoperavano per mordere ogni cosa, un rotolare di saliva e sangue dall’odore fruttato che scivolava sulla pelle. Roy rise, usurpando un ruolo che non era suo, addentando il collo imbrattato mentre Edward ringhiava come una bestia e lo stringeva addosso al suo petto. Si adagiò all’indietro, ridendo, lasciandolo fare senza alcun desiderio di cambiare le cose. Aprì le labbra per afferrare l’aria, perdendo ogni comprensione del tempo, dello spazio, e del fottuto mondo.

Dopo anni sentì caldo, e sospirò estasiato tra le braccia di un uomo che avrebbe potuto divorare pezzo per pezzo. 

Non ne sarebbe valsa la pena.

“L’hai capito, no?” Vide apparire la luna nel cielo nero, mentre lo diceva, e tentò di abbracciarla ottenendo che Roy collassasse ancora di più su di lui. Ogni cosa moriva intorno, lasciando solo Roy, la luna e quel senso di dimenticanza. “Sono tutti qui sotto, l’hai capito no?”

Lo stupido inglese non notò che il mistero per cui era giunto ad impazzire gli era appena stato rivelato: continuava a sghignazzare contro la pelle bianca, con gli occhi dilatati ed il corpo in preda a movimenti inconsulti. Ma li aveva visti.

Aveva visto i cadaveri sotto terra, senza scavare molto a fondo.

Tutto avrebbe acquistato un senso se soltanto avesse tentato di darci attenzione, di vedere come le radici di quegli alberi si aggrappavano alle carni più o meno raggrinzite di uomini e donne. Alcuni stavano con la bocca spalancata, gli arti piegati in modo innaturale e le vene inaridite che li rendevano rigide bambole dalle membra violacee, che protendevano le braccia facendosi rimirare e chiedendo un giro di valzer. Roy aveva fatto conoscenza con tutti, stringendo le mani flosce ed ignorando i poco educati sguardi vitrei.

E Scar, da bravo giardiniere, aveva estratto e buttato in mare qualche inutile mucchio d’ossa durante il giorno.

“L’ha creato Hohenheim… quello dannato scienziato pazzo. Oh, non mi fraintendere! Non c’è niente di meglio di un pasto consumato direttamente dal collo di un giovane uomo, ma Alphonse è così dannatamente problematico! Si sente in colpa… ancora… e ancora… non ho altro modo di farlo sopravvivere che in questo modo, trasformandoli in semi!”

Semi… per loro gli esseri umani erano semi, ed eppure non riusciva a lasciarlo!

Edward, pur apprezzando le mani calde che gli sfioravano la schiena e i fianchi, si ritrasse da lui, raggiungendo il suo orecchio.

“Penserai comunque sempre a me, stupido umano? Mi ricorderai come il mostro che sono per tutta la tua insignificante vita?”

Una nuova risoluzione giunse alla sua mente. Il senno che aveva perso gravò sulle sue membra prima libere, e comprese.

Più lo abbracciava e lo desiderava, più braccia e gambe s’irrigidivano, perdevano forza.

Lo stava facendo morire.

“No” Sussurrò.

“Bene…” Disse Edward. “… perché non ho più bisogno di te. Non ne ho mai avuto, in effetti. Eri soltanto un capriccio. Solo un capriccio. Siamo così giovani, in fondo! Solo dieci anni e una vita di lussuose tenebre… ma imparerò, anche senza l’aiuto di un qualunque stupido essere umano”

Non smise di ridere, mentre puntava gli occhi inumanamente belli nei suoi, e metteva in mostra le zanne affilate.

“Sei ancora convinto di non volermi dimenticare?”

Pensò alla donna dei suoi sogni.

 Non ebbe timore di lui, scoprendo inaspettatamente di non riuscire ancora ad impedirsi di cercarlo.

Cercare ogni cosa di lui avesse a disposizione, pelle, carne, anima, voce. Ma era destinato a perdere.

