My (Xmas) Sharona di shanna_b (/viewuser.php?uid=41450)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo Uno ***
Capitolo 2: *** Capitolo Due ***
Capitolo 3: *** Capitolo Tre ***
Capitolo 4: *** Capitolo Quattro ***
Capitolo 5: *** Capitolo Cinque ***
Capitolo 6: *** Capitolo Sei ***
Capitolo 7: *** Capitolo Sette ***
Capitolo 8: *** Capitolo Otto ***
Capitolo 9: *** Capitolo Nove ***
Capitolo 10: *** Capitolo Dieci ***
Capitolo 11: *** Capitolo Undici ***
Capitolo 12: *** Capitolo Dodici ***
Capitolo 13: *** Epilogo ***
Capitolo 1 *** Capitolo Uno ***
1
Il
divano della nonna è sempre il
migliore.
Caldo,
confortevole
ed accogliente.
E
poi profuma.
Profuma
di
lei.
Profuma
di
casa.
Profuma
di
mille ricordi speciali di bambino…
Di
quando si
tornava a casa da scuola e la nonna era sotto il
portico ad aspettarci, ci preparava la torta
di mele, ci dava la mancetta, ci accarezzava il viso con
affetto…
Ma
anche di
ricordi spiacevoli…
Di
quando
abbiamo dovuto andarcene da qui con mamma, prendere la macchina carica
di
bagagli e di aspettative e allontanarci dalla nonna, per
sempre…
Shannon,
sospirando, in pieno amarcord fanciullesco, si mise più
comodo, continuando ad
arruffare ad occhi chiusi il pelo setoso di Leo, il gatto persiano di
sua nonna
Ruby, che gli era subito balzato addosso quando l’uomo si era
seduto sul
vecchio divano a fiorellini rosa.
Il
batterista
era in vacanza.
Una
meritata e
tanto attesa vacanza, dopo un anno pesante passato ad affrontare gli
ultimi
concerti, a ritirare gli ultimi premi sul secondo album dei 30 Seconds
to Mars,
a cercare di preparare il terzo album, a passare di avvocato in
avvocato per la
causa con la
EMI,
a pensare a come racimolare trenta milioni di dollari…
‘Che
bello
essere qui tranquilli…’, pensò Shannon,
sbadigliando e stiracchiandosi di
gusto, i piedi senza scarpe appoggiati sul tavolino davanti a lui, i
capelli
spettinati, la barba sfatta, la tentazione crescente di fabbricare a
breve un
rigenerante sonnellino pomeridiano. ‘Che meraviglia essere
qui rilassati, con
la pancia piena delle buonissime specialità della nonna, al
calore del
caminetto acceso, con la neve silenziosa che cade fuori,
l’albero di Natale
acceso… Perfetto… Sarebbe tutto perfetto
se…”
“Shannon?”
O
no, eccola
di nuovo. “No.”, disse subito, senza aprire gli
occhi, ancora prima che sua
nonna cominciasse il discorso.
Nonna
Ruby si
fece più vicina. “Sì.”
“No,
nonna.”
“Per
favore,
Shany.”
“Ti
prego,
nonna, chiedimi tutto ma questo no.”
“Ma
è per una
buona causa.”
“Ho
detto di
NO.” Shannon aprì gli occhi del tutto, seccato.
Non voleva rispondere male a
sua nonna, ma essere risoluto e non convincibile sì.
“Ma
è Natale,
Shany…”. Nonna Ruby si sedette vicino a lui e lo
guardò con occhi impietositi
dietro gli spessi occhiali, prendendo con le sue mani ossute e calde
quelle del
nipote e stringendogliele. “Almeno a Natale bisogna essere
buoni, lo sai, no?”
Shannon
sbuffò, tirando giù i piedi dal tavolino e
scacciando il gatto: “Nonna, adesso
non mi dire che se non lo faccio, Gesù Bambino non mi porta
il regalo, dai… ho
quarant’anni, ormai, e non ci credo più da un bel
po’. Da almeno trentanove
anni…”
Il
sorriso
sparì dal volto di Ruby: “No, non a te, ma se non
lo fai, Gesù Bambino i regali
non li porta a quei poveri orfani per cui devi raccogliere i
fondi.” Shannon
tolse le mani da quelle della nonna e si grattò la fronte,
pensieroso, mentre
la nonna continuava: “Si tratta solo di un paio
d’ore. Vai al Centro Anziani,
gli dici che ti mando io e fai come ti dicono. Non sarai da solo,
ovviamente,
ci saranno anche altri a darti una mano. Eh? Allora? Cosa
dici?”
La
nonna lo
guardava implorante, una leggera tremarella alle mani dovuta
all’età, e
Shannon, a cui già l’idea di uscire fuori al
freddo pungente di Bossier City
faceva venir voglia di scolarsi una cassetta di Corona Extra e fumare
dieci
sigari cubani uno dietro l’altro, sbuffò per
l’ennesima volta.
Ma
perché non
c’era Jared con lui?
Perché
quello
scorfano di suo fratello era andato a Miami a folleggiare invece che
venire in
Louisiana da sua nonna?
E,
soprattutto, perché lui non aveva trovato una scusa decente
per rimanersene a
casa sua, a Los Angeles, e si era fatto convincere da sua madre a
trascorrere
il Natale nella città in cui era nato a fare compagnia a sua nonna?
Si
maledisse
per l’ennesima volta, ma capitolò:
“OK.”, disse, sottovoce, sapendo di non
avere mai avuto scampo, soprattutto non davanti
all’espressione supplicante di
sua nonna. Era troppo buono di cuore. Jared glielo diceva sempre che
non era
sufficientemente bastardo.
La
nonna gli
accarezzò i capelli arruffati, come se avesse a che fare con
un bambino:
“Grazie, Shany. Dio te ne renderà
merito!”
L’uomo
fece
una smorfia:
“Sì-sì-come-no…”
Ruby
si alzò
dal divano lentamente, con fatica, e si avviò verso un
mobiletto, estraendone
carta e penna e cominciando a scrivere qualcosa.
“Allora… vai qui, a questo
indirizzo. E chiedi di George.”
Shannon
si
alzò dal divano di malavoglia, ancora più
lentamente di sua nonna, prese il
fogliettino, lo lesse un attimo e poi se lo ficcò nella
tasca dei jeans,
sperando che un meteorite dalle profondità dello spazio
facesse finire il mondo
intero, quel 23 dicembre, antivigilia del Natale 2008.
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Capitolo 2 *** Capitolo Due ***
2
L’auto
di
nonna Ruby era una vecchia Chevrolet Malibu nera del 1980 e sua nonna
non la
guidava ormai da decenni, anche se la faceva revisionare e sistemare
ogni anno
dal suo meccanico di fiducia, più per l’idea di
poterne avere bisogno un
giorno, che per reale necessità.
Shannon,
il
berretto di lana nero calcato in testa, due metri di sciarpa avvolta
attorno al
collo, una barba lunghissima ed incolta e gli immancabili occhiali da
sole,
mise in moto e partì uscendo dal garage con una mezza idea
di scappare fino in
California: in meno di un giorno e mezzo sarebbe stato a casa, giusto
in tempo
per il pranzo di Natale, non fosse che l’auto, nonostante gli
assidui controlli,
forse non sarebbe riuscita nemmeno ad uscire dalla Louisiana e avrebbe
perso
per strada i vari pezzi, più o meno come quelle dei cartoni
animati.
L’uomo,
con la
sigaretta accesa penzolante da un lato della bocca, in cinque minuti
arrivò
dove gli aveva indicato sua nonna: uno stabile di mattoni rossi in
pieno centro
città, con una scala di metallo all’esterno e
l’aria vissuta, due giardinetti
spogli ai lati. Parcheggiò nelle vicinanze, in mezzo ad
alcuni cumuli di neve e
a gente indaffarata con i regali, e si avviò, rassegnato
come se stesse andando
al patibolo, verso l’entrata.
‘Centro
Anziani di Bossier City’, recitava il cartello appeso sopra
una porta a vetri
decorata di renne natalizie piuttosto spelacchiate. Shannon
sbuffò per
l’ennesima volta, chiedendosi che diavolo ci faceva
lì, in anticipo sui tempi
utili a frequentare il centro anziani di almeno una quarantina di anni.
D’altra
parte,
si disse, cercando di autoconvincersi, era anche vero che non poteva
non fare
un favore a sua nonna che, nella loro vita, era per i fratelli Leto il
punto di
riferimento principale, insieme alla loro madre, Constance. Le uniche
due donne
che erano sempre state presenti e delle quali si potevano fidare
ciecamente,
dalle quali potevano andare in caso di bisogno ed essere certi di poter
essere
aiutati. Sempre.
Shannon
buttò
la sigaretta nel giardinetto vicino alla scala, spinse la porta ed
entrò,
guardandosi intorno con circospezione.
Addobbi
natalizi erano appesi un po’ dappertutto e, in un andirivieni
di gente notevole,
l’uomo intravide una specie di reception sulla destra. Si
avviò di là, con il
suo foglietto stropicciato in mano.
Un
uomo che
gli ricordava moltissimo John Candy, con lo stesso viso rubicondo e
ilare, lo
guardò subito, alzando lo sguardo da una pila di carte e
sorridendo, forse un
po’ eccessivamente.
Shannon
non
rispose al sorriso. “Ehm… buongiorno. Cerco il
sig. George per…”
“Sono
io. Sei
il nipote di Ruby?”
“Sì.”
“Tua
nonna ha
appena chiamato per dire che saresti venuto.”
Bene.
Fregato
in pieno. Trappola chiusa. Nessuna via d’uscita.
“Ah, bene.”
“Perfetto.
Mancavi solo tu, in effetti.” L’uomo si
alzò ed uscì da dietro il bancone.
“Vieni con me.”
Shannon,
camminando come se stesse pestando delle uova, lo seguì
lungo un corridoio,
fino ad arrivare ad una porta in fondo a destra, che George
aprì.
Era
il
magazzino.
I
due uomini
entrarono e George cominciò subito a squadrare Shannon dalla
testa ai piedi:
“Ecco… uhm… Che taglia porti?”
Shannon
si
tolse il berretto di lana, visto che cominciava a sentire caldo e
quella non
era una domanda a cui gli piaceva rispondere, non dopo tutto quello che
aveva
passato negli ultimi mesi. Esitò un attimo e George
parlò per lui: “Non sei
molto alto e direi XL, però dalla tua corporatura direi XXL.
Quindi ti do XXL
e… direi anche che non ti serve la pancia finta
perché già hai la tua…”
Poi
l’uomo
scoppiò a ridere credendo di aver fatto la battuta
dell’anno, ma Shannon,
sorpreso di tutta quella confidenza non richiesta, dapprima
masticò amaro e poi
si ritrovò ad avere dei pensieri poco natalizi del tipo
“Fottiti, stronzo,
vaffanculo, figlio di…”. Fu tentato di
giustificarsi dicendogli che la sua
grassezza e il suo gonfiore erano dovuti ai medicinali che prendeva in
quel
periodo per i problemi al braccio sinistro, ma si fermò
subito: perché doveva
sentirsi in dovere di discolparsi con quel deficiente-maleducato?
Shannon
si
tolse gli occhiali e guardò malissimo dritto negli occhi
quel John Candy
riuscito male: “Mi dia tutto e basta. Decido io cosa
indossare e cosa no.”,
proclamò, con una voce che sembrava provenire
dall’oltretomba e dandogli del
lei, giusto per creare un baratro tra di loro.
Il
tizio si
accorse che l’espressione di Shannon era decisamente omicida.
Si affrettò a
prendere una busta di carta sigillata dalla fila di scaffali davanti a
lui:
“OK-OK. Ecco qui. E… se vuoi cambiarti, il
camerino è in fondo al corridoio, a
sinistra.”
Shannon
non
rispose nemmeno, offeso. Prese con sdegno la busta dalle mani del tizio
e si
diresse verso il camerino, giurando a sé stesso che sarebbe
stata l’ultimissima
volta in vita sua che si vestiva da Babbo Natale.
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Capitolo 3 *** Capitolo Tre ***
3
Shannon
sbuffò
scontento, per la milionesima volta.
Era
quasi
un’ora che aspettava vestito di tutto punto da Babbo Natale
(barba e capelli
lunghi bianchi compresi) nei pressi del centro commerciale, nel
parcheggio
vicino alla cabina telefonica dove doveva incontrarsi con gli altri,
secondo le
indicazioni dategli da George, ma di altri babbi e/o babbe natale
nemmeno
l’ombra, solo quella strana neve mista a pioggia che cadeva
così forte come a
Bossier City non si era mai vista e che copriva lentamente ogni cosa.
L’uomo
cominciava a stancarsi: erano le quattro del pomeriggio e lui avrebbe
sprecato
un altro quarto d’ora al massimo e poi se ne sarebbe andato,
e agli orfani
avrebbe fatto una bella donazione sotto forma di pingue assegno,
piuttosto che
passare un minuto di più con quel ridicolo vestito addosso.
E
non solo
ridicolo: soprattutto fatto di una stoffa che non teneva per niente
caldo. Per
fortuna che sotto si era tenuto tutti i suoi abiti (due magliette,
camicia
felpata a scacchi verdi e neri, pantaloni neri e giacca di pelle)
altrimenti
avrebbe fatto la fine di un tricheco congelato. Sì, di un
tricheco: perché con
tutti quegli strati di indumenti e i baffi finti che coprivano i suoi
ne aveva
pure l’aspetto…
Shannon
cominciò a camminare su e giù, saraccando
pesantemente tra sé e sé, quando,
improvvisamente, nel turbinio di fiocchi e acqua gelata, dal fondo del
parcheggio vide una figura correre verso di lui.
Una
ragazza.
Shannon
si
fermò un attimo, sperando in cuor suo che non fosse una
echelon infoiata e con
gli ormoni a palla, desiderosa soltanto di buttarlo per terra
lì, in mezzo alla
neve, ed abusare di lui.
No,
impossibile. Vestito così non lo avrebbe riconosciuto
nemmeno sua madre, si
disse, e poi, per il fatto che erano in un periodo di stanca nella
produzione
del CD e la loro ultima apparizione era stata agli EMA più
di un mese prima,
era un periodo che non ne avevano molte alle calcagna, di fans
scalmanate, e
probabilmente non a Bossier City.
Allora
si
rassicurò e cominciò a squadrare la ragazza da
capo a piedi: era sicuramente
più giovane di lui, con lunghi capelli scuri ondulati
imbrattati di neve, esile
e magra, vestita con dei pantaloni rossi infilati dentro un paio di
stivali
neri col tacco, giacchetta rossa contornata di pelo bianco sul collo e
sui
polsi, berretto da babbo natale in testa e due sacchi di tela sulla
spalla.
Una
perfetta
Mrs Christmas.
Non
una
echelon.
La
ragazza,
notandolo anche lei, gli si avvicinò con maggior premura,
accelerando di scatto
l’andatura, per quanto potesse farlo senza cadere e scivolare in mezzo alla
neve.
Shannon
non le
staccò gli occhi di dosso: forse finalmente la situazione
prendeva corpo e
procedeva verso una qualche direzione, sicuramente verso la fine di
quella
giornata buttata via in assurde cavolate.
La
ragazza gli
arrivò vicino senza fiato, il viso arrossato, gli occhi
scuri spalancati, la
bocca socchiusa: “S-scusa il ritardo. Mi hanno detto dieci
minuti fa di venire
qui… ho fatto una corsa…”
Shannon
non
imprecò solo per un miracolo divino, togliendosi la neve
dalla faccia e
guardandola con occhio torvo: “E’ quasi
un’ora che aspetto!”, affermò, per
niente colpito dal fatto che la ragazza avesse corso la maratona con il
record
mondiale stagionale per essere lì.
“Sì-sì-immagino,
ma… ma Janet, che doveva essere qui con te oggi, ha quaranta
di febbre e allora
hanno mandato me, io in realtà dovevo andare
a…”
L’uomo
non la
lasciò nemmeno finire, tanto era scazzato: “OK-OK.
Ormai sei qui, basta…”
La
ragazza
abbassò gli occhi, rendendosi conto che quell’uomo
era davvero arrabbiato, con
quegli strani occhi verdi che lampeggiavano di collera e di astio.
Tentò di
rimediare: “Scusa davvero. Sei… sei Sheldon,
vero?”
Sheldon?
SHELDON?!?! Ci mancava anche questa! Che cazzo di nome era quello?!?!!
Era il
nome più sfigato dell’universo, quello che veniva
preso in giro perfino su
‘Harry ti presento Sally’ (*)!! “NO. Sono
SHANNON, non Sheldon!”, ruggì
l’uomo, quasi
pestando i piedi per
terra.
La
ragazza
arrossì copiosamente: “Ops, scusa-scusa,
Sh-shannon… ehm… dobbiamo andare là
davanti, ora…”
“Dove?”,
grugnì Shannon.
La
ragazza
allungò un braccio ad indicare l’entrata del
centro commerciale: “Nei pressi di
quella porta.”
“OK.
E cosa
dobbiamo fare?”
La
ragazza
estrasse da uno dei sacchi un campanaccio e lo diede a Shannon, un
po’
intimidita, temendo che lui glielo tirasse direttamente in testa:
“Ehm… Tu
suoni il campanaccio e fai ‘Oh-oh-oh’, ti fai
fotografare con i bambini che
escono dal centro commerciale e gli dai le caramelle. E io raccolgo le
offerte.” Poi gli porse anche l’altro sacco che
teneva in mano, contenente
almeno cinque chili di candy canes, aggiungendo subito
“A-andiamo?”
“OK.”,
assentì
Shannon.
Poi
insieme si
avviarono verso l’entrata, mentre la ragazza gli sorrideva,
cercando di essere
positiva. “Semplice, no?”
“Sì-sì.”,
rispose l’uomo, poco convinto, ripassando mentalmente una
lista di scuse da
tenersi buone per non passare mai più il Natale a Bossier
City in balia di sua
nonna.
