My (Xmas) Sharona

di shanna_b
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo Uno ***
Capitolo 2: *** Capitolo Due ***
Capitolo 3: *** Capitolo Tre ***
Capitolo 4: *** Capitolo Quattro ***
Capitolo 5: *** Capitolo Cinque ***
Capitolo 6: *** Capitolo Sei ***
Capitolo 7: *** Capitolo Sette ***
Capitolo 8: *** Capitolo Otto ***
Capitolo 9: *** Capitolo Nove ***
Capitolo 10: *** Capitolo Dieci ***
Capitolo 11: *** Capitolo Undici ***
Capitolo 12: *** Capitolo Dodici ***
Capitolo 13: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Capitolo Uno ***


1

 

 

Il divano della nonna è sempre il migliore.

Caldo, confortevole ed accogliente.

E poi profuma.

Profuma di lei.

Profuma di casa.

Profuma di mille ricordi speciali di bambino…

Di quando si tornava a casa da scuola e la nonna era sotto il  portico ad aspettarci, ci preparava la torta di mele, ci dava la mancetta, ci accarezzava il viso con affetto…

Ma anche di ricordi spiacevoli…

Di quando abbiamo dovuto andarcene da qui con mamma, prendere la macchina carica di bagagli e di aspettative e allontanarci dalla nonna, per sempre…

Shannon, sospirando, in pieno amarcord fanciullesco, si mise più comodo, continuando ad arruffare ad occhi chiusi il pelo setoso di Leo, il gatto persiano di sua nonna Ruby, che gli era subito balzato addosso quando l’uomo si era seduto sul vecchio divano a fiorellini rosa.

Il batterista era in vacanza.

Una meritata e tanto attesa vacanza, dopo un anno pesante passato ad affrontare gli ultimi concerti, a ritirare gli ultimi premi sul secondo album dei 30 Seconds to Mars, a cercare di preparare il terzo album, a passare di avvocato in avvocato per la causa con la EMI, a pensare a come racimolare trenta milioni di dollari…

‘Che bello essere qui tranquilli…’, pensò Shannon, sbadigliando e stiracchiandosi di gusto, i piedi senza scarpe appoggiati sul tavolino davanti a lui, i capelli spettinati, la barba sfatta, la tentazione crescente di fabbricare a breve un rigenerante sonnellino pomeridiano. ‘Che meraviglia essere qui rilassati, con la pancia piena delle buonissime specialità della nonna, al calore del caminetto acceso, con la neve silenziosa che cade fuori, l’albero di Natale acceso… Perfetto… Sarebbe tutto perfetto se…”

“Shannon?”

O no, eccola di nuovo. “No.”, disse subito, senza aprire gli occhi, ancora prima che sua nonna cominciasse il discorso.

Nonna Ruby si fece più vicina. “Sì.”

“No, nonna.”

“Per favore, Shany.”

“Ti prego, nonna, chiedimi tutto ma questo no.”

“Ma è per una buona causa.”

“Ho detto di NO.” Shannon aprì gli occhi del tutto, seccato. Non voleva rispondere male a sua nonna, ma essere risoluto e non convincibile sì.

“Ma è Natale, Shany…”. Nonna Ruby si sedette vicino a lui e lo guardò con occhi impietositi dietro gli spessi occhiali, prendendo con le sue mani ossute e calde quelle del nipote e stringendogliele. “Almeno a Natale bisogna essere buoni, lo sai, no?”

Shannon sbuffò, tirando giù i piedi dal tavolino e scacciando il gatto: “Nonna, adesso non mi dire che se non lo faccio, Gesù Bambino non mi porta il regalo, dai… ho quarant’anni, ormai, e non ci credo più da un bel po’. Da almeno trentanove anni…”

Il sorriso sparì dal volto di Ruby: “No, non a te, ma se non lo fai, Gesù Bambino i regali non li porta a quei poveri orfani per cui devi raccogliere i fondi.” Shannon tolse le mani da quelle della nonna e si grattò la fronte, pensieroso, mentre la nonna continuava: “Si tratta solo di un paio d’ore. Vai al Centro Anziani, gli dici che ti mando io e fai come ti dicono. Non sarai da solo, ovviamente, ci saranno anche altri a darti una mano. Eh? Allora? Cosa dici?”

La nonna lo guardava implorante, una leggera tremarella alle mani dovuta all’età, e Shannon, a cui già l’idea di uscire fuori al freddo pungente di Bossier City faceva venir voglia di scolarsi una cassetta di Corona Extra e fumare dieci sigari cubani uno dietro l’altro, sbuffò per l’ennesima volta.

Ma perché non c’era Jared con lui?

Perché quello scorfano di suo fratello era andato a Miami a folleggiare invece che venire in Louisiana da sua nonna?

E, soprattutto, perché lui non aveva trovato una scusa decente per rimanersene a casa sua, a Los Angeles, e si era fatto convincere da sua madre a trascorrere il Natale nella città in cui era nato a fare compagnia a sua  nonna?

Si maledisse per l’ennesima volta, ma capitolò: “OK.”, disse, sottovoce, sapendo di non avere mai avuto scampo, soprattutto non davanti all’espressione supplicante di sua nonna. Era troppo buono di cuore. Jared glielo diceva sempre che non era sufficientemente bastardo.

La nonna gli accarezzò i capelli arruffati, come se avesse a che fare con un bambino: “Grazie, Shany. Dio te ne renderà merito!”

L’uomo fece una smorfia: “Sì-sì-come-no…”

Ruby si alzò dal divano lentamente, con fatica, e si avviò verso un mobiletto, estraendone carta e penna e cominciando a scrivere qualcosa. “Allora… vai qui, a questo indirizzo. E chiedi di George.”

Shannon si alzò dal divano di malavoglia, ancora più lentamente di sua nonna, prese il fogliettino, lo lesse un attimo e poi se lo ficcò nella tasca dei jeans, sperando che un meteorite dalle profondità dello spazio facesse finire il mondo intero, quel 23 dicembre, antivigilia del Natale 2008.









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Capitolo 2
*** Capitolo Due ***


2

 

 

L’auto di nonna Ruby era una vecchia Chevrolet Malibu nera del 1980 e sua nonna non la guidava ormai da decenni, anche se la faceva revisionare e sistemare ogni anno dal suo meccanico di fiducia, più per l’idea di poterne avere bisogno un giorno, che per reale necessità.

Shannon, il berretto di lana nero calcato in testa, due metri di sciarpa avvolta attorno al collo, una barba lunghissima ed incolta e gli immancabili occhiali da sole, mise in moto e partì uscendo dal garage con una mezza idea di scappare fino in California: in meno di un giorno e mezzo sarebbe stato a casa, giusto in tempo per il pranzo di Natale, non fosse che l’auto, nonostante gli assidui controlli, forse non sarebbe riuscita nemmeno ad uscire dalla Louisiana e avrebbe perso per strada i vari pezzi, più o meno come quelle dei cartoni animati.

L’uomo, con la sigaretta accesa penzolante da un lato della bocca, in cinque minuti arrivò dove gli aveva indicato sua nonna: uno stabile di mattoni rossi in pieno centro città, con una scala di metallo all’esterno e l’aria vissuta, due giardinetti spogli ai lati. Parcheggiò nelle vicinanze, in mezzo ad alcuni cumuli di neve e a gente indaffarata con i regali, e si avviò, rassegnato come se stesse andando al patibolo, verso l’entrata.

‘Centro Anziani di Bossier City’, recitava il cartello appeso sopra una porta a vetri decorata di renne natalizie piuttosto spelacchiate. Shannon sbuffò per l’ennesima volta, chiedendosi che diavolo ci faceva lì, in anticipo sui tempi utili a frequentare il centro anziani di almeno una quarantina di anni.

D’altra parte, si disse, cercando di autoconvincersi, era anche vero che non poteva non fare un favore a sua nonna che, nella loro vita, era per i fratelli Leto il punto di riferimento principale, insieme alla loro madre, Constance. Le uniche due donne che erano sempre state presenti e delle quali si potevano fidare ciecamente, dalle quali potevano andare in caso di bisogno ed essere certi di poter essere aiutati. Sempre.

Shannon buttò la sigaretta nel giardinetto vicino alla scala, spinse la porta ed entrò, guardandosi intorno con circospezione.

Addobbi natalizi erano appesi un po’ dappertutto e, in un andirivieni di gente notevole, l’uomo intravide una specie di reception sulla destra. Si avviò di là, con il suo foglietto stropicciato in mano.

Un uomo che gli ricordava moltissimo John Candy, con lo stesso viso rubicondo e ilare, lo guardò subito, alzando lo sguardo da una pila di carte e sorridendo, forse un po’ eccessivamente.

Shannon non rispose al sorriso. “Ehm… buongiorno. Cerco il sig. George per…”

“Sono io. Sei il nipote di Ruby?”

“Sì.”

“Tua nonna ha appena chiamato per dire che saresti venuto.”

Bene. Fregato in pieno. Trappola chiusa. Nessuna via d’uscita. “Ah, bene.”

“Perfetto. Mancavi solo tu, in effetti.” L’uomo si alzò ed uscì da dietro il bancone. “Vieni con me.”

Shannon, camminando come se stesse pestando delle uova, lo seguì lungo un corridoio, fino ad arrivare ad una porta in fondo a destra, che George aprì.

Era il magazzino.

I due uomini entrarono e George cominciò subito a squadrare Shannon dalla testa ai piedi: “Ecco… uhm… Che taglia porti?”

Shannon si tolse il berretto di lana, visto che cominciava a sentire caldo e quella non era una domanda a cui gli piaceva rispondere, non dopo tutto quello che aveva passato negli ultimi mesi. Esitò un attimo e George parlò per lui: “Non sei molto alto e direi XL, però dalla tua corporatura direi XXL. Quindi ti do XXL e… direi anche che non ti serve la pancia finta perché già hai la tua…”

Poi l’uomo scoppiò a ridere credendo di aver fatto la battuta dell’anno, ma Shannon, sorpreso di tutta quella confidenza non richiesta, dapprima masticò amaro e poi si ritrovò ad avere dei pensieri poco natalizi del tipo “Fottiti, stronzo, vaffanculo, figlio di…”. Fu tentato di giustificarsi dicendogli che la sua grassezza e il suo gonfiore erano dovuti ai medicinali che prendeva in quel periodo per i problemi al braccio sinistro, ma si fermò subito: perché doveva sentirsi in dovere di discolparsi con quel deficiente-maleducato?

Shannon si tolse gli occhiali e guardò malissimo dritto negli occhi quel John Candy riuscito male: “Mi dia tutto e basta. Decido io cosa indossare e cosa no.”, proclamò, con una voce che sembrava provenire dall’oltretomba e dandogli del lei, giusto per creare un baratro tra di loro.

Il tizio si accorse che l’espressione di Shannon era decisamente omicida. Si affrettò a prendere una busta di carta sigillata dalla fila di scaffali davanti a lui: “OK-OK. Ecco qui. E… se vuoi cambiarti, il camerino è in fondo al corridoio, a sinistra.”

Shannon non rispose nemmeno, offeso. Prese con sdegno la busta dalle mani del tizio e si diresse verso il camerino, giurando a sé stesso che sarebbe stata l’ultimissima volta in vita sua che si vestiva da Babbo Natale.

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Capitolo 3
*** Capitolo Tre ***


3

 

 

Shannon sbuffò scontento, per la milionesima volta.

Era quasi un’ora che aspettava vestito di tutto punto da Babbo Natale (barba e capelli lunghi bianchi compresi) nei pressi del centro commerciale, nel parcheggio vicino alla cabina telefonica dove doveva incontrarsi con gli altri, secondo le indicazioni dategli da George, ma di altri babbi e/o babbe natale nemmeno l’ombra, solo quella strana neve mista a pioggia che cadeva così forte come a Bossier City non si era mai vista e che copriva lentamente ogni cosa.

L’uomo cominciava a stancarsi: erano le quattro del pomeriggio e lui avrebbe sprecato un altro quarto d’ora al massimo e poi se ne sarebbe andato, e agli orfani avrebbe fatto una bella donazione sotto forma di pingue assegno, piuttosto che passare un minuto di più con quel ridicolo vestito addosso.

E non solo ridicolo: soprattutto fatto di una stoffa che non teneva per niente caldo. Per fortuna che sotto si era tenuto tutti i suoi abiti (due magliette, camicia felpata a scacchi verdi e neri, pantaloni neri e giacca di pelle) altrimenti avrebbe fatto la fine di un tricheco congelato. Sì, di un tricheco: perché con tutti quegli strati di indumenti e i baffi finti che coprivano i suoi ne aveva pure l’aspetto…

Shannon cominciò a camminare su e giù, saraccando pesantemente tra sé e sé, quando, improvvisamente, nel turbinio di fiocchi e acqua gelata, dal fondo del parcheggio vide una figura correre verso di lui.

Una ragazza.

Shannon si fermò un attimo, sperando in cuor suo che non fosse una echelon infoiata e con gli ormoni a palla, desiderosa soltanto di buttarlo per terra lì, in mezzo alla neve, ed abusare di lui.

No, impossibile. Vestito così non lo avrebbe riconosciuto nemmeno sua madre, si disse, e poi, per il fatto che erano in un periodo di stanca nella produzione del CD e la loro ultima apparizione era stata agli EMA più di un mese prima, era un periodo che non ne avevano molte alle calcagna, di fans scalmanate, e probabilmente non a Bossier City.

Allora si rassicurò e cominciò a squadrare la ragazza da capo a piedi: era sicuramente più giovane di lui, con lunghi capelli scuri ondulati imbrattati di neve, esile e magra, vestita con dei pantaloni rossi infilati dentro un paio di stivali neri col tacco, giacchetta rossa contornata di pelo bianco sul collo e sui polsi, berretto da babbo natale in testa e due sacchi di tela sulla spalla.

Una perfetta Mrs Christmas.

Non una echelon.

La ragazza, notandolo anche lei, gli si avvicinò con maggior premura, accelerando di scatto l’andatura, per quanto potesse farlo senza cadere e  scivolare in mezzo alla neve.

Shannon non le staccò gli occhi di dosso: forse finalmente la situazione prendeva corpo e procedeva verso una qualche direzione, sicuramente verso la fine di quella giornata buttata via in assurde cavolate.

La ragazza gli arrivò vicino senza fiato, il viso arrossato, gli occhi scuri spalancati, la bocca socchiusa: “S-scusa il ritardo. Mi hanno detto dieci minuti fa di venire qui… ho fatto una corsa…”

Shannon non imprecò solo per un miracolo divino, togliendosi la neve dalla faccia e guardandola con occhio torvo: “E’ quasi un’ora che aspetto!”, affermò, per niente colpito dal fatto che la ragazza avesse corso la maratona con il record mondiale stagionale per essere lì.

“Sì-sì-immagino, ma… ma Janet, che doveva essere qui con te oggi, ha quaranta di febbre e allora hanno mandato me, io in realtà dovevo andare a…”

L’uomo non la lasciò nemmeno finire, tanto era scazzato: “OK-OK. Ormai sei qui, basta…”

La ragazza abbassò gli occhi, rendendosi conto che quell’uomo era davvero arrabbiato, con quegli strani occhi verdi che lampeggiavano di collera e di astio. Tentò di rimediare: “Scusa davvero. Sei… sei Sheldon, vero?”

Sheldon? SHELDON?!?! Ci mancava anche questa! Che cazzo di nome era quello?!?!! Era il nome più sfigato dell’universo, quello che veniva preso in giro perfino su ‘Harry ti presento Sally’ (*)!! “NO. Sono SHANNON, non Sheldon!”, ruggì l’uomo,  quasi pestando i piedi per terra.

La ragazza arrossì copiosamente: “Ops, scusa-scusa, Sh-shannon… ehm… dobbiamo andare là davanti, ora…”

“Dove?”, grugnì Shannon.

La ragazza allungò un braccio ad indicare l’entrata del centro commerciale: “Nei pressi di quella porta.”

“OK. E cosa dobbiamo fare?”

La ragazza estrasse da uno dei sacchi un campanaccio e lo diede a Shannon, un po’ intimidita, temendo che lui glielo tirasse direttamente in testa: “Ehm… Tu suoni il campanaccio e fai ‘Oh-oh-oh’, ti fai fotografare con i bambini che escono dal centro commerciale e gli dai le caramelle. E io raccolgo le offerte.” Poi gli porse anche l’altro sacco che teneva in mano, contenente almeno cinque chili di candy canes, aggiungendo subito “A-andiamo?”

“OK.”, assentì Shannon.

Poi insieme si avviarono verso l’entrata, mentre la ragazza gli sorrideva, cercando di essere positiva. “Semplice, no?”

“Sì-sì.”, rispose l’uomo, poco convinto, ripassando mentalmente una lista di scuse da tenersi buone per non passare mai più il Natale a Bossier City in balia di sua nonna.