Avrebbe perso lasciando che Edward se ne andasse dalla sua vita, avrebbe perso lasciando che lui lo disprezzasse.

“È ironico, sai? Avevo portato davvero tutto il necessario con me…” Disse, guadagnandosi  uno sguardo perplesso.

“… aglio, croci, paletti di legno… pensai che quella degli abitanti del villaggio fosse solo superstizione”

Aveva preso un pacchetto di fiammiferi dalla tasca. Per quanto lo avesse assicurato a sé stesso, il piccolo idiota non fece nulla per impedirgli di dare fuoco alle foglie sparpagliate sul terreno. Stette ad aspettare che fuggisse da lì, ma non lo fece.

“Scappa, piccolo idiota” Poteva ancora farlo parere uno scherzo, un gioco, se solo ci s’impegnava.

Invece Edward allargò le braccia verso di lui, sorridendo, come avesse previsto ogni cosa e lo biasimasse per non aver fatto lo stesso. Sovrappose le labbra alle sue delicatamente, lo trasportò via dallo strano legno rossastro che le fiamme stavano divorando con una velocità anormale. L’odore di carne bruciata lo raggiunse e lo disturbò, mentre Edward lo adagiava sul terreno freddo.

Si posizionò in mezzo alle fiamme, con le braccia aperte che parevano le ali di un angelo, e gli sorrise.

Sembrava felice bruciando, ma ciò non lo consolò, perché non era quello che voleva.  Perse i sensi con l’immagine di Edward che bruciava ed un urlo di terrore nella gola. Per quanto lo chiamasse, per quanto protendesse la sua ossessione come una rete non cambiò nulla.

Quell’immagine non l’avrebbe saziato per l’eternità.

Né in vita, né in morte.

 

 

***

Olivia ricevette la telefonata quando ormai -dopo essersi rovinata ogni singola unghia delle dita a furia di batterle sulla sua scrivania- aveva concluso che non l’avrebbe rivisto più. Non era un problema insuperabile, figuriamoci, l’aveva accettato continuando il suo lavoro senza troppi piagnistei e con il lusso di una tazza di tè più forte.

Era un puro caso se quel pomeriggio si trovava in redazione nonostante non ce ne fosse bisogno –come tutte le altre volte-.

A meno che non avesse ucciso qualcuno, quell’uomo non la riguardava –certo- come non la riguardava il compito di tampinare per ore ed ore il telefono della redazione. Essendo una perfetta dittatrice nessuno dei suoi collaboratori osava chiedere qualcosa a tal proposito, ed era un lusso per cui poteva concedersi qualunque stravaganza -come una qualunque sciocca donna aristocratica senza spina dorsale-.

Preferiva combattere l’invadenza di cento idioti piuttosto che starsene lì, aspettando il momento in cui avrebbe distrutto di nuovo il telefono.

In cuor suo aveva sempre saputo che, pur di riapparire sotto forma di spettro, Roy Mustang sarebbe tornato a giustificare in modo fantasioso i suoi nulla di fatto -con la sua faccia da schiaffi-.

“Pronto” Non si era nemmeno premurata di dire ‘Qui Central Journal…’ e tutte quelle altre cazzate di protocollo, e comunque non lo faceva mai.

La voce femminile nel telefono squillò grave ma decisa. “Parlo con Olivia Armstrong?”

“Sì”

Roy Mustang è in casa mia” La cornetta le scivolò dalle mani, cadendo a terra con un tonfo. La recuperò in tutta fretta.

“E… e… come sta?” La voce tacque per qualche minuto, sembrava quasi non respirare.

“Non credo di esagerare dicendo che è… impazzito”

Lo era sempre stato, pazzo. Figuriamoci! Ma non le venne da ridere.

“Da quali elementi avete potuto dedurre questo?”

La voce sospirò, ed era la prima variazione di tono in quel suono grave e monocorde che proveniva dal telefono come i rintocchi funerei di una campana.