Appena
messosi
in posizione, nel tentativo di consolarsi, Shannon cominciò
a fare il conto
alla rovescia a quanto mancava all’ora di chiusura del centro
commerciale.
Cinque
lunghissime ore.
E
la cosa,
stranamente, non lo consolò affatto.
(*)
C’è un
dialogo nel film ‘Harry ti presento Sally’ in cui Billy Crystal ad un certo punto dice: "Uno Sheldon ti fa la dichiarazione dei redditi. Se ti serve un dentista, Sheldon va bene. Ma scopare da Dio non è il suo genere: è il nome! Dammelo Sheldon! Sei un animale Sheldon! Mi fai morire Sheldon! Non funziona..."! Lo trovate riportato su questa
pagina: http://www.montecavolo.it/Alle/Harry%20ti%20presento%20Sally.html…
Purtroppo
sono
di corsa e non posso ringraziare una per una tutte le lettrici che
lasciano un
commento, per cui, cumulativamente, vi dico grazie infinite di leggere
e
commentare! Ringrazio anche tutti quelli che hanno già messo
questa ff tra le
preferite e le seguite!
Baci!
Shanna
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Capitolo 4 *** Capitolo Quattro ***
4
Il
tempo
andava a rilento.
Un
buco nero
di dimensioni notevoli doveva essersi sviluppato nei paraggi, visto che
il
tempo in quella zona era praticamente fermo, come da teoria della
Relatività
Generale.
E
Shannon non
ne poteva più.
Dopo
quasi tre
ore e decine di foto con bambini più o meno convinti, madri
più o meno
isteriche e/o padri più o meno allergici allo shopping
natalizio, la pazienza
dell’uomo era ai minimi storici, il suo nervosismo su vette
mai raggiunte prima
e la lista delle sue bestemmie così lunga e variegata da
garantirgli un
soggiorno all-inclusive e senza appello nel terzo girone del settimo
cerchio
dell’inferno.
Shannon
sospirò profondamente nel tentativo di calmarsi, mentre
percepiva le note del
CD natalizio proveniente dall’interno del centro commerciale
e fatto girare per
la sesta volta con le stesse canzoni natalizie di ogni anno. Per
fortuna il
cielo aveva posto una tregua e per il momento non nevicava
più, anche se la
sera arrivava a grandi passi ed era già quasi buio, i pressi
del centro
commerciale rischiarati soltanto dai lampioni e dalle lucette natalizie
appese.
C’era
un
momento di pausa e nessun pargolo credulone era nei paraggi e allora
Shannon ne
approfittò per guardare con più attenzione la sua
compagna di sventure, che batteva
le mani guantate tra di loro per scaldarsi, le guance arrossate dal
freddo e i
capelli un po’ bagnati dalla neve.
Notò
che la
ragazza si teneva scostata da lui cinque-sei metri, gli dava quasi le
spalle e
non lo guardava per niente, preferendo cercare tra la folla genitori
indaffarati a cui chiedere le offerte. Shannon, fissandole da esperto
del ramo
il lato B per un momento, si rese improvvisamente conto di non essere
stato
benevolo nei suoi confronti, per non dire maleducato. E
chissà chi era, quella…
magari, proprio come lui, una poveretta scaraventata in mezzo agli
eventi
atmosferici/natalizi da sua nonna.
“Ehi,
cosa,
tu…”, la chiamò.
La
ragazza si
girò: “Eh?”
“Come
ti
chiami?”
“Sh-sharona.”,
rispose lei, balbettando per il freddo e
sbattendo le palpebre, contornate da lunghe ciglia scure,
esalando una
nuvoletta di fiato.
Shannon
spalancò gli occhi. “Sharona?!?!”
La
ragazza si
avvicinò di un passo, ancora intimidita per
l’atteggiamento poco amichevole di
quello strano babbo natale, incazzoso e incazzato:
“Sì, perché? Che
c’è di
male?”
Non
era per
niente un nome tipico della Louisiana, quello: “No, no,
niente… ma… non è un
nome caratteristico di questi posti. Perché ti chiami
Sharona?”
La
ragazza
sorrise, rivelando una perfetta fila di denti regolari e bianchissimi,
in
contrasto con le sue labbra quasi viola dal freddo:
“Perché sono nata nel 1979,
quando era di moda quella canzone dei The Knack che si chiamava
‘My
Sharona’(*). A mia mamma piaceva, la cantava sempre e
allora…” Sharona fece
spallucce. “…mi ha chiamato
così…”
Lo
Shannon
musicista fece capolino immediatamente: “Ah sì, me
la ricordo. Fu un successo
mondiale, all’epoca… Una buona batteria e un gran
riff di chitarra elettrica…
proprio bella…”
La
ragazza si
avvicinò di un altro passo: “Eh già.
Disco d’oro, successivamente ripresa anche
da altri gruppi e… beh… a me non dispiace
chiamarmi così. E tu? Tu… sei
irlandese che ti chiami come il fiume più lungo
d’Irlanda?”
Shannon
fece
una smorfia: “No, non sono irlandese. Non so
perché mia mamma mi ha messo
questo nome, non gliel’ho mai chiesto…”
“Ma
sei di
Bossier City? Non ti ho mai visto nei paraggi…”
Shannon
scosse
la testa: “Sono nato qui a Bossier City, nel 1970, e qui ci
abita ancora mia
nonna Ruby, ma ora io vivo in California…”
Sharona
gli si
avvicinò ancora, scrutandolo in viso.
Shannon
era
sembrato così staccato da tutto, così teso e
fuori posto, che lei non aveva
nemmeno avuto il coraggio di parlargli, ma forse ora avevano trovato un
argomento, tanto per rompere il ghiaccio, per scambiare due parole,
tanto per
non sembrare del tutto estranei. “Ah sì, conosco
la signora Ruby… abita vicino
al Red River e frequenta il Centro Anziani, vero?”
“Sì.
E’ lei.
Anche tua nonna frequenta il Centro Anziani?”
“No,
mia zia.”
Shannon
annuì.
Eccoci qui! Le vittime sacrificali del parentame. “Ah
ecco… e ti ha…”
“Mandata
a
fare la raccolta fondi per gli orfani vestita da Mrs. Christmas,
sì. Pure tu?”
“Eh
già…”
Sharona
sorrise. “Sarà il destino di quelli nati negli
anni 70! Tu sei nato nel 1970 e
io nel 1979. Tu all’inizio degli anni 70, io alla
fine…”
L’uomo
annuì,
guardandola negli occhi. “Già. Tu hai quasi
trent’anni, io quasi quaranta…”
“Eh,
sì…”. E
il discorso morì, ma a Sharona improvvisamente
quell’uomo fece un po’ di
tenerezza: era freddo, erano tre ore che erano lì fuori, il
naso e le guance di
Shannon erano vermiglie e le sue mani erano livide, visto che non aveva
i
guanti. Ogni tanto Sharona lo aveva visto stringersi le braccia attorno
al
corpo e battere i piedi. Non si lamentava, ma si vedeva che era
intirizzito dal
freddo. Congelato. Proprio come lei. La ragazza si sistemò
meglio il berretto
rosso in testa e poi gli appoggiò lievemente una mano sul
braccio, per
solidarietà. “Senti, Shannon, io sono congelata e
anche tu, vedo… Entro a
prendere due
caffè bollenti, OK?”,
disse, indicando il centro commerciale.
E
l’uomo
sorrise.
Per
la prima
volta dopo ore Shannon sorrise.
Anche
con gli
occhi.
E
Sharona
pensò subito che senza quella barba posticcia doveva essere
proprio un
bell’uomo. “Magari, grazie.”, le rispose,
con un filo di voce, sollevato.
“OK.
Ti
arrangi per due minuti?”
Shannon
annuì,
continuando a sorridere. Adorava il caffè e quella era la
prima buona notizia
dopo ore passate fuori all’addiaccio:
“Sì, tranquilla…”
“Nero
o
macchiato? Zuccherato o no?”
“Nero
non
zuccherato.”
“OK.
Torno
subito.” Sharona si allontanò in fretta,
tornò poco dopo con due bollenti
contenitori di Starbucks e vide quello che non avrebbe mai e poi mai
voluto
vedere. “Shannon, che fai?”
L’uomo,
nascosto dietro un cartello segnaletico e dando le spalle alla porta
del centro
commerciale, sobbalzò, sorpreso: “EH?!?”
Sharona
gli si
avvicinò e gli si mise davanti, quasi volesse nasconderlo
alla vista: “Spegni
la sigaretta, maledizione!”
Shannon
esalò
una nuvoletta di fumo, con soddisfazione: “Non ne posso
più, ho freddo, sono
stanco e ne ho bisogno. Perché dovrei spegnerla?”
Sharona
gli
piantò due occhi neri spalancati in faccia: “Per
almeno tre valide ragioni:
fumare fa male, se ti prende fuoco la barba ti ustioni il viso e,
terzo, non ho
mai visto un Babbo Natale fumare, accidenti! I bambini si sconvolgono!
Manca
solo che bevi il whisky a canna e tiri fuori un salmone dal vestito
come Dan
Akroyd in quel film (**) e poi sei uguale a
lui…!!!”
Shannon
buttò
la sigaretta in mezzo alla neve, con rammarico, e la brace si spense
con uno
sfrigolio sinistro. “Ma che palle…”,
buttò fuori, con i residui di fumo,
girandosi verso di lei.
La
ragazza gli
porse il caffè. “Tieni. Poi suona un po’
la campanella che si avvicinano dei
bambini.”
“OH-OH-OH!”,
si mise subito a gridare Shannon, sbatacchiando il campanaccio, poco
convinto,
per non dire assolutamente fasullo.
E
Sharona, a
quella vista, subito scoppiò a ridere, soprattutto quando i
bambini cambiarono
idea e strada e preferirono andare a giocare con la neve in un
giardinetto poco
lontano.
“Che
diavolo
ridi?”, le chiese l’uomo appoggiando la campanella
a terra e scaldandosi le
mani con il recipiente del caffé.
Sharona
non
riusciva a smettere di ridere: “Ma
niente…”
Shannon
diede
un sorso al caffè e poi le disse, incuriosito:
“Dimmi, dai…”
La
ragazza a
fatica riusciva a respirare, troppo occupata a sbellicarsi dalle
risate: “Li
hai… li hai spaventati! Hai spaventato quei
bambini… Ahahahah!”
Shannon
fece
spallucce: “Ma noooo….”
Sharona
rideva
tenendosi la pancia: “Ma sì! Ahahhaaha Sembravi un
orco! Ahahahah Che tipo che
sei!!! Ahahahha”
L’uomo
fece
finta di arrabbiarsi, inarcando le sopracciglia, spalancando gli occhi
e
guardandola esageratamente male, trovando un briciolo di buonumore:
“Vuoi dire
che IO non sono un Babbo Natale perfetto?! Eh? EH? EH?”
“Ehm…
Anche
no. Ahahahahah” Sharona si sedette per terra sul gradino del
marciapiede libero
dalla neve, con le lacrime agli occhi, divertita oltre misura da quel
Babbo
Natale fuori scala, fuori serie, fuori di testa.
“OH-OH-OH!!! Bambina cattiva non ti
porterò niente!! OH-OH-OH!!!”, esclamò
ad alta voce Shannon, mettendosi a
ridere anche lui e sedendosi vicino a lei.
Per
un po’, i
due, sorseggiando il caffè, continuarono a fare battute e a
ridere di cuore,
divertiti da quella situazione artefatta e quasi comica, e Shannon si
ritrovò a
pensare che, oltre al caffè, anche la risata cristallina di
Sharona gli aveva
decisamente scaldato il cuore.
(*)
http://www.youtube.com/watch?v=ukL_vlOKj8A
… ed è la mia canzone preferita di TUTTI I
TEMPI!!! (Anche se su questo video
il riff di chitarra è tagliato! ASSASSINI!!!!)
(**)
‘Una
poltrona per due’. Potete vedere qui di seguito i link su
YouTube delle scene
alle quali si riferisce Sharona: http://www.youtube.com/watch?v=-cIN2SQ4ANA e
http://www.youtube.com/watch?v=IgGjqD_QUC8 ...
|
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Capitolo 5 *** Capitolo Cinque ***
5
La
Chevrolet Malibu
di nonna Ruby si fermò davanti alla casa di Sharona, alla
periferia di Bossier
City, che erano le nove e mezza di sera, era buio pesto e la neve aveva
cominciato a scendere nuovamente piuttosto intensa e a larghi fiocchi.
Shannon spense l’auto ed
accese la lucetta interna.
“Allora porti tu i soldi al Centro Anziani,
domani.”, disse, girandosi verso la
sua collega, dopo essersi tolto il berretto rosso, i capelli finti e
abbassato
la barba bianca.
Sharona
annuì,
sorridendo, stupita dal fatto che sotto la barba finta, Shannon avesse
la sua,
lunga quasi come quella finta. “Sì,
certo.”
“Quanto
abbiamo raccolto?”
Sollevando
un
sacchetto pieno a metà di monete e banconote e soffiandosi
via la frangetta umida
da un occhio, la ragazza rispose: “Uhm…
Duecentotrentacinque dollari e
venticinque cents.”
Una
miseria.
Per
cinque ore
passate al freddo e alla neve, una miseria.
Shannon
pensò
che il pingue assegno avrebbe dovuto versarlo lo stesso, per quei
poveri
orfani. “Vabbé, poco… ma piuttosto di
niente…”
“Sì,
infatti.
Sono le gocce che fanno il mare.”, rispose Sharona, per poi
girarsi a guardarlo
in viso. “Grazie per il passaggio, Shannon, avrei dovuto
tornare a piedi…”
“Ma
non hai
l’auto?”
Sharona
alzò
una spalla: “No, niente auto… sono un
po’ per conto mio, mi piace andare in
giro a piedi o al massimo in bicicletta…”
“Beh,
in
questa piccola città puoi ancora farlo.”
“Sì,
infatti…
E grazie anche per la compagnia.”
Shannon
strinse la mano che la ragazza gli aveva porto. “Figurati.
Grazie a te. Ci si
vede. E… Buon Natale.”
“Auguri.
Anche
a tua nonna.” Sharona scese e Shannon la seguì con
lo sguardo finché entrò in
casa e lo salutò con la mano da sotto il portico.
Beh,
pensò
Shannon, da marpione navigato qual era, Sharona non era niente male, a
dire il
vero: carina, alla mano, tranquilla, simpatica. E, soprattutto, lei non
sapeva
chi fosse, non lo trattava come il batterista di una band famosa, ma
solo come
un povero nipote tiranneggiato dalla nonna. Però…
però lui aveva una
quasi-ragazza, in California, una donna con cui si trovava bene: forse
era una
storia seria o forse no, ma sicuramente era una relazione da
approfondire, per
cui non era in cerca di storie ulteriori, nemmeno per una notte, non in
quel
momento, poi, che anche la sua carriera di musicista e la sua salute
erano
piuttosto incerte.
OK.
Era ora di
andare, prima che cominciasse a nevicare ancora più forte, le strade si bloccassero e a lui
cominciassero a
venire strane idee. Shannon archiviò definitivamente Sharona
tra le sue
conoscenti di Bossier City e, desideroso di arrivare a casa da sua
nonna, farsi
una doccia bollente e rimpinzarsi a dovere delle specialità
rubyniane, girò la
chiave per mettere in moto, ma l’auto gli rispose con una
specie di lamento e
non si accese per niente.
Shannon
riprovò un paio di volte ma i segni di vita del veicolo
erano uguali a quelli
di un encefalogramma piatto.
Inesistenti.
L’auto
era in
panne.
L’uomo
cercò
il blackberry per chiamare sua nonna e decidere il da farsi con la
macchina, ma
lo ritrovò, dopo cinque affannosi minuti di ricerche alla
luce fioca della luce
interna, dentro una pozza d’acqua sotto il sedile lato guida.
Come diavolo era
finito là e da dove entrava quell’acqua?
Misteri
della
fede e della scienza, ma il telefonino era inutilizzabile, in corto
completo.
Shannon
si
strappò la barba finta appesa al collo e maledisse tutti i
natali per i
venticinque anni a venire, scese dall’auto, aprì
il cofano anteriore e con un
mantra di parolacce assortite e lo sguardo di fuoco cominciò
a ravanare tra i
cavi del motore alla luce del lampione.
Il
problema è
che lui di motori non sapeva proprio nulla.
Zero
assoluto.
Soltanto della sua Ducati si intendeva un po’, ma per il
resto il nulla fritto:
mettere le mani dentro un motore d’auto equivaleva per lui ad
eseguire
un’operazione chirurgica a cuore aperto, bendato, in
equilibrio su un ponte
tibetano oscillante.
Chiuse
il
cofano sbuffando.
Che
diavolo
doveva fare, ora?
Si
guardò un
attimo intorno e poi fissò lo sguardo verso le finestre
illuminate della casa
di Sharona.
Doveva
forse
chiedere aiuto a lei? In effetti in quel quartiere un po’
isolato e poco
popolato non conosceva nessuno se non lei, visto che la zona era dalla
parte
opposta di dove abitava sua nonna e poi erano passati troppi anni da
quando se n’era
andato.
L’uomo
ci
pensò cinque minuti buoni, prima di decidere, valutando
tutte le possibilità. E
purtroppo concluse che non c’erano altre soluzioni a breve: a
piedi non poteva
tornare a casa, un taxi non sapeva dove trovarlo e con cosa chiamarlo,
l’auto
di sua nonna non poteva lasciarla lì e la neve continuava a
cadere e stava
coprendo velocemente tutto. Doveva chiedere aiuto.
