Pandora

di Pandora_2_Vertigo
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1 ***
Capitolo 2: *** 2 ***
Capitolo 3: *** 3 ***
Capitolo 4: *** 5 ***
Capitolo 5: *** 4 ***
Capitolo 6: *** 6 ***
Capitolo 7: *** 7 ***
Capitolo 8: *** 8 ***
Capitolo 9: *** 9 ***



Capitolo 1
*** 1 ***


1a

Un giardino immenso, un parco irradiato dai raggi del sole, un piccolo paradiso, in cui l’erba è verde, curata e innaffiata a dovere, le aiuole di rose e calle perfettamente ordinate, danno un tocco d’ulteriore eleganza a questo eden privato.

-          Corri Pan!

Gioiosa, una bambina dai capelli biondi e perfettamente pettinati in dolci boccoli, si volta verso la voce che l’ha chiamata. Una pallonata la colpisce in pieno viso.
Cade per terra, il naso le duole terribilmente e ora anche il posteriore.
Comincia a piangere, dolce bambina capricciosa. Per la sua sofferenza e perché ha sporcato i suoi abiti nuovi, appena comprati dalla sua mamma in un negozio del centro, sa che verrà sgridata.
Ha solo pochi anni di vita.
Un bambino la raggiunge. I suoi vestiti semplici sono macchiati dall’erba, le guance sono colorate di rosso per la corsa. Si china a raccogliere la palla sorridendo, poi si rivolge verso di lei e con la fronte corrucciata esclama un “bambina viziata” pieno di sdegno, troppo per la sua età.
È più grande della sua compagna di giochi solo di qualche anno.
Lancia la palla e si mette ad inseguirla calciandola, facendo lo slalom tra gli alberi.
La bimba si rialza, ancora con una lacrima che le riga una guancia.
Offesa e imbronciata, prova ad inseguirlo, ma il suo bel vestitino, la impaccia troppo, e ricade quasi subito.
Con la faccia a terra nell’erba, sente la sua risata che la sbeffeggia.
Altre lacrime di rabbia le riempiono gli occhi.

-          Pan! Tesoro, ma che combini? Il tuo vestito nuovo! Era per il ricevimento di stasera ed è completamente rovinato!

La bambina, Pan, rivolge lo sguardo a quella voce di donna così calda, e in quel momento carica di rabbia.
Vede sua madre, una donna elegante e bellissima, scendere i gradini che dalla veranda portano in giardino raggiungendola ed aiutandola a sollevarsi da terra. Ha i capelli dorati raccolti sulla nuca in una complicata acconciatura, i lineamenti delicati e gli occhi color nocciola.
Lei tira su col naso rumorosamente.
La madre scuote la testa e le porge un fazzolettino.

-          le signorine eleganti non fanno questi brutti rumori…su soffia.

La bambina obbedisce, poi la madre cerca di pulirle il vestito, ma inutilmente.
La tira con forza verso la casa.

-          Vieni Pan, ora dobbiamo cambiarci per stasera e trovarti un nuovo abitino, questo lo faremo lavare.

Fa due passi seguendo la madre, poi si blocca e si volta a guardare verso il giardino.

-          ha battuto in ritirata – le dice la madre.

Pan si volta sorpresa.

-          il tuo amichetto è sparito quando mi ha visto, sa che rischia grosso se si fa trovare qui a giocare. – riprende.

A questo punto, si lascia guidare verso la grande casa, non senza osservare le grani nubi nere che si avvicinano all’orizzonte, ormai così familiari.

Cammino per la strada senza nemmeno guardare per terra.
Avanzo tra la gente con aria indifferente, osservo i grattacieli della città, le vetrine dei negozi, allestite per i pochi che ormai possono permettersi vestiti griffati.
Proprio davanti ad un abito da sera lungo, ricoperto di paiette, osservo il mio riflesso malconcio nella vetrina e studiando i miei abiti tristi e consunti che nascondono tutta la figura, tiro un profondo sospiro. I capelli color del grano non emettono più i loro riflessi dorati, potessi almeno curarli meglio; gli occhi eterocromici, uno verde e uno azzurro, danno al mio volto una asimmetria molto fastidiosa.
Mi ritornano in mente i ricevimenti a cui assistevo da bambina: mi conciavano con assurdi vestitini color confetto, mentre rimanevo estasiata ad osservare le donne intorno a me in magnifici abiti da sera, ballare le dolci melodie intonate dall’orchestra.
Sento una risatina allegra e vivace. Mi volto, una bambina dai lunghi capelli castani, vestita con un maglioncino rosa e una gonna verde mi sta osservando e mi saluta.
Io di rimano le sorrido.
La sua espressione muta, si volta verso la madre e comincia a tirarle la giacca.
Non c’è tempo da perdere.

-          mamma guarda, quella signora ha gli occhi diversi.

Sento queste parole di sfuggita, mentre ho indossato gli occhiali da sole e mi sto già avviando confondendomi tra la folla.
Solo per puro caso sento la risposta.

-          quale signora, tesoro? Non c’è nessuno…

-          l’ho vista mamma, aveva un occhio verde e uno azzurro.

-          Tesoro non dire sciocchezze, in città di queste cose non se ne vedono..

 
Mi allontano, ancora trafelata e celata dalle lenti scure di scarsa qualità, ma che ,abbastanza ampie, servono allo scopo.
Alcune persone hanno assistito alla scena e hanno visto allontanarmi alla svelta. Se tutto va bene, lasceranno perdere. Mi lascio avvolgere dalle decine di persone che come me stanno percorrendo la strada, all’apparenza uomini e donne comuni, in realtà senza nemmeno un difetto, una differenza, tutti omologati ad un ideale di normalità dettata dalla paura e dal terrore.
Sento il suono di un fischietto dalla direzione da cui provengo. Mi volto per una rapida occhiata.
Un gruppo di persone sta parlando con un paio di uomini in uniforme nera, tra di esse scorgo il maglioncino rosa della bambina, ora in braccio a sua madre, che piange spaventata.
Potrebbe far tenerezza, ma dentro di me la maledico con tutto il cuore. E poi maledico me, per la mia disattenzione. Continuo a camminare, un po’ più rigida di prima, con lo sguardo basso…scontro qualche spalla nel tentativo di allontanarmi in fretta: le porte della città non sono distanti, posso farcela.
Percepisco l’elettricità nell’aria. Ora si è aperto come un varco davanti a me, la gente mi lascia passare. Non è un buon segno, mi hanno notata. Senza rallentare mi volto per una rapida occhiata alle spalle: le due uniformi nere mi stanno seguendo.
Il cuore mi rimbalza nel petto, scosso sa una scarica di adrenalina che lo fa pompare più veloce. Il respiro si accorcia.
Mancano solo poche centinaia di metri. Comincio a correre, ormai che importa passare inosservata.
Il passaggio è vicino: una vecchia fermata della metropolitana, ormai in disuso, che passa proprio sotto le porte della città. Se riuscissi a raggiungere quei bui cunicoli potrei seminarli tranquillamente.
Giro a destra velocemente. Posso scorgere l’insegna rossa e bianca che troneggia sulla scalinata protetta da barricate, ma devo stare attenta a non farmi vedere, a non mostrargli il passaggio.
Mi blocco un attimo, devo trovare un posto dove nascondermi per fargli perdere le mie tracce. Intorno a me nulla che possa offrire un riparo, neanche un timido angolo in ombra.
Maledizione.
Percepisco le uniformi nere avvicinarsi sempre di più, si mette grigia.
Ancora col fiatone dalla corsa mi volto a destra e sinistra, di continuo, ma la speranza diminuisce sempre più; mi allontano dall’ingresso del vicolo, noto una rientranza nel mezzo di un palazzo: mi ci lancio, il più rapidamente possibile, mi ci appiattisco, ma so che non basterà questo a nascondermi.
Ecco i due uomini in nero spuntare.
Smetto di respirare, cercando di controllare  battiti cardiaci, temendo possano rivelare la mia presenza.
Un soffio, un alito, una lieve brezza calda. Tiepida, mi scalda il collo. Poi mi pervade ovunque, mi stringe, come una fiammata.
Che strano. Sarà l’adrenalina.
Le guardie si avvicinano al mio rifugio, cerco di rendermi ancora più immobile, invisibile, ma ho poche speranze.

-          Ferma, non fare rumore.

Una voce? Un sussurro?Ora? Dove? Nella mia mente? Vorrei guardarmi attorno, ma è troppo rischioso.
Ecco le due uniformi raggiungono il punto in cui mi trovo, si voltano verso di me, ecco è finita prematuramente la mia vita. Una dei due addirittura mi guarda in volto, ma non si avvicina…è come se non mi avessero visto. Cosa?
Passano oltre. Inspiegabilmente continuano a camminare osservando ogni piccolo rifugio. E non mi hanno vista! Ma come?
Mi viene quasi voglia di farmi scoprire! Ma come diavolo è successo!
Lo faccio, sto per alzare un braccio e aprire la bocca per chiamarli, nonostante rischio la vita…ma non ci riesco, qualcosa mi blocca.

-          stai ferma, vuoi farti ammazzare?

Di nuovo la voce. Di nuovo il sussurro. Una sensazione di calore intorno alle labbra. Smetto di opporre resistenza e ritorno quieta, in attesa di poter essere in salvo.
I due uomini si allontanano. Sono salva.
Sono sconcertata. Che è accaduto?
Provo a muovermi e questa volta mi riesce senza difficoltà. Mi guardo le mani, nulla di strano. Mi tocco le labbra, niente. Lentamente la sensazione di calore mi abbandona, mi calmo, si era decisamente adrenalina…e la voce…probabilmente me la sono immaginata…spirito di conservazione.
Scuoto la testa ed esco dal mio rifugio. Mi avvio verso le scale della metropolitana, mi guardo in giro, non c’è nessuno.
Scosto le assi che ne bloccano l’ingresso e mi infilo nei bui cunicoli.

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Capitolo 2
*** 2 ***


2

La berlina nera, elegante, li conduce al ricevimento. La piccola Pan, con indosso un vestitino pulito,  è seduta in braccio a sua madre, Ania che indossa un magnifico abito color corallo, lungo fino ai piedi, disegnato su misura per lei da uno dei più famosi stilisti del momento. Dopotutto la moglie dell’uomo più potente del mondo può permettersi questo e altro.

-          sei bellissima stasera, tesoro. – dice il marito, seduto affianco a lei.

-          George caro, anche tu non sei male. Ma la più bella della festa è sicuramente la mia Pandora, non è vero? – gli risponde prontamente.

La bambina dal canto suo, sorride e abbraccia calorosamente la donna.
Squilla un cellulare, l’uomo infila una mano nella tasca interna della giacca, tira fuori l’apparecchio e risponde alla chiamata.

-          Mi dica pure.

-          Signor presidente, l’edificio è stato isolato, nessuno i quei maledetti ribelli potrà avvicinarsi.

-          Generale Swatson, le ho già detto che non si tratta di ribelli, ma pacifici contestatori. In questo paese vi è ancora libertà di pensiero e parola. E come ben sa non mi trovo affatto in disaccordo con loro.

-          Mi perdoni Signore, non accadrà più – risponde il militare, con uno strascico di rabbia.

L’uomo irritato ritira il telefono della tasca e si gira verso la moglie.

-          Caro devi capirlo, dopo ciò che è accaduto il mondo non è più quello di una volta, molte cose sono cambiate, noi siamo cambiati.- cerca di consolarlo la moglie.

