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Lista capitoli: Capitolo 1: *** Farse da romanzo gotico *** Capitolo 2: *** Tieni d'occhio il nemico *** Capitolo 3: *** Il patto delle anime affini *** Capitolo 4: *** La morte è la migliore delle ossessioni ***
Autore: Lady Kokatorimon Titolo: La villa delle
arance. Rating: Arancione. Genere: Dark, drammatico,
sovrannaturale, horror. Numero
frase scelta: 11. Avvertimenti: Alternate Universe,
Shounen ai, non per stomaci delicati. Introduzione:
Non sapeva cosa lo
avesse spinto a decretarlo, ma sperava fosse per il fatto che la loro soluzione
era giunta in città.
Profumata,
ubriacante, affascinante, perfetta soluzione al suo rifiuto.
“Non voglio”
“Forse hai solo
bisogno di qualcosa che ti stuzzichi l’appetito” sorrise. Il cielo notturno
tornava sereno.
Osservò la linea
della costa con improvviso interesse, passando la lingua arrossata di succo
d’arancia sulle labbra turgide.
-Di qualcuno che ti
stuzzichi l’appetito-.
1900. Il giovane ed
eccentrico reporter Roy Mustang indaga su misteriose morti e sparizioni in un
piccolo villaggio scozzese, con una copia del ‘Dracula’ di Bram Stoker in mano.
Ci sono due giovani
Conti, uno scoop da fare, tre notti da trascorrere.
TERZA CLASSIFICATA AL
“CONTEST OF VAMPIRES” DI MY PRIDE E VALERYA90!
Note
dell'autore: Nel complesso questa storia non mi piace, ma ci sono vari
elementi che volevo mettere in atto da molto tempo quindi almeno un po’ la
gradisco. In realtà sarebbe stata concepita per avere un seguito, ma volendo
può anche finire così dato che tutti i punti principali vi sono chiariti.
Deciderò sé continuarla in base al posizionamento nel concorso ed al gradimento
del pubblico: in linea di massima, se mi posizionerò sotto il podio, il secondo
episodio non vedrà mai la luce… e credo sia molto probabile che ciò accada.
Fondamentale è poi specificare che per me i veri vampiri sono solo quelli
creati dalla mente di Miss Rice, e a parti alcuni elementi (quali il
collegamento mentale tra –quasi- tutti i vampiri ed il fatto che di giorno non
sono assolutamente in grado di svegliarsi dal loro sonno, neanche per qualche
minuto) i miei li ricalcano perfettamente.
La storia si svolge esattamente nell’autunno del 1900. Buona
lettura!
CAPITOLO 1: Farse da romanzo gotico.
Solo i morti sanno quanto sia terribile essere
vivi.
Da “Il ladro di Corpi” di Anne Rice.
Aveva un suo modo di
risplendere, nell’oscurità.
Aveva perso la facoltà
di serrare le palpebre, di piegare le braccia in modo da incassare il busto
nella morsa delle gambe. Non poteva più nasconderlo. La testa abbandonata di
lato esponeva il collo bianco su cui una vena sbiancata non pulsava più, lo
splendore che lo avvolgeva reclamava attenzioni che i suoi gesti rifiutavano.
Lui pensava, guardandolo, che avrebbe dovuto solo aspettare che la sua
decadente bellezza si facesse più evidente, ed ogni cosa si sarebbe aggiustata.
“Nii san*” non sapeva
dire nient’altro. Era un oscuro stato catatonico dove ogni desiderio era
polvere ed ogni piacere un pugno di mosche, ed era impossibile convincerlo del
contrario. “Hai fame?”, gli chiedeva, e la sua risposta non era altro che un
dilatarsi flemmatico dei grandi e vuoti occhi salmastri, che le palpebre
divaricate non sapevano coprire più.
Lui conosceva la
risposta.
Quel profumo era il suo
modo di controbattere.
“Profumo d’arancia?”
chiedeva allora, tremando leggermente sulla poltrona di broccato rosso -i cui
ricami di fiori sembravano volerlo ghermire-. Annuiva, osservando il suo corpo
abbandonato risvegliarsi dal torpore -a partire dalla coscia bianca visibile da
sotto i pantaloncini corti-, il viso ritrovare espressione per sorridergli e il
tempo ricominciare a scorrere per fermarsi di nuovo.
“Hai fame, Alphonse?”
chiedeva di nuovo. Senza rendersene conto i suoi canini brillavano, mentre
confermava che sì, aveva fame, e protendeva le mani per accettare la sua
offerta minore. Nelle sue mani le arance sembravano frutti divini caduti da
alberi del paradiso, nati da semi piantati su nuvole dolci come zucchero
filato, nuvole che solo il cielo che era loro negato avrebbe potuto mostrare.
Il tempo che impiegava per posare le labbra sulla scorza era infinito, il suo
movimento un’ipnosi inebriante. Quando i denti ledevano la superficie i suoi
occhi guardavano già luna, fuori dalla finestra.
Erano passati meno di
dieci anni.
Il succo delle arance
era troppo rosso.
***
Le parole che Roy
Mustang si era sentito dire, prima di essere malamente scaraventato via dal suo
posto di lavoro, erano state probabilmente parecchio enfatiche, poco gentili ed
un poco volgari. Era quindi un bene che non le avesse afferrate con sicurezza.
D’altronde era stato il
suo capo, Olivia Milla Armstrong, a pronunciarle, e detto questo era piuttosto
scontato che tutta quella faccenda non fosse cominciata con una benedizione,
una carezza, o con un qualunque gesto d’incoraggiamento.
Era un idiota, un
inetto, un fottuto eunuco senza spina dorsale ed era già fortunato ad aver
trovato un impiego come quello, con i tempi che correvano. Quasi quasi
cominciava a credere che fosse vero.
Il ’London Central Journal’ era un giornale ancora
poco importante ma ben avviato, con una redazione piena di professionisti più
che competenti. Certo, la caporedattrice amava rendere noto il contrario con
tutta sé stessa -soprattutto parlando di lui-, ma in fondo lei amava il suo
lavoro più di qualunque altro professionista competente in tutta Londra.
In quel momento, con
una valigia di pelle chiara sbatacchiata dall’Inghilterra alla Scozia -con un
entusiasmo sinceramente inesistente- nelle mani, il suo mestiere sembrava il più
dannato e il più maledetto nell’intero panorama dei mestieri dannati e
maledetti.
Era quasi sicuro che
sarebbe stato in grado di sognare quell’arpia del suo capo in posizioni
equivoche quella notte, solo per nostalgia della sua città. Odiava la Scozia, odiava il ricordo dei suoi rubicondi zii scozzesi con i loro fottuti gonnellini a
scacchi rossi e verdi, odiava essere mandato fuori dal paese per un’indagine
che probabilmente non avrebbe portato nessun lustro né alla sua carriera, né a
quella del suo capo, né a al giornale.
Che bisogno c’era di
mandarlo a cercare a tutti i costi un altro Jack lo squartatore fuori
dall’Inghilterra?
Aveva pestato i piedi
sulla sua immaginaria linea di confine con tutto il suo disappunto, e non era
servito a niente.
Resembool, piccolo
paesino di mare poco lontano da Glasgow e lontanissimo dalle tentazioni, dalle
scostumate belle donne, dai bordelli, dalle bettole piene di alcool,
dall’oppio, e dal divino piacere, si appropinquava a lui come una condanna ad
impiccagione.
Immaginò un cappio ben
resistente, con il suo collo che ci passava attraverso.
Dette uno sguardo alle
basse case di legno, quasi livide e tristi, battute dal vento freddo che
proveniva dal mare. Tutte allineate, rivolte verso la costa dove le barche per
la pesca sembravano soldati in prima linea di un battaglione in guerra,
chinavano i tetti spioventi come teste di codardi davanti al cielo che
minacciava tempesta per la notte. Tra la prima fila di basse casette e quella
che stava più in alto, a ridosso del pendio, scorreva una stradina che, volendo
fare un paragone, stava a quel posto come Oxford street* stava a Londra. Era
stato giorno di mercato, e i banchi di pesce argenteo e ghiacciato che la
costeggiavano- fin dove lo sguardo non incontrava il limite sinistro della baia
nella quale il villaggio era infossato-, erano accalcati solo dai marinai che
si accingevano a portar via la merce invenduta.
C’erano fin troppe
persone a cui chiedere, ma ebbe l’impressione di essere finito in mezzo ad un
orda di spettri, pronti a scomparire ancor prima che avesse potuto aprir bocca.
In realtà qualunque
essere umano sano di mente avrebbe riso a crepa pelle sentendosi rivolgere la
domanda che Roy aveva attenzione di rivolgere loro. Figuriamoci, erano solo
storielle da romanzo gotico, romantiche fantasie che non avrebbero potuto
riempire un trafiletto di sesta pagina, nemmeno con tutta la faccia tosta e
l’abilità di romanziere che un mediocre giornalista poteva tirar fuori.
Doveva chiamare Olivia.
Doveva rassicurarla sul fatto che fosse arrivato sano e salvo a destinazione
–senza perder tempo a correre dietro a qualche gonnella-: anche se non
l’avrebbe dato a vedere nemmeno fosse stata la Regina stessa ad imporle di farlo, sapeva che era preoccupata per lui –e per il suo ricordo
poco felice degli zii scozzesi-. Si fermò davanti il banco di un’anziana
signora con un telo di lana bianca a fasciarle la testa ed evidenti cataratte
sugli occhi vuoti, spenti, inquietanti, e le rivolse un sorriso malfermo.
“Mi scusi, vorrei un informazione:
sa dirmi dove posso trovare un telefono?” non dette segno di aver notato la sua
presenza, e continuò a fissare il manico di una chiave inglese con attenzione,
senza rispondere. Il suo banco era pieno di oggetti simili, di ferro più o meno
arrugginito. Sotto la lana, l’ovale del viso rugoso spiccava appena,
pallidissimo e tetro come il suo atteggiamento noncurante di ogni cosa la
circondasse.
“Mi scusi, sa dirmi
dove posso trovare un telefono?!” alzò la voce, inutilmente.
Se le reazioni erano
quelle davanti ad una domanda così semplice, non immaginava come avrebbero
potuto reagire alle altre.
“DOVE POSSO TROVARE UN
TELEFONO?!” urlò, e la donna si voltò verso di lui come fosse stata investita
da una folata di vento che veniva dalla sua parte. Sgranò le perle che pareva
avere incastonate nelle orbite, scuotendo la testa, prima di aprire finalmente
bocca.
“Cosa ci fai qui,
giovanotto?” Voleva solo mettere le mani su un fottuto telefono per cinque
fottuti minuti, era chiedere troppo?! Ripeté la domanda, sperando di ottenere
una risposta utile, prima di finire a sbraitare contro una vecchietta più morta
che viva. Finalmente, mostrandogli l’ugola rinsecchita attraverso la bocca
spalancata, sembrò prendere atto della sua richiesta.
“In casa mia” disse con
voce ferma, estraendo una pipa allungata dalla tasca del grembiule.
“Potrei utilizzarlo?”
per la prima volta la donna sembrò accorgersi per davvero di lui, alzandosi
senza dire nulla.
Ringraziò spazientito,
togliendosi il cappello e seguendola. Altri passanti lo fissarono impunemente,
mentre camminava in mezzo alle persone che parevano levitare sopra il terreno.
Avevano distolto lo sguardo dal vuoto dell’aria gelida e turbinante solo per
osservare lui, e lo strano fenomeno che rappresentava.
Il sole era tramontato.
***
“Hai fame, Alphonse?”
Osservando il collo
bianco flesso all’indietro sullo schienale della poltrona, in una posizione
scomposta e lasciva, il concetto di sacrificio si esprimesse alla sua mente in
tutta la sua sacralità. Ogni suo gesto era lento, evidente, sincero ed era
sempre fin troppo semplice rintracciarne le motivazioni. Giaceva lì, ridendo di
tanto in tanto sommessamente, vagava piroettando per la stanza con la giacca un
po’ calata sulle spalle, lo chiamava, attendeva la domanda che – lo sapeva-
sarebbe inevitabilmente giunta. Alla luce della luna capiva subito quando
sorridergli e porgergli la mano, quando invitarlo a ballare per passare il
tempo che lui non percepiva più. Comprendeva quanto c’era rimasto di ragione e d’oblio
nella sua testa ciondolante.
“Tu non hai fame, Nii
san?” racchiuso negli abiti neri da funerale, col viso celato per metà
dall’ombra di un drappo di velluto rosso che dal soffitto scivolava sulla nuda
gamba destra, sembrava una bambola di porcellana le cui giunture erano ormai
usurate.
“Ho già mangiato”
disse, e quella volta, tra le tante, non era vero.
Lui sorrise, come lo
faceva ogni secondo, divaricando le gambe e sfregandosi sul suo giaciglio, la
testa che spariva alla sua vista ed il suo collo che tornava a tormentarlo.
Decise di lasciarlo struggersi un poco, soffrire la fame che soffriva lui, con
la risata folle che lo aiutava a sopportare qualunque cosa. Senza la luce della
luna, gli arti non coperti dalla funerea seta nera del suo completo nero si
protendevano verso di lui involontariamente, in cerca di un contatto che gli
concedeva solo quando ogni cosa diveniva tenebra, e lui si rendeva conto di
avere fame.
Molta più fame di
quanta il suo Nii san avrebbe mai potuto placare con le sue arance dal succo
rossissimo.
“Ho fame… voglio un
arancia, nii san! Dammi un arancia!” pigolò, mentre la luna veniva soffocata
dai lampi di tempesta, dalla tempra più forte. Improvvisamente Edward non
riuscì ad accettarlo. Ignorò l’accenno di lacrime sui suoi occhi, con una mano
sul papillon che non si curava più di raddrizzare sul collo da tempo. Molto più
tempo di quanto sarebbe riuscito a ricordare, provandoci.
“È una menzogna”,
sussurrò. Non avrebbe piovuto, ed Alphonse avrebbe smesso di piangere con un
sorriso bianco ed una richiesta di ballare il valzer. Alphonse lo guardò, come
non lo guardava da anni, probabilmente. Neanche la luna, di nuovo libera,
attenuò la sua impressione che stesse per comprendere cos’è che non andava
aldilà della sua arrendevolezza, aldilà delle scorze rosse sul pavimento di
marmo regale.
“Non è d’arance che hai
fame”
C’era qualcosa, una
vibrazione diversa nello scorrere dei secondi nei minuti, dei minuti nelle ore,
delle ore nelle notti.
“Mi annoio” -il tuo sacrificio m’annoia, la pena che ho per te
m’annoia, la mia noia mi terrorizza e l’amore che provo per te lo fa anche di
più-.
“Non lo fare”, si voltò
verso di lui, mentre la luce lo inondava e la minaccia di tempesta si rilevava
per ciò che era. Una menzogna. Come i suoi desideri e come l’illusione di
contentezza che la follia aveva provveduto a costruirgli addosso. Non sapeva
cosa lo avesse spinto a decretarlo, e sperava fosse per il fatto che la loro
soluzione era giunta in città. Profumata, ubriacante, affascinante, perfetta
soluzione al suo rifiuto.
“Non voglio”
“Forse hai solo bisogno
di qualcosa che ti stuzzichi l’appetito” sorrise. Il cielo notturno tornava
sereno.
Osservò la linea della
costa con improvviso interesse, passando la lingua arrossata di succo d’arancia
sulle labbra turgide.
-Di qualcuno che ti
stuzzichi l’appetito-.
***
Lady Pinako Rockbell
gli dava una strana sensazione di deja vu, anche se non aveva l’aspetto di una
persona minacciosa nel senso che lui intendeva. Era piccola, a tratti minuscola
se la si guardava da seduta, con un paio d’occhialetti che le rimpicciolivano
gli occhi ed un codino di capelli grigi simile al picciolo di una rapa. Ma
sapeva molte delle cose che Roy voleva sapere, ed aveva la capacità di farle
sembrare vere e più inquietanti del dovuto.
