Nati sotto una stella di ElenaNJ (/viewuser.php?uid=78355)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Regole Roundrobin ***
Capitolo 2: *** τρέλα (Follia) ***
Capitolo 3: *** Mai più solo (Kanon di Gemini) ***
Capitolo 4: *** La scelta di Marin (Marin/Castalia dell'Aquila) ***
Capitolo 5: *** La figlia del ghiaccio (Camus) ***
Capitolo 6: *** Tornerò in un raggio di sole (Aiolia/Ioria del Leone) ***
Capitolo 7: *** Rossi come il sangue (DeathMask) ***
Capitolo 8: *** Le inesorabili lancette del tempo (Dohko della Bilancia) ***
Capitolo 9: *** 9. L' uomo e il guerriero (Saga di Gemini) ***
Capitolo 10: *** La rosa più bella ***
Capitolo 1 *** Regole Roundrobin ***
Roundrobin
ispirata da una discussione nel forum sugli OOC più assurdi
(http://freeforumzone.leonardo.it/discussione.aspx?idd=8746567&p=7)
e
continuata in un topic apposito!
Come
reagirebbe un Cavaliere (o un God, o un Marine, o uno Spectre) all'idea
di
diventare padre (o una Sacerdotessa all'idea di diventare madre)?
Continuerebbe
a vivere da guerriero rinunciando a farsi una famiglia, appenderebbe
l'armatura
al chiodo per vivere quest'importantissima esperienza o cercherebbe di
far
convivere le due cose, conscio del rischio di rendere orfano il figlio
o,
peggio ancora, della possibilità di metterlo in pericolo?
Quali
domande potrebbe porsi, e quali potrebbero essere le alternative?
REGOLE :
Si
può
scegliere come protagonista il personaggio che si vuole ed impostare la
vicenda
come meglio si crede a livello di trama*, ma
l'obiettivo è quello di restare il
più possibile IC, quindi vi prego di:
- Evitare
di rendere assurdamente mielosi o isterici personaggi che nel manga e
nell'anime originale non lo sono;
- Evitare
le MPREG (cioè l'uomo incinto) perchè nel canon
non è previsto (almeno finora
XD);
- Evitare
il bashing gratuito di personaggi non amati;
- Evitare
il più possibile di inserire nuovi personaggi con ruoli
importantissimi
(leggasi: "Mary-Sue" e "Gary-Stu"); a tal proposito,
preciso che la madre o il padre del pupo può anche
essere un personaggio
originale ed avere un ruolo nella vicenda, così
come il pupo stesso, ma
non
diventarne il protagonista assoluto.
- Evitare
di rendere la storia un pretesto per far copulare allegramente la
vostra coppia
preferita, etero, yaoi o yuri che sia (intendo dare rating arancione a
questa
roundrobin).
Una
particolare raccomandazione, infine, vorrei farla per le questioni
aborto/violenza sessuale: assoluta libertà per
quanto riguarda l'inserire
queste tematiche nella trama, ma vi scongiuro, se decidete di farlo, di
usare
la massima sensibilità possibile.
Per
una
questione di ordine, inoltre, prego di scrivere nel titolo di quale
personaggio
intendete parlare, così che il lettore, casomai la raccolta
diventasse grande
(me lo auguro), possa scegliersi tranquillamente le storie dei suoi
personaggi
preferiti! ^^
Partecipate
numerosi!
ElenaNJ
Edit
09.12.2009:
*
Si
possono usare personaggi e situazioni ispirate ad altre fanfic; prego
soltanto
di fare in modo che il racconto sia comprensibile anche senza leggere
l'altra
storia (e se il lavoro non è vostro, di citare la fic e
l'autore cui vi siete
ispirati: penso sia il minimo!).
Un grazie
a Martyx1988 per aver posto la domanda!
Edit
01.09.2011:
*
Si possono utilizzare anche personaggi già "presi" o più di un personaggio.
Importante:
Se a qualcuno venisse in mente un titolo migliore e possibilmente in
italiano per la roundrobin, suggerisca pure! ^_^
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Capitolo 2 *** τρέλα (Follia) ***
Hai trovato un baco su EFP, per questa non vedi il testo della storia.
Segnala il problema cliccando qui. Si tratta di un form per violazioni del regolamento, ma copiate pure quanto scritto in grassetto nella casella. La storia con indirizzo 'stories/El/ElenaNJ/438458.txt' non e' visibile.
L'amministrazione provvedera' a fare il possibile per sistemare. Grazie in anticipo per la preziosa collaborazione.
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Capitolo 3 *** Mai più solo (Kanon di Gemini) ***
Hai trovato un baco su EFP, per questa non vedi il testo della storia.
Segnala il problema cliccando qui. Si tratta di un form per violazioni del regolamento, ma copiate pure quanto scritto in grassetto nella casella. La storia con indirizzo 'stories/El/ElenaNJ/438616.txt' non e' visibile.
L'amministrazione provvedera' a fare il possibile per sistemare. Grazie in anticipo per la preziosa collaborazione.
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Capitolo 4 *** La scelta di Marin (Marin/Castalia dell'Aquila) ***
la scelta di marin
La
Sacerdotessa si passò il dorso
della mano guantata sugli occhi e sulle labbra, fissando con vago
disgusto la pozza giallastra e maleodorante ai suoi piedi.
Bevve un sorso
d’acqua dalla bisaccia
in pelle, la risputò e con un sospiro si rimise la maschera
sul
volto. Un forte capogiro le fece quasi perdere l'equilibrio e lei pensò con rabbia che non poteva
indulgere oltre nelle proprie debolezze: giù nell'Arena
c’erano
degli allievi da addestrare ed il tramonto era ancora lontano.
- Affronta la
realtà. Questo non è
soltanto un malessere passeggero, e lo sai bene.
La voce era giunta
improvvisa ed
inaspettata da un punto elevato sopra le sue spalle.
Irritata nel constatare
per l’ennesima
volta quanto i suoi sensi si fossero affievoliti negli ultimi tempi,
Marin, Cavaliere d'Argento dell'Aquila, si voltò.
Dalla cima di un'enorme
architrave in
rovina, Shaina, Cavaliere d'Argento dell'Ofiuco, la stava osservando
da chissà quanto tempo, le lunghe gambe accavallate ed il
mento
appoggiato su una mano ricoperta di cuoio e metallo. Se il tono della
sua voce fosse stato quello arrogante e strafottente con cui un tempo
era solita rivolgerle la parola, Marin non avrebbe esitato a
risponderle per le rime, o forse avrebbe cercato di evitare
la
discussione con eleganza, di provocarla con mirato sarcasmo facendo
leva sui punti che sapeva più sensibili, proprio come
un'aquila che
sa sempre, per istinto e per esperienza, come ghermire anche la
più
pericolosa delle prede.
Ma aveva soltanto detto
la verità, e
né nelle sue parole né nel suo tono di voce c'era
la minima traccia
di malevolenza.
Un sorriso amaro si
dipinse sulle
labbra di Marin.
Era quantomeno ironico,
questo doveva
ammetterlo.
Come molti altri al
Grande Tempio, aveva
sempre pensato che un giorno sarebbe stata proprio Shaina a
cacciarsi in un guaio simile: Shaina, dal carattere impetuoso e
passionale; Shaina, che non esitava ad infrangere le regole se queste
erano d'impedimento a ciò che le suggeriva
l’istinto; Shaina, che
per una persona amata era disposta a tutto, anche a perdere il
proprio onore o la propria vita… non certo Marin, la saggia
Marin
additata da tutti come esempio d'integrità e
responsabilità,
l'imperturbabile Marin capace, in ogni situazione, di pensare con
chiarezza e compiere la scelta più onorevole e giusta per un
Cavaliere.
- Il padre è chi immagino, giusto?.
Marin chinò il capo,
la testa che le
martellava e la nausea, quella maledetta nausea che ormai non le dava
pace da quasi due mesi, che tornava già a farsi sentire
nonostante
il suo stomaco fosse ormai vuoto e protestasse
con dolorose contrazioni.
Era stata una follia.
La follia di una notte
in cui due
esseri, consapevoli di trovarsi con ogni probabilità vicini
alla
fine delle proprie esistenze, avevano desiderato soltanto sentirsi
vivi ed un po' meno soli.
Era successo
in fretta ed in modo del
tutto naturale, e lei non aveva provato l’imbarazzo che
sempre
aveva immaginato di sentire nella remota eventualità di
trovarsi, un
giorno, in una simile situazione, la sensazione di vergogna che,
aveva sempre ritenuto, l'avrebbe aiutata a frenarsi e tornare in
sé
quel tanto che sarebbe bastato ad evitare l'irreparabile.