“Sta tutto il giorno alla finestra, leggendo sempre lo stesso libro, guardando fuori ogni tanto. Non parla, mangia e beve a stento, parla  in continuazione di ‘stupidi ragazzini biondi a cui l’accento dell’est starebbe proprio bene’ . Ho provato a dirgli di andarsene di qui, ma ha l’aria di qualcuno che potrebbe inciampare e spaccarsi la testa non appena smetti di controllarlo. Detto in tutta sincerità sta diventando un fastidio, e vorrei che lei me ne liberasse”

Annuì con aria professionale ed un espressione di strano divertimento sulla faccia, ed il che era contraddittorio.

“Lo so…” esalò, senza impedirsi di produrre un suono un po’ farfugliante. “… quell’uomo è un disturbo per l’umanità, non è vero?”

“Può dirlo forte”

Nonostante non fosse cambiato nulla nel loro modo di parlare, le due donne furono sicure di essersi sorrise l’un l’altra.

D’un sorriso un po’ malinconico, in realtà, ma faceva parte di quelle precisazioni che nessuna di loro avrebbe mai apposto in una conversazione.

Tutto quello che Olivia decise di farle sentire fu un sospiro sonoro e teatrale.

“Ditegli che se non viene al telefono entro cinque minuti gli spaccherò ogni singolo osso del suo dannato corpo”

L’altra donna annuì silenziosamente, facendo ciò che le era stato chiesto.

Tamburellò le unghie consumate e lucide per dieci volte prima che Roy alzasse la cornetta, facendola ghignare.

Alla buon ora, stupido idiota”

“Era ad un passo saliente della storia… hai interrotto la mia lettura, donna bisbetica”

“L’hai letto già tre volte, quel libro, e ti avevo detto di lasciarlo stare.  Nemmeno ti piace”

“Oh, assolutamente no. Ora meno di prima…” La sua risata fu come ticchettare di metallo su metallo. “… è del tutto inverosimile”

“Non capisco che vuoi dire ma va bene, abbiamo tutto il tempo. Hai scoperto qualcosa?”

Spesso Roy non rispondeva alle sue domande, ma era di solito un rifiuto buffonesco e dannatamente irritante che la portava sempre a punirlo in qualche maniera fisica. Quella volta il suo non- rispondere fu diverso, triste, vuoto, come se non sapesse riempire quel silenzio con qualcos’altro che non fosse la lieve interferenza della telecomunicazione.

“Niente, rinuncio all’indagine” Rispose infine, ma Olivia non gli credé, pur lasciando correre.

“Ho scoperto qualcosa su tua madre” Era il modo perfetto per scoprire se Roy era davvero impazzito, o se era generalmente cambiato in qualche modo. Parlando di sua madre cominciava a parlare con una vibrazione d’odio, che faceva la sua voce più sarcastica di quanto si potesse concepire il sarcasmo stesso, nel tentativo di dare a vedere che la cosa non lo toccava. Era il colpo più basso ed il più leale che potesse sferrargli.

Ma Roy non disse assolutamente nulla.

“È morta bruciata viva”

“Oh” Solo un monosillabo.

Avrebbe voluto avere il coraggio e la faccia tosta di chiedergli se davvero non era successo niente, ma era un limite troppo lontano da lei.

“Perché non te ne vai ancora via da lì?”

 “Non lo so” rispose immediatamente, lasciandola stupita.

“Devo dire alla signora Rockbell che ho visto la sua bella nipote dai capelli biondi… l’ho vista  maturare come un frutto”

Rise in modo folle, ma ancora una volta non chiese spiegazioni. Inaspettatamente ammise a sé stessa che era per paura.

Paura di quella presunta follia, ed Olivia odiava avere paura meno di quanto odiava ammettere di provarla. Provò a mantenerla sullo scherzo.

“È perché ti rendi conto che rischieresti la vita a tornare al mio cospetto, stupido idiota?”

“Già…” rise. “… ma dovrei morire per comprendere quello che mi perdo, non è così, My Lady? Sono un dannato testardo che non capisce il valore della vita, non è vero? Non è forse vero? NON ÈFORSE VERO?”