Roy Mustang aveva
ancora vergogna della storia che sarebbe andato a ricamare, non lo negava, ma
mentre osservava la zuppa tanto gentilmente offertagli pensò che sarebbe
bastato renderla verosimile.
“Me lo sarei dovuta
aspettare”
“Che cosa?” era stupito.
Pensava che non gli avrebbe rivolto la parola, che la sua espressione
diffidente sarebbe bastata a farlo desistere. Dalla credenza a qualche metro
dalla tavola, imprigionata nella carta di una fotografia, una ragazza dai
lunghi capelli biondi, di non più di vent’anni, gli sorrideva abbracciando un
grosso cane. Era l’unico oggetto nella camera che non fosse un martello od una
scatola di chiodi. La fissò per qualche secondo.
“Che qualcuno del mondo
là fuori sarebbe arrivato, prima o poi”
Era un villaggio di
fantasmi malinconici, rarefatti e rassegnati al loro legame col mare e con una
lisca di pesce. L’immagine gli tornò alla mente, calzando a pennello con quella
definizione del mondo da cui proveniva. “Quanti sono i morti?”
L’anziana donna aveva
saputo sin dall’inizio dov’è che voleva giungere, e stette in silenzio per
qualche tempo, ponderando su fantasie di cui aveva subito il lato reale. Era
ancora abbastanza attaccata alla terra per dispiacersene e cercare vendetta. La
luce del camino rendeva il suo viso meno spettrale. “Non mi fido di voi”
“Lo immaginavo”
“E nemmeno voi di me,
suppongo”
“Il mestiere che svolgo
rende il mio atteggiamento ambivalente, Milady” disse, indossando la sua
maschera di candido ammaliatore. Doveva riporre la sua fiducia in chi poteva
ricambiare lasciandogli tra le mani vitali segreti, sussurri e tracce su una
mappa da disegnare. Allo stesso tempo doveva fare in modo che i gentiluomini e
le gentildonne avessero fiducia in lui, o che perlomeno lo ritenessero tanto
insignificante da pensare che, parlare o meno con lui, fosse irrilevante.
Nessuna di quelle condizioni si era verificata, tra di loro.
“Èqui per gli Elric?”
era una domanda, ma era abbastanza sicura della risposta che avrebbe ricevuto da
non infondervi un tono interrogativo.
“Allora ci sono già dei
sospetti”
“Fesserie”
“Perché avete parlato
di questi Elric, allora?”
“Pensavo foste in cerca
di fesserie anche voi. Non troverete altro, signore”
Mentre la luce della
luna rendeva più chiari i lineamenti del suo volto allungato, Roy pensò che non
fosse il caso di trattarla come qualunque altra donna –o uomo, se è per
questo-. Si rimise nelle sue mani, sorridendo, come avesse un potere oltre
quello conferitole da ciò che sapeva.
Annuì quasi meccanicamente.
Era esattamente ciò che aveva pensato, ma quelle fesserie si adattavano a lui
e le meritava perfettamente, anche senza i fumi dell’oppio nella testa o
senz’avere quest’ultima infilata sotto le vesti di una gentile donzella.
Sorrise, annuendo quasi soddisfatto.
“Cinquanta vittime, tra
abitanti del villaggio e commercianti in transito, da un anno a questa parte.
Tutte completamente private del loro…”
“… sangue” lo disse
soprappensiero, mentre lo diceva lui, creando un’eco che fece tremolare la fiamma
della candela che stava sul tavolo. Nel gioco di luce e ombra, il suo sorriso
non parve credibile. Tutte quelle dannate storie venivano fuori proprio quando
denti aguzzi e creature succhia sangue, nel frattempo, si pavoneggiavano sulle
pagine di romanzi da due soldi. Avevano incominciato a farlo, da due anni a
quella parte, con una presunzione discutibile. “Vi offendo se confermo che mi
sembrano fesserie?”
“È solo ciò che molti
qui intorno hanno visto. Ma del resto voi del mondo là fuori ritenete che
troppe cose siano fesserie”
Abbassò il capo,
cercando di nascondersi da lei per qualche attimo. “La carta stampata c’ha
rivelato troppo, forse? Non saprei, Milady. Sono qui per scoprirlo, non anelo
altro” con un gesto di biasimo appena accennato parve voler liquidare la
faccenda, con un po’ di quell’omertà degli spettri immorali, che non hanno
nulla da perdere a lasciare che gli uomini si dannino per il loro divertimento.
“Avrei molta più
facilità a crederlo, è solo che non lo desidero. Non voglio credere che loro
siano…”
“… vampiri” lo disse
con la noia nel tono di voce. Sgranando le minuscole iridi si ritrasse di
scatto, trotterellando giù dalla sedia e fuori dalla casa prima che avesse
potuto pentirsi della sua fretta. Aveva dimenticato che, superstizioni o no,
delle persone c’avevano lasciato le penne nella stessa razionale realtà che lui
riconosceva. La luna fuori era piena come un occhio pieno di terrore. Il cielo
e il mare erano uniti dallo stesso colore nero, impenetrabili se non dalla luce
della luna.
“Potrei dissipare tutte
le vostre paure, se me lo permetteste” Fece per voltarsi verso di lui, ma il
suo sguardo l’oltrepassava: su uno sperone di roccia, che pendeva sulle loro
teste come la lama di una ghigliottina, stava una costruzione che sì stupì di
non aver notato prima.
“La residenza degli
Elric” Spiegò Lady Rockbell, con voce atona. Era comparsa insieme alla notte,
non c’erano altre spiegazioni. Non si poteva dire se quella figura fosse
davvero nera, o se fossero state le tenebre a farne una sagoma indistinta, la
cui coppia di torri parevano il profilo di un paio di rachitiche braccia. Un
castello costruito nello stile dei peggiori romanzi dell’orrore. “Mio dio,
tutto ciò è troppo divertente”
“Non mi siete
simpatico, signore”
“Non so perché l’avevo
intuito”
Roy sorrise ancora,
alla vista, come avrebbe potuto fare davanti ad una bella donna.
“La popolazione del
villaggio si è dimezzata da quando gli ultimi due rampolli della famiglia Elric
sono tornati alla loro residenza estiva. E non parlo solo di morti. La mia
unica nipote è scomparsa nel nulla qualche mese fa, perciò potete ridere
,dall’alto della vostra raziocinante intelligenza inglese, di questa storia da
superstizione. Ma fatelo quando non posso vedervi”
Neanche allora riuscì a
prenderla sul serio, e le rivolse un espressione quanto più possibile incolore.
Dentro di sé non vedeva l’ora di scovare quel pazzo e sbatterne la foto sulla
prima pagina del suo giornale, con una spiegazione scientifica e tangibile.
Niente trucchi da circo
o castelli infestati.
“Parlatemi di questi
Elric vi prego, Milady. Immagino di non potermi recare da loro l’indomani
mattina, ho bisogno di tenermi occupato.
Suvvia, parlatemene!”
***
“TU! BRUTTO IDIOTA!”
tuonò la cornetta del telefono.
Roy cominciava a temere
di avere una malaugurata sfortuna con le donne: o gli urlavano contro, o si
rifiutavano di parlargli.
Anche se Olivia Milla
Armstrong aveva perso da tempo quella caratteristica che la gente comune chiama
femminilità, consacrando la sua vita alla politica del terrore –specie se
applicata su di lui-. Giusto qualche volta poteva essergli sembrato che il suo
modo di terrorizzarlo fosse in qualche modo femminile, ma probabilmente era
solo un’ impressione -messagli in testa dal dondolare dei suoi seni o cose
simili, magari-.
“Se stai pensando
quello che pensi di solito –ed io so che tu lo pensi- sappi che, ora, è
alquanto ridicolo pensarlo”
“Vuoi dirmi che non hai
trascurato il tuo lavoro per correre dietro a qualche gonnella nemmeno per un
attimo?”
“Se ne avessi trovate
di appetibili…”
“MUSTANG!”
“Ho notizie,
My Fair Lady!”
Olivia odiava che la
chiamasse a quel modo, ma soprattutto odiava il fatto che avesse il coraggio di
farlo quando lo aveva mandato in un paesino sperduto ad occuparsi di qualche
bega da superstizione paesana, solo per toglierselo di torno.
“Se mi chiami ancora
così ti spezzo un braccio. Non chiedermi come, ma sai meglio di me che ho i
miei mezzi!”
“Ne sono cosciente. Ma
so riconoscere quando c’è un bella messinscena da smascherare, e stavolta non
so dire se il nostro uomo sia davvero più incline all’omicidio che all’inganno”
Olivia sapeva che era vero, che –quasi- ogni cosa che diceva era del tutto
attendibile, ma non seppe trattenersi dal dubitarne un poco. Era pur sempre il
migliore elemento della sua redazione, pur con tutte le sue dannate ossessioni
nichiliste, e per questo andava tenuto sotto controllo. Acconsentì con un
grugnito a farlo continuare.
“La serie di omicidi e
sparizioni sembra sia iniziata in concomitanza col ritorno di due giovani conti
‘in città’. Poco più che ragazzini. La loro famiglia possiede la residenza che
domina la baia fin da quando fu costruito, si dice, e, ad intervalli che vanno
da cinque a dieci anni, tornano ad alloggiarvi per qualche tempo. Esattamente
dieci anni fa, quando avevano rispettivamente sette e nove anni, i due fratelli
passarono un soggiorno di qualche mese qui con i loro genitori. Ne sono sicuro
perché un anziana signora mi ha raccontato che sua nipote, della stessa età del
fratello maggiore, aveva stretto con loro all’epoca una fortunata amicizia.
Almeno fin quando non se ne sono andati, e sono tornati poi con l’acquisito
‘savoir faire’ del nobile: troppo superbi per curarsi di lei. Per quanto abbia
provato ad incontrarli i domestici le sbattevano sempre la porta in faccia. Ed
ora è scomparsa nel nulla”
“Ma come avrebbero
potuto due ragazzini uccidere in quel modo?” sbottò Olivia grattandosi la
testa.
“Si tratta di un lavoro
da professionisti: litri e litri di sangue tirati via dalle vene lasciando
solamente due piccole punture, senza versarne una goccia e senza infliggere
nessun’altra ferita. Sia che abbiano tramortito le vittime e che le abbiano poi
dissanguate da un'altra parte, sia che abbiano raccolto il sangue in un contenitore,
la cosa risulta infattibile senza che nessuno se ne accorgesse”
Doveva trattarsi quindi
di un medico. Aveva già fatto un ragionamento simile, ed il risultato era stato
lo stesso.
“Forse lasciano
l’incarico a qualche servitore” azzardò quindi Roy.
“Possibile”
“Credi davvero che le
due cose siano correlate?”
Ricordò il profilo
della residenza, e riuscì ad immaginare una farsa tanto ben architettata da far
ridere ed inorridire allo stesso tempo: un castello infestato, due giovani
conti dalla vita solitaria su cui, imbastire una montatura di follia e
decadenza, sarebbe stato fin troppo semplice.
“Tutto combacia” disse
al termine della sua catena di pensieri.
“Cosa ti aspettavi? I
grandi assassini sono fuori dalla nostra portata attualmente, e comunque sai
quanto poco m’interessino. Il mondo è un alcova di pazzi, ormai, non capisco
cosa ci sia da farsi uscire le pupille dalle orbite ogni volta”
“Grazie mille per la
tua considerazione per me, allora. Farò quel che potrò. E grazie anche per
avermi ricordato perché questo mondo fa tanto per me”
Protese le labbra verso
la cornetta. Lo schiocco rese il tono di voce di Olivia più sbrigativo.
“Prego, idiota.
Smettila di fare l’idiota, idiota, e fai un buon lavoro… nei limiti del
possibile. Ah, e lascia perdere quel fottuto libro!”
Era forse il terzo
telefono che rompeva quella settimana… forse.
*Nii san= fratellone,
fratello maggiore. Scusate, so che essendo in Inghilterra non dovrebbero parlare
giapponese, ma “fratellone” e “fratellino” mi suonano veramente male in bocca a
loro xD
*Oxford street è, ai
nostri giorni, la strada dello shopping di Londra. Non so se esistesse già nel
1900 e se avesse già questa fama, ma passatemi il paragone per piacere xD
*Otouto= fratellino,
fratello minore.
NOTE FINALI!
Bene, stavolta sto avendo
un inflazione di terzi posti xD quando arriverà quella dei primi? Credo mai.
Comunque la prima
condizione necessaria affinché io scriva il seguito s’è verificata: sul podio
ci sono arrivata! Non mi rimane da vedere se questa fic piacerà o no a voi del
pubblico. Tutto sommato mi è andata bene, per il momento. La fic sarà formata
da quattro capitoli e posterò ogni sabato.
<< La donna era immersa in suo sonno
di vampiro, così piena di vita e bellezza voluttuosa che io ho tremato, come se
stavo per commettere un assassinio.
Ah, non ho dubbio che, in tempi antichi,
quando queste cose accadevano, più di un uomo con mio stesso compito poteva
scoprire in ultimo che coraggio aveva abbandonato lui e che i suoi nervi
avevano ceduto. Così esitava, esitava e ancora esitava, finché la bellezza e
il fascino della lasciva non- morta ipnotizzava lui.
E restava là fermo fino a
tramonto, quando Vampiro si risvegliava. Allora, i begli occhi della donna si
aprivano con uno sguardo pieno d’amore, e la sua bocca voluttuosa si apriva al
bacio – e uomo è debole. E un'altra vittima restava tra grinfie di vampiro; uno
in più per ingrossare le tetre e spaventose truppe di non morti!>>*
Lascia perdere quel
libro, aveva detto, col tono con cui s’intima ad un bambino testardo di metter
giù le mani da un giocattolo sporco.
Ma lo svolgimento dei
fatti era stato fino ad allora divertente e semplicistico: lui era il bene e
quei ragazzini nobili il male, il male che non poteva sfuggire al potere della
sua penna dispensatrice di verità.
Non poteva sperare, di
trovarsi in una situazione di quel genere? Ridicolaggine per ridicolaggine.
Quel castello poteva
benissimo esser saltato fuori dalle pagine del libro che aveva in mano
–‘Dracula’ di Bram Stoker-, il mondo poteva esser divenuto tutt’ad un tratto o
tutto bianco o tutto nero… e dubitava di entrambe queste considerazioni.
Certamente, davanti
alle tre avvenenti mogli del Conte Dracula, avrebbe avuto un atteggiamento
diverso da quello dell’assennato avvocato Jonathan Harker o da quello del
virtuoso Dottor Van Helsing. Non le avrebbe uccise, né ignorate, né tanto meno
temute: sarebbe stato uno dei tanti poveri uomini descritti in modo
sgrammaticato dall’esimio professore olandese.
Non gl’importava di
quell’alcova di pazzi in cui viveva, né del motivo di quella pazzia. Amava le
cose semplicistiche e divertenti.
Bussò alla maestosa
porta, con un sorriso a divaricargli la testa in modo artificioso. Tutta la
costruzione si stagliava nella notte buia con i bastioni protesi, come un’ombra
acquattata o come uno spettro evanescente i cui contorni erano stati erosi
dalla morte e dal tempo. Più attendeva che le porte gli venissero aperte, più
ogni cosa perdeva di verosimiglianza ed una risata gli montava alla gola.
Le porte si aprirono
lasciando uno spiraglio da cui uscì solo una voce maschile. “Chi siete?”
“Roy Mustang, inviato
del Central Journal di Londra” Senza poter vedere chi gli stava parlando la
conversazione era impossibile, ed il trattamento era quanto meno irrispettoso
-era quanto ci si poteva aspettare in una casa mandata avanti da due mocciosi-.
Il fatto che non gliene importasse nulla indicava che era adatto a quel
mestiere più di quanto pensava, ma questo lo sapeva già.
L’uomo che vide
attraverso la porta aveva il volto illuminato dal basso dalla luce della
candela che aveva in mano, non riusciva a distinguerne nulla a parte le sbarre
degli zigomi perfettamente paralleli che delimitavano gli occhi che, per il
resto, parevano sospesi nel vuoto.