Si
infilò il
berretto da Babbo Natale, visto che il suo non lo trovava
più, prese il
blackberry inutilizzabile, chiuse l’auto e si
avviò verso la porta, lungo il
vialetto. La casa di Sharona era bianca e di legno ad un piano, con un
giardinetto davanti, e Shannon, suonando il campanello dove
c’era scritto
qualcosa che non riuscì a leggere a causa del buio, si
chiese per un attimo se
quella fosse la casa dei genitori della ragazza o solo sua.
La
risposta
gli venne immediatamente fornita quando la voce di Sharona, al di
là della
porta, chiese: “Chi è?”
“Ehm…
sono
Shannon. Scusami…”
Sharona
accese
la luce del portico, gli aprì una fessura della porta e mise
fuori la testa.
Aveva i capelli umidi e, visto che doveva essere reduce da una doccia,
probabilmente soltanto l’asciugamano avvolto attorno al
corpo. “Dimmi…”, gli
disse, con un sorriso cordiale, anche se un po’ sorpreso.
Shannon
cercò
di non aver notato per niente la spalla nuda della ragazza che faceva
capolino
e tentò di apparire indifferente alla vista di una donna
semisvestita:
“A-a-avrei bisogno di un favore. Mi presti il
cellulare?”
“Ehm…
non ce
l’ho…”
“Non
hai
cosa?”
“Non
ho il
cellulare.”
Niente
auto,
niente cellulare e poi? Che avesse il frigorifero e la TV
o nemmeno quelli? “E un
telefono fisso?”
“Sì,
quello
sì. Qui in entrata.”
“Posso
usarlo?
Ho l’auto in panne…”
“OK.
Ma…”, la
ragazza abbassò gli occhi, come se si stesse guardando.
“Cosa?”
Sharona
arrossì: “Ecco… Io… io non
sarei vestita, ecco… cioè… facciamo
che ti lascio la
porta socchiusa. Il tempo di allontanarmi verso il bagno per vestirmi e
poi
entri, OK?”
L’uomo
annuì:
“Va bene.”
“D’accordo.
Vado… Tu conta fino a trenta e poi
entra…”
Sharona
sparì
e Shannon, sorpreso, si grattò la fronte e passò
trenta secondi a dirsi che,
sì, erano in campagna, non a Los Angeles, e, sì,
Sharona probabilmente era una
ragazza seria che andava a messa tutte le domeniche, una puritana, e,
sì, lui
era in fondo un estraneo per lei e, sì, non che fossero in
chissà che
confidenza e no, lui non era l’assassino
dell’antivigilia di Natale però, ma…
contò diligentemente fino a trenta, aspettò un
attimo di più e poi spinse
lentamente la porta, con circospezione.
E
tutto si
aspettava di trovare all’ingresso tranne una gigantografia
dei ‘The Knack’
proprio sul muro davanti. Quasi gli prese un colpo, alla vista di quei
visi
spropositati presi direttamente dalla copertina del loro primo disco
(*) e che
sembravano fissarlo in modo equivoco.
Shannon
scosse
la testa perplesso, e, dando una veloce occhiata nel corridoio corto e
con
alcune porte, individuò subito il telefono antidiluviano
nero e con la ruota,
vicino alla porta su un mobiletto con specchiera, e fece il numero di
sua
nonna, strappandosi il berretto rosso dalla testa e guardando il suo
viso
stanco alla specchio. Nei cinque minuti seguenti, gridando come un
ossesso e
maledicendo le batterie scariche dell’apparecchio acustico di
Ruby, riuscì a
farsi dare il numero di telefono del meccanico per chiedergli di
trainare
l’auto in officina e chiamò subito anche quello,
per sentirsi dire dalla
segreteria telefonica di lasciare il suo numero dopo il segnale
acustico per
essere richiamato, visto che il meccanico era fuori per
un’emergenza.
Shannon
mise
giù il telefono e si passò una mano sul viso,
sospirando e chiedendosi se c’era
ancora qualcosa che doveva andare storto quel giorno.
E
si rispose
subito di sì quando Sharona comparve in fondo al corridoio,
uscendo dalla porta
del bagno e chiudendosela dietro.
(*)http://1.bp.blogspot.com/_uB-0D-gV8mY/SKDfG0Mj_iI/AAAAAAAAK6A/PeEwgyuSPI8/s400/the+knack.jpg
E BUON
NATALE A
TUTTI!!!
Baci!
Shanna.
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Capitolo 6 *** Capitolo Sei ***
6
La
ragazza
vestiva con una tuta da ginnastica nera di quelle aderenti, con la
giacchettina
stretta e corta chiusa da una cerniera e i pantaloni scampanati, le
scarpe
sportive ai piedi. Si era raccolta i capelli lisci e nerissimi ancora
umidi ai
lati della testa con due fermagli a forma di stella, lasciandoli
sciolti sulla
schiena, cosa che faceva risaltare, anche per merito della frangetta,
il
perfetto ovale del suo volto che, Shannon non se n’era
accorto prima, aveva la
pelle di uno strano e bellissimo colore. E, visto che i suoi occhi
erano neri,
il suo naso dritto e leggermente aquilino e le sue labbra carnose e ben
disegnate, poteva anche essere che la ragazza
avesse sangue meticcio nelle vene, non fosse propriamente
creola (*).
E
lui, che già
aveva un debole per quel genere di ragazza, la trovò
bellissima.
Semplice
ma
affascinante.
Decisamente
attraente.
E
soprattutto
donna.
Nel
pieno
della sua femminilità.
Cosa
molto ma
molto pericolosa, si disse, chiedendosi anche dove avesse guardato per
tutto il
pomeriggio…
Mentre
lei gli
si avvicinava sorridendo, la guardò ad occhi spalancati,
trovando solo un
attimo di fiato per dire “Bello il poster… Un
po’ inquietante ma… notevole!”
Sharona
rise
di gusto: “Beh, se non ce l’ho io, chi lo dovrebbe
avere?”
“Eh…
hai anche
ragione… E hai anche altro dei Knack?”, chiese,
nel tentativo di fare
conversazione e scordare quanto fosse attraente la figura longilinea e
magra di
Sharona, alta poco meno di lui, quel bel seno sodo e ben disegnato,
evidenziato
dalla giacchettina stretta.
“Ah
sì, certo:
i 33 giri originali autografati dai componenti del gruppo, magliette,
spillette, registrazioni su cassette, filmati, bootleg,
insomma… un po’ di
tutto…”
“Tua
mamma è
proprio appassionata!”
Sharona
sospirò, prima di rispondere: “Era
appassionata… Mia mamma è mancata
l’anno
scorso…”
L’uomo
avrebbe
voluto sotterrarsi lì, nel bel mezzo del corridoio. Se
avesse avuto una pala
avrebbe cominciato a scavare. Oggi era il giorno sbagliato per fare
tutto, si
disse: uno di quei giorni nati male e che finiscono peggio.
“Oddio. Scusami. Mi
dispiace.”
Sharona
scosse
la testa: “No, non devi. E’ la vita. E’
un giro di anime. Si sarà già
reincarnata in qualcun altro…”
Shannon
la
guardò in viso, curioso: “Ma… ma credi
nella metempsicosi? Nella reincarnazione?”
“Sì.”,
annuì,
la ragazza, convinta, facendo muovere i capelli ai lati del viso.
“Anche
il mio
amico Brent. Lui è buddista.”
“Sì,
allora
sì. E’ un’idea tipicamente orientale ed
è… beh è
un’idea interessante, no?”
Shannon
alzò
le spalle: “Sì…
cioè… non so.” Era strano per lui fare
certi discorsi. Con una
ragazza così attraente davanti, poi… ancora
peggio. Gli venne in soccorso il
ricordo di una vecchia discussione avuta con Brent, dopo un giro in
moto: “Però
è anche vero che se uno ha avuto una brutta vita si merita
un’altra
possibilità, un’altra esistenza. Così
alla fine c’è equilibrio, per
quell’anima…”
Sharona
annuì
piano, un sorriso quasi gentile stampato sul bel volto, per quella
risposta,
gli occhi a cercare altrove, un po’ mesti:
“Già. Ehm… chissà
com’é… nessuno lo
sa in realtà…” Poi sospirò e
riprese a guardare Shannon in volto. “Beh…
cambiando discorso… hai risolto con
l’auto?”
Shannon
in
breve raccontò delle telefonate fatte e soprattutto che
doveva attendere che il
meccanico lo chiamasse al numero di Sharona: “Ehm…
ho dato questo numero perché
ho il blackberry in panico. Ho fatto male?”
La
ragazza
scosse la testa, sempre sorridendo: “Ma no,
scherzi…”
“E…
Avrei
bisogno di un altro piacere…”
“Cosa?”
“Ti
dispiace
se vado un attimo in bagno e mi tolgo questo vestito?”, le
chiese, avendo
cominciato a sentire caldo. Un po’ troppo caldo, uno strano
caldo, forse, visto
che aveva i piedi e le mani congelati.
La
ragazza
fece spallucce, indicando dietro di sé: “Certo che
no. La porta è quella lì…”
Shannon
ringraziò e si avviò e, non più tardi
di cinque minuti dopo, uscì dal bagno per
molte ragioni soddisfatto della sua permanenza in quel luogo, e si
diresse
verso la porta della cucina seguendo i rumori che sentiva, di pentole e
stoviglie che si toccavano. Prima di entrare, in un impeto di
educazione,
appese la giacca di pelle all’attaccapanni fuori in corridoio
e mise i suoi
anfibi zuppi vicino alla porta d’entrata.
La
stanza in
cui si addentrò cautamente, quadrata e piuttosto spaziosa,
faceva le funzioni
di cucina e anche di salotto: l’angolo cottura era in fondo a
destra, subito
dopo la finestra che dava sul giardino anteriore. Il tavolo da pranzo
con una
stella di natale sopra stava proprio davanti alla finestra. Una
penisola con
alcuni sgabelli era di fronte alla cucina, collegata ad essa. Sulla
sinistra
della cucina, proprio antistante alla porta, un grande caminetto con un
bel
fuoco appena acceso, completo di tappeto e divano, quasi come a casa di
nonna
Ruby. E poi una libreria piena zeppa di libri, che faceva angolo e
continuava
per tutto il resto della stanza, interrotta soltanto dalla finestra che
dava
sul retro, nella parete opposta all’altra finestra. Un altro
divano e una
scrivania subito sulla sinistra. L’albero di natale
illuminato vicino alla
porta, qualche decorazione natalizia sparsa.
Il
tutto
confortevole, con luci soffuse e morbide, rischiarato e reso dorato
dalla luce
del fuoco.
E
soprattutto
il locale era caldo.
Un
tanto vagheggiato
caldo.
Shannon
si
ritrovò a sospirare, catturato dalla sensazione di benessere
datagli
immediatamente da quel luogo. “Eccomi…”,
disse piano, avanzando verso Sharona
che gli dava le spalle, mezza nascosta dalla penisola, e non si era
accorta del
suo arrivo, intenta a fare qualcosa sul ripiano della cucina.
Sharona
si
girò sorridendo, ma il sorriso le morì subito,
mentre rimaneva incantata a
guardarlo.
Shannon
non
era così grasso come le era sembrato in un primo momento,
era solo robusto e
ben piazzato, e ora che non aveva più quell’orrido
vestito rosso, sformato e
bagnato, e indossava la sua camicia verde quadrettata, i suoi strani
occhi
brillavano e risaltavano alla luce del caminetto e così pure
i suoi lineamenti,
belli e delicati, nonostante in parte coperti dal barbone da orco.
Chissà
perché se lo teneva così lungo, si chiese,
subito, un secondo prima di trovarlo
decisamente avvenente, più di quanto avesse supposto ad una
prima occhiata.
Molto
affascinante, con quel sorriso sornione, quegli occhi attenti e
quell’espressione ora bonaria e tranquilla.
E
uomo.
Senza
dubbio
maschio.
Quasi
le
sembrò di percepirne l’odore: un residuo di
profumo, deodorante forse, misto al
sentore della sua pelle.
E
la cosa era
pericolosa, troppo pericolosa, per lei, se i suoi sensi si erano
allertati in
quel modo, se un principio di interesse la prendeva solo
all’idea di sfiorare
quell’uomo.
“Dove
metto il
vestito da Father Christmas?”, le chiese Shannon,
avvicinandosi fino a pochi
passi dalla penisola che li separava.
Sharona
era
ancora presa dalle sue sensazioni, per rispondere velocemente.
“Ehm… D-dove
l’hai lasciato?”, rispose, lentamente.
“In
bagno. E’
tutto bagnato e sporco. L’ho appeso vicino al tuo ad
asciugare.”
La
ragazza
annuì: “OK. Lascialo pure là, non
occorre che te lo porti via. Domani li
recapito entrambi al Centro Anziani, con i soldi.”
Shannon
esultò
dentro di sé all’idea di non aver più a
che fare con George, il Centro Anziani
ed il travestimento alla Akroyd: “Sicura?”
Sharona
fece
spallucce, senza scomporsi un attimo: “Ma certo.
Così ti risparmi un giro, no?
Inutile che andiamo in due…” Poi indicò
il fornello: “Ho fatto un po’ di thé
caldo, vuoi?”
“Eh,
magari…”
“OK.”
Sharona
preparò una tazza anche per lui e gliela porse:
“Hai fame?”
Dopo
un solo
sorso di thé, come se si fosse improvvisamente svegliato dal
letargo, lo
stomaco di Shannon rispose per lui emettendo un brontolio di protesta,
tanto
forte quanto sconveniente. Shannon sorrise, mettendosi una mano sullo
stomaco,
come a nasconderlo: “Beh… un po’.
Sì, direi di sì.”
Sharona
soffocò una risatina, divertita da quell’adulto
con un’espressione da bambino
imbarazzato: “In attesa che arrivi il carro attrezzi, io
allora preparerei la
cena. Ti va, Shannon?”
L’uomo
sorrise; finalmente la serata sembrava prendere una piega interessante:
era al
caldo, in splendida compagnia ed in più con del cibo in
arrivo. Meglio di così!
Avrebbe voluto fare un triplo salto carpiato nel mezzo del salotto e
gridare
sì-sì-sì-vai-con-la-pizza, ma si
trattenne proferendo un più educato
“Beh… se
la prepari per te…”
“Certo,
ho
fame pure io. Pizza e torta di mele? La prima devo soltanto guarnirla e
metterla in forno, la seconda l’ho fatta oggi pomeriggio
prima di uscire.”, gli
rispose la ragazza, tirandosi su le maniche per preparare.
Una
donna
cuciniera? Interessante.“Ma… sai
cucinare?”
“Un
po’,
niente di che, non ti impressionare… il minimo che basta per
non morire di fame
o intossicarsi con le scatolette e i cibi precotti.”, gli
rispose, girandosi e
cominciando a spignattare nuovamente.
Shannon
sogghignò debolmente: lui e suo fratello erano i re dei cibi
precotti
surgelati, vegetariani e non, da ficcare in microonde e da sbafarsi in
poco
tempo senza minimamente pensare al contenuto, magari stravaccati su
divano
davanti alla TV o sul tourbus mentre giravano come trottole da un
concerto
all’altro. Non lo disse però e, senza rispondere
niente, si mise davanti al
caminetto a scaldarsi e mentre sorbiva il suo thé e guardava
le fiamme,
improvvisamente un’impressione gli trapassò il
cervello.
Una
bella
impressione.
Una
strana
impressione.
Un
calore nuovo.
Una
sensazione
che faceva stare bene.
Forse
dovuta
all’atmosfera natalizia, alla neve che cadeva oltre la
finestra, a quella
stanza calda e rassicurante, a quella ragazza affaccendata a pochi
metri da
lui.
L’idea
di
‘casa’ si insinuò nei suoi neuroni,
prendendone possesso.
L’idea
di una
‘moglie’ che si prendeva cura di lui, che lo
aspettava cucinando e con la quale
parlare di questioni pratiche, come il posto dove mettere la biancheria
sporca,
e spirituali, come la metempsicosi o altre cose, si fece strada nelle
sinapsi.
L’idea
di
‘famiglia’ come di un focolare tiepido e
confortante in cui tornare ogni sera e
ogni momento, dopo ogni viaggio, dopo ogni concerto, si
infiltrò nei suoi
pensieri.
Idee
che non
gli erano proprie.
Cose
a cui non
pensava mai.
Argomenti
di
cui non parlava con nessuno.
Ma
che in quel
momento gli scaldarono il cuore come non mai.
Guardò
di
sottecchi Sharona che, tranquilla e sicura, infornava la pizza e, per
un
momento, si sentì stranamente a casa, anche se era lontano
migliaia di miglia
dalla California, da sua madre, da suo fratello, dalla sua
quasi-ragazza.
E
ciò era
pericoloso, molto pericoloso, per lui.
(*)
NDA:
‘creolo’ nel senso originario del termine, inteso
cioè come di origine europea
ma nato nelle Americhe, di razza (uso questo termine che in
realtà odio,
perdonatemi…) bianca.
|
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Capitolo 7 *** Capitolo Sette ***
7
La
pizza era
in forno, lentamente si cucinava, i suoi sapori si amalgamavano, in
tutta la
cucina si spandeva un buon profumo di cibo, e del carro-attrezzi,
all’alba
delle dieci di sera, ancora nessuna traccia all’orizzonte.
Shannon,
placido e rilassato, con i piedi e le mani finalmente calde alla terza
tazza di
thé, sedeva su uno degli sgabelli della penisola e parlava
con la sua bella
ospite: argomento principe il tempo meteorologico avverso di Bossier
City di
quel periodo; seguiva al secondo posto il gioco del
tu-conosci-quello-tu-conosci-quell’altro; al terzo posto il
mitico elenco
qui-a-Bossier-City-hanno-costruito-là-hanno-demolito-lì…
quando l’uomo fece una
smorfia di dolore, e, di scatto, cominciò a tenersi il
braccio sinistro con
l’altro, chiudendo un attimo gli occhi.
Tutto
il
freddo che aveva preso in cinque ore passate fuori ed il continuo
scuotimento
dell’odiato campanaccio non gli avevano fatto per niente
bene. E le pastiglie
di antidolorifico erano rimaste a casa di sua nonna.
