Per ardua ad astra

di Himechan
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I ***
Capitolo 2: *** II ***
Capitolo 3: *** III ***
Capitolo 4: *** IV ***
Capitolo 5: *** V ***
Capitolo 6: *** VI ***
Capitolo 7: *** VII ***
Capitolo 8: *** VIII ***
Capitolo 9: *** IX ***



Capitolo 1
*** I ***











Per il mio cuore basta il tuo petto,
per la tua libertà bastano le mie ali.

Dalla mia bocca arriverà fino al cielo,

ciò ch'era addormentato sulla tua anima.

~ Pablo Neruda~




Londra, 1998



-Come potete vedere, in questo momento ci troviamo alle spalle dell’altare maggiore, all’interno delle cosiddette Royal Chapels,  delle quali la principale è sicuramente quella dedicata a Enrico VII, a tre navate con una corona di cappelle, come una sorta di chiesa dentro la chiesa. In realtà il re e la regina sua consorte, Elisabetta di York sono inumati in una cripta sottostante-
La voce della giovane guida risuonava squillante, mentre sciorinava nozioni storico-artistiche sulle meraviglie di una delle massime glorie dell’abbazia di Westminster, ad un gruppetto di arzilli vecchietti in visita in uno dei monumenti più antichi e imponenti di Londra.
Parlava un inglese impeccabile, con una pronuncia spiccatamente londinese, veloce ed elegante: dopo più di cinquant'anni, però, lei riusciva ancora a percepire le sfumature di quella lingua così diversa dallo slang americano a cui era ormai fin troppo abituata.
Era carina. Giovanissima. Probabilmente appena uscita da qualche facoltà d’arte, e ora si guadagnava qualche soldo illustrando pazientemente ai turisti le meraviglie di quell’antichissima abbazia. Però si vedeva che lo faceva con piacere, glielo si leggeva negli occhi, appassionati e curiosi, nel modo di approcciarsi a quei vecchietti petulanti a cui spesso, sordi com’erano, doveva ripetere le cose, al modo con cui dettagliatamente, ma senza troppa accademia, si soffermava sui particolari più affascinanti.
La signora sorrideva, in silenzio, mentre la osservava gesticolare animatamente, pensando che in fondo, l'idea di quel viaggio a Londra, non era stata poi tanto malvagia.
Era la prima volta che tornava a casa dopo cinquant'anni, e il rivedere i posti della sua infanzia e poi della sua gioventù, tutto sommato le aveva fatto bene. Ricordava ogni cosa perfettamente, come se tutto fosse accaduto un istante prima, e niente, si fosse cancellato dal suo cuore.
Ricordava la sua amatissima Londra: lo scorrere vorticoso del Tamigi, l'imponenza di St. Paul, il tramonto dal Tower Bridge, persino i bambini che giocavano a pallone a Green Park, lo stupore nell'attraversare di corsa Trafalgar Square e arrampicarsi con il fiatone sul piedistallo della svettante statua di Nelson dove stavano poggiati a guardia i quattro leoni maestosi, il mercatino di Apple Market a Covent Garden dove con lui...
Il cuore le balzò nel petto mentre un volto si imprimeva di nuovo prepotente nella mente.
Chiuse gli occhi, respirando a fondo, tentando di scacciare quella faccia.
Inutilmente.
Come poteva pensare a quel fantasma?
E soprattutto come poteva ancora pensare di dimenticarlo se non vi era riuscita per cinquanta lunghissimi anni?
Folle.
Soprattutto ora che era di nuovo a casa.

Poi si spostarono verso l’estremità orientale della cappella e qualcosa catturò istantaneamente la sua attenzione. La giovane guida si accorse di come lei si fosse soffermata ad osservare quella piccola nicchia.
-Signorina, e questa?- le domandò l’anziana signora con uno strano fremito nella voce.
La giovane le sorrise cordialmente –Questa è la cappella della Raf- e a quelle parole, le parve quasi che il suo cuore avesse cominciato a battere a tonfi sordi.
Raf. Raf. Raf. Raf aveva detto?
Poi la donna continuò –Fu consacrata nel 1947-
1947
Lei era già in un’altra vita.
Non poteva conoscerla.
-La vetrata commemora i caduti della Battaglia d’Inghilterra svoltasi nel 1940, in una fase cruciale della seconda guerra mondiale-
-Uhm…capisco…- disse l’anziana, voltandosi in silenzio, con aria pensosa a fissare l’ampia vetrata colorata davanti a sé, dove erano raffigurati alcuni soldati con indosso l’uniforme dell’aviazione di sua Maestà.


-Ehi, Asso! Tornerai sulla terra prima o poi?!-
-Sulla terra ci torno solo se mi sposi, altrimenti non se ne parla!-
-Bugiardo! Lo so che tanto non mi sposerai mai! Tu hai solo i tuoi aerei da amare!-


-La vede quella piccola falla laggiù?- le spiegò la guida, distraendola dai propri pensieri, indicandole un piccolo buco ricoperto da un vetro.
L’anziana donna la fissò con aria stupita.
-Quella si è aperta quando una bomba cadde proprio a pochissimi metri da qui-
La signora annuì, senza dire una parola.
Lei il fischio di quelle bombe ce lo aveva ancora assordante nelle orecchie. Erano passati quasi sessant’anni ma il fragore di quelle bombe riecheggiava ancora nella sua testa, come l’angoscia, e il terrore puro di essere una delle tante vittime.
E di non avere la più pallida idea di dove lui fosse.
Lassù nel cielo, questo era sicuro, libero, ma a rischiare una posta altissima.

-Asso tu non sei fatto per stare sulla terra. E soprattutto per avere una moglie e una famiglia-
Asso non è fatto per amare.
Asso è un egoista.
Asso è nato solo, vive solo e morirà solo.
Solo con il suo cielo infinito.

Lontano dalla terra che tanto ti aveva fatto del male.
Ti rinchiudevi in quel tuo guscio volante, e scappavi via, lontano dai sentimenti, da chi ti aveva ferito, ma anche da chi ti aveva amato e continuava a farlo in silenzio.

Di colpo si sentì le lacrime agli occhi, mentre stringeva convulsamente il parapetto che la separava dalla cappellina.
-Signora…si…si sente bene?- le chiese la giovane con aria preoccupata, ma lei si affrettò a rivolgerle un sorriso rassicurante.
-S-sì. Io…sto bene. Grazie-
E non disse altro.
Che buffo.
Quell'uomo raffigurato sulla vetrata assomigliava così tanto a…





Londra, 1924


-Sei!-
Brucia. Brucia da morire.
-Sette!-
-Mpf-
Il dolore era lancinante.
Non gli dava tregua.
Ma era ancora vivo.
Riusciva a contare mentalmente i colpi.
Pensare lo aiutava a rimanere lucido e a non soccombere.