“Cosa volete?”
“Conferire con i
Signorini Elric, se m’è concesso”
“Per quale ragione?”
“Non potrò venirne a
parte io stesso, finché lo scambio non sarà avvenuto” Ciò che vedeva del suo
interlocutore bastava a dargli un’impressione d’incorruttibilità. Le sue parole
non l’avevano confuso. “Dovreste averne un’idea seppur minima”
“Vi basti sapere che
nulla nella mia persona può arrecarvi danno. La notte è nera ed affamata, ed io
non so dove andare”
La fiammella tremolò
per un istante prima che la porta si aprisse su una tonalità di nero
altrettanto notturna. L’uomo che si offrì di fargli strada aveva la pelle
olivastra e gli zigomi squadrati -come quelli che aveva intravisto poco prima-.
Gli occhi di un singolare color scarlatto erano infossati, vitrei ed
indifferenti al tal punto da dare l’impressione che fossero stati a malapena
adagiati nelle orbite. A giudicare dal frac doveva essere il maggiordomo.
“Dovreste essere
qualcosa evidentemente non siete, per arrecare danno al mio padrone” Disse,
accendendo una grossa torcia sulla parete, rendendo visibile il pavimento di
pietra levigata.
“Grazie della considerazione”
rise.
Senza più rivolgergli
la parola l’uomo accese cinque torce su ciascun lato della sala, illuminandola
a giorno. Un imponente scalinata conduceva ai piani superiori, con i pomi di
legno smaltati che riflettevano la luce in profondità. Estrasse una delle
torce, facendogli cenno di seguirlo sopra le ampie scale bianche, almeno due
metri più in alto da dove si trovavano. La distanza gli parve raddoppiata a
causa dell’insistente, compassionevole sguardo di una Madonna: dalla cima delle
scale i suoi piatti occhi sembravano volerlo squadrare dall’alto in basso,
rifiutandogli una benedizione.
Il maggiordomo la
oltrepassò come si aspettasse da lei lo stesso trattamento, senza guardarla e
senza pretendere null’altro, dirigendosi verso altre scale. Ne superarono due
prima di giungere in un salotto con due sedie di velluto rosso e un caminetto
acceso, -ogni altra cosa era invisibile, nel qual caso ci fosse stato
qualcos’altro-.
“Attendete qui”
“Perché mi avete fatto
entrare?” tutto quel buio gli stava facendo perdere la pazienza.
La prima espressione
che vide sul suo volto fu d’irritazione e biasimo, tirata e corrucciata sui
lineamenti già marcati.
“Sono in grado di dire
cosa non siete, ma non so dire chi siete. Ciò vale anche per il mio padrone, ed
è quel che non conosce che lui al momento sta cercando”
“Credo sia reciproco”
Sorrise, per l’accordo delle loro opinioni. Ma l’uomo non rispose, scomparendo
con un inchino nervoso.
Si sedette, guardando
i particolari della stanza attraverso la poca luce che ne lasciava nascosti gli
angoli.
Dovendo immaginarsi in
che modo il vampiro si sarebbe presentato, lo vide uscire da uno di quelle
nicchie di tenebre, con la carnagione di un bianco lucente, un ghigno di
superiorità sul volto e la presunzione di spaventarlo. Stranamente il fuoco nel
camino, invece di farsi meno lucente, estese sempre di più la propria aura
sulla stanza. Un orologio a cucù, un mobile d’antiquariato di legno verniciato,
una armadietto per gli alcolici , una spazzola col manico d’avorio, una
statuetta di marmo in stile classico raffigurante una donna –immersa in un
utopia di felicità e sensualità, come qualunque altro soggetto di quel tipo-,
una tetra atmosfera medievale. Era quanto ci si poteva aspettare in un stanza
fatta arredare da due mocciosi: non c’era epoca, non c’era stile, non c’era
attenzione.
Si alzò dal divano e
prese la spazzola, analizzandola. Tra le setole c’erano lunghi capelli castani,
intrecciati in un viluppo. Erano troppo lunghi per essere di uno dei due conti,
e la spazzola era troppo bella per poter essere usata da una qualunque serva
del maniero. Pensieroso continuò a girarsela tra le mani, come se fosse stato
fondamentale ai suoi scopi conoscere la proprietaria di quell’oggetto… non
poteva esserne sicuro.
Per un attimo gli occhi
della Madonna del quadro lo fulminarono, costringendolo a schiarirsi la vista.
“È una copia della ‘Madonna dell’umiltà’, di Masolino da Panicale”
Voltandosi lo vide,
seduto sulla poltrona di velluto rosso. Un ragazzo dai lunghi capelli biondi
legati con un nastro nero, il viso da fanciulla, un’anomala espressione di
disinteresse. L’osservava con le gambe accavallate e le mani unite in grembo.
La luce aranciata del fuoco contribuiva poco a diminuire il contrasto dei
vestiti neri e merlettati con l’incarnato, rendendolo una figura evanescente.
Non verosimile, come qualunque altra cosa avesse visto fino a quel momento. Non
rispose, sedendosi davanti a lui.
“Devo aver parlato ad
alta voce”
“Evidentemente”
“Era veramente
squisita” Odiava parlare in quel modo. Odiava rivolgersi ad un nobile ed usare
il linguaggio richiesto per farlo, ma non era il caso d’inimicarsi il suo
padrone di casa. Sottolineò la frase con un sorriso, ritenendolo troppo giovane
per non trovarlo irritante.
“Il suo stesso creatore
la bollò come un abominio. Non dovreste neanche averla vista”
“Non merita di essere
celata agli uomini degli esseri umani, tutt’altro”
“Cosa volete?” Tagliò
corto, come se il discorso lo stesse innervosendo.
“Brusco il servo,
brusco il padrone”
“Scar fa solo quello
che io voglio, anche se non glielo ordino…” disse, assestando il capo sul palmo
della mano. Il gomito poggiava sul bracciolo del divano, e la sua posizione si
era fatta più sconveniente di quanto avesse notato all’inizio. “… ma sono
costretto a rinnovarvi la domanda”
“Provate ad indovinare”
“Omicidi e sparizioni?”
“Perspicace” Il giovane
Conte sorrise, stirando i suoi lineamenti prima contratti e dilatando e le
iridi simili a pozze d’acqua. Ma non era un’espressione benevola, tutt’altro:
sembrava aver capito il meccanismo di qualcosa che, fino a quel momento, non
era riuscito a capire. Era una sfida che, proprio come Roy, non voleva perdere.
“Presumo sia stata Lady
Rockbell ad indirizzarvi qui da me”
“Sua nipote, la
signorina Winry, è scomparsa qualche mese fa. La conoscevate?”
“Eravamo amici
d’infanzia”
“L’avete incontrata
recentemente?” Il Conte inclinò la testa e sollevò il mento, in modo da mettere
in mostra il suo collo da cigno, elegante ed inadatto per un uomo di
qualsivoglia ceto sociale. Tutti quei particolari catalizzavano la sua
attenzione senza motivo, distogliendolo dal monito di condurre accuratamente la
conversazione. Ma l’altro non rispose per qualche lungo secondo.
“Non la vedo da
diciannove anni, se non erro” Inaspettatamente sapeva che non si sarebbe
contraddetto, perché sembrava avere degli ottimi motivi per non farlo. La
rigidità delle spalle suggeriva testardaggine, come volesse sconfiggerlo e
fargli capire che, contro di lui, non avrebbe vinto mai. L’osservazione di lui
era un operazione ingrata, che lo stava confondendo nonostante non avesse
saputo cosa dire fin dall’inizio.
Non poteva accusarlo
apertamente d’omicidio, d’altronde. “È venuta a suonare alla vostra porta
qualche settimana prima della scomparsa, n’est pas?”
Davanti al tono
francese e all’espressione ammiccante, il Conte irrigidì il profilo delle
labbra, sprezzante.
“Dove volete arrivare?”
“Dove, secondo voi?” Il
Conte sospirò, smise di guardarlo negli occhi per educazione, scoppiando poi a
ridere. Senza considerare il volto che Roy stentava a mantenere serafico si
alzò, dirigendosi verso l’armadietto dal quale estrasse una bottiglia di
brandy. Gliela porse senza nemmeno versare la bevanda in un bicchiere,
posandola sul tavolino con un tonfo, mentre la strana allegria che l’aveva
invaso gl’ illuminava la faccia da schiaffi.
“Io lo so” Disse,
risedendosi e accavallando la gamba destra sulla sinistra.
“Cosa sapete?”
“Dove volete arrivare”
Era un bambino, e non sapeva come trattarci. Grattandosi la testa non dette
segno d’aver capito.
“Pensate sia stato io,
o la mia famiglia” Nella stessa posizione di prima, poco signorile, mosse una
delle gambe magre per indicarlo. O non lo riteneva degno di alcuna cortesia, o
voleva proporgli qualche affare o malaffare che sapeva non avrebbe rifiutato.
Confidò nella seconda possibilità, e ricambiò il suo sorriso. “Non sono il solo
a pensarlo”
“Lady Pinako mi
conosce. Mi provoca dolore pensare che abbia così poca fiducia in me,
nonostante questo”
“Questo è ciò che i
fatti le hanno suggerito”
“E ciò che hanno
suggerito a voi”
“Esattamente”
Il Conte fissò la
bottiglia che aveva offerto, come soprapensiero. Irritato dal silenzio -e dalla
vista dei fianchi affusolati da cui le gambe s’irradiavano, piccole e nervose-,
la prese, la stappò, e ne bevve un lungo sorso. Qualche goccia gl’inumidì il
collo, e trovò il gesto più piacevole del bere in un bicchiere. L’altro lo
stava aspettando, con la bocca infantile aperta. Poi parlò.
“Vi voglio aiutare a
risolvere la questione, perché non sopporto questi sospetti. Vogliate rimanere
qui questa notte, e collaboreremo”
Annuì, con in testa il
ricordo di giovani avvocati in manieri bui e solitari, ospiti di ricchi ed
eccentrici uomini anziani con i denti troppo aguzzi ed un irritante accento
dell’est*. Quel ragazzo era giovane, ben poco nobile pur abitando in un
castello ed indossando bei vestiti, impudente e detestabile per la presunzione
che il suo piccolo corpo infantile emanava. E lui non era un avvocato.
Annuì senza pensarci.
Gli porse la mano.
“Edward Elric”
“Roy Mustang” La
strinse, ricambiando adeguatamente la forza della stretta. Se fosse stato solo
un ragazzo presuntuoso avrebbe potuto smettere di analizzarlo, perché non
sarebbe stato più un nemico di cui prevedere le mosse.
Sperò di avere presto
una prova certa della sua innocenza: non riusciva a negare attenzione a nulla
di quel presunto, giovane, arrogante assassino.
***
Alphonse detestava
risvegliarsi da solo, gli pareva di resuscitare dopo un periodo di morte
apparente.
Viveva nell’oscurità,
ma le tenebre che lo avvolgevano quando apriva gli occhi sul mondo dopo tanto
tempo erano le peggiori, e non sapeva mai come affrontarle se non c’era Edward
a stringergli una mano e a rassicurarlo del fatto che, alla fine, sarebbe
riuscito a vedere oltre. Qualunque fosse la cosa, la questione, o la persona
che l’avevano portato via da lui, già l’odiava. Nell’aria Edward aveva lasciato
una rassicurazione, con un sussurro, ma non bastava.
Stava giocando con una
scorza d’arancia, che fantasticava essere il responsabile dell’assenza di suo
fratello, quando quest’ultimo entrò correndo e saltellando con una smorfia
gioiosa e perversa sul volto. Raddrizzò il capo per guardarlo, ma non si
dimostrò felice.
“È arrivato, Alphonse,
è arrivato! Qualcuno del mondo di fuori è venuto ad aiutarci!”
“Dove sei stato, Nii
san?”
“È venuto, come
immaginavo! Lo sapevo fin dall’inizio che sarebbe venuto qui! Non poteva andare
altro che così!” Si sciolse i capelli, afferrò la spazzola in un cassetto di
cui non ricordava mai l’esistenza –era strano che riuscisse a ricordarlo
proprio allora-, li strigliò con una mano mentre si toglieva la giacca con
l’altra, rimanendo in camicia bianca. Il grande specchio, al quale stava
chiedendo un silenzioso parere, restituiva la sua figura esile mentre finiva
l’operazione, cingendo di nuovo i capelli con il nastro di seta nera. Venne
verso di lui, con l’intento di cambiargli i vestiti e pettinarlo, ma Alphonse
si ritrasse.
“Cosa c’è che non va,
otouto*?” Non era nelle sue intenzioni fare i capricci, né pretendere qualcosa
che Edward non avrebbe potuto dargli spontaneamente, ma l’aveva fatto prima di
poterci pensare. Lo voleva sempre con lui, ma comprendeva di non avere motivo
per stare sempre lì, al buio, senza desiderare di vedere null’altro che il
cielo stellato ed il viso di suo fratello. Era inevitabile che, di tanto in
tanto, Edward avesse bisogno di uscire da lì, vedere il sole, altri luoghi e
altre persone. Pur desiderando di essere con lui, Alphonse sapeva di non poter
andare oltre la soglia della porta senza perdere la capacità di camminare o
fare alcunché, ed in ogni caso le loro notti danzanti gli placavano l’anima per
qualche tempo.
Eppure, questo, il suo
corpo non l’aveva capito.
“Perché credi che
quell’uomo ci possa essere utile?”
“Viene
dall’Inghilterra! È un giornalista! Conosce il mondo, conosce la storia,
conosce l’animo umano! Abbiamo imparato così poco, negli ultimi dieci anni… lui
potrebbe farti uscire di qui, potrebbe farti amare di nuovo il mondo come una
persona viva!” Era euforico, e desiderava abbracciarlo, accostare le loro
labbra e ballare. Scosse la testa, rifiutandogli ognuna di queste cose.
“Ti piace così tanto
questa persona?” chiese quindi Alphonse.
“Oh, affatto…
decisamente lo detesto! È così spocchioso e arrogante! Avrei voluto uccidere
lui e la sua maledetta faccia di schiaffi per almeno tre quarti del tempo”
Gesticolò molto, per enfatizzare l’idea del suo astio, ma ciò non gli fece
tirare alcun sospiro di sollievo. Riuscì a parlare male di quell’uomo per poco
più di venti secondi appena, poi, insistendo per fargli cambiare la giacca,
sostituì l’animosità con un altro sorriso.
“Voglio che parli con
lui, al resto penserò io! Quel bastardo
lo diceva sempre, no? Quando perdi i contatti con il mondo devi sempre
ricucirli, prima che sia impossibile farlo… ricordi?” Scosse la testa, ma
Edward amava tanto parlare di quel famoso ‘bastardo’ da non preoccuparsi più se
Alphonse rispondeva, o se le sue ennesime ciance facevano parte d’un monologo
pietoso.
“Domani notte” Promise
quindi, sapendo che avrebbe detto la stessa cosa tutte le notti.
“D’accordo, sapevo che
ti ci sarebbe voluto del tempo. Gli ho chiesto molto gentilmente di aspettare mentre Scar
prepara la cena, ma avevo già intenzione di chiedergli di fermarsi qui per la
notte… anche se non so quanto lo farò dormire! Ho così tante cose che vorrei
sapere da lui!”
Si fece cambiare il
resto del vestiario senza protestare, anche se non c’era nessuno per cui
avrebbe voluto essere elegante. Edward sarebbe andato via da quel vuoto che non
sapevano riempire, se non con una musica fatta di silenzio. Alphonse approfittò
del tocco gelido delle sue mani mentre gli lisciavano la schiena ossuta, della
dolcezza delle sue cure e della transitoria possibilità di sfiorare il suo
corpo.
C’era qualcosa di
sbagliato in quello che provava facendolo: si aspettava un conforto che non
arrivava e veniva un dolore senza spiegazione.
Come ci fosse stato
qualcosa che non sapeva, qualcosa che gli mancava.