-          Ma la razza umana ha mantenuto i suoi peggiori difetti.

-          Non tutti sono così crudeli George, e il generale ci protegge molto bene. Sai anche tu che non tutti i contestatori sono pacifici. Ora basta parlarne, abbiamo un ricevimento che ci aspetta, sarà una serata pesante, cerchiamo di non rovinarla già da ora.

Le loro mani si uniscono in una stretta tenera e confortante.

 

Le maestose porte del palazzo di cristallo si spalancano ai suoi occhi sbalordendola, come ogni volta la piccola Pan rimane a bocca aperta, coi riccioli biondi ad incorniciargli il volto latteo e le guance rosate. La madre la tiene in braccio e affiancata dal marito entrano nell’immenso salone in cui sono riuniti i più grandi esponenti politici mondiali, pronti a negoziare la pace: dopo anni di catastrofi naturali che hanno portato le varie nazioni del globo a combattere per cercare di accaparrarsi le poche risorse ancora disponibili sul pianeta, la tregua alla guerra atomica è a un passo.
Per la piccola Pan tutto ciò non ha significato: è ancora piccola ed è cresciuta al riparo dalla realtà, dalla crudeltà della vita in questo tempo nefasto. Lei vede solo i lustrini degli abiti delle dame, i bei vestiti degli uomini, i gioielli e le enormi quantità di cibo sui tavoli.
Appena la madre la poggia a terra, impaziente comincia a scorrazzare tra le gambe degli adulti, col suo passo malfermo. I grandi molto spesso nemmeno la notano, altre volte quando incrociano il suo sguardo le sorridono, le fanno una carezza e riprendono a parlare come se nemmeno esistesse.
È sempre l’unica bambina in queste occasioni.

-          Psssss! Hey tu, bimba viziata.

Una voce allegra chiama la piccola e lei si volta. Vede la tovaglia di uno dei tavoli leggermente sollevata e un mano che le fa segno di avvicinarsi.
La curiosità la avvolge e la guida verso la sua meta. Una volta davanti al tavolo, dopo aver sgattaiolato tra le gambe di alcune persone, si inginocchia e gattonando si infila al di sotto della tovaglia.
È il bambino del pomeriggio, della pallonata. Inizialmente Pan mette il broncio, ma appena lui le sorride malizioso, lei non resiste e ricambia. È così piena di gioia.

-          mi sono intrufolato di nascosto! Se mi beccano questa volta le sento…- le dice strizzandole l’occhiolino.

La bambina non capisce tutto, ma ciò basta a smorzarle il sorriso.

-          … non preoccuparti! Per questo ben di dio, il gioco vale la candela!

Così dicendo si infila in bocca due tartine contemporaneamente.
È così buffo, con le guance gonfie che prova a masticare! Pan si tappa la bocca con le mani per non ridere troppo sguaiatamente e farsi sentire.

 Cerco di non fare troppo chiasso. Ormai è calata l’oscurità e anche se queste strade sono deserte e sicure è sempre meglio essere prudenti, non si sa mai cosa o chi è in agguato.
Scorgo l’insegna al neon che va solo ad intermittenza ormai. Virgin Motel.
Mi guardo intorno. Nessuno in vista, bene.
Raggiungo la costruzione e appiattita addosso al muro nel raggiungo la porta sul retro. L’apro cercando di fare il minimo rumore, ma i cardini sono arrugginiti e il legno è ormai marcio. Maledetta umidità che ormai non lascia scampo a nessuna latitudine!
Scosto una tenda che cela un porta, apro pure questa e me la chiudo alle spalle. Mi ritrovo al buio, lentamente pongo un piede in avanti. Mi abbasso e scendo il primo gradino, prendo confidenza con l’ambiente e arrivo alla fine della scala. L’umido ormai mi pervade le membra, i capelli sono bagnati, il sudore mi appiccica i vestiti laceri alla pelle.
Mi inginocchio, tasto il terreno con le mani alla ricerca di un appiglio di metallo, ecco, trovo la maniglia. Tiro e apro la botola. Discendo anche questi gradini angusti, stretti e scivolosi ritrovandomi in un cunicolo, illuminato da torce. L’aria è satura d’acqua, quasi si fatica a respirare. Ancora pochi passi. La luce aumenta, comincio a sentire un rumore in sottofondo, un lieve vociare. Presto sbocco in una camera leggermente rialzata rispetto al livello circostante. Qui l’atmosfera è migliore grazie ad una serie di vie d’areazione che portano l’aria esterna fin quaggiù. Mille voci si mescolano, tanti volti sorridono, donne che accudiscono figli, uomini che giocano a poker, bambini che si rincorrono. Alcuni di loro mi scorgono all’ingresso della stanza. Urlano il mo nome.

-          Pan! Pan è tornata!

Subito mi sono intorno, tirandomi dentro e saltellandomi attorno. Anche gli altri, mi hanno visto ora, soprattutto gli adulti che hanno cessato le loro attività per rivolgermi attenzione.
Mi portano al centro della stanza, non mi lascio pregare.

-          Cosa ci hai portato questa volta? Giochi? Vestiti? Cosa? Cosa?

Sorrido davanti a tutta quella vivacità! Per loro anche la più piccola cosa è così bella e unica. Se sapessero cosa c’è aldilà delle mura, se solo potessero vedere la città.
Ma sono diversi, sono speciali, non gli è consentito. Rischierebbero la vita.
Afferro la borsa che ho a tracolla e mi siedo per terra circondata da tutti. Cala un silenzio reverenziale.
Faccio scattare l’apertura. Le prime cose che estraggo sono dolci, caramelle, di ogni forma e colore. I bambini subito ci si fiondano cercando di accaparrarsene il più possibile. Dopo un attimo di confusione e una serena risata da parte degli adulti, i bambini si dispongono in modo ordinato e ricevono la loro parte.
Soddisfatti i piccoli, mi rialzo e mi reco nel lato sud della stanza, quello più caldo, quello meno affollato, l’infermeria. I giacigli occupati sono pochi per fortuna, le difese immunitarie umane e speciali si sono di molto rinforzate durante gli anni, ma per alcuni mali ancora non si è trovata cura.
Un uomo è chino su uno dei malati. Ha lunghi capelli neri, raccolti in una coda, il volto coperto da una barba di almeno tre giorni, gli occhi stanchi e gli occhiali da dottore. Quanto è ovvio dire che lui è Doc. A questo pensiero un sorriso mi sale alle labbra.
Gli poggio una mano sulla spalla. Si volta, stremato posa gli occhi prima su di me, poi sulle mie mani. Quando scorge gli antidolorifici che sono riuscita a recuperare la sua faccia si illumina, gli occhi gli si velano di lacrime, mi prende il volto tra le mani, mi schiocca un bacio sulle labbra e mi stringe a se.

-          Che tu sia benedetta Pan, senza di te saremmo tutti morti da un pezzo!

Come ogni volta, lo stringo forte anche io, mi faccio una sana risata per riprendermi da quel bacio a stampo pieno di riconoscenza e nient’altro.

-          E’ il minimo, di più non posso fare – rispondo a voce bassa.

Doc è una delle poche persone a cui rivolgo la parola, ed è sempre un dolore pronunciarle: vorrei davvero poter essere più utile.
Mi allontano e mi dirigo al lato ovest, il lato più buio. Li mi aspetta, con le mani sui fianchi e le gambe leggermente divaricate,  Damian, il mio angelo, il mio sole, il mio salvatore, l’unico uomo che potrò mai amare.
Capelli biondi e ricci, del colore del grano che gli ricadono intorno al viso. Occhi verdi, profondi  e sempre vivi. Muscoli guizzanti in ogni parte del corpo. Un gran cuore e un sorriso meraviglioso.

-          Ciao Pan! Come è andato il giro oggi? – mi dice scompigliandomi i capelli.

Peccato che per lui io resterò sempre e solo una bambina.
Senza parlare, infilo la mano in borsa e ne tiro fuori una radiolina portatile. Lui mi guarda senza capire.
Scuoto la testa. Quanto è ottuso, a volte. Regolo il sintonizzatore in modo da trovare una stazione.
Purtroppo non trovo di meglio di un emittente radio.

-          Musica eh? Non credo possa esserci utile….

Idiota!

-          E’ modificata! – gli spiego- Con questa, puoi sintonizzarti sui canali dell’esercito… basta cercare!

Ho pure dovuto sprecare la voce con lui! Quanto lo odio! Quanto lo amo.
Mi allontano dandogli le spalle …mi rituffo nel cunicolo illuminato, risalgo le scale, chiudo la botola. Di nuovo respiro quell’aria orribile.
Ancora un rampa, richiudo la tenda dietro di me a nascondere la porta. Vedo l’ingresso sul retro, ma gli do le spalle. Raggiungo l’atrio e volto a sinistra. Ecco il salone, ecco il mio giaciglio, il mio rifugio dalla realtà.

 

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Capitolo 3
*** 3 ***


PAN3

Ride la piccola Pan, così inconsapevole, così innocente!
Quel bambino dai capelli mori, gli occhi neri e la bocca piena è davvero esilarante. Ma ride silenziosa, non adora parlare, con pochi si lascia andare.
Dopo aver ingoiato il boccone, il bambino si volta e fa per uscire da sotto il tavolo, probabilmente con tutte le intenzioni di afferrare ancora del cibo; ma Pan non vuole rimanere sola là sotto, allora gli afferra la maglia e lo trattiene.
Lui si volta un po’ indispettito, ma trovandosi davanti quegli occhioni tristi, non può far altro che rimettersi a sedere sbuffando.

-          Sei proprio viziata – commenta, ma in fondo sorride.- La vuoi una tartina anche tu?

La bocca della bimba si allarga in un ampio sorriso e annuisce convinta.
Lui le fa segno di aspettare, poi si porge verso l’esterno per cercare di afferrare qualcosa.
Sollevando la tovaglia le parole delle persone al di fuori giungono più chiare anche in quel piccolo rifugio isolato.

-          …Intere aree desertificate, la foresta amazzonica ormai scomparsa, l’Olanda e le isole del Pacifico sommerse, migliaia di persone migrate dai loro paesi di origine verso altri più sicuri, guerre… è ora di porre fine a tutto questo.

La voce giunge fin là sotto con una lieve eco e rimbomba ovunque.
Pan riconosce il tono di suo padre e richiamata da quel suono così familiare si affaccia e vede tutte quelle persone attorno a lui, che sta più in alto, su un piccolo palco, circondato di luce e parla in numerosi microfoni.
Rimane a bocca aperta, non ha mai visto il suo papà così serio.
Sente una stretta alla mano e la ritrova intrecciata a quella del suo compagno di giochi. La fa rialzare, le sorride e comincia a tirarla, a condurla lontano da quella ressa. La voce di suo padre si attutisce sempre di più e arrivando ai margini della stanza, si odono le voci sottovoce della platea. Evidentemente non tutti sono d’accordo.
Pan guarda questa scena con gli occhi spalancati, senza capire nulla.
Vorrebbe solo andare in braccio alla sua mamma, quel gioco non le piace.
Escono dalla stanza, gli occhi cominciano a velarsi di lacrime, diventa un peso sempre maggiore da tirare.
Il bambino lo sente, si volta e nota la prima lacrima rigarle il viso.
Si ferma e cerca di rassicurarla.