E invece non aveva
provato alcun
imbarazzo, né tanto meno sensi di colpa al pensiero di
infrangere
una delle regole, non scritte ma osservate in silenzio dai
più, di
un Cavaliere: anzi, per la verità non aveva proprio pensato
a nulla,
forse per la prima volta in vita sua.
Non aveva pensato mentre
quelle braccia
forti si stringevano attorno al suo corpo con una
tenerezza che non avrebbe mai immaginato.
Non aveva pensato mentre
la sua
maschera di Sacerdotessa cadeva a terra, un lieve tintinnio metallico
sul marmo che era durato solo un momento.
Non aveva pensato
all’onore ed alla
Guerra Sacra, a come l’avrebbero giudicata gli altri
Cavalieri e la
stessa Dea Atena se solo avessero saputo, al suo ruolo di
combattente, di Maestro e di guida in seno al Santuario.
Non aveva pensato a
nulla che andasse
oltre quel momento, oltre quelle sensazioni per lei del tutto nuove,
eccitanti e sconosciute, invitanti come un frutto proibito ma al
contempo familiari come se da sempre avessero fatto parte di lei.
In
quell’abbraccio appassionato ed
impetuoso, per la prima volta in vita sua, si era permessa di essere
soltanto una donna, senza sentirsene limitata come a volte le era
accaduto durante l'addestramento e come spesso le accadeva in
battaglia.
Non aveva desiderato
essere un uomo,
non aveva desiderato che le sue braccia fossero più forti ed
il suo
fisico più possente: si era sentita bella, femminile e
desiderabile
sotto il suo tocco, ed era stato come rinascere, come ritrovare una
parte di sé perduta per lungo tempo.
Più tardi,
con il respiro di lui che
le solleticava il collo mentre, addormentato, la stringeva ancora
a sé, si era addirittura sorpresa a
sognare un altro tipo di vita… una vita in cui ogni
giorno e
per sempre potesse essere soltanto una donna di nome Marin.
Il mattino dopo era
partita.
In cerca della sorella
di Seiya, gli
aveva detto, una cosa che aveva in mente di fare da tempo.
Era vero, e lui lo
sapeva... mesi prima
aveva persino intercesso presso Atena perché le concedesse
il
permesso di lasciare il Santuario per quelle
indagini, ma qualcosa nel suo atteggiamento le aveva fatto comprendere
che, in realtà, aveva intuito che il suo desiderio era
più che
altro quello di allontanarsi da lui, almeno per un po’.
Mentre si rivestiva in
silenzio
dandogli le spalle, una vocina maligna dentro di lei
le aveva sussurrato che sarebbe stato inutile: la Guerra Sacra era
ormai alle porte e, con ogni probabilità, lui, lei, Seiya e
tutti i
loro compagni sarebbero presto morti sul campo di battaglia.
Tanto valeva continuare
a godere del
presente senza troppi pensieri e complicazioni inutili
finché era
possibile... o no?
Lo aveva guardato dritto
negli occhi
con l'intima speranza, per la prima volta in vita sua, che la risposta alle sue
domande venisse da qualcun altro, che qualcun altro prendesse
l'iniziativa al posto suo.
Ma lui non aveva detto
una parola, non
l'aveva fermata mentre si ricopriva il viso con la maschera.
Era rimasto in assoluto
silenzio,
immobile su quell'enorme scalinata candida che mai le era sembrata
tanto interminabile a guardarla sparire oltre le gole ripide ed
aspre che portavano al villaggio di Rodorio, mentre il cielo si
rischiarava ad Est ed un vento caldo giocava con le pieghe del suo
lungo mantello candido.
Poco prima di inoltrarsi
fra le rupi
scoscese, per la prima volta in vita sua, Marin aveva fermato i
propri passi e si era voltata indietro con la sensazione di lasciare,
forse per sempre, qualcosa di prezioso ed insostituibile in un luogo
da cui stava partendo. Ancora per un attimo, ricordò, aveva
sperato
in qualcosa che, a tutt'oggi, non avrebbe saputo definire.
Poi lui le aveva voltato
le spalle e si
era incamminato nella direzione opposta alla sua, senza mai guardarsi
indietro, il passo lento ma deciso, il portamento fiero ed elegante
di sempre, ed il momento era passato.
Era corsa via
imponendosi di pensare
solo alla missione che si era prefissa e si era fermata solo quando
l'aria nei polmoni aveva iniziato a bruciare così tanto che
si era
quasi sentita morire ed il Grande Tempio non era stato del tutto
nascosto alla sua vista.
Era stata via molto
tempo, più di
quanto in realtà fosse necessario.
Era stato in quel
periodo che aveva
iniziato a star male la mattina, ma l'idea di aspettare un bambino,
sebbene vi avesse fantasticato su qualche volta mentre,
accampata all'aperto, osservava le stelle in attesa di addormentarsi
del sonno vigile proprio dei Cavalieri, non l'aveva presa neppure
in considerazione.
Qualche volta aveva
pensato a lui,
chiedendosi il significato di ciò che c'era stato fra di
loro e non
approdando a risposta alcuna. Più volte aveva invece pensato
alla
Guerra Sacra, domandandosi se avesse fatto davvero bene a partire
proprio in quel momento e sentendosi in colpa perché ancora
non si
era decisa a portare a compimento la sua ricerca.
A volte, la solita
vocina malvagia le
aveva chiesto, con spietato sarcasmo, se per caso non si stesse solo
nascondendo in attesa che qualcuno la venisse a cercare come una
patetica bimba desiderosa d'attenzioni, se non stesse solo fuggendo
dai suoi doveri, dalla realtà, dai suoi stessi sentimenti e
dalle
decisioni che, si rendeva conto, avrebbe dovuto prima o poi comunque
prendere.
Aveva passato ore
insonni con lo
sguardo volto al cielo stellato, desiderando che le mille ragioni con
cui aveva cercato di metterla a tacere, ognuna valida e vera, fossero
molto, molto più salde, e aspettando il sorgere del sole per
poter
impiegare le proprie energie nella sua ricerca, per tornare ad essere
l’efficiente e razionale Marin di sempre.
Alla fine, contro ogni
previsione,
aveva davvero rintracciato Seika ed era tornata ad Atene con lei, sotto un sole nero che, per qualche ragione, l'aveva
angosciata come non mai.
Aveva trovato il
Santuario devastato,
la grande scalinata di marmo distrutta dalla furia di
un qualche colpo dalla potenza inimmaginabile, la colossale statua di
Atena che da secoli troneggiava sulle Dodici Case svanita nel nulla.
I pochi Cavalieri
rimasti, Shaina ed un
pugno sparuto di Cavalieri di Bronzo, erano in assetto da battaglia,
pronti a tutto.
Non aveva chiesto di
lui: sapeva,
dentro di sé, che di certo era già partito
all'attacco, fedele al
giuramento di proteggere la sua Dea e l'umanità a lei tanto
cara ad
ogni costo, fedele a se stesso.
Di certo non aveva
esitato un momento
e, se anche solo per un attimo aveva pensato a lei, aveva
stretto i pugni, abbassato il capo ed affrettato il passo, come era
suo dovere.
Non era più
tornato.
Per un momento, poco
prima che il sole
si oscurasse del tutto e la terra calasse in quel silenzio innaturale
il cui solo ricordo le gelava il sangue nelle vene, le era parso di
sentire il suo Cosmo dirle addio da una lontananza infinita, quasi da
un altro mondo.
Prima ancora di poter
provare
tristezza, rabbia, senso di privazione o qualunque altra cosa, aveva
visto Seika crollare in ginocchio accanto a lei ed era cominciata
l’ultima battaglia.
Non avrebbe mai scordato
le lacrime di
dolore e di sollievo sui volti dei suoi compagni e di quella ragazza
che avrebbe potuto benissimo essere lei in un'altra vita quando tutto
era finito e la luce del sole era tornata, finalmente, ad inondare la
terra.
Non le era mai parsa
così abbagliante
come dopo tutta quell’oscurità e la vita, quella
che in così
tanti avevano sacrificato anche per lei, non le era mai parsa tanto
bella e preziosa, splendente proprio come quei raggi dorati, degna di
essere vissuta con speranza ogni giorno, attimo per attimo, fino in
fondo.
Non era mai stata una
persona incline
alle lacrime ma quel giorno, ricordò, sotto la maschera
d’argento
incrinata, esse avevano bagnato anche il suo viso.
- Cosa intendi fare
adesso, Marin?