“Ti amo, Otouto”
Avrebbe voluto
crederci.
***
Edward Elric era la
curiosità fatta persona, una curiosità che non veniva soddisfatta da molto
tempo.
Il maggiordomo servì la
cena poco prima che il padrone di casa avanzasse all’interno dell’immensa sala
da pranzo illuminata da candele, con una camicia di seta bianca slacciata sul
collo -di cui non era riuscito a mettere a posto i polsini con i gemelli di
rubino-, una giacca a code sotto la quale, secondo la moda, avrebbe dovuto
porre un gilet. Ignorando la lunghezza spropositata del tavolo in stile
medioevale si diresse all’altro capo, sedendosi accanto a lui con una mano
sotto il mento.
“Come sta la ‘La libertà che illumina il mondo’*?” Chiese, senza né salutare né trattenersi dal
catapultarsi sulla sedia.
“Scusate?” strabuzzò
gli occhi.
“Quella strana statua
che i francesi regalarono agli americani per non so per quale motivo! L’ultima
volta che l’ho vista mi pareva che il viaggio l’avesse un po’ consumata, quindi
mi chiedevo se adesso fosse ancora integra” Aveva citato la Statua della libertà come fosse stata una sua vecchia conoscenza, ed aspettava che gliene
parlasse ciondolando il piede in maniera discreta ma infantile. Spiegò che era
stata posta su un isoletta a New York, e che era divenuta un monumento
caratteristico degli Stati Uniti, ma non soddisfatto Edward chiese cosa ne
pensasse in senso artistico. In seguito chiese del progresso di vari movimenti
pittorici, delle recenti pubblicazioni in fatto di romanzi, delle ultime
scoperte scientifiche, dei conflitti in corso e dei cambiamenti politici
dell’ultimo decennio. Chiese persino se, alla fine, fosse stato catturato o
meno Jack lo squartatore.
S’informò
sull’Esposizione universale del 1889, rammaricandosi per non aver potuto
assistere all’inaugurazione di quella che, seppe, era diventata la torre
principale, il simbolo, e l’orgoglio di Parigi. Parlarono dello stile di vita,
delle credenze e delle abitudini dei sudditi della Regina Vittoria, mentre Roy
beveva un tè dal colore scarlatto in una tazzina di porcellana. Sembrava fosse
vissuto fuori dal mondo per dieci anni, e che Roy rappresentasse il primo
appiglio che questo gli tendeva per riemergere da un isolamento che gli aveva
chiuso occhi e orecchie.
Quando la sua cena finì
si trovò talmente intontito dalla soddisfazione e dalla serenità che
aleggiavano sul suo viso che Roy non avrebbe mai detto che fosse o che fosse
stato un assassino, né allora né in seguito.
“Da quanto vivete in
questa villa?” il Conte si coprì il viso con un sorriso di circostanza.
“Un anno, più o meno.
Vivevo in Francia e ho deciso di tornare qui per nostalgia… amo Orange manor”
“Come l’avete
chiamata?” Improvvisamente si chiuse la bocca con una mano, come ritenesse di
aver parlato troppo. Aveva delle belle guance –anche se non aveva motivo per
averle notate… preferiva avere tutto sotto controllo-, ed abbassando il capo
la sfumatura che la luce vi formava fece del suo viso una maschera di tristezza.
Da un lato lo impietosì, dall’altro s’era aspettato di trovare in lui una zona
d’ombra.
“Mia madre chiamava
così questa villa”
“Come mai?”
“Aveva fatto portare
qui delle piante di arancia rossa, dalla Sicilia, ed era riuscita a farne
crescere qualcuna nel nostro giardino nonostante il clima inadatto. Fu un
miracolo, in verità. Si sono seccate da tempo, ma in ogni caso questa casa
porta ancora quel nome”
Avrebbe evitato di
parlare di sua madre, lo promise a sé stesso. Annuì.
Non aveva interesse
nell’addentrarsi in un'altra anima frantumata, i frammenti ti ferivano i piedi
nella maggior parte dei casi.
Soprattutto non aveva
importanza che l’avesse riconosciuto per quel che era, perché era un indizio
che avrebbe lasciato cadere.
Volse il capo
dall’altra parte. Andò dritto al punto. “In che modo intendete aiutarmi a
trovare l’assassino di quelle persone?”
A quella domanda la sua
espressione cambiò, irrigidendosi. Da bambino avido di sapere il Conte parve
trasformarsi in un perfetto gentiluomo, che soppesò quelle parole con apatia
prima di rispondere. “Ditemi voi, signore. Metterò a disposizione tutte le mie
risorse”
“Quanti uomini ci sono
nella vostra servitù?”
“Soltanto Scar, non
abbiamo mai avuto bisogno d’altri”
Odiando il tono
indispettito di quelle parole, Roy si passò una mano sui capelli per prendere
tempo. Edward non sopportava quei capelli, né la sua faccia che sembrava fatta
apposta per sfidarlo. Era stato così con tutti i suoi maestri, con tutti coloro
che, si presumeva, avrebbero dovuto sapere più di quanto sapeva lui. Era stato
così con lui.
Aveva giurato che non
avrebbe mai messo in atto nessuno dei suoi insegnamenti, né cercato aiuto.
Non sopportava le sue
insinuazioni, il suo modo d’indagare ogni suo atteggiamento con un dito sotto
la grossa mascella -l’indice a sfiorargli il collo lasciato visibile-, gli
occhi nerissimi ed inclinati verso il basso. Era bello, inglese e ciò che più
gli premeva al mondo era conoscere e far conoscere agli altri. Era l’uomo per
lui, ma allo stesso tempo odiava dover ammettere di aver bisogno di
chicchessia.
“E quali sarebbero
allora le risorse che dicevate di voler mettere a mia disposizione, se m’è
concesso saperlo?”
Edward ridacchiò,
districando le gambe. “Dipende da quante ve ne servono, ma io non sono certo il
Re”
“Volete appostarvi voi
stesso?”
“Non abbiamo bisogno di
una grande quantità di uomini. Il nostro uomo è intelligente ma abitudinario,
sapendo che il campo non è libero sicuramente attenderà fin quando non
crederemo che abbia gettato la spugna o che se ne sia andato altrove. È inutile
riempire i dintorni di guardie con lance e forconi, non faremmo altro che
perdere tempo… noi e lui”
“E cosa intendete fare,
allora?”
“Lady Pinako non vi ha
detto tutto, lo immaginavo” Tacque, sorridendogli in modo diverso. Quel bambino
saccente lo stava facendo impazzire, lui e i suoi misteri. “Cos’altro avrebbe
dovuto dirmi?” Chiese, volendo far credere che non gl’interessava.
“Nulla d’importante,
non vi preoccupate. È molto tardi, andate a dormire e domani in giornata ne
parleremo più dettagliatamente. Scar vi farà strada verso la vostra camera” Il
modo in cui aveva tagliato la loro conversazione aveva il sapore di scherno, e
di una certa sottovalutazione di lui. Annuì, senza perdere la certezza che, se
ce ne fosse stato bisogno, avrebbe saputo come cavarsela. La sua sicurezza
irritava il Conte in una maniera che non gli dispiaceva, perciò ammiccò verso
di lui mentre il maggiordomo lo conduceva verso la porta. Edward arrossì, in
piedi in mezzo alla sala come un minuscolo elfo in una landa solitaria.
Volevano parlarsi fino a non aver più voce… volevano farsi tacere l’un l’altro.
Pensando a lui Roy si
chiese com’è che il Conte sapesse così tanto dell’assassino che cercavano.
***
La sua stanza era così
ampia, barocca e presuntuosa che, se avesse potuto, Roy si sarebbe rifiutato di
dormirci.
Ogni angolo della villa
sembrava esser stato strappato da un'altra abitazione e trapiantato lì con
malgarbo. Il maggiordomo ne aveva aperto la porta con una chiave arrugginita,
ma il lussuosissimo letto a baldacchino con le pesanti tendine di velluto rosso
era stato appena sistemato per lui e reso impeccabile. Non ringraziò per
l’ospitalità né sì godé quello sfarzo, perché non era lì per questo. Dormì su
di un fianco tutta la notte, risvegliandosi dolorante proprio mentre una bella
donna dai lunghi capelli biondi, in corpetto e reggicalze e stesa sotto di lui,
si sollevava per avvicinare le labbra alle sue.
La luce aveva camminato
verso di lui, strisciando sotto la stoffa che copriva la finestra, fino a
posarsi sulla sua fronte. Era
sembrato che quella donna, accarezzandogli la fronte con una mano calda,
l’avesse fatto destare dal loro sogno. Sì era buttato giù dal letto,
rimettendosi giacca e pantaloni che aveva adagiato su una poltrona, decidendo
di andare a cercare il Conte.
Ogni singola finestra
della villa era coperta da una tenda, di modo che ogni stanza e corridoio
sembrassero inondati come di una luce lieve e soffocata che ne rendeva
impalpabile l’atmosfera. Camminò in su ed in giù perdendo la cognizione del
tempo, salendo e scendendo scale, con la testa rivolta alle alte pareti di
pietra sopra di lui, innervosito. La vide proprio mentre il suo pensiero la
sfiorava come un tocco di dita.
La Madonna dell’Umiltà.
Teneva gli occhi
abbassati verso un bambino che non c’era. Non l’aveva notato.
Maria stringeva il
vuoto con lo sguardo vacuo, malinconica.
Come aveva potuto avere
l’impressione che l’avesse guardato con rimprovero, la prima volta che l’aveva
vista?
“Come ci sono finito
qui?” Sarebbe uscito di senno prima di rendersene conto, se non se ne andava da
lì il più presto possibile.
Eppure non riusciva a
negare attenzione alla tristezza di quella donna dal viso grande e pallido.
Volse il capo dall’altra parte con fatica.
La casa sembrava vuota,
eccezion fatta per lui… e per lei. Non aveva controllato la sala da pranzo o il
salottino dov’era stato la sera prima, ma in qualche modo sapeva che li avrebbe
trovati altrettanto vuoti. Velocizzò il passo, finendo a correre sulle scale.
Era come essere in
trappola. Ricordò l’espressione saccente sul bel viso del Conte, e digrignò i
denti.
Lui lo sapeva, lo aveva
sempre saputo. Sia che fosse stato innocente sia che fosse stato un sadico
assassino, non avevano mai smesso di essere nemici, ed aveva deciso
d’imprigionarlo. Smise di agitarsi, strisciando con la schiena fino al
pavimento.
“Si fa giorno e tutti
scompaiono! Se questo è uno scherzo devo ammettere che è davvero ben riuscito…”
Ghignò tra sé.
Camminò, poi, toccando
le maniglie bronzee e scolpite di ogni porta. “’’Domani in giornata ne parleremo più
dettagliatamente’ un corno! Cosa diavolo stavo guardando per farmi beffare
da un fottuto moccioso?” Il suo bel collo, le sue belle labbra, i suo gesti
vaghi e scostanti che un normale ragionamento non sapeva seguire. “Sei tu, non
è così? Sarebbe così assurdamente semplice…”
Cominciava a parlare
con lui, anche senza averlo di fronte. Lo sguardo poteva captare fasci di luce
bianca a perdita d’occhio, rendendo ogni cosa sfocata e fluttuante. “… così
semplice e così normale! Può essere solo il capriccio di un bambino?”
Si coprì la bocca con
una mano, perché nessuno avrebbe risposto alle sue domande. Nemmeno quella
Madonna malinconica che i suoi pensieri non smettevano di sfiorare. “Cosa
diavolo sto facendo?” Rise tra le spalle tremanti, con la mano sul collo di un
leone di bronzo.
La maniglia cedette e
lasciò che la porta si aprisse. Fino ad allora tutte le stanze erano state
chiuse, impossibili da esplorare.
“Mi prendi in giro,
piccolo idiota?” La voce del Conte non giunse a rispondergli per le rime.
Probabilmente avrebbe
riso e detto che sì, quello era stato il suo obbiettivo fin dall’inizio.
Giocare con lui come fosse stato un giocattolo.
La camera che si trovò
davanti era più piccola della sua. Gli dette l’impressione che le pareti,
vedendolo entrare, avessero cercato d’abbracciarlo. Nemmeno ad un raggio di
sole era stato permesso d’entrare, ma ciò che più che colpiva l’attenzione era
il drappo di velluto rosso che, dal soffitto, scendeva a dividere a metà lo
spazio disponibile.
“Bingo”
Se vuoi sconfiggere un
nemico cerca il suo punto debole, era la regola più ovvia di questo mondo.
Davanti al tallone d’Achille del piccolo idiota, il suo volto era divenuto
sicuramente diabolico. Il piccolo fratello minore indifeso… era una trama così
lineare da essere perfino noiosa.
Solo metà del suo corpo
- abbandonato come un cadavere su una poltrona- era visibile. Gli stessi
bellissimi lineamenti del fratello, capelli un poco più scuri, la linea
delicata delle palpebre chiuse in un sonno profondissimo ed avvelenato.
Aprì gli occhi mentre
lo guardava.
“Ti ho chiamato io
qui?” Chiese.
“Può darsi” Rispose.
Si strofinò gli occhi
gonfi, assonnato, senza ricomporsi. “Ho dormito qui ed ho lasciato la porta
aperta per voi”
“Volevate parlarmi?” Il
ragazzo tentennò la testa mordendosi le labbra. “Il termine esatto sarebbe
pregarvi… credo”
“Pregarmi di cosa?”
“Di andarvene. Voglio
rimanere qui ancora un po’, non voglio vedere il mondo che Edward vuole che mi
mostriate” Annuì, comprendendo. Quel ragazzino aveva le idee molto più chiare
riguardo a ciò che voleva, ed in qualche modo rendeva le cose più facili. Non
lo odiava, ma non lo voleva lì.
“Non sono qui per
questo” Lo rassicurò.
Sorrise, reclinando il
collo all’indietro, come fosse stato appena liberato d’un peso. “Non sono
ancora pronto”
“Per fare cosa?”
“Per vedere il sole”
Dire quella parola l’aveva fatto ridere, rabbrividire, e rannicchiarsi con le
ginocchia nude al petto.
Roy stette a guardare
come dormicchiava per qualche secondo, incapace di mantenersi sveglio, con un
espressione di biasimo –per sé stesso- sul volto. Non sentì di dover stare in
guardia, davanti a lui. Stette al centro della stanza, accontentandosi di
quello che vedeva e di quello che riusciva a comprendere dagli gesti indolenti,
dalle parole vaghe. “Da quanto non lo vedete?”
“Dieci anni”
“Perché?”
“Nostro padre… non
volle più. Disse che ci avrebbe uccisi”
“Come mai?” Scosse la
testa, per dire che non lo sapeva.
“La mamma era con noi… è con noi. Questo mi basta, anche se siamo a
Reesembool” Parlava per parole chiave, come lasciando delle briciole di pane
sulla strada per la verità. ‘Sole’, ‘Padre’, ‘Mamma’, ‘Reesembool’. La sua
ingenuità rivelava ogni cosa il fratello aveva cercato di nascondergli, e ciò
faceva di lui un folletto buono di cui ascoltare gli indizi e gli indovinelli.
“Perché non dovreste essere a Reesembool?”
Il suo viso cambiò,
mentre si rendeva conto di quella domanda. Toccandosi il mento con un dito
mugugnò, pensandoci.
La bocca morbida si
modellò in un ghigno. “È per la nostra maledizione”
“Maledizione?”
“La mamma la chiamava
così” Un lampo rosso brillò negli occhi improvvisamente sottili. “Una
maledizione che gli Elric lanciarono su Reesembool”
Roy rise. Il ragazzo,
sghignazzando, non fece nulla per fargli credere che scherzava. “Esattamente la
storia che qualunque sciocca nobildonna londinese amerebbe alla follia”
Giudicò, fra sé.
“Non saremmo mai dovuti
tornare qui… mai. La gente muore quando lo facciamo”
Tremò. Se era il modo
di cominciare una confessione, doveva ammettere che era davvero originale. Non
c’era nessun errore nella pista che stava seguendo, e l’improvvisa perversione
che aveva intravisto nel sorriso sghembo del giovane Conte glielo confermava.