-          Pan, ascoltami! Non succede niente, stiamo solo lasciando i grandi ai loro discorsi ok? Noi che centriamo la dentro?

Abbassa lo sguardo, non vuole mostrargli che piange.
Il bambino sbuffando riprende a parlarle.

-          Facciamo un piccolo giro e poi ti prometto che cercheremo la tua mamma, ok?

Il volto della piccola al suono di quella parola ritorna radioso e gli occhi, di due colori diversi, risplendono di nuova intensità.

 

Un sogno, sto sognando. La realtà mi sfugge mentre mi godo il realizzarsi di eventi impossibili, ma così preziosi per il io cuore.
Damian che mi tiene stretta a se, Daminan che mi sussurra dolci frasi all’orecchio.
Io e lui che dormiamo assieme, che combattiamo l’uno affianco dell’altra.

-          Torna alla realtà….

Una voce che si insinua nella mia mente. Che vuole adesso?
Di nuovo la mia immaginazione torna a cavalcare le onde dell’amore… si perde tra i miei pensieri e bussa ai più reconditi desideri.

-          Svegliati!

Scuoto la testa più morta che viva per cacciare via l’intrusa e continuare quella fantasia.
Ma vengo come scossa.
Riprendo coscienza e apro gli occhi di colpo. Buio intorno a me. E’ ancora notte al motel.
Silenzio, nessuno, eppure chi mi ha svegliato da quel fantastico sogno?
Un suono! Un fruscio? Probabile, ma non vedo nulla.

-          c’è qualcuno? – provo a dire.

Ovviamente tutto tace.
Tasto il divano su cui sono sdraiata per cercare la mia borsa. Continuando a guardarmi in giro trovo la torcia e illumino col suo raggio la stanza.
Nulla di diverso al solito: sedie, divanetti anneriti dal fumo e dalla polvere, tavolini che a malapena si reggono in piedi, tappeti enormi consunti per terra, peni di buchi, provenienti da un'altra epoca.
Quanto tempo è passato ormai?
Fuori scroscia la pioggia, l’ennesimo temporale imperversa su quelle terre ormai distrutte, corrotte e mal governate da tiranni senza scrupoli che han diviso il genere umano…o quello che è diventato.
E io sono qui sola, su un divano sbrindellato che puzza di muffa a fare sogni smielati…ormai nemmeno sognare mi è concesso? Possibile che io sia sempre così dura con me stessa? Ormai sono passati quindici anni…sono cresciuta, il tempo dei giochi è passato.
Mi perdo, guardando le gocce d’acqua che scivolano lungo i vetri delle finestre e battono nel loro ritmico tocco. Potrebbe succedere qualsiasi cosa intorno a me, ma i ricordi mi stanno sommergendo.
Ancora, non mi è concesso dimenticare, non voglio farlo. La sola cosa che mi da forza è il porre rimedio ad errori passati, commessi da qualcun altro…
Sola, perché voglio esserlo. Perché non mi ritengo degna dell’amore delle persone che stanno a pochi metri di profondità da me. Perché disprezzo tutto ciò che sta al di là delle mura, una società finta, con una finta morale e del finto rispetto.
Di nuovo un suono, lo percepisco, ma non distolgo lo sguardo dal vetro che illumino con la luce della torcia. Un fruscio ora lo sento, ma rimango persa.
Del calore sul lato sinistro del mio corpo, un dolce tocco, un lieve peso.
Continuo a pensare. La vista si offusca. Sento qualcosa che mi scorre sulle guance. Poi un tocco tiepido che si intreccia alla scia precedente. Lentamente mi appoggio allo schienale del divano, oppure vengo guidata a questo movimento?

Richiudo gli occhi e ritorno a dormire, senza sogni.







Capitolo un pò breve, ma spero sia piaciuto. grazie a chi ha letto i capitoli precedenti! se volete commentare fate pure! A presto!

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Capitolo 4
*** 5 ***


pan5

Fiatone, passo destro, sinistro, di corsa, senza fermarsi, cercare un nascondiglio.
I due bambini corrono a perdifiato per i corridoi. Un uomo alto e grosso in uniforme nera li sta inseguendo a grandi falcate.
Ancora colpiti dalla scena vista alla finestra, aprono tutte le porte per trovare un posto in cui riprendere fiato, per far perdere le tracce.
Ecco, una porta si apre sulla destra.
Subito, senza pensarci il bambino la guida all’interno. La porta si chiude alle loro spalle.
Buio.
La bambina stringe forte la mano dell’amichetto. Poi si avvicina e l’abbraccia. È molto spaventata.
Lui la circonda con le braccia e la rassicura.
Sentono i passi in corridoio, l’uomo li sta ancora seguendo. Si fermano proprio davanti alla loro porta, la maniglia viene scossa, sta provando ad aprire, ma è chiusa.
Un grugnito, poi l’uomo si allontana, i suoni dei suoi passi lentamente svaniscono, mentre rimane sempre quel tonfo ritmico. Tranquilla Pan, hai visto? È passata… Non finisce la frase, le parole gli muoiono in gola.
Una luce azzurrina sta rischiarando la stanza. I bambini si guardano attorno, uno sgabuzzino. La fonte della radiazione è molto bassa, appena sopra le loro teste.
Sollevano lo sguardo e la luce aumenta d’intensità. Inizialmente ne rimangono accecati, poi la fonte azzurra si sposta, più in alto, a rischiarare maggiormente l’ambiente.
Un viso tondo, androgino, con corti capelli scuri li osserva curioso, sorridendo.
I bambini sono ammutoliti, Pan non si stacca un secondo dal suo compagno.
Rimangono immobili a fissare quella figura sorridente. Cosa vorrà da loro? Perché li ha aiutati?
La piccola scioglie l’abbraccio con cui era legata al compagno e fa un passo avanti.
Solleva il braccio, poi la mano e la pone davanti a quella strana creatura.
Anch’essa alza la mano e la pone a combaciare con quella della piccola.
La luce azzurra diventa subito più accecante, comincia ad avvolgere la bambina, a fluirle dentro, la sua pelle, a partire dalla mano sollevata, diventa luminosa, brillante, presto ogni centimetro del suo corpo brilla.
Pan sente lentamente un calore fluirle all’interno e chiude gli occhi, mentre il bambino rimane seduto, sbalordito, non riesce a muoversi.
Dopo qualche minuto, la creatura stacca la mano dalla piccola che cade a terra, esausta.
La luce ritorna di un intensità sopportabile. 

Ho sempre mantenuto un certo riserbo sulle mie capacità. Il solo fatto di avere gli occhi di due colori mi rendeva estranea alla città; il non parlare mi comportava un ulteriore isolamento, anche nelle grotte; la capacità di sprigionare calore dalle mani avrebbe attratto ancor più attenzione su di me. Già non ero ben vista da molte persone…
Ma Doc ha sempre saputo. Come ho fatto a non capirlo? Lui mi ha sempre assistito, fin dai miei primi tempi con loro, fin dal mio arrivo, quando ero appena venuta a conoscenza del mio potere e non sapevo ancora gestirlo. Gli impedivo di toccarmi le mani o cambiarmi la fasciatura nera che usavo portare, così lui mi forniva altre bende o dei guanti; mi mettevo in un cantuccio riservato e quando ero sicura di non essere osservata lasciavo respirare un po’ le dita.

-          Non c’è un motivo in particolare…. – rispondo incerta.

-          Certo, a malapena parli, ma ogni tanto ti metti ad urlare senza motivo, spaventando tutti e rischiando il linciaggio.

Volto lo sguardo, non mi va di fissarlo negl’occhi, così onesti e sinceri.

-          Avanti piccola Pan, lo sai che di me ti puoi fidare.

Piccola. Non sono più tanto piccola, ho 19 anni ormai. Sono cresciuta. Non sono più la bambina frignona che è entrata per la prima volta al Virgin Motel, con un vestitino da cerimonia tutto sbrindellato, le mani fasciate, ricoperta di lividi e graffi.
Allora Doc mi aveva accolto nella sua piccola infermeria, mi aveva disinfettato i graffi e medicata. Al contrario di tutti gli altri, non mi faceva domande in continuazione, a cui non sapevo e volevo rispondere. Semplicemente mi medicava e mi rassicurava. Ecco perché con lui parlo: lui non mi obbliga, sa aspettare e venir ricompensato.
Ora per la prima volta mi ha posto una domanda diretta e pretende una risposta. Stringo i pungi, le mani si riscaldano, ma non eccessivamente.
I miei pensieri vengono interrotti bruscamente.

-          Nemmeno di lui ti fidi? Eppure sembrava che con lui fosse diverso, oppure ho letto male tra i tuoi pensieri? Preferisci forse confidare tutto al tuo energumeno senza cervello? Tutto muscoli e zero capacità intellettive.

Zitto, penso mentre sbuffo. Damian non è stupido.
Noto che Doc mi osserva con attenzione. Mi volto sempre più da un'altra parte.

-          Ma non è di certo un uomo di scienza, riflessivo e coscienzioso. Mi da più l’apparenza dello scimmione.

Pensa quel che vuoi, ma fai il piacere di lasciarmi in pace.

-          Qui dove sono mi annoio, dovrò pur svagarmi.

Beh, trovati un altro diversivo.

-          Sei tu il mio diversivo. Apriti, parla a questo dottore da quattro soldi. Scommetto che appena può andrà a venderti ai suoi compagni muscolosi e il tuo segreto sarà subito rivelato.

Doc non lo farebbe mai.

-          Nemmeno tu ti fidi davvero di lui, altrimenti gliene avresti parlato. È inutile, rimarrai sempre sola.

-          Pan va tutto bene?

La voce di Doc mi riporta a lui. Mi volto e mi butto.

-          Sento una voce nella mia testa. Ti prego, non prendermi per pazza. Mi fido di te.

 

Doc mi fissa. Non capisco se mi ha preso per pazza o se sta ragionando. Forse è rimasto shockato e sta rimuovendo dal suo cervello le mie parole.
Alza la mano ad accarezzarsi pensosamente la barba. Sta riflettendo. Probabilmente sul come sbarazzarsi di me.
E nella mia testa silenzio. Finalmente. L’ho scacciata? L’ho vinta? Non sentirò più quella voce?

-          Non stai cantando vittoria un po’ troppo presto?

Come non detto. Sbuffo.
Doc stringe gli occhi. Mi sta studiando. Gli sorrido, in modo troppo finto perché possa credermi.
Poi ride. Comincia con una lieve risata, poi lentamente scoppia, sempre più forte, quasi sguaiatamente.
Per fortuna quel lato della grotta e poco popolato.

-          Shhhhhhhhhh! Che ti prende ora? – gli chiedo insistente.

-          Scusa, ma non ti avevo mai vista così – mi dice dopo essersi ripreso.

-          Così come? – rispondo un po’ scocciata.

-          Beh allegra, spontanea…viva.

Lo guardo senza capire.

-          Da quando sei arrivata qui, solo in poche occasioni ti sei lasciata andare. Questo avviene solo quando parli con Damian – mi prende in giro con un sorriso ed io arrossisco – o quando ci sono i bambini.

Ancora arrossata sulle gote cerco di difendermi.

-          Io…non… Damian….no!

-          Pan lo sanno tutti che gli muori dietro.

Altro che rossa, ora sono paonazza, le mani scottano! Accidenti, in certi momenti proprio non so controllarmi!