Shaina aveva lasciato il
suo seggio
improvvisato e le si era avvicinata in assoluto silenzio, proprio
come il cobra simbolo della sua costellazione.
Marin scosse il capo.
Non ne aveva
idea. Non ne aveva davvero idea.
Fino a qualche giorno
prima, aveva continuato con ostinazione ad attribuire tutti i suoi malesseri
alla stanchezza, rifiutandosi di prendere in
considerazione l'ovvio e ignorando i tanti segnali che
il suo stesso corpo continuava a lanciarle senza sosta, giorno dopo
giorno.
Dopotutto, continuava a
ripetersi, non
faceva altro che lavorare dall’alba al tramonto, addestrando
nuovi
aspiranti Cavalieri, ricostruendo ciò che era andato
distrutto,
sobbarcandosi missioni ai quattro angoli del globo per controllare la
situazione nelle varie scuole di addestramento del Santuario. Non
c’era da stupirsi che si sentisse sempre esausta tanto da
crollare
addormentata con la testa sul tavolo subito dopo aver mangiato; non
c’era da stupirsi che ogni giorno avesse la nausea per il
nervosismo; non c’era da stupirsi che avesse saltato ben due
cicli
di seguito e che in un paio di occasioni, messa particolarmente sotto
sforzo, fosse stata addirittura lì lì per svenire.
In realtà,
nel più profondo del suo
essere, era sempre stata consapevole che stava solo
continuando a fuggire, proprio come il giorno della sua partenza,
nella sciocca speranza che qualche assurdo, impossibile miracolo ponesse fine ai
suoi guai e dissolvesse il sottile, insidioso senso di colpa che, da
quando era partita per quel viaggio, non l'aveva mai lasciata.
Se lui fosse tornato,
avrebbe potuto
chiedergli consiglio, chiarire una volta per tutte cosa erano
l’uno
per l’altra, cosa significava ciò che avevano
fatto insieme… ed
allora, lo sentiva, avrebbe saputo prendere una decisione chiara e
risoluta, e l’avrebbe portata fino in fondo sopportandone
ogni conseguenza con coraggio, come sempre aveva saputo fare nella
vita… fino a quel momento, che aveva messo in discussione
tutto ciò
che lei era stata ed aveva creduto sino ad allora.
Per qualche ragione le
tornarono alla
mente le parole che Kiki, qualche giorno prima, le aveva sussurrato
mentre esaminava la sua armatura d’argento, ormai
senza
un solo graffio sulla superficie scintillante e brunita.
- Una volta, Mur mi
disse che le
armature sono come le persone. Col tempo i danni che subiscono
sembrano scomparire, ma in realtà soltanto lo strato
superficiale
appare intatto. Nel profondo, la cicatrice, la reminiscenza del colpo
subito, rimane. E anche dopo la riparazione, una corazza non
torna mai più ad essere la stessa di prima: migliore o
peggiore che
diventi, comunque cambia. L’unica vera differenza con le
persone,
forse, è che un’armatura, una volta morta,
può ancora risorgere,
anche se a prezzo di un grande sacrificio. Chi la indossa
no… non
torna più, qualunque cosa si faccia e nonostante tutto
ciò che
saremmo disposti a sacrificare.
Marin trasalì
quando Shaina le posò
una mano sulla spalla.
- Vai a riposare un
po’. Pensaci su.
Ai tuoi allievi baderò io.
- Non sono invalida.
– protestò
Marin, per la verità in maniera abbastanza fiacca.
Shaina rise gettando
indietro la testa.
Forse le erano tornate in mente le accese divergenze d’opinione che
avevano avuto sui rispettivi metodi d’insegnamento
all’epoca
dell’addestramento di Cassios e Seiya. Erano passati solo
pochi
anni, ma le sembrava fosse trascorsa un’intera vita da allora.
- Non ti preoccupare.
Non esagererò...
o almeno ci proverò.
- Quanti di voi se ne
sono accorti? -
chiese Marin dopo qualche attimo, dando voce a ciò che
più la
preoccupava.
- Solo io, credo. Gli
altri sono uomini
- Shaina scrollò le spalle come se quella frase
bastasse a spiegare tutto – Stai tranquilla, non ne
parlerò con
nessuno. Sono affari tuoi, in fondo.
Le voltò le
spalle con un cenno di
saluto e si incamminò verso l’Arena, sistemandosi
le protezioni
che le ricoprivano gli avambracci.
- Shaina! – la
chiamò Marin,
stupita di ciò che stava per chiederle.
- Cosa
c’è? – la
Sacerdotessa dell’Ofiuco si fermò senza voltarsi.
- Mi consideri
un’ipocrita?
Marin trattenne il
fiato.
Fin dai tempi
dell’addestramento
aveva sempre dichiarato con profonda convinzione che
sarebbe stata per tutta la vita una Sacerdotessa Guerriero e che non
avrebbe mai avuto figli, meno che mai da un altro Cavaliere.
Per lei, un Sacro
Guerriero, uomo o
donna che fosse, che decidesse di metter su famiglia senza rinunciare
all’armatura era, senza mezzi termini, folle, egoista ed
irresponsabile.
Un Cavaliere era un soldato
e, in
definitiva, un assassino per vocazione.
Bastava avere anche solo
una vaga
morale ed un briciolo di senso pratico per rendersi conto che mettere
al mondo un figlio nelle loro condizioni era una pazzia.
Un Cavaliere avrebbe potuto
perdere la vita
in battaglia in qualunque momento.
Un Cavaliere avrebbe dovuto
anteporre a
tutto, anche alle persone amate, persino ad un figlio, la salvezza di
Atena e dell’umanità intera.
Per un Cavaliere, ogni
legame era un’arma
a doppio taglio, difficile da mantenere nel tempo, soprattutto se
l'oggetto di quel legame era una persona qualunque, incapace di
difendersi.
Una famiglia era una
cosa a cui in tutta coscienza
bisognava rinunciare, una volta deciso di indossare una
sacra armatura.
- Vuoi la
verità? – Shaina
si voltò.
Marin assentì.
- Non l’ho mai
pensato, nemmeno
quando eravamo rivali. E se devo dirla tutta, un po’ ti
invidio...
Ti auguro ogni bene, qualunque cosa tu decida.
Le fece un rapido cenno
di saluto con
la mano, senza dare a vedere di aver sentito il
“grazie” che
Marin le aveva sussurrato a fior di labbra e si incamminò a
passo
deciso verso l'Arena.
Libera per la prima
volta da mesi da
doveri d’ogni sorta, la Sacerdotessa dell'Aquila
accarezzò
per qualche breve istante l’idea di tornare davvero a casa ed infilarsi
sotto le
coperte, o magari d’impugnare ago e filo e mettersi ad
adattare la
montagna di vestiti che da giorni giacevano abbandonati sul suo
giaciglio e che ormai non poteva più indossare, dato che
tiravano da
tutte le parti e, almeno ai suoi occhi, le davano l'aspetto di un
insaccato.
Si passò una
mano sul ventre,
stupita che solamente Shaina si fosse accorta delle sue
condizioni. Forse non era ancora così prominente da non
lasciare
adito a dubbi, considerò, ma le bastava guardarsi allo
specchio la
mattina per accorgersi che la sua figura non era già
più quella
agile e snella di cui, pur senza vantarsene, era sempre
andata tanto fiera: oltre al girovita ed ai fianchi, persino il seno
aveva cominciato ad ingrossarsi e ad appesantirsi.
Anche in quel momento
era teso, i
capezzoli dolorosamente sensibili sotto le protezioni metalliche che,
da qualche giorno, erano per lei più una tortura che una
difesa.
A parte sua madre quando
era ancora
troppo piccola per ricordarsene bene, non aveva visto molte donne
incinte nella sua vita e, come tutte le sue compagne, non era certo
esperta di maternità, parti e primipare, ma sapeva che dal
terzo,
massimo quarto mese in avanti, una gravidanza diventava evidente a
chiunque, e non si poteva più tornare indietro senza
rischiare una
tragedia.
Sì, si disse,
doveva prendere una
decisione, ed al più presto.
Sotto il sole caldo ed
abbagliante del
pomeriggio greco, si diresse dalla prima volta da quando era tornata
dal suo viaggio al cimitero del Santuario.
All'ingresso Jabu
dell'Unicorno, quasi
irriconoscibile con indosso dei semplici abiti da lavoro laceri e
sporchi di terra e le braccia cariche d'attrezzi di ogni tipo, la
salutò con un cenno deferente del capo ed un'espressione
perplessa
dipinta sul viso.