Quelle
belle
pastiglie azzurre con la scritta L490 su un lato che gli tenevano
compagnia
ogni santo giorno da mesi.
Sharona
se ne
accorse: “Che succede, Shannon?”
“Ho…
ho un po’
male…”
La
ragazza
girò attorno alla penisola e gli si avvicinò,
improvvisamente interessata:
“Dove ti fa male, di preciso?”
“Ehm…
Il
braccio sinistro, lungo tutto il braccio. Tendinite,
forse…”, le rispose,
indicando con la mano destra i vari punti del suo braccio.
La
ragazza
aggrottò le sopracciglia: “E stai facendo qualche
cura?”
“Sì.”
“Che
ti hanno
dato?”
“Antinfiammatori,
cortisone, antidolorifici…”
La
ragazza lo
interruppe, incrociando le braccia davanti a sé, il viso
improvvisamente serio:
“Merda, insomma…”
Shannon
spalancò gli occhi, sorpreso: “Come sarebbe?
Perché ‘merda’?”
Sharona
prese
fiato, prima di lanciarsi: “Perché curi i sintomi,
non la causa. E non va bene.
Ma d’altra parte è tipico della medicina
occidentale, in cui l’individuo non è
visto come un unico essere, ma suddiviso in parti e si tenta la cura di
ogni
singola parte, mentre la ragione per cui ti fa male magari non risiede
nel
braccio e…”
“Aspetta-aspetta…”
Shannon la bloccò subito, alzando le mani davanti. Per un
momento pensò che il
fantasma di suo fratello si fosse impossessato del corpo di Sharona, un
po’
come avveniva nei medium durante le sedute spiritiche e nei film
dell’orrore,
tipo l’Esorcista! “Fermati. Sono andato dai
migliori specialisti, perfino uno a
New York, ma il braccio mi fa sempre male...”
Sharona
quasi
fece spallucce: “Eh, lo so…”
Shannon
aggrottò le sopracciglia: “Sai cosa?”
“Ti
ho detto.
Farti passare il male non risolve niente, ti sparisce il dolore ma non
la causa
che l’ha provocato. E poi ti fa male il braccio ma non
è detto che il problema
sia soltanto lì.”
Shannon
si
sistemò meglio sullo sgabello della cucina, perplesso e
vagamente incuriosito.
“Ah, no?”
“No.”
“E
cosa
potrebbe essere?”
“Boh,
non lo
so…”
‘Capirai
che
scoperta’, pensò. “Beh allora, siamo da
capo…”
Sharona
gli si
sedette vicino, sullo sgabello accanto, e continuò a
fissarlo in volto assumendo
un’aria stranamente professionale: “Ascolta. Posso
ipotizzare: potrebbe essere
che hai messo delle scarpe sbagliate, sei andato in giro camminando
scorrettamente e ora hai uno strappo su un polpaccio o una
infiammazione su un
muscolo della schiena, non lo so… oppure hai assunto una
postura sbagliata
rispetto a quella abituale e il tutto interrompe il flusso energetico
originale
del tuo corpo, il quale ti avverte della cosa, ti sta dicendo che
qualcosa è
cambiato, ma tu non lo ascolti e ti limiti ad addormentarlo. Per
saperlo meglio
dovrei visitarti…”
L’uomo
spalancò gli occhi: “TU?”
“Sì.
E
allora?”
“Ma
che lavoro
fai?”
La
ragazza si
batté una mano sulla fronte: “Ah già,
non te l’ho detto. Ho un diploma di
fisioterapista. Lavoro qui, al Cornerstone Hospital,
ma…”
“Cosa?”
“Ehm…
mio
nonno paterno aveva origini native americane. Era un autoctono di
questi
luoghi. E mi ha insegnato, fin da quando ero piccola, la tecnica della
manipolazione che aveva imparato non so dove …”
Ah,
ecco il
perché i lineamenti ed il colore della pelle di Sharona
erano un po’ strani,
era davvero meticcia. Shannon aveva indovinato in pieno e ora era
davvero
incuriosito: “Cioè?”
“Quello
che ti
dicevo prima: a trovare il punto o i punti che hanno creato il problema
e ad
agire su quelli, sbloccandoli. E poi guarisci, senza bisogno di
medicine.”
Shannon
si
alzò dallo sgabello.
Le
aveva
provate tutte.
Le
medicine lo
avevano gonfiato come un pallone e, a quanto pareva, non erano servite
proprio
a niente se non a rovinargli lo stomaco, fargli uscire di nuovo
l’acne e,
soprattutto, a fargli spendere una marea di soldi.
Con
l’anno
nuovo la casa discografica reclamava il nuovo album e lui avrebbe
dovuto
suonare, ma se aveva sempre male come negli ultimi mesi, sarebbe stata
una
tortura bella e buona.
Tanto
valeva
provare.
Si
avvicinò di
più a Sharona, che lo guardava attenta: “Lavori
anche a Natale?”
“Che
intendi?”
“Mi
visiti? Ti
pago, eh…”
“Ma,
io…”
“Per
favore…”
La
ragazza
rimase un attimo a fissarlo e poi annuì: dopotutto era stata
lei a proporlo,
quasi senza volerlo. “OK. Va bene. Andiamo di là,
nel mio studio…”
Quindi
si alzò
dallo sgabello e, con Shannon a ruota, uscì dalla stanza e
si avviò verso una
delle tante porte del corridoio, entrandovi ed accendendo la luce.
Entrarono
in
una stanza molto piccola, nemmeno tre metri per tre, con un lettino da
massaggi
al centro, ricoperto di un lenzuolo bianco e dalla solita striscia di
carta di
tutti gli ambulatori. Era senza finestre, con una carta da parati
azzurra a
onde del mare sui muri, e con pochi mobili, tra cui Shannon distinse,
alla luce
soffusa, uno stereo e un bell’acquario illuminato con decine
di pesci rossi che
guizzavano e che gettava ombre azzurre su tutta la stanza. Su un angolo
un
attaccapanni e un separé di stoffa azzurra che richiamava il
colore della carta
da parati.
Sharona
si
mise da un lato del lettino, dopo aver chiuso la porta:
“Ehm… non è da molto
che esercito qui a casa, da pochi mesi, e quindi è tutto un
po’ da sistemare…
scusa…”, disse, come per giustificarsi.
Ma
la stanza a
Shannon non dispiaceva per niente, era da finire certo, ma non era
sgradevole
affatto, non dava l’idea di uno studio medico, asettico ed
incolore, anzi: era
raccolta ed intima, calda e profumata. “No, dai…
è carino qui… ti piace il
mare, vedo… tra pesci e onde sulle
pareti…”
Sharona
sorrise: “Sì, lo adoro… vorrei abitare
su una casa sulla spiaggia, un giorno…
uscire e poter mettere i piedi tra le onde ogni volta che
voglio…”, confessò,
guardando i suoi pesci.
“Io
ce l’ho…”
La
ragazza
sgranò gli occhi, interessata: “Davvero?”
“Sì,
con vista
sull’oceano Pacifico.”
“Uaoh…
Deve
essere meraviglioso.”
L’animo
da
fotografo di Shannon balzò fuori in un secondo:
“Sì, i colori e il paesaggio
sono a dir poco fantastici, in tutte le stagioni...”
“Bello…”,
sospirò
Sharona.
“Beh,
se un
giorno capiti a Los Angeles… fai un salto da me, per un
caffé…”
“Ah,
ah sì…
certo, grazie…”
“OK.
Affare
fatto. Poi ti lascio l’indirizzo. E… adesso? Che
devo fare?”, chiese l’uomo,
vedendo che la situazione non progrediva e la ragazza si era di nuovo
incantata
a guardare i pesci e a pensare al mare.
Sharona
si
girò a fissarlo di scatto ed improvvisamente
quasi si pentì di avergli detto che poteva
visitarlo, soprattutto per
quello che doveva chiedergli ora: “Ehm…
dunque… dovresti spogliarti… toglierti
maglietta e pantaloni e restare in…
in…” Di uomini ne visitava sempre, in
ospedale e anche nel suo ‘studio’, ma attraenti e
maschi come quello ne aveva
visti pochi, e l’idea di vederlo spogliato per un attimo la
bloccò. “In… in…”
Shannon
le
venne in soccorso, ridendo sotto i baffi all’imbarazzo di
lei: “In mutande?”
“S-sì.”
“E
se non le
avessi?”, chiese, indifferente, mettendosi le mani in tasca,
un sorriso da
burlone.
Sharona
diventò fucsia a pallini rossi con sfumature bordeaux:
“Ma… ma…”
Shannon
cominciò a ridere. Vuoi vedere che davvero Sharona era
quella puritana che
pensava? “Dai, scherzo… le ho, le ho,
tranquilla…”, proclamò, prima di
sparire
dietro il paravento, divertito.
Sharona
respirò profondamente per riacquistare un po’ di
calma e farsi passare il
rossore al viso, e poi si avviò verso lo stereo,
accendendolo.
Improvvisamente,
mentre Shannon si sbottonava la camicia, una strana melodia
riempì la stanza.
Ritmato
e
sommesso, un coro di uomini cantava qualcosa che Shannon non
capì.
“Ehm…
cos’è
questa roba?”, chiese, incuriosito.
Sharona
aggiustò il volume, in modo che la musica facesse da
sottofondo: “Sono canti di
monaci tibetani. Loro… recitano mantra antichissimi. Questo,
in particolare,
dovrebbe favorire la guarigione perché agisce sulle cause
delle malattie, non
sui sintomi…”
“Ma…
cosa
dicono?”
“Sono
in
sanscrito e parlano di varie cose, di solito sono auguri: che ognuno
sia
felice, che il dolore passi, di arrivare
all’illuminazione… E ogni tanto
cantano l’OM.”
“E
cosa vuol dire?”
Sharona
si
mise a sistemare il rotolo di carta sul lettino, presa dalla sua
spiegazione:
“E’ il mantra sacro per eccellenza. E’
l’energia dell’universo, la radiazione
di fondo degli astronomi, quella che pervade tutto quanto. Quando dici
OM ti
ricolleghi a lei… all’essenza di tutte le
cose…”
Shannon
divenne se possibile ancora più curioso: “Sei
buddista, induista, cristiana,
ebrea o… che altro, tu?”
Sharona
sorrise: “Non lo so. Io… sono tante
cose… prendo quello che mi piace da tutte
le religioni, ma sono troppo indisciplinata per seguirne
una… e vado a messa
perché adoro il profumo dell’incenso
ma… non prego. Poi ho letto la Bibbia, il
Corano, i Veda, i Sutra, tutti i libri del Dalai Lama e faccio
yoga… non so
cosa voglia dire… quando sarà il momento magari
capirò cosa sono…
non sono ancora evoluta a sufficienza per
saperlo…”, gli rispose Sharona, in un soffio,
dando da mangiare ai suoi pesci,
ma pensierosa, come se non sapere dove porsi religiosamente la turbasse.
Shannon
la
occhieggiò da dietro il separé, un po’
meravigliato: quella ragazza sarebbe
stata perfetta per Brent. Il suo amico le sarebbe caduto certamente ai
piedi in
dieci secondi netti a sentirle fare quel genere di discorsi, magari
avrebbero
fatto yoga assieme e poi lui le avrebbe anche comperato un convento
completo di
monaci vestiti di arancione in Tibet. Per non parlare di Jared! Che
l’avrebbe
immediatamente assunta come personal trainer e avrebbe passato con lei
millenni
ad andare in giro in bici e a parlare delle varie boiate esoteriche.
Specialmente ora che Sharona aveva anche acceso un incenso profumato.
Mancava
solo una ruota di preghiera, un gong e poi c’eravamo.
L’uomo
scosse
la testa, per un momento dubbioso: in che diavolo di mani era finito?
Magari
aveva sbagliato a chiederle di aiutarlo: e se, invece di guarirlo,
quella
ragazza avesse fatto peggio? Se lei fosse stata una di quei tanti
manigoldi che
millantavano strane cure senza effetto?
Ma
una nuova e
forte fitta di dolore gli attraversò il braccio sinistro
mentre si toglieva le
magliette: vabbé, peggio di così forse non era
possibile stare.
In
cuor suo
sperò che la ragazza non gli facesse troppo male e, anzi, si
sentì che forse
poteva fidarsi.
O
forse
doveva, semplicemente.
Quindi,
velocemente, si tolse calzini e pantaloni.
“Eccomi,
sono
pronto.”
Shannon
spostò
il separé e uscì come da dietro un sipario e
Sharona, alla vista dell’uomo in
boxer Dolce & Gabbana neri, dei due tatuaggi sulle braccia e,
soprattutto,
dei suoi pettorali scolpiti, pensò che avrebbe dovuto
servirsi di tutta la
professionalità di cui era capace per visitarlo senza
pensare a quanto fosse incantevole.
E
quando
Shannon si girò per sedersi sul lettino e si distese prono
mostrandole il
tatuaggio sulla schiena, dandole la mazzata definitiva, Sharona chiuse
gli
occhi, stringendoli forte.
SO-HAM
SO-HAM
SO-HAM…
Recitò
velocemente il mantra del respiro, per calmarsi e concentrarsi su
ciò che
andava fatto, visto che per un momento le sembrò che tutta
l’aria del mondo
fosse stata risucchiata nello spazio.
Per
lo meno
quella che non conteneva l’odore di Shannon.
E BUON ANNO
A
TUTTI!!!
:-***
Shanna.
|
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Capitolo 8 *** Capitolo Otto ***
8
“Ahio,
che
male…”, si lamentò dopo un attimo
Shannon.
E
Sharona
ritrovò la calma: quell’uomo aveva bisogno di lei,
ora. Era una creatura
sofferente, bisognosa di cure, come tutte quelle che vedeva ogni giorno
in
ospedale, esseri umani che piangevano, si lamentavano, penavano.
‘Sem
chen tam
che dug ngel dang
dug ngel kyi gyu dang
drel war gyur chig…’ recitavano i primi versi del
Gaden Lha Gyema, ‘Possano
gli esseri umani essere liberati dalle loro sofferenze e da
ciò che le
provoca…’, si disse.
E
allora aprì
gli occhi e gli si fece vicino.
“Rilassati,
Shannon…”, gli sussurrò, piano e
soavemente, seguendo un rituale che usava
sempre, accarezzandogli una spalla e spostandogli le braccia in modo
che
fossero correttamente ai lati del corpo. “Rilassati, chiudi
gli occhi e stai
tranquillo… Non pensare a nulla, lasciati andare…
questo è un atteggiamento
decondizionante per il tuo corpo… segui il ritmo del tuo
respiro, portalo dove
ti fa male e pensa che guarirai… guarirai perché
lo vuoi…”
Shannon
sospirò, respirando il profumo inteso e gradevole
dell’incenso e appoggiando la
guancia destra sul lettino, chiudendo gli occhi, sistemandosi meglio,
lasciandosi accompagnare dalla voce di Sharona: se lei doveva aiutarlo,
tanto
valeva fare tutto quanto gli venisse chiesto.
Sharona,
dopo
essersi bagnate le mani con dell’olio profumato
all’arnica, si portò in fondo
al lettino, all’altezza dei piedi di Shannon. Delicatamente,
per non fargli il
solletico, cominciò a toccargli le piante dei piedi, a
passare i polpastrelli delle
dita sulle varie zone che, secondo la teoria della riflessologia
plantare,
rappresentavano l’intero corpo.
“Se
senti male
quando premo da qualche parte dimmelo, OK?”, gli disse,
premurosa.
“Sì.”
Ma
sulla
pianta di entrambi i piedi a Shannon non faceva male nulla. Quando la
ragazza
passò a toccargli le dita dei piedi, invece, lui
sobbalzò leggermente, ma non
disse niente. Sharona capì che c’era un disagio da
qualche parte, forse di
preciso nemmeno Shannon sapeva dove, e così lei si
soffermò passando in
rassegna dito per dito. Arrivata al secondo dito del piede sinistro,
l’uomo si
lamentò.
“Hai
messo
scarpe nuove, recentemente?”, gli chiese subito.
“Sì.
Gli
anfibi che avevo oggi sono nuovi.”
Sharona
annuì:
“OK. Hai questo dito un po’ ammaccato…
ma niente di che. Succede con le scarpe
nuove, è normale…”
Sharona
gli
massaggiò i piedi e poi cominciò a risalire le
gambe dell’uomo lentamente,
sciogliendogli i muscoli tesi dei polpacci, ma non trovò
parti particolarmente
indurite, se non un muscoletto che gli dava un leggero fastidio sul
lato del
polpaccio sinistro. “Conseguenza dell’ammaccatura
sul dito…”, concluse, sicura.
La
ragazza
completò l’analisi delle gambe tastandogli le
cosce muscolose e ben tornite
senza trovare niente, per poi dichiarare: “Non sono le gambe,
il problema.
Uhm…”
Sharona
allora
passò a controllare i muscoli della schiena, passandoci le
mani sopra,
delicatamente, i polpastrelli a toccare le singole fibre, una per una,
quasi ad
occhi chiusi, per percepire meglio la presenza delle strutture
muscolari, gli
avvalli della pelle, gli interstizi tra i tessuti.
Piano,
piano,
fece scorrere i pollici ai lati della spina dorsale, premendo, a
partire dalla
parte inferiore della schiena fino ad arrivare al tatuaggio sulla nuca.
La
sensazione
che provava Shannon era stranissima: come se quelle fibre, al tocco di
Sharona,
venissero ridisegnate, ricomposte, risistemate. Era una sensazione di
benessere, come se i muscoli riprendessero vita dopo un letargo durato
troppo
tempo. Il tutto potenziato dalle note del mantra cantato dai monaci,
quei suoni
vibrazionali che gli entravano nel cervello, arrivavano a livelli
cerebrali che
lui non sapeva di avere, appianavano le sue onde beta, attivavano le
onde
delta, l’energia di ognuno, la volontà e la forza
di guarire.