Non commentò quell’affermazione. “Ma io voglio rimanere qui… non voglio essere
portato via. Non lo voglio io… non lo vuole Edward… non lo vuole la mamma…”
Il suo collo fu stretto
nelle sue mani bianche prima dello scorrere di un secondo.
Allibito, rimase
immobile.
“… non voglio
ricordare…” Sussurrò, cingendogli i fianchi con le braccia. “… sarei disposto
ad uccidervi, per non ricordare…”
Poggiò il capo sulla
sua schiena. “… per non ricordare e rimanere qui con la mamma e con Edward… per
sempre…”
Le mani sul grembo
della Madonna gli tornarono alla mente nel momento meno opportuno. Deglutì per
mantenere la calma, senza troppi risultati. Ma quell’immagine non la smetteva
di fluttuare nei suoi pensieri come un velo che non riusciva a togliersi dal
capo.
“Dov’è vostra madre?” A
quella domanda la morsa in cui era imprigionato si sciolse, ed il Conte camminò
verso il drappo rosso.
“Ora che ci penso, non
mi sono presentato, Signor Mustang. Perdoni la mia scortesia…” Mosse il corpo
sottile, afferrò la stoffa, sollevandola.
“Il mio nome è
Alphonse…”
Il cadavere della
Madonna del dipinto giaceva su una poltrona nera. “… e questa è Trisha. Mia
madre”
Imboccò la porta,
persuaso dell’idea di avere un altro nemico.
*Passo tratto dal
“Dracula” di Bram Stoker, romanzo pubblicato esattamente tre anni prima
dell’anno in cui si svolge questa storia. Il punto di vista è del professor Van
Helsing, il quale, essendo olandese e non conoscendo bene l’inglese, si esprime
in maniera un po’ sgrammaticata.
*Si riferisce al modo di
parlare di Dracula che, com’è noto, era rumeno.
*La “Libertà che illumina
il mondo” è il vero nome della Statua della libertà.
Note dell’autrice!
Salve a
tutti, come vi va la vita? xD questo è il secondo capitolo che, sono sicura,
avrete aspettato con profonda ansia (ahah).
Tanto che mi
piace riempire ‘sti spazi con informazioni del tutto inutili vi svelo qualche
retroscena della fic: originariamente questa storia doveva essere di Naruto e,
detto alla buona, Roy era Naruto, Edward era Neji e Alphonse era Hinata, Scar
era Gai (con l’ausilio di un altro cameriere che era Rock Lee), i cadaveri
imbalsamati erano due ed erano Shino e Kiba xD Al posto di Pinako avevamo
Itachi con il piccolo Sasuke. Ripensandoci adesso mi fa quasi strano vedere com’è
venuta fuori alla fine. Va buo, ci vediamo la prossima settimana… a meno
che non mi arrivino secchiate di commenti imploranti del tipo “muoio se non
aggiorni immediatamente!”, ma dubito che sarà così.
A sabato
prossimo!
Covianna:
Tu mi dici che
dovevo avvertire su facebook? xD ma se quando l’ho fatto hai commentato là e
non su efp! Se quello è l’effetto preferisco evitarmi quel tipo di pubblicità,
che perlopiù è sempre stata inutile. So che non c’era molto da giudicare nel
primo capitolo, ma diciamo che era d’introduzione e verso la fine di questo
entriamo nel clou della storia, l’azione vera e propria ci sarà poi negli
ultimi due capitoli.
Setsuka: Che dirti, non so come facevi ad
essere già così entusiasta solo leggendo l’introduzione xD i tuoi commenti mi
rimettono sempre al mondo, sono già delle piccole opere d’arte di per sé. Mi
dispiace che non ci sia molta azione nemmeno in questo capitolo, ma spero di
potermi rifare con gli ultimi due.
Icaro
smile: Grazie per
il commento, spero che tu abbia apprezzato anche il secondo capitolo *O* baci.
My pride
& Valerya90: A
voi non serve che risponda nel dettaglio, ma grazie ancora xD
Edward riemerse dal suo
sonno vedendo che nella stanza qualcosa era cambiato.
Alphonse era già
sveglio, e lo guardava, appoggiato al suo capezzale con le braccia conserte
sotto il mento.
Era strano, quella
vista lo mise in agitazione. Alphonse non sorrideva in quel modo da anni, ed
aveva sempre sperato che non lo avrebbe fatto più. Erano quelle strane idee che
quel padre -che non considerava padre- gli aveva messo in testa… lo avrebbero ucciso.
Il cadavere del suo fratellino, con quell’espressione sul viso bianco, appariva
nei suoi sogni quando tutte le cose che amava stavano per sfuggirgli di mano.
Eppure stavolta era
reale.
“Ti sei svegliato
finalmente” Si ritrasse, lasciando che Edward riemergesse dal suo giaciglio,
rimanendo inginocchiato a terra poco più in là.
“Cos’hai fatto,
Alphonse?” Non rispose subito, dondolando il corpo in maniera ipnotica e
guardando come tutti i piani predisposti erano stati distrutti dai suoi
capricci, sentendosi potente. “L’hai ucciso?” Sarebbe stato il danno minore,
perciò sperò che fosse andata così. Ma Alphonse era un assassino disordinato, e
sapeva quali segni cercare su di lui per capire cosa aveva fatto e come lo
aveva fatto.
Era ancora innocente.
“Vuoi fuggire di qui,
non è così? Vuoi lasciarmi solo?”
“NO!”
“No dici?” camminò
verso di lui, come un’ombra di sé stesso. “Per quale altro motivo l’hai portato
qui?”
“Sarà la nostra guida
nel mondo, ricordi? Ne parlava papà! Lui può farti tornare la voglia di
vivere!” Alphonse gli prese il mento, considerando le sue parole con derisione.
Non poteva incolparlo per la stretta al petto che quel comportamento stava
provocando… accadeva. Era la maledizione, ed il suo modo sciocco e lassista di
gestirla, Edward lo sapeva: era questione di tempo, di amore e di saggezza.
Gli mancava l’ultimo
dei tre tasselli.
“Non volevi che lo
ricordassi, Nii san… ma io ricordo!” Strinse le dita sul suo viso, facendolo
gemere. Avvicinò il viso al suo, stando sospeso in quell’attimo per quelle che
sembrarono ore. Non tremava solo perché non ne era più capace, ma capiva che
ogni cosa sarebbe stata distrutta di lì a breve. Ogni cosa avesse faticosamente
cercato di ricomporre di ciò che la maledizione aveva annientato. Pianse, senza
muovere alcuna compassione.
“Io sono morto, non è
così?” Lo sussurrò sul suo collo, prima di affondarvi i denti.
Non ne vezzeggiò la
superficie con le labbra morbide, come faceva con le arance.
Riconobbe suo fratello
in quel gesto, il fratello che amava, ma urlò comunque dentro di sé.
Era un gesto che
pensava di conoscere, ma che gli stava portando via l’anima… con immenso
dolore. Non urlò per semplice orgoglio, e solo perché aveva sbagliato. I denti
avevano perforato maldestramente i tessuti, tintinnando contro le ossa con un
rimbombo che lo rese sordo e lacerando e sollevando la carne troppo rossa. Si
concesse di aggrapparsi alle spalle di chi stava bevendo da lui, come fosse
stato un calice, per non annegare.
Sarebbe
irrimediabilmente successo, se non lo avesse fatto.
Sarebbe annegato e
coagulato nel mare di sangue in cui stava sprofondando.
Alphonse, cessando la
tortura, lo baciò sulle labbra prima che il suo corpo fuggisse da lì
sbattendosi la porta dietro le spalle.
“Roy… Roy… Roy… Roy… Roy… Roy…”
Ammetterlo sarebbe
stato inutile, suonava come una bugia: io voglio andare via di qui con te. Ma
il mondo avrebbe spezzato suo fratello prima ancora di poggiarvi piede… e
stessa cosa avrebbe fatto la colpa. Introdurre quell’uomo nella loro vita era
stata la scelta più stupida che avesse mai fatto, eppure non riusciva a
pentirsene. Chiamava il suo nome corto, breve, cinico e spocchioso mentre
arrancava verso il nulla.
Non riusciva a
desiderare di non aver mai messo gli occhi su di lui, quella sera che lo aveva
notato mentre guardava il mare davanti alla casa della Signora Rockbell. Ma
Alphonse lo odiava e -anche se lo aveva sempre creduto incapace di odiare- Roy
sarebbe dovuto morire come lui voleva.
“Roy… Roy… Roy… Roy… Roy… Roy…”
Lo vide seduto sotto al
ritratto di sua madre.
Alzò la testa verso di
lui, non appena si accorse della sua presenza, indurendo i tratti del viso.
“Mi stavi chiamando,
piccolo idiota?” Si alzò in piedi ed Edward notò che aveva una pistola in mano
e che un forzato senso dell’ironia rendeva innaturali ed inconsulti tutti i
suoi movimenti. Non stava in piedi da tutto il giorno –probabilmente-, i
vestiti e i capelli neri erano stropicciati, il gilet marrone era slacciato sul
torso ansante, la camicia disordinata attorno al collo scoperto.
“La mia vita sarà anche
inutile… sarò anche un uomo spregevole che non merita di stare al mondo… ma io
non mi faccio ammazzare da due fottuti mocciosi!!!” disse, brandendo la pistola
verso di lui con il respiro sempre più pesante.
“Non so quale sia il
vostro problema… MA IO NON MI FACCIO AMMAZZARE!”
“Io non ti voglio
uccidere” Ma prima o poi sarebbe stato costretto a farlo. Voltò il collo
dall’altra parte, ignorando l’aperta ostilità dell’uomo davanti a lui,
scusandosi senza parole per la sua ingenuità… perché non era cambiato nulla.
Tutti morivano, quando era necessario e quando non lo era, chiunque potesse
perdere la vita vicino a loro la perdeva. Era la maledizione, e non aveva
ancora imparato ad accettarla del tutto.
“Non ti ho voluto qui
per ucciderti… non te”
“Ma il tuo fratellino
sì, non è vero? Avanti, dimmi la verità: quale stupido trauma infantile vi ha
fatto diventare dei sadici bastardi?”
“Non sai di che cosa
parli”
“So esattamente di che
cosa parlo!” Si avvicinò, puntandogli la pistola alla gola. “Io finisco a
drogarmi, a desiderare la morte e ad andare a prostitute come se ognuna di
queste azioni fosse l’ultima che farò nella mia vita. Voi dissanguate la gente
e vi tenete cadaveri imbalsamati in casa come fottuti oggetti d’arredamento… è
la stessa cosa! La stessa identica cosa: malattia! Malattia del vivere! Questo
non giustifica i vostri dannati giochetti!”
Pur non comprendendo
quelle parole si morse le labbra, infuriato, rimanendo fermo davanti all’arma
puntata alla sua fronte.
Si avvicinò a Roy
lentamente, lasciando che se ne rendesse conto e decidesse di lasciarlo fare,
ma in un attimo l’altro lo aveva colpito in testa e costretto a terra con un
braccio sul collo. Era un uomo spaventato, sapeva bene come erano fatti: si
sentiva come lui e sapeva di non esserci più abituato.
“Arrogante, come tutti
gli abitanti del mondo di fuori… sarà per questo che non ti ho sopportato fin
dal primo momento”
Rimase a terra, senza
ribellarsi, senza dimostrare apparentemente alcuna emozione sul bel viso che
Roy non era ancora riuscito a smettere di fissare. Tutt’ad un tratto vide la
donna bionda del suo sogno, nel corpo abbandonato sotto di lui, nelle gambe
sottili piegate ed immobili, nel collo bianco, sottile e scoperto. L’unica cosa
che identificava Edward come vivo erano gli occhi aperti… dorati.
Aveva pensato che fosse
la notte a creare quel colore, ma non era così.
“Non ti ucciderò
piccolo idiota, non temere, ma me ne andrò di qui ad ogni costo!”
“Vorrei potervi
aiutare… ma a questo punto non fa molta differenza” Roy non capì, soprattutto
perché Edward aveva di nuovo distolto il viso.
“Quanti ne avete
uccisi? Come avete fatto? Dove sono i cadaveri?”
“Quante domande!”
“Racconterò tutto,
quindi è inutile nasconderlo!”
“Non ti crederanno”
“Ah no?” lo costrinse a
guardarlo direttamente, e premette la bocca della pistola sulla sua fronte. “Ho
i miei mezzi! Hai altra scelta? Mi farai uccidere dal tuo maggiordomo e buttare
in mare?” Non aveva nessun mezzo, e forse era anche impossibile farglielo credere:
era un nemico più ostico di qualunque altro, e più detestabile del previsto.
“Non ce n’è bisogno, e
non c’è neanche bisogno che tu mi creda” Si sollevò verso di lui, lasciando che
una serie d’immagini si sovrapponessero l’una all’altra all’interno della sua
mente, disorientandolo. Il Conte Elric era bello, ed era dannatamente stupido
ammetterlo in quel momento. Era ciò che la gente chiama anima affine, un folle,
un visionario –come lui-, una mente distorta da chissà cosa e nascosta nella
corolla di un fiore che, tremolando, resisteva all’avvizzimento. Pur
mancandogli molti elementi della faccenda, ne era comunque attratto e respinto
con eguale forza.
Una mano stringeva il
manico della pistola, l’altra, posata a terra, resisteva all’impulso di toccare
i capelli biondi sparsi a terra.
“L’unico che può capire
quanto male faccia vivere qui sono io…” Lo sussurrò, vicinissimo alle sue
labbra.
Era una sensazione
incoerente con il contesto… quella voglia incontrollabile di toccarlo come si
faceva con una donna. Scoprire la pelle oltre il collo che lo aveva
ipnotizzato, rimuovere gli abiti neri e bianchi come fossero la
materializzazione dei suoi segreti e di ciò che non sapeva di lui.
Improvvisamente tutta la voglia di morire, di sparire, di annientarsi che aveva
avuto prima di giungere a Reesembool affondò nella visione di Edward Elric
abbandonato sotto di lui, con le braccia sopra la testa, le gambe che lo
avvolgevano, i capelli sparpagliati sul pavimento di pietra.
Lo baciò prima che
potesse impedirsi di farlo, afferrandogli la testa con la mano libera.
Vezzeggiò la cute con
le dita. Edward non si ribellò, né mosse le labbra gelide contro le sue.
Lo erano davvero,
gelide. Rigide contro le sue ma perfette nella forma. Assaggiava vampate d’aria
ghiacciata dalla sua gola che si contraeva.
Quando si staccò da lui
non aveva più fiato. Il corpo gli doleva di un dolore avvelenato, esteso e
freddissimo.
Edward sorrise, triste.
“… perché io sono già
morto”
Perse i sensi.
***
Spesso Roy Mustang si
svegliava con l’immagine di una donna dai capelli neri avvolta dalle fiamme.
All’inizio urlava,
raschiava le pareti del mondo onirico con le unghie per trovare una via
d’uscita. In seguito aveva imparato ad abbassare la testa e ad aspettare che,
una volta diventata cenere, sparisse dalla sua vista. Non era mai stato un uomo
equilibrato, ma aveva un forte senso della giustizia. Partecipava alla
corruzione del mondo bevendo, facendo sesso, annientandosi, ma allo stesso
tempo lavorava per Olivia, quella gentil signora sadica e schiavista che,
nonostante tutto, apprezzava il suo lavoro. Ma quella donna moriva
nell’indifferenza, tutte le notti.
Non era un uomo
equilibrato perché non aveva mai avuto una famiglia, o forse era solo
quell’assurdo male di vivere su cui si poteva fare la solita, inutile
filosofia. In ogni caso c’era sempre la ragione a salvagli la vita.
Accettò di guardare il
volto sorridente della donna dai capelli neri per un altro po’, pur di non
scoprire che anche la sua ultima dea aveva rifiutato di porgergli la mano.