Alla decima sentì la pelle lacerarsi sotto il violento schiocco della frusta sulla sua schiena nuda.
Ma non disse una parola.
Si mordeva il labbro inferiore a sangue, senza emettere un fiato mentre l’esecutore ricominciava sadicamente a picchiarlo.
Metodicamente.
Lentamente.
Molto lentamente.
Perché voleva fargli provare ogni istante di quel dolore atroce.
Dunque tra un colpo e l’altro faceva intercorrere qualche istante, in modo che lui assorbisse tutto lo strazio della sferzata sulla pelle, per poi risentirlo nuovamente, al triplo della violenza.
E ad ogni colpo che arrivava, implacabile e brutale, gli pareva quasi che gli mancasse il fiato. Come se i polmoni si comprimessero al momento del colpo e poi lentamente tornassero come prima. Ma questo naturale movimento, che in realtà era il semplice respirare, gli causava dei dolori atroci alla cassa toracica.
Se smetto di respirare, morirò, e allora gliel’avrò data vinta, ma se continuo a respirare morirò per il dolore.
Ma l’uomo non gli aveva dato tempo di pensare.
Non voleva che lui pensasse ad altro e quindi si deconcentrasse dalla punizione che gli stava infliggendo.
Così  rideva, rideva sguaiato mentre infieriva con piacere, avvertendo tutto l’odio di quel piccolo figlio di puttana che cresceva smisurato ad ogni frustata
-Sudicio cane, impara a rispettare chi comanda-

-Tredici-
Ormai stava quasi per perdere i sensi e dargliela vinta

-Che c’è? Non ce la fai più, eh?!-
Quello sghignazzava irrefrenabilmente mentre alcuni schizzi di sangue gli bagnavano la camicia, rendendolo ancora più folle ed eccitato.
-Bastardo mi hai sporcato la camicia!- esclamò disgustato, fermandosi ad osservare le macchie di sangue.
-Adesso per punizione te ne darò due in più. A meno che…-
Il ragazzo respirava affannosamente, sentendo il petto e la schiena trafitti orribilmente da un ferro incandescente passato su ogni centimetro di quella parte massacrata senza alcuna pietà.
Era di schiena, piegato a novanta gradi e l’esecutore poteva vedere solo i suoi folti capelli castani e il dorso che faceva su e giù convulsamente ad ogni respiro mozzato dalla frustata. Se avesse potuto vedere anche la sua faccia avrebbe goduto il doppio.
-A meno che ora ti inginocchi e chiedi umilmente perdono con quella tua faccia da verme. Avanti oggi mi sento generoso. Chiedi perdono e ti risparmierò!- gli disse seccamente passandosi la manica sulla bocca.
Quel bastardello era tenace come pochi. Gli provocava non poca fatica il punirlo ogni volta. Finora però non aveva ancora emesso un fiato e non era scoppiato a piangere come facevano tutti quei marmocchi insignificanti che avevano il puro terrore di assaggiare la sua lunga ed elegante frusta di cuoio nero.
In un certo, oscuro, senso lo ammirava.
E lo odiava.
Perché era…
Era…
Coraggioso.
E indomito.
E ribelle.
E fiero.
Uno dei peggiori.
Lo disprezzava e lo ammirava allo stesso tempo.
Perché aveva una fibra d’acciaio.
Ed era piccolo.
Un piccolo figlio di cagna, abbandonato da chissà chi, con una tempra da vecchio.
-Allora chiedi perdono e ti risparmierò le ultime due!- ansimavano entrambi per lo sforzo.
Il ragazzino per il dolore.
Il boia per lo sforzo.
Attese in silenzio.
-Rispondi o te la faccio pagare, James Railey-
-Va…-
-Sì?- il ghigno era trionfante –Non sento…-
-Va…-
-Va…Bene?-
-Va…a-
-Attento…- la minaccia sibilava sottile nell’aria.
James respirava convulsamente, sentendo dolore ovunque.
Ma i suoi occhi azzurri erano determinati e dominati da un rancore sordo, inumano che lo rendevano una belva senza sentimenti mentre fissava il vuoto davanti a sè.
-Va…a farti fottere-
Un secondo dopo, inaspettato arrivò un colpo violento, al fianco che lo fece stramazzare al suolo, facendogli battere la testa sull’impiantito di legno, tramortendolo.
-Ti va di giocare, eh?!-
Un rivolo di sangue gli colò dal naso.
La sua  prospettiva adesso, era lo stivale del boia che gli stava per arrivare addosso.
Poi un calcio, dritto nello stomaco, arrivò preciso, feroce e implacabile.
-Per questa tua piccola intemperanza dovrai pagare un po’ di più-
La sua voce suonava fastidiosamente stridula e affettata.
-Si porta rispetto agli istitutori, non te l’ha mai detto nessuno, piccolo degenerato che non sei altro?!-
Lo odiava a morte, odiava quella sua espressione indomita e sprezzante, quel suo sguardo altero che non si chinava mai, di fronte a niente, quella sua indifferenza davanti a tutto quello che gli capitava.
Persino adesso, mentre veniva massacrato senza pietà, poteva quasi vedergli quel sorrisetto beffardo e sprezzante che detestava con ogni fibra del suo essere, e che lo faceva diventare ancora più sadico e spietato.
James era immobile, a terra, riverso su un fianco. La schiena coperta di piaghe sanguinolente, eppure aveva cominciato a ghignare, soddisfatto.
Forse stava per morire, forse no. Eppure sentiva di averlo preso in giro, di nuovo.
Come aveva sempre fatto con tutti.
Anche con se stesso.
Lui la vita la prendeva in giro.
Perché era stata lei stessa a irriderlo, fin da quando era venuto al mondo.
La sua nascita era stata una piccola morte. Venire al mondo era stato disgustoso come imparare a viverci.
E ora non trovava altro modo che rifarsi non aspettandosi niente, da nessuno, anzi, attaccando per primo, con le unghie, a morsi, strappando con la forza ciò che gli apparteneva di diritto.
Già, la forza.
Non era mai abbastanza.
Se fosse stato un poco più forte, o un po’ più intelligente probabilmente non si sarebbe ritrovato per terra, pestato a sangue da quell’uomo che avrebbe volentieri ucciso con le proprie mani, in stato di semincoscienza, alla sua completa mercè.
In un orfanotrofio.
Ma un giorno sarebbe diventato forte, fortissimo, inattaccabile.
Nessuno avrebbe più potuto fargli del male.
Ma ora, ora il dolore era insopportabile.
Detestava l’idea di poter morire in quella sudicia stanza, senza più rivedere la luce, il cielo e le stelle.
Senza più rivedere quegli occhi grigi.
La sua piccola.
-Adesso, implora- continuò il suo aguzzino in tono mellifluo, lentamente, passandosi la frusta tra le dita, come un orrendo serpente a sonagli.
-Implora, cazzo!- ripeté spazientendosi di colpo. Poi gli schiacciò la mano con un piede, premendo con sadico piacere, mentre il ragazzo chiudeva gli occhi per non gridare.
Stava perdendo la pazienza con quell’essere senza importanza, e soprattutto gli stava facendo perdere tempo.
-Se non ti levi entro un secondo quel sorrisetto insulso giuro che io…-
-Ora basta, Jonas!- una voce tonante interruppe quelle sevizie, spalancando la porta della stanza.
Il ragazzo aprì un occhio e dalla sua patetica posizione di sottomissione riconobbe immediatamente il direttore dell’ala maschile dell’istituto, il signor Kennington.
-Vuoi forse ucciderlo?!- il suo tono era più infastidito che contrariato, e a denti stretti, James maledisse anche lui. Perché era stato quell’uomo a dare ordine a quell’ottuso di Jonas di punirlo.
Lo avevano scoperto a fare a botte con uno degli orfani, e James che, sebbene avesse quasi quattordici anni, aveva già la forza di un ragazzo più grande, aveva avuto la meglio facendo sfracellare il malcapitato addosso ad una finestra, il quale aveva rotto tutti i vetri.
L’altro era stato medicato e mandato nello stanzone dove alloggiava senza cena.
James Railey invece, che era la bestia nera di tutto l’istituto San Francis, era stato punito dalla frusta di Jonas.
Non era la prima volta che lo picchiavano, anzi ormai era diventata quasi una routine, eppure nessuna di quelle arcaiche punizioni servivano a dargli una lezione e a fargli mettere definitivamente la testa a posto.
Anzi.
Più lo ferivano, e più lui si incattiviva, diventando scontroso, perfido, sprezzante, odioso, per niente rispettoso di chi cercava di metterlo in riga a suon di botte.
Gli altri orfani avevano quasi una sorta di timore reverenziale nei suoi confronti, e bastava un semplice sguardo di quei suoi occhi severi per far abbassare la testa a chi lo fissava troppo a lungo. Lui invece chinava il capo solamente se lo prendevano a bastonate. E anche lì, neanche un fiato, né una lacrima, né una supplica.
A quattordici anni era già un capo incontrastato.
Solitario e arrogante.
Meditava da tempo di scappare, e più di una volta ci aveva provato, ma lo avevano sempre riacciuffato, e allora erano state di nuovo botte a non finire.
Per cui si era quasi rassegnato ad aspettare di compiere i sedici anni per andarsene definitivamente. Quasi… Nessuno era mai riuscito a mettergli le catene ai piedi.
Si sentiva nato per volare.
Spiccare il volo e andarsene da quel posto orripilante.
Se solo non ci fosse stata lei.