Lei ricambiò con
un sorriso divertito
da dietro la maschera.
La prima volta che
l'aveva incontrato,
ricordò, non le aveva fatto una buona impressione: le era
sembrato
solo un ragazzino arrogante, esibizionista e pasticcione, dal carattere a suo parere troppo
immaturo per un Sacro Guerriero, ma col tempo aveva avuto modo di
cambiare idea su di lui.
Forse non era e non
sarebbe mai
diventato il più forte, intelligente o amabile fra i Cavalieri,
ma in
fondo aveva un buon cuore: dover dare alle fiamme le tombe dei
guerrieri che avevano combattuto per Atena e per la giustizia nei
secoli, seppure atto necessario ed inevitabile per impedire l'attacco
da parte di altri Spettri, ricordò, lo aveva turbato nel
profondo.
Non lo aveva mai visto
all'opera di
persona, ma come tutti al Santuario era al corrente che, ormai da
mesi, espiava quella che considerava una colpa ed una grave mancanza
di rispetto verso i compagni caduti lavorando con impegno per riportare
il camposanto ai fasti passati.
Marin si guardò intorno e poté osservare i
risultati del suo costante ed indefesso impegno.
Fatto salvo per qualche
sparuta macchia
di vegetazione bruciata, ogni traccia del vasto incendio e
dell’immane devastazione subita da quel luogo era
ormai scomparsa.
Persino i fiori avevano
ricominciato a
sbocciare accanto alle semplici lapidi in pietra, nuove e
più
antiche, che costellavano il terreno a vista d'occhio. Cespugli di
ginestre, viole ed anemoni dai vivaci colori costellavano il prato ed
ondeggiavano alla lieve brezza pomeridiana.
Al centro, il sobrio e
disadorno
mausoleo a pianta ottagonale che Atena aveva voluto erigere qualche
anno prima per i suoi Cavalieri d'Oro caduti nella prima battaglia
delle Dodici Case spiccava col suo candore contro il limpido cielo
primaverile.
Si diresse a passi
sicuri verso quella
tomba che si era sempre rifiutata di visitare perché le
pareva del
tutto inutile visto che era vuota e, ammise a malincuore,
perché in
fondo non voleva davvero rassegnarsi all'idea che lui non ci fosse
più, che quello splendido uomo che per così tanto
tempo aveva
conosciuto e rispettato come amico e Cavaliere non sarebbe mai
più
tornato, con la sua presenza imponente ma allo stesso tempo discreta
e rasserenante, la sua voce virile, allegra e cordiale, la sua
decisione e la sua dolcezza, le sue tante insicurezze di semplice
essere umano nascoste sotto la scorza granitica di un eroe senza
paura.
Ancora adesso una parte
di lei
rifiutava di crederci: lui e la morte, per quanto la riguardava,
erano due cose agli antipodi e, con ogni
probabilità,
lo sarebbero sempre stati.
Si sedette tra i fiori con un sospiro e si odiò perché ancora, nel profondo, sperava in un impossibile miracolo.
Durante
l’addestramento le avevano
insegnato che i Cavalieri erano le persone più vicine alla
divinità e
che, a volte, in particolari condizioni, potevano essi stessi
compiere veri e propri prodigi.
Era vero, lei ne era
stata più volte
testimone... ma i miracoli del tipo che aveva in mente erano fuori
dalla portata di qualunque Cavaliere, per quanto potente fosse, e
anche questo lo sapeva bene.
Neppure Atena, che era
una divinità in
tutto e per tutto, poteva richiamare in vita i morti.
Ancora non riusciva a
capacitarsi del
senso di vuoto che avvertiva al solo pensiero che lui se ne fosse
andato per sempre, e se ne stupiva.
Era sempre stata una
persona decisa,
indipendente, a tratti persino fredda e spietata.
Aveva perso molti dei
suoi amici,
allievi e compagni d’addestramento negli ultimi anni, e non
sempre
era stata solo una spettatrice impotente: alcuni di essi li aveva
mandati di persona incontro ai pericoli ed alla morte, altri li aveva
addirittura uccisi con le proprie mani… per nessuno di loro,
però,
l’estremo addio era stato tanto doloroso, la rassegnazione un
amaro
premio tanto arduo da ottenere.
Con nessuno di loro
aveva mai provato
lo stesso senso di familiarità.
A nessuno di loro aveva
permesso di
toccarla a quel modo.
Di nessuno di loro
portava in grembo il
figlio.
Si guardò
intorno e, constatato che il
luogo era deserto, posò la maschera a terra.
Sollevò la testa e si godette
il soffio lieve del vento sulla pelle nuda del viso.
Lo aveva amato?
Voleva quel bambino?
Non sapeva cosa
rispondersi, ed era
strano per lei esitare quando le alternative erano solo due: il
sì o
il no.
Una grossa nuvola
coprì il sole e, per
un momento, la sua mente tornò indietro al giorno della
battaglia.
Si distese
sull’erba e fissò il
cielo, che però non era scuro e senza speranza come quel
giorno,
e cercò di pensare con lucidità, senza cedere al senso di spossatezza
e languore che di nuovo la stava pervadendo.
Lei era un Cavaliere
d'Argento e ne
era fiera. Nonostante le avversità, le sofferenze ed i dubbi
degli
ultimi tempi, nonostante le fantasticherie ed i tanti sacrifici,
desiderava rimanerlo per il resto della sua esistenza.
Non voleva rinunciare
all'armatura, ai
suoi compagni ed alla sua dea per nulla al mondo: farlo sarebbe stato
un po' come rinnegare se stessa, la sua vita e tutto ciò in
cui
aveva sempre creduto: piuttosto avrebbe preferito la morte.
Si girò su un
fianco e rabbrividì
nonostante l'aria non fosse per nulla fredda.Trattenne un altro
conato e le vennero le lacrime agli occhi.
Odiava sentirsi
così debole, odiava la
nausea, il continuo senso di stanchezza che permeava ogni suo muscolo
e quel suo corpo che continuava ad ingrossarsi giorno dopo giorno
facendola sentire goffa, sgraziata ed inutile; odiava dover dipendere
dagli altri, cosa che, lo sapeva, col progredire della gravidanza
sarebbe stata costretta a fare ogni giorno di più; odiava
sentire
così tanto la mancanza di quell'uomo che era stato la sola
causa di
tutti i suoi guai e che quel ventre per lei già
rigonfio in modo insopportabile le ricordava in ogni momento... e odiava se stessa quando
pensava così di lui, che aveva dato persino la
vita
perché ogni creatura sulla Terra, lei compresa e forse
soprattutto,
potesse continuare a vivere libera in un mondo pieno di luce e colori
e che, se avesse avuto altra scelta, avrebbe di certo desiderato esserle
accanto in un momento così delicato.
Sbuffò
spazientita. Da quando in qua
sentiva così tanto il bisogno di un uomo al suo fianco?
Poteva cavarsela
benissimo da sola, in
qualunque situazione.
Non era più
una ragazzina, e tutto si
poteva dire di lei tranne che fosse una fanciulla indifesa bisognosa
di un Cavalier servente che la tirasse fuori dai guai e la
proteggesse dal mondo.
Non aveva certo paura
dei sacrifici né
tanto meno del dolore fisico che l'avrebbero aspettata se, per
ipotesi, avesse deciso di dare alla luce il frutto di quella
relazione.
Era una donna forte,
libera, sicura.
Ma forse non abbastanza
per quello,
le sussurrò la solita vocina, altrimenti non avrebbe avuto
così
tanti dubbi ed idee contrastanti che le ronzavano per la testa, non
avrebbe aspettato mesi solo per prendere in considerazione
la questione ed in quel momento non sarebbe stata sdraiata in un
prato a farsi tante domande inutili tornando sempre al punto di
partenza senza aver risolto nulla.
Si sentiva pronta per
essere una madre?
Ridacchiò.
Quel termine, riferito ad
una come lei, era davvero fuori posto.
Si sentiva tutto tranne
che materna,
con quella sua maschera di metallo sul viso, l'armatura, un corpo e
una mente addestrati a colpire ed uccidere in migliaia di modi
diversi.
Già... sapeva
davvero tutto su come
togliere la vita a un uomo in un istante, ma quasi nulla su
come generare, crescere e proteggere un bambino giorno dopo giorno.
Un'altra volta, senza
che lo potesse
impedire, il flusso dei suoi pensieri tornò al passato ed a
lui.