Poteva rimetterlo in riga con un pugno, quella volta? Gli occhi le si velarono d’indegne lacrime prima di poterci pensare seriamente. Le sue parole spinsero una scarica di elettricità su per la sua schiena, facendola barcollare sulla sedia ed accorgersi di quanto era dannatamente patetica.

Non ricordava nemmeno più com’era desiderare qualcosa senza negarlo a sé stessa, ma per un attimo perse di mano la sua disciplina.

Si poteva dire che non lo avrebbe mai fatto abbastanza, con Roy Mustang.

“… solo ora ho capito quanto sia inutile la vita senza un ossessione… e la morte è la migliore delle ossessioni!”

Riattaccò con un gesto del tutto istintivo, col fiato pesante.

Roy

Decise di rimanere impalata lì, sulla sedia, fin quando quella frase non fosse uscita dalla sua testa.

Ma non lo fece mai.

La morte è la migliore delle ossessioni.

 

 

 

 

 

Note dell’autrice!

È finita §_§ non so se per sempre ma per adesso è finita… non ha riscosso un successo enorme ma è quanto mi aspettavo, e sono contenta che ci siano sempre quelle poche persone che dicono di apprezzare i miei lavori *O* Il seguito ce l’ho in mente, ma dubito che, anche se mi venisse mai in mente di scriverlo davvero, mi sbrigherei poi così tanto a buttarlo giù xD Comunque tanto che ci stiamo... avete visto “Dorian Gray”? *O* e la bellissima ed inaspettata scena yaoi che vi si trova? *O* va buo, passiamo ai commenti.

 

My Pride: Niù mun”, se posso esprimermi, faceva ridere… è l’unico pregio che ho saputo trovargli! Almeno ti ci passi un paio d’ore nemmeno a farti qualche buona risata, fatto sta che il libro effettivamente pur non essendo un capolavoro me lo ricordavo un attimino meglio xD Va buo, questo è un OT grande come una casa, ma chi se ne frega! xD owari *inchino*

Icaro smile: Ma nooooo, Scar non voleva farlo fuori… a lui non frega una beata mazza sostanzialmente xD non ho avuto modo di approfondirlo, poveretto, ah per la cronaca non è un vampiro lui (ovviamente, come potrebbe uscire alla luce del giorno altrimenti?), ma sono cose che potrebbero rimanere nell’ombra per sempre. Comunque mi dispiace per Roy… giusto una volta gli ho dato soddisfazione e non era nemmeno troppa xD comunque dimmi che ne pensi del finale, baci.

Covianna: Amo i commenti deliranti, i miei sono sempre inconsistenti ed assolutamente poco istruttivi… quindi ti capisco xD ma li adoro al pari degli altri! Quindi non privarmene please. Comunque Roy è partito di capa… tra questo e morire cos’è peggio? xD baci!

Valerya90: Come mai dal terzo capitolo ti è riuscito d’immaginarti i personaggi di Naruto in questa Fic? Ah, mi ero anche scordata di dire che al posto di Olivia c’era Sakura xD Grazie ancora, baci.

Giaggia: Riguardo ad Al, come ho già detto a non so chi, io ho una particolare visione di lui, e lo faccio sempre un po’ schizofrenico ed affetto da doppia personalità, mi piace rappresentare la sua parte oscura che spesso è interpretata dall’armatura (come ne “Il Battito della rosa” o “The seven of destruction”), riguardo all’Elricest diciamo che “L’armatura pazza” è un mio marchio di fabbrica… e mi piacerebbe inserirla in un futuro seguito di questa storia non so in che modo xD comunque fammi sapere come ti sembra il finale, baci!

 

Va buo, anche qui è finita… non so in che fandom mi troverò la prossima volta, ma devo dire che in fma mi trovo sempre abbastanza bene *O* se qualcuno degli utenti che non hanno commentato finora volessero farmi sapere cosa ne pensano della storia nel complesso ne sarei lietissima.

 

*Inchino*

Alla prossima.

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