-Signor Kennington stavo dando una sonora lezione a questo…- tentò di giustificarsi Jonas, ma quello lo interruppe con un secco gesto della mano, fissando a lungo il ragazzo a terra, sanguinante.
-Lo vedo da me, ma le ho anche detto che i ragazzi bisogna punirli non ucciderli, è chiaro?!-
-Signore…-
-Jonas, non è la prima volta che ti avverto. La prossima volta sarò costretto a prendere provvedimenti- e il suo tono non ammetteva repliche.
-Sissignore-
-Sissignore- James sogghignò con voce impercettibile gustandosi fino in fondo la redarguita di quell’idiota, ma evidentemente Kennington lo aveva sentito visto che si girò nuovamente dalla sua parte, guardandolo accigliato, e senza troppe cerimonie lo prese per un braccio, rimettendolo brutalmente in piedi, facendolo stavolta urlare per il dolore a causa delle piaghe sulla schiena che tiravano la pelle in maniera atroce.
Gli diede uno schiaffo in piena faccia, fissandolo dritto negli occhi, a pochi centimetri da lui.
Se Jonas aveva tutto il suo disprezzo, per Kennington provava un odio vero e proprio.
Perché gli assomigliava terribilmente.
E nella parte più recondita del suo cervello un giorno avrebbe voluto essere come lui.
Forte e spietato.
Odiato e rispettato.
Temuto e considerato da tutti.
-Ti diverti eh? Ti diverti da matti a prenderci tutti per il culo, non è vero?- mormorò tra i denti, quasi sibilando.
James si passò un dito sul labbro sentendo qualcosa di caldo bagnargli i denti, e quando si fissò la punta delle dita le vide macchiate di sangue. Ma non se ne curò e tornò a fissare il direttore con aria di irritante strafottenza.
-Io però mi sono rotto di te e dei tuoi giochetti, quindi…O la smetti di darci problemi continuamente… oppure la prossima volta…sarò io a farti male, ti è chiaro stronzetto?!- gli teneva il braccio con forza, stringendoglielo fermamente, impedendogli qualsiasi movimento.
James lo fissò di rimando con aria sfrontata, di sfida, per nulla intimorito, e un attimo dopo, per tutta risposta, un potente sputo colpì in piena faccia il direttore.
Kennington lo fissò sgomento, l'espressione stupita. Non riusciva mai ad abituarsi a quel suo atteggiamento rivoltante. Era come se lo sfidasse continuamente, incurante della punizione o dei suoi metodi brutali. A volte si chiedeva se per caso non volesse essere ammazzato di botte da lui stesso. Forse la considerava una prova da duro, forse voleva fargli capire che nessuno lo avrebbe legato, forse che  i suoi metodi gli erano completamente indifferenti, fatto sta che la sua incoscienza non aveva limiti.
E né, a questo punto, il suo buonsenso.
Rimasero in silenzio così, per quello che parve un'eternità dopodiché il direttore si pulì lentamente il volto, disgustato, con un fazzoletto, in silenzio.
Poi, dopo aver lanciato un'altra occhiata inferocita al ragazzo, si rivolse nuovamente a Jonas, il quale capì al volo che cosa aveva in mente Kennington.
Ne era cosciente anche James.
-Jonas, altre dieci- disse seccamente, con voce incolore, tornando a fissare il ragazzo, senza staccargli gli occhi di dosso.

Continua a provocarmi, ma ti giuro che prima o poi me la pagherai.