Lo rivide appoggiato
ad
un'enorme colonna marmorea, le braccia incrociate sul petto ampio
mentre la osservava fasciare il braccio di un Seiya ancora molto
bambino e dal viso imbronciato, al ritmo di un rimprovero per la sua
sventatezza ad ogni giro di benda.
Quel giorno,
ricordò, le aveva detto
con un sorriso che sarebbe stata un'ottima madre.
Lei aveva riso di cuore
a quell'uscita,
e dopo qualche attimo anche lui era scoppiato a ridere, chiedendosi
ad alta voce cosa potessero saperne, in effetti, due come loro,
sull'essere dei genitori.
Negli ultimi tempi aveva ripensato
spesso a quella
frase, non più tanto convinta che quella volta lui avesse
davvero inteso
scherzare... ma forse era soltanto per la piega che avevano preso gli
eventi.
Forse era soltanto
perché, in fondo,
voleva persuadersi di avere la sua approvazione e che, se solo lo
avesse voluto, sarebbe stata all'altezza di quel compito quanto una
donna qualunque.
Ripensò al
suo allievo.
Lo aveva cresciuto da
sola per sei
lunghi anni, senza chiedere aiuto a nessuno e senza particolari
difficoltà; tutto sommato poteva affermare di aver
fatto un buon lavoro, ma lui non era di sicuro un neonato
quando le era stato affidato... e soprattutto non era suo figlio.
Non lo aveva partorito,
nutrito come
una madre, non lo aveva visto muovere i primi passi, non gli aveva
insegnato a parlare, non aveva giocato con lui. Non era una stupida:
sapeva che, con ogni probabilità, il legame che l'avrebbe
unita ad
un ipotetico figlio sarebbe stato molto diverso da quello che aveva
stretto negli anni con il suo amato allievo, per quanto anch'esso
fosse intenso ed a tratti quasi viscerale.
Sarebbe stato diverso
come il legame
che l'aveva unita all'uomo con cui l'aveva concepito era stato
diverso da quello che l'aveva unita agli altri suoi compagni.
E l'avrebbe resa debole,
vulnerabile.
Cosa avrebbe fatto se, a
causa sua,
quel bambino innocente si fosse trovato in pericolo come era successo
a Seika il giorno dell'Eclissi, con lei nello stesso stato di Seiya,
impotente mentre un dio sadico si divertiva a torturarlo col solo
scopo di far soffrire un po' di più un odiato nemico?
E se invece si fosse
trovata nella
posizione di Aiolos, costretto a scegliere tra la fedeltà
alla sua
Dea e l'amore per un essere nelle cui vene scorreva il suo stesso
sangue?
L'elenco di quegli
inquietanti
interrogativi era ancora lungo e, ad essere sincera, non aveva la
più
pallida idea di quali risposte darsi.
Il dovere, per lei, sino
ad allora
aveva sempre coinciso con i suoi desideri, ma si rendeva conto che,
una volta partorito quel figlio, le cose sarebbero cambiate in maniera radicale, per sempre.
Si rimise supina,
stiracchiò le
braccia e le incrociò dietro la testa. In alto, il vento
stava
spingendo via la grossa nube che aveva coperto il sole.
Forse le sue
idee di ragazzina
erano ancora le più sensate: avrebbe dovuto rinunciare
all'idea di
avere quel bambino, continuare ad essere una guerriera senza legami e
radici.
Sarebbe stato
più semplice, e forse
sarebbe stato meglio anche per quella creatura: che vita avrebbe potuto avere
senza un padre, con una madre come lei ed in un mondo così
crudele
come quello in cui aveva scelto di vivere e che mai, lo sapeva,
sarebbe stata capace di rinnegare?
Eppure, per qualche
ragione, non
riusciva a convincersene del tutto.
Perché?
Afferrò la
maschera, la sollevò in
alto di fronte a sé e fissò lo sguardo sul
riflesso del suo volto.
Come sempre da qualche giorno a quella parte, sapeva di conoscere
già
la risposta alla propria domanda, e sapeva che esitava a darsela solo
perché, pur nella sua semplicità, la sconvolgeva.
Quel bambino non ancora
nato era tutto
ciò che rimaneva di lui.
Era parte di lei.
Non voleva perderlo.
Poteva essere
irresponsabile, folle ed
egoista anche solo a pensarlo ma, si rese conto, voleva farlo nascere, tenerlo fra
le braccia, crescerlo, vedere nei suoi tratti e nei
suoi atteggiamenti qualcosa di colui che era stato suo padre e,
perché no, anche qualcosa di sé... sapere che, in
qualche modo, come
tanti altri esseri umani nel corso dei secoli, anche lei aveva
lanciato la sua sfida all'eternità mettendo al mondo un
essere col
suo sangue che le sarebbe sopravvissuto.
Sopra di lei, un raggio
di sole fece
capolino tra le nubi.
Chiuse gli occhi, ne assaporò il
tepore sulla pelle ed immaginò che in quel calore ed in quella
luce una parte di lui stesse cercando di comunicarle qualcosa.
Sorrise.
Era calzante.
Più che in pace a
vegliare su di lei in un ipotetico e lontano “Paradiso dei
Cavalieri” o impegnato a rinascere in un nuovo ciclo di
reincarnazioni, più che disperso chissà dove
nell'Universo come
polvere di stelle o soltanto scomparso per sempre, preferiva
immaginarlo come parte di quella grande, calda stella che da sempre
vigilava sul mondo, che gli donava luce e calore e ne alimentava la vita,
quel sole che la sua stessa scintilla vitale aveva contribuito a far
risplendere di nuovo, più ardente e luminoso che mai.
Si passò la
mano sul ventre e sussultò
nel sentirne provenire un leggero battito che si ripeté dopo
pochi
istanti. Riaprì gli occhi e seppe di aver fatto la sua
scelta.
Si alzò,
più leggera ed in
forze, serena come non lo era da mesi.
Fissò ancora
lo sguardo nel sole per
qualche istante prima di rimettersi la maschera sul viso ed
incamminarsi verso le stanze della sua dea, i pugni stretti, il passo
deciso.
Oltrepassò i
cancelli del cimitero, le
semplici, basse case di pietra assegnate a soldati e Cavalieri di rango
inferiore e l'Arena dei combattimenti, dalla quale, come al
solito, provenivano grida, boati ed incitamenti, e cominciò
a salire
la grande scalinata di pietra.
Anch'essa, come tutto il
complesso del
Tempio, mostrava ancora evidenti le profonde ferite lasciate dalla
guerra. Ripensò alle parole di Kiki, e si chiese se sarebbe
mai più
tornata ad essere la stessa.
Attraversò le
Dodici Case dello
Zodiaco rendendo un silenzioso omaggio alla memoria dei suoi
custodi e, giunta davanti alle Sale del Grande Sacerdote, si
voltò
indietro.
La salita era stata
lunga, ma non
interminabile come le era parsa la discesa il giorno della sua
partenza. Sotto di lei, intorno a lei, c'era tutto il suo mondo: anni
ed anni della sua vita, i suoi compagni, i suoi ricordi. Tutto.
Gli voltò le spalle ed
entrò, senza
esitazioni.
C'erano fresco ed ombra
all'interno,
un'atmosfera al di fuori del tempo.
Un brivido le fece
accapponare la pelle e i suoi occhi impiegarono qualche istante per
abituarsi alla semioscurità.
In fondo alla grande
sala, su un
soppalco circondato da maestose colonne, Atena era seduta sul suo
trono di pietra, regale, bellissima e distante, una vaga tristezza
dipinta sul volto giovanissimo eppure senza età.
Marin avanzò
verso di lei e, a tre
passi dal trono, si piegò su un ginocchio e abbassò il capo.
- Grande Atena, ho
qualcosa
d'importante da comunicarvi.
--------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------
Disclaimer:
fanfic basata sul mondo ed i personaggi di "Saint Seiya", creato da e
(c) Masami Kurumada.
Tutti
i diritti per questi personaggi sono (c) Masami Kurumada, Toei
Animation e probabilmente un mucchio di altra gente.
Il
loro utilizzo in questa storia non implica appoggio, approvazione o
permesso da parte loro.
Siccome
questa storia è stata pensata e scritta da una fan per altri
fan, prego di non plagiarla, di citarmi come autrice in caso di
pubblicazione altrove e di non ridistribuirla a pagamento. Grazie!
|
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Capitolo 5 *** La figlia del ghiaccio (Camus) ***
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Segnala il problema cliccando qui. Si tratta di un form per violazioni del regolamento, ma copiate pure quanto scritto in grassetto nella casella. La storia con indirizzo 'stories/El/ElenaNJ/685644.txt' non e' visibile.