Poi
la ragazza
con le mani si spostò dai lati della schiena e
cominciò a scendere. Arrivata a
metà, sulla parte sinistra, la ragazza si fermò.
Ripassò più volte nello stesso
punto, come a volere essere certa,
e poi
disse un convinto “Qui.”
Sharona
premette
con il pollice su una zona appena sotto l’ascella e
l’uomo sobbalzò
violentemente sul lettino lanciando un urlo, come se un tizzone ardente
gli
fosse stato conficcato nella schiena, il cervello trapassato da un
lampo di
luce.
“Trovato.
Fermo un attimo. Respira. Porta il respiro in quel punto, Shannon. Temo
che ti
farò un po’ male… abbi
pazienza…”. Sharona cominciò a
massaggiare lentamente la
zona, scaldando i tessuti di quel centimetro quadrato di pelle, quella
fibra
che era fuori posto, che era annodata e che faceva male, come se ci
fosse un
pugnale piantato dentro. Dopo un po’, quel punto
cominciò a non dolere più.
Sharona passò allora a rilassare tutti gli altri muscoli
della schiena senza
trovare nessun altro punto dolente.
Quindi
ricercò
sulle spalle e sul collo, tesi e
rigidi
all’inverosimile, altri punti sofferenti ma la ricerca non
diede alcun esito.
Sul dorso la ragazza aveva finito e perciò chiese a Shannon
di sedersi con le
gambe penzoloni sul bordo del lettino, aiutandolo ad alzarsi lentamente.
Quindi
gli si
posizionò davanti, tra le sue gambe leggermente aperte.
“Fammi
vedere
le tue braccia, ora.”, gli chiese.
Sharona
gli
prese i polsi che l’uomo le porse e sembrò
confrontare le muscolature possenti
delle due braccia, passando gli occhi da una all’altra, le
sopracciglia
aggrottate. “Ma… che lavoro fai?”,
chiese, ad un tratto.
Shannon
teneva
gli occhi semi-chiusi. Il massaggio era stato così
distensivo, la musica e i
profumi così rilassanti e lui era così stanco,
che sarebbe stato sdraiato per
sempre. “Il batterista…”,
sussurrò, con un filo di voce, stentando a trovarla.
“Ah,
ora ho
capito. Per caso hai cambiato modo di suonare? Spostato dei tamburi,
eliminato
pezzi, aggiunto piatti o altri componenti?”
Shannon
annuì:
“Sì. Ho inserito dei piatti, tolto una grancassa,
aggiunto un tom, messo un
rullante muto al posto dell’hit-hat…”
“Sulla
sinistra, magari?”
L’uomo
aprì
gli occhi leggermente: “Sì, sulla
sinistra.”
La
ragazza
appoggiò il braccio sinistro di Shannon e prese meglio
l’altro. “Ah, ecco, ora
capisco. Il tuo corpo ha reagito di conseguenza, sta trovando una sua
nuova
postura.” Sharona gli passò in rassegna uno ad uno
i muscoli del braccio destro
senza trovare niente, completando il massaggio fino alle dita della
mano.
Poi
passò al
braccio sinistro e, a circa metà, nei pressi del gomito,
nella parte esterna,
quando premette su un punto, Shannon
sobbalzò di nuovo, spalancando gli occhi.
“AHIA!
Lì… lì
fa male…”, disse, con tono lamentoso e facendo una
smorfia di dolore.
La
ragazza
annuì: “Questo è l’altro
punto incriminato. Li abbiamo trovati. Il punto sulla
schiena e questo sono collegati, ed è il motivo per cui ti
fa male tutto il
braccio.”
Sharona
iniziò
a massaggiare quel punto dannatamente dolorante e in un attimo il
dolore dal
braccio di Shannon sparì. La ragazza appoggiò il
braccio dell’uomo lentamente,
come fosse di porcellana, tenendogli la mano e massaggiandogli le dita.
“Può
essere
che nei prossimi giorni ti faccia ancora un po’ male, ma non
prendere nulla.
Cerca di sopportare, fidati della saggezza del tuo corpo… e non odiarmi
troppo…”
Shannon
la
guardò negli occhi, sorridendo e stringendole la mano,
contento: “Va bene, farò
il possibile…”
Sharona
completò il massaggio passando dietro a Shannon,
ammorbidendo i muscoli tesi
del collo e della nuca dell’uomo, che si sentì
immediatamente più leggero e
sollevato, come non si sentiva da tempo.
“Oddio…
non ho
più male…”, disse, alleviato e sorpreso
nello stesso tempo, sussurrando,
chiudendo ancora gli occhi, quando lei finì.
Sharona
sorrise, prima di rimettersi davanti a lui, a guardarlo in viso e a
massaggiargli delicatamente le tempie e la fronte: “Hai visto?
Bastava poco…”
L’uomo
sospirò
per l’ennesima volta: “Grazie. Sei un genio,
ragazza mia.”
Sharona
scosse
la testa e abbassò le mani: “No. E’ solo
pratica. E pensa che mio nonno era
molto più bravo. Ti guardava camminare e capiva cosa avevi.
Lui sì era un genio
e…”
Un
campanello
suonò ad interrompere Sharona.
Quello
del
forno.
“Oh!
E’ pronta
la pizza. Rivestiti, dai... Ti aspetto di là,
OK?”, gli disse Sharona sorridendo,
per poi allontanarsi di corsa.
E
Shannon si
ritrovò seduto sul lettino semivestito e in uno strano stato
psicofisico: gli
sembrava che un peso enorme gli fosse stato tolto dalle spalle, che il
suo
corpo fosse leggero come una piuma, che nessun dolore lo pervadesse
più, che
nessuna cappa di fastidio lo sovrastasse.
Si
sentiva
anche leggero psicologicamente, in pace col mondo e con sé
stesso, come se
avesse risolto dei problemi in piedi da tempo, come se avesse
cancellato dentro
di sé degli errori, sciolto dei nodi, come se la sua mente,
quell’entità
chiamata ‘scimmia impazzita’ dagli yogi, si fosse
calmata.
Si
accorse che
il coro dei monaci tibetani era finito e che l’incenso si era
spento, ma
sembrava che tracce delle voci di quegli uomini fossero ancora dentro
la sua
testa, tracce del profumo dentro i suoi polmoni, tracce del benessere
provato
dentro la sua anima.
OM,
si disse.
L’energia
dell’universo.
Quella
che
collegava tutto e tutti, che era anche dentro di lui e per la quale
nulla
avveniva per caso.
Ed
improvvisamente, sospirando, si ritrovò a pensare che la
neve che lo bloccava
lì era stata provvidenziale, che la rottura
dell’auto di sua nonna non era
stata poi così nefasta, che essere venuto a Bossier City
aveva avuto un suo
senso.
E
che, in fondo,
quella non era stata una giornata tutta da buttare via. No.
E
non era
ancora finita.
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Capitolo 9 *** Capitolo Nove ***
9
Sharona
controllò il livello di cottura della pizza e decise che
mancavano ancora
alcuni minuti, quelli sufficienti per preparare il resto. Aveva una
fame
tremenda, era da pranzo che non mangiava, era un’ora assurda
e… aveva un
ospite.
Inaspettato.
E
decisamente piacevole, sia come aspetto che come carattere, anche se al
primo
incontro aveva pensato il contrario.
Shannon
era incantevole,
si disse, e ora che l’aveva visto spogliato poteva
tranquillamente piazzarlo
nella categoria gnocchi ed affini di prima categoria. Ed era pure un
tipo
piuttosto tranquillo, di poche parole, che conversava senza saltare in
testa
all’interlocutore e sembrava interessato a ciò che
gli si diceva, la scrutava negli
occhi quando lei gli parlava, la ascoltava.
Un
piacere
averlo in casa e chissà chi era, poi, quel tipo…
Decise
che
doveva saperne un po’ di più nel tempo che aveva a
disposizione prima
dell’arrivo del carro attrezzi. Si mise perciò
all’opera per rendere la serata
ancora più interessante.
E
così, quando
Shannon rientrò in cucina, dopo avere spento stereo e luci
ed aver lasciato,
grato come non mai, una presunta tariffa di cinquanta dollari sul
lettino del
massaggio, Sharona aveva già apparecchiato il tavolo vicino
alla finestra
mettendo una tovaglia rossa con disegnati fiocchi di neve bianchi e
tutto
l’occorrente per la cena, piatti, bicchieri, tovaglioli,
posate, caraffa
dell’acqua. E aveva fatto tutto in cinque minuti, il tempo
usato da Shannon per
rivestirsi. Da non credere.
E
l’uomo,
rilassato come non gli capitava da tempo e con la testa molto leggera,
pensò
improvvisamente che forse se ne stava approfittando.
Era
entrato
per una telefonata d’emergenza che doveva durare due minuti
ed era quasi un’ora
e mezza che era lì, alla faccia
dell’ospitalità.
“Sharona,
io…
io non vorrei disturbare troppo…”, le disse
allora, in un impeto di galanteria,
mentre si avvicinava alla cucina e, dando un’occhiata fuori
dalla finestra,
vedeva che la neve cadeva ancora abbondantemente.
La
ragazza
fece spallucce e sorrise, mentre appoggiava la teglia della pizza sul
fornello
dopo averla tolta dal forno e controllava, con una leggera
preoccupazione e con
la coda dell’occhio, se Shannon fosse vestito: “Non
disturbi, non ti
preoccupare.”
Shannon
le si
fece accanto, mentre la ragazza gli porgeva due bottigliette di birra
appena
stappate da portare sul tavolo, come se lui non fosse un estraneo, come
se si
conoscessero da sempre: “Non devi uscire, stasera, o cose del
genere?”, le
chiese dopo averle accettate, appoggiate sul tavolo ed essere tornato
da lei.
“No-no.
Assolutamente.”, gli rispose la ragazza, sorridendo e
ritornando ad occuparsi
della pizza.
Shannon
si
schiarì la voce, un po’ a disagio: la ragazza era
uno splendore, con lui finora
era stata cordiale, amabile, simpatica, e lui era bloccato
lì, si sentiva sereno
e non aveva più male da nessuna parte, e loro…
beh erano un uomo e una donna
adulti e vaccinati ma… magari era il caso di chiedere, prima
di ritrovarsi in
situazioni imbarazzanti: “Non ti viene a trovare il tuo
ragazzo?”
Sharona
scosse
la testa: “No.”
Vuoi
vedere
che era pure zitella? “Ma… ehm… ce
l’hai un ragazzo?”, chiese subito Shannon,
curiosamente, sentendosi come una comare pettegola da parrocchia e/o
centro
anziani.
Sharona
annuì
mentre prendeva la ruota tagliapizza per tagliarla a fette e si metteva
all’opera. “Sì, certo. Ma è
via con la sua squadra di football. Doug Lagrance.
Gioca da professionista nei Battlewings di
Bossier-Shreveport.”
Ah,
perfetto.
Shannon, impallidendo al pensiero, già si immaginava che
arrivasse di corsa in
cucina un fidanzato Doug fatto a forma di armadio a due ante, alto
oltre due
metri e con l’espressione feroce a picchiarlo di santa
ragione per
l’intrusione, che Sharona aggiunse subito, prima di
cominciare a depositare le
fette di pizza su un piatto da portata: “Lui…
torna domani, forse… nel
pomeriggio…”
E
poi la
ragazza si fermò un attimo, una fetta di pizza a
metà strada. Già che c’era,
poteva chiedere anche lei, no? Tanto per farsi un po’ gli
affari sentimentali
di Shannon, no? Attraente com’era sicuramente aveva una
ragazza e forse anche
più di una: “E la tua… ehm…
ragazza?”
“Uhm…
E’… é in
California.”
“Non
è venuta
fin qui con te?”
Shannon
scosse
la testa: macché e, a tal proposito, c’era stata
pure una litigata a ferro e
fuoco durata un paio d’ore: “No, non ha
voluto… Non voleva stare a casa di mia
nonna. Non se la sentiva…”
Sharona
spalancò gli occhi, mentre si avviava verso il tavolo con un
piatto da portata
pieno zeppo di fette di pizza, passando davanti a Shannon e lasciando
una scia
di profumo di cibo che gli svegliò nuovamente lo stomaco:
“Nonna Ruby? Ma se è
così carina e dolce, tua nonna…”
Certo
e anche
curiosa, persuasiva, insistente, testarda, pettegola, protettiva, come
tutte le
nonne: “Sì, è
vero…”
“Ha
il tuo stesso
sorriso, lo sai?” Sharona, appoggiando il piatto sul tavolo,
arrossì senza
volere, subito dopo aver detto quelle parole, che attestavano
apertamente
quanto lo avesse guardato bene e, soprattutto, quanto gli piacesse.
Shannon
si
grattò la testa, perplesso: nessuno gli aveva mai detto che
assomigliava a sua
nonna. “Davvero?”
“Ehm…
Certo.
Un sorriso davvero molto bello.” Le guance di Sharona
diventarono di porpora,
mentre si sedeva a tavola, e Shannon se ne accorse.
Un
campanello
d’allarme gli risuonò nella testa: quando le donne
facevano i complimenti era
perché si stavano coinvolgendo troppo. E ciò
poteva essere pericoloso. E lui
non era indifferente ai complimenti. E ciò era altrettanto
pericoloso. Cominciò
a passare in rassegna le vie di fuga: “Grazie. Ma
tu… ehm… vivi qui da sola?”
“No,
con mio
papà. Il signor Averre.” Ah, ecco, bene. Se non
fosse arrivato il fidanzato
armadio con i parastinchi, il paradenti e il pallone sotto braccio, a
momenti
sarebbe arrivata la figura paterna a cacciarlo fuori a calci. Ecco
sì, meglio…
visto che Shannon in quel momento non riusciva a staccare gli occhi
dalla
scollatura di Sharona, dato che la cerniera della tuta stava lentamente
scendendo, mentre lei si serviva la pizza e non se n’era
accorta. “Ma torna
dopo Natale. E’ a Baton Rouge da dei
parenti…”, continuò lei.
Ecco,
ora era
nei guai.
Definitivamente.
Era
da SOLO in
casa di una bella ragazza SOLA, in mezzo ad una bufera di neve, con
nessuno che
poteva venire a cercarli a breve e non era un santo, si conosceva fin
troppo
bene.
Perché
tutto
cospirava contro di lui?
Perché?
Perché
qualcuno lo voleva martirizzare così?
Santo
Shannon
da Bossier City, martire?
C’era
un’unica
speranza, prima di uscire nel mezzo della tormenta di neve per
scappare: “Ehm…
vado a vedere se è arrivato il meccanico...”,
disse ad un tratto, girandosi di
scatto, per ritornare dopo poco, un po’ rammaricato:
“Niente, dal meccanico non
risponde nessuno. Ho lasciato il milionesimo messaggio in segreteria
telefonica.”
La
ragazza non
si era mossa di un millimetro: “Tranquillo,
Shannon… quando il meccanico torna,
vede i messaggi e ti chiama, dai… non ti piace la
pizza?”, gli chiese,
portandosi alla bocca un boccone.
‘Sì,
mi piace
tanto e mi piaci tanto anche tu, con quei capelli sciolti, gli occhi
brillanti
e quella bella bocca tutta da baciare, dannazione a me!’,
pensò Shannon,
cominciando a non sentirsi tanto tranquillo, mentre invece disse:
“Ma scherzi?
Certo che sì e dal profumo deve essere
ottima…”
La
ragazza
sorrise, facendogli cenno di sedersi sulla sedia vicino a lei e
versandogli la
birra nel bicchiere. “E allora mangia, dai… e
all’auto pensi dopo… tanto non è
che se non mangi, il carro attrezzi arriva prima…”
Pura
saggezza
tibetana, si disse Shannon. O, forse, solo un po’ di buon
senso: era tardissimo,
lui aveva fame, era bloccato lì e non poteva fare niente.
“Sì, hai ragione…”,
rispose allora, sedendosi. Tanto finchè mangiavano la pizza
non poteva
succedere nulla di male, no?
E
infatti la
cena proseguì tranquillamente, tra spiegazioni sui Chakra e
su come fosse fatto
un rullante, discussioni sulle religioni e sul Festival del Coachella,
descrizioni delle varie asana yoga e del carburatore della Ducati,
finché
Shannon non si accorse che era mezzanotte passata e loro due erano
ancora
seduti al tavolo a chiacchierare amabilmente e a bere caffè
e si erano quasi
scordati il motivo per cui erano lì. “Accidenti,
è mezzanotte passata!”,
esclamò sorpreso l’uomo, guardando
l’orologio appeso sul muro.
“Ah,
sì, è
vero… Metto un po’ via,
allora…”,
Sharona si alzò e cominciò a
sparecchiare, ammucchiando i piatti.
Shannon
si
alzò a sua volta. “Ehm…
senti… io… se tu devi andare a dormire,
io… ehm… posso
rimanere fuori sotto il portico ad aspettare il meccanico, non ci sono
problemi, davvero… Sei stata fin troppo gentile
a…”
Sharona
scoppiò a ridere: “Shannon che dici? Mio
papà non mi perdonerebbe mai se ti
lasciassi fuori sul portico al freddo e la leggendaria
ospitalità degli Averre
crollasse in quel modo e poi… dormirò quando
sarò morta…”, concluse, portando
via la pila di piatti.
Shannon
rimase
di sale: quella frase era una delle preferite di Jared e
l’uomo capì che
qualsiasi cosa avesse provato, da quella casa non sarebbe riuscito ad
andarsene.
Qualcosa
alla
fine lo teneva lì.
E
la cosa lo
disturbava, gli sembrava improvvisamente di non avere più il
controllo della
propria vita. Gli venne una voglia improvvisa di un pieno di nicotina
fatto
bene: “Vado fuori a fumare e poi riprovo con il
meccanico.” Affermò avviandosi
risoluto alla porta.