Appena messosi in posizione, nel tentativo di consolarsi, Shannon cominciò a fare il conto alla rovescia a quanto mancava all’ora di chiusura del centro commerciale.

Cinque lunghissime ore.

E la cosa, stranamente, non lo consolò affatto.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

(*) C’è un dialogo nel film ‘Harry ti presento Sally’ in cui Billy Crystal ad un certo punto dice: "Uno Sheldon ti fa la dichiarazione dei redditi. Se ti serve un dentista, Sheldon va bene. Ma scopare da Dio non è il suo genere: è il nome! Dammelo Sheldon! Sei un animale Sheldon! Mi fai morire Sheldon! Non funziona..."! Lo trovate riportato su questa pagina: http://www.montecavolo.it/Alle/Harry%20ti%20presento%20Sally.html

 

 

 

 

Purtroppo sono di corsa e non posso ringraziare una per una tutte le lettrici che lasciano un commento, per cui, cumulativamente, vi dico grazie infinite di leggere e commentare! Ringrazio anche tutti quelli che hanno già messo questa ff tra le preferite e le seguite!

Baci!

Shanna

 

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Capitolo 4
*** Capitolo Quattro ***


4

 

 

 

Il tempo andava a rilento.

Un buco nero di dimensioni notevoli doveva essersi sviluppato nei paraggi, visto che il tempo in quella zona era praticamente fermo, come da teoria della Relatività Generale.

E Shannon non ne poteva più.

Dopo quasi tre ore e decine di foto con bambini più o meno convinti, madri più o meno isteriche e/o padri più o meno allergici allo shopping natalizio, la pazienza dell’uomo era ai minimi storici, il suo nervosismo su vette mai raggiunte prima e la lista delle sue bestemmie così lunga e variegata da garantirgli un soggiorno all-inclusive e senza appello nel terzo girone del settimo cerchio dell’inferno.

Shannon sospirò profondamente nel tentativo di calmarsi, mentre percepiva le note del CD natalizio proveniente dall’interno del centro commerciale e fatto girare per la sesta volta con le stesse canzoni natalizie di ogni anno. Per fortuna il cielo aveva posto una tregua e per il momento non nevicava più, anche se la sera arrivava a grandi passi ed era già quasi buio, i pressi del centro commerciale rischiarati soltanto dai lampioni e dalle lucette natalizie appese.

C’era un momento di pausa e nessun pargolo credulone era nei paraggi e allora Shannon ne approfittò per guardare con più attenzione la sua compagna di sventure, che batteva le mani guantate tra di loro per scaldarsi, le guance arrossate dal freddo e i capelli un po’ bagnati dalla neve.

Notò che la ragazza si teneva scostata da lui cinque-sei metri, gli dava quasi le spalle e non lo guardava per niente, preferendo cercare tra la folla genitori indaffarati a cui chiedere le offerte. Shannon, fissandole da esperto del ramo il lato B per un momento, si rese improvvisamente conto di non essere stato benevolo nei suoi confronti, per non dire maleducato. E chissà chi era, quella… magari, proprio come lui, una poveretta scaraventata in mezzo agli eventi atmosferici/natalizi da sua nonna.

“Ehi, cosa, tu…”, la chiamò.

La ragazza si girò: “Eh?”

“Come ti chiami?”

“Sh-sharona.”, rispose lei, balbettando per il freddo e  sbattendo le palpebre, contornate da lunghe ciglia scure, esalando una nuvoletta di fiato.

Shannon spalancò gli occhi. “Sharona?!?!”

La ragazza si avvicinò di un passo, ancora intimidita per l’atteggiamento poco amichevole di quello strano babbo natale, incazzoso e incazzato: “Sì, perché? Che c’è di male?”

Non era per niente un nome tipico della Louisiana, quello: “No, no, niente… ma… non è un nome caratteristico di questi posti. Perché ti chiami Sharona?”

La ragazza sorrise, rivelando una perfetta fila di denti regolari e bianchissimi, in contrasto con le sue labbra quasi viola dal freddo: “Perché sono nata nel 1979, quando era di moda quella canzone dei The Knack che si chiamava ‘My Sharona’(*). A mia mamma piaceva, la cantava sempre e allora…” Sharona fece spallucce. “…mi ha chiamato così…”

Lo Shannon musicista fece capolino immediatamente: “Ah sì, me la ricordo. Fu un successo mondiale, all’epoca… Una buona batteria e un gran riff di chitarra elettrica… proprio bella…”

La ragazza si avvicinò di un altro passo: “Eh già. Disco d’oro, successivamente ripresa anche da altri gruppi e… beh… a me non dispiace chiamarmi così. E tu? Tu… sei irlandese che ti chiami come il fiume più lungo d’Irlanda?”

Shannon fece una smorfia: “No, non sono irlandese. Non so perché mia mamma mi ha messo questo nome, non gliel’ho mai chiesto…”

“Ma sei di Bossier City? Non ti ho mai visto nei paraggi…”

Shannon scosse la testa: “Sono nato qui a Bossier City, nel 1970, e qui ci abita ancora mia nonna Ruby, ma ora io vivo in California…”

Sharona gli si avvicinò ancora, scrutandolo in viso.

Shannon era sembrato così staccato da tutto, così teso e fuori posto, che lei non aveva nemmeno avuto il coraggio di parlargli, ma forse ora avevano trovato un argomento, tanto per rompere il ghiaccio, per scambiare due parole, tanto per non sembrare del tutto estranei. “Ah sì, conosco la signora Ruby… abita vicino al Red River e frequenta il Centro Anziani, vero?”

“Sì. E’ lei. Anche tua nonna frequenta il Centro Anziani?”

“No, mia zia.”

Shannon annuì. Eccoci qui! Le vittime sacrificali del parentame. “Ah ecco… e ti ha…”

“Mandata a fare la raccolta fondi per gli orfani vestita da Mrs. Christmas, sì. Pure tu?”

“Eh già…”

Sharona sorrise. “Sarà il destino di quelli nati negli anni 70! Tu sei nato nel 1970 e io nel 1979. Tu all’inizio degli anni 70, io alla fine…”

L’uomo annuì, guardandola negli occhi. “Già. Tu hai quasi trent’anni, io quasi quaranta…”

“Eh, sì…”. E il discorso morì, ma a Sharona improvvisamente quell’uomo fece un po’ di tenerezza: era freddo, erano tre ore che erano lì fuori, il naso e le guance di Shannon erano vermiglie e le sue mani erano livide, visto che non aveva i guanti. Ogni tanto Sharona lo aveva visto stringersi le braccia attorno al corpo e battere i piedi. Non si lamentava, ma si vedeva che era intirizzito dal freddo. Congelato. Proprio come lei. La ragazza si sistemò meglio il berretto rosso in testa e poi gli appoggiò lievemente una mano sul braccio, per solidarietà. “Senti, Shannon, io sono congelata e anche tu, vedo… Entro a prendere  due caffè bollenti, OK?”, disse, indicando il centro commerciale.

E l’uomo sorrise.

Per la prima volta dopo ore Shannon sorrise.

Anche con gli occhi.

E Sharona pensò subito che senza quella barba posticcia doveva essere proprio un bell’uomo. “Magari, grazie.”, le rispose, con un filo di voce, sollevato.

“OK. Ti arrangi per due minuti?”

Shannon annuì, continuando a sorridere. Adorava il caffè e quella era la prima buona notizia dopo ore passate fuori all’addiaccio: “Sì, tranquilla…”

“Nero o macchiato? Zuccherato o no?”

“Nero non zuccherato.”

“OK. Torno subito.” Sharona si allontanò in fretta, tornò poco dopo con due bollenti contenitori di Starbucks e vide quello che non avrebbe mai e poi mai voluto vedere. “Shannon, che fai?”

L’uomo, nascosto dietro un cartello segnaletico e dando le spalle alla porta del centro commerciale, sobbalzò, sorpreso: “EH?!?”

Sharona gli si avvicinò e gli si mise davanti, quasi volesse nasconderlo alla vista: “Spegni la sigaretta, maledizione!”

Shannon esalò una nuvoletta di fumo, con soddisfazione: “Non ne posso più, ho freddo, sono stanco e ne ho bisogno. Perché dovrei spegnerla?”

Sharona gli piantò due occhi neri spalancati in faccia: “Per almeno tre valide ragioni: fumare fa male, se ti prende fuoco la barba ti ustioni il viso e, terzo, non ho mai visto un Babbo Natale fumare, accidenti! I bambini si sconvolgono! Manca solo che bevi il whisky a canna e tiri fuori un salmone dal vestito come Dan Akroyd in quel film (**) e poi sei uguale a lui…!!!”

Shannon buttò la sigaretta in mezzo alla neve, con rammarico, e la brace si spense con uno sfrigolio sinistro. “Ma che palle…”, buttò fuori, con i residui di fumo, girandosi verso di lei.

La ragazza gli porse il caffè. “Tieni. Poi suona un po’ la campanella che si avvicinano dei bambini.”

“OH-OH-OH!”, si mise subito a gridare Shannon, sbatacchiando il campanaccio, poco convinto, per non dire assolutamente fasullo.

E Sharona, a quella vista, subito scoppiò a ridere, soprattutto quando i bambini cambiarono idea e strada e preferirono andare a giocare con la neve in un giardinetto poco lontano.

“Che diavolo ridi?”, le chiese l’uomo appoggiando la campanella a terra e scaldandosi le mani con il recipiente del caffé.

Sharona non riusciva a smettere di ridere: “Ma niente…”

Shannon diede un sorso al caffè e poi le disse, incuriosito: “Dimmi, dai…”

La ragazza a fatica riusciva a respirare, troppo occupata a sbellicarsi dalle risate: “Li hai… li hai spaventati! Hai spaventato quei bambini… Ahahahah!”

Shannon fece spallucce: “Ma noooo….”

Sharona rideva tenendosi la pancia: “Ma sì! Ahahhaaha Sembravi un orco! Ahahahah Che tipo che sei!!! Ahahahha”

L’uomo fece finta di arrabbiarsi, inarcando le sopracciglia, spalancando gli occhi e guardandola esageratamente male, trovando un briciolo di buonumore: “Vuoi dire che IO non sono un Babbo Natale perfetto?! Eh? EH? EH?”

“Ehm… Anche no. Ahahahahah” Sharona si sedette per terra sul gradino del marciapiede libero dalla neve, con le lacrime agli occhi, divertita oltre misura da quel Babbo Natale fuori scala, fuori serie, fuori di testa.

“OH-OH-OH!!! Bambina cattiva non ti porterò niente!! OH-OH-OH!!!”, esclamò ad alta voce Shannon, mettendosi a ridere anche lui e sedendosi vicino a lei.

Per un po’, i due, sorseggiando il caffè, continuarono a fare battute e a ridere di cuore, divertiti da quella situazione artefatta e quasi comica, e Shannon si ritrovò a pensare che, oltre al caffè, anche la risata cristallina di Sharona gli aveva decisamente scaldato il cuore.

 

 

 

 

 

 

 

(*) http://www.youtube.com/watch?v=ukL_vlOKj8A … ed è la mia canzone preferita di TUTTI I TEMPI!!! (Anche se su questo video il riff di chitarra è tagliato! ASSASSINI!!!!)

(**) ‘Una poltrona per due’. Potete vedere qui di seguito i link su YouTube delle scene alle quali si riferisce Sharona: http://www.youtube.com/watch?v=-cIN2SQ4ANA e http://www.youtube.com/watch?v=IgGjqD_QUC8 ...

 

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Capitolo 5
*** Capitolo Cinque ***


5

 

 

La Chevrolet Malibu di nonna Ruby si fermò davanti alla casa di Sharona, alla periferia di Bossier City, che erano le nove e mezza di sera, era buio pesto e la neve aveva cominciato a scendere nuovamente piuttosto intensa e a larghi fiocchi.

Shannon  spense l’auto ed accese la lucetta interna. “Allora porti tu i soldi al Centro Anziani, domani.”, disse, girandosi verso la sua collega, dopo essersi tolto il berretto rosso, i capelli finti e abbassato la barba bianca.

Sharona annuì, sorridendo, stupita dal fatto che sotto la barba finta, Shannon avesse la sua, lunga quasi come quella finta. “Sì, certo.”

“Quanto abbiamo raccolto?”

Sollevando un sacchetto pieno a metà di monete e banconote e soffiandosi via la frangetta umida da un occhio, la ragazza rispose: “Uhm… Duecentotrentacinque dollari e venticinque cents.”

Una miseria.

Per cinque ore passate al freddo e alla neve, una miseria.

Shannon pensò che il pingue assegno avrebbe dovuto versarlo lo stesso, per quei poveri orfani. “Vabbé, poco… ma piuttosto di niente…”

“Sì, infatti. Sono le gocce che fanno il mare.”, rispose Sharona, per poi girarsi a guardarlo in viso. “Grazie per il passaggio, Shannon, avrei dovuto tornare a piedi…”

“Ma non hai l’auto?”

Sharona alzò una spalla: “No, niente auto… sono un po’ per conto mio, mi piace andare in giro a piedi o al massimo in bicicletta…”

“Beh, in questa piccola città puoi ancora farlo.”

“Sì, infatti… E grazie anche per la compagnia.”

Shannon strinse la mano che la ragazza gli aveva porto. “Figurati. Grazie a te. Ci si vede. E… Buon Natale.”

“Auguri. Anche a tua nonna.” Sharona scese e Shannon la seguì con lo sguardo finché entrò in casa e lo salutò con la mano da sotto il portico.

Beh, pensò Shannon, da marpione navigato qual era, Sharona non era niente male, a dire il vero: carina, alla mano, tranquilla, simpatica. E, soprattutto, lei non sapeva chi fosse, non lo trattava come il batterista di una band famosa, ma solo come un povero nipote tiranneggiato dalla nonna. Però… però lui aveva una quasi-ragazza, in California, una donna con cui si trovava bene: forse era una storia seria o forse no, ma sicuramente era una relazione da approfondire, per cui non era in cerca di storie ulteriori, nemmeno per una notte, non in quel momento, poi, che anche la sua carriera di musicista e la sua salute erano piuttosto incerte.

OK. Era ora di andare, prima che cominciasse a nevicare ancora più forte, le strade si bloccassero e a lui cominciassero a venire strane idee. Shannon archiviò definitivamente Sharona tra le sue conoscenti di Bossier City e, desideroso di arrivare a casa da sua nonna, farsi una doccia bollente e rimpinzarsi a dovere delle specialità rubyniane, girò la chiave per mettere in moto, ma l’auto gli rispose con una specie di lamento e non si accese per niente.

Shannon riprovò un paio di volte ma i segni di vita del veicolo erano uguali a quelli di un encefalogramma piatto.

Inesistenti.

L’auto era in panne.

L’uomo cercò il blackberry per chiamare sua nonna e decidere il da farsi con la macchina, ma lo ritrovò, dopo cinque affannosi minuti di ricerche alla luce fioca della luce interna, dentro una pozza d’acqua sotto il sedile lato guida. Come diavolo era finito là e da dove entrava quell’acqua?

Misteri della fede e della scienza, ma il telefonino era inutilizzabile, in corto completo.

Shannon si strappò la barba finta appesa al collo e maledisse tutti i natali per i venticinque anni a venire, scese dall’auto, aprì il cofano anteriore e con un mantra di parolacce assortite e lo sguardo di fuoco cominciò a ravanare tra i cavi del motore alla luce del lampione.

Il problema è che lui di motori non sapeva proprio nulla.

Zero assoluto. Soltanto della sua Ducati si intendeva un po’, ma per il resto il nulla fritto: mettere le mani dentro un motore d’auto equivaleva per lui ad eseguire un’operazione chirurgica a cuore aperto, bendato, in equilibrio su un ponte tibetano oscillante.

Chiuse il cofano sbuffando.

Che diavolo doveva fare, ora?

Si guardò un attimo intorno e poi fissò lo sguardo verso le finestre illuminate della casa di Sharona.

Doveva forse chiedere aiuto a lei? In effetti in quel quartiere un po’ isolato e poco popolato non conosceva nessuno se non lei, visto che la zona era dalla parte opposta di dove abitava sua nonna e poi erano passati troppi anni da quando se n’era andato.

L’uomo ci pensò cinque minuti buoni, prima di decidere, valutando tutte le possibilità. E purtroppo concluse che non c’erano altre soluzioni a breve: a piedi non poteva tornare a casa, un taxi non sapeva dove trovarlo e con cosa chiamarlo, l’auto di sua nonna non poteva lasciarla lì e la neve continuava a cadere e stava coprendo velocemente tutto. Doveva chiedere aiuto.