L'amministrazione provvedera' a fare il possibile per sistemare. Grazie in anticipo per la preziosa collaborazione.
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Capitolo 6 *** Tornerò in un raggio di sole (Aiolia/Ioria del Leone) ***
- E ora tutti
insieme, coraggio!
- Noi abbatteremo il
Muro per i valorosi Cavalieri di Bronzo!
- Per la giustizia sulla
Terra!
- Perché
regni la pace!
- Senza alcun
indugio…
- Con la forza e la
tenacia del nostro spirito e del nostro Cosmo, che brucerà
per espandersi fino al limite estremo! Atena, mostraci un
raggio di luce, rischiara quest'oscurità!
Aiolos del Sagittario
incoccò la freccia e tese all’indietro il braccio.
Nemmeno il minimo sforzo
traspariva dal suo viso mentre l'arco si tendeva ad un angolo quasi
impossibile.
Solo un osservatore
molto attento o uno che lo conoscesse molto a fondo avrebbe potuto
intuire la fatica e l'enorme tensione nervosa che si celava dietro quel
gesto così fluido nell'impercettibile tremolio del suo
braccio, nello sguardo concentrato sotto le sopracciglia aggrottate e
nella minuscola goccia di sudore che dalla tempia gli stava scendendo
verso il mento.
Per un istante gli
angoli della sua bocca si incurvarono verso l’alto e, per un
tempo altrettanto breve, Aiolia del Leone si chiese se stesse pensando
anche lui che mancare un bersaglio così grande e vicino come
il Muro del Pianto sarebbe stata un’impresa ancor
più incredibile che aprirvi un varco persino per il
più scarso degli arcieri, figurarsi per uno la cui
abilità aveva del sovrumano.
Ma quello era suo
fratello, un uomo ostinato, risoluto, puntiglioso fino alla pignoleria
ed a volte molto severo, ma anche onesto, amabile, generoso fino
all’estremo e capace, sempre, di mettere tutto se stesso in
ciò che faceva, anche nelle cose di poco conto.
Sì… quello era proprio il fratello che aveva
tanto amato e, ahimè, anche odiato come nessun altro per
gran parte della sua vita.
Quando era riapparso il
suo cuore aveva mancato un battito e si era riempito del misto di
affetto, rimpianto ed amarezza che negli anni gli era diventato
familiare ogni volta che pensava a lui.
Gli era venuto incontro,
imponente e maestoso proprio come lo ricordava dai suoi anni
d’infanzia, l’espressione imperscrutabile e, per un
momento, si era chiesto se lo avrebbe preso a schiaffi per la sua
imperdonabile mancanza di fiducia in lui o se gli avrebbe arruffato i
capelli come faceva sempre quando era ancora un bambino che lo
osservava adorante mentre si allenava con l’arco.
Alla fine gli aveva teso
la mano, un gesto che da sempre aveva riservato soltanto a coloro che
considerava suoi pari e degni di stima.
Aiolia l’aveva
stretta forte, trattenendo lacrime di commozione e sollievo quando lui
gli aveva detto di essere orgoglioso di lui e del suo valore, col
groppo in gola nel rivedere il suo sorriso dopo tanti anni e nel
rendersi conto di quanto gli era mancato, di quanto aveva avuto bisogno
di quel gesto e di quelle parole.
Non c’erano
stati abbracci, non c’era stato il tempo per dirsi altro e
non ce ne sarebbe stato nemmeno dopo, ma nonostante ciò si
era sentito in pace con se stesso, sereno come se tutto fosse stato
detto e fatto, come se avessero avuto tutto il tempo del mondo a loro
disposizione.
Aveva chiamato Mu, Milo
e Shaka e per primo aveva seguito Aiolos, poi aveva esortato Seiya ed i
suoi amici a lasciare quel luogo.
Non c'era stata paura
nel suo cuore, in quel momento, nessun rimpianto.
Come Cavaliere d'Oro
aveva sempre saputo che sacrificare la sua vita, se ce ne fosse stato
bisogno, sarebbe stato un suo preciso dovere, ed era deciso a compierlo
senza esitazioni.
- È tutto
nelle tue mani, Seiya! – aveva raccomandato a quel ragazzo
che aveva sempre considerato una specie di scapestrato fratello minore,
con l’intima speranza che per lui il distacco non sarebbe
stato doloroso quanto lo era stato il suo da Aiolos.
Aveva guardato suo
fratello, in piedi accanto a lui, la freccia pronta fra le mani.
- A voi, giovani
Cavalieri della Speranza che fin qui siete giunti, dono la cura...
- E la salvezza di
Atena! – aveva aggiunto.
Non era stato il solo, e
sentire le voci dei suoi compagni confluire in quel grido lo aveva
commosso nel profondo: era forse la prima volta in cui tutti loro erano
davvero uniti, al di là del passato e di tutte le loro
differenze.
Quel grido era stato il
loro testamento, la loro eredità, il loro addio…
qualcosa di definitivo.
Finalmente i quattro
ragazzi si erano mossi e, mentre li oltrepassavano in lacrime, Aiolia
aveva rivolto loro un ultimo sorriso, con la speranza di riuscire a
trasmettergli forza, coraggio e serenità.
Lo schiocco della corda
che veniva rilasciata lo distolse da quei pensieri.
Come quando era bambino,
la freccia partì sibilando implacabile verso il suo
obiettivo, guidata dal Cosmo di Aiolos e da quello dei suoi dieci
compagni.
Aiolia si unì
a loro, consapevole che in quel momento stava adempiendo alla missione
della sua vita, che non doveva vacillare. Non l’avrebbe fatto.
Chiuse gli occhi e,
mentre il tempo pareva dilatarsi oltre le leggi della natura, il suo
ultimo pensiero fu per lei.
Oltre a suo fratello, a
Seiya ed alla Dea cui aveva giurato eterna fedeltà, era
stata l’unica persona per lui davvero importante.
Tra i tanti compagni di
un tempo, era stata la sola a rimanergli vicino anche nel periodo buio
dopo la scomparsa di suo fratello, la sola a non chiamare mai Aiolos
“traditore”, la sola a non guardarlo mai
dall’alto in basso, a non rifiutare di condividere con
lui anche solo un sorso dalla borraccia o lo stesso campo
d’addestramento… la sola, tra tanti ragazzi che
avevano affermato di stimare ed ammirare suo fratello, ad
attenderlo sotto la pioggia nel giorno più brutto
della sua vita ed a posare un fiore sulla soglia della Nona Casa.
Ripensò
all’ultima volta in cui l’aveva vista, a quella
sera in cui la ragione aveva finalmente ceduto agli istinti
nell’infinita battaglia che combatteva ormai da anni contro
se stesso.
Ricordò il
suo volto, più femminile e delicato di quanto si fosse
aspettato, i suoi occhi luminosi, la morbidezza dei suoi capelli ed il
calore vellutato della sua pelle.
Non avrebbe dovuto
toccarla così, non avrebbe dovuto baciare le sue
labbra… dentro di sé lo sapeva: era un Cavaliere
d’Oro ed il solo posto che l’avrebbe sempre atteso
era un campo di battaglia.
Un uomo come lui, il cui
destino era segnato, cosa avrebbe mai potuto offrire ad una donna,
oltre a un cuore spezzato?
Eppure, proprio
perché forse non avrebbe mai visto il domani per cui stava
lottando, proprio perché sapeva che la sua vita era effimera
come le scintille che si accendevano sulla sua armatura
d’oro, proprio perché quei legami che prima o poi
tutti gli uomini della sua età finivano per stringere gli
erano preclusi, non era riuscito ad impedirsi di abbandonarsi fra le
sue braccia, di stringerla sé come se lui fosse stato un
naufrago e lei il solo appiglio che gli consentisse di rimanere a galla
durante una terribile tempesta.
Forse era davvero
così… era stato solo grazie a lei, solo per lei
che non era mai sprofondato nella disperazione più totale in
tutti quegli anni, solo per lei che, pur senza temere la morte, non si
era mai gettato di proposito tra le sue fauci, solo per lei che aveva
sempre saputo fugare ogni dubbio e trasformare la paura in coraggio.
Anche adesso che la
morte gli era così prossima, anche adesso che il calore
cominciava a farsi insopportabile nonostante la protezione
dell’armatura, una parte irrazionale di lui fantasticava di
tornare sotto il sole di Atene e di starle accanto per sempre, di
costruire insieme un impossibile futuro.
Un focolare, una vita
pacifica. Il peso di un bambino sulle ginocchia.
Sono
uno sciocco,
pensò, uno sciocco
ed un irresponsabile.