Quello, con un ghigno di trionfo, si sfregò deliziato la frusta insanguinata tra le mani all’idea di fargliela pagare ancora per la sua sfrontatezza.
-Sissignore-
                                           
                                                                                                                                 ***


Si era coricato su un fianco perché di dormire supino non se ne parlava.
Nel buio aveva gli occhi aperti, fissi nel vuoto. Respirava a fatica, e ogni volta che il petto, gli si abbassava e poi si risollevava era una tortura atroce.
Non pensava a niente se non al miglior modo per vendicarsi un giorno di chi lo aveva ridotto a quel modo.
La schiena era in fiamme, e il solo contatto con la stoffa leggera del lenzuolo gli doleva da morire.
Si sentiva la faccia gonfia, pesta e non riusciva quasi ad aprire un occhio talmente era stata violenta la botta in testa che aveva preso.
Immobile respirava piano, senza riuscire a dormire, quando gli parve di sentire un piccolo rumore provenire dalla finestra accanto al suo letto.
Piccoli tocchi come se qualcuno stesse tirando qualcosa contro il vetro.
Si voltò molto lentamente, e con una smorfia di dolore riuscì a spostarsi sull’altro fianco, quando gli parve di intravedere fuori, sulla piccola balaustra una sagoma esile, appena rischiarata dal tenue bagliore della luna.
Allora guardò meglio fuori e si accorse che quella figuretta era lei!
Si alzò lentamente, cercando di fare meno rumore possibile per non svegliare gli altri compagni, e andò ad aprire il vetro.
-Si può sapere che ci fai qui?- le domandò bruscamente, mentre lei stava per lanciare un altro sassolino contro la finestra.
L’ultima cosa che voleva era che lo vedesse in quelle condizioni deplorevoli, ma del resto lei era sempre stata imprevedibile.
Era a torso nudo, perché la sola idea di indossare anche la più leggera stoffa sulla pelle martoriata lo faceva impazzire, e addosso portava i pantaloni del pigiama.
-Volevo vedere come stavi-
-Sto bene, ora vattene- replicò lui a bassa voce, girandosi indietro per assicurarsi che nessuno li vedesse.
-Jonas ti ha picchiato di nuovo?-gli domandò con aria costernata e profondamente preoccupata.
-Sì, ma non ha importanza- le rispose frettolosamente -Ora tornatene nel tuo alloggio se non vuoi che puniscano anche te-
-Stai sanguinando- gli fece lei, ignorando le sue parole, e guardando aldilà di James la chiazza scura sul lenzuolo.
-Smettila di preoccuparti per me ti ho già detto che sto bene-
-Non ti credo. Ti tocchi sempre l’orecchio quando dici una bugia- gli sorrise lei con semplicità.
Lui la guardò per la prima volta lievemente stupito, abbozzando quasi qualcosa che assomigliava ad un sorriso, ma poi ritornò a quell’espressione tesa e incattivita.
-Non mi va di passare dei guai anche per causa tua, per oggi ne ho abbastanza. Lee vattene a dormire, è tardi- sospirò fissando con aria quasi paterna quella ragazzina di nove anni, magra come un chiodo, dai profondi occhi grigi.
Indossava una leggera camicia da notte ed era venuta a piedi scalzi dal suo dormitorio, fino alla stanza dove alloggiava James, passando di soppiatto per una balaustra che costeggiava i finestroni dell’istituto.
Lo faceva spessissimo, poiché durante il giorno era raro che maschi e femmine si riunissero, ad eccezione dei pasti, quando si ritrovavano tutti a mensa.
James era il suo migliore amico, l'unico che le volesse bene lì dentro.
Era stata la prima persona con cui aveva scambiato una parola e che gli aveva detto che se mai avesse avuto dei problemi con qualche ragazzino, avrebbe dovuto chiamarlo immediatamente. Con lei si era da subito comportato in maniera paterna, gentile e stranamente rispettosa a differenza di tutti gli altri con i quali era sempre apparso scorbutico, altero, distaccato e strafottente.
James era  stato fin da principio il suo papà, sebbene avesse appena cinque anni più di lei, eppure nella sua irrequietezza era sempre stato il più pacato tra i due e il più serio. Lui le aveva dato fin da subito l'impressione di un ragazzino cresciuto troppo in fretta, diventato già uomo fin da bambino, e proprio per questo motivo Lee aveva trovato in lui una figura di riferimento e di tacito rispetto.
Gli voleva un bene semplice, sincero, infantile, e mentre tutti lo vedevano come un pericoloso attaccabrighe, lei lo considerava come il suo eroe.
Semplicemente perchè si era mostrato buono nei suoi confronti.
Era sempre stato un po' brusco e taciturno, questo sì, perché la parlantina e la loquacità non erano mai stati il suo forte, eppure Lee credeva ciecamente in lui e sapeva con certezza che semmai ne avesse avuto bisogno, lui ci sarebbe sempre stato. Solo ed esclusivamente per lei.
-Jamie?- Lee lo fissava dritto in quegli occhi belli e intensi: poteva vedere l'ovale pallido del viso sofferente di lui, appena rischiarato dalla luna.
-Dimmi-
-Tieni- disse a voce bassissima, porgendogli una piccola scatola.
Lui la prese tra le mani, rigirandosela con espressione circospetta.
-Che...che cos'è?- le chiese bruscamente.
-L'ho rubata alla signora Novacek. E' una pomata per le bruciature. Lei ce la mette sempre quando ci sbucciamo le ginocchia. Credo sia al mentolo. Starai meglio se te la spalmi sulla schiena- mormorò timidamente. Lee pregò che ci fosse abbastanza oscurità perché James non vedesse il rossore lieve sulle sue guance.
-Tu... cosa hai fatto?!- le domandò piano, guardandola sbalordito. -Sei impazzita?-
-Tsk invece di ringraziarmi. Scorbutico e antipatico come sempre- sbuffò lei incrociando le braccia sul petto -Guarda che non è stato affatto semplice!-
-Lo credo bene. Ma insomma, si può sapere, come...come hai fatto a sapere che...-
E poi un conto era una piccola sbucciatura sul ginocchio, un conto erano delle piaghe purulente dovute ad una frusta. James continuava a sentirsi la schiena in preda ad un bruciore atroce.
-Quante storie che fai! Insomma ti serve o no?- chiese lei in tono pratico, sbrigativo. Lo aveva visto, quello stesso pomeriggio, quando Jonas lo aveva preso per un braccio, subito dopo averlo scoperto fare a botte con l'altro ragazzino, e aveva immediatamente immaginato le conseguenze. Del resto non era la prima volta che Jamie assaggiava la frusta di Jonas, ed ogni volta che lo vedeva, il giorno dopo la punizione, aveva un aspetto spaventoso, l'andatura gobba e cascante per giorni, la faccia stravolta, ancora più scorbutico del solito.
E incredibilmente spaventato.
-Mi servirebbe un seghetto e una corda- sogghignò lui, riferendosi ad una fuga dall'istituto. Ma sapeva che era un'impresa praticamente impossibile da realizzare.
E magari un coltello per uccidere Jonas
-Beh al momento ho a disposizione questo, quindi accontentati. Comunque non ringraziarmi troppo mi raccomando- borbottò offesa. -E poi non dovrebbe servirti, visto che stai bene, no?- aggiunse, gli occhi ridotti a due fessure.
Lui parve di nuovo spiazzato da quella sua affermazione, ma poi riassunse di nuovo l'espressione accigliata di sempre -Sì infatti non ne ho bisogno. Ormai la mia pellaccia si è abituata alle scudisciate di quello str... di quell'idiota di Jonas- le rivolse un sorriso sprezzante -Però la tengo per precauzione. Non si sa mai-
Lee sorrise tra sé e sé.
Come lo conosceva bene.
A giudicare dal colorito terreo della sua faccia stava soffrendo in maniera indicibile, e il fatto che perdesse sangue dalle ferite non faceva che aumentare le sue certezze. Ma lui non gliela avrebbe mai data vinta. Non avrebbe mai confessato di patire per le botte ricevute, né l'avrebbe supplicata di trovargli un modo efficace per alleviare quel dolore.
Stava all'intelligenza di Lee capirlo e aiutarlo senza che lui si sottomettesse a parlare. Conoscendo il suo stramaledettissimo orgoglio sarebbe stato capace di stringersi tra i denti un panno in bocca pur di non gridare o contorcersi per il dolore. E lei era sempre l'unica che sapeva cosa doveva o non doveva fare. Come prenderlo, e come evitare di incorrere nelle sue sfuriate e nei suoi mutismi. Era anche grazie a questo suo carattere bizzarro che aveva imparato a crescere più in fretta delle bambine della sua età.
Ma per lei non era mai stato un problema. Tutto ciò che per gli altri era un problema per lei rappresentava la normalità.
Come accadeva anche con James Railey.
Il suo migliore amico.
-Okay, allora meglio così. Vuol dire che ho fatto un viaggio a vuoto- replicò con un'alzata di spalle, indifferente.
-Me ne vado. Buonanotte!- disse voltandogli le spalle.
-Okay, 'notte- borbottò di rimando lui, ma poi Lee ci ripensò su e si girò di nuovo a guardarlo -E quelle piaghe fasciale con un lenzuolo pulito. Il contatto con l'aria e lo sporco te le rendono ancora più insopportabili. Ciao!- e detto questo percorse di nuovo il cornicione in senso opposto, rasente il muro, con l'incoscienza di un ragazzina che non si rende conto che un piede in fallo l'avrebbe fatta cadere di sotto spezzandole di netto l'osso del collo.
Finalmente James potè sorridere mentre guardava quella figuretta allontanarsi rapidamente e svanire nel buio.
Era pazza, indiscutibilmente, ormai non c'era altra spiegazione.
Sottrarre un medicinale dall'infermeria, uscire dalla propria camerata, rischiando di farsi scoprire da una delle istitutrici, scavalcare la finestra e passare lungo la balaustra per arrivare fino a lui, tirargli sassolini dalla finestra per svegliarlo, e portargli qualcosa che gli desse un po' di sollievo. Solo per quello era davvero roba da pazzi.
Ma lei era così.
Semplicemente. Eppure non riusciva mai ad abituarsi.
E rigirandosi la scatola tra le mani, con un mezzo sorriso, riuscì a mormorare, tra sé, solamente