-          Non so cosa sia la voce che senti… ma per ora non può farti altro che bene!

-          Cosa!?! Doc ma che dici, non può essere, mi sta facendo impazzire!

-          Allora impazzisci, se serve a risvegliarti.

Detto questo se ne va, ancora ridendo, lasciandomi a bocca aperta in infermeria.
Scuoto la tesa come per riprendermi. Mi dirigo verso l’uscita ancora pensierosa. Doc pensa che quello che mi sta accadendo sia un bene.
Ma un estraneo che mi gironzola per il cervello, da un lieve fastidio… e poi si facesse i fatti suoi.

-          Guarda che ti sento!

Meglio allora! Così sai la mia opinione su di te, tu non hai problemi a giudicarmi…siamo pari.
Ritorno di sopra a passo svelto, molti mi guardano di traverso e tirano a se i bambini per evitare che possa anche solo avvicinarmi.
Intravedo Damian. No, non voglio parlare con lui, non sono in vena. Cerco di defilarmi, inutilmente.

-          Pan, aspetta. Devo parlarti.

Mi fermo e mi volto verso di lui. Non c’è che dire è proprio bello, sospiro.

-          Oggi tieni gli occhi aperti.

Lo guardo senza capire. Prosegue, posandomi le mani sulle spalle e avvicinando la testa alla sua.

-          C’è fermento in città. Deve essere arrivato un pezzo grosso della guardia, stai attenta. – dice sottovoce, evidentemente non vuole provocare agitazione tra la gente.

Io ho sentito, ma fino a un certo punto. Quella vicinanza, il suo calore.
Annuisco imbambolata; lui mi sorride, mi fa l’occhiolino e si allontana lasciandomi lì.



Un grazie a chi segue la storia, spero vi piaccia. se volete commentare fate pure!

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Capitolo 5
*** 4 ***


pan4

 

Girano tra i corridoi del palazzo di cristallo come se fossero a casa loro, corrono uno affianco all’altra, Pan resta sempre un po’ indietro, ma il suo amico l’aspetta sempre sbuffando e ridendo di lei.
Non vale, lui è più grande e più veloce.
Sentono un forte rombo, pare un tuono. All’inizio non ci fanno caso, sono talmente abituati a quel suono…ma sembra ripetersi in modo stranamente ritmato. Si avviano ad una delle grande vetrate di cui è dotato il palazzo.
Il cielo è, come ormai da sempre per la bimba, ricoperto di nuvoloni neri e minacciosi, le schiarite sono molto rare e poco durature. Il vento soffia, e stacca le foglie dagli alberi; ma non sembra uno dei soliti violenti temporali: non si intravedono lampi, nonostante il rumore continui ad intervalli regolari.
Abbassano lo sguardo e rimangono a bocca aperta. Una folla si è riunita all’esterno del cancello. Sono uomini, vestiti in modo semplice, quasi povero. Da lontano paiono tutti dalla pelle scura, in realtà è colpa della polvere e della terra che hanno sul corpo, per le condizioni in cui sono costretti a vivere. Urlano, sembra protestino.
Il rumore è causato da un lungo tubo che lanciano contro il cancello.
All’interno vari uomini in uniforme verde o nera controllano la situazione, ma sembrano immobili, con le armi in braccio.
Pan non capisce, paiono molto arrabbiati, ma perché?
Si volta come per chiedere al bambino qualcosa, come al solito non apre bocca, aspetta che siano gli altri a capire il suo sguardo.

-          Che hai da guardarmi? – gli risponde, poi segue il suo sguardo rivolto alla gente la fuori – Tu non puoi capire – continua sbuffando.

Riprende subito a camminare e la bimba fatica a stargli dietro, cerca di afferrarlo, ma lo manca e cade.
Un deja-vu per l’amico che stavolta le si accovaccia a fianco e la osserva mentre sta per scoppiare a piangere.
Le asciuga una lacrima e aspetta si calmi.
Rimangono in silenzio a guardarsi. Pan nota i suoi occhi neri in cui può anche specchiarsi, li osserva e li trova molto tristi.

-          Le persone la fuori… non sono persone cattive. Soffrono, tutto qui. Ora non puoi davvero capire, è inutile che ti spieghi tutto, ma ricordati solo che lo fanno per sopravvivere.

Dopo un segno di assenso l’aiuta a sollevarsi, la prende per mano e continuano a vagare tra i corridoi.

-          E voi che ci fate qui? – tuona una voce alle loro spalle.

La piccola urla, il bambino comincia a correre, trascinandola con se.

-          Corri Pan, scappa!

 
-          Corri Pan, scappa!

Non ricordo di aver sognato eppure mi ritornano in mente queste parole da un passato che mi perseguita ogni giorno.
Apro gli occhi. E’ l’alba, la pioggia ha lasciato posto ad un vento gelido, quando respiro il mio fiato condensa e diventa una piccola nuvoletta grigia. Stranamente non ho freddo, anzi , mi sento circondata da un leggero tepore, ma presto anche questo scompare.
Indosso la mia giacca e gli scarponi, mi passo le dita tra gli indomabili ricci biondi che ho al posto dei capelli e mi porto verso la cucina.
Enorme, piena di pentole di ogni dimensione e materiale, con tantissimi fuochi, ormai spenti. Apro il frigo, che non va, ma fa così freddo che non serve refrigerare i cibi per conservarli.
Tiro fuori una bottiglia di latte, ne verso un po’ in un bicchiere. Lo tengo un po’ tra le mani, per scaldarlo, in pochi attimi è pronto, bello caldo e fumante.
Lentamente mando giù qualche sorso, adoro il latte caldo la mattina.
Mi volto per tornare nel salone e me lo ritrovo davanti: appoggiato al muro con la schiena, i lunghi capelli biondi legati in una coda alla base del collo, una maglia che stringe dolcemente i suoi muscoli perfetti, protetto dal freddo da una giacca.

-          Perché ieri sei scappata via così?

Eludo il suo sguardo indagatore, evito di rispondere e provo a passare nell’altra stanza. Lui mi afferra per un braccio e mi trattiene.
Damian è forte, troppo, più di un normale essere umano, è mutato. Mi arrendo senza speranze.

-          Non vale, non posso vincere con te, bari. – dico voltandomi verso di lui.

Non cerco di liberarmi, adoro sentire il suo calore sulla mia pelle, la sua voce, i nostri corpi vicini. Il punto in cui siamo è stretto, per scherzo mi costringe a voltarmi girando il braccio dietro la schiena sento il contatto col suo petto. Il cuore accelera, arrossisco violentemente, per fortuna non può vedermi in volto!
Adesso, mi volta e mi bacia, con passione, come ho sempre sognato. Oh si, ora lo farà.
Chiudo gli occhi per assaporare meglio il momento. Ecco, molla la presa e mi volta. Stringo ancora il bicchiere in mano. Socchiudo le labbra in attesa, il momento è perfetto, solo noi.
Sento le sue mani sulle spalle, il suo respiro, manca così poco! Il mio sogno che si avvera!
Silenzio. Beh? Non succede nulla?
Socchiudo un occhio, lo vedo che sorride, poi scoppia in una risata.
Tanto ride che si piega in due e si tiene le mani sulla pancia dal male.
Ma come!??!?
Come si permette! La rabbia mi monta dentro, sento che stento a controllarla, le mani mi bollono! Ricordo che ho ancora il bicchiere di latte stretto tra le dita. Ormai sarà bollente.
Ottima idea.
Con un sorriso vendicativo sul volto glielo rovescio in testa. Comincia ad urlare e a saltare tenendosi la testa tra le mani. Ora rido io!
Si fionda al lavello e apre l’acqua fredda, che scende non propriamente limpida, ma ci si adatta!
Una volta rinfrescato, mi guarda, sogghigna e comincia ad inseguirmi. Capisco le sue intenzioni e comincio a correre divertita. Mi insegue, completamente fradicio.
Spalanco la porta sul retro e subito una ventata mi investe, ma non posso smettere di correre. Mi è subito dietro e nonostante il mio allenamento in poco tempo mi ha preso. Nella foga cadiamo e rotoliamo sull’erba.
Lui finisce sopra di me, mentre ci fermiamo e ridiamo come due pazzi. Poi ci guardiamo e lentamente ogni risata cessa, lasciando il posto a profondi respiri, il fiato è ancora corto. Restiamo li, i corpi adesi, vicini, sdraiati a terra. Tutti i miei sogni si stanno finalmente realizzando!
Che gioia, che eccitazione, che momento!
Damian diventa stranamente serio, e comincia una lieve discesa verso il mio viso. Sembra davvero che stavolta ci siamo!
Socchiudo gli occhi.

-          Disturbo?

La voce! Proprio ora?

-          Disturbi! Vedi di andartene! – dico senza neanche pensarci.

Momento rovinato! Subito mi tappo le mani con la bocca! Che disastro!

-          Che hai detto? – mi chiede Damian.

-          No nulla.

-          E invece credo di aver capito bene.

Detto questo si allontana con un lieve slancio, mi lascia a terra e si allontana.
Sbuffo e ricado con la testa all’indietro, immersa nell’erba umida. Ci è mancato così poco….

-          Non dirmi che ti piace quel bell’imbusto?!?

Uff…! incrocio le braccia al petto in segno di protesta.

-          capito, ti piace!

E anche se fosse? Non sono fatti tuoi chiunque tu sia, sto parlando con la mia coscienza, sei pregato di uscire dalla mia testa.

-          E se fossi io la tua coscienza?

Non è possibile!

-          Perché no?

Avresti una voce femminile, invece ora noto che la tua voce è maschile, quindi fuori di qui!
Basta, nessuna risposta.  Sto per alzarmi, una vento caldo mi sfiora tutto il corpo. Che succede?
Poi di nuovo, la voce, vicina, come se mi sussurrasse all’orecchio..

-          Solo ora lo noti?

 Un calore, inaspettato, sopra di me, così intenso vicino all’orecchio destro. La voce, così reale questa volta, molto vicina, come non fosse più nella mia testa. 
Resto immobile e in silenzio, le mani ben piantate a terra, coi palmi rivolti verso il basso.

-          Non parli più ora?

Ancora la sua voce, di nuovo nella testa. Non è che mi sono immaginata tutto? Era davvero più vicina?

-          Si, sono nella tua testa, quindi occhio a cosa pensi.

-          Vattene!

-          Che fai? Parli col nulla? Se qualcuno ti vedesse passeresti per pazza!

Da strana a pazza non cambierebbe molto. Almeno starei parlando!

-          Vuoi restare sdraiata a terra ancora per molto?

È vero, sono a terra, ma perché? La sensazione di calore è svanita.
Lentamente mi sollevo, mi pulisco i vestiti dalla terra e mi tolgo i fili d’erba dai capelli.
Una risata cristallina mi accompagna mentre mi dirigo verso il Virgin Motel. Prende pure in giro? Una nuova giornata comincia ora, devo darmi da fare anche oggi.  Scendo per i cunicoli bui e umidi, fino a raggiungere bambini, uomini e donne nascosti sotto l’edificio. Sono così diversi tra loro, così meravigliosi, così speciali.
Come ogni volta mi accolgono i piccoli: uno dalle lunghe orecchie appuntite, può sentire un sussurro allo stadio; una bimba dai capelli biondi e lisci con ciocche rosse, è in grado di sprigionare piccole scosse sismiche; la sua amica da cui non si separa mai, ha gli occhi bianchi, solo la pupilla è nera, può vedere il cuore della gente, capire se racchiude sentimenti positivi; con loro ci sono due gemellini, avranno 5 anni, sono in grado di comunicare col pensiero; poi altri, e altri ancora.
Tutti con un qualche potere particolare, e se proprio non ce l’hanno basta un semplice connotato atipico per impedire loro di uscire a godersi la luce del sole.  
Mi abbracciano e mi circondano di urla.
I loro genitori mi osservano chi con un sorriso, chi con un grugnito. Anche loro dotati, per la maggior parte, di fantastici attributi, ma non tutti sono felici dell’aiuto che porto: secondo alcuni attiro l’attenzione, rischio grosso e temono possa portare le uniformi nere fino a loro.
Per ora è sempre andato tutto bene.

