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Il giovane ufficiale alzò il capo. Guardò il
cielo e la sua chiara sfumatura azzurrina chiedendosi se l’avrebbe
rivisto. E quanto strano e sconcertante fosse porsi questa domanda ad appena 29
anni. Non poi così sconcertante. Comune. Banalmente comune. La guerra.
Per quasi 10 anni aveva ucciso i suoi uomini e visto morire i suoi amici. Ma se
dapprima era rimasto sconvolto, turbato, aveva poi cominciato a considerarla
normale. Scontata. La morte è scontata se vi assisti per un così
lungo periodo. Massimo guadò l’esercito avversario. Rozzi
individui cui la luce di Roma avrebbe insegnato qualcosa. Roma. Se la
immaginava luminosa. Un’ immensa fonte di luce che raggiunge anche le
oscurità più ostinate nell’esserlo. Scosse la testa. Non
era il momento. Non era mai il momento? Eseguire gli ordini è facile.
Darli ti spinge a riflettere, e questo fa male se l’unica cosa che
vorresti è non pensare. A un suo ordine, 2000 uomini avrebbero
rassegnatamente corso, si sarebbero rassegnatamente precipitati incontro
(contro) il fato. Il loro fato. Una
corsa interminabile verso il proprio filo, gridando alle parche di attenderli.
Fissò i suoi uomini. Magri, laceri, storditi dalle continue veglie e le
perenni battaglie. Cattivi forse? No, pensò il generale guardando il
soldato più vicino. No. Disperati o felici. Ciascuno di oro sa di stare
per cominciare un’altra lotta per la vita a comando. Un solo gesto, e
2000 storie avrebbero rischiato il tutto e per tutto contro la parola fine. Il
suo sguardo percorse il suo braccio alzato in attesa di venire abbassato per il
segnale convenuto. In attesa di ordinare a 2000 fili di incrociarsi, spezzarsi,
unirsi, mischiarsi, scalfirsi.
Solo.
Un.
Gesto.
Il generale contemplò l’idea di lasciarli
andare, di non dare il via a quella carneficina per molti interminabile e
interinata, una cui immagine sarebbe stata l’ultima per molti,
l’ultimo sguardo su cui gli occhi di molti suoi uomini si sarebbero
chiusi per sempre. Abbassandolo, l’aria tiepida sferzò per un
tempo che a lui parve lunghissimo sul suo braccio, sul suo strumento di
distruzione.
E l’inferno affiorò gridando sul terreno
innocente.
Massimo
cercò inutilmente di ricomporsi. Per cosa poi, si chiese. Vengo onorato
perché uccido e mi preoccupo di non dare a vedere che l’ho fatto.
Eppure l’aveva sempre fatto, aveva sempre cercato di darsi un tono di
serenità quando incontrava l’imperatore o i suoi
superiori…quando la sera, annebbiati dal sangue e ubriachi di morte i
suoi uomini cantavano attorno al fuoco, nelle notti fredde della Germania, alla
luce della luna filtrata dai pini e degli scintillii gialli degli occhi dei
lupi i soldati cercavano di dimenticare…e allora cantavano e ballavano,
in una sorta di festino che avrebbe dovuto rallegrare ma che per molti era
mirato allo stordimento dei pochi sensi di colpa che sopravvivevano a quella vita…e
che di notte strisciavano in superficie come il sangue da una
ferita…quelle notti erano qualcosa di meno lucido e sano del battersi,
qualcosa di più corrotto e contorto…tanto che alcune notti Massimo
avrebbe preferito continuare a combattere che prendervi parte. Forse era
proprio per questo, per cercare di essere un po’ meno lì per
tentare di non pensare che cercava di dare l’impressione di non avere
niente da rimproverarsi, niente di triste a cui non pensare.
Ma quella
sera era diverso. Quella sera non poteva mancare…l’Imperatore era
venuto in visita all’esercito…e lei ci sarebbe stata. E allora non
avrebbe avuto bisogno di sforzarsi di non pensare alle battaglie dei giorni
precedenti.