Grazie

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Salve a tutti cari lettori! Eccomi a pubblicare una nuova storia, completamente diversa da Aldilà dell'infinito, per ambientazione e trama, ma unita dal filo sottile dei sentimenti e del realismo che cerco di dare costantemente ad ogni mia creazione.
E' un piccolo progetto che mi frulla in testa da quest'estate, da quando visitando l'incantevole Londra, e in particolare la splendida abbazìa di Westminster, mi sono soffermata sulla particolarissima cappella della Royal Air Force (termine a cui si riferisce l'aviazione militare inglese) a cui ho accennato all'inizio del capitolo: dunque per chi se lo chiedesse, sì, la Cappella della Raf esiste veramente, e quel buco nella parete c'è eccome!
Per Ardua ad Astra è il motto latino dei piloti di Sua Maestà e letteralmente significa "Attraverso le asperità, verso le stelle".
Ecco a me sembrava il titolo perfetto.
Non solo per la carriera che intraprenderà il protagonista maschile di questa storia, ma anche e soprattutto in senso metaforico, per le difficoltà della vita a cui James in primis, e la sua piccola Lee hanno dovuto sottostare fin da quando sono venuti al mondo. Ho appena accennato ai miei due nuovi protagonisti volutamente: ho cercato di tratteggiare appena il carattere scontroso e ribelle di James, e quello scanzonato di Lee, perchè ho intenzione di approfondirlo dal prossimo capitolo. Sono ancora due ragazzini, ma alcuni atteggiamenti saranno una costante del loro  carattere.
Il rating è rigorosamente rosso visto che ho in mente diverse scene non adatte a tutti i lettori, e ho diviso questo capitolo in due parti per non rischiare di renderlo troppo lungo e pesante. Gli aggiornamenti avverranno in base alla mia bizzarra e folle ispirazione :)
Spero che come inizio vi abbia incuriosito e mi piacerebbe sentire qualche parere o critica in merito per poter migliorare o aggiustare qualcosa ^_^
Per ora è tutto.
Grazie di cuore a chi leggerà o a chi vorrà lasciare un commentino che è sempre gradito :D

Un abbraccio e alla prossima
Hime









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Capitolo 2
*** II ***


WARNING: Piccolo avviso. Verso la fine del capitolo, è presente una scena slash, in cui viene cioè descritto in maniera non del tutto esplicita ma abbastanza evocativa, un amplesso yaoi piuttosto violento. Se la cosa vi infastidisce, vi consiglio di passare con lo sguardo a qualche riga dopo.



                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                             




 Mi domando, disse,
 se le stelle sono luminose
 perché un giorno, ognuno,
 possa trovare la propria.                                                                                                                                                                                                    