Dopo
tre
sigarette fumate avidamente, guardando la neve che cadeva in soffici
fiocchi in
una notte silenziosa e con un freddo pungente, si decise
però a rientrare. Al
diavolo il meccanico, la Chevrolet e questa neve,
si disse, buttando il mozzicone in
mezzo al giardino, spalancando la porta, mollando gli anfibi e
dirigendosi in
salotto. E al diavolo anche tutte le seghe mentali che mi sto facendo
sul fatto
che sono bloccato qui, con Sharona che….
Che…
Che,
scalza,
se la ritrovò, non senza sorpresa, seduta sul divano con le
gambe allungate
verso il calore del caminetto, con gli occhi chiusi, rilassata.
Una
leggera
musica che pervadeva l’ambiente.
“Ti
piacciono
i Dire Straits?”, gli chiese lei, senza aprire gli occhi,
percependo il profumo
di Shannon, che ora aveva anche un leggero sentore di arnica, quando
lui si
avvicinò al divano.
Non
erano il
gruppo preferito di Shannon, ma non si poteva dire che non fossero una
rock
band storica. “Sì, non mi
dispiacciono…”
“Come
sta il
tuo blackberry?”, chiese Sharona, riaprendo gli occhi e
vedendo che l’uomo lo
teneva in mano come se lo coccolasse.
L’uomo
tentò
di accenderlo per l’ennesima volta: “Temo sia
definitivamente defunto. E se
provassi a metterlo vicino al caminetto, qui? Magari l’acqua
che ha dentro
evapora…” Shannon si abbassò e lo
appoggiò per terra, in modo che il calore lo
asciugasse, ma che non fosse troppo vicino alle fiamme per colarsi.
“Prova…
peggio
di così…” Poi Sharona gli sorrise:
“Vieni a sederti qui, finché aspetti?”
L’uomo
annuì e
si sedette sul divano, un po’ staccato da lei, a guardare le
fiamme, quel bel
fuoco che la ragazza aveva alimentato ancora e che ora scoppiettava per
bene. Un
brivido gli scese sulla schiena, di soddisfazione. Si
sistemò meglio,
allungando le gambe anche lui e sospirando.
Le
note di
‘Fade to black’ si spandevano nell’aria e
la voce suadente e maledettamente
blues di Mark Knopfler in quella canzone faceva da perfetto contorno
alla
situazione.
L’uomo
si girò
a guardare Sharona e lei lo stava fissando.
La
ragazza
teneva la testa appoggiata sulla testiera del divano, gli occhi
semichiusi e le
labbra socchiuse, le guance leggermente arrossate. La luce del
caminetto dava
alla sua pelle un colorito di una tonalità sorprendente e i
lunghi capelli neri
sembravano brillare.
Era
maledettamente desiderabile.
Pericolosa.
Ancora
di più
quando la ragazza gli si avvicinò, alzò una mano
e cominciò ad accarezzargli
con un dito una guancia coperta di barba, guardandolo negli occhi.
“Perché
porti
questa barba?”, gli chiese.
“Perché
le
pastiglie mi hanno fatto venire l’acne…
così copro la pelle tutta rovinata…”
“Oh…
che
peccato… beh, ora non ne hai più
bisogno…”
“Già.
Grazie a
te.” L’uomo sorrise e le prese la mano che Sharona
aveva appoggiato sulla sua
guancia. “E grazie alle tue mani
sapienti…”
Sharona
scosse
la testa: “Non solo. Anche tu hai voluto guarire: avevi
deciso di farlo
nell’esatto momento in cui ti sei sdraiato sul
lettino… In realtà lo
volevi…”,
gli rispose lei convinta, stringendogli la mano. “Forse
saresti guarito anche
con l’automassaggio...”
Shannon
alzò
le sue mani davanti, come a mostrargliele: “Con queste
manone? No. Posso fare
solo male, io…”, dichiarò, ricordandosi
quella volta che aveva tentato di
massaggiare il braccio di Tomo e aveva fatto peggio. “Non
sono fatto per queste
cose troppo delicate…”
Sharona
si
mise a fissare le mani di Shannon, assurdamente sproporzionate,
gigantesche e
tozze. Ma così forti. “No, lo credi
tu…”
“Sharona…
Non
sono capace di fare i massaggi.”
“Sì
che sei
capace. Prova con me…” Sharona si mise a sedere di
scatto, gli diede le spalle
mettendosi più vicina e spostandosi i capelli di lato.
“Prova, dai… Mi fido di
te…”
“OK.”
L’uomo
le appoggiò con diffidenza le mani sulle spalle esili e
cominciò a muovere le
dita, lentamente, per non farle male. Premeva con delicatezza i pollici
alla
base della nuca e accarezzava con le dita i muscoli delle spalle della
ragazza,
leggermente tesi e affaticati. L’unico massaggio che pensava
di saper fare
senza fratturarle qualcosa.
Sharona
chiuse
gli occhi, concentrandosi sul piacere derivato da quel massaggio, sul
calore e
sull’energia di quelle mani possenti ed improvvisamente
l’idea delle mani di
Shannon in altre parti del suo corpo, prese possesso delle sue cellule
cerebrali. Si lasciò andare del tutto, persa nelle
sensazioni e nei pensieri,
con l’immagine dell’uomo spogliato, dei suoi
muscoli, del suo corpo, del suo
bel viso.
E
in un attimo
Sharona dimenticò il suo ragazzo, suo papà e i
piatti da lavare.
“Come
sto
andando?”, chiese ad un tratto Shannon, fermandosi.
“B-bene…”,
sussurrò la ragazza per poi sdraiarsi all’indietro
verso Shannon, finendo con
lo distendersi sul suo petto, ad occhi semichiusi, abbandonata con la
testa
appoggiata su di lui. “Sei bravo…”, gli
disse, sussurrando, i loro visi
vicinissimi, gli occhi negli occhi.
E
il calore
dell’alcool e del caminetto acceso, il profumo della ragazza,
l’euforia per
essere guarito al braccio, cancellarono in un attimo tutto intorno a
Shannon.
L’uomo dimenticò la sua ragazza, sua nonna e
l’auto in panne: l’unica cosa che
Shannon si accorse di volere in quel momento erano le labbra piene di
Sharona
sulle sue, voleva saggiarne la consistenza ed il calore.
E
allora si
abbassò di scatto e se le prese senza pensarci due volte.
Sharona,
ricordando immediatamente la sensazione che le aveva dato la pelle
tonica e
calda di Shannon sotto le sue dita e che aveva nascosta sotto uno
strato di
professionalità ma ora era ritornata improvvisamente a
galla, rispose senza
indugi a quel bacio improvviso e anzi si sistemò meglio, per
offrirsi di più.
Shannon
allora, avuto il via libera, le portò subito le mani sui
fianchi, la sollevò e
l’attirò contro di sé, lasciando che la
ragazza gli passasse le braccia attorno
al collo e appoggiasse i seni sul suo petto. In un secondo Sharona era
seduta
sulle sue ginocchia e respirava con il fiato di Shannon, gli passava le
mani
sui capelli, ad occhi chiusi, assaporando il sapore maschio della sua
bocca, il
suo forte profumo di uomo, il calore delle sue mani che la stringevano.
Il
tappeto
davanti al caminetto li accolse entrambi mentre si baciavano e facevano
vagare
le mani sui loro corpi: Shannon, sdraiato per terra, aveva messo la
ragazza
sopra di sé e seguiva le curve del suo corpo, la figura
snella e atletica, il
suo sedere modellato; Sharona gli accarezzava il viso, il petto, si
perdeva
nelle sensazioni che la bocca dell’uomo le dava, la barba
lunga che le pungeva
il viso.
Non
ci volle
molto che i vestiti presero la via del pavimento e i due rimasero senza.
Il
meccanico,
con il carro attrezzi, suonò il campanello di casa
all’una di notte, ma Sharona
e Shannon, addormentati una nelle braccia dell’altro davanti
al caminetto
acceso dopo aver fatto l’amore, non lo sentirono affatto.
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Capitolo 10 *** Capitolo Dieci ***
10
Sharona
si
svegliò di soprassalto sentendo freddo e si mise a sedere di
colpo, sul tappeto
vicino al caminetto, rendendosi improvvisamente e bruscamente conto di
dove si
trovasse, stringendosi le braccia attorno al corpo nudo scosso dai
brividi.
Era
notte
fonda e pioveva, forte.
La
pioggia
cadeva battente sui vetri delle finestre e sul tetto della casa e anche
quel
rumore continuo l’aveva svegliata, non solo il fatto di
essere senza vestiti
sdraiata su un tappeto, per terra davanti al divano.
Si
guardò un
attimo attorno, aguzzando gli occhi nella penombra della stanza,
cercando
istintivamente ed inutilmente qualcosa con cui coprirsi: Shannon
dormiva
profondamente vicino a lei, respirando piano, un leggero sorriso sul
volto con
i lineamenti rilassati, abbandonato nudo sul tappeto anche lui, con un
braccio
sotto la testa. Appoggiato sul fianco
destro, il suo tatuaggio etnico in evidenza, dava le spalle al
caminetto quasi
spento.
Meravigliosamente
addormentato.
Bellissimo.
Un
sogno.
Un
brivido
sulla schiena di natura sensuale le ricordò improvvisamente
cosa fosse
successo: le loro bocche affamate, le mani smaniose, le carezze
passionali, i
loro corpi uniti, il raggiungimento del loro piacere sublime.
Una
cosa che
non avrebbe mai pensato potesse essere così e che con il suo
ragazzo non le
succedeva mai. Il sesso con Doug, alla fine, fatti i debiti conti, era
di una
noia abissale, programmato e a scadenza come una bolletta da pagare,
non come
quello sperimentato con Shannon.
Sharona,
arrossendo al pensiero, allungò una mano ad accarezzare i
capelli, il volto di
Shannon e l’uomo sospirò. La ragazza tolse subito
le dita dalla sua guancia:
non voleva svegliarlo, in realtà, perché si
sentiva un po’ imbarazzata, in quel
momento.
Non
sapeva
bene perché fosse successo tutto, se fosse stato giusto o
sbagliato, se avesse
significato qualcosa per entrambi, se fosse stato solo sesso
o…
Chissà…
Doveva
pensarci e riflettere, doveva capire.
Decise
di
alzarsi.
Lentamente
si
scostò per cercare degli abiti, per allontanarsi, ma
trovò nei paraggi solo la
camicia di Shannon, che si infilò immediatamente,
rabbrividendo ancora e
registrandone il profumo di uomo. Il fuoco si stava spegnendo e,
facendo meno
rumore possibile, lo rimise in funzione, visto che, se aveva sentito
freddo
lei, probabilmente anche Shannon ne avrebbe avuto.
Nella
luce
soffusa del caminetto e dell’albero di Natale ancora acceso,
che in quel
momento aveva un che di spettrale, Sharona andò in camera
sua, prese un cuscino
ed una coperta e li portò in cucina. Mentre un lampo
illuminava la stanza,
coprì l’uomo con la coperta e gli mise il cuscino
vicino, chiedendosi se non
fosse il caso di andare
a dormire in
camera sua.
Sì,
forse era
meglio.
Doveva
fare
così.
In
fondo
Sharona non aveva idea di chi fosse Shannon, del perché
fosse lì e del perché
fosse successo tutto quanto e, nonostante le sue idee spirituali
sull’energia
che univa tutti, sul fatto che tutte le cose non accadessero per caso,
in quel
momento le era difficile trovare un legame tra di loro, trovare un
qualcosa che
li potesse legare al di là del sesso, trovare un senso ed
una ragione al loro
rapporto, nato per caso.
Rimase
un
attimo a guardarlo, in piedi vicino al divano.
E
una
consapevolezza prese corpo nella sua testa: era stata una stupida.
Lei
lo aveva
accolto a casa sua, fidandosi. Shannon era stato affabile e squisito
con lei,
ma alla fine era arrivato dove volevano arrivare tutti gli uomini,
nessuno
escluso. Magari sarebbe tornato a Los Angeles per vantarsi poi con gli
amici
della sua conquista di Bossier City, della provinciale campagnola con
cui aveva
scopato e che era stata così carina e gentile con lui da
permettergli tutto,
fino in fondo.
La
ragazza si
sentì usata, sfruttata.
Ed
un
improvviso dolore al petto la colpì.
Una
sensazione
terribile di angoscia e disperazione, come non provava da tempo.
L’improvviso
pensiero del suo ragazzo peggiorò le cose; l’idea
che Doug arrivasse
all’improvviso e trovasse Shannon lì o che lo
venisse a sapere, magari per una
parola che le scappava per sbaglio, la gettarono nel panico. Strinse i
pugni:
forse doveva svegliare Shannon, assestargli un calcio e buttarlo fuori
da casa
sua, sotto la pioggia. Che tornasse pure a piedi a casa di sua nonna,
chi se ne
importava? Che le importava dell’auto in panne? Che le
importava di lui?
Fece
per
avvicinarsi e strattonarlo, ma Shannon, che sorrideva nel sonno, quasi
pareva
un bambino indifeso alle prese con un gran bel sogno e Sharona non si
sentì di
svegliarlo.
E
forse…
Forse
non era
stata nemmeno tutta colpa di Shannon, dato che lei non aveva fatto
nulla per
allontanarlo da sé, anzi… lo aveva voluto anche
lei.
Aveva
voluto
tutto quanto era successo.
Dall’inizio
alla fine.
Sharona
si
prese la testa tra le mani, confusa, non sapendo bene cosa pensare,
ma…
Doveva
andare
a dormire nel suo letto. Sì.
Doveva
barricarsi in camera sua e lasciare Shannon lì, sul tappeto,
sperando che,
quanto prima, svegliandosi e non vedendola, l’uomo si sarebbe
deciso ad
andarsene da solo. E al domani non era il caso di pensare.
Sì,
poteva
fare così.
Era
fattibile.
Sharona
gli
girò le spalle per andarsene ma non fece in tempo che a fare
pochi passi.
“Sharona…”
Shannon
aveva
solo sospirato il suo nome, ma nella sua testa, la voce
dell’uomo le era
rimbombata come un’esplosione, come mille soli abbaglianti.
La
ragazza si
girò lentamente a guardarlo, il cuore che le era balzato in
gola, un lungo
brivido sul corpo, gli occhi spalancati.
Shannon
con
una mano, nel dormiveglia, tastava davanti a lui sul tappeto,
cercandola sotto
la coperta, sempre sorridendo, come se stesse ancora sognando.
“Sharona…”
Sharona
smise
di respirare: no, non poteva andare a dormire nel suo letto, non con
Shannon
lì, con lei, che la chiamava, che la voleva.
Che
la
desiderava, come lei desiderava lui…
Come
Doug non
l’aveva mai desiderata, come lei non aveva mai desiderato
Doug…
La
ragazza,
con il fiato corto per il desiderio e l’eccitazione come non
le era mai
capitato, dimenticando completamente tutti i dubbi di poco prima, gli
si
avvicinò lentamente, un passo dopo l’altro, si
tolse la camicia, scostò la
coperta e sussurrando un debole
“Eccomi…”, gli prese la mano che la
cercava.
Shannon
la
attirò subito contro di sé, stringendola forte,
aprendo leggermente gli occhi
quel tanto che bastava per cercare e trovare la sua bocca invitante, la
sua lingua
appassionata, il suo corpo vellutato e tremendamente allettante.
Per
metterla
sotto di sé e prenderla nuovamente, con decisione e senza
trovare resistenza.
Per
farla sua
con passione e, muovendosi impudicamente su di lei mentre la ragazza
portava le
gambe attorno ai suoi fianchi, sussurrarle all’orecchio
“My Sharona…”
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Capitolo 11 *** Capitolo Undici ***
11
Di
prima
mattina, un tintinnio sinistro e sgradevole trapanò il
cervello di Shannon,
semi addormentato con la testa appoggiata sul petto di Sharona come se
fosse un
cuscino, e lo costrinse a svegliarsi del tutto, infastidito: era il suo
blackberry, nottetempo risorto.
Anzi,
suo
fratello Jared che lo chiamava al blackberry, con associata la suoneria
più
fastidiosa che Shannon era riuscito a scovare su internet.
“Non
rispondi?”, gli chiese Sharona, svegliandosi a sua volta,
sbadigliando e
scompigliandogli dolcemente i capelli.
Shannon
le si
strinse addosso di più e si appoggiò meglio su di
lei, strofinando il viso
sulla pelle della ragazza, sul suo seno. “Devo?”
“Tanto
per
capire se va il tuo cellulare…”, sorrise Sharona.
“No…”,
sbuffò
l’uomo, alzando la testa per guardarla negli occhi,
“Lo provo dopo… ora ho
altro da fare…” Shannon, con un sorriso sornione
sulle labbra, scivolando su di
lei, si spostò per riuscire a poggiarle un bacio leggero
sulla bocca, mentre le
scostava la frangetta dalla fronte.
“Buongiorno…”
La
ragazza,
con i capelli sciolti sul cuscino e gli occhi sfavillanti, gli
passò un braccio
attorno al collo e si alzò a sua volta per cercare ed
assaggiare per un attimo
le labbra di Shannon per l’ennesima volta, con il cellulare
che smise subito di
suonare. “Buongiorno…”
“Come
stai?”,
le chiese lui, passandole un dito a disegnarle un sopracciglio,
incantato
dall’espressione sognante del viso della ragazza.
Sharona
sorrise, dimenticandosi di tutti i dubbi che aveva avuto quella notte, di quella mezzora
passata a chiedersi
tante cose, spazzata via in un attimo da quell’uomo
delizioso: “Bene. E tu?”
“Da
dio… mai
stato meglio… grazie a te…”
La
ragazza
arrossì, accarezzandogli la barba lunga, la luce del mattino
che entrava dalle
finestre e dava agli occhi di Shannon una tonalità di verde
straordinaria.