Si infilò il berretto da Babbo Natale, visto che il suo non lo trovava più, prese il blackberry inutilizzabile, chiuse l’auto e si avviò verso la porta, lungo il vialetto. La casa di Sharona era bianca e di legno ad un piano, con un giardinetto davanti, e Shannon, suonando il campanello dove c’era scritto qualcosa che non riuscì a leggere a causa del buio, si chiese per un attimo se quella fosse la casa dei genitori della ragazza o solo sua.

La risposta gli venne immediatamente fornita quando la voce di Sharona, al di là della porta, chiese: “Chi è?”

“Ehm… sono Shannon. Scusami…”

Sharona accese la luce del portico, gli aprì una fessura della porta e mise fuori la testa. Aveva i capelli umidi e, visto che doveva essere reduce da una doccia, probabilmente soltanto l’asciugamano avvolto attorno al corpo. “Dimmi…”, gli disse, con un sorriso cordiale, anche se un po’ sorpreso.

Shannon cercò di non aver notato per niente la spalla nuda della ragazza che faceva capolino e tentò di apparire indifferente alla vista di una donna semisvestita: “A-a-avrei bisogno di un favore. Mi presti il cellulare?”

“Ehm… non ce l’ho…”

“Non hai cosa?”

“Non ho il cellulare.”

Niente auto, niente cellulare e poi? Che avesse il frigorifero e la TV o nemmeno quelli? “E un telefono fisso?”

“Sì, quello sì. Qui in entrata.”

“Posso usarlo? Ho l’auto in panne…”

“OK. Ma…”, la ragazza abbassò gli occhi, come se si stesse guardando.

“Cosa?”

Sharona arrossì: “Ecco… Io… io non sarei vestita, ecco… cioè… facciamo che ti lascio la porta socchiusa. Il tempo di allontanarmi verso il bagno per vestirmi e poi entri, OK?”

L’uomo annuì: “Va bene.”

“D’accordo. Vado… Tu conta fino a trenta e poi entra…”

Sharona sparì e Shannon, sorpreso, si grattò la fronte e passò trenta secondi a dirsi che, sì, erano in campagna, non a Los Angeles, e, sì, Sharona probabilmente era una ragazza seria che andava a messa tutte le domeniche, una puritana, e, sì, lui era in fondo un estraneo per lei e, sì, non che fossero in chissà che confidenza e no, lui non era l’assassino dell’antivigilia di Natale però, ma… contò diligentemente fino a trenta, aspettò un attimo di più e poi spinse lentamente la porta, con circospezione.

E tutto si aspettava di trovare all’ingresso tranne una gigantografia dei ‘The Knack’ proprio sul muro davanti. Quasi gli prese un colpo, alla vista di quei visi spropositati presi direttamente dalla copertina del loro primo disco (*) e che sembravano fissarlo in modo equivoco.

Shannon scosse la testa perplesso, e, dando una veloce occhiata nel corridoio corto e con alcune porte, individuò subito il telefono antidiluviano nero e con la ruota, vicino alla porta su un mobiletto con specchiera, e fece il numero di sua nonna, strappandosi il berretto rosso dalla testa e guardando il suo viso stanco alla specchio. Nei cinque minuti seguenti, gridando come un ossesso e maledicendo le batterie scariche dell’apparecchio acustico di Ruby, riuscì a farsi dare il numero di telefono del meccanico per chiedergli di trainare l’auto in officina e chiamò subito anche quello, per sentirsi dire dalla segreteria telefonica di lasciare il suo numero dopo il segnale acustico per essere richiamato, visto che il meccanico era fuori per un’emergenza.

Shannon mise giù il telefono e si passò una mano sul viso, sospirando e chiedendosi se c’era ancora qualcosa che doveva andare storto quel giorno.

E si rispose subito di sì quando Sharona comparve in fondo al corridoio, uscendo dalla porta del bagno e chiudendosela dietro.

 

 

 

 

 

 

(*)http://1.bp.blogspot.com/_uB-0D-gV8mY/SKDfG0Mj_iI/AAAAAAAAK6A/PeEwgyuSPI8/s400/the+knack.jpg

 

 

 

E BUON NATALE A TUTTI!!!

Baci!

Shanna.

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Capitolo 6
*** Capitolo Sei ***


6

 

 

La ragazza vestiva con una tuta da ginnastica nera di quelle aderenti, con la giacchettina stretta e corta chiusa da una cerniera e i pantaloni scampanati, le scarpe sportive ai piedi. Si era raccolta i capelli lisci e nerissimi ancora umidi ai lati della testa con due fermagli a forma di stella, lasciandoli sciolti sulla schiena, cosa che faceva risaltare, anche per merito della frangetta, il perfetto ovale del suo volto che, Shannon non se n’era accorto prima, aveva la pelle di uno strano e bellissimo colore. E, visto che i suoi occhi erano neri, il suo naso dritto e leggermente aquilino e le sue labbra carnose e ben disegnate, poteva anche essere che la ragazza  avesse sangue meticcio nelle vene, non fosse propriamente creola (*).

E lui, che già aveva un debole per quel genere di ragazza, la trovò bellissima.

Semplice ma affascinante.

Decisamente attraente.

E soprattutto donna.

Nel pieno della sua femminilità.

Cosa molto ma molto pericolosa, si disse, chiedendosi anche dove avesse guardato per tutto il pomeriggio…

Mentre lei gli si avvicinava sorridendo, la guardò ad occhi spalancati, trovando solo un attimo di fiato per dire “Bello il poster… Un po’ inquietante ma… notevole!”

Sharona rise di gusto: “Beh, se non ce l’ho io, chi lo dovrebbe avere?”

“Eh… hai anche ragione… E hai anche altro dei Knack?”, chiese, nel tentativo di fare conversazione e scordare quanto fosse attraente la figura longilinea e magra di Sharona, alta poco meno di lui, quel bel seno sodo e ben disegnato, evidenziato dalla giacchettina stretta.

“Ah sì, certo: i 33 giri originali autografati dai componenti del gruppo, magliette, spillette, registrazioni su cassette, filmati, bootleg, insomma… un po’ di tutto…”

“Tua mamma è proprio appassionata!”

Sharona sospirò, prima di rispondere: “Era appassionata… Mia mamma è mancata l’anno scorso…”

L’uomo avrebbe voluto sotterrarsi lì, nel bel mezzo del corridoio. Se avesse avuto una pala avrebbe cominciato a scavare. Oggi era il giorno sbagliato per fare tutto, si disse: uno di quei giorni nati male e che finiscono peggio. “Oddio. Scusami. Mi dispiace.”

Sharona scosse la testa: “No, non devi. E’ la vita. E’ un giro di anime. Si sarà già reincarnata in qualcun altro…”

Shannon la guardò in viso, curioso: “Ma… ma credi nella metempsicosi? Nella reincarnazione?”

“Sì.”, annuì, la ragazza, convinta, facendo muovere i capelli ai lati del viso.

“Anche il mio amico Brent. Lui è buddista.”

“Sì, allora sì. E’ un’idea tipicamente orientale ed è… beh è  un’idea interessante, no?”

Shannon alzò le spalle: “Sì… cioè… non so.” Era strano per lui fare certi discorsi. Con una ragazza così attraente davanti, poi… ancora peggio. Gli venne in soccorso il ricordo di una vecchia discussione avuta con Brent, dopo un giro in moto: “Però è anche vero che se uno ha avuto una brutta vita si merita un’altra possibilità, un’altra esistenza. Così alla fine c’è equilibrio, per quell’anima…”

Sharona annuì piano, un sorriso quasi gentile stampato sul bel volto, per quella risposta, gli occhi a cercare altrove, un po’ mesti: “Già. Ehm… chissà com’é… nessuno lo sa in realtà…” Poi sospirò e riprese a guardare Shannon in volto. “Beh… cambiando discorso… hai risolto con l’auto?”

Shannon in breve raccontò delle telefonate fatte e soprattutto che doveva attendere che il meccanico lo chiamasse al numero di Sharona: “Ehm… ho dato questo numero perché ho il blackberry in panico. Ho fatto male?”

La ragazza scosse la testa, sempre sorridendo: “Ma no, scherzi…”

“E… Avrei bisogno di un altro piacere…”

“Cosa?”

“Ti dispiace se vado un attimo in bagno e mi tolgo questo vestito?”, le chiese, avendo cominciato a sentire caldo. Un po’ troppo caldo, uno strano caldo, forse, visto che aveva i piedi e le mani congelati.

La ragazza fece spallucce, indicando dietro di sé: “Certo che no. La porta è quella lì…”

Shannon ringraziò e si avviò e, non più tardi di cinque minuti dopo, uscì dal bagno per molte ragioni soddisfatto della sua permanenza in quel luogo, e si diresse verso la porta della cucina seguendo i rumori che sentiva, di pentole e stoviglie che si toccavano. Prima di entrare, in un impeto di educazione, appese la giacca di pelle all’attaccapanni fuori in corridoio e mise i suoi anfibi zuppi vicino alla porta d’entrata.

La stanza in cui si addentrò cautamente, quadrata e piuttosto spaziosa, faceva le funzioni di cucina e anche di salotto: l’angolo cottura era in fondo a destra, subito dopo la finestra che dava sul giardino anteriore. Il tavolo da pranzo con una stella di natale sopra stava proprio davanti alla finestra. Una penisola con alcuni sgabelli era di fronte alla cucina, collegata ad essa. Sulla sinistra della cucina, proprio antistante alla porta, un grande caminetto con un bel fuoco appena acceso, completo di tappeto e divano, quasi come a casa di nonna Ruby. E poi una libreria piena zeppa di libri, che faceva angolo e continuava per tutto il resto della stanza, interrotta soltanto dalla finestra che dava sul retro, nella parete opposta all’altra finestra. Un altro divano e una scrivania subito sulla sinistra. L’albero di natale illuminato vicino alla porta, qualche decorazione natalizia sparsa.

Il tutto confortevole, con luci soffuse e morbide, rischiarato e reso dorato dalla luce del fuoco.

E soprattutto il locale era caldo.

Un tanto vagheggiato caldo.

Shannon si ritrovò a sospirare, catturato dalla sensazione di benessere datagli immediatamente da quel luogo. “Eccomi…”, disse piano, avanzando verso Sharona che gli dava le spalle, mezza nascosta dalla penisola, e non si era accorta del suo arrivo, intenta a fare qualcosa sul ripiano della cucina.

Sharona si girò sorridendo, ma il sorriso le morì subito, mentre rimaneva incantata a guardarlo.

Shannon non era così grasso come le era sembrato in un primo momento, era solo robusto e ben piazzato, e ora che non aveva più quell’orrido vestito rosso, sformato e bagnato, e indossava la sua camicia verde quadrettata, i suoi strani occhi brillavano e risaltavano alla luce del caminetto e così pure i suoi lineamenti, belli e delicati, nonostante in parte coperti dal barbone da orco. Chissà perché se lo teneva così lungo, si chiese, subito, un secondo prima di trovarlo decisamente avvenente, più di quanto avesse supposto ad una prima occhiata.

Molto affascinante, con quel sorriso sornione, quegli occhi attenti e quell’espressione ora bonaria e tranquilla.

E uomo.

Senza dubbio maschio.

Quasi le sembrò di percepirne l’odore: un residuo di profumo, deodorante forse, misto al sentore della sua pelle.

E la cosa era pericolosa, troppo pericolosa, per lei, se i suoi sensi si erano allertati in quel modo, se un principio di interesse la prendeva solo all’idea di sfiorare quell’uomo.

“Dove metto il vestito da Father Christmas?”, le chiese Shannon, avvicinandosi fino a pochi passi dalla penisola che li separava.

Sharona era ancora presa dalle sue sensazioni, per rispondere velocemente. “Ehm… D-dove l’hai lasciato?”, rispose, lentamente.

“In bagno. E’ tutto bagnato e sporco. L’ho appeso vicino al tuo ad asciugare.”

La ragazza annuì: “OK. Lascialo pure là, non occorre che te lo porti via. Domani li recapito entrambi al Centro Anziani, con i soldi.”

Shannon esultò dentro di sé all’idea di non aver più a che fare con George, il Centro Anziani ed il travestimento alla Akroyd: “Sicura?”

Sharona fece spallucce, senza scomporsi un attimo: “Ma certo. Così ti risparmi un giro, no? Inutile che andiamo in due…” Poi indicò il fornello: “Ho fatto un po’ di thé caldo, vuoi?”

“Eh, magari…”

“OK.” Sharona preparò una tazza anche per lui e gliela porse: “Hai fame?”

Dopo un solo sorso di thé, come se si fosse improvvisamente svegliato dal letargo, lo stomaco di Shannon rispose per lui emettendo un brontolio di protesta, tanto forte quanto sconveniente. Shannon sorrise, mettendosi una mano sullo stomaco, come a nasconderlo: “Beh… un po’. Sì, direi di sì.”

Sharona soffocò una risatina, divertita da quell’adulto con un’espressione da bambino imbarazzato: “In attesa che arrivi il carro attrezzi, io allora preparerei la cena. Ti va, Shannon?”

L’uomo sorrise; finalmente la serata sembrava prendere una piega interessante: era al caldo, in splendida compagnia ed in più con del cibo in arrivo. Meglio di così! Avrebbe voluto fare un triplo salto carpiato nel mezzo del salotto e gridare sì-sì-sì-vai-con-la-pizza, ma si trattenne proferendo un più educato “Beh… se la prepari per te…”

“Certo, ho fame pure io. Pizza e torta di mele? La prima devo soltanto guarnirla e metterla in forno, la seconda l’ho fatta oggi pomeriggio prima di uscire.”, gli rispose la ragazza, tirandosi su le maniche per preparare.

Una donna cuciniera? Interessante.“Ma… sai cucinare?”

“Un po’, niente di che, non ti impressionare… il minimo che basta per non morire di fame o intossicarsi con le scatolette e i cibi precotti.”, gli rispose, girandosi e cominciando a spignattare nuovamente.

Shannon sogghignò debolmente: lui e suo fratello erano i re dei cibi precotti surgelati, vegetariani e non, da ficcare in microonde e da sbafarsi in poco tempo senza minimamente pensare al contenuto, magari stravaccati su divano davanti alla TV o sul tourbus mentre giravano come trottole da un concerto all’altro. Non lo disse però e, senza rispondere niente, si mise davanti al caminetto a scaldarsi e mentre sorbiva il suo thé e guardava le fiamme, improvvisamente un’impressione gli trapassò il cervello.

Una bella impressione.

Una strana impressione.

Un calore nuovo.

Una sensazione che faceva stare bene.

Forse dovuta all’atmosfera natalizia, alla neve che cadeva oltre la finestra, a quella stanza calda e rassicurante, a quella ragazza affaccendata a pochi metri da lui.

L’idea di ‘casa’ si insinuò nei suoi neuroni, prendendone possesso.

L’idea di una ‘moglie’ che si prendeva cura di lui, che lo aspettava cucinando e con la quale parlare di questioni pratiche, come il posto dove mettere la biancheria sporca, e spirituali, come la metempsicosi o altre cose, si fece strada nelle sinapsi.

L’idea di ‘famiglia’ come di un focolare tiepido e confortante in cui tornare ogni sera e ogni momento, dopo ogni viaggio, dopo ogni concerto, si infiltrò nei suoi pensieri.

Idee che non gli erano proprie.

Cose a cui non pensava mai.

Argomenti di cui non parlava con nessuno.

Ma che in quel momento gli scaldarono il cuore come non mai.

Guardò di sottecchi Sharona che, tranquilla e sicura, infornava la pizza e, per un momento, si sentì stranamente a casa, anche se era lontano migliaia di miglia dalla California, da sua madre, da suo fratello, dalla sua quasi-ragazza.

E ciò era pericoloso, molto pericoloso, per lui.

 

 

 

 

 

 

(*) NDA: ‘creolo’ nel senso originario del termine, inteso cioè come di origine europea ma nato nelle Americhe, di razza (uso questo termine che in realtà odio, perdonatemi…) bianca.

 

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Capitolo 7
*** Capitolo Sette ***


7

 

 

La pizza era in forno, lentamente si cucinava, i suoi sapori si amalgamavano, in tutta la cucina si spandeva un buon profumo di cibo, e del carro-attrezzi, all’alba delle dieci di sera, ancora nessuna traccia all’orizzonte.

Shannon, placido e rilassato, con i piedi e le mani finalmente calde alla terza tazza di thé, sedeva su uno degli sgabelli della penisola e parlava con la sua bella ospite: argomento principe il tempo meteorologico avverso di Bossier City di quel periodo; seguiva al secondo posto il gioco del tu-conosci-quello-tu-conosci-quell’altro; al terzo posto il mitico elenco qui-a-Bossier-City-hanno-costruito-là-hanno-demolito-lì… quando l’uomo fece una smorfia di dolore, e, di scatto, cominciò a tenersi il braccio sinistro con l’altro, chiudendo un attimo gli occhi.