Antoine de Saint-Exupéry, Le Petit Prince
                                                                                                                                                                                                   
                                
L'ultima punizione gli era rimasta ben impressa, così per qualche giorno, decise di defilarsi un po' dalla vita dell'istituto e di non cacciarsi in qualche impiccio.
Parlava ancora di meno e rispondeva solo se espressamente interpellato: per il resto si chiudeva nei suoi soliti mutismi ostinati e irritanti.
Una sera, prima di andare a dormire, si era messo a sedere sulla balaustra fuori dalla finestra, in silenzio, con le gambe penzoloni, a fissare il cielo e le stelle sopra di sé. Poi aveva preso dalla tasca dei pantaloni una piccola armonica a bocca e se l'era portata alle labbra, fischiettando una melodia strampalata, inventata lì sul momento.
A volte si chiedeva se quel mondo fosse ampio abbastanza per contenere la sua voglia innata di evadere, di scappare da tutto e da tutti, e ogni volta la risposta era sempre la stessa.
No.
Semplicemente il mondo non era mai troppo grande per fuggire dalle umiliazioni, dalle botte, dalla violenza, dalla solitudine, dall'angoscia che lo pervadevano ogni volta che appoggiava la testa sul cuscino cercando di ricacciare indietro le lacrime prima di addormentarsi. Neanche quando tutti riposavano, nel silenzio dello stanzone, e nessuno poteva sentirlo, si azzardava ad abbandonarsi alla tristezza. Non poteva permetterselo. Non aveva ricordi belli, per cui gli pareva assurdo e impensabile piangere per qualcosa che per lui non era mai esistito.
E sprezzante sognava di volare, libero, senza catene.
E pensando, era arrivato alla semplice conclusione di non essere nato per stare sulla terra.
Sollevò lo sguardo alle stelle e si domandò se un giorno avrebbe potuto toccarne una. Forse solo allora avrebbe potuto considerarsi davvero libero, nuotando in quell’immensità senza fine, lontano da tutto e da tutti. Ed era in quello stesso istante che aveva capito che toccare le stelle con le dita, e nuotare tra le soffici nuvole, sarebbe stato il preciso scopo della sua esistenza.
-Ciao-
Una tenera voce infantile lo richiamò alla sua realtà, facendolo girare di scatto e interrompendo il filo dei propri pensieri e della melodia dell’armonica.
Non si era neanche accorto che Lee gli era venuta vicino ed ora era seduta proprio accanto a lui, dondolando le gambe e fissandolo con occhi vivaci e curiosi.
-Ti disturbo?- gli rivolse un sorriso esitante mentre gli porgeva un piccolo involto colorato.
-Uh…No- borbottò lui grattandosi la testa imbarazzato e ricacciando in tasca l’armonica.
-Però devi smetterla di comparire sempre così all’improvviso! Un giorno di questi mi farai cadere di sotto-
-E io verrò con te- sorrise lei, e per un attimo Jamie non capì se diceva sul serio o stava semplicemente prendendolo in giro come sempre.
-Stupida, che cos’è?- le domandò burbero, ignorando di proposito la sua affermazione.
-Aprilo e lo scoprirai- gli rispose lei con un’alzata di spalle e un sorriso misterioso.
James la fissò con aria non troppo convinta poi le prese il pacchetto dalle mani e lo scartò continuando a lanciarle strane occhiate –Guarda che non c’è una bomba dentro, non aver paura!-
-Io non ho paura- sbuffò lui arricciando il labbro in segno di sfida e finito di aprire la carta si trovò davanti agli occhi un delizioso muffin cosparso di tante piccole gocce di cioccolato.
-E questo?- non capiva perché lei glielo avesse portato. Non gli veniva in mente alcuna motivazione particolare. Non era il suo compleanno, e anche se lo fosse stato sapeva che odiava festeggiarlo, e a quanto ricordava non era neppure quello di Lee, e allora perché?
I gesti gentili non facevano parte di lui, né le smancerie. Lei invece gli portava sempre qualcosa che gli facesse piacere, nonostante lui la rimproverasse di continuo.
E nonostante questo, James si stupiva ogni volta della sua ostinazione.
-E’ per te, sciocco!-
-Non è il mio compleanno- ribatté lui cercando di apparire il più distaccato possibile mentre si rigirava l’incarto tra le mani.
In realtà era estasiato.
Allora Lee prese dalla tasca della gonna una scatolina di cerini, ne sfregò uno sulla superficie ruvida e lo accese, dopodiché lo infilzò sulla punta del dolce.
-Ma che ti salta in testa?- fece lui, sempre più stupito e lei per tutta risposta lo fissò con uno sguardo intenso e muto.
I loro visi, vicinissimi, erano appena rischiarati dalla tenue fiammella del fiammifero.
-Dobbiamo fare una promessa- cominciò lei in tono solenne, da cospiratore.
James inarcò un sopracciglio, sempre più stupito -Una promessa? Che genere di promessa?- le chiese a voce bassissima.
Se li avessero scoperti li avrebbero puniti entrambi finché non avrebbero avuto più fiato, ma mentre James era incurante di quello che rischiava, per Lee non era propriamente la stessa cosa. Lei non aveva mai assaggiato una frusta, o una bastonata sulle ginocchia, e al solo pensiero che potesse anche subire in minima parte quello che avevano fatto a lui, rabbrividì di terrore.
Per questo con modi spicci, le intimò di ritornare a letto.
Ma lei non lo ascoltò.
-Prima dobbiamo fare una promessa- continuò lei, imperterrita.
-Okay ma sbrigati. Se Jonas ci scopre ci farà ricordare la tua promessa finché campiamo- sogghignò.
Ormai non gli faceva più paura come prima, ma temeva per Lee. Nessuno doveva sfiorarla con un dito, tantomeno quell’individuo viscido e ripugnante.
-Dammi la mano-
Jamie continuava a fissarla sempre più sbalordito, ma alla fine decise di ubbidirle e le porse la mano. Lei gliela strinse, e il contatto con quelle dita sottili e delicate gli lasciò nel cuore un vago senso di tepore.
-Giuri che io e te non ci lasceremo mai?-
James le rivolse un mezzo sorriso sorpreso –Lee ma che razza di…-
-Giuralo!-
Continuava a non capire.
-Okay, se ti fa piacere, lo giuro- sbuffò, sospirando per assecondarla.
-E mi giuri che non ti dimenticherai mai di me? Neanche tra dieci o venti o trenta anni?- continuò lei, gli immensi occhi grigi a fissarlo come pezzi di quel cielo scuro che tanto amava.
Cominciava a sentirsi lievemente a disagio.
-Lee la smetti, sembra che…-
-Giuralo!- esclamò con un tono perentorio che mai si sarebbe aspettato da una bambina di nove anni.
-E va bene…e poi lo sai che non ti dimenticherò, che bisogno c’è adesso di giurarlo così-
-E mi amerai per tutta la vita?-  stavolta la richiesta era giunta totalmente inaspettata, mentre continuava a guardarlo senza mollare di un centimetro i suoi occhi azzurri.
-Giuralo-
La sua voce ora si era fatta quasi impercettibile.
James rimase in silenzio per un po’, cercando di capire dove lei volesse arrivare.
-Lo sai che ti vorrò sempre bene perché devo ripetertelo?- cominciava a spazientirsi perché odiava dover dimostrare ciò che provava a parole.
-Okay- poi Lee tornò a fissare il dolce che custodiva tra le mani poste a coppa e assunse un espressione pensierosa –Anch’io lo prometto. Prometto davanti questo muffin che io ti amerò per sempre, e che qualunque cosa succeda non ti dimenticherò mai- disse solennemente, poi tornò a guardare Jamie con un sorriso infantile e gli porse il dolce
-Ora soffia!-
Spensero contemporaneamente il fiammifero e un secondo dopo scoppiarono in una risata complice, di cuore, poi James le fece cenno di abbassare la voce per non svegliare gli altri e spezzò a metà il dolce.
-E questo stavolta dove lo avresti trovato?- le chiese dopo un po' lui incuriosito, mentre si metteva in bocca la sua parte, assaporandola piano.
Stavolta però il viso di Lee si rabbuiò improvvisamente mentre prendeva a smollicare il suo muffin e a gettare metodicamente le briciole di sotto.
-Ehi ma che fai? Se non ti piace puoi darlo a me!- protestò lui indignato. Erano secoli che non assaggiava una delizia simile e sprecarla in quel modo gli pareva inconcepibile.