Il volto di Edward
Elric fu la prima cosa che vide svegliandosi.
Il desiderio di
baciarlo ancora fu il primo dolore che il suo corpo avvertì.
“Ti sei svegliato
finalmente” Edward sussultò dicendolo, ricordando come glielo aveva detto
Alphonse qualche ora prima.
Roy si guardò attorno:
era sulla poltrona di broccato sul quale aveva visto il fratello minore la
notte precedente.
Il velluto rosso calava
dietro la sua schiena, lambendogli la nuca e facendolo rabbrividire, come a
consigliargli di non guardarsi troppo attorno. Alle sue spalle c’era lei, la Madonna del dipinto che tanto lo
aveva ossessionato, ma non osava accertarsene. La concretizzazione della sua
seconda ossessione, lì davanti a lui, stringeva le labbra con le braccia
conserte, cercando di dare un’ impressione di menefreghismo nei suoi confronti.
Tutto l’impegno e le
promesse in cui aveva creduto parvero una sciocca filastrocca composta per
prenderlo in giro, musicata magistralmente. Odiava Edward Elric per ciò che
aveva intorno e per ciò che aveva provocato… lo voleva per ciò che era. Non
riuscì a condannare le sue menzogne fino in fondo, e non parlò.
“Avresti potuto
ucciderlo subito, perché l’hai fatto svegliare?” Una risata giunse dalle sue
spalle, e ruppe la promessa fatta a sé stesso riguardo il non parlare e al non
muoversi di un millimetro.
Era ancora il
fratellino capriccioso con le labbra inclinate dalla malizia. Abbracciava il
corpo della madre, livido e lucido, con le palpebre chiuse da miriadi di vene
bluastre e la bocca gonfia in modo innaturale. I capelli castani erano
perfettamente pettinati, il velo sulla testa candido come i vestiti leggeri che
indossava. Le era stato impedito di putrefarsi… soffriva aspettando quel
momento.
Che considerazione
paradossale.
“Non ci sarebbe stato
il tempo degli addii, Nii san!”
Sospirò, senza
assentire e senza negare, avvicinandosi al fratello per sistemargli il
colletto. Fu un atto goffo che lasciò un foulard sgualcito su un collo ancora
scoperto, anche perché Alphonse afferrò la sua mano prima che potesse finire.
Edward si ritrasse e, passandogli accanto, si chinò sul suo orecchio. “Lascio
la tua vita nelle mani della fortuna, Sir Roy Mustang”
Roy non capì.
Fece ciò che aveva
imparato a fare fin dal primo momento in cui l’aveva visto: odiarlo col sorriso
sulla faccia ed osservare le sue mosse.
Quando aveva capito che
il fratello era il vero punto debole del suo nemico, Roy non aveva immaginato
che ciò lo avrebbe portato a rischiare la vita. Qualcuno come Edward non
lasciava mai nulla al caso, ma aveva deposto la sua strategia a causa del
bambino affamato che si stava avvicinando a lui. Era un bambino, avrebbe
trovato una via di fuga. Ma qualcosa gli diceva che non sarebbe stato così
semplice.
“Non avete proprio
voglia di raccontarmi il motivo per il quale avete passatempi così… inusuali?”
Edward stette in
silenzio, con le braccia di nuovo raccolte in petto ed il corpo inclinato
contro il muro: ebbe l’istinto di dimostrargli ancora che, alla fine, avrebbe
vinto contro di lui. Probabilmente lo aveva già fatto: era prigioniero
dell’ossessione del fratello.
Non c’era gusto a
vincere nessuna battaglia contro di lui.
“Passatempi, li
chiama…” Sussurrò, dopo un po’ di tempo. “… non ho più voglia di starlo a
sentire”
Alphonse lasciò il
corpo della madre, accogliendo quelle parole con una felicità smisurata.
Afferrò il collo di Roy con i polpastrelli, facendo ondeggiare le dita sulla
pelle increspata, stuzzicandolo. “È questo che volevi, no?”
L’altro annuì, mentre
una ciocca di capelli cadeva a coprirgli la visuale. “Uno vale l’altro” rispose
infine.
“Quindi sto per
scoprirlo, non è così? Come uccidete…” rise, vedendosi fuggire attraverso la
porta che pareva chiusa per sempre. In quanto uomo piuttosto forte sapeva che
il maggiordomo avrebbe avuto un ruolo nella faccenda… non lo faceva impazzire
l’idea di lasciare il proprio corpo a quel tipo. Rise, stupito dal fatto che
l’idea di morire non lo spaventasse poi così tanto.
Il fatto era che non
riusciva a smettere di fidarsi di Edward Elric.
“… quando arriverà
quell’uomo, il maggiordomo?”
Edward ciondolò la
testa, ridacchiando, Alphonse toccò più a fondo la sua carne, incantato.
“Non ce n’è bisogno… ”
disse quindi Alphonse. “… tu sei qui per me. Non c’è bisogno di nessun’altro”
Si voltò giusto in
tempo per vedergli spalancare la bocca.
Era così assurdamente
banale. Lasciò che la chiudesse sul suo collo, appoggiando la testa sulla sua
spalla come se lo aspettasse una sensazione piacevole -anche se i libri e
l’immaginario collettivo avevano sempre detto il contrario-. Provò a prevedere
come sarebbe andata.
Denti aguzzi che
affondavano nella carne, sangue, annebbiamento, denti, ancora sangue. Rise.
Era un sogno da cui
svegliarsi il prima possibile e a cui non credere. Oppure, ridestandosi tra le
braccia del suo angelo dai capelli biondi -o tra quelle del demone dai capelli
neri riemerso dal fuoco-, avrebbe capito di essere inevitabilmente morto. C’era
andato vicino troppe volte per avere paura.
Chiuse gli occhi,
mentre l’intorpidimento invadeva il suo corpo insieme al dolore freddo e
pungente che già conosceva.
Lì riaprì nella
speranza di vedere Edward rassicurarlo con un sorriso prima di togliergli la
vita. Non era che l’onnipresente parabola del loro incontro.
Mistero, ironia,
incanto, fascinazione, inganno.
Labbra che lambivano le
sue, l’abbraccio di gambe dure come il marmo che avvolgevano i suoi fianchi
erano le ultime immagini nel suo cervello. Era quello che voleva, in fondo:
fidarsi tanto scioccamente di qualcuno da stare bene anche mentre questo gli
toglieva tutto.
L’aveva lasciato
vincere d’altronde.
Alphonse martoriò il
suo collo abbastanza da fargli pensare che lo avesse spezzato, perché non
sapeva più dove rintracciare la differenza tra quel doloroso oblio e la morte.
Era più il sangue che lasciava cadere a terra in grandi perle rosse che non
quello che finiva nella sua gola.
Volle vedere il mondo
per l’ultima volta e lo scorse. Il suo angelo. Gli sorrise.
“Non vuoi favorire
anche tu, piccolo idiota?” Sembrò stupefatto dalla sua proposta, e dal modo con
cui aveva allungato un braccio facendogli segno d’avvicinarsi. Con il petto
ormai completamente nudo, i capelli neri che ricadevano intorno alla faccia,
Roy aveva smosso il suo infantile pudore.
Si unì al banchetto,
salendo sulle sue gambe. Carezzò l’altra parte del suo collo non perché voleva
eccitarlo o stuzzicarlo, ma perché era indeciso sul da farsi. Roy sospirò,
sentendosi sbattuto indietro di qualche centimetro dall’ingresso dell’eterno
silenzio.
Aveva i capelli
sciolti, i vestiti in disordine, l’indecisione nei bei tratti del viso
contratti. La frizione delle loro cosce lo stava facendo impazzire.
Non appena Edward lambì
la pelle con le labbra sentì i denti di Alphonse dilaniare e smuovere la carne,
aumentando il flusso di sangue in uscita.
Aveva raccolto i
capelli su una spalla, e gli sfioravano il volto mentre il petto bianco
riempiva la sua vista e i suoi desideri.
Cambiò idea, chinò le
spalle. La bocca turgida passò per un attimo davanti ai suoi occhi,
incantandolo, poi sussurrarono all’orecchio.
“Vuoi proprio morire?”
Sorrise, riconoscendo quella domanda come sensata.
“Se sei tu ad
uccidermi, volentieri”
Strinse le gambe
attorno a lui di scatto, udendo quella risposta. Sembrava rabbia, quella nei
suoi gesti.
“Non toglietevi la
vostra ultima possibilità, Roy Mustang. Non fate una simile stupidaggine!”
“S… sei… sei… così
formale dopo tutto quello che c’è stato fra noi? Sei proprio un bravo bambino”
“NON SCHERZARE!”
Improvvisamente il suo
collo venne lasciato andare.
“Alphonse”
Ebbe appena la forza di
lanciargli un occhiata. Edward era balzato in piedi.
Alphonse era di nuovo
il moccioso dalle maniere pacate che aveva visto la prima volta, dondolante
come in una culla.
“Cosa ho fatto?” si
chiese, tappandosi la bocca con le mani e vedendole poi diventare rosse.
Terrorizzato cercò il fratello, tremando.
“Cosa ho fatto, nii
san?” Risvegliatosi dal sogno provocato dalla fame, la colpa cadde sulle sue
spalle facendolo barcollare. Edward, sospirando, lo avvolse in un abbraccio nel
quale Alphonse si rannicchiò e si nascose.
“L’ho fatto di nuovo,
nii san?”
“No, non hai fatto
nulla”
Era stato allenato a
far sembrare quelle parole vere, a rendere suo fratello innocente da qualunque
crimine.
Prendendolo per mano lo
guidò, lo avvolse in un abbraccio prima d’invitarlo a rinchiudersi in quella
che sembrava una bara.
Cosa doveva vedere per
crederci ancora? Edward si strinse le tempie, sospirando con l’aria assorta
mentre le sue spalle si rilassavano e si rendeva di non essere rimasto solo.
Non ancora. Fece alzare il corpo senza forze di Roy, trascinandolo . Aprì la
porta.
“La fortuna ti ha
assistito, Roy Mustang. Quando calerà di nuovo la notte voglio che tu sia già
lontano da qui”
Lo baciò, con un tocco
fugace delle loro labbra. Lo scaraventò fuori.
Il sole stava per
sorgere.
***
Roy aveva sempre
pensato di essere destinato a morire in mezzo alle fiamme, come quella donna.
Ma aveva perso troppo
sangue e probabilmente sarebbe morto lì, per dissanguamento, ed il suo corpo
sarebbe stato buttato in mare la sera successiva. Quasi era deluso: una morte
così assurdamente meschina e nessuno a ridere della sua disgrazia.
C’era sempre qualcuno,
quando sognava di morire, a sghignazzare sotto i baffi mentre un cappio gli
stringeva il collo o la falce di una ghigliottina gli staccava la testa. Era
tutto sorprendentemente luminoso e paradisiaco.
Il suo respiro
affannato era il solo rumore che riempiva lo spazio sospeso intorno a lui.
Pensò ad Olivia, ai
colleghi del giornale… e poi, dandosi come scusa il fatto che non aveva più
qualcun altro a cui pensare, pensò a lui.
Cercò di odiarlo, di maledirlo se possibile, immaginò che la sua anima
sarebbe tornata a tormentarlo per l’eternità –e sapeva che il moccioso aveva
davvero un eternità da sprecare a farsi perseguitare dal suo rancore-. Era la
normale prosecuzione di una storia di quel genere, così come l’avrebbe redatta
qualunque scrittore. Morendo col sorriso sulle labbra avrebbe salvato l’umanità
da quella minaccia, dando un senso alla sua insulsa vita.
Che stupidaggine.
La sua risata
baritonale divenne lieve e ovattata contro l’aere bianco e galleggiante.
Forse era stato ucciso
dopo essersi addormentato leggendo ‘Dracula’ -trovandolo tremendamente noioso-,
o forse si sarebbe svegliato accanto ad una donna mai vista prima, con un mal
di testa da sbornia a fracassargli le tempie. Rise ancora un po’, con quel suo
macabro senso dell’umorismo che gli faceva vedere l’ultima minaccia come suo
salvatore.
Sorrise al maggiordomo
grande e grosso che venne a sovrapporsi alla sagoma del sole.
“Sei venuto a buttarmi
via?” Cercò di girarsi su un fianco, ma tutto ciò che ottenne fu una vibrazione
di dolore su tutta la parte sinistra del corpo. Non essendo riuscito a
nascondersi lo guardò dritto negli occhi, attentamente, come fosse lieto di
vederlo.
“Il mio cadavere sarà
bianco, livido e spettrale… non è vero?”
“Lo è anche adesso,
signore” Rispose Scar, senza scomporsi. Aveva una tazza in mano. Chinandosi e
sollevandogli la testa gli fece bere il liquido che vi era contenuto, rosso,
denso ed amaro. Intuì che fosse un ricostituente. Aveva la mascella paralizzata
ed una voglia insensata di morire subito, non un giorno lontano in cui
l’immagine di quel dannato angelo
dai capelli biondi sarebbe stata sfocata e indefinita nella sua mente.
Non gli aveva concesso
di morire tra le sue braccia, ma andava bene, non cercò di gettare via la sua
fiducia per lui.
Sicuramente gli aveva
anche lasciato un opzione con cui rifiutare la salvezza offertagli. Smise di
bere, e rise.
“Parlatemi di voi”
Chiese, allontanando la tazza.
“Non saprei cosa
raccontarvi”
“Da dove venite?” Scar
non cambiò espressione, ma abbassò il capo impercettibilmente.
“Dall’India” Rispose, incapace
di negare qualcosa ad un moribondo. Lo aveva detto con sospiro, come si fosse
strappato di dosso quella notizia per porgergliela, piena di sangue e budella.
“Da quanto vivete qui con i Conti?” Le sottili iridi rosse si dilatarono a
quella domanda.
Si alzò di scatto,
dandogli le spalle e rimanendo fermo in mezzo al corridoio con le braccia
lungo i fianchi squadrati.
“Cosa cercate di
dirmi?” Chiese quindi Roy.
Non voleva insistere,
non era per niente desideroso di sapere altre cose che avrebbero provato a
rendere mostruosa la sua ultima consolazione -senza riuscirci-. Ma voleva
conoscerlo, almeno un po’, almeno il necessario per serbare di Edward Elric un
ricordo che potesse fargli compagnia all’inferno –dove Edward, effettivamente,
non sarebbe giunto mai-.
La voce di Scar fu
chiara ma inespressiva. “Nessuno degli abitanti di questa villa è più in vita”
“Capisco” Disse, per
niente stupito di quell’ennesima beffa.
“No, voi non capite.
Non sono quello che state pensando”
A questo punto nemmeno
gl’importava: gli bastava chiudere di nuovo gli occhi e vederlo, o tenere
aperte le orecchie e sentir parlare di lui. Adagiò la schiena sul muro,
sospirando e sentendo la testa leggera. Scar insistette per fargli bere ancora
un po’ di quell’intruglio, ma si rifiutò, certo che nessun rimedio al mondo
sarebbe riuscito a riportarlo in vita. “Cosa sono loro?” Scar lo fissò, con
-ancora una volta- la neutralità più assoluta sul volto.
Aveva molti altri dubbi
da risolvere. “Da quanto sono al mondo e chi li ha resi quello che sono?”
“Il padroncino ve ne
avrebbe parlato prima o poi”
“Fatelo voi al posto
suo”
Ogni suo movimento era
rigido, la sua voce era roca come quella di chi non parla spesso. Nel complesso
era un immagine di tristezza profonda quella che dava, sia tacendo sia
parlando, perché nulla lo aveva toccato e nulla lo convinceva ad essere triste
per questo.
A parte l’idea della
morte.
“Il signor Hohenheim
non voleva farlo” Fu come una scusa declamata a gran voce, una giustificazione
per qualche grave crimine.
“Non voleva fare cosa?”