Tutto il freddo che aveva preso in cinque ore passate fuori ed il continuo scuotimento dell’odiato campanaccio non gli avevano fatto per niente bene. E le pastiglie di antidolorifico erano rimaste a casa di sua nonna.

Quelle belle pastiglie azzurre con la scritta L490 su un lato che gli tenevano compagnia ogni santo giorno da mesi.

Sharona se ne accorse: “Che succede, Shannon?”

“Ho… ho un po’ male…”

La ragazza girò attorno alla penisola e gli si avvicinò, improvvisamente interessata: “Dove ti fa male, di preciso?”

“Ehm… Il braccio sinistro, lungo tutto il braccio. Tendinite, forse…”, le rispose, indicando con la mano destra i vari punti del suo braccio.

La ragazza aggrottò le sopracciglia: “E stai facendo qualche cura?”

“Sì.”

“Che ti hanno dato?”

“Antinfiammatori, cortisone, antidolorifici…”

La ragazza lo interruppe, incrociando le braccia davanti a sé, il viso improvvisamente serio: “Merda, insomma…”

Shannon spalancò gli occhi, sorpreso: “Come sarebbe? Perché ‘merda’?”

Sharona prese fiato, prima di lanciarsi: “Perché curi i sintomi, non la causa. E non va bene. Ma d’altra parte è tipico della medicina occidentale, in cui l’individuo non è visto come un unico essere, ma suddiviso in parti e si tenta la cura di ogni singola parte, mentre la ragione per cui ti fa male magari non risiede nel braccio e…”

“Aspetta-aspetta…” Shannon la bloccò subito, alzando le mani davanti. Per un momento pensò che il fantasma di suo fratello si fosse impossessato del corpo di Sharona, un po’ come avveniva nei medium durante le sedute spiritiche e nei film dell’orrore, tipo l’Esorcista! “Fermati. Sono andato dai migliori specialisti, perfino uno a New York, ma il braccio mi fa sempre male...”

Sharona quasi fece spallucce: “Eh, lo so…”

Shannon aggrottò le sopracciglia: “Sai cosa?”

“Ti ho detto. Farti passare il male non risolve niente, ti sparisce il dolore ma non la causa che l’ha provocato. E poi ti fa male il braccio ma non è detto che il problema sia soltanto lì.”

Shannon si sistemò meglio sullo sgabello della cucina, perplesso e vagamente incuriosito. “Ah, no?”

“No.”

“E cosa potrebbe essere?”

“Boh, non lo so…”

‘Capirai che scoperta’, pensò. “Beh allora, siamo da capo…”

Sharona gli si sedette vicino, sullo sgabello accanto, e continuò a fissarlo in volto assumendo un’aria stranamente professionale: “Ascolta. Posso ipotizzare: potrebbe essere che hai messo delle scarpe sbagliate, sei andato in giro camminando scorrettamente e ora hai uno strappo su un polpaccio o una infiammazione su un muscolo della schiena, non lo so… oppure hai assunto una postura sbagliata rispetto a quella abituale e il tutto interrompe il flusso energetico originale del tuo corpo, il quale ti avverte della cosa, ti sta dicendo che qualcosa è cambiato, ma tu non lo ascolti e ti limiti ad addormentarlo. Per saperlo meglio dovrei visitarti…”

L’uomo spalancò gli occhi: “TU?”

“Sì. E allora?”

“Ma che lavoro fai?”

La ragazza si batté una mano sulla fronte: “Ah già, non te l’ho detto. Ho un diploma di fisioterapista. Lavoro qui, al Cornerstone Hospital, ma…”

“Cosa?”

“Ehm… mio nonno paterno aveva origini native americane. Era un autoctono di questi luoghi. E mi ha insegnato, fin da quando ero piccola, la tecnica della manipolazione che aveva imparato non so dove …”

Ah, ecco il perché i lineamenti ed il colore della pelle di Sharona erano un po’ strani, era davvero meticcia. Shannon aveva indovinato in pieno e ora era davvero incuriosito: “Cioè?”

“Quello che ti dicevo prima: a trovare il punto o i punti che hanno creato il problema e ad agire su quelli, sbloccandoli. E poi guarisci, senza bisogno di medicine.”

Shannon si alzò dallo sgabello.

Le aveva provate tutte.

Le medicine lo avevano gonfiato come un pallone e, a quanto pareva, non erano servite proprio a niente se non a rovinargli lo stomaco, fargli uscire di nuovo l’acne e, soprattutto, a fargli spendere una marea di soldi.

Con l’anno nuovo la casa discografica reclamava il nuovo album e lui avrebbe dovuto suonare, ma se aveva sempre male come negli ultimi mesi, sarebbe stata una tortura bella e buona.

Tanto valeva provare.

Si avvicinò di più a Sharona, che lo guardava attenta: “Lavori anche a Natale?”

“Che intendi?”

“Mi visiti? Ti pago, eh…”

“Ma, io…”

“Per favore…”

La ragazza rimase un attimo a fissarlo e poi annuì: dopotutto era stata lei a proporlo, quasi senza volerlo. “OK. Va bene. Andiamo di là, nel mio studio…”

Quindi si alzò dallo sgabello e, con Shannon a ruota, uscì dalla stanza e si avviò verso una delle tante porte del corridoio, entrandovi ed accendendo la luce.

Entrarono in una stanza molto piccola, nemmeno tre metri per tre, con un lettino da massaggi al centro, ricoperto di un lenzuolo bianco e dalla solita striscia di carta di tutti gli ambulatori. Era senza finestre, con una carta da parati azzurra a onde del mare sui muri, e con pochi mobili, tra cui Shannon distinse, alla luce soffusa, uno stereo e un bell’acquario illuminato con decine di pesci rossi che guizzavano e che gettava ombre azzurre su tutta la stanza. Su un angolo un attaccapanni e un separé di stoffa azzurra che richiamava il colore della carta da parati.

Sharona si mise da un lato del lettino, dopo aver chiuso la porta: “Ehm… non è da molto che esercito qui a casa, da pochi mesi, e quindi è tutto un po’ da sistemare… scusa…”, disse, come per giustificarsi.

Ma la stanza a Shannon non dispiaceva per niente, era da finire certo, ma non era sgradevole affatto, non dava l’idea di uno studio medico, asettico ed incolore, anzi: era raccolta ed intima, calda e profumata. “No, dai… è carino qui… ti piace il mare, vedo… tra pesci e onde sulle pareti…”

Sharona sorrise: “Sì, lo adoro… vorrei abitare su una casa sulla spiaggia, un giorno… uscire e poter mettere i piedi tra le onde ogni volta che voglio…”, confessò, guardando i suoi pesci.

“Io ce l’ho…”

La ragazza sgranò gli occhi, interessata: “Davvero?”

“Sì, con vista sull’oceano Pacifico.”

“Uaoh… Deve essere meraviglioso.”

L’animo da fotografo di Shannon balzò fuori in un secondo: “Sì, i colori e il paesaggio sono a dir poco fantastici, in tutte le stagioni...”

“Bello…”, sospirò Sharona.

“Beh, se un giorno capiti a Los Angeles… fai un salto da me, per un caffé…”

“Ah, ah sì… certo, grazie…”

“OK. Affare fatto. Poi ti lascio l’indirizzo. E… adesso? Che devo fare?”, chiese l’uomo, vedendo che la situazione non progrediva e la ragazza si era di nuovo incantata a guardare i pesci e a pensare al mare.

Sharona si girò a fissarlo di scatto ed improvvisamente  quasi si pentì di avergli detto che poteva visitarlo, soprattutto per quello che doveva chiedergli ora: “Ehm… dunque… dovresti spogliarti… toglierti maglietta e pantaloni e restare in… in…” Di uomini ne visitava sempre, in ospedale e anche nel suo ‘studio’, ma attraenti e maschi come quello ne aveva visti pochi, e l’idea di vederlo spogliato per un attimo la bloccò. “In… in…”

Shannon le venne in soccorso, ridendo sotto i baffi all’imbarazzo di lei: “In mutande?”

“S-sì.”

“E se non le avessi?”, chiese, indifferente, mettendosi le mani in tasca, un sorriso da burlone.

Sharona diventò fucsia a pallini rossi con sfumature bordeaux: “Ma… ma…”

Shannon cominciò a ridere. Vuoi vedere che davvero Sharona era quella puritana che pensava? “Dai, scherzo… le ho, le ho, tranquilla…”, proclamò, prima di sparire dietro il paravento, divertito.

Sharona respirò profondamente per riacquistare un po’ di calma e farsi passare il rossore al viso, e poi si avviò verso lo stereo, accendendolo.

Improvvisamente, mentre Shannon si sbottonava la camicia, una strana melodia riempì la stanza.

Ritmato e sommesso, un coro di uomini cantava qualcosa che Shannon non capì.

“Ehm… cos’è questa roba?”, chiese, incuriosito.

Sharona aggiustò il volume, in modo che la musica facesse da sottofondo: “Sono canti di monaci tibetani. Loro… recitano mantra antichissimi. Questo, in particolare, dovrebbe favorire la guarigione perché agisce sulle cause delle malattie, non sui sintomi…”

“Ma… cosa dicono?”

“Sono in sanscrito e parlano di varie cose, di solito sono auguri: che ognuno sia felice, che il dolore passi, di arrivare all’illuminazione… E ogni tanto cantano l’OM.”

“E cosa vuol dire?”

Sharona si mise a sistemare il rotolo di carta sul lettino, presa dalla sua spiegazione: “E’ il mantra sacro per eccellenza. E’ l’energia dell’universo, la radiazione di fondo degli astronomi, quella che pervade tutto quanto. Quando dici OM ti ricolleghi a lei… all’essenza di tutte le cose…”

Shannon divenne se possibile ancora più curioso: “Sei buddista, induista, cristiana, ebrea o… che altro, tu?”

Sharona sorrise: “Non lo so. Io… sono tante cose… prendo quello che mi piace da tutte le religioni, ma sono troppo indisciplinata per seguirne una… e vado a messa perché adoro il profumo dell’incenso ma… non prego. Poi ho letto la Bibbia, il Corano, i Veda, i Sutra, tutti i libri del Dalai Lama e faccio yoga… non so cosa voglia dire… quando sarà il momento magari capirò cosa sono…  non sono ancora evoluta a sufficienza per saperlo…”, gli rispose Sharona, in un soffio, dando da mangiare ai suoi pesci, ma pensierosa, come se non sapere dove porsi religiosamente la turbasse.

Shannon la occhieggiò da dietro il separé, un po’ meravigliato: quella ragazza sarebbe stata perfetta per Brent. Il suo amico le sarebbe caduto certamente ai piedi in dieci secondi netti a sentirle fare quel genere di discorsi, magari avrebbero fatto yoga assieme e poi lui le avrebbe anche comperato un convento completo di monaci vestiti di arancione in Tibet. Per non parlare di Jared! Che l’avrebbe immediatamente assunta come personal trainer e avrebbe passato con lei millenni ad andare in giro in bici e a parlare delle varie boiate esoteriche. Specialmente ora che Sharona aveva anche acceso un incenso profumato. Mancava solo una ruota di preghiera, un gong e poi c’eravamo.

L’uomo scosse la testa, per un momento dubbioso: in che diavolo di mani era finito? Magari aveva sbagliato a chiederle di aiutarlo: e se, invece di guarirlo, quella ragazza avesse fatto peggio? Se lei fosse stata una di quei tanti manigoldi che millantavano strane cure senza effetto?

Ma una nuova e forte fitta di dolore gli attraversò il braccio sinistro mentre si toglieva le magliette: vabbé, peggio di così forse non era possibile stare.

In cuor suo sperò che la ragazza non gli facesse troppo male e, anzi, si sentì che forse poteva fidarsi.

O forse doveva, semplicemente.

Quindi, velocemente, si tolse calzini e pantaloni.

“Eccomi, sono pronto.”

Shannon spostò il separé e uscì come da dietro un sipario e Sharona, alla vista dell’uomo in boxer Dolce & Gabbana neri, dei due tatuaggi sulle braccia e, soprattutto, dei suoi pettorali scolpiti, pensò che avrebbe dovuto servirsi di tutta la professionalità di cui era capace per visitarlo senza pensare a quanto fosse incantevole.

E quando Shannon si girò per sedersi sul lettino e si distese prono mostrandole il tatuaggio sulla schiena, dandole la mazzata definitiva, Sharona chiuse gli occhi, stringendoli forte.

SO-HAM SO-HAM SO-HAM…

Recitò velocemente il mantra del respiro, per calmarsi e concentrarsi su ciò che andava fatto, visto che per un momento le sembrò che tutta l’aria del mondo fosse stata risucchiata nello spazio.

Per lo meno quella che non conteneva l’odore di Shannon.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

E BUON ANNO A TUTTI!!!

:-***

Shanna.


 

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Capitolo 8
*** Capitolo Otto ***


8

 

 

 

“Ahio, che male…”, si lamentò dopo un attimo Shannon.

E Sharona ritrovò la calma: quell’uomo aveva bisogno di lei, ora. Era una creatura sofferente, bisognosa di cure, come tutte quelle che vedeva ogni giorno in ospedale, esseri umani che piangevano, si lamentavano, penavano.

‘Sem chen tam che dug  ngel dang dug ngel kyi gyu dang drel war gyur chig…’ recitavano i primi versi del Gaden Lha Gyema, ‘Possano gli esseri umani essere liberati dalle loro sofferenze e da ciò che le provoca…’, si disse.

E allora aprì gli occhi e gli si fece vicino.

“Rilassati, Shannon…”, gli sussurrò, piano e soavemente, seguendo un rituale che usava sempre, accarezzandogli una spalla e spostandogli le braccia in modo che fossero correttamente ai lati del corpo. “Rilassati, chiudi gli occhi e stai tranquillo… Non pensare a nulla, lasciati andare… questo è un atteggiamento decondizionante per il tuo corpo… segui il ritmo del tuo respiro, portalo dove ti fa male e pensa che guarirai… guarirai perché lo vuoi…”

Shannon sospirò, respirando il profumo inteso e gradevole dell’incenso e appoggiando la guancia destra sul lettino, chiudendo gli occhi, sistemandosi meglio, lasciandosi accompagnare dalla voce di Sharona: se lei doveva aiutarlo, tanto valeva fare tutto quanto gli venisse chiesto.

Sharona, dopo essersi bagnate le mani con dell’olio profumato all’arnica, si portò in fondo al lettino, all’altezza dei piedi di Shannon. Delicatamente, per non fargli il solletico, cominciò a toccargli le piante dei piedi, a passare i polpastrelli delle dita sulle varie zone che, secondo la teoria della riflessologia plantare, rappresentavano l’intero corpo.

“Se senti male quando premo da qualche parte dimmelo, OK?”, gli disse, premurosa.

“Sì.”

Ma sulla pianta di entrambi i piedi a Shannon non faceva male nulla. Quando la ragazza passò a toccargli le dita dei piedi, invece, lui sobbalzò leggermente, ma non disse niente. Sharona capì che c’era un disagio da qualche parte, forse di preciso nemmeno Shannon sapeva dove, e così lei si soffermò passando in rassegna dito per dito. Arrivata al secondo dito del piede sinistro, l’uomo si lamentò.

“Hai messo scarpe nuove, recentemente?”, gli chiese subito.

“Sì. Gli anfibi che avevo oggi sono nuovi.”

Sharona annuì: “OK. Hai questo dito un po’ ammaccato… ma niente di che. Succede con le scarpe nuove, è normale…”

Sharona gli massaggiò i piedi e poi cominciò a risalire le gambe dell’uomo lentamente, sciogliendogli i muscoli tesi dei polpacci, ma non trovò parti particolarmente indurite, se non un muscoletto che gli dava un leggero fastidio sul lato del polpaccio sinistro. “Conseguenza dell’ammaccatura sul dito…”, concluse, sicura.

La ragazza completò l’analisi delle gambe tastandogli le cosce muscolose e ben tornite senza trovare niente, per poi dichiarare: “Non sono le gambe, il problema. Uhm…”

Sharona allora passò a controllare i muscoli della schiena, passandoci le mani sopra, delicatamente, i polpastrelli a toccare le singole fibre, una per una, quasi ad occhi chiusi, per percepire meglio la presenza delle strutture muscolari, gli avvalli della pelle, gli interstizi tra i tessuti.

Piano, piano, fece scorrere i pollici ai lati della spina dorsale, premendo, a partire dalla parte inferiore della schiena fino ad arrivare al tatuaggio sulla nuca.

La sensazione che provava Shannon era stranissima: come se quelle fibre, al tocco di Sharona, venissero ridisegnate, ricomposte, risistemate. Era una sensazione di benessere, come se i muscoli riprendessero vita dopo un letargo durato troppo tempo. Il tutto potenziato dalle note del mantra cantato dai monaci, quei suoni vibrazionali che gli entravano nel cervello, arrivavano a livelli cerebrali che lui non sapeva di avere, appianavano le sue onde beta, attivavano le onde delta, l’energia di ognuno, la volontà e la forza di guarire.