-          Ti credi una benefattrice?

È tornata la voce. No, non voglio ascoltarla.

-          Credi che non possano farcela senza di te?

Do solamente una mano, cos’è ti da fastidio?

-          Non ti senti parte di loro, vero?

Cosa te lo fa credere?

-          Non dormi insieme a loro, semplice. Ti rifugi al piano sopra. Ti isoli.

Non sai di cosa parli, sparisci.

-          Cosa mi nascondi? Lasciami curiosare nei tuoi ricordi…

-          Vattene!

Ho urlato, ho spaventato i bambini. Alcuni ora piangono, corrono dalle loro madri. Tutti mi osservano ora. Mi circondano. Cosa vorranno farmi? 
Vorrei indietreggiare, ma non so in che direzione, ovunque mi volti vedo persone che fino ad un minuto prima mi consideravano una di loro.

-          Scusate – sussurro.

Non sono abituati a sentirmi parlare molto, nemmeno io.

-          Che succede qui?

Una voce amica! La riconosco subito, è Doc.

-          Lasciatela passare, che state combinando?

-          Ha urlato contro i ragazzi! – dice una voce di donna tra la folla che non riesco bene ad identificare.

-          È una ragazza, è normale che parli! Ora lasciatela in pace.

Nonostante questo,  la folla non accenna a lasciarmi passare.

-          Ma guarda te come è diventato ostile questo posto…vieni Pan, questa gente non ti merita, ma i miei pazienti vogliono ringraziarti ancora. – dice Doc afferrandomi per un braccio e trascinandomi con se.

Al nostro passaggio si apre un piccolo varco in cui passiamo, mentre le madri tengono stretti i loro figli e gli uomini si pongono in posizione di difesa.

-          Vedo che nemmeno loro ti considerano parte della famiglia…

Con questa frase maligna che mi rimbomba nella testa, mi lascio trascinare nel lato sud della grotta, all’infermeria.

-          Siediti e fatti dare un occhiata.

-          Non mi hanno fatto nulla – dico con voce sommessa.

-          Altrimenti li avresti bruciacchiati per benino? Andiamo, ti faresti fatta uccidere piuttosto che torcere un capello a qualcuno di loro.

-          Taci, non sai di che parli.

-          Credi che sia così stupido? Che non mi sia accoro di quel che puoi fare?

Ci scrutiamo intensamente. Riesce a leggermi dentro? Come può sapere? Sono stata molto attenta a non mostrarmi.

-          Chi credi che ti abbia curata e rimessa in sesto quando sei arrivata qui? Pan tu emani calore dalle mani, un tepore intenso, a volte ustionante. Svelato questo segreto, vuoi dirmi perché ti sei messa ad urlare?

Rimango a bocca spalancata qualche istante. Lui ha sempre saputo. Io ho faticato una vita per capire, per adeguarmi e per gestire questa mia capacità e lui sapeva.
E ora mi chiede di spiegargli cosa mi succede quando non lo capisco nemmeno io.

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Capitolo 6
*** 6 ***


pan6

Continuano a fissarsi, il bambino e la creatura luminosa. Si guardano negli occhi senza pronunciare parola, quasi senza respirare.
È lo strano essere il primo a parlare, con una voce androgina.

-          Ciao.

Il piccolo non risponde, intimidito.

-          Non devi aver paura. Ero anche io un bambino, come te. Mi chiamavano Syrio. Qual è l tuo nome?

Non si fida ancora, non vuole rispondere.

-          Ti starai chiedendo perché se sono come te, brillo di una luce azzurrina, non è così?

Gli risponde con un cenno affermativo del capo.

-          Tu sai delle guerre?

Ancora annuisce.

-          E del perché son scoppiate?

Di nuovo un cenno, ma questa volta più lieve, titubante quasi.

-          Raccontami allora, ciò che sai.

-          Le risorse energetiche erano terminate, il clima stava cambiando. Le nazioni potenti volevano rimanere tali, quindi hanno fatto di tutto per ottenere le risorse altrui.

-          In sintesi è una buona spiegazione.

-          Ma tu cosa sei? Cosa hai fatto a Pan?

-          Ti preoccupi per la tua amica? Non dovresti, la conosci appena. In ogni caso no preoccuparti, ora ti racconterò tutto.

Gli si avvicina lentamente, ma il bambino arretra. Arriva al muro del piccolo ripostiglio, oltre non può andare. Vede la creatura alzare le mani e porle sulle sue tempie. Un calore gli si sprigiona dalle dita e gli riempie la testa. Chiude  forte gli occhi. Nemmeno si accorge che non sta urlando di terrore come vorrebbe.
Inizialmente vede solo il buio. Poi luce.
Una voce comincia a parlare, la riconosce: è quella della creatura. Le immagini si susseguono, prima il pianeta, verde, rigoglioso, pulito, poi devastato.

-          Le guerre atomiche hanno sconvolto il pianeta, molto più di quanto avesse già fatto l’uomo con le sue industrie e i suoi gas serra. Ha accelerato ulteriormente l’autodistruzione del globo. La Terra non era più come l’umanità la ricordava: alcuni paesi completamente sommersi, poli invertiti, clima impazzito. Eruzioni, uragani, terremoti. L’enorme quantità di radiazioni emesse dalle detonazioni non solo ha sconvolto l’intero ecosistema mondiale, ma hanno modificato il DNA di piante, animali e esseri umani.

-          Da questo sono nata io. Sono una mutagena. Ho assorbito una forte quantità di radiazioni e sono in grado di trasmetterle agli altri, trasformare qualsiasi cosa io tocchi. I cambiamenti sono tutt’ora in atto… il clima risulta tutt’ora instabile, tempeste, uragani…ma questo lo vedi da solo.

Apre gli occhi, la creatura si è allontanata da lui, sta accarezzando i capelli di Pan che giace priva di sensi a terra, sembra stia riposando.
Continua a fissarla, a metà tra l’estasiato e l’impaurito. Le mani della piccola emettono una lieve luce rossastra, come se fossero incandescenti.

-          Come sta? – chiede il piccolo.

-          Solo un po’ scossa, ma sta bene.

-          Quella luce? Dalle sue mani…

-          Pan ora è speciale. Lo sei anche tu…

Si guarda le mani immediatamente, ma non nota nessuna luminosità, né sul dorso né sul palmo…
Il mutageno Syrio sorride.

-          È inutile che controlli, io non ti ho fatto nulla. Possiedi già dei poteri, sei nato speciale. Presto si riveleranno a te e al mondo…Sta già iniziando. Forse dopo, capirai meglio tutto.

Gli si avvicina e gli pone nuovamente la mano sulla fronte. Questa volta solo il buio ricopre ogni suo pensiero 

Riprende i sensi solo quando si sente pizzicare il volto da un lieve calore. Apre gli occhi e vede la piccola Pan al suo fianco con le guance rigate dalle lacrime. Si mette subito a sedere.

-          Che succede? Che hai?

La piccola solleva le mani verso di lui, brillano ancora.

-          Brucia.

È la prima volta che la sente parlare e ha la voce incrinata dal pianto. Si guarda intorno, ma non vede nessun altro. Prova a stringerle le mani, ma lei le ritrae e scuote energicamente la testa.

-          Lascia che ti aiuti.

Lei muove gli occhi dal viso di lui alle sue mani, più volte. Poi titubante annuisce. Lui avvicina le dita e sente un tepore sempre più crescente, non riesce a prolungare il tocco per più di un paio di secondi.
Il ragazzo si alza e nello sgabuzzino cerca qualcosa per coprire le mani, non trova di meglio che degli stracci neri.
Delicatamente afferra Pan per il braccio e gli fa aprire le mani. Facendo attenzione a non scottarsi le avvolge le mani in una fasciatura stretta, non dolorosa, più e più volte.
A questo punto si alza le prende una mano, è calda, ma il contatto è sopportabile. Escono dallo stanzetto.

 

Raccolgo la mia borsa e la giacca. Senza pensieri, svuoto la mente, corro verso la galleria della metropolitana, pronta ad entrare in città.
Dopo i bui cunicoli, spuntare tra le assi di legno che sbarrano il tunnel e addentrarsi nella città che pullula di uniformi nere è quasi un sollievo. Come ogni giorno raccolgo tutto il mio coraggio, inforco gli occhiali da sole e faccio finta di godermi la vita, come gli altri abitanti di quelle case luccicanti.
Tutti omologati, con gli stessi vestiti, con lo stesso taglio di capelli.
Osservo il flusso di gente prima di gettarmici in mezzo. Sembra una giornata tranquilla, senza troppe guardie in circolazione…mi butto.
La gente mi porta, mi trascina dove io voglio andare, dove vorrei restare.
Il palazzo di cristallo domina il paesaggio come da sempre ricordo. I negozi, i grattacieli…una città che sta ritrovando il suo splendore…a discapito di migliaia di persone cacciate e ripudiate.
E io, divisa dentro, appartenente a due mondi diversi eppure ripudiata da entrambi, cammino a testa bassa...persa nei pensieri.

-          Dove stai andando?

Uff, non sono fatti tuoi. Chiudo la mente. Cammino con più foga, non voglio ascoltare, non voglio pensare.
Perdo la via, dove volevo andare?
Un vicolo. Esco dalla fiumana in piena, prendo un bel respiro appoggiandomi al muro. Alzo lo sguardo solo per sprofondare nello sconforto. Uniformi nere, davanti a me. Che sfortuna! Mi do un occhiata intorno, mi avranno vista? Meglio non dare nell’occhio, ritorno tra la gente, cercando di ritrovare la strada.
Mi blocco, mi sento afferrare ad una spalla. A forza vengo voltata, la presa è ferrea.

-          Signorina, si fermi.

Ma come? Sono circondata! come han fatto!
Mi immobilizzano prendendomi le braccia. Il più spavaldo, quello che ha parlato, mi si avvicina con sorriso sprezzante e mi toglie gli occhiali da sole.
È finita.






grazie a tutti coloro che leggon questa storia! grazie davvero! spero vi piaccia e se avete qualche consiglio, oppure opinione (anche negativa) non esitate a commentare, grazie

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Capitolo 7
*** 7 ***


Si guardano intorno circospetti mentre camminano per i corridoi cercando di ritornare al salone delle cerimonie. Il tonfo ripetitivo all’esterno è sempre presente, ma l’urlo della folla è cresciuto, sembra molto più vicino e potente.Quando sentono dei passi cercano subito un nascondiglio dove non farsi trovare.La piccola Pan tiene le sue mani fasciate lungo i fianchi e viene trascinata dal suo giovane compagno a forza, dal braccio; il visino bagnato, gli occhi gonfi e rossi; non piange più anche se il suo corpicino è ancora scosso da lievi singhiozzi.