Scattò in avanti senza accorgersene, avvertendo ampie parti del suo corpo
divenire insensibili. L’unica cosa che impediva a Scar di dimostrarsi timoroso
era il fatto che, forse, non ricordava più cosa fosse il timore. Muovendo solo
le gambe si rialzò dalla sua posizione supina, lasciando la tazza vuota per
metà accanto a lui. Si allontanò con falcate lunghe e veloci lungo il
corridoio.
“Dove diavolo stai
andando?” Tremò. “IO NON MORIRÒ SENZA SAPERNE LA RAGIONE!”
Si sentì improvvisamente
furioso, e la furia risvegliò le sue gambe prima paralizzate. O forse fu quella
promessa -che aveva giurato di non farsi fino a pochi secondi prima- a
convincere il suo corpo a muoversi, ad inseguire la conoscenza che andava
cercando fin dall’inizio.
Teneva sott’occhio la
sagoma nera a stento, trascinandosi lungo la parete con fatica. “MI HAI
SENTITO, BASTARDO?”
Non correva, ma in
breve tempo attraversò tutto il corridoio giungendo alle scale, che Roy riuscì
ad affrontare a stento aggrappandosi il più possibile alle ringhiere di ottone
lucido. Lo avrebbe seguito ovunque, a costo di morire per la sua stessa
stupidità, a costo di sapere qualcosa che nessun giornale avrebbe pubblicato o
per cui qualunque redattore lo avrebbe ritenuto un pazzo. Voleva tenere tutto
per sé, in modo che corrodesse la sua mente ed il suo raziocinio per gli anni
avvenire, nella consapevolezza di essere l’unico in mezzo alla gente, in mezzo
all’universo.
Senza voltarsi mai a
dare attenzione alle sue urla patetiche uscì fuori dalla villa, giungendo là
dove si vedeva il mare.
Aveva visto il sole su
Reesembool solo una volta, durante il giorno trascorso sotto l’ospitalità di
Lady Pinako per raccogliere informazioni dagli abitanti. Molti avevano previsto
i suoi guai, altri avevano scosso la testa davanti alla stupidità degli
inglesi boriosi. Lui aveva solo liquidato tutto con un ghigno presuntuoso.
Era una cittadina
piccola abbastanza perché il sole la illuminasse con un solo raggio,
d’altronde. Scar la guardava, ma non avrebbe saputo dire cosa ne pensasse o
quale sentimento suscitasse in lui quella vista: una lieve stretta al petto,
che non sapeva come identificare, nella sequenza di dolore perpetuo che aveva
finito per dimenticare in una parte remota del suo essere.
“Dove siamo?”
Scar voltò la testa. Lo
imitò e li vide: un gruppo d’aranceti stretti in un piccolo tratto di terreno,
come accoccolati.
Ricordò le parole di
Edward al riguardo di un miracolo, ed effettivamente erano delle arance troppo
belle per essere cresciute nel freddo della Scozia. Scar ignorò la sua domanda,
prese un arancia inginocchiandosi poi ai piedi di uno degli alberi con il capo
chinato in avanti, le braccia abbandonate.
Voleva fargli vedere
quegli alberi, o si era semplicemente lasciato seguire da lui?
Si avvicinò, perché
aveva l’impressione che quell’uomo avesse bisogno di essere consolato. La luce
bianca dell’alba creava delle lacrime lattee sotto gli occhi rossi, sul viso
che non cambiava e che non poteva esprimere la tristezza in altro modo…
appoggiò una mano sulle spalle curve, chiedendosi perché.
Perché non gli era
concesso di capire e perché, nonostante non capisse, continuava a pensare a
lui.
Ad Edward Elric, al suo
fottuto bell’aspetto da principino tormentato.
Non aveva idea di chi
fosse, eppure non aveva nessun altro a cui appellarsi per trovare sollievo.
“Chi è davvero Edward
Elric?”
Scar addentò il frutto,
da cui il succo uscì quasi immediatamente. Era rosso, rossissimo. Troppo rosso.
Era sangue. La succhiò
con avidità, senza sbucciarla, inondandosi le labbra di liquido che imbrattò i
vestiti e la pelle scura.
L’azione trasformò il
suo volto in una maschera nera di ferocia e bramosia, che contrasse i
lineamenti prima immobili.
Fece un passo indietro,
disgustato, sentendo distintamente un conato di vomito salirgli su per la gola.
Per un attimo non ci fu nulla oltre le macerie del suo raziocinio di fronte al
bivio che gli rimaneva da affrontare: impazzire od ignorare. Si limitò a
tremare e a stringersi la gola vibrante.
Poi comprese, come
aveva desiderato, e la consapevolezza giunse al suo cervello con un inchino ed
una riverenza. Guardò ai piedi dell’albero.
Non poteva essere altro
che così, così come diceva la sua dannata logica. S’inginocchiò e non dovette
scavare molto prima di trovarlo.
Un braccio umano.
Scar ridacchiò, mentre
Roy si voltava per rivolgergli un espressione sconvolta.
Gli occhi normalmente
rossi, piangendo, sembravano sciogliersi in gocce di sangue scintillanti.
Sorrise. “È ancora così
sicuro di voler conoscere il padroncino, signore?”
Note dell’autrice!
Salve a tutti! Come vi va la
vita? A me di cacca puzzolente… ma non è una novità U-U siccome come al solito
ho finito gli argomenti vi chiedo: avete visto ‘New Moon’? E non vi chiedete
anche voi come cavolo fai a fare una scena drammatica con un tizio che sembra
appena uscito da Baywatch? Va buo, andiamo avanti con le risposte ai commenti va.
Giaggia: Oddio, non avrei mai detto che è ‘tiranneggiato’ ma più o
meno dà l’idea di quanto il mio Roy sia alla deriva della sua vita xD è la mia
versione di un Roy Mustang senza alcuna ambizione nella vita: vuoto e passivo,
poveretto, quindi perfettamente ‘tiranneggiabile’ xD grazie del commento.
Icaro smile: Non avevo visto Psyco e sono andata a leggere la trama… e
beh devo dire che l’idea era molto simile O_O l’ho plagiata involontariamente,
però adesso è proprio il caso che io lo veda xD spero che il capitolo ti sia
piaciuto, baci.
Covianna: Come Roy è ooc? O_O ALLARME! ALLARME! D’accordo che l’idea
mi era venuta per un altro fandom, ma l’ho comunque riadattata! Roy non è lo
stesso personaggio che sarebbe stato Naruto nella sua parte, ed ho cambiato
parecchie cose che se proprio vuoi alla fine ti spiegherò nel dettaglio, ma non
era assolutamente mia intenzione farlo ooc, anzi! Hai presente il Roy del dopo
Ishbar? O quello della quarta sigla della prima serie dell’anime che guarda
malinconico fuori dalla finestra con un bicchiere di non so quale alcolico in
mano? Ecco, il mio Roy è senza speranze e senza ambizioni. Cioè non so in quale
frangente ti sia sembrato ooc, ma se segue questa caratterizzazione allora per
me è Ic, nei limiti di quanto possa esserlo in Au. Per quanto riguarda Al
riconosco che possa essere un po’ ooc, ma è perché lui è frutto di una mia
concezione della sua parte oscura (che spesso faccio impersonare all’armatura
che prende vita, e che si è vista in altre mie fic come ‘Il battito della rosa’
o “The seven of destruction’). Comunque grazie anche a te, dimmi che ne pensi
del nuovo capitolo, bye! *O*
My pride & Valerya90: A Valerya dico che, come ho già detto, i personaggi sono
molto diversi da come sarebbero dovuti essere quelli di Naruto nella stessa
situazione, ma è una faccenda lunga da spiegare xD Comunque vi ringrazierò fino
all’ultimo capitolo, I’m sorry xD grazie!
Ci vediamo sabato prossimo per
la conclusione, a scanso di secchiate di commenti imploranti di un seguito xD
bye!
Capitolo 4 *** La morte è la migliore delle ossessioni ***
CAPITOLO 4: La morte è la migliore delle ossessioni
CAPITOLO 4: La morte è la migliore delle
ossessioni.
Terza notte.
Appena sveglio, Edward si chiese immediatamente quanto Roy
Mustang fosse ormai lontano da lì.
Si mise a sedere di scatto
con una mano a tenersi il petto, con l’immagine di quell’uomo
che, come la rimanenza di un sogno, martellava la sua testa fino a farla
dolere. Non era il senso di colpa, perché aveva fatto di tutto per
riparare ai suoi errori, non era il bruciore della sua maledetta fame.
Sentì che il sole era
appena calato dietro l’orizzonte.
Alphonse dormiva ancora nella bara chiusa, dove lo aveva
condotto la sera prima come faceva sempre –come un bambino verso la culla-, ed
in una notte limpida e perfetta per uscire dal castello… rimase immobile.
Roy Mustang, l’uomo la cui vita era stata salvata per
un suo capriccio, fu davanti a lui con la malizia sulle labbra fine, per poi
scomparire, ridendo di lui.
Con la sua voce nella
testa a mandargli brividi giù per la schiena si alzò, pettinandosi i capelli in
modo distratto davanti allo specchio.
Guardò il riflesso del
suo viso opalescente, e se ne rese conto.
Erano di nuovo soli in quel mondo che non conoscevano.
Alphonse era un riflesso che non avrebbe fatto altro che
seguirlo, amarlo, venerarlo senza riserve, senza mutare mai in funzione delle
epoche.
Quel pensiero,
improvvisamente, lo fece soffocare.
Gli rivelò qual’era la sua casa, com’era davvero la prigione buia ed
immutabile che aveva tentato di aprire.
Man mano che ci
pensava il cielo si faceva più scuro, e cominciò a sperare nell’arrivo della
luna consolatrice. Lo consolava sempre, mandando un fascio di luce a prelevare
dal suo petto ciò che l’opprimeva, diradando le tenebre in cui avrebbe dovuto
vivere per sempre. Per sempre.
Quel pensiero gli fece
venire fame. Osservò le unghie affilate delle sue dita, ghignando, spalancando
la finestra per saltare giù.
Era la notte perfetta
per dimenticarlo.
Ci si poteva riuscire
velocemente, annegando nelle interiora di un uomo di robusta costituzione.
Il sangue era una
panacea, capace di curare ogni ferita, ogni sofferenza. Ma sentì la sua voce, e
capì che il sangue non sapeva risanare un ossessione.
“Perché non vuoi
andartene via dalla mia testa?” Si chiedeva la voce, e trasalì perché era una
domanda che si era posto a sua volta.
Lo vide, imbrattato dal
sangue delle maledette arance, con gli occhi dilatati e le mani che frugavano
il terreno.
Cercò di essere il più
veloce e scattante possibile, maRoy
fu lì a fissarlo quando giunse davanti a lui.
Sorrideva tristemente,
con le labbra ed il mento rossi. “Perché non mi rispondi, almeno? Continui ad
essere nella mia testa… sempre… sempre…”
Ricambiò con un sorriso
altrettanto triste. “Potrei farti la stessa domanda, stupido inglese”
Si sedette accanto a
lui sul terreno rosso pieno di scorze d’arancia strappate. Improvvisamente,
avendolo accanto, smise di pensare a lui lasciando che un vuoto nero e vibrante
ne prendesse il posto, e lo convincesse a non distogliere mai lo sguardo da
lui. Non lo aveva ucciso, ma l’aveva fatto impazzire. Avrebbe avuto il tempo di
sentirsene in colpa, ma per ora era solo contento che Roy
fosse lì, a farlo respirare.
A distoglierlo dal
riflesso del ragazzo biondo dalle gote bianche, che la prigione di vetro aveva
già fatto uscire di senno.
“Chi è Hohenheim?” Edward, con le gambe
rannicchiate non si stupì, e non cercò di nascondere nulla.
Lo avrebbe raccontato
come una favola, a lui, perché non poteva accompagnarlo oltre il limite della
prigionia, ed era tutto ciò che poteva lasciargli.
Una giustificazione per
ciò che aveva desiderato.
“Era nostro padre...”
Strinse la presa su una scorza d’arancia, ricordandolo. Lui, l’inizio di tutte le
sue disgrazie, l’uomo che li aveva amati fino al limite della propria anima e
poi li aveva rinchiusi e resi mostri. “… o almeno Alphonse
lo considera ancora in questi termini, e nostra madre lo amava… io lo odio. Ci
ha salvati dalla strada, dalla fame, dalla miseria. Ci ha amati fin quando la sua mente gliel’ha permesso… ma non riesco a
perdonarlo”
Roy non parlò, incantato. Era tutto ciò che gli era
rimasto di bramare… che quella creatura si svelasse.
Che avesse abbastanza
considerazione di lui da porgergli i suoi segreti, o che non ne avesse affatto
per ritenere ogni rivelazione un dettaglio insignificante. Non aveva
importanza, andava bene così… era lo scoop della sua vita. Una storia fuori dall’ordinario di follia e di mostruosità.
Un po’ come lo era lui.
Era il colpo giornalistico che non sarebbe mai riuscito a pubblicare.
Rise, in modo folle.
Mimò il gesto di trascrivere qualcosa su un taccuino.
“Qual è la vostra data
di nascita?”
Edward, sbattendo le palpebre, non comprese per quale
motivo desiderasse saperlo. “Non lo so… non me lo ricordo”
“E quando avete
incontrato il suddetto gentiluomo?”
Non seppe perché, ma Edward rise a sua volta. “1877” . Non l’avrebbe
dimenticato mai. Roy amò l’espressione di sognante
beatitudine che apparve sul suo volto, riportandolo per un attimo indietro dal
baratro della follia… della follia che il pensiero di lui aveva indotto. Era
inevitabile, gli aveva rovinato una vita già rovinata, una mente già distorta,
non aveva nulla da recriminare. Era il suo angelo, il suo pensiero fisso.
Gli prese la mano e la
baciò, come si fa con una gentildonna.
“Datemi il vostro
cuore, my lord. Confessatemi cosa vi affligge nel
sonno, cosa non vi fa respirare, cosa vi arreca sofferenza… io lo custodirò per
voi”
Vibrò, con l’impulso di
toccarlo, di prendere da lui qualunque cosa avesse. Ma
non avevano detto tutto.
“Io ti ho maledetto, Roy Mustang…” Sussurrò.
“… ti dimenticherai di
me non appena te ne andrai di qui”
“Maledetto, dite?”
Poteva credere a tutto, tranne che a quello. “Sicuramente. Non vi conosco che
da tre notti”
“Era un mio capriccio,
il capriccio di un decennio. Avrei potuto conoscere questo mondo anche per
conto mio…” Sospirò, sentendo di non meritarsi quel calore, la perfetta
realizzazione del suo inganno. Non aveva avuto bisogno di Roy
all’inizio, ma ora ne aveva. Un disperato, ossessionante, terrificante,
asfissiante bisogno che era molto simile ad una dipendenza.
“… lui, Hohenheim, lo aveva fatto. Ci aveva concesso il lusso di
ammirarlo… prima dei dieci anni d’isolamento”
Dieci anni, dieci anni
per dipingere quella Madonna che, alla fine, aveva perso il suo bambino. Li
aveva rinchiusi tra le tenebre che parevano eterne, mentre tentava di ricrearla
in modo impeccabile. Il vecchio vampiro non aveva fatto altro, dal 1890 in poi, altro che
dipingere lei, Trisha, le cui mani non riuscivano mai
a tenere in braccio il figlio in maniera sicura. Le immagini di vernice e i
corpi imbalsamati non bastavano a compensare il dolore di averla persa sulla
strada dell’eternità.
Era convinto di star
facendo un errore, prima di averli resi mostri ed abbandonati.
Ma Edward
questo non lo disse. Si premette il petto, ancora, incapace di pretendere che
lo facesse davvero: capire, abbracciarlo, rassicurarlo sul fatto che non era
colpa sua. Non poteva.
Posò la mano libera sul
suo capo, sorridendo, come faceva il Re con i propri vassalli nel medioevo.
Lasciò che lo baciasse, come lo spingeva a fare l’illusione d’inevitabilità che
il suo mistero aveva lasciato in lui, la follia che lo avrebbe lasciato inerme
in mezzo alla massa di persone normali che non sapevano, che non immaginavano.