Poi la ragazza con le mani si spostò dai lati della schiena e cominciò a scendere. Arrivata a metà, sulla parte sinistra, la ragazza si fermò. Ripassò più volte nello stesso punto, come a volere essere certa,  e poi disse un convinto “Qui.”

Sharona premette con il pollice su una zona appena sotto l’ascella e l’uomo sobbalzò violentemente sul lettino lanciando un urlo, come se un tizzone ardente gli fosse stato conficcato nella schiena, il cervello trapassato da un lampo di luce.

“Trovato. Fermo un attimo. Respira. Porta il respiro in quel punto, Shannon. Temo che ti farò un po’ male… abbi pazienza…”. Sharona cominciò a massaggiare lentamente la zona, scaldando i tessuti di quel centimetro quadrato di pelle, quella fibra che era fuori posto, che era annodata e che faceva male, come se ci fosse un pugnale piantato dentro. Dopo un po’, quel punto cominciò a non dolere più. Sharona passò allora a rilassare tutti gli altri muscoli della schiena senza trovare nessun altro punto dolente.

Quindi ricercò sulle spalle e sul collo, tesi  e rigidi all’inverosimile, altri punti sofferenti ma la ricerca non diede alcun esito. Sul dorso la ragazza aveva finito e perciò chiese a Shannon di sedersi con le gambe penzoloni sul bordo del lettino, aiutandolo ad alzarsi lentamente.

Quindi gli si posizionò davanti, tra le sue gambe leggermente aperte.

“Fammi vedere le tue braccia, ora.”, gli chiese.

Sharona gli prese i polsi che l’uomo le porse e sembrò confrontare le muscolature possenti delle due braccia, passando gli occhi da una all’altra, le sopracciglia aggrottate. “Ma… che lavoro fai?”, chiese, ad un tratto.

Shannon teneva gli occhi semi-chiusi. Il massaggio era stato così distensivo, la musica e i profumi così rilassanti e lui era così stanco, che sarebbe stato sdraiato per sempre. “Il batterista…”, sussurrò, con un filo di voce, stentando a trovarla.

“Ah, ora ho capito. Per caso hai cambiato modo di suonare? Spostato dei tamburi, eliminato pezzi, aggiunto piatti o altri componenti?”

Shannon annuì: “Sì. Ho inserito dei piatti, tolto una grancassa, aggiunto un tom, messo un rullante muto al posto dell’hit-hat…”

“Sulla sinistra, magari?”

L’uomo aprì gli occhi leggermente: “Sì, sulla sinistra.”

La ragazza appoggiò il braccio sinistro di Shannon e prese meglio l’altro. “Ah, ecco, ora capisco. Il tuo corpo ha reagito di conseguenza, sta trovando una sua nuova postura.” Sharona gli passò in rassegna uno ad uno i muscoli del braccio destro senza trovare niente, completando il massaggio fino alle dita della mano.

Poi passò al braccio sinistro e, a circa metà, nei pressi del gomito, nella parte esterna, quando premette su un punto,  Shannon sobbalzò di nuovo, spalancando gli occhi.

“AHIA! Lì… lì fa male…”, disse, con tono lamentoso e facendo una smorfia di dolore.

La ragazza annuì: “Questo è l’altro punto incriminato. Li abbiamo trovati. Il punto sulla schiena e questo sono collegati, ed è il motivo per cui ti fa male tutto il braccio.”

Sharona iniziò a massaggiare quel punto dannatamente dolorante e in un attimo il dolore dal braccio di Shannon sparì. La ragazza appoggiò il braccio dell’uomo lentamente, come fosse di porcellana, tenendogli la mano e massaggiandogli le dita.

“Può essere che nei prossimi giorni ti faccia ancora un po’ male, ma non prendere nulla. Cerca di sopportare, fidati della saggezza del tuo corpo… e non odiarmi troppo…”

Shannon la guardò negli occhi, sorridendo e stringendole la mano, contento: “Va bene, farò il possibile…”

Sharona completò il massaggio passando dietro a Shannon, ammorbidendo i muscoli tesi del collo e della nuca dell’uomo, che si sentì immediatamente più leggero e sollevato, come non si sentiva da tempo.

“Oddio… non ho più male…”, disse, alleviato e sorpreso nello stesso tempo, sussurrando, chiudendo ancora gli occhi, quando lei finì.

Sharona sorrise, prima di rimettersi davanti a lui, a guardarlo in viso e a massaggiargli delicatamente le tempie e la fronte: “Hai visto? Bastava poco…”

L’uomo sospirò per l’ennesima volta: “Grazie. Sei un genio, ragazza mia.”

Sharona scosse la testa e abbassò le mani: “No. E’ solo pratica. E pensa che mio nonno era molto più bravo. Ti guardava camminare e capiva cosa avevi. Lui sì era un genio e…”

Un campanello suonò ad interrompere Sharona.

Quello del forno.

“Oh! E’ pronta la pizza. Rivestiti, dai... Ti aspetto di là, OK?”, gli disse Sharona sorridendo, per poi allontanarsi di corsa.

E Shannon si ritrovò seduto sul lettino semivestito e in uno strano stato psicofisico: gli sembrava che un peso enorme gli fosse stato tolto dalle spalle, che il suo corpo fosse leggero come una piuma, che nessun dolore lo pervadesse più, che nessuna cappa di fastidio lo sovrastasse.

Si sentiva anche leggero psicologicamente, in pace col mondo e con sé stesso, come se avesse risolto dei problemi in piedi da tempo, come se avesse cancellato dentro di sé degli errori, sciolto dei nodi, come se la sua mente, quell’entità chiamata ‘scimmia impazzita’ dagli yogi, si fosse calmata.

Si accorse che il coro dei monaci tibetani era finito e che l’incenso si era spento, ma sembrava che tracce delle voci di quegli uomini fossero ancora dentro la sua testa, tracce del profumo dentro i suoi polmoni, tracce del benessere provato dentro la sua anima.

OM, si disse.

L’energia dell’universo.

Quella che collegava tutto e tutti, che era anche dentro di lui e per la quale nulla avveniva per caso.

Ed improvvisamente, sospirando, si ritrovò a pensare che la neve che lo bloccava lì era stata provvidenziale, che la rottura dell’auto di sua nonna non era stata poi così nefasta, che essere venuto a Bossier City aveva avuto un suo senso.

E che, in fondo, quella non era stata una giornata tutta da buttare via. No.

E non era ancora finita.

 

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Capitolo 9
*** Capitolo Nove ***


9

 

 

Sharona controllò il livello di cottura della pizza e decise che mancavano ancora alcuni minuti, quelli sufficienti per preparare il resto. Aveva una fame tremenda, era da pranzo che non mangiava, era un’ora assurda e… aveva un ospite.

Inaspettato. E decisamente piacevole, sia come aspetto che come carattere, anche se al primo incontro aveva pensato il contrario.

Shannon era incantevole, si disse, e ora che l’aveva visto spogliato poteva tranquillamente piazzarlo nella categoria gnocchi ed affini di prima categoria. Ed era pure un tipo piuttosto tranquillo, di poche parole, che conversava senza saltare in testa all’interlocutore e sembrava interessato a ciò che gli si diceva, la scrutava negli occhi quando lei gli parlava, la ascoltava.

Un piacere averlo in casa e chissà chi era, poi, quel tipo…

Decise che doveva saperne un po’ di più nel tempo che aveva a disposizione prima dell’arrivo del carro attrezzi. Si mise perciò all’opera per rendere la serata ancora più interessante.

E così, quando Shannon rientrò in cucina, dopo avere spento stereo e luci ed aver lasciato, grato come non mai, una presunta tariffa di cinquanta dollari sul lettino del massaggio, Sharona aveva già apparecchiato il tavolo vicino alla finestra mettendo una tovaglia rossa con disegnati fiocchi di neve bianchi e tutto l’occorrente per la cena, piatti, bicchieri, tovaglioli, posate, caraffa dell’acqua. E aveva fatto tutto in cinque minuti, il tempo usato da Shannon per rivestirsi. Da non credere.

E l’uomo, rilassato come non gli capitava da tempo e con la testa molto leggera, pensò improvvisamente che forse se ne stava approfittando.

Era entrato per una telefonata d’emergenza che doveva durare due minuti ed era quasi un’ora e mezza che era lì, alla faccia dell’ospitalità.

“Sharona, io… io non vorrei disturbare troppo…”, le disse allora, in un impeto di galanteria, mentre si avvicinava alla cucina e, dando un’occhiata fuori dalla finestra, vedeva che la neve cadeva ancora abbondantemente.

La ragazza fece spallucce e sorrise, mentre appoggiava la teglia della pizza sul fornello dopo averla tolta dal forno e controllava, con una leggera preoccupazione e con la coda dell’occhio, se Shannon fosse vestito: “Non disturbi, non ti preoccupare.”

Shannon le si fece accanto, mentre la ragazza gli porgeva due bottigliette di birra appena stappate da portare sul tavolo, come se lui non fosse un estraneo, come se si conoscessero da sempre: “Non devi uscire, stasera, o cose del genere?”, le chiese dopo averle accettate, appoggiate sul tavolo ed essere tornato da lei.

“No-no. Assolutamente.”, gli rispose la ragazza, sorridendo e ritornando ad occuparsi della pizza.

Shannon si schiarì la voce, un po’ a disagio: la ragazza era uno splendore, con lui finora era stata cordiale, amabile, simpatica, e lui era bloccato lì, si sentiva sereno e non aveva più male da nessuna parte, e loro… beh erano un uomo e una donna adulti e vaccinati ma… magari era il caso di chiedere, prima di ritrovarsi in situazioni imbarazzanti: “Non ti viene a trovare il tuo ragazzo?”

Sharona scosse la testa: “No.”

Vuoi vedere che era pure zitella? “Ma… ehm… ce l’hai un ragazzo?”, chiese subito Shannon, curiosamente, sentendosi come una comare pettegola da parrocchia e/o centro anziani.

Sharona annuì mentre prendeva la ruota tagliapizza per tagliarla a fette e si metteva all’opera. “Sì, certo. Ma è via con la sua squadra di football. Doug Lagrance. Gioca da professionista nei Battlewings di Bossier-Shreveport.”

Ah, perfetto. Shannon, impallidendo al pensiero, già si immaginava che arrivasse di corsa in cucina un fidanzato Doug fatto a forma di armadio a due ante, alto oltre due metri e con l’espressione feroce a picchiarlo di santa ragione per l’intrusione, che Sharona aggiunse subito, prima di cominciare a depositare le fette di pizza su un piatto da portata: “Lui… torna domani, forse… nel pomeriggio…”

E poi la ragazza si fermò un attimo, una fetta di pizza a metà strada. Già che c’era, poteva chiedere anche lei, no? Tanto per farsi un po’ gli affari sentimentali di Shannon, no? Attraente com’era sicuramente aveva una ragazza e forse anche più di una: “E la tua… ehm… ragazza?”

“Uhm… E’… é in California.”

“Non è venuta fin qui con te?”

Shannon scosse la testa: macché e, a tal proposito, c’era stata pure una litigata a ferro e fuoco durata un paio d’ore: “No, non ha voluto… Non voleva stare a casa di mia nonna. Non se la sentiva…”

Sharona spalancò gli occhi, mentre si avviava verso il tavolo con un piatto da portata pieno zeppo di fette di pizza, passando davanti a Shannon e lasciando una scia di profumo di cibo che gli svegliò nuovamente lo stomaco: “Nonna Ruby? Ma se è così carina e dolce, tua nonna…”

Certo e anche curiosa, persuasiva, insistente, testarda, pettegola, protettiva, come tutte le nonne: “Sì, è vero…”

“Ha il tuo stesso sorriso, lo sai?” Sharona, appoggiando il piatto sul tavolo, arrossì senza volere, subito dopo aver detto quelle parole, che attestavano apertamente quanto lo avesse guardato bene e, soprattutto, quanto gli piacesse.

Shannon si grattò la testa, perplesso: nessuno gli aveva mai detto che assomigliava a sua nonna. “Davvero?”

“Ehm… Certo. Un sorriso davvero molto bello.” Le guance di Sharona diventarono di porpora, mentre si sedeva a tavola, e Shannon se ne accorse.

Un campanello d’allarme gli risuonò nella testa: quando le donne facevano i complimenti era perché si stavano coinvolgendo troppo. E ciò poteva essere pericoloso. E lui non era indifferente ai complimenti. E ciò era altrettanto pericoloso. Cominciò a passare in rassegna le vie di fuga: “Grazie. Ma tu… ehm… vivi qui da sola?”

“No, con mio papà. Il signor Averre.” Ah, ecco, bene. Se non fosse arrivato il fidanzato armadio con i parastinchi, il paradenti e il pallone sotto braccio, a momenti sarebbe arrivata la figura paterna a cacciarlo fuori a calci. Ecco sì, meglio… visto che Shannon in quel momento non riusciva a staccare gli occhi dalla scollatura di Sharona, dato che la cerniera della tuta stava lentamente scendendo, mentre lei si serviva la pizza e non se n’era accorta. “Ma torna dopo Natale. E’ a Baton Rouge da dei parenti…”, continuò lei.

Ecco, ora era nei guai.

Definitivamente.

Era da SOLO in casa di una bella ragazza SOLA, in mezzo ad una bufera di neve, con nessuno che poteva venire a cercarli a breve e non era un santo, si conosceva fin troppo bene.

Perché tutto cospirava contro di lui?

Perché?

Perché qualcuno lo voleva martirizzare così?

Santo Shannon da Bossier City, martire?

C’era un’unica speranza, prima di uscire nel mezzo della tormenta di neve per scappare: “Ehm… vado a vedere se è arrivato il meccanico...”, disse ad un tratto, girandosi di scatto, per ritornare dopo poco, un po’ rammaricato: “Niente, dal meccanico non risponde nessuno. Ho lasciato il milionesimo messaggio in segreteria telefonica.”

La ragazza non si era mossa di un millimetro: “Tranquillo, Shannon… quando il meccanico torna, vede i messaggi e ti chiama, dai… non ti piace la pizza?”, gli chiese, portandosi alla bocca un boccone.

‘Sì, mi piace tanto e mi piaci tanto anche tu, con quei capelli sciolti, gli occhi brillanti e quella bella bocca tutta da baciare, dannazione a me!’, pensò Shannon, cominciando a non sentirsi tanto tranquillo, mentre invece disse: “Ma scherzi? Certo che sì e dal profumo deve essere ottima…”

La ragazza sorrise, facendogli cenno di sedersi sulla sedia vicino a lei e versandogli la birra nel bicchiere. “E allora mangia, dai… e all’auto pensi dopo… tanto non è che se non mangi, il carro attrezzi arriva prima…”

Pura saggezza tibetana, si disse Shannon. O, forse, solo un po’ di buon senso: era tardissimo, lui aveva fame, era bloccato lì e non poteva fare niente. “Sì, hai ragione…”, rispose allora, sedendosi. Tanto finchè mangiavano la pizza non poteva succedere nulla di male, no?

E infatti la cena proseguì tranquillamente, tra spiegazioni sui Chakra e su come fosse fatto un rullante, discussioni sulle religioni e sul Festival del Coachella, descrizioni delle varie asana yoga e del carburatore della Ducati, finché Shannon non si accorse che era mezzanotte passata e loro due erano ancora seduti al tavolo a chiacchierare amabilmente e a bere caffè e si erano quasi scordati il motivo per cui erano lì. “Accidenti, è mezzanotte passata!”, esclamò sorpreso l’uomo, guardando l’orologio appeso sul muro.

“Ah, sì, è vero… Metto un po’ via, allora…”,  Sharona si alzò e cominciò a sparecchiare, ammucchiando i piatti.

Shannon si alzò a sua volta. “Ehm… senti… io… se tu devi andare a dormire, io… ehm… posso rimanere fuori sotto il portico ad aspettare il meccanico, non ci sono problemi, davvero… Sei stata fin troppo gentile a…”

Sharona scoppiò a ridere: “Shannon che dici? Mio papà non mi perdonerebbe mai se ti lasciassi fuori sul portico al freddo e la leggendaria ospitalità degli Averre crollasse in quel modo e poi… dormirò quando sarò morta…”, concluse, portando via la pila di piatti.

Shannon rimase di sale: quella frase era una delle preferite di Jared e l’uomo capì che qualsiasi cosa avesse provato, da quella casa non sarebbe riuscito ad andarsene.

Qualcosa alla fine lo teneva lì.

E la cosa lo disturbava, gli sembrava improvvisamente di non avere più il controllo della propria vita. Gli venne una voglia improvvisa di un pieno di nicotina fatto bene: “Vado fuori a fumare e poi riprovo con il meccanico.” Affermò avviandosi risoluto alla porta.