Oltre al rombo della folla all’esterno, ora sentono una voce, da principio lontana, poi questa assume maggiore intensità. La seguono e arrivano davanti ad una porta.Il ragazzo indica alla bambina di fare silenzio ponendo un dito sulle labbra. La piccola annuisce convinta.Lentamente socchiudono la porta. Tutti sono rivolti verso il piccolo palco, dove un uomo in vestito da sera sta parlando. La bambina fa poco caso alle sue parole: tolleranza, pazienza, collaborazione, a lei suonano così strane e difficili, a malapena le capisce. Non è questo ad attrarla. In quell’uomo lei riconosce al volo il suo papà. Spalanca la bocca in un sorriso raggiante e fa per lanciarsi verso di lui, ma il suo amico la blocca.

-          Ferma piccola! Aspetta che abbia finito di parlare ok? Poi ti porto da lui.

La piccola accetta il compromesso e si quieta. Prova ad ascoltare le parole di suo padre, ma nonostante non capisca niente se ne sente coinvolta. Ha una voce così calda e convincente, sicura di se.Si guarda intorno e vede che tutta la sala ascolta in silenzio. Qualche mugolio, ma nessuna protesta o contestazione. Scorge anche sua madre, dietro suo padre, che lo guarda orgogliosa, con lo sguardo pieno d’amore, ma anche velato da una profonda tristezza.Viene distratta da un rumore alle spalle. Distoglie lo sguardo dai suoi genitori e si volta. Un uomo vestito di nero, li guarda con un sorriso trionfante sul volto. Si avvicina in modo silenzioso.La bimba cerca di richiamare l’attenzione dell’amico tirandogli la manica della maglia con una certa insistenza. Lui da principio la scansa, poi le risponde.

-          Pan che c’è? Ti ho detto di aspettare che finisca di parlare.

Nel far questo si volta verso di lei e nota il suo sguardo impaurito. La segue girandosi a sua volta verso il corridoio. Scorge appena la figura vestita di nero, prima che questa gli sferri una botta in testa col calcio di una pistola, e perda i sensi.

Al cancello di protezione del palazzo di cristallo ristagna ora uno strana atmosfera silenziosa. Gli uomini disposti ai due lati della palizzata sono fermi, seppur scossi da un forte stato di trepidazione. Tra le sbarre che separano il palazzo di cristallo dal resto del mondo due mani si stringono a sancire un patto segreto. Nessuna esultanza, nessun commento incoronano questo contratto.Da una parte gli uomini in nero, dall’altra i mutanti.Al centro uno dei due uomini, quello con l’uniforme scura estrae una ricetrasmittente.

-          Entrate – comunica con voce dura.

Dopodiché ritira l’apparecchio nella tasca della giubba ricoperta di medaglie e riconoscimenti. Sul suo volto un ghigno raccapricciante.

Di nuovo buio. Si chiede quante volte ancora debba perdere i sensi quel giorno.Apre gli occhi e vede vicino a se Pan, legata e imbavagliata, come se ne abbia bisogno. Prova a sollevarsi in piedi, ma si accorge di avere le mani legate dietro la schiena. Anche lui ha un bavaglio sulla bocca. Fa leva con le gambe e riesce a mettersi in ginocchio, poi a sollevarsi. La piccola è seduta per terra, impaurita. Le si avvicina, si riabbassa e si gira di schiena, in modo da avere le mani rivolte verso di lei; in questo modo riesce a toglierle il bavaglio. Le gira intorno e le scioglie anche i nodi alle mani: non l’hanno legata stretta, non la temevano. Le bende inoltre impediscono al calore di ustionarlo.Pan si accarezza i polsi e guarda l’amico. Vorrebbe aiutarlo. Lui per farsi capire muove le mani. Lei si getta in soccorso e anche se non è molto abile, con un po’ di pazienza riesce ad allentare i nodi, abbastanza perché lui possa liberarsi.

-          Grazie piccola. Non sei poi così viziata. Ora cerchiamo di uscire da qui.

 

Rumore metallico, di porte che sbattono. Il suono ripetitivo di gocce d’acqua che ti penetra nel cervello e non ti abbandona. Il buio completo che circonda il mio corpo, il mio cuore, anima e cervello. Il tutto risulta statico e immobile.Solo un ripetitivo e infinito ticchettio.A quello si riduce il mio mondo in questo momento, tutto il resto è silenzio.La poca luce che filtra mi permette di vedere le sbarre della cella in cui mi hanno rinchiusa, fredda, umida e sporca. Un giaciglio di paglia è il mio ricovero. Sono a terra, con le braccia avvolte alle gambe, strette al petto. Dondolo avanti e indietro, lo sguardo vitreo e fisso.Continuo a chiedermi cosa farò ora, cosa mi accadrà, se riuscirò a fuggire, quanto mi rimane ancora da vivere. Cosa riservano ai mutanti catturati?

Poi il rumore di una porta che viene aperta, un luce più intensa filtra e mi risveglio dal torpore in cui sono caduta. Sbatto le palpebre e metto a fuoco la terra oltre i miei piedi. Mi accorgo solo ora di avere molto freddo, ma decido comunque di non muovermi.Dei passi risuonano per i corridoi, tra le celle, si avvicinano lentamente. Dal rumore è più di una persona, portano calzature pesanti.Si bloccano davanti alla porta della mia cella, aprono.

-          Alzati – mi ordina una voce.

Lentamente sciolgo le braccia e mi sollevo in piedi. Tengo lo sguardo basso, per non far intravedere troppo il viso, in parte nascosto dai capelli ribelli. Riesco a vedere che sono in quattro, di cui uno vestito in modo diverso agli altri: invece di scarponi e tenuta scura indossa stivali, un uniforme bianca e un lungo mantello gli ricade dalle spalle, di colore blu. Su cosce, petto e braccia porta delle protezioni metalliche, il volto è ricoperto da una specie di elmo che lascia libero solamente la parte inferiore del viso, il tutto ricorda molto un armatura.Si avvicina di un paio di passi, arrestandosi davanti a me.

-          Signore, potrebbe essere un imprudenza – dice uno degli uomini alle sue spalle.

Lo zittisce con un gesto spazientito della mano.Alzo lo sguardo per osservarlo meglio, ma subito comincia a girarmi attorno, squadrandomi da capo a piedi. Percepisco il suo sguardo indagatore su ogni centimetro del mio corpo, non tralascia nulla. Sento la rabbia montarmi dentro, stringo i pugni fasciati, le nocche bianche e i palmi infuocati. Come si permette! Se solo potessi mettergli le mani addosso!Finito il suo giro mi afferra il mento con la mano e mi obbliga ad incrociare il suo sguardo. Mi osserva con attenzione, dalle fessure degli occhi riesco a vedere le sopracciglia corrucciate e le rughe che gli si formano ai lati per la concentrazione. Non capisco cosa vuol fare. I suoi occhi socchiusi, sono scuri, profondi.Passo lo sguardo sulle labbra, tese,serrate, ma morbide. Poi sorride in modo agghiacciante.

-          Ciao Pan, ci incontriamo.

Una voce, la voce. Nella mia testa. Le sue labbra non si sono mosse. Sbarro gli occhi, sto per aprire la bocca e urlare.

-          Zitta, non farlo, non ti conviene.

Di nuovo il mo cervello viene colmato dalla sua voce calda, che assume ora un tono leggermente alterato. Mi chiedo se sia veramente lui, il mio aguzzino, a parlarmi nella testa.Nessuna risposta. Mi lascia dolcemente il viso, quasi accarezzandolo, poi si volta, si allontana.I suoi uomini mi alzano di forza, cerco di fare resistenza ma inutilmente. Mi bloccano le braccia dietro la schiena neutralizzandomi. Non riesco a toccarli, a scottarli, ma non servirebbe comunque a molto.

Mi trascinano per lunghi corridoi scuri, illuminati scarsamente da lampade, l’umidità impregna le ossa, le porte scorrono numerose ai lati. Quante persone, quanti mutanti possono essere rinchiusi qui? Ogni parete sembra sempre la stessa. Finalmente il corridoio si apre su di una stanza non troppo grande, con all’interno un paio di sedie e altre guardie vestite di nero. Mi lasciano li, in piedi sempre con le braccia bloccate dietro, e sento il rumore di qualcuno che si avvicina dietro di me. Il passo lento, un rumore diverso, quasi metallico, di passi. Mi è a fianco, scorgo di nuovo l’uniforme bianca, il mantello, le protezioni e più di tutto l’elmo, rilucente alla scarsa illuminazione. Si accomoda sulla sedia di fronte a me.

-          Come ti chiami? – mi chiede.

Non rispondo. Abbasso il viso, cercando di nasconderlo coi capelli

-          A quale colonia appartieni?

Silenzio.

-          Come sei entrata in città? Quale passaggio hai utilizzato? Hai eluso la sorveglianza di qualche porta? Dove?

-          Come sei sopravvissuta all’incidente?

Trattengo il fiato e sollevo lo sguardo avanti a me. Me lo sono immaginato? L’ha detto veramente? O era solo nella mia testa?

-          Qualcosa ti scuote allora.

Il fatto che abbia sentito queste parole senza che le sue labbra si muovessero…ha pochi significati. Ne ha uno solo.

-          Ho chiesto il tuo nome, rispondi! – dice facendo rimbombare le parole tra le pareti.

A che gioco stai giocando? Pongo la domanda nella mia mente, non so se otterrò una qualche risposta, una reazione, ma se è davvero lui mi risponderà? Lo osservo attentamente e lo vedo alzare un angolo della bocca in un sorriso storto, sfacciato. Mi sente.

-          Puoi continuare a non rispondere, ma questo giocherà a tuo sfavore.

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Capitolo 8
*** 8 ***


Apre la porta, sente il fiato corto della bambina appena dietro la sua spalla. È spaventata e lui non è da meno. Si ritrovano nel corridoio. Non li hanno chiusi dentro  e nemmeno li controllano. Troppo impegnati?

Forse troppo occupati in altro, non è un buon segno. Guarda lungo il corridoio, nessuno.

Fa segno alla bambina di seguirlo fuori. Poi fissandola negli occhi si pone un dito sulle labbra, non devono fiatare.

La piccola Pan annuisce e stringe la mano che il ragazzo gli tende.

Insieme cominciano a correre silenziosamente. Non incontrano nessuna guardia. Non percepiscono più suoni strani. Tutto troppo tranquillo.

Si orientano e si ritrovano nelle vicinanze del salone. Nuovamente li. Ora le porte sono aperte, ma controllate da uomini in uniforme nera. I buoni in teoria. Lui fa per rivolgersi a loro, chiedere aiuto, ma la bimba lo ferma.

Lo trattiene scuotendo la testa. Non capisce.

-          Pan che c’è? Sono i buoni, hai paura?

La piccola continua a fare segno di no. Lui le si inginocchia davanti.

-          Non ti faranno nulla di male – prova a convincerla.

-          È lui, lui ti ha picchiato.

E capisce. La piccola ha visto chi li ha rinchiusi nella stanza e legati, lui no. È riuscito solo ad intravedere un ombra.

-          Dici sul serio piccola? Sono stati loro?