Non fu un bacio gentile, ma un accavallarsi di zanne affilate che si
adoperavano per mordere ogni cosa, un rotolare di saliva e sangue dall’odore
fruttato che scivolava sulla pelle. Roy rise,
usurpando un ruolo che non era suo, addentando il collo imbrattato
mentreEdward ringhiava come una bestia e lo
stringeva addosso al suo petto. Si adagiò all’indietro, ridendo, lasciandolo
fare senza alcun desiderio di cambiare le cose. Aprì le labbra per afferrare
l’aria, perdendo ogni comprensione del tempo, dello spazio, e del fottuto mondo.
Dopo anni sentì caldo,
e sospirò estasiato tra le braccia di un uomo che avrebbe potuto divorare pezzo
per pezzo.
Non ne sarebbe valsa la
pena.
“L’hai capito, no?”
Vide apparire la luna nel cielo nero, mentre lo diceva, e tentò di abbracciarla
ottenendo che Roycollassasse
ancora di più su di lui. Ogni cosa moriva intorno, lasciando solo Roy, la luna e quel senso di dimenticanza. “Sono tutti qui
sotto, l’hai capito no?”
Lo stupido inglese non
notò che il mistero per cui era giunto ad impazzire
gli era appena stato rivelato: continuava a sghignazzare contro la pelle
bianca, con gli occhi dilatati ed il corpo in preda a movimenti inconsulti. Ma
li aveva visti.
Aveva visto i cadaveri
sotto terra, senza scavare molto a fondo.
Tutto avrebbe
acquistato un senso se soltanto avesse tentato di darci attenzione, di vedere
come le radici di quegli alberi si aggrappavano alle carni più o meno
raggrinzite di uomini e donne. Alcuni stavano con la bocca spalancata, gli arti
piegati in modo innaturale e le vene inaridite che li rendevano rigide bambole
dalle membra violacee, che protendevano le braccia facendosi rimirare e
chiedendo un giro di valzer. Roy aveva fatto
conoscenza con tutti, stringendo le mani flosce ed ignorando i poco educati
sguardi vitrei.
E Scar,
da bravo giardiniere, aveva estratto e buttato in mare qualche inutile mucchio
d’ossa durante il giorno.
“L’ha creato Hohenheim… quello dannato scienziato pazzo. Oh, non mi
fraintendere! Non c’è niente di meglio di un pasto consumato direttamente dal
collo di un giovane uomo, maAlphonse
è così dannatamente problematico! Si sente in colpa… ancora… e ancora… non ho
altro modo di farlo sopravvivere che in questo modo, trasformandoli in semi!”
Semi… per loro gli
esseri umani erano semi, ed eppure non riusciva a lasciarlo!
Edward, pur apprezzando le mani calde che gli sfioravano
la schiena e i fianchi, si ritrasse da lui, raggiungendo il suo orecchio.
“Penserai comunque
sempre a me, stupido umano? Mi ricorderai come il mostro che sono per tutta la
tua insignificante vita?”
Una nuova risoluzione
giunse alla sua mente. Il senno che aveva perso gravò sulle sue membra prima
libere, e comprese.
Più lo abbracciava e lo
desiderava, più braccia e gambe s’irrigidivano, perdevano forza.
Lo stava facendo
morire.
“No” Sussurrò.
“Bene…” Disse Edward. “… perché non ho più bisogno di te. Non ne ho mai
avuto, in effetti. Eri soltanto un capriccio. Solo un capriccio. Siamo così
giovani, in fondo! Solo dieci anni e una vita di lussuose tenebre… ma imparerò,
anche senza l’aiuto di un qualunque stupido essere umano”
Non smise di ridere,
mentre puntava gli occhi inumanamente belli nei suoi, e metteva in mostra le
zanne affilate.
“Sei ancora convinto di
non volermi dimenticare?”
Pensò alla donna dei
suoi sogni.
Non ebbe timore
di lui, scoprendo inaspettatamente di non riuscire ancora ad impedirsi di
cercarlo.
Cercare ogni cosa di
lui avesse a disposizione, pelle, carne, anima, voce.
Ma era destinato a perdere.
Avrebbe perso lasciando
che Edward se ne andasse dalla sua vita, avrebbe
perso lasciando che lui lo disprezzasse.
“È ironico, sai? Avevo
portato davvero tutto il necessario con me…” Disse, guadagnandosi uno
sguardo perplesso.
“… aglio, croci,
paletti di legno… pensai che quella degli abitanti del villaggio fosse solo
superstizione”
Aveva preso un
pacchetto di fiammiferi dalla tasca. Per quanto lo avesse
assicurato a sé stesso, il piccolo idiota non fece nulla per impedirgli
di dare fuoco alle foglie sparpagliate sul terreno. Stette ad aspettare che
fuggisse da lì, ma non lo fece.
“Scappa, piccolo
idiota” Poteva ancora farlo parere uno scherzo, un gioco, se solo ci
s’impegnava.
Invece Edward allargò le braccia verso di lui, sorridendo, come
avesse previsto ogni cosa e lo biasimasse per non aver fatto lo stesso.
Sovrappose le labbra alle sue delicatamente, lo trasportò via dallo strano
legno rossastro che le fiamme stavano divorando con una velocità anormale.
L’odore di carne bruciata lo raggiunse e lo disturbò, mentre Edward lo adagiava sul terreno freddo.
Si posizionò in mezzo
alle fiamme, con le braccia aperte che parevano le ali di un angelo, e gli sorrise.
Sembrava felice
bruciando, ma ciò non lo consolò, perché non era quello che voleva. Perse
i sensi con l’immagine di Edward che bruciava ed un
urlo di terrore nella gola. Per quanto lo chiamasse,
per quanto protendesse la sua ossessione come una rete non cambiò nulla.
Quell’immagine non l’avrebbe saziato per l’eternità.
Né in vita, né in
morte.
***
Olivia ricevette la telefonata quando ormai -dopo essersi rovinata ogni singola
unghia delle dita a furia di batterle sulla sua scrivania- aveva concluso che
non l’avrebbe rivisto più. Non era un problema insuperabile, figuriamoci,
l’aveva accettato continuando il suo lavoro senza troppi piagnistei e con il
lusso di una tazza di tè più forte.
Era un puro caso se
quel pomeriggio si trovava in redazione nonostante non ce ne fosse bisogno
–come tutte le altre volte-.
A meno che non avesse ucciso qualcuno, quell’uomo
non la riguardava –certo- come non la riguardava il compito di tampinare per
ore ed ore il telefono della redazione. Essendo una perfetta dittatrice nessuno
dei suoi collaboratori osava chiedere qualcosa a tal proposito, ed era un lusso
per cui poteva concedersi qualunque stravaganza -come
una qualunque sciocca donna aristocratica senza spina dorsale-.
Preferiva combattere
l’invadenza di cento idioti piuttosto che starsene lì, aspettando il momento in
cui avrebbe distrutto di nuovo il telefono.
In cuor suo aveva
sempre saputo che, pur di riapparire sotto forma di spettro, Roy Mustang sarebbe tornato a giustificare in modo
fantasioso i suoi nulla di fatto -con la sua faccia da schiaffi-.
“Pronto” Non si era nemmeno
premurata di dire ‘Qui Central Journal…’ e tutte
quelle altre cazzate di protocollo, e comunque non lo
faceva mai.
La voce femminile nel
telefono squillò grave ma decisa. “Parlo con Olivia Armstrong?”
“Sì”
“Roy
Mustang è in casa mia” La cornetta le scivolò dalle mani, cadendo a terra con
un tonfo. La recuperò in tutta fretta.
“E… e… come sta?” La
voce tacque per qualche minuto, sembrava quasi non respirare.
“Non credo di esagerare
dicendo che è… impazzito”
Lo era sempre stato,
pazzo. Figuriamoci! Ma non le venne da ridere.
“Da quali elementi
avete potuto dedurre questo?”
La voce sospirò, ed era
la prima variazione di tono in quel suono grave e monocorde che proveniva dal
telefono come i rintocchi funerei di una campana.
“Sta tutto il giorno alla
finestra, leggendo sempre lo stesso libro, guardando fuori ogni tanto. Non
parla, mangia e beve a stento, parla in continuazione di ‘stupidi
ragazzini biondi a cui l’accento dell’est starebbe
proprio bene’ . Ho provato a dirgli di andarsene di
qui, ma ha l’aria di qualcuno che potrebbe inciampare e spaccarsi la testa non
appena smetti di controllarlo. Detto in tutta sincerità sta diventando un
fastidio, e vorrei che lei me ne liberasse”
Annuì con aria
professionale ed un espressione di strano divertimento
sulla faccia, ed il che era contraddittorio.
“Lo so…” esalò, senza
impedirsi di produrre un suono un po’ farfugliante. “… quell’uomo
è un disturbo per l’umanità, non è vero?”
“Può dirlo forte”
Nonostante non fosse
cambiato nulla nel loro modo di parlare, le due donne furono sicure di essersi
sorrise l’un l’altra.
D’un sorriso un po’
malinconico, in realtà, ma faceva parte di quelle precisazioni che nessuna di
loro avrebbe mai apposto in una conversazione.
Tutto quello che Olivia
decise di farle sentire fu un sospiro sonoro e teatrale.
“Ditegli che se non
viene al telefono entro cinque minuti gli spaccherò ogni singolo osso del suo
dannato corpo”
L’altra donna annuì
silenziosamente, facendo ciò che le era stato chiesto.
Tamburellò le unghie
consumate e lucide per dieci volte prima che Royalzasse la cornetta, facendola ghignare.
“Alla
buon ora, stupido idiota”
“Era ad un passo
saliente della storia… hai interrotto la mia lettura, donna bisbetica”
“L’hai letto già tre
volte, quel libro, e ti avevo detto di lasciarlo stare. Nemmeno ti piace”
“Oh, assolutamente no. Ora meno di prima…” La sua risata fu come ticchettare
di metallo su metallo. “… è del tutto inverosimile”
“Non capisco che vuoi dire ma va bene, abbiamo tutto il tempo. Hai scoperto
qualcosa?”
Spesso Roy non rispondeva alle sue domande, ma era di solito un
rifiuto buffonesco e dannatamente irritante che la portava sempre a punirlo in
qualche maniera fisica. Quella volta il suo non- rispondere fu diverso, triste,
vuoto, come se non sapesse riempire quel silenzio con qualcos’altro che non
fosse la lieve interferenza della telecomunicazione.
“Niente, rinuncio
all’indagine” Rispose infine, ma Olivia non gli credé, pur lasciando correre.
“Ho scoperto qualcosa su
tua madre” Era il modo perfetto per scoprire se Roy
era davvero impazzito, o se era generalmente cambiato in qualche modo. Parlando
di sua madre cominciava a parlare con una vibrazione d’odio, che faceva la sua
voce più sarcastica di quanto si potesse concepire il sarcasmo stesso, nel
tentativo di dare a vedere che la cosa non lo toccava. Era il colpo più basso
ed il più leale che potesse sferrargli.
Ma Roy
non disse assolutamente nulla.
“È morta bruciata viva”
“Oh” Solo un
monosillabo.
Avrebbe voluto avere il
coraggio e la faccia tosta di chiedergli se davvero non era
successo niente, ma era un limite troppo lontano da lei.
“Perché non te ne vai
ancora via da lì?”
“Non lo so”
rispose immediatamente, lasciandola stupita.
“Devo dire alla signora
Rockbell che ho visto la sua bella nipote dai capelli
biondi… l’ho vista maturare come un frutto”
Rise in modo folle, ma
ancora una volta non chiese spiegazioni. Inaspettatamente ammise a sé stessa
che era per paura.
Paura di quella
presunta follia, ed Olivia odiava avere paura meno di quanto odiava ammettere
di provarla. Provò a mantenerla sullo scherzo.
“È perché ti rendi
conto che rischieresti la vita a tornare al mio cospetto, stupido idiota?”
“Già…” rise. “… ma
dovrei morire per comprendere quello che mi perdo, non è così, My Lady? Sono un dannato testardo che non capisce il valore
della vita, non è vero? Non è forse vero? NON ÈFORSE VERO?”
Poteva rimetterlo in
riga con un pugno, quella volta? Gli occhi le si velarono
d’indegne lacrime prima di poterci pensare seriamente. Le sue parole spinsero
una scarica di elettricità su per la sua schiena, facendola barcollare sulla
sedia ed accorgersi di quanto era dannatamente patetica.
Non ricordava nemmeno
più com’era desiderare qualcosa senza negarlo a sé stessa, ma per un attimo
perse di mano la sua disciplina.
Si poteva dire che non
lo avrebbe mai fatto abbastanza, con Roy Mustang.
“… solo
ora ho capito quanto sia inutile la vita senza un ossessione… e la morte
è la migliore delle ossessioni!”
Riattaccò con un gesto del
tutto istintivo, col fiato pesante.
“Roy”
Decise di rimanere
impalata lì, sulla sedia, fin quando quella frase non
fosse uscita dalla sua testa.
Ma non lo fece mai.
La morte è la migliore delle ossessioni.
Note dell’autrice!
È finita §_§ non so se per
sempre ma per adesso è finita… non ha riscosso un successo enorme
ma è quanto mi aspettavo, e sono contenta che ci siano sempre quelle
poche persone che dicono di apprezzare i miei lavori *O* Il seguito ce l’ho in
mente, ma dubito che, anche se mi venisse mai in mente di scriverlo davvero, mi
sbrigherei poi così tanto a buttarlo giù xD Comunque tanto
che ci stiamo... avete visto “DorianGray”? *O* e la bellissima ed inaspettata scena yaoi che vi si trova? *O* va buo,
passiamo ai commenti.
MyPride: “Niùmun”,
se posso esprimermi, faceva ridere… è l’unico pregio che ho saputo trovargli! Almeno
ti ci passi un paio d’ore nemmeno a farti qualche buona risata, fatto sta che
il libro effettivamente pur non essendo un capolavoro me lo ricordavo un
attimino meglio xD Va buo, questo è un OT grande come una casa, ma chi se ne
frega! xDowari *inchino*
Icaro smile: Ma nooooo, Scar
non voleva farlo fuori… a lui non frega una beata mazza sostanzialmente xD non ho avuto modo di
approfondirlo, poveretto, ah per la cronaca non è un vampiro lui (ovviamente,
come potrebbe uscire alla luce del giorno altrimenti?), ma sono cose che potrebbero
rimanere nell’ombra per sempre. Comunque mi dispiace per Roy…
giusto una volta gli ho dato soddisfazione e non era nemmeno troppa xD comunque dimmi che ne pensi del
finale, baci.
Covianna: Amo
i commenti deliranti, i miei sono sempre inconsistenti ed assolutamente poco
istruttivi… quindi ti capisco xD ma li adoro al pari degli altri! Quindi non privarmene please. Comunque Roy è partito di
capa… tra questo e morire cos’è peggio? xD baci!
Valerya90: Come
mai dal terzo capitolo ti è riuscito d’immaginarti i personaggi di Naruto in questa Fic? Ah, mi ero
anche scordata di dire che al posto di Olivia c’era SakuraxD Grazie ancora, baci.
Giaggia: Riguardo
ad Al, come ho già detto a non so chi, io ho una
particolare visione di lui, e lo faccio sempre un po’ schizofrenico ed affetto
da doppia personalità, mi piace rappresentare la sua parte oscura che spesso è
interpretata dall’armatura (come ne “Il Battito della rosa” o “The seven of destruction”), riguardo
all’Elricest diciamo che “L’armatura pazza” è un mio
marchio di fabbrica… e mi piacerebbe inserirla in un futuro seguito di questa
storia non so in che modo xD comunque fammi sapere
come ti sembra il finale, baci!
Va buo,
anche qui è finita… non so in che fandom mi troverò
la prossima volta, ma devo dire che in fma mi trovo
sempre abbastanza bene *O* se qualcuno degli utenti che non hanno commentato
finora volessero farmi sapere cosa ne pensano della storia nel complesso ne
sarei lietissima.