Dopo tre sigarette fumate avidamente, guardando la neve che cadeva in soffici fiocchi in una notte silenziosa e con un freddo pungente, si decise però a rientrare. Al diavolo il meccanico, la Chevrolet e questa neve, si disse, buttando il mozzicone in mezzo al giardino, spalancando la porta, mollando gli anfibi e dirigendosi in salotto. E al diavolo anche tutte le seghe mentali che mi sto facendo sul fatto che sono bloccato qui, con Sharona che….

Che…

Che, scalza, se la ritrovò, non senza sorpresa, seduta sul divano con le gambe allungate verso il calore del caminetto, con gli occhi chiusi, rilassata.

Una leggera musica che pervadeva l’ambiente.

“Ti piacciono i Dire Straits?”, gli chiese lei, senza aprire gli occhi, percependo il profumo di Shannon, che ora aveva anche un leggero sentore di arnica, quando lui si avvicinò al divano.

Non erano il gruppo preferito di Shannon, ma non si poteva dire che non fossero una rock band storica. “Sì, non mi dispiacciono…”

“Come sta il tuo blackberry?”, chiese Sharona, riaprendo gli occhi e vedendo che l’uomo lo teneva in mano come se lo coccolasse.

L’uomo tentò di accenderlo per l’ennesima volta: “Temo sia definitivamente defunto. E se provassi a metterlo vicino al caminetto, qui? Magari l’acqua che ha dentro evapora…” Shannon si abbassò e lo appoggiò per terra, in modo che il calore lo asciugasse, ma che non fosse troppo vicino alle fiamme per colarsi.

“Prova… peggio di così…” Poi Sharona gli sorrise: “Vieni a sederti qui, finché aspetti?”

L’uomo annuì e si sedette sul divano, un po’ staccato da lei, a guardare le fiamme, quel bel fuoco che la ragazza aveva alimentato ancora e che ora scoppiettava per bene. Un brivido gli scese sulla schiena, di soddisfazione. Si sistemò meglio, allungando le gambe anche lui e sospirando.

Le note di ‘Fade to black’ si spandevano nell’aria e la voce suadente e maledettamente blues di Mark Knopfler in quella canzone faceva da perfetto contorno alla situazione.

L’uomo si girò a guardare Sharona e lei lo stava fissando.

La ragazza teneva la testa appoggiata sulla testiera del divano, gli occhi semichiusi e le labbra socchiuse, le guance leggermente arrossate. La luce del caminetto dava alla sua pelle un colorito di una tonalità sorprendente e i lunghi capelli neri sembravano brillare.

Era maledettamente desiderabile.

Pericolosa.

Ancora di più quando la ragazza gli si avvicinò, alzò una mano e cominciò ad accarezzargli con un dito una guancia coperta di barba, guardandolo negli occhi.

“Perché porti questa barba?”, gli chiese.

“Perché le pastiglie mi hanno fatto venire l’acne… così copro la pelle tutta rovinata…”

“Oh… che peccato… beh, ora non ne hai più bisogno…”

“Già. Grazie a te.” L’uomo sorrise e le prese la mano che Sharona aveva appoggiato sulla sua guancia. “E grazie alle tue mani sapienti…”

Sharona scosse la testa: “Non solo. Anche tu hai voluto guarire: avevi deciso di farlo nell’esatto momento in cui ti sei sdraiato sul lettino… In realtà lo volevi…”, gli rispose lei convinta, stringendogli la mano. “Forse saresti guarito anche con l’automassaggio...”

Shannon alzò le sue mani davanti, come a mostrargliele: “Con queste manone? No. Posso fare solo male, io…”, dichiarò, ricordandosi quella volta che aveva tentato di massaggiare il braccio di Tomo e aveva fatto peggio. “Non sono fatto per queste cose troppo delicate…”

Sharona si mise a fissare le mani di Shannon, assurdamente sproporzionate, gigantesche e tozze. Ma così forti. “No, lo credi tu…”

“Sharona… Non sono capace di fare i massaggi.”

“Sì che sei capace. Prova con me…” Sharona si mise a sedere di scatto, gli diede le spalle mettendosi più vicina e spostandosi i capelli di lato. “Prova, dai… Mi fido di te…”

“OK.” L’uomo le appoggiò con diffidenza le mani sulle spalle esili e cominciò a muovere le dita, lentamente, per non farle male. Premeva con delicatezza i pollici alla base della nuca e accarezzava con le dita i muscoli delle spalle della ragazza, leggermente tesi e affaticati. L’unico massaggio che pensava di saper fare senza fratturarle qualcosa.

Sharona chiuse gli occhi, concentrandosi sul piacere derivato da quel massaggio, sul calore e sull’energia di quelle mani possenti ed improvvisamente l’idea delle mani di Shannon in altre parti del suo corpo, prese possesso delle sue cellule cerebrali. Si lasciò andare del tutto, persa nelle sensazioni e nei pensieri, con l’immagine dell’uomo spogliato, dei suoi muscoli, del suo corpo, del suo bel viso.

E in un attimo Sharona dimenticò il suo ragazzo, suo papà e i piatti da lavare.

“Come sto andando?”, chiese ad un tratto Shannon, fermandosi.

“B-bene…”, sussurrò la ragazza per poi sdraiarsi all’indietro verso Shannon, finendo con lo distendersi sul suo petto, ad occhi semichiusi, abbandonata con la testa appoggiata su di lui. “Sei bravo…”, gli disse, sussurrando, i loro visi vicinissimi, gli occhi negli occhi.

E il calore dell’alcool e del caminetto acceso, il profumo della ragazza, l’euforia per essere guarito al braccio, cancellarono in un attimo tutto intorno a Shannon. L’uomo dimenticò la sua ragazza, sua nonna e l’auto in panne: l’unica cosa che Shannon si accorse di volere in quel momento erano le labbra piene di Sharona sulle sue, voleva saggiarne la consistenza ed il calore.

E allora si abbassò di scatto e se le prese senza pensarci due volte.

Sharona, ricordando immediatamente la sensazione che le aveva dato la pelle tonica e calda di Shannon sotto le sue dita e che aveva nascosta sotto uno strato di professionalità ma ora era ritornata improvvisamente a galla, rispose senza indugi a quel bacio improvviso e anzi si sistemò meglio, per offrirsi di più.

Shannon allora, avuto il via libera, le portò subito le mani sui fianchi, la sollevò e l’attirò contro di sé, lasciando che la ragazza gli passasse le braccia attorno al collo e appoggiasse i seni sul suo petto. In un secondo Sharona era seduta sulle sue ginocchia e respirava con il fiato di Shannon, gli passava le mani sui capelli, ad occhi chiusi, assaporando il sapore maschio della sua bocca, il suo forte profumo di uomo, il calore delle sue mani che la stringevano.

Il tappeto davanti al caminetto li accolse entrambi mentre si baciavano e facevano vagare le mani sui loro corpi: Shannon, sdraiato per terra, aveva messo la ragazza sopra di sé e seguiva le curve del suo corpo, la figura snella e atletica, il suo sedere modellato; Sharona gli accarezzava il viso, il petto, si perdeva nelle sensazioni che la bocca dell’uomo le dava, la barba lunga che le pungeva il viso.

Non ci volle molto che i vestiti presero la via del pavimento e i due rimasero senza.

Il meccanico, con il carro attrezzi, suonò il campanello di casa all’una di notte, ma Sharona e Shannon, addormentati una nelle braccia dell’altro davanti al caminetto acceso dopo aver fatto l’amore, non lo sentirono affatto.

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Capitolo 10
*** Capitolo Dieci ***


10

 

 

Sharona si svegliò di soprassalto sentendo freddo e si mise a sedere di colpo, sul tappeto vicino al caminetto, rendendosi improvvisamente e bruscamente conto di dove si trovasse, stringendosi le braccia attorno al corpo nudo scosso dai brividi.

Era notte fonda e pioveva, forte.

La pioggia cadeva battente sui vetri delle finestre e sul tetto della casa e anche quel rumore continuo l’aveva svegliata, non solo il fatto di essere senza vestiti sdraiata su un tappeto, per terra davanti al divano.

Si guardò un attimo attorno, aguzzando gli occhi nella penombra della stanza, cercando istintivamente ed inutilmente qualcosa con cui coprirsi: Shannon dormiva profondamente vicino a lei, respirando piano, un leggero sorriso sul volto con i lineamenti rilassati, abbandonato nudo sul tappeto anche lui, con un braccio sotto la testa. Appoggiato sul  fianco destro, il suo tatuaggio etnico in evidenza, dava le spalle al caminetto quasi spento.

Meravigliosamente addormentato.

Bellissimo.

Un sogno.

Un brivido sulla schiena di natura sensuale le ricordò improvvisamente cosa fosse successo: le loro bocche affamate, le mani smaniose, le carezze passionali, i loro corpi uniti, il raggiungimento del loro piacere sublime.

Una cosa che non avrebbe mai pensato potesse essere così e che con il suo ragazzo non le succedeva mai. Il sesso con Doug, alla fine, fatti i debiti conti, era di una noia abissale, programmato e a scadenza come una bolletta da pagare, non come quello sperimentato con Shannon.

Sharona, arrossendo al pensiero, allungò una mano ad accarezzare i capelli, il volto di Shannon e l’uomo sospirò. La ragazza tolse subito le dita dalla sua guancia: non voleva svegliarlo, in realtà, perché si sentiva un po’ imbarazzata, in quel momento.

Non sapeva bene perché fosse successo tutto, se fosse stato giusto o sbagliato, se avesse significato qualcosa per entrambi, se fosse stato solo sesso o…

Chissà…

Doveva pensarci e riflettere, doveva capire.

Decise di alzarsi.

Lentamente si scostò per cercare degli abiti, per allontanarsi, ma trovò nei paraggi solo la camicia di Shannon, che si infilò immediatamente, rabbrividendo ancora e registrandone il profumo di uomo. Il fuoco si stava spegnendo e, facendo meno rumore possibile, lo rimise in funzione, visto che, se aveva sentito freddo lei, probabilmente anche Shannon ne avrebbe avuto.

Nella luce soffusa del caminetto e dell’albero di Natale ancora acceso, che in quel momento aveva un che di spettrale, Sharona andò in camera sua, prese un cuscino ed una coperta e li portò in cucina. Mentre un lampo illuminava la stanza, coprì l’uomo con la coperta e gli mise il cuscino vicino, chiedendosi se non fosse il caso di  andare a dormire in camera sua.

Sì, forse era meglio.

Doveva fare così.

In fondo Sharona non aveva idea di chi fosse Shannon, del perché fosse lì e del perché fosse successo tutto quanto e, nonostante le sue idee spirituali sull’energia che univa tutti, sul fatto che tutte le cose non accadessero per caso, in quel momento le era difficile trovare un legame tra di loro, trovare un qualcosa che li potesse legare al di là del sesso, trovare un senso ed una ragione al loro rapporto, nato per caso.

Rimase un attimo a guardarlo, in piedi vicino al divano.

E una consapevolezza prese corpo nella sua testa: era stata una stupida.

Lei lo aveva accolto a casa sua, fidandosi. Shannon era stato affabile e squisito con lei, ma alla fine era arrivato dove volevano arrivare tutti gli uomini, nessuno escluso. Magari sarebbe tornato a Los Angeles per vantarsi poi con gli amici della sua conquista di Bossier City, della provinciale campagnola con cui aveva scopato e che era stata così carina e gentile con lui da permettergli tutto, fino in fondo.

La ragazza si sentì usata, sfruttata.

Ed un improvviso dolore al petto la colpì.

Una sensazione terribile di angoscia e disperazione, come non provava da tempo.

L’improvviso pensiero del suo ragazzo peggiorò le cose; l’idea che Doug arrivasse all’improvviso e trovasse Shannon lì o che lo venisse a sapere, magari per una parola che le scappava per sbaglio, la gettarono nel panico. Strinse i pugni: forse doveva svegliare Shannon, assestargli un calcio e buttarlo fuori da casa sua, sotto la pioggia. Che tornasse pure a piedi a casa di sua nonna, chi se ne importava? Che le importava dell’auto in panne? Che le importava di lui?

Fece per avvicinarsi e strattonarlo, ma Shannon, che sorrideva nel sonno, quasi pareva un bambino indifeso alle prese con un gran bel sogno e Sharona non si sentì di svegliarlo.

E forse…

Forse non era stata nemmeno tutta colpa di Shannon, dato che lei non aveva fatto nulla per allontanarlo da sé, anzi… lo aveva voluto anche lei.

Aveva voluto tutto quanto era successo.

Dall’inizio alla fine.

Sharona si prese la testa tra le mani, confusa, non sapendo bene cosa pensare, ma…

Doveva andare a dormire nel suo letto. Sì.

Doveva barricarsi in camera sua e lasciare Shannon lì, sul tappeto, sperando che, quanto prima, svegliandosi e non vedendola, l’uomo si sarebbe deciso ad andarsene da solo. E al domani non era il caso di pensare.

Sì, poteva fare così.

Era fattibile.

Sharona gli girò le spalle per andarsene ma non fece in tempo che a fare pochi passi.

“Sharona…”

Shannon aveva solo sospirato il suo nome, ma nella sua testa, la voce dell’uomo le era rimbombata come un’esplosione, come mille soli abbaglianti.

La ragazza si girò lentamente a guardarlo, il cuore che le era balzato in gola, un lungo brivido sul corpo, gli occhi spalancati.

Shannon con una mano, nel dormiveglia, tastava davanti a lui sul tappeto, cercandola sotto la coperta, sempre sorridendo, come se stesse ancora sognando. “Sharona…”

Sharona smise di respirare: no, non poteva andare a dormire nel suo letto, non con Shannon lì, con lei, che la chiamava, che la voleva.

Che la desiderava, come lei desiderava lui…

Come Doug non l’aveva mai desiderata, come lei non aveva mai desiderato Doug…

La ragazza, con il fiato corto per il desiderio e l’eccitazione come non le era mai capitato, dimenticando completamente tutti i dubbi di poco prima, gli si avvicinò lentamente, un passo dopo l’altro, si tolse la camicia, scostò la coperta e sussurrando un debole “Eccomi…”, gli prese la mano che la cercava.

Shannon la attirò subito contro di sé, stringendola forte, aprendo leggermente gli occhi quel tanto che bastava per cercare e trovare la sua bocca invitante, la sua lingua appassionata, il suo corpo vellutato e tremendamente allettante.

Per metterla sotto di sé e prenderla nuovamente, con decisione e senza trovare resistenza.

Per farla sua con passione e, muovendosi impudicamente su di lei mentre la ragazza portava le gambe attorno ai suoi fianchi, sussurrarle all’orecchio “My Sharona…”

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Capitolo 11
*** Capitolo Undici ***


11

 

 

 

Di prima mattina, un tintinnio sinistro e sgradevole trapanò il cervello di Shannon, semi addormentato con la testa appoggiata sul petto di Sharona come se fosse un cuscino, e lo costrinse a svegliarsi del tutto, infastidito: era il suo blackberry, nottetempo risorto.

Anzi, suo fratello Jared che lo chiamava al blackberry, con associata la suoneria più fastidiosa che Shannon era riuscito a scovare su internet.

“Non rispondi?”, gli chiese Sharona, svegliandosi a sua volta, sbadigliando e scompigliandogli dolcemente i capelli.

Shannon le si strinse addosso di più e si appoggiò meglio su di lei, strofinando il viso sulla pelle della ragazza, sul suo seno. “Devo?”

“Tanto per capire se va il tuo cellulare…”, sorrise Sharona.

“No…”, sbuffò l’uomo, alzando la testa per guardarla negli occhi, “Lo provo dopo… ora ho altro da fare…” Shannon, con un sorriso sornione sulle labbra, scivolando su di lei, si spostò per riuscire a poggiarle un bacio leggero sulla bocca, mentre le scostava la frangetta dalla fronte. “Buongiorno…”

La ragazza, con i capelli sciolti sul cuscino e gli occhi sfavillanti, gli passò un braccio attorno al collo e si alzò a sua volta per cercare ed assaggiare per un attimo le labbra di Shannon per l’ennesima volta, con il cellulare che smise subito di suonare. “Buongiorno…”

“Come stai?”, le chiese lui, passandole un dito a disegnarle un sopracciglio, incantato dall’espressione sognante del viso della ragazza.

Sharona sorrise, dimenticandosi di tutti i dubbi che aveva avuto quella  notte, di quella mezzora passata a chiedersi tante cose, spazzata via in un attimo da quell’uomo delizioso: “Bene. E tu?”