Prese a fissarlo in viso, in quegli occhi ammaliatori. Che cosa si
doveva dire
dopo una notte come quella appena trascorsa? Sharona non sapeva nemmeno
da dove
partire per mettere in fila un ragionamento di un qualche tipo, visto
che non
sapeva nemmeno dove andare a parare, non sapeva come avrebbe dovuto
sentirsi,
che cosa provare, se sentirsi in colpa o meno, visto che ora sia Doug
che la
ragazza di Shannon portavano un bel paio di corna.
Sentì,
invece,
qualcosa di prettamente fisico: il corpo di Shannon appoggiato al suo
cominciava a risvegliarsi, il sangue le scorreva nelle vene
più velocemente, il
desiderio per lui si faceva sentire ancora e cominciava a sentire un
gran
caldo. “Shannon, io…”,
iniziò, col fiato corto, accarezzandogli la fronte con
le dita, ma il blackberry riprese a suonare con la stessa odiosa
suoneria di
prima.
“Uffa…”,
sbuffò Shannon, baciandole la punta del naso,
sospirando e alzandosi in piedi di malavoglia,
“Rispondo… sennò poi mio
fratello mi chiama ventimila volte…”
“Va
be…”, ma la ragazza non riuscì nemmeno
a
completare la frase, visto che in quel momento cominciò a
suonare anche il suo
telefono fisso.
Sharona
scattò
in piedi, abbrancando la coperta e mettendosela attorno al corpo, per
avviarsi
in corridoio di corsa, mentre Shannon, nudo e appoggiato al caminetto
spento,
già alle prese con una quasi discussione con Jared, la
guardava allontanarsi
con la coda dell’occhio: “Sì Jay, lo so
che sei già in attività, ma sono le sette
e mezza del mattino, sono in vacanza e se non mi rompi mi fai pure un
piacere,
anzi, prima che ti mandi a cagare ti conviene mettere giù e
mollarmi… ”
Sharona,
invece, rispose con più titubanza, chiudendosi la porta
della cucina dietro per
non fare sentire la voce di Shannon: al telefono poteva essere chiunque
e lei
doveva fare finta di nulla. Tranne che con nonna Ruby ed il meccanico,
doveva fingere
che in casa sua non ci fosse nessuno, tanto meno un uomo:
“P-pronto?”
Per
fortuna
era soltanto George. Che le chiedeva di conferire i soldi al centro
anziani il
prima possibile e, soprattutto, di riportare il vestito da Mrs
Christmas, da
spedire in pulitura. Sharona respirò sollevata e mise
giù quasi subito,
liquidandolo frettolosamente con una sfilza di convincenti
‘va bene, ok’.
Shannon
e
Sharona, finite le relative telefonate, si ritrovarono sulla porta
della
cucina, aprendola, e si sorrisero, complici.
“Dove
eravamo?”, disse subito Shannon con un sorrisetto che era
tutto un programma a
luci rosse, tendendole una mano.
“Non
so, non
mi ricordo… Temo che dovremmo ricominciare da
capo…”, rispose maliziosamente la
ragazza, avvicinandosi, passandogli le braccia attorno al collo e
appoggiandosi
a lui.
Shannon
la
prese subito per i fianchi e cominciò a baciarla sul collo e
mentre la coperta
stava per scivolare per terra, il campanello di casa suonò e
subito dopo,
nuovamente, anche il blackberry che l’uomo teneva in mano,
con una suoneria
diversa, facendoli trasalire.
“Tim,
che
cazzo vuoi all’alba?”, rispose di scatto Shannon
quasi gridando, mentre la
ragazza, recuperata la coperta, con il cuore in gola, spiava dallo
spioncino e
vedeva il tanto sospirato meccanico, con l’altrettanto
sospirato carro attrezzi
parcheggiato vicino alla Chevrolet Malibù.
Sharona
tentò
di richiamare l’attenzione di Shannon, ma lui si era
già dileguato in salotto,
proclamando al cellulare un convintissimo “Te l’ho
già detto ieri, Tim… Non
appena andiamo in tour ti chiamiamo. Chiamiamo TE e nessun altro,
d’accordo?”
“Shan,
c’è il
meccanico…”, tentò di avvertirlo, ma
Shannon, in costume adamitico e pacifico,
si era dapprima seduto per terra vicino al caminetto spento e ora si
stava
sdraiando di nuovo per terra sul tappeto, appoggiato sul cuscino e con
un
braccio sotto la testa, e continuava la sua filippica sul fatto che Tim
doveva
impararsi tutte le parti di basso delle canzoni nuove.
Il
meccanico
riprese a suonare il campanello, come se lo volesse togliere dal muro e
portarselo a casa. E, già che c’era,
bussò anche alla porta, gridando “Signor
Letoooo?”
Sharona
si
portò in salotto e si mise davanti a Shannon a fargli dei
segni, come se
giocasse al mimo. “M-e-c-c-a-n-i-c-o…”
mimava, con l’alfabeto dei muti. Shannon
la guardò un attimo divertito e quasi gli venne da ridere
visto che per la
ragazza si agitava, i capelli le si muovevano attorno e le stava
cadendo di
dosso la coperta, di nuovo. Ma poi si rese conto di cosa volesse dire.
“C’è
il
meccanico! Tim, ti chiamo dopo…”,
esclamò Shannon, chiudendo la comunicazione,
recuperando velocemente il cuscino ed avviandosi di corsa alla porta di
casa,
aprendola di colpo.
E,
sorpresa,
di neve non c’era quasi più traccia: la pioggia
battente della notte l’aveva
spazzata via quasi del tutto. Ne rimaneva solo qualche cumulo sparso ed
un sole
scintillante faceva capolino in mezzo ad un residuo di nuvole che
correvano nel
cielo disperse dal vento. E Shannon in piedi in mezzo al portico,
spettinato,
nudo con il cuscino davanti e che si guardava intorno esterrefatto,
fece
scoppiare a ridere il meccanico, il quale gli disse subito,
sogghignando e
sistemandosi il berretto col frontino sulla testa, la faccia da uomo di
mondo:
“Nottatina intensa, eh?”
Shannon
gli
spostò gli occhi in faccia e cominciò a
spiegargli i problemi della Chevrolet
ma il suo blackberry suonò di nuovo e stavolta a cercarlo
era proprio la
proprietaria dell’auto. “Sì, nonna, sto
bene… no, non sono morto sotto la neve…
sì, ti porto a far la spesa… no, non occorreva
che telefonassi a tutti gli
ospedali… sì, adesso arrivo… no, non
farò tardi… sì, ciao
nonna…”, rispose
l’uomo rientrando ed accorgendosi che Sharona era al telefono
con gli occhi
spalancati verso di lui che gli faceva segno di stare zitto e diceva:
“Sì,
Doug, qui tutto OK, niente da segnalare… Sì, tra
un’ora arrivi, va bene… ti
aspetto qui a casa…”
Ecco,
dopo la
nonna apprensiva ci mancava il fidanzato opprimente, si disse Shannon,
rientrando in salotto, quando lui avrebbe voluto ben altro, quel
mattino. “Ma
c’è qualcuno che non ci cerca,
stamattina?”, ruggì, cercando i suoi vestiti
sparsi vicino al divano.
Si
vestì in
fretta e furia e quando uscì dal salotto vide che Sharona
era rimasta in
corridoio con la coperta attorno al corpo, ancora ferma vicino al
telefono con
la mano sulla cornetta, un po’ allucinata da
quell’assurdo via vai di telefonate.
Si
fermò a
fissarla, mentre si infilava gli anfibi e poi la giacca: la ragazza
aveva i
capelli scompigliati e si teneva la coperta chiusa davanti con un
braccio,
guardandolo con una strana espressione in volto. Chiaramente reduce da
una
notte di sesso, alla luce del mattino aveva il viso pallido, un segno
su una
spalla e sembrava una bambina dispersa.
E
Shannon si
rese conto che non aveva nessuna voglia di andarsene: voleva rimanere
ancora
lì, toglierle quella coperta di dosso, prenderla tra le
braccia, sentire il suo
calore, avere il tempo di dirle qualcosa.
Cosa,
non
sapeva nemmeno lui.
Non
ne aveva
idea.
La
ragazza gli
piaceva ma… ma…
Ma
non capiva
nemmeno come avrebbe dovuto sentirsi, che cosa provare. Era stato tutto
così
piacevole ma talmente improvviso, in barba a tutti i dubbi che aveva avuto, che…
L’uomo
le si
avvicinò, la guardò un attimo in viso e poi le
passò un braccio attorno alla
vita per stringerla a sé, per baciarla con trasporto ancora
una volta sulla
bocca, per accarezzarle il collo. “Devo andare ora,
ma… ti chiamo più tardi…”,
le sussurrò, sulle labbra.
“OK.”
Sharona
appoggiò la fronte sulla sua sorridendo e accarezzandogli le
spalle. “Va bene…”
“Ciao,
Sharona.”, le sussurrò sul collo.
La
ragazza
alzò una mano a sfiorargli una guancia, dolcemente,
guardandolo intensamente
come se si volesse imprimere il suo viso in mente: “Ciao,
Shan.”
Prima
di
lasciarla, Shannon indugiò a farle una carezza sul viso e a
toccarle una ciocca
di capelli, incantato dal quel viso, mentre il clacson del carro
attrezzi lo
richiamava alla realtà. L’uomo le gettò
un’ultima occhiata, prese velocemente
la porta e il vialetto, si affrettò a salire vicino al
meccanico che trascinava
l’auto, e se ne andò salutando con una mano
Sharona che lo guardava dalla porta
socchiusa.
La
ragazza
fece lo stesso, gli mandò anche un bacio, ma, quasi senza
motivo, in cuor suo
sapeva che quella sarebbe stata l’ultima volta che lo vedeva.
“Addio,
Shannon…”, sussurrò, rabbrividendo e
guardando il carro attrezzi che si
allontanava per la via. “Tu… tu sei un essere
speciale… e ti auguro che il tuo
karma ti regali l’illuminazione…”
|
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Capitolo 12 *** Capitolo Dodici ***
12
Mancavano
pochi minuti alle sei di sera della Vigilia di Natale e Shannon, con il
suo
fedele berretto nero di lana in testa e con al braccio nonna Ruby, fece
il suo
ingresso nella moderna chiesa cattolica di Cristo Re di Bossier City,
per la
messa prenatalizia.
L’uomo
non si
ricordava nemmeno da quanto tempo non metteva piede in una chiesa ma,
in quello
strano soggiorno nella sua città natale, quella sera aveva
dovuto fare anche
quello, per accompagnare sua nonna alla funzione religiosa.
Mentre
si
muovevano lungo il corridoio centrale in cerca di qualche posto libero
su uno
dei banchi già quasi pieni di fedeli, ricordi fuggenti di
preghiere cristiane
in cui ci si rivolgeva ad un “Padre nei cieli” e ad
una “Vergine Maria” gli
passarono velocemente in testa, come polvere sollevata dal vento, ma
l’uomo non
si ricordava quasi più nulla.
Erano
anni che
non pregava.
Si
ricordava
di averlo fatto da bambino, al catechismo, ma non essendo sua madre
Constance
particolarmente credente, ben presto aveva abbandonato ogni forma di
preghiera,
per poi dimenticarsele del tutto.
Ed
erano anni,
in realtà, che non pensava alla sua spiritualità,
per non dire secoli.
Improvvisa
una
domanda gli attraversò il cervello: in che cosa credeva lui,
ormai?
Probabilmente
in nulla.
In
niente che
fosse trascendente.
E
in niente
che fosse reale.
Quasi
mai
nelle buone intenzioni degli altri.
E,
certe
volte, nemmeno in sé stesso.
E
Shannon,
sedutosi in quinta fila con la nonna mentre l’organo suonava
il canto di
apertura e il profumo dell’incenso pervadeva
l’ambiente, si sentì
improvvisamente incompleto.
Lui
era tutto
istinto, impulso, dinamismo, corporeità, vita vissuta fino a
starne male.
Non
era per
niente anima, spirito, psichicità, pensieri mistici.
E
forse per
quello era un essere umano dimezzato: la natura umana esigeva la
risposta a
certe domande sulla vita che solo un credo religioso, o comunque
filosofico,
poteva dare.
E
che lui non
aveva.
E
per un
momento sentì di comprendere del tutto quello che gli aveva
detto Sharona la
sera prima, il fatto che sentirsi religiosamente precari la facesse in
qualche
modo stare male.
Sharona
però
era alla ricerca di qualcosa, di risposte, di verità, di
certezze… una ricerca
forse disorganica, farraginosa e caotica, ma pure sempre uno sforzo
apprezzabile.
Lui
no: non
stava ricercando nulla, si stava adagiando.
E
Sharona un
giorno forse avrebbe trovato delle risposte ai suoi dubbi.
Lui,
senza
ricercare, non ce l’avrebbe mai fatta…
Sharona
avrebbe…
Sharona…
Sharona.
Il
pensiero
abbandonò immediatamente i suoi dubbi e si posò
sul volto della ragazza, sui
suoi occhi scuri e sul suo sorriso, ma quella immagine gli fece male.
Non
era
riuscito a chiamarla.
Arrivato
a
casa di sua nonna a metà mattina con l’auto
aggiustata, aveva dovuto portare di
corsa Ruby a fare la spesa e poi aveva dovuto subire
l’assalto dei suoi
fastidiosi parenti cajun di Bossier City a pranzo e per tutto il
pomeriggio,
per poi correre in chiesa. Non era riuscito a trovare un minuto in
tutto il
giorno per consultare l’elenco telefonico della
città e trovare il numero della
ragazza, e quel mattino era fuggito da casa sua di corsa e non gli era
venuto
in mente di scriverselo da nessuna parte.
Cominciò
a
guardarsi intorno, sperando di scorgerla.
Quella
non era
l’unica chiesa di Bossier City, ce n’erano anche
altre, molte di fede battista,
e non era detto che Sharona potesse essere proprio in quella, anzi,
poteva
essere dovunque, probabilmente anche a casa a fare yoga, a massaggiare
qualcuno, a leggere, ad ascoltare i suoi adorati The Knack.
Decise
che
l’avrebbe chiamata quella sera, come prima cosa da fare una
volta rientrato a
casa.
Ma
poi, quando
ormai aveva perso le speranze, la vide avanzare lungo il corridoio,
vestita con
un cappotto azzurro, berretto e sciarpa bianchi.
E
non da sola.
Subito
Shannon
si irrigidì: Sharona era assieme ad un uomo, quasi
sicuramente il suo
fidanzato, un ragazzone enorme, altissimo e ben piazzato, biondo con i
capelli
corti tagliati a spazzola e l’espressione un po’
feroce, esattamente come
Shannon si era immaginato.
L’uomo
ci
rimase male.
Esisteva
davvero Doug Lagrance, allora.
Purtroppo.
Shannon
non
staccò gli occhi di dosso alla coppia per tutta
l’ora della messa, visto che i
due si erano seduti un po’ più avanti sulla destra
e lui li vedeva benissimo:
osservava Sharona mentre si rivolgeva al suo ragazzo, gli sorrideva, lo
guardava, gli prendeva la mano… e nello stesso tempo pensava
alla notte
precedente, al corpo della ragazza contro il suo, al calore della sua
pelle, al
suo odore di donna. Gli pareva di sentirlo nelle narici, gli sembrava
di
sentire il sapore della sua saliva, la consistenza della sua carne,
l’ardore
con cui gli si era donata ogni volta che avevano fatto
l’amore.
Pensieri
ben
poco puri da fare in chiesa, si disse, grattandosi una guancia, ma che
gli
danzavano in testa in modo troppo preciso per essere messi da parte.
Con
fatica
riuscì a seguire la funzione, mentre vedeva che Doug parlava
in un orecchio a
Sharona, la stringeva alla vita, le accarezzava una mano.
E
quando la
messa finì, Shannon, d’impulso, avrebbe voluto
andare da lei. Ma… a dirle cosa?
‘Buon Natale, molla l’energumeno e mettiti con
me’? No, era troppo, nella notte
trascorsa assieme non si erano detti nulla del genere, e… la
sua ragazza in
California? La scaricava con un SMS? No, non poteva.
E
poi se Doug
avesse reagito alzandolo da terra e scaraventandolo sulla fila di
banchi?
Poteva anche essere. Se doveva parlarle, doveva farlo senza che ci
fosse il suo
ragazzo altrimenti avrebbe potuto rimetterci l’osso del collo.
Sperò
di
averne l’occasione di lì a poco, magari nella
confusione della gente che usciva,
ma, mentre Shannon era fermo vicino alla porta con sua nonna che faceva
gli
auguri a delle sue amiche, Sharona passò davanti a loro al
braccio del suo
fidanzato.
Vide
Shannon,
arrossì copiosamente e poi, sorridendo in un modo che al
batterista parve piuttosto
distaccato e disincantato, lo salutò con una mano e se ne
andò, uscendo dalla
chiesa come vi era entrata.
Shannon
rimase
malissimo e si rese all’improvviso conto che non
c’era nulla da fare.
Se
Sharona
avesse voluto dirgli qualcosa, lo avrebbe sicuramente fatto.
E
non lo aveva
fatto.
E
la realtà,
anche se cruda e non piacevole, era che lei era assieme al suo ragazzo.
Che
lui
sarebbe tornato dalla sua ragazza nel giro di un paio di giorni.
Che
era
finita.
Finita.
E
basta.
La
loro
relazione era durata poche ore, meno di un giorno, e allora che cosa
pretendeva
da sé stesso e da lei?
E
poi perché mai Sharona gli stava
così a
cuore? Dopotutto non era la prima volta che aveva avuto relazioni di
natura
sessuale durate poche ore.
Ma
quella
volta questa cosa gli stringeva il cuore e gli faceva male.
Molto
male.
E
non sapeva
spiegarsi perché.
Oppure
sì.
Sì.
Perché
Sharona
era speciale.