-Tra due giorni dei signori verranno a prendermi- disse solamente, con voce spezzata.
James credette di non aver compreso bene.
Per poco non si strozzò con il dolce.
-Ch…che significa, scusa? Quali signori?-
-Non lo so. Me lo ha detto stamattina la signora Novacek. Ha detto che sono molto buoni e non hanno figli e vorrebbero…-
-Okay, ho capito- disse lui seccamente.
Aveva afferrato al volo il motivo di quelle sue bizzarre richieste.
Ora Lee aveva le lacrime agli occhi.
-Ti hanno adottato- sospirò come se fosse stata la cosa più naturale del mondo -Beh, funziona così. Loro vengono qui e scelgono un bambino carino, buono ed educato. E stavolta hanno scelto te, contenta?- ribatté con aria di sufficienza, girandosi a lanciare un sassolino lontano, davanti a sé. Le gambe che penzolavano nervosamente.
-No! Non sono contenta!- gli rispose lei stizzita -Io non voglio andarmene da qui! Non voglio! Ma sembra che a te non importi nulla!-
-Abbassa la voce o sveglierai mezzo dormitorio- mormorò Jamie rivolgendole un’occhiataccia -Se i grandi hanno deciso così, devi andare e basta. Ritieniti fortunata che hanno scelto te e non un neonato. Perché in genere più piccoli sono e meglio è. Sono sicuro che ti troverai molto meglio che in questo postaccio- replicò in tono calmissimo continuando a lanciare minuscoli sassolini verso l’oscurità.
-Quindi tu… tu saresti contento se io me ne andassi- mormorò lei a bassa voce, tirando su con il naso e guardandolo dritto in faccia con gli occhi pieni di lacrime.
-Te l’ho detto se hanno deciso così tu devi obbedire capito? Tu sei solo una piccola bambina, non puoi farci niente- le disse stancamente con un tono di superiorità.
-Non è vero! Tu non hai mai obbedito a nessuno, perché devo farlo io?-
Sembrava che non volesse sentire ragioni.
-Tu devi obbedire, altrimenti ti ritroverai come me-
-Non mi interessa, io voglio stare con te! Perché non ce ne andiamo da qui? Scappiamo!- gli prese entrambe le mani, ma James scoppiò in una risata stridula, acida che gelò tutte le sue misere speranze.
-Sei impazzita? Tu non ti rendi proprio conto di quello che dici. Ti conviene accettare tutto quello che ti daranno i tuoi nuovi genitori, perché ti faranno fare una vita molto più bella-
-Io non voglio andare via con quei signori! Jamie ti prego fai qualcosa- lo implorò, ma lui le rivolse un’occhiata infastidita.
-Smettila di piagnucolare. Starai benissimo, devi solo abituarti all’idea. Di sicuro non ti faranno dormire nella stessa stanza con altri venti ragazzini, e non ti daranno per cena quelle brodaglie schifose che mangiamo qui-
Quante volte aveva sognato qualcuno che gli rimboccasse le coperte prima di andare a dormire. E magari qualcuno che gli raccontasse una bella storia.
E quanta paura che aveva del buio!
La piena oscurità lo terrorizzava, per questo spesso fuggiva di fuori a guardare la luce delle stelle dove c’era un tenue bagliore a rappresentare l’unica luce di conforto.
Il conforto.
Quello che a lui non era mai stato dato.
-Non ti dispiacerà neanche un pochino?- gli chiese lei in un bisbiglio asciugandosi gli occhi con il dorso della mano.
-Sciocca, certo che mi dispiacerà, ma so anche che con i tuoi nuovi genitori starai molto meglio- ma mentre diceva quelle parole la sua voce gli suonò fastidiosamente falsa e affettata.
-Dici davvero?- le sue parole sembrarono confortarla.
-Sì, ne sono sicuro. Certo però che sei scorretta- sbuffò lui incrociando le braccia, tentando di sdrammatizzare.
-Io? Perché?-
-Perché già sapevi tutto quando mi hai fatto fare la promessa-
E forse già sapevi cosa era più giusto per te
-Lo so, ma non potevo non dirti niente- replicò lei quasi a volersi scusare. Delle volte James le metteva addosso una curiosa soggezione che la faceva sentire in dovere di giustificarsi anche per le piccole cose. Figurarsi questa.
-Credo…credo che mi mancherà tutto questo. Tu mi mancherai- e nel modo in cui glielo disse c’era qualcosa di così diretto e profondo che lui provò quasi una stretta al cuore.
Tuttavia cercò di non badarvi e abbassò la testa a fissarsi le ginocchia -Starai molto meglio con la tua nuova famiglia, vedrai e poi, quando ne avrai voglia potrai sempre tornare a trovarmi non ti pare?-
-S-sì, ma non sarà più la stessa cosa, lo sai- mormorò Lee cominciando anche lei a tirare piccoli sassolini verso l’oscurità avanti a sé -E poi tu fra un po’ te ne andrai da questo posto-
E chissà se ti rivedrò mai più. Tu non sei fatto per le cose stabili, dove tutto è già scritto.
Tu sei imprevedibile, e volerai lontano da tutto e da tutti.
Lo so.
-Beh spero proprio di andarmene prima o poi. Più prima che poi, in effetti. E quando avrò compiuto sedici anni mi arruolerò, ho deciso. Sarò un pilota della Raf!- asserì solennemente, e in quell’istante, mentre lo fissava di sottecchi, scrutandogli il profilo dai tratti definiti e regolari, a Lee sembrò già molto grande e bello.
-La Raf? E cosa sarebbe?- chiese lei ingenuamente.
James la guardò con aria di sufficienza. A volte la trattava quasi come una bimba piccolissima a cui si devono spiegare solo le cose semplici semplici. Lui dall’alto dei suoi quattordici anni si sentiva un uomo vissuto.
-La Raf è l’aviazione militare di Sua Maestà- disse scandendo bene le parole, in tono pieno di orgoglio -Conosci Walter Beech?-
-No-
James alzò gli occhi al cielo.
-E Eugen Bullard?-
-E chi è?-
-E’ ovvio che non li conosci sei ancora piccola- sogghignò, cosciente di farla arrabbiare.
-Io non sono piccola!-
-Okay, scherzavo. Beh, comunque io diventerò come loro. Sarò un aviatore, e volerò sui mari e nel cielo-
E nessuno potrà prendermi, sarò più veloce della luce.
-Un aviatore?- Lee lo fissò a bocca aperta, piena di genuina ammirazione.
Era la prima volta che Jamie le parlava dei propri sogni e dei suoi progetti dopo l’orfanotrofio.
Lui annuì convinto mentre giocherellava con la carta in cui avevano avvolto il muffin.
-Sì, voglio essere un pilota e sfidare le nuvole e le stelle e volare più in alto di loro!- disse pieno di enfasi, alzando lo sguardo verso la volta stellata.
Lee alzò gli occhi assieme a lui.
-La vedi quella stella laggiù?- disse mentre le indicava un punto lontano ma luminosissimo.
-Oh sì! La vedo!- esclamò Lee elettrizzata.
-Quella è Sirio, la stella più luminosa di tutte le costellazioni celesti. Io ti prometto che arriverò a toccarla con il mio aeroplano- disse in tono solenne, rivolgendole un sorriso che gli andava da un orecchio all’altro.
-Dici sul serio?- gli occhi grigi della ragazzina brillavano di eccitazione e di entusiasmo. Per lei tutto ciò che diceva Jamie era legge.
-Ti ho mai detto una bugia?-
Scosse energicamente la testa mentre le veniva in mente qualcosa -E quando sarò grande mi porterai con te sulla stella più luminosa di tutte?-
James fece per pensarci un po’ su –Uhm… Non so se sul mio aeroplano ci sarà posto anche per te- fece serio serio ma non appena vide l’espressione delusa di Lee, i suoi occhi e la sua bocca sorrisero di nuovo mentre le arruffava scherzoso i capelli -Sciocca, tu sarai la prima che verrà con me! Ti porterò ovunque, e gireremo tutto il mondo su un aereo. Nessuno potrà prenderci e riportarci sulla terra-
-Mi sembra una bellissima idea!- esclamò Lee buttandogli le braccia al collo con impeto, facendolo barcollare.
-Ehi sta attenta, vuoi farmi schiantare ancora prima di esserci salito su un aereo?- scherzò ricambiando il suo abbraccio veemente.
-Nessuno potrà prenderci, nessuno- ripeté lei a bassa voce, appoggiandogli la testa sul petto, ascoltando i battiti del suo cuore.
Sì Jamie le sembrava davvero grande, bello e forte. Era il suo eroe e un giorno lo avrebbe sposato, ne era sicura.
Rimasero un altro po’ lì a chiacchierare e a fantasticare su quello che il futuro avrebbe riservato loro, poi, James la costrinse a tornarsene in camera sua anche se Lee non avrebbe mai voluto staccarsi da lui e se ne andarono a dormire sognanti e felici nonostante l’imminente separazione.