La sua mente
tornò a quella mattina, lontana ormai mesi ma nitida nei
suoi ricordi, quando si era svegliato dopo il sonno più
profondo e ristoratore che avesse mai fatto. Lei era ancora
addormentata e lui, un po’ per passare il tempo, un
po’ per imprimersi meglio nella memoria ogni più
piccolo dettaglio del suo volto, si era sollevato sui gomiti e si era
messo ad osservarla mentre dormiva.
Ad un certo punto le
aveva passato un braccio attorno alla vita ed era stato allora che lo
aveva avvertito: c'era qualcosa di diverso nella sua aura, come una
minuscola scintilla vitale. Incuriosito, si era concentrato su di essa,
si era teso fino a sfiorarla.
Non c'era stata alcuna
reazione, non aveva avvertito alcuna coscienza o
personalità: quella era una vita appena agli inizi, che si
limitava a crescere a poco a poco, come avvolta in un profondo sonno.
E aveva capito.
Un
bambino.
Un enorme stupore,
un’incontenibile gioia, il più gelido terrore,
l’orgoglio virile più sconsiderato,
l’ansia più frenetica… migliaia di
sensazioni lo avevano attraversato tutte assieme in tutte le loro
massime gradazioni d’intensità a quel pensiero,
tanto da lasciarlo del tutto inebetito.
Mio
figlio.
Quando il suo cervello
aveva ripreso a funzionare, aveva iniziato a vagliare ogni possibile
ipotesi ed eventualità, o almeno a provarci.
Era stata forse la prima
volta in cui aveva rimpianto di non aver appreso meglio da suo fratello
quell’arte a suo dire tanto utile in battaglia e nella vita
di tutti i giorni: lui si era sempre gettato a capofitto in ogni cosa
senza ragionarci sopra più di tanto, convinto che
l’importante fosse dare sempre il massimo di sé,
proprio come un leone che si getta nella mischia.
Anche quella, a guardar
bene, era stata una conseguenza di quel lato impulsivo e passionale del
suo carattere.
Devo
dirglielo?
Come
reagirà?
Cosa
faremo?
Mille pensieri, mille
ipotesi gli avevano attraversato la mente, mille interrogativi gli si
erano posti tutti assieme in un guazzabuglio più intricato
del Labirinto di Cnosso di cui gli avevano raccontato da bambino.
Non era pronto per una
cosa del genere… diamine, la sua stessa scelta di vita
escludeva il doversi preparare ad una simile eventualità.
Un Cavaliere, ed a
maggior ragione un Cavaliere d'Oro, era votato alla battaglia e, molto
spesso, alla morte in giovane età: vivere tanto a lungo da
poter generare e crescere dei figli era improbabile persino in epoche
di relativa pace, ed in quel momento il Santuario era prossimo ad una
Guerra Sacra.
Quando fosse scoppiata,
lui avrebbe dovuto combattere in prima linea, e sopravvivere sarebbe
stata un’impresa ardua se non addirittura impossibile.
A pensarci bene, anche
lei quasi di sicuro sarebbe morta in battaglia: era un Cavaliere
d’Argento, e non era certo il tipo da tirarsi indietro.
L’aveva
guardata un’altra volta, le aveva scostato una ciocca di
capelli dal viso e si era reso conto di non voler nemmeno pensare ad
un’eventualità del genere: gli faceva male, in un
modo che non avrebbe mai creduto possibile.
Era stato in quel
momento che si era reso conto con una sconcertante chiarezza che
avrebbe preferito morire mille volte e patire i più orribili
tormenti per tutta l'eternità piuttosto che perderla, e che
quel bambino, nonostante tutti i problemi, nonostante l'onore,
nonostante la guerra, nonostante tutto, lui lo voleva.
C'erano nubi sopra di
loro in quel momento, pesanti e scure come quelle che si addensavano
sul loro futuro.
L'aveva stretta
più forte, l'amaro in bocca al pensiero che, forse, in un
prossimo futuro non avrebbe potuto difenderla dai nemici come in quel
momento la stava proteggendo dal freddo.
Che forse sarebbe stato
costretto ad abbandonare lei e quel bambino alla morte.
Erano pensieri indegni
di un uomo nella sua posizione, lo sapeva... così come
sapeva che l'avrebbe offesa a morte se li avesse condivisi con lei.
Il giorno in cui aveva
indossato la maschera aveva rinunciato per sempre ad essere considerata
una donna sul campo di battaglia: era stata una scelta consapevole e
ponderata, di cui aveva sempre sopportato con coraggio tutte le
conseguenze e di cui tuttora andava fiera.
E lui, sul campo di
battaglia, non poteva fare differenze fra un compagno e l'altro: tutti
erano importanti e tutti erano sacrificabili per il bene di Atena e
dell'umanità.
Anche la donna che amava.
Anche suo figlio.
Un raggio di sole aveva
fatto capolino all'improvviso fra le nubi.
Lei aveva aperto gli
occhi e tutte le parole che Aiolia avrebbe voluto dirle si erano
dissolte come il buio della notte. Non gli aveva sorriso, non lo aveva
baciato né si era stretta a lui, ma nemmeno lo aveva colpito
o aveva cercato di scostarsi.
Era rimasta a lungo
immobile nel suo abbraccio, gli occhi fissi al cielo che andava pian
piano rischiarandosi.
Forse, in quel momento,
avrebbe dovuto parlarle... e aveva desiderato farlo con tutto se
stesso: aveva desiderato rivelarle finalmente i suoi sentimenti, aveva
desiderato chiederle cosa provasse per lui, aveva desiderato spiegarle
cosa stava succedendo al suo corpo, decidere insieme il da farsi,
rassicurarla...
Di
cosa? Che mi prenderò le mie responsabilità? Che
mi occuperò di lei e del bambino? Che starò loro
accanto per sempre?
La nube aveva coperto
nuovamente il sole.
Lei si era sciolta dal
suo abbraccio, si era alzata ed aveva iniziato a rivestirsi in
silenzio, dandogli le spalle.
Altrettanto in silenzio,
lui aveva indossato abiti, armatura e mantello.
Il cuore aveva mancato
un battito quando lei si era voltata a guardarlo, la maschera
stretta fra le mani, negli occhi una muta richiesta.
Avrebbe dato la vita,
l'anima e l'onore per stringerla a sé ancora una volta... ma
non ne aveva il diritto: vita, anima ed onore non gli appartenevano.
Non con una Guerra Sacra
alle porte.
Non finché
fosse stato il Cavaliere del Leone.
Alla fine, lei si era
rimessa la maschera.
- Devo partire. Ho una
missione da compiere e il tempo stringe.
Sapeva qual era la
missione a cui si riferiva: era un compito che avrebbe potuto
impegnarla per mesi, forse addirittura anni.
Per un attimo si era
chiesto se lo stesse mettendo alla prova, ma aveva scartato subito
quell'ipotesi: non era da lei ricorrere a simili sotterfugi.
Era molto più
probabile che fosse scossa per quanto era accaduto e che volesse
allontanarsi per un po' dalla fonte dei suoi turbamenti: da lui.
Aveva annuito in
silenzio e l'aveva accompagnata alla scalinata, combattendo ad ogni
passo l'impulso di stringerla a sé, di chiederle di non
andarsene, di dare alla luce suo figlio ed essere la sua compagna, per
sempre.
Se se ne fosse andata,
forse non l'avrebbe rivista mai più.
Quel pensiero lo aveva
subito assalito con la violenza di un pugno nello stomaco e aveva poi
continuato a ronzargli in testa per quella che gli era parsa
un'eternità, eppure nemmeno allora l'aveva fermata, nemmeno
allora si era deciso a parlarle.
Se se ne fosse andata,
forse sarebbe sopravvissuta alla Guerra e, anche se era indegno di un
Cavaliere d'Oro desiderare la salvezza di una persona in
particolare quando tanti altri sarebbero morti, anche se era da
vigliacco lasciarla andare così, inconsapevole delle proprie
condizioni, anche se forse non avrebbe mai più avuto
un'altra occasione per dirle che l'amava, anche se forse lei l'avrebbe
odiato per tutto questo, aveva lasciato che partisse senza una parola,
senza cercare di trattenerla.
Era stato difficile
rimanere là, immobile in cima a quell'ampia scalinata di
marmo, mentre poco per volta la sua figura si faceva sempre
più lontana ed indistinta.
Era stato difficile
resistere all'impulso di correrle dietro a perdifiato quando, per la
prima volta da che lui ricordasse, si era fermata e si era voltata
indietro.