Era
fatta
della stessa sostanza di cui sono fatti i sogni, si disse, ricordandosi
una
frase che aveva letto in un cioccolatino una volta.
Ma
quel sogno
era svanito.
Lei
non era
sua.
‘My
Sharona’?
Come le aveva sussurrato mentre facevano l’amore? No.
Purtroppo
no.
E
non lo
sarebbe mai stata.
Shannon
uscì
con sua nonna dalla chiesa come un automa, assorto nei suoi dubbi ed
amareggiato.
Salì
sulla
Chevrolet decisamente abbattuto.
Ma
a nonna
Ruby, nonostante gli spessi occhiali appoggiati sul naso, non era
sfuggito lo
sguardo di Shannon puntato sulla ragazza per tutta la messa e anche
dopo. “E’
carina Sharona, vero?”, gli disse, mentre l’uomo
metteva in moto e partivano.
“Eh?
Sì,
certo.”, rispose Shannon, tentando di fare
l’indifferente.
“Dovresti
sistemarti, Shannon.”
“Nonna…”
“Hai
un’età,
ormai. Hai quasi quarant’anni. Devi farti una famiglia e
mettere al mondo dei
bambini. Ora. Altrimenti poi è troppo tardi.”
Non
era la
prima volta che sua nonna attaccava con quella solfa: “Per
favore, nonna…”, le
rispose, un po’ seccato.
“Vieni
via
dalla California dove ci sono soltanto donnacce in cerca di soldi e
fama e
ritorna qui, prima che sia troppo tardi.”
“Smettila,
nonna…”
“Sharona
ha
l’età giusta per te, è pronta per avere
dei bambini e… non sta bene con
quell’armadio di Doug, starebbe bene con te.” Anche
Shannon lo sapeva, lo aveva
capito quella notte, sentiva che era così, ma non
c’era nulla da fare. Si
limitò a sbuffare, mentre sua nonna continuava imperterrita:
“Perché non sei
tornato, stanotte? Sei stato con lei, vero? Avete fatto
l’amore, vero? Ho visto
come ti ha guardato…”
Ma,
Cristo
Santo, sua nonna era una schiacciasassi sotto forma di vecchia signora
e lui
non aveva mai e poi mai parlato di sesso con lei! “Nonna, per
favore… Cosa
dici? L’auto era in panne… Come facevo a
tornare?”, disse, arrossendo, per la
prima volta dopo lustri.
“Sì-sì-come-no…
Non sai dire le bugie, Shannon, non ne sei mai stato capace nemmeno da
bambino.
Ho indovinato, vero?”
Shannon
sbuffò
nuovamente: “N-no, cioè…
insomma… lasciamo perdere, OK?”
Nonna
Ruby si
arrese, di malavoglia, sapendo di avere visto giusto su tutta la linea.
“Vabbè,
vabbè… fai un po’ quello che vuoi,
tanto sai che ho ragione…”, gli rispose,
tenendogli un po’ il muso.
Shannon non disse nulla e si
limitò soltanto a
pensare che il giorno dopo, all’arrivo di sua mamma Constance
che gli dava il
cambio a far compagnia a sua nonna, lui avrebbe di corsa preso
l’aereo per
tornare a casa.
Cosa
che fece.
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Capitolo 13 *** Epilogo ***
Dedico
quest’ultimo
capitolo della ff al cantante dei The Knack, Doug Fieger
(sì, il nome del
fidanzato di Sharona non era casuale…), morto di malattia
proprio in questi
giorni. Lui e i suoi compagni non sapranno mai che cosa ha significato
per me
il loro album “Get The Knack”, il primo 33 giri che
ho comperato, la porta sul
mondo del Rock, alcuni anni della mia vita di adolescente incentrati
sull’idea
della California come di un luogo speciale. Il fatto che, dopo lustri,
sia però
ancora qui a chiamare una ff come la loro canzone più famosa
e a pensare ancora
e sempre alla California, forse lo fa capire meglio di tante
parole…
Addio
Mr. ‘My
Sharona’, che il paradiso del Rock ti accolga…
Col
cuore spezzato.
Shanna.
Epilogo
Quell’antivigilia
di Natale del 2009, per Sharona era più triste che mai. La
ragazza si infilò il
suo solito abito da Mrs Christmas e uscì di casa decisamente
senza nessuna
voglia di fare la consueta questua per gli orfani di ogni anno, a nome
e per
conto del Centro Anziani e costretta da zia Florence.
Sharona
si
avviò a piedi lungo il vialetto di casa, sotto lo scarso
sole di quel
pomeriggio invernale per fortuna privo di pioggia e di neve, con il
berretto
rosso in testa ed i suoi soliti sacchi contenenti caramelle e
campanaccio, ma non
riuscì a staccare la mente nemmeno per un momento da un
pensiero fisso.
Perchè
tutto
la riportava esattamente ad un anno prima.
E,
per questo,
quel giorno tutto le ricordava Shannon.
Le
veniva in
mente Shannon mezzo congelato che la aspettava in mezzo alle intemperie
davanti
al centro commerciale, le pareva di udire le loro risate mentre erano
seduti
sul marciapiede, il profumo ed il calore del caffè, la neve
che cadeva sui loro
berretti rossi…
E poi l’auto di
Ruby in panne, il massaggio
terapeutico, la cena a base di pizza, la musica e poi…
l’amore di quella notte.
Quella
unione
perfetta di due esseri che si completavano, non solo di due corpi, e
che
Sharona non riusciva in nessun modo a scordare. E che le veniva in
mente in
modo piuttosto intenso, ma inopportuno, ogni volta che ascoltava i Dire
Straits, che vedeva il divano, il tappeto, il plaid con cui aveva
coperto
Shannon…
E
poi la
mattina in cui si erano svegliati e subito lasciati, con Shannon che le
aveva
promesso di chiamarla ma… l’uomo non
l’aveva chiamata quel giorno, né mai…
Sharona
era
passata da nonna Ruby il giorno di Santo Stefano per
restituire i soldi che Shannon le aveva
lasciato per la visita, sperando di parlargli, ma non aveva trovato
nessuno,
venendo a sapere per caso dai vicini che il batterista se ne era andato
il
giorno di Natale. Con rammarico aveva lasciato i soldi in una busta
sotto la
porta e se ne era andata, senza nemmeno avere il coraggio di telefonare
a Ruby
per dirle che era stata lei.
Ad
aggravare
il tutto, Sharona aveva quasi subito scoperto chi fosse Shannon,
vedendo in
edicola una copertina di uno dei tanti giornali musicali con la foto
del gruppo
di cui il batterista faceva parte, anche piuttosto famoso, a quanto
pareva. E
poi agli inizi di dicembre i 30 Seconds To Mars avevano anche suonato a
Baton
Rouge: non potendo andare al loro concerto per questioni di lavoro, lei
aveva
almeno sperato che Shannon passasse a Bossier City a salutare la nonna.
Invano.
E
allora ormai
Sharona, con un certo rammarico, lo dava per perso: Shannon era una
rockstar e
a lei non pensava sicuramente più. Lei era stata solo il
calore di una notte,
un momento gradevole, una parentesi nel casino della sua vita, ma ormai
per lui
doveva essere solo un ricordo, probabilmente una delle tante.
E
in fondo non
poteva nemmeno biasimarlo del tutto: lei non lo aveva cercato facendosi
dare il
numero di cellulare da Ruby, né gli aveva detto nulla quando
lo aveva visto in
chiesa quel giorno, schiacciata dalla presenza ingombrante di Doug.
Doug.
Quel
Doug che per
fortuna non aveva capito niente di quello che era successo
l’antivigilia di
Natale in casa di Sharona (anche perché lei aveva fatto
sparire immediatamente
tutte le tracce della presenza di Shannon), limitandosi a chiederle
indifferente chi fosse quel ‘truzzo’ che la ragazza
aveva salutato all’uscita
della chiesa.
Quel
Doug con
cui era finita quasi subito: Sharona non riusciva a superare il fatto
di
sentirsi in colpa per averlo cornificato quella notte ed il loro
rapporto si
era raffreddato a tal punto che Doug aveva perso interesse per lei nel
giro di
poche settimane, si era dapprima messo con una cheerleader per poi, nel
giro di
un paio di mesi, trasferirsi a New Orleans per giocare nei Saints.
Mentre
camminava spedita per le strade di Bossier City, Sharona
sospirò al ricordo,
anche se, a dire il vero, Doug non le mancava per nulla: alla fine
erano così
diversi da essere agli antipodi. Si era raccontata cose più
interessanti con
Shannon in qualche ora davanti ad una pizza che con Doug (fissato con
mete,
arbitri e punteggi del football…) in sei mesi che erano
assieme.
Il
sesso con
lui, poi… vabbé… meglio non
pensarci…
Croce
sopra
per evitare paragoni inopportuni.
Sharona,
cercando di mettere da parte pensieri ben poco puri sul sesso con
Shannon,
pensò che l’ultimo scherzo glielo aveva giocato
anche George, mandandola quel
giorno a fare la raccolta fondi al centro commerciale.
QUEL
centro
commerciale.
La
ragazza
masticò amaro, cercando di consolarsi trovandoci un motivo
esoterico, pensando
che se era così era perché probabilmente il suo
karma voleva che una situazione
ripetuta fosse esorcizzante e…
Ma
non finì il
pensiero…
Girato
l’angolo, con sorpresa si ritrovò almeno una
trentina tra babbi e babbe natale
disposti nei pressi della porta dove doveva mettersi anche lei.
Alcuni
li
conosceva di persona, altri di vista, altri per niente.
Alcuni
avevano
sacchetti di candy canes e campanacci in mano e altri il cestino per
raccogliere le offerte. Uno era addirittura inginocchiato per terra
vicino ad
uno stereo portatile che diffondeva canti natalizi.
E
tutto
sembrava essere nell’anarchia più assoluta.
Sembrava
che
quei babbi natale fossero tutti lì per caso.
Come
se
fossero stati portati da un tifone natalizio partito dalla dimora di
Babbo
Natale ed abbattutosi sul centro commerciale.
“Che
sta
succedendo?”, chiese perplessa Sharona, con le ciglia
aggrottate, avvicinandosi
ad uno che conosceva bene.
Il
ragazzo,
con la barba finta ancora a penzoloni e il berretto in mano, scosse le
spalle:
“Boh… non so, ci hanno detto di venire
qui.”
“Ma…
ma…
tutti?”
“Sì,
tutti.”
“E
perché?”
“Boh,
ce lo ha
detto George…”
Sharona
cominciò a guardarsi attorno interdetta: George doveva
essere impazzito, e a
furia di fare il volontario al centro anziani, forse stata invecchiando
precocemente
e cominciava a perdere colpi. C’era tutta la città
da coprire, per cui era
assurdo che tutti i babbi natale volontari fossero stati mandati nello
stesso
posto. Forse era il caso di mettere un po’ di ordine,
chiamare George e
chiedergli che aveva in mente: “Scusate, qualcuno ha un
telefon…”
Ma
la frase non
riuscì nemmeno a finire di pensarla
perché improvvisamente una musica si spanse
nell’aria.
Una
canzone.
Sharona
spalancò gli occhi, sorpresa, e la riconobbe subito, dalle
prime battute, da
quell’attacco di batteria inconfondibile che aveva sentito
migliaia di volte.
Era
la sua
canzone.
Era
‘My
Sharona’ dei The Knack.
La
ragazza,
perplessa, si spostò verso lo stereo portatile per capire
che stesse
succedendo, ma restò di sasso quando il babbo natale che
stava davanti si girò
e la guardò negli occhi.
Con
quegli
occhi verdi singolari che ancora turbavano le sue notti.
Era
Shannon.
Shannon.
L’unico
Shannon dei suoi pensieri.
“Sh-Shan?”,
chiese, con il cuore in gola e la voce quasi inesistente.
L’uomo,
più
magro ed in forma dell’anno precedente, si tirò
giù la barba finta, si tolse il
berretto rosso e le sorrise: “When you gonna give me some
time, Sharona?”
“Ma…”
“You made my motor
run…”
La
ragazza
scoppiò a ridere divertita, visto che l’uomo
parlava usando le parole della
canzone: “Shannon, che dici?”
“Is it just destiny
or is it just a
game in my mind, Sharona?”
Shannon
le si
era avvicinato e Sharona lo guardava incantata, quasi incapace di
articolare
una frase. “Ma tu che ci fai…”
L’uomo
non la
lasciò finire. Con uno scatto la abbracciò
passandole le mani attorno alla vita
e le sussurrò in un orecchio: “My
Sharona… ti voglio bene…”
Sharona
ancora
non credeva ai suoi occhi, né orecchi:
“Ma…”
L’uomo
si
scostò per guardarla in viso, mentre tutti i babbi natale si
dileguavano in
fretta, quasi correndo: “Io… ho pensato a te un
anno intero, Sharona… Ogni
volta che prendevo in mano le bacchette pensavo a te. A come mi hai
guarito, a
quelle poche fantastiche ore passate con te, a quanto sono stato
codardo a non
dirti nulla e ad andare via in quel modo. A quanto sono stato coglione
a non
chiamarti. Ma non avevo capito subito che io stavo cercando te
e…”, l’uomo si
interruppe e le accarezzò una guancia, le spostò
la frangetta dalla fronte e
poi continuò: “Io… sono ancora alla
ricerca di altre certezze, come stai
facendo tu… ho capito che avevo bisogno di trovare delle
risposte, come ne hai
bisogno tu. Voglio cercarle con te, Sharona… trovarle con
te. Ora frequento con
Brent un centro buddista, ho un maestro, sto seguendo il mio Dharma,
sono
diventato vegetariano e… non so se sia la strada giusta
ma… ci provo. E… ti ho
perfino dedicato una canzone fatta di accordi di chitarra e canti
tibetani e
l’ho chiamata ‘L490’. Perché
tu sei il mio L490, Sharona. Tu e solo tu.”
Sharona
era
senza parole, sorpresa oltre ogni dire da quello che Shannon le aveva
detto:
una dichiarazione in piena regola. E se l’anno prima lo
Shannon che conosceva
le era parso una persona rara, questo Shannon era perfetto.
Meraviglioso. Ed
era lì per lei.
Non
disse
nulla, ma si limitò ad abbracciarlo, respirando il suo
profumo, sentendo il suo
corpo forte contro il suo, accarezzandogli le spalle, pensando a quanto
gli
fosse mancato.
E
Shannon, a
quel contatto tanto desiderato, non resistette oltre: i due
cominciarono a
baciarsi e non si accorsero per niente di un’auto che si
fermava nel parcheggio
del centro commerciale, ad una decina di metri.
Una
Chevrolet
Malibù del 1980, con una guidatrice bionda e una passeggera
con i capelli
bianchi e gli occhiali.
Figlia
e
madre.
Constance
e
Ruby.
“Hai
visto? Te
l’avevo detto, no?”, stava dicendo Ruby, guardando
maliziosa i due ragazzi
abbracciati e per i quali il mondo intorno non esisteva più.
Constance
sorrise compiaciuta: “Sì, mamma, non sbagli
mai…”
“Eh
eh… Quando
ti ho detto di mandarmelo qui, sapevo che avrebbe trovato
lei… L’avevo notata
al centro anziani quando accompagnava la mia amica Florence. Era
perfetta per
Shannon, no? E George ha fatto tutto come doveva fare, hai visto? E
Florence
pure, mandando il papà di Sharona a Baton Rouge
l’anno scorso, no?”
“Sì,
mamma. E
grazie di cuore. La ragazza che aveva prima era un’arpia,
faceva uscire il
peggio da Shannon e lui stava sempre male, non suonava quasi
più, era sempre
irritato… Ora sembra un altro, é più
calmo, riflessivo, migliore… E…” La
donna
si interruppe, un sorriso sornione che ricordava tanto quelli del
figlio
maggiore: “Hai per caso visto anche una donna per Jared? Una
ragazza che ti
sembra adatta a lui?”
Ruby
sorrise,
lo sguardo che le brillava. “Ma certo, mia cara. La figlia
del pastore. Un
caratterino pepato che terrebbe testa ad un esercito.”
Constance
si
illuminò: “Ah, è la sua,
allora…”
“Bene.
Tu
mandamelo qui. Ho giusto in mente un piano…”, da
dietro le lenti, gli occhi di
Ruby erano particolarmente scaltri, in contrasto con la sua figura di
vecchia
nonna innocua.
Constance
rimise in moto, annuendo: “OK. Quando arriviamo a casa lo
chiamo subito.”
“Va
bene,
cara.”
La
macchina
ripartì con le due donne, mentre un bambinetto spaventato,
scappando via,
gridava a sua madre, alla vista di Shannon e Sharona abbracciati e con
le
labbra ancora incollate: “Mamma, mamma! Father e Mrs
Christmas si stanno
baciando!!!”
E’
dato per
certo che tutte le sue acquisite convinzioni natalizie crollarono in un
attimo!
FINE
Come
sapete (o forse no), tutti dicono che Shannon sia
“cambiato”,
sia in qualche modo “diverso” da un anno a questa
parte. In effetti la sua
canzone L490, certe sue uscite e certe foto postate su Twitter e il
fatto che
in un video recente abbia salutato con un namaste piuttosto evidente e
praticamente perfetto, fanno pensare anche a me che qualcosa gli sia
successo,
probabilmente un avvicinamento agli insegnamenti buddisti. Ovviamente,
non
conoscendolo, non posso che ipotizzare, l’ho soltanto
immaginato con questa ff,
dandone un’interpretazione personale, che spero abbiate
gradito.
Al
solito, ringrazio chi ha betato, letto, recensito, messo la ff
tra le preferite e/o le seguite. Scusate se non ho quasi mai commentato
le
vostre recensioni, ma davvero in questo periodo ho il tempo contato.
Grazie
anche a Monica e a Giulia che hanno attribuito a questa ff dei
riconoscimenti
al settimo turno dei NESA.
Alla
prossima!
Baci.
Shanna.
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