                                                                                                                  ***

Non si videro più fino al giorno della partenza di Lee.
Era adorabile e graziosissima con un vestitino di lana color verde pastello, gli stivaletti di cuoio marroni, i lunghi capelli biondo miele legati in una lunga treccia che le copriva tutta la schiena, e un delizioso cappellino che la faceva sembrare una piccola principessa.
Si guardava attorno lievemente smarrita, lì nel largo piazzale dell’istituto San Francis, mentre salutava con le lacrime agli occhi una ad una le piccole amiche con cui aveva condiviso tutti quegli anni di orfanotrofio.
Poco distanti l’aspettavano i suoi nuovi genitori: un uomo alto, elegante, dal sorriso caldo e rassicurante, e sua moglie, una bellissima donna giovane, dai lunghi capelli biondi, i signori Keegan.
Lee continuava a guardarsi intorno mentre prendeva congedo dalle sue amiche e dalle sue istitutrici, come se fosse alla ricerca di qualcosa.
Qualcuno.
E finalmente lo vide.
Proprio mentre stava per perdere la speranza lo vide arrivare, e correre trafelato verso di lei.
In mano teneva qualcosa.
-Jamie!-
-Questo è per te- mormorò lui con il fiatone, semplicemente, porgendole un piccolo aeroplano fatto di carta.
Sulle ali aveva disegnato da una parte la sua faccia e dall’altra quella di lei.
-Così voleremo insieme, anche se non ci vedremo tutti i giorni- le spiegò con semplicità, passandosi una mano dietro la nuca, imbarazzato.
Allora lei non resistette e gli gettò le braccia al collo, scoppiando a piangere, disperatamente.
-Jamie…Io…- i singhiozzi le impedivano quasi di parlare –Io non ti dimenticherò mai. Ricordati la promessa-
Lui la staccò piano piano da sé asciugandole le lacrime con la punta delle dita -Me ne ricorderò. E tu non scordare la mia. Un giorno, io e te, sulla stella più luminosa del cielo, okay?- le sussurrò a bassa voce, fissandola intensamente negli occhi, come a imprimersi il ricordo di quel faccino tenero e triste per tutta la vita.
Lei annuì con convinzione -Non dimenticarlo neanche tu però, okay?-
-Ti ho mai detto una bugia?-
-No-
-Bene, allora asciugati quegli occhi e corri dai tuoi- mormorò lui sentendo uno strano peso sul cuore.
-Jamie-
E inaspettato arrivò un piccolo bacio sulla guancia, che lo fece arrossire -Ti voglio bene Jamie, anche questo non scordarlo mai!- e detto ciò gli voltò le spalle e s'incamminò verso la sua nuova vita, senza più girarsi.
James rimase a fissarla finché non scomparve dalla sua vista.
Poi le fece un ultimo, breve cenno della mano mentre lei dall’automobile si sbracciava a salutarlo.
-Ci vediamo su una stella, piccola-


                                                                                                                         ***



Rientrare in istituto con la consapevolezza che Lee, il suo unico conforto e la sua gioia, non c’era più non fu affatto semplice.
James pianse tutte le sue lacrime, chiuso in bagno, lontano da tutti, soffocando i singhiozzi nella manica della sua camicia, finché non si fu calmato, e il suo respiro tornò regolare. Fu solo allora che si decise ad uscire, ma una volta aperta la porta del gabinetto si trovò immediatamente faccia a faccia con Thomas Wentz, il ragazzo con cui giorni prima aveva fatto a botte, e altri due ragazzi con i quali non aveva mai scambiato una parola e conosceva solo di vista.
Erano tutti e tre di un anno più grandi di lui e avevano una faccia minacciosa, che non prometteva niente di buono.
-Che cazzo vuoi?- gli domandò a bruciapelo James, pregando che non si accorgesse dei suoi occhi rossi. Nessuno doveva vederlo debole e indifeso.
-La signorina ha appena pianto per caso?- lo canzonò il ragazzo girando la testa a fissare i suoi due compari con un ghigno malevolo e compiaciuto.
-A quanto sembra la tua piccola amica se ne è andata. Povero piccolo Jamie Boy- sghignazzò quello in tono derisorio.
James fece finta di non sentire le sue parole e fece forza sul proprio autocontrollo già molto precario.
-Non ti sono bastate le legnate che ti ho dato l’altro giorno?- gli chiese di rimando, con aria strafottente, fissandolo dritto negli occhi, con aria di sfida.
Thomas Wentz aveva occhi neri come pece, freddi, e possedevano la stessa determinazione e lo stesso fuoco bruciante di quelli di James. Si guardarono a lungo, in silenzio, poi Wentz prese un lembo del grosso cerotto che gli avevano applicato sulla parte destra del volto dopo che si era ferito con i vetri della finestra su cui era caduto, e lo sollevò senza dire una parola, quel tanto che bastava a