La testolina bionda si muove in su e in giù. Lui sospira. La guardia presidenziale, al di sopra dell’esercito, il secondo potere più potente dello stato ha fatto questo. Avverte un brutto presentimento. Dalle porte spalancate giungono voci e suoni, ma l’oratore non è più il presidente, il padre di Pan. È una voce più rude, autoritaria, disciplinata. Quelli che escono da quella bocca sono ordini.

-          ….Un nuovo Stato… Accordo coi mutanti…non rispettato. Pronti a combattere. …

Solo stralci di conversazione giungono fino a loro. Poche parole, ma per nulla rassicuranti.

-          Ascoltami , dobbiamo raggiungere e tuoi genitori che probabilmente sono ancor là dentro. Io cercherò di distratte la guardia e tu ti fiondi nel salone. Te la senti?

La piccola ha paura, gli si stringe. Non vuole lasciarlo.

-          Non preoccuparti, ti raggiungo subito ok?

Si solleva e la prende per mano. Si guarda intorno, non vede nulla di utile, maledizione. Osserva la figura davanti alla porta.

È alto e muscoloso, ma dalla faccia sembra poco intelligente. Porta una pistola nella fondina e una mitraglietta nera e lucente a tracolla. La ricetrasmittente nel taschino gracchia in continuazione.

-          Cancello a sala, rispondete, passo.

-          Qui sala, che succede? Passo.

-          La situazione non è più così tranquilla, i mutanti vogliono sapere se ci sono novità. L’inganno non durerà per molto, passo.

-          Non manca molto, resistete. Chiudo.

Cosa sta succedendo? L’inganno? Ma cosa….!

Un forte boato e tutto trema. Stare in piedi è difficile, le guardie corrono via, verso i corridoi. I bambini si nascondono subito dietro una poltrona, poi passate le guardie si lanciano verso il salone. Ciò che vedono li impietrisce. Un uomo, grosso, enorme, col petto ricoperto di medaglie è sul palco, microfono alla mano, probabilmente a lui apparteneva la voce di poco prima.

Un folto gruppo di persone è ammassato sul lato est del salone, tutti vestiti in modo elegante, molti sono a terra, probabilmente in seguito all’esplosione. Sono tenuti sotto tiro da una decina di guardie vestite di nero, che imbracciano dei fucili. La tensione si avverte ovunque.

La piccola urla. Il bambino cerca di bloccarla ma non riesce. Ormai tutti sono voltati verso di lei.

In pochi secondi sono circondati. Ancora in trappola.

Una voce di donna chiama il nome della piccola. Lei riconosce subito la voce della madre e squadra tutti i volti che le si parano davanti fino a che non la vede. Vorrebbe tanto correrle incontro, ma la trattengono, prendendola per le braccia, puntandole addosso armi.

Lei è solo una bambina che vuole andare da sua mamma. Cade a terra e comincia a piangere.

Il bambino le si accascia accanto e cerca di calmarla.

-          Pan calmati. Adesso ti lasceranno andare da tua mamma calma.

Le accarezza i morbidi riccioli, ma lei no si calma. È scossa da singhiozzi e tremiti, non riesce a fermare le lacrime. Si sente il viso in fiamme, come il petto e le mani. È troppo agitata.

Cerca di rialzarsi, ma ricade a terra.

-          È quella piccola peste - dice una voce grossa alle sue spalle – lasciatela andare dai genitori o non smetterà di straziarci.

Il ragazzo si volta e vede il comandante di quel gruppo di ribelli voltare la schiena a quella scena. Aiuta Pan a sollevarsi, è bollente, il volto arrossato. Le prende una mano, ma la lascia subito andare, anche con le bende attorno alle dita il calore è insopportabile. La piccola capisce e stringe i pugni. Poi si volta e corre verso sua madre. Le si getta tra le braccia e scoppia a piangere, si libera finalmente della tensione e della paura che le attanagliano il cuore. La madre le accarezza la testa, bisbigliandole parole tranquillizzanti.

Uno schianto e di nuovo viene strappata via da quel dolce calore, da quella pace.

Si volta e lo vede a terra, sul pavimento, circondato dalle guardie, torturato dai loro calci, preso in giro dalle loro amare risate. Le si spezza il cuore. Lui no. Non il suo unico amico.

-          Ragazzo – parla il graduato – a te non andrà altrettanto di lusso.

 

 

Il silenzio mi avvolge di nuovo. Ho quasi paura di pensare, di realizzare, di metabolizzare. I suoi occhi freddi dritti nei miei. Quel sorriso malvagio. Non può essere, non possono appartenere alla stessa persona. Non può essere la sua voce.

Non potrebbe. Non dovrebbe. Loro non possono! Ci perseguitano per i nostri poteri! Per le nostre qualità extra! Non può essere! È contro le loro leggi!

Ma allora come è possibile? Suggestione forse? Me lo sono immaginato? Lo stress?

-          Caricatela sul camion!

Che cosa? Fa per alzarsi quando viene bloccato da uno dei suoi uomini.

-          Ma signore…!

-          Ho detto di caricarla! E ammanettatela! – fa aprendo la porta per abbandonare la stanza.

Una volta uscito, i suoi uomini si guardano e poi guardano me. Uno di loro mi si avvicina, mi afferra le mani e subito chiudo gli occhi e mi concentro. Devo scottarlo! Dalle mie mani subito fluisce calore, tremendo calore, le sento bruciare, ardere le bende che mi fasciano i palmi. Poi subito dopo un urlo, l’ho ferito! Vorrei ridere per la mia piccola vendetta, per il dolore inflitto, ma non faccio in tempo. Vengo scaraventata a terra e presa a calci in pancia. Mi rannicchio per cercare di difendermi.

-          Maledetta mutante! Cosa credevi di fare, eh?

Un altro calcio, e ancora, mentre le risate degli altri soldati nella stanza mi riempiono le orecchie. Mi sollevano di peso, con attenzione questa volta mi bloccano i polsi e trascinandomi per le spalle mi guidano lungo i corridoi freddi e umidi. Una porta, l’ennesima e siamo all’aperto. Aria pulita finalmente, che inspiro a fondo a depurare i miei polmoni. Un'altra spinta. Fuori è buio, quanto sono rimasta chiusa la sotto? Gli altri si saranno accorti che non sono tornata? E Damian? Sarà preoccupato per me? Verranno a salvarmi? Si organizzeranno e poi…e poi niente. Mi rendo conto improvvisamente che nessuno ha mai fatto nulla. Quando uno della colonia non tornava, semplicemente…semplicemente si continuava. Nessuno ha mai provato a salvarlo. Non se ne è mai parlato, nemmeno è stata suggerita l’idea qualche volta. E questa realtà come un macigno mi crolla addosso. Sono sola, più di quanto sia mai stata…

Strattonandomi mi obbligano a camminare, ma ormai non pongo più resistenza. Le loro risate e prese in giro non mi stimolano più. Sono un peso morto. Giungiamo davanti a una camionetta militare. Aprono i tendoni posteriori e molto poco gentilmente mi caricano sopra.

Richiudono il tutto e mi lasciano da sola, circondata da scatole e scatoloni. Cerco di rimettermi in piedi, ma senza poter usare le braccia l’equilibrio scarseggia e faccio molta più fatica. Cerco con la scarsa luce che filtra dai pesanti tendoni cerati cos’altro c’è in questo camion, ma non faccio in tempo.

Il motore del mezzo viene accesso e i sobbalzi mi fanno cadere col sedere sul piano. Che male!

Ci muoviamo, ma lentamente. Tendo di nuovo di rialzarmi. Ecco ci sono quasi…quando il camion prende una curva e mi sbilancio di nuovo. Questa volta finisco su uno dei sostegni laterali col muso e poi finita la curva di nuovo a terra con un tonfo. Maledizione!

-          Ehi voi! Accidenti volete fare un po’ più di attenzione?

Comincio a urlare mentre nuovamente cerco di rimettermi in piedi, ma il mezzo è instabile, e la strada decisamente poco rettilinea. Continuo a essere sbalzata i qua e di la, pesantemente, a urlare e a cadere dolorosamente. Di questo passo non arriverò intera, ovunque stiamo andando!

-          Ehi, mi sentite? Maledizione! Fermatevi e venite qua a darmi un mano!

-          Vuoi stare un po’ zitta dannazione? – una voce da una fessura che si è aperta dalla parete che separa il vano posteriore dalla cabina d guida.

-          Almeno liberatemi, così potrò reggermi!

-          Pensi che siamo così sciocchi? Ora zitta!

E la fessura viene nuovamente chiusa.

-          Devi essere veramente ridicola

Fottiti bastardo! Urlo nella mia mente ma pure con tutta la voce che riesco a tirare fuori.

Di botto il camion si ferma e da in ginocchio com’ero finisco per sbattere la faccia sul pianale dalla forza della frenata! Di nuovo, che male!

Il suono di una portiera che sbatte, il portellone posteriore che viene aperto e quella maledetta uniforme nera che sale sul rimorchio. Sbuffando mi solleva di peso e mi mette a sedere su una i quelle casse, mentre io protesto vivamente.

-          Si può sapere perché vi siete fermati? – dice una voce profonda alle nostre spalle.

Sia io che il soldato ci voltiamo un pò sorpresi. Appena lo vedo indurisco lo sguardo. Indossa sempre una stupida maschera a coprirgli il volto, ma questa volta non porta il lungo mantello o le protezioni, semplicemente la canonica uniforme nera della guardia.

-          Signore. – risponde il soldato mollandomi di colpo sulla cassa per mettersi sull’attenti. Che male, l’ennesima botta sul sedere!

-          Parla soldato!

-          La prigioniera cercava di liberarsi, sfondare le casse e non smetteva di urlare…

-          Ehi! Non è vero! Eravate voi con la vostra guida spericolata a farmi cadere in continuazione!

-          Silenzio! – urla il comandate mascherato.

Ammutolisco per il suo tono autoritario, ma solo per un momento! Che si crede! Non accetto ordini da lui! Con uno sguardo arrabbiato riapro la bocca per parlare, ma non faccio in tempo..

-          Soldato, immobilizzala e se lo ritieni necessario imbavagliala, ma in fretta. Dobbiamo ripartire subito. Non sono previste ulteriori soste fino a mezzo giorno.

-          Si signore! – scatta all’istante il sottoposto.

-          Cosa? Aspettate un secondo! Dove mi state portando? Ho il diritto di sapere! – continuo a sbraitare, cercando di farmi ascoltare.

Il soldato mi mette uno straccio sulla bocca, bagnato di una qualche sostanza. Appena provo a respirare sento i vapori penetrarmi nei polmoni, annebbiarmi la mente e le palpebre calare pesanti. Crollo mentre sento che qualcosa mi afferra.

Finalmente giunse l'ispirazione! Grazie tantissimo chi ha letto, commentato ( _New_Moon_ spero che qua troverai qualche risposta alle tue domande, ma soprattutto ti ringrazio per l'entusismo che hai messo nel commentare, ti giuro che ho iniziato a saltare sulla sedia!) e aggiunto alle seguite (CharmingVampire, Jennifer90 e _New_Moon_)! spero continuiate a seguire Pan! Anzi, se avete suggerimenti, idee..lasciateli pure nei commenti! grazie e a presto

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Capitolo 9
*** 9 ***


9.

 

-          Caricateli in macchina! E allontanatevi, presto.