“Da dio… mai stato meglio… grazie a te…”

La ragazza arrossì, accarezzandogli la barba lunga, la luce del mattino che entrava dalle finestre e dava agli occhi di Shannon una tonalità di verde straordinaria. Prese a fissarlo in viso, in quegli occhi ammaliatori. Che cosa si doveva dire dopo una notte come quella appena trascorsa? Sharona non sapeva nemmeno da dove partire per mettere in fila un ragionamento di un qualche tipo, visto che non sapeva nemmeno dove andare a parare, non sapeva come avrebbe dovuto sentirsi, che cosa provare, se sentirsi in colpa o meno, visto che ora sia Doug che la ragazza di Shannon portavano un bel paio di corna.

Sentì, invece, qualcosa di prettamente fisico: il corpo di Shannon appoggiato al suo cominciava a risvegliarsi, il sangue le scorreva nelle vene più velocemente, il desiderio per lui si faceva sentire ancora e cominciava a sentire un gran caldo. “Shannon, io…”, iniziò, col fiato corto, accarezzandogli la fronte con le dita, ma il blackberry riprese a suonare con la stessa odiosa suoneria di prima.

“Uffa…”, sbuffò Shannon, baciandole la punta del naso,  sospirando e alzandosi in piedi di malavoglia, “Rispondo… sennò poi mio fratello mi chiama ventimila volte…”

 “Va be…”, ma la ragazza non riuscì nemmeno a completare la frase, visto che in quel momento cominciò a suonare anche il suo telefono fisso.

Sharona scattò in piedi, abbrancando la coperta e mettendosela attorno al corpo, per avviarsi in corridoio di corsa, mentre Shannon, nudo e appoggiato al caminetto spento, già alle prese con una quasi discussione con Jared, la guardava allontanarsi con la coda dell’occhio: “Sì Jay, lo so che sei già in attività, ma sono le sette e mezza del mattino, sono in vacanza e se non mi rompi mi fai pure un piacere, anzi, prima che ti mandi a cagare ti conviene mettere giù e mollarmi… ”

Sharona, invece, rispose con più titubanza, chiudendosi la porta della cucina dietro per non fare sentire la voce di Shannon: al telefono poteva essere chiunque e lei doveva fare finta di nulla. Tranne che con nonna Ruby ed il meccanico, doveva fingere che in casa sua non ci fosse nessuno, tanto meno un uomo: “P-pronto?”

Per fortuna era soltanto George. Che le chiedeva di conferire i soldi al centro anziani il prima possibile e, soprattutto, di riportare il vestito da Mrs Christmas, da spedire in pulitura. Sharona respirò sollevata e mise giù quasi subito, liquidandolo frettolosamente con una sfilza di convincenti ‘va bene, ok’.

Shannon e Sharona, finite le relative telefonate, si ritrovarono sulla porta della cucina, aprendola, e si sorrisero, complici.

“Dove eravamo?”, disse subito Shannon con un sorrisetto che era tutto un programma a luci rosse, tendendole una mano.

“Non so, non mi ricordo… Temo che dovremmo ricominciare da capo…”, rispose maliziosamente la ragazza, avvicinandosi, passandogli le braccia attorno al collo e appoggiandosi a lui.

Shannon la prese subito per i fianchi e cominciò a baciarla sul collo e mentre la coperta stava per scivolare per terra, il campanello di casa suonò e subito dopo, nuovamente, anche il blackberry che l’uomo teneva in mano, con una suoneria diversa, facendoli trasalire.

“Tim, che cazzo vuoi all’alba?”, rispose di scatto Shannon quasi gridando, mentre la ragazza, recuperata la coperta, con il cuore in gola, spiava dallo spioncino e vedeva il tanto sospirato meccanico, con l’altrettanto sospirato carro attrezzi parcheggiato vicino alla Chevrolet Malibù.

Sharona tentò di richiamare l’attenzione di Shannon, ma lui si era già dileguato in salotto, proclamando al cellulare un convintissimo “Te l’ho già detto ieri, Tim… Non appena andiamo in tour ti chiamiamo. Chiamiamo TE e nessun altro, d’accordo?”

“Shan, c’è il meccanico…”, tentò di avvertirlo, ma Shannon, in costume adamitico e pacifico, si era dapprima seduto per terra vicino al caminetto spento e ora si stava sdraiando di nuovo per terra sul tappeto, appoggiato sul cuscino e con un braccio sotto la testa, e continuava la sua filippica sul fatto che Tim doveva impararsi tutte le parti di basso delle canzoni nuove.

Il meccanico riprese a suonare il campanello, come se lo volesse togliere dal muro e portarselo a casa. E, già che c’era, bussò anche alla porta, gridando “Signor Letoooo?”

Sharona si portò in salotto e si mise davanti a Shannon a fargli dei segni, come se giocasse al mimo. “M-e-c-c-a-n-i-c-o…” mimava, con l’alfabeto dei muti. Shannon la guardò un attimo divertito e quasi gli venne da ridere visto che per la ragazza si agitava, i capelli le si muovevano attorno e le stava cadendo di dosso la coperta, di nuovo. Ma poi si rese conto di cosa volesse dire.

“C’è il meccanico! Tim, ti chiamo dopo…”, esclamò Shannon, chiudendo la comunicazione, recuperando velocemente il cuscino ed avviandosi di corsa alla porta di casa, aprendola di colpo.

E, sorpresa, di neve non c’era quasi più traccia: la pioggia battente della notte l’aveva spazzata via quasi del tutto. Ne rimaneva solo qualche cumulo sparso ed un sole scintillante faceva capolino in mezzo ad un residuo di nuvole che correvano nel cielo disperse dal vento. E Shannon in piedi in mezzo al portico, spettinato, nudo con il cuscino davanti e che si guardava intorno esterrefatto, fece scoppiare a ridere il meccanico, il quale gli disse subito, sogghignando e sistemandosi il berretto col frontino sulla testa, la faccia da uomo di mondo: “Nottatina intensa, eh?”

Shannon gli spostò gli occhi in faccia e cominciò a spiegargli i problemi della Chevrolet ma il suo blackberry suonò di nuovo e stavolta a cercarlo era proprio la proprietaria dell’auto. “Sì, nonna, sto bene… no, non sono morto sotto la neve… sì, ti porto a far la spesa… no, non occorreva che telefonassi a tutti gli ospedali… sì, adesso arrivo… no, non farò tardi… sì, ciao nonna…”, rispose l’uomo rientrando ed accorgendosi che Sharona era al telefono con gli occhi spalancati verso di lui che gli faceva segno di stare zitto e diceva: “Sì, Doug, qui tutto OK, niente da segnalare… Sì, tra un’ora arrivi, va bene… ti aspetto qui a casa…”

Ecco, dopo la nonna apprensiva ci mancava il fidanzato opprimente, si disse Shannon, rientrando in salotto, quando lui avrebbe voluto ben altro, quel mattino. “Ma c’è qualcuno che non ci cerca, stamattina?”, ruggì, cercando i suoi vestiti sparsi vicino al divano.

Si vestì in fretta e furia e quando uscì dal salotto vide che Sharona era rimasta in corridoio con la coperta attorno al corpo, ancora ferma vicino al telefono con la mano sulla cornetta, un po’ allucinata da quell’assurdo via vai di telefonate.

Si fermò a fissarla, mentre si infilava gli anfibi e poi la giacca: la ragazza aveva i capelli scompigliati e si teneva la coperta chiusa davanti con un braccio, guardandolo con una strana espressione in volto. Chiaramente reduce da una notte di sesso, alla luce del mattino aveva il viso pallido, un segno su una spalla e sembrava una bambina dispersa.

E Shannon si rese conto che non aveva nessuna voglia di andarsene: voleva rimanere ancora lì, toglierle quella coperta di dosso, prenderla tra le braccia, sentire il suo calore, avere il tempo di dirle qualcosa.

Cosa, non sapeva nemmeno lui.

Non ne aveva idea.

La ragazza gli piaceva ma… ma…

Ma non capiva nemmeno come avrebbe dovuto sentirsi, che cosa provare. Era stato tutto così piacevole ma talmente improvviso, in barba a tutti i dubbi che aveva avuto, che…

L’uomo le si avvicinò, la guardò un attimo in viso e poi le passò un braccio attorno alla vita per stringerla a sé, per baciarla con trasporto ancora una volta sulla bocca, per accarezzarle il collo. “Devo andare ora, ma… ti chiamo più tardi…”, le sussurrò, sulle labbra.

“OK.” Sharona appoggiò la fronte sulla sua sorridendo e accarezzandogli le spalle. “Va bene…”

“Ciao, Sharona.”, le sussurrò sul collo.

La ragazza alzò una mano a sfiorargli una guancia, dolcemente, guardandolo intensamente come se si volesse imprimere il suo viso in mente: “Ciao, Shan.”

Prima di lasciarla, Shannon indugiò a farle una carezza sul viso e a toccarle una ciocca di capelli, incantato dal quel viso, mentre il clacson del carro attrezzi lo richiamava alla realtà. L’uomo le gettò un’ultima occhiata, prese velocemente la porta e il vialetto, si affrettò a salire vicino al meccanico che trascinava l’auto, e se ne andò salutando con una mano Sharona che lo guardava dalla porta socchiusa.

La ragazza fece lo stesso, gli mandò anche un bacio, ma, quasi senza motivo, in cuor suo sapeva che quella sarebbe stata l’ultima volta che lo vedeva.

“Addio, Shannon…”, sussurrò, rabbrividendo e guardando il carro attrezzi che si allontanava per la via. “Tu… tu sei un essere speciale… e ti auguro che il tuo karma ti regali l’illuminazione…”

 

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Capitolo 12
*** Capitolo Dodici ***


12

 

 

 

Mancavano pochi minuti alle sei di sera della Vigilia di Natale e Shannon, con il suo fedele berretto nero di lana in testa e con al braccio nonna Ruby, fece il suo ingresso nella moderna chiesa cattolica di Cristo Re di Bossier City, per la messa prenatalizia.

L’uomo non si ricordava nemmeno da quanto tempo non metteva piede in una chiesa ma, in quello strano soggiorno nella sua città natale, quella sera aveva dovuto fare anche quello, per accompagnare sua nonna alla funzione religiosa.

Mentre si muovevano lungo il corridoio centrale in cerca di qualche posto libero su uno dei banchi già quasi pieni di fedeli, ricordi fuggenti di preghiere cristiane in cui ci si rivolgeva ad un “Padre nei cieli” e ad una “Vergine Maria” gli passarono velocemente in testa, come polvere sollevata dal vento, ma l’uomo non si ricordava quasi più nulla.

Erano anni che non pregava.

Si ricordava di averlo fatto da bambino, al catechismo, ma non essendo sua madre Constance particolarmente credente, ben presto aveva abbandonato ogni forma di preghiera, per poi dimenticarsele del tutto.

Ed erano anni, in realtà, che non pensava alla sua spiritualità, per non dire secoli.

Improvvisa una domanda gli attraversò il cervello: in che cosa credeva lui, ormai?

Probabilmente in nulla.

In niente che fosse trascendente.

E in niente che fosse reale.

Quasi mai nelle buone intenzioni degli altri.

E, certe volte, nemmeno in sé stesso.

E Shannon, sedutosi in quinta fila con la nonna mentre l’organo suonava il canto di apertura e il profumo dell’incenso pervadeva l’ambiente, si sentì improvvisamente incompleto.

Lui era tutto istinto, impulso, dinamismo, corporeità, vita vissuta fino a starne male.

Non era per niente anima, spirito, psichicità, pensieri mistici.

E forse per quello era un essere umano dimezzato: la natura umana esigeva la risposta a certe domande sulla vita che solo un credo religioso, o comunque filosofico, poteva dare.

E che lui non aveva.

E per un momento sentì di comprendere del tutto quello che gli aveva detto Sharona la sera prima, il fatto che sentirsi religiosamente precari la facesse in qualche modo stare male.

Sharona però era alla ricerca di qualcosa, di risposte, di verità, di certezze… una ricerca forse disorganica, farraginosa e caotica, ma pure sempre uno sforzo apprezzabile.

Lui no: non stava ricercando nulla, si stava adagiando.

E Sharona un giorno forse avrebbe trovato delle risposte ai suoi dubbi.

Lui, senza ricercare, non ce l’avrebbe mai fatta…

Sharona avrebbe…

Sharona…

Sharona.

Il pensiero abbandonò immediatamente i suoi dubbi e si posò sul volto della ragazza, sui suoi occhi scuri e sul suo sorriso, ma quella immagine gli fece male.

Non era riuscito a chiamarla.

Arrivato a casa di sua nonna a metà mattina con l’auto aggiustata, aveva dovuto portare di corsa Ruby a fare la spesa e poi aveva dovuto subire l’assalto dei suoi fastidiosi parenti cajun di Bossier City a pranzo e per tutto il pomeriggio, per poi correre in chiesa. Non era riuscito a trovare un minuto in tutto il giorno per consultare l’elenco telefonico della città e trovare il numero della ragazza, e quel mattino era fuggito da casa sua di corsa e non gli era venuto in mente di scriverselo da nessuna parte.

Cominciò a guardarsi intorno, sperando di scorgerla.

Quella non era l’unica chiesa di Bossier City, ce n’erano anche altre, molte di fede battista, e non era detto che Sharona potesse essere proprio in quella, anzi, poteva essere dovunque, probabilmente anche a casa a fare yoga, a massaggiare qualcuno, a leggere, ad ascoltare i suoi adorati The Knack.

Decise che l’avrebbe chiamata quella sera, come prima cosa da fare una volta rientrato a casa.

Ma poi, quando ormai aveva perso le speranze, la vide avanzare lungo il corridoio, vestita con un cappotto azzurro, berretto e sciarpa bianchi.

E non da sola.

Subito Shannon si irrigidì: Sharona era assieme ad un uomo, quasi sicuramente il suo fidanzato, un ragazzone enorme, altissimo e ben piazzato, biondo con i capelli corti tagliati a spazzola e l’espressione un po’ feroce, esattamente come Shannon si era immaginato.

L’uomo ci rimase male.

Esisteva davvero Doug Lagrance, allora.

Purtroppo.

Shannon non staccò gli occhi di dosso alla coppia per tutta l’ora della messa, visto che i due si erano seduti un po’ più avanti sulla destra e lui li vedeva benissimo: osservava Sharona mentre si rivolgeva al suo ragazzo, gli sorrideva, lo guardava, gli prendeva la mano… e nello stesso tempo pensava alla notte precedente, al corpo della ragazza contro il suo, al calore della sua pelle, al suo odore di donna. Gli pareva di sentirlo nelle narici, gli sembrava di sentire il sapore della sua saliva, la consistenza della sua carne, l’ardore con cui gli si era donata ogni volta che avevano fatto l’amore.

Pensieri ben poco puri da fare in chiesa, si disse, grattandosi una guancia, ma che gli danzavano in testa in modo troppo preciso per essere messi da parte.

Con fatica riuscì a seguire la funzione, mentre vedeva che Doug parlava in un orecchio a Sharona, la stringeva alla vita, le accarezzava una mano.

E quando la messa finì, Shannon, d’impulso, avrebbe voluto andare da lei. Ma… a dirle cosa? ‘Buon Natale, molla l’energumeno e mettiti con me’? No, era troppo, nella notte trascorsa assieme non si erano detti nulla del genere, e… la sua ragazza in California? La scaricava con un SMS? No, non poteva.

E poi se Doug avesse reagito alzandolo da terra e scaraventandolo sulla fila di banchi? Poteva anche essere. Se doveva parlarle, doveva farlo senza che ci fosse il suo ragazzo altrimenti avrebbe potuto rimetterci l’osso del collo.

Sperò di averne l’occasione di lì a poco, magari nella confusione della gente che usciva, ma, mentre Shannon era fermo vicino alla porta con sua nonna che faceva gli auguri a delle sue amiche, Sharona passò davanti a loro al braccio del suo fidanzato.

Vide Shannon, arrossì copiosamente e poi, sorridendo in un modo che al batterista parve piuttosto distaccato e disincantato, lo salutò con una mano e se ne andò, uscendo dalla chiesa come vi era entrata.

Shannon rimase malissimo e si rese all’improvviso conto che non c’era nulla da fare.

Se Sharona avesse voluto dirgli qualcosa, lo avrebbe sicuramente fatto.

E non lo aveva fatto.

E la realtà, anche se cruda e non piacevole, era che lei era assieme al suo ragazzo.

Che lui sarebbe tornato dalla sua ragazza nel giro di un paio di giorni.

Che era finita.

Finita.

E basta.

La loro relazione era durata poche ore, meno di un giorno, e allora che cosa pretendeva da sé stesso e da lei?

E poi perché mai Sharona gli stava così a cuore? Dopotutto non era la prima volta che aveva avuto relazioni di natura sessuale durate poche ore.

Ma quella volta questa cosa gli stringeva il cuore e gli faceva male.

Molto male.

E non sapeva spiegarsi perché.

Oppure sì.

Sì.

Perché Sharona era speciale.

Era fatta della stessa sostanza di cui sono fatti i sogni, si disse, ricordandosi una frase che aveva letto in un cioccolatino una volta.