–
Quando tutto questo sarà finito,
tornerò da te... – aveva sussurrato al
vento che, piano piano, stava spazzando via le nubi –
Sopravvivi, ti prego.
Una breve esitazione,
poi le aveva voltato le spalle e si era incamminato nella direzione
opposta alla sua, il cuore pesante e una tenue speranza nel petto.
Era stata l'ultima volta
che l'aveva vista, l'ultima in cui si era permesso di pensare a lei, di
desiderare una vita normale e una famiglia: finché fosse
stato un Cavaliere d'Oro e finché un qualche Dio avesse
continuato a minacciare la Terra, il suo unico pensiero e il suo solo
dovere dovevano essere proteggere Atena e sconfiggere il nemico ad ogni
costo... anche a costo di perdere tutto ciò a cui teneva,
per sempre.
Ma ormai quella missione
era terminata: aveva affidato tutto a Seiya ed ai suoi compagni ed era
certo che la Dea a cui stava per sacrificare la vita non gli avrebbe
portato rancore se ora la ragione che lo spingeva a bruciare il suo
Cosmo fino al limite estremo non era la devozione per lei o il suo
dovere di Cavaliere d'Oro ma l'amore per una semplice donna e per un
bambino non ancora nato, per un figlio che non avrebbe mai potuto
tenere in braccio.
Il calore si stava
facendo insopportabile.
Tutto il suo corpo
bruciava, fuori e dentro: ad ogni respiro gli sembrava d'introdurre
fuoco nei polmoni, l'aria intorno a lui tremolava già tanto
da impedirgli di vedere in viso i suoi compagni.
Presto sarebbero tutti
svaniti nella luce dorata di un raggio di sole.
Strinse i denti. Ogni
cellula del suo corpo gli gridava di smettere, di correre lontano da
lì e di salvarsi la vita, ma se lo avesse fatto non ci
sarebbero più state speranze, non ci sarebbe più
stata vita: il sole si sarebbe oscurato per sempre ed il mondo si
sarebbe trasformato in un buio e gelido sepolcro.
Lei sarebbe morta, per
mano degli Spettri oppure di freddo e di fame.
Suo figlio non sarebbe
mai nato.
No!
Non avrebbe lasciato che
accadesse. Arse il suo Cosmo con una ferocia che non aveva mai saputo
di possedere prima di allora. L'impulso atavico che spingeva persino
gli animali a difendere il nido a costo della vita lo pervadeva in ogni
fibra, lo spingeva oltre la sofferenza fisica, oltre la paura istintiva
della propria fine: lui sarebbe morto, ma lei e suo figlio avrebbero
avuto un futuro... dovevano avere un futuro, ad ogni costo!
All'improvviso il dolore
cessò. Le sue narici si riempirono di un odore acre,
dolciastro, come di gomma bruciata. Sollevò una mano: le
dita erano carbonizzate, tanto che poteva vedere il bianco delle ossa
ed era probabile che, sotto l'armatura, anche il resto del suo corpo
fosse nelle stesse condizioni. Represse un conato e
continuò, con rabbia, con intensità ancora
maggiore.
La freccia si era
conficcata nel muro, lo sentiva, eppure quelle ostinate pietre ancora
non cedevano.
Fu colto da un violento
capogiro e cadde in ginocchio.
La vista se ne stava
andando, il tatto lo aveva abbandonato, ogni respiro era un tormento di
fuoco. Era ormai allo stremo, e anche i Cosmi dei suoi compagni stavano
svanendo a poco a poco, in un tumulto di rabbia e di speranza.
No,
non deve finire così!
Chiuse gli occhi. Se gli
fosse stato ancora possibile, avrebbe pianto.
Gli parve di fluttuare
lontano, oltre quel luogo di sofferenza, fuori dal suo corpo straziato.
Sotto di lui le colonne
candide del Grande Tempio, i luoghi della sua infanzia.
E lei. Saliva la
scalinata delle Dodici Case, un braccio intorno alle spalle di una
ragazza che pareva la sua gemella per quanto le somigliava.
Alla fine era tornata.
Provò una
fitta di rimorso al pensiero che presto avrebbe provato di nuovo il
dolore di perdere una persona cara, quel dolore che entrambi
conoscevano così bene e che li aveva tanto avvicinati
nell'infanzia.
E un giorno avrebbe
scoperto di essere incinta... di un uomo che non le sarebbe mai potuto
stare accanto, che si era ripromesso di tornare da lei e che lo
desiderava con tutte le sue forze, ma che ora non aveva altra scelta se
non morire e lasciarla sola ad affrontare quel che sarebbe venuto.
Era una donna forte,
indipendente e tenace, Aiolia lo sapeva: qualunque fosse
stata la sua decisione, era sicuro che avrebbe trovato la forza di
andare avanti... se solo lui fosse riuscito a far crollare quel
maledetto muro!
Non poteva arrendersi,
non poteva ancora permettersi di cedere alla morte.
Con uno sforzo immane,
tornò indietro, si sollevò in piedi un'altra
volta.
Bruciò tutto
quel che rimaneva di sé, della sua vita.
Ci mise tutta l'anima,
tutto l'amore, tutto il suo essere.
Per lei. Per suo figlio.
Per un futuro in cui splendesse ancora la luce del sole.
Perché a
coloro che amava ed anche a chi non conosceva e non avrebbe mai
conosciuto fosse possibile vivere liberi e scegliere il proprio futuro.
Mentre tutto intorno a
lui diventava d'un bianco abbagliante, udì uno schianto
fragoroso. Poi, il silenzio più assoluto.
– Addio...
– sussurrò con un ultimo sorriso –
Tornerò in un raggio di sole!
****
La
Sacerdotessa si sollevò a sedere sul letto, dolorante ed
intontita.
Si
sentiva stanca come se avesse combattuto per tre giorni di fila e, in
effetti, quella che si era appena consumata nella sua casupola era
stata una vera e propria battaglia.
Guardò
in basso. Stretto fra le sue braccia, avvolto in una coperta leggera e
con la pancia piena di latte, il bambino si era addormentato, le mani
minuscole strette a pugno sotto il mento, come in posizione di guardia.
Si
deterse il sudore dalla fronte, indossò la maschera e si
alzò, ignorando sia le fitte al basso ventre che le proteste
della levatrice.
Spalancò
la porta e guardò in alto.
Nel
cielo limpido di Atene il sole brillava con forza.
Sollevò
appena il bambino e gli scostò il panno dal viso.
Il
piccolo si svegliò con un sonoro vagito e tese le braccia
come per afferrare quella strana palla gialla sospesa nel cielo, poi
cambiò idea e le tirò con forza una ciocca di
capelli.
Un
sorriso le increspò le labbra, unito a una strana
malinconia: era il ritratto di suo padre, con quei riccioli castani,
quella bocca dalla piega ostinata e quella prorompente voglia di vivere.
Era
davvero tornato da lei, alla fine.
–
Lo vedi, Aiolia?
Un
raggio di sole si tuffò fra i capelli del piccolo, come una
carezza.
La sua carezza.
NdA:
1)
le parole dei Cavalieri d'Oro che aprono questa one– shot,
così come tutti i dialoghi diretti della parte iniziale sono
tratte dall'episodio n. 139 della serie animata (n. 25 del Chapter
Inferno) “Addio, Cavalieri d'Oro!”, corrispondente
al n. 26 del manga.
2)
Chiedo scusa per la lunga divagazione “fuori tema”
Aiolos/Aiolia e Aiolos/Seiya… ma mi è sembrato
plausibile che, in quel momento, oltre che alle persone amate che
avrebbe lasciato, Aiolia pensasse anche al suo fratellone e al suo
“fratellino” acquisito!
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Disclaimer:
fanfic basata sul mondo ed i personaggi di "Saint Seiya", creato da e
(c) Masami Kurumada.
Tutti
i diritti per questi personaggi sono (c) Masami Kurumada, Toei
Animation e probabilmente un mucchio di altra gente.
Il
loro utilizzo in questa storia non implica appoggio, approvazione o
permesso da parte loro.
Siccome
questa storia è stata pensata e scritta da una fan per altri
fan, prego di non plagiarla, di citarmi come autrice in caso di
pubblicazione altrove e di non ridistribuirla a pagamento.
Grazie!
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Capitolo 7 *** Rossi come il sangue (DeathMask) ***
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Capitolo 8 *** Le inesorabili lancette del tempo (Dohko della Bilancia) ***
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Capitolo 9 *** 9. L' uomo e il guerriero (Saga di Gemini) ***
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Capitolo 10 *** La rosa più bella ***
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