Spostò
il lembo leggero di stoffa rossa che lo separava dalla tenda dei generali, dove
da qualche minuto essi si erano raccolti insieme con l’imperatore per
aggiornarlo sulle vittorie degli ultimi 6 mesi. Marco Aurelio alzò gli
occhi sul nuovo arrivato, e gli spuntò un sorriso. “Ah,
Massimo…cosa dobbiamo fare con te? Tu ci togli ogni dubbio sulla riuscita
della battaglia…da quando sei diventato generale, Roma dorme sonni fin
troppo tranquilli.” Aggiunse bonariamente. Massimo sorrise di rimando, un
sorriso che non aveva nulla di forzato o formale ma che conservava il dovuto
rispetto. “Mi hai fatto chiamare, Cesare?”
“Già…giusto. Il capo dei barbari ci ha fatto un dono, un
dono che troverei ingiusto tenere per me. L’ho fatto portare nella tua
tenda, volevo avvertirti per evitare spiacevoli conseguenze al trovarti un
simile regalo senza avviso al tuo ritorno in tenda…suppongo che lo
troverai meno insolito di quanto non l’ho trovato io…ma spero
perdonerai la mia poca dimestichezza con queste cose…e in fondo tutte le
cose a noi nuove sono insolite in terra straniera, ma mai quanto in patria…e
gran parte di questa terra lo sta diventando, grazie a te… Ma non voglio
tediarti oltre né trattenervi oltre dai festeggiamenti…mi stavate
illustrando le nostre ultime conquiste, giusto?”
E Massimo
si unì agli altri generali attorno alla tavoletta di cera con gli
approssimativi tracciati di accampamenti e battaglie, scheggiata e indurita da
tutto quello che aveva passato ma ancora intatta, che ricordava così
tanto i soldati la fuori.
Quando i
generali vennero congedati la festa fuori dalla tenda non era nemmeno arrivata
al culmine. Massimo ritirò la sua cena in quelle che venivano
generosamente chiamate cucine e si diresse verso un drappello di ufficiali.
Conversò qualche minuto, gettando di tanto in tanto un occhiata alla
folla…e poi la vide. Sorrideva, discorrendo con suo padre…sembrava
assorta nella conversazione, ma lui la conosceva troppo bene…non era
interessata a una singola parola di quello che stava dicendo il suo
interlocutore…lo capiva dalle mani che fletteva ogni tanto,
distrattamente, e dagli occhi che non brillavano ma erano anzi quasi
leggermente assenti. Si diresse verso di lei quasi in sogno, per riscuotersi
dopo pochi passi. Lei non sembrava averlo visto. Stava pensando a una valida
ragione per interrompere l’imperatore in una conversazione con sua figlia
quando lei si girò verso di lui…si bloccò un momento, il
tempo necessario per non correre tra le sue braccia…e poi lo
salutò, approfittando di una pausa di Marco Aurelio. “Generale
Massimo…era da tempo che non ci vedevamo” suonava padrona di
sé e quasi distaccata, ma Massimo aveva imparato a cogliere i piccoli
segnali che sfuggivano al suo impeccabile autocontrollo implicito nel suo
rango…la vide fremere leggermente, dopo avere terminato di pronunciare
quella frase…e avrebbe giurato che la musica si era fermata, e tutto il
resto era svanito…quella sera nessuno li avrebbe disturbati, nessuno si
sarebbe accorto che mancavano…non era un ricevimento importante, ma era
una festa tra soldati…e c’era decisamente troppa confusione per
accorgersi di loro…qualcuno salutò l’Imperatore, che
andò a raggiungerlo, e loro si allontanarono, fingendo i stare conversando
da conoscenti; pochi istanti dopo erano lontani, nella luce tremolante dei
fuochi lontani, le fiamme riflesse negli occhi neri di lei un attimo prima che
lo baciasse, felice. Non c’erano parole, non serviva ricordare
all’altro quanto gli fosse mancato…lo sapevano entrambi, come sapevano
che la loro era una storia fin troppo a breve termine e senza futuro…ma
non gli era mai importato, mentre erano insieme, solo nei pomeriggi piovosi o
grigi quando entrambi erano lontani, come succedeva il 90 per cento del loro
tempo…lei si sarebbe sposata, lui avrebbe continuato a combattere,
finchè non sarebbe morto o diventato troppo vecchio per continuare a
farlo. Ma quella notte, come tutte le altre, come tutte le poche altre che
avevano trascorso insieme, non importava… c’erano solo loro, il
buio e le stelle riflesse nei loro occhi innamorati.