-          Generale Swatson cosa sta cercando di fare? – dice il pare della piccola Pan cercando di avvicinarsi all’uomo in uniforme, mentre alcuni uomini armati lo trattengono. La bambina lo guarda col volto rigato da calde lacrime, stretta tra le braccia della madre, i pugni serrati.

-          Presidente, o meglio Ex-presidente, si calmi per il bene della sua famiglia. A breve sarà allontanato dal palazzo. La prego di non porre resistenza o non rivedrà più la sua bellissima moglie! – gli risponde con un grassa risata.

-          Ma cosa… - non riesce a concludere l’uomo che viene trascinato via, mentre la moglie si rialza con in braccio Pan, circondata da due uomini che gli puntano addosso un paio di minimitragliette. Con sguardo a terra segue il marito rassegnata, sapendo di non avere scelta, ma cerano di non mostrare debolezza. La piccola invece vorrebbe urlare, chiamare il suo amico, di cui nemmeno conosce il nome…ma è a terra svenuto, un fine rivolo di sangue che gli cola dalle labbra…

Vengono accompagnati all’ascensore, dove il presidente stringe a se sua moglie e da una carezza alla piccola in braccio. Non servono parole, sarebbero inutili.

Scendono di un paio di piani e le guardie li scortano ad una macchina, una berlina nera, vetri oscurati. Vengono fatti salire, il motore viene acceso rombando e lentamente cominciano a muoversi verso l’uscita.

 

Uscendo dai cancelli del fumo scuro avvolge la macchina e riduce la visibilità. Le urla li avvolgono e un rumore sordo metallico, li fa voltare tutti verso destra: un uomo, carnagione scura, reso ancora più buio dallo sporco che ricopre a chiazze il suo volto, addossato sulla portiera della berlina, che urla parole quasi incomprensibili tanto i sentimenti di odio e rabbia lo offuscano.

Le persone nell’abitacolo, si spostano immediatamente dal lato opposto, ipnotizzati da quella visione, senza riuscire a staccare gli occhi dal finestrino. La madre cerca i coprire il volto alla piccola Pan, l’autista cerca di accelerare, ma presto, altri corpi, altre urla e la macchina viene a breve circondata.

Il volume delle voci sale, più numerose e più vicine.

-          Maledetti! Traditori!

-          Stanno scappando, blocchiamoli!

-          Non lasciamoli fuggire!

Decine e decine di persone, sporche, urlanti e armate con armi ed i più svariati oggetti sono li intorno, le ruote si muovono lentamente. L’autista stringe con forza il volante in pelle, mentre nessuno osa parlare. La bimba guarda inorridita le persone fuori, la spaventano, le urla le entrano in testa e le squassano il cuore di dolore. Non riesce a capire cosa vogliano a loro. Sua madre continua a tenerla stretta, il padre, nel sedile davanti del passeggero è immobile e silenzioso, impassibile.

-          Tenetevi pronti – dice l’autista senza quasi muovere le labbra – quando scattano verso l macchina si parte a razzo.

Un passo. Un altro e poi la folla che si getta su di loro. Le ruote che sgommano vorticando sull’asfalto, lo stridere dei pneumatici, la sbandata del posteriore per la perdita di aderenza e poi il movimento. Il botto. Il rumore sordo di corpi che colpiscono in parabrezza, di oggetti vari scagliati sulla carrozzeria. Un vetro infranto. Le urla! Della gente fuori. Di sua madre. E la piccola che la stringe forte, con le mani calde, rischiando di bruciarla. Gli occhi sbarrati.

 

Curve rapide, sbandate e il rumore che ruggisce. Altre macchine alle calcagna, un suoni di spari che non li abbandona. Stretti, tesi e silenziosi. La vita nelle mani del loro autista carceriere. Il rombo dei motori che si avvicina. Un incrocio, poi un altro e una curva stretta, insidiosa, a ridosso del guardrail. L’auto sbanda ancora, ma l’autista riesce a tenerla. Un sospiro di sollievo, quasi, troppo presto.

Il suono di spari, incessante, uno scoppio, l’auto che non può più essere controllata.

Lo scontro, rumore di lamiere.

 

Mi sveglio per il rumore stridente dei freni. Sul camion l’aria è irrespirabile, densa di umidità e polvere. Mi ritrovo sdraiata, circondata da varie casse che mi impedivano dall’andare a sbattere in continuazione a destra o a sinistra. Le mani sempre immobilizzate dietro la schiena, un atroce dolore alla sedere. Il sudore che mi appiccica i vestiti addosso. Sulla bocca un bavaglio ad impedirmi di urlare.

Ci siamo fermati. Dalla poca luce che filtra dai tendoni cerati del camion capisco che è giorno. Provo a rialzarmi o quanto meno a mettermi in ginocchio. Delle voci all’esterno che gridano comandi e risposte certe. Movimenti vari. Rumori di colpi diversi, di motori di macchine.

Poi un tuono, uno scroscio di pioggia. Un breve temporale di pochi minuti.

Al termine di nuovo movimenti e voci.

Il portello posteriore viene aperto. La luce che entra mi ferisce gli occhi.  Due uomini entrano e mi trascinano all’esterno. La mente ancora annebbiata, probabilmente per l’anestetico fatica a mettere a fuoco l’ambiente circostante. Vedo come sempre gli ammassi di nuvole nere nel cielo, il suolo bagnato, pozzanghere qua e la,ma nonostante la pioggia fa un caldo infernale, e l’umidità rende l’aria molto pesante. Respirare con un bavaglio sulla bocca poi è ancora più difficile. Degli alberi maestosi ai bordi della strada sterrata che stiamo percorrendo, incorniciano una piccola radura dove vedo uomini indaffarati ad allestire una serie di tende ai colori mimetici, intorno ad una già montata. Cinque in totale se i sensi non mi ingannano, e visto come sono messa potrebbero benissimo.

-          Forza cammina!

Mi spingono i soldati, guidandomi verso l’accampamento. Aprono la tenda montata e mi ci fanno entrate. L’ambiente è poco luminoso, infatti al’inizio non distinguo bene cosa contiene, ma lentamente focalizzo: un sacco a pelo, degli zaini, e una specie di tavolo da campeggio d’acciaio montabile, su cui troneggia un mini pc portatile, che non emette il minimo ronzio e non è alimentato praticamente da nulla. Davanti è seduto il comandante mascherato.

-          Bene, liberatatela.

-          Ma Signore…

-          Obbedite, niente storie.

A quelle parole sento le corde lungo i miei polsi allentarsi, posso finalmente muovermi liberamente, riportare le spalle doloranti in avanti e massaggiarmi i polsi, rossi e segnati. Mi levano anche il bavaglio, ma per quello non c’è problema, non ho intenzione di parlargli molto. Non ho proprio nulla da dire!

-          Bene. Portatela fuori e datele qualcosa da fare.

-          Signore è sicuro che…

-          Ho detto di darle da fare. Fatevi aiutare a montare le tende o altro…

-          Come ordinate. Ma in questo modo..

-          Se tenterà di scappare, sarà peggio per lei. Non sopravvivrebbe nemmeno un giorno.

-          Si signore.

Dopo l’ennesimo saluto militare mi condussero all’esterno. Non sarei scappata? Questo era da vedere! Chi si credeva? E non avevo la minima intenzione di aiutare queste maledette uniformi nere. Se lo potevano proprio scordare!

Le ultime parole famose perché mi piazzarono in mano una sacca pesantissima che quasi mi trascinò con se a terra. Fino ad ora non avevo osservato tutti i militari in uniforme che mi giravano intorno, odiandoli troppo per considerarli, ma l’uomo in nero che mi si parò davanti, era alto e grosso, praticamente mi oscurava il sole, coprendomi totalmente d’ombra, portava occhiali da sole e cappello militare nero.

-          Porta questa borsa verso la tenda più esterna, quella quasi pronta. Le altre le trovi sul camion. Una volta completata, porterai all’interno tutte le borse che hai trasportato. Ci sarà uno degli uomini ad indicarti cosa fare.

Aprii la bocca per protestare ma non feci a tempo.

-          So che il comandate dice che non scapperai, ma io non mi fido. Ti tengo d’occhio ragazza, sappilo.

E dicendo questo posò la mano sulla fondina della pistola che portava stretta in vita. Fece un ghigno divertito e si diresse verso i lavori di montaggio dell’accampamento.

Sconsolata, ma di certo non sconfitta trasportai quella borsa dove mi era stato detto. Gli uomini lavoravano come tante api operaie, si impartivano ordini e altri eseguivano, ma sempre mantenendo un tono gioviale tra loro, come un allegra compagnia.

Sprezzante voltai loro le spalle e mi diressi verso il camion che mi era stato indicato, di certo non per scaricare borse. Assicurandomi che le uniformi fossero occupati e non mi stessero osservando, proseguii fino a girare dietro l’automezzo e sorpassarlo. Attesi un attimo, per essere sicura che nessuno avesse notato la mia assenza, e così fu. “Ti tengo d’occhio!”. Piuf, certo come no!

Baldanzosa e sicura di me, mi mossi fino al limitare della strada, sorpassai alcuni alberi e subito la luce che filtrava tra le foglie diminuii, tanto era fitto il manto verde sopra di me. Anche il calore diminuii, mentre l’umidità che si percepiva tra gli alberi era quasi opprimente e consistente come un muro solido, difficile da respirare. Le voci dei soldati giungevano attutite e lontane nonostante fossero a pochi metri di distanza, ero come isolata. Davanti a me il verde più fitto e scuro, dietro la prigionia, non avevo alternative. Nonostante tutto sentivo crescere la paura in me: non conoscevo quei luoghi, non sapevo in che direzione avessimo viaggiato durante la notte, non riconoscevo le piante che mi circondavano; erano rigogliose e maestose, ti avvolgevano e inebriavano col loro profumo. I piedi affondavano nel terreno soffice e nell’erba alta. Decisamente affondavano…stavo sprofondando, qualcosa mi tirava giù. Quasi non riuscivo  a muovere i piedi, ero come legata.

Osservando vidi come delle liane che spuntavano dal terreno avvolte intorno alle caviglie, come avevo fatto a non accorgermi di nulla e come era stato possibile in così poco tempo? Beh chi se ne frega! Dovevo fare qualcosa subito.

Guardandomi attorno vidi un ramo basso, che appariva resistente. Mi ci aggrappai e iniziai ad issarmi. La resistenza era notevole, ma lentamente sembrava riuscissi ad estrarmi da quelle specie di sabbie mobili. Non demorsi e continuai a tirare. Mentre lentamente uscivo dal terreno morbido le liane verdi mi seguivano e si allungavano uscendo dalla terra. Prima o poi sarebbero vero? Come risposta vidi spuntare qualcosa dal terreno una specie di bocca rossa aperta da cui provenivano le liane. Doveva essere un qualche tipo di pianta carnivora mutata o che so io. Dovevo assolutamente liberarmi, piuttosto le uniformi nere che finire trascinata nel suolo da una pianta mutante. Continuai ad issarmi e una volta estratta comincia a scalciare fino ad allentare una presa, liberai una gamba e con quella scaccia via la pianta carnivora, che ritornò al suolo con un suono sordo. Ansante e sudata all’inverosimile mi costrinsi a dirigermi di nuovo verso la strada, l’accampamento, il minore dei mali.

-          Avevo detto che non era sicuro scappare…

Quella dannata voce, di nuovo, lui. Me lo immaginai davanti al suo pc ultima generazione nella tenda mimetica. E lo maledissi.

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