Ma quel sogno era svanito.

Lei non era sua.

‘My Sharona’? Come le aveva sussurrato mentre facevano l’amore? No.

Purtroppo no.

E non lo sarebbe mai stata.

Shannon uscì con sua nonna dalla chiesa come un automa, assorto nei suoi dubbi ed amareggiato.

Salì sulla Chevrolet decisamente abbattuto.

Ma a nonna Ruby, nonostante gli spessi occhiali appoggiati sul naso, non era sfuggito lo sguardo di Shannon puntato sulla ragazza per tutta la messa e anche dopo. “E’ carina Sharona, vero?”, gli disse, mentre l’uomo metteva in moto e partivano.

“Eh? Sì, certo.”, rispose Shannon, tentando di fare l’indifferente.

“Dovresti sistemarti, Shannon.”

“Nonna…”

“Hai un’età, ormai. Hai quasi quarant’anni. Devi farti una famiglia e mettere al mondo dei bambini. Ora. Altrimenti poi è troppo tardi.”

Non era la prima volta che sua nonna attaccava con quella solfa: “Per favore, nonna…”, le rispose, un po’ seccato.

“Vieni via dalla California dove ci sono soltanto donnacce in cerca di soldi e fama e ritorna qui, prima che sia troppo tardi.”

“Smettila, nonna…”

“Sharona ha l’età giusta per te, è pronta per avere dei bambini e… non sta bene con quell’armadio di Doug, starebbe bene con te.” Anche Shannon lo sapeva, lo aveva capito quella notte, sentiva che era così, ma non c’era nulla da fare. Si limitò a sbuffare, mentre sua nonna continuava imperterrita: “Perché non sei tornato, stanotte? Sei stato con lei, vero? Avete fatto l’amore, vero? Ho visto come ti ha guardato…”

Ma, Cristo Santo, sua nonna era una schiacciasassi sotto forma di vecchia signora e lui non aveva mai e poi mai parlato di sesso con lei! “Nonna, per favore… Cosa dici? L’auto era in panne… Come facevo a tornare?”, disse, arrossendo, per la prima volta dopo lustri.

“Sì-sì-come-no… Non sai dire le bugie, Shannon, non ne sei mai stato capace nemmeno da bambino. Ho indovinato, vero?”

Shannon sbuffò nuovamente: “N-no, cioè… insomma… lasciamo perdere, OK?”

Nonna Ruby si arrese, di malavoglia, sapendo di avere visto giusto su tutta la linea. “Vabbè, vabbè… fai un po’ quello che vuoi, tanto sai che ho ragione…”, gli rispose, tenendogli un po’ il muso.

Shannon  non disse nulla e si limitò soltanto a pensare che il giorno dopo, all’arrivo di sua mamma Constance che gli dava il cambio a far compagnia a sua nonna, lui avrebbe di corsa preso l’aereo per tornare a casa.

Cosa che fece.

 

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Capitolo 13
*** Epilogo ***


Dedico quest’ultimo capitolo della ff al cantante dei The Knack, Doug Fieger (sì, il nome del fidanzato di Sharona non era casuale…), morto di malattia proprio in questi giorni. Lui e i suoi compagni non sapranno mai che cosa ha significato per me il loro album “Get The Knack”, il primo 33 giri che ho comperato, la porta sul mondo del Rock, alcuni anni della mia vita di adolescente incentrati sull’idea della California come di un luogo speciale. Il fatto che, dopo lustri, sia però ancora qui a chiamare una ff come la loro canzone più famosa e a pensare ancora e sempre alla California, forse lo fa capire meglio di tante parole…

Addio Mr. ‘My Sharona’, che il paradiso del Rock ti accolga…

Col cuore spezzato.

Shanna.

 

 

 

 

Epilogo

 

 

Quell’antivigilia di Natale del 2009, per Sharona era più triste che mai. La ragazza si infilò il suo solito abito da Mrs Christmas e uscì di casa decisamente senza nessuna voglia di fare la consueta questua per gli orfani di ogni anno, a nome e per conto del Centro Anziani e costretta da zia Florence.

Sharona si avviò a piedi lungo il vialetto di casa, sotto lo scarso sole di quel pomeriggio invernale per fortuna privo di pioggia e di neve, con il berretto rosso in testa ed i suoi soliti sacchi contenenti caramelle e campanaccio, ma non riuscì a staccare la mente nemmeno per un momento da un pensiero fisso.

Perchè tutto la riportava esattamente ad un anno prima.

E, per questo, quel giorno tutto le ricordava Shannon.

Le veniva in mente Shannon mezzo congelato che la aspettava in mezzo alle intemperie davanti al centro commerciale, le pareva di udire le loro risate mentre erano seduti sul marciapiede, il profumo ed il calore del caffè, la neve che cadeva sui loro berretti rossi…

 E poi l’auto di Ruby in panne, il massaggio terapeutico, la cena a base di pizza, la musica e poi… l’amore di quella notte.

Quella unione perfetta di due esseri che si completavano, non solo di due corpi, e che Sharona non riusciva in nessun modo a scordare. E che le veniva in mente in modo piuttosto intenso, ma inopportuno, ogni volta che ascoltava i Dire Straits, che vedeva il divano, il tappeto, il plaid con cui aveva coperto Shannon…

E poi la mattina in cui si erano svegliati e subito lasciati, con Shannon che le aveva promesso di chiamarla ma… l’uomo non l’aveva chiamata quel giorno, né mai…

Sharona era passata da nonna Ruby il giorno di Santo Stefano per  restituire i soldi che Shannon le aveva lasciato per la visita, sperando di parlargli, ma non aveva trovato nessuno, venendo a sapere per caso dai vicini che il batterista se ne era andato il giorno di Natale. Con rammarico aveva lasciato i soldi in una busta sotto la porta e se ne era andata, senza nemmeno avere il coraggio di telefonare a Ruby per dirle che era stata lei.

Ad aggravare il tutto, Sharona aveva quasi subito scoperto chi fosse Shannon, vedendo in edicola una copertina di uno dei tanti giornali musicali con la foto del gruppo di cui il batterista faceva parte, anche piuttosto famoso, a quanto pareva. E poi agli inizi di dicembre i 30 Seconds To Mars avevano anche suonato a Baton Rouge: non potendo andare al loro concerto per questioni di lavoro, lei aveva almeno sperato che Shannon passasse a Bossier City a salutare la nonna.

Invano.

E allora ormai Sharona, con un certo rammarico, lo dava per perso: Shannon era una rockstar e a lei non pensava sicuramente più. Lei era stata solo il calore di una notte, un momento gradevole, una parentesi nel casino della sua vita, ma ormai per lui doveva essere solo un ricordo, probabilmente una delle tante.

E in fondo non poteva nemmeno biasimarlo del tutto: lei non lo aveva cercato facendosi dare il numero di cellulare da Ruby, né gli aveva detto nulla quando lo aveva visto in chiesa quel giorno, schiacciata dalla presenza ingombrante di Doug.

Doug.

Quel Doug che per fortuna non aveva capito niente di quello che era successo l’antivigilia di Natale in casa di Sharona (anche perché lei aveva fatto sparire immediatamente tutte le tracce della presenza di Shannon), limitandosi a chiederle indifferente chi fosse quel ‘truzzo’ che la ragazza aveva salutato all’uscita della chiesa.

Quel Doug con cui era finita quasi subito: Sharona non riusciva a superare il fatto di sentirsi in colpa per averlo cornificato quella notte ed il loro rapporto si era raffreddato a tal punto che Doug aveva perso interesse per lei nel giro di poche settimane, si era dapprima messo con una cheerleader per poi, nel giro di un paio di mesi, trasferirsi a New Orleans per giocare nei Saints.

Mentre camminava spedita per le strade di Bossier City, Sharona sospirò al ricordo, anche se, a dire il vero, Doug non le mancava per nulla: alla fine erano così diversi da essere agli antipodi. Si era raccontata cose più interessanti con Shannon in qualche ora davanti ad una pizza che con Doug (fissato con mete, arbitri e punteggi del football…) in sei mesi che erano assieme.

Il sesso con lui, poi… vabbé… meglio non pensarci…

Croce sopra per evitare paragoni inopportuni.

Sharona, cercando di mettere da parte pensieri ben poco puri sul sesso con Shannon, pensò che l’ultimo scherzo glielo aveva giocato anche George, mandandola quel giorno a fare la raccolta fondi al centro commerciale.

QUEL centro commerciale.

La ragazza masticò amaro, cercando di consolarsi trovandoci un motivo esoterico, pensando che se era così era perché probabilmente il suo karma voleva che una situazione ripetuta fosse esorcizzante e…

Ma non finì il pensiero…

Girato l’angolo, con sorpresa si ritrovò almeno una trentina tra babbi e babbe natale disposti nei pressi della porta dove doveva mettersi anche lei.

Alcuni li conosceva di persona, altri di vista, altri per niente.

Alcuni avevano sacchetti di candy canes e campanacci in mano e altri il cestino per raccogliere le offerte. Uno era addirittura inginocchiato per terra vicino ad uno stereo portatile che diffondeva canti natalizi.

E tutto sembrava essere nell’anarchia più assoluta.

Sembrava che quei babbi natale fossero tutti lì per caso.

Come se fossero stati portati da un tifone natalizio partito dalla dimora di Babbo Natale ed abbattutosi sul centro commerciale.

“Che sta succedendo?”, chiese perplessa Sharona, con le ciglia aggrottate, avvicinandosi ad uno che conosceva bene.

Il ragazzo, con la barba finta ancora a penzoloni e il berretto in mano, scosse le spalle: “Boh… non so, ci hanno detto di venire qui.”

“Ma… ma… tutti?”

“Sì, tutti.”

“E perché?”

“Boh, ce lo ha detto George…”

Sharona cominciò a guardarsi attorno interdetta: George doveva essere impazzito, e a furia di fare il volontario al centro anziani, forse stata invecchiando precocemente e cominciava a perdere colpi. C’era tutta la città da coprire, per cui era assurdo che tutti i babbi natale volontari fossero stati mandati nello stesso posto. Forse era il caso di mettere un po’ di ordine, chiamare George e chiedergli che aveva in mente: “Scusate, qualcuno ha un telefon…”

Ma la  frase non riuscì nemmeno a finire di pensarla perché improvvisamente una musica si spanse nell’aria.

Una canzone.

Sharona spalancò gli occhi, sorpresa, e la riconobbe subito, dalle prime battute, da quell’attacco di batteria inconfondibile che aveva sentito migliaia di volte.

Era la sua canzone.

Era ‘My Sharona’ dei The Knack.

La ragazza, perplessa, si spostò verso lo stereo portatile per capire che stesse succedendo, ma restò di sasso quando il babbo natale che stava davanti si girò e la guardò negli occhi.

Con quegli occhi verdi singolari che ancora turbavano le sue notti.

Era Shannon.

Shannon.

L’unico Shannon dei suoi pensieri.

“Sh-Shan?”, chiese, con il cuore in gola e la voce quasi inesistente.

L’uomo, più magro ed in forma dell’anno precedente, si tirò giù la barba finta, si tolse il berretto rosso e le sorrise: “When you gonna give me some time, Sharona?”

“Ma…”

“You made my motor run…”

La ragazza scoppiò a ridere divertita, visto che l’uomo parlava usando le parole della canzone: “Shannon, che dici?”

“Is it just destiny or is it just a game in my mind, Sharona?”

Shannon le si era avvicinato e Sharona lo guardava incantata, quasi incapace di articolare una frase. “Ma tu che ci fai…”

L’uomo non la lasciò finire. Con uno scatto la abbracciò passandole le mani attorno alla vita e le sussurrò in un orecchio: “My Sharona… ti voglio bene…”

Sharona ancora non credeva ai suoi occhi, né orecchi: “Ma…”

L’uomo si scostò per guardarla in viso, mentre tutti i babbi natale si dileguavano in fretta, quasi correndo: “Io… ho pensato a te un anno intero, Sharona… Ogni volta che prendevo in mano le bacchette pensavo a te. A come mi hai guarito, a quelle poche fantastiche ore passate con te, a quanto sono stato codardo a non dirti nulla e ad andare via in quel modo. A quanto sono stato coglione a non chiamarti. Ma non avevo capito subito che io stavo cercando te e…”, l’uomo si interruppe e le accarezzò una guancia, le spostò la frangetta dalla fronte e poi continuò: “Io… sono ancora alla ricerca di altre certezze, come stai facendo tu… ho capito che avevo bisogno di trovare delle risposte, come ne hai bisogno tu. Voglio cercarle con te, Sharona… trovarle con te. Ora frequento con Brent un centro buddista, ho un maestro, sto seguendo il mio Dharma, sono diventato vegetariano e… non so se sia la strada giusta ma… ci provo. E… ti ho perfino dedicato una canzone fatta di accordi di chitarra e canti tibetani e l’ho chiamata ‘L490’. Perché tu sei il mio L490, Sharona. Tu e solo tu.”

Sharona era senza parole, sorpresa oltre ogni dire da quello che Shannon le aveva detto: una dichiarazione in piena regola. E se l’anno prima lo Shannon che conosceva le era parso una persona rara, questo Shannon era perfetto. Meraviglioso. Ed era lì per lei.

Non disse nulla, ma si limitò ad abbracciarlo, respirando il suo profumo, sentendo il suo corpo forte contro il suo, accarezzandogli le spalle, pensando a quanto gli fosse mancato.

E Shannon, a quel contatto tanto desiderato, non resistette oltre: i due cominciarono a baciarsi e non si accorsero per niente di un’auto che si fermava nel parcheggio del centro commerciale, ad una decina di metri.

Una Chevrolet Malibù del 1980, con una guidatrice bionda e una passeggera con i capelli bianchi e gli occhiali.

Figlia e madre.

Constance e Ruby.

“Hai visto? Te l’avevo detto, no?”, stava dicendo Ruby, guardando maliziosa i due ragazzi abbracciati e per i quali il mondo intorno non esisteva più.

Constance sorrise compiaciuta: “Sì, mamma, non sbagli mai…”

“Eh eh… Quando ti ho detto di mandarmelo qui, sapevo che avrebbe trovato lei… L’avevo notata al centro anziani quando accompagnava la mia amica Florence. Era perfetta per Shannon, no? E George ha fatto tutto come doveva fare, hai visto? E Florence pure, mandando il papà di Sharona a Baton Rouge l’anno scorso, no?”

“Sì, mamma. E grazie di cuore. La ragazza che aveva prima era un’arpia, faceva uscire il peggio da Shannon e lui stava sempre male, non suonava quasi più, era sempre irritato… Ora sembra un altro, é più calmo, riflessivo, migliore… E…” La donna si interruppe, un sorriso sornione che ricordava tanto quelli del figlio maggiore: “Hai per caso visto anche una donna per Jared? Una ragazza che ti sembra adatta a lui?”

Ruby sorrise, lo sguardo che le brillava. “Ma certo, mia cara. La figlia del pastore. Un caratterino pepato che terrebbe testa ad un esercito.”

Constance si illuminò: “Ah, è la sua, allora…”

“Bene. Tu mandamelo qui. Ho giusto in mente un piano…”, da dietro le lenti, gli occhi di Ruby erano particolarmente scaltri, in contrasto con la sua figura di vecchia nonna innocua.

Constance rimise in moto, annuendo: “OK. Quando arriviamo a casa lo chiamo subito.”

“Va bene, cara.”

La macchina ripartì con le due donne, mentre un bambinetto spaventato, scappando via, gridava a sua madre, alla vista di Shannon e Sharona abbracciati e con le labbra ancora incollate: “Mamma, mamma! Father e Mrs Christmas si stanno baciando!!!”

E’ dato per certo che tutte le sue acquisite convinzioni natalizie crollarono in un attimo!

 

 

 

FINE

 

 

 

 

Come sapete (o forse no), tutti dicono che Shannon sia “cambiato”, sia in qualche modo “diverso” da un anno a questa parte. In effetti la sua canzone L490, certe sue uscite e certe foto postate su Twitter e il fatto che in un video recente abbia salutato con un namaste piuttosto evidente e praticamente perfetto, fanno pensare anche a me che qualcosa gli sia successo, probabilmente un avvicinamento agli insegnamenti buddisti. Ovviamente, non conoscendolo, non posso che ipotizzare, l’ho soltanto immaginato con questa ff, dandone un’interpretazione personale, che spero abbiate gradito.

Al solito, ringrazio chi ha betato, letto, recensito, messo la ff tra le preferite e/o le seguite. Scusate se non ho quasi mai commentato le vostre recensioni, ma davvero in questo periodo ho il tempo contato. Grazie anche a Monica e a Giulia che hanno attribuito a questa ff dei riconoscimenti al settimo turno dei NESA.

Alla prossima!

Baci.

Shanna.

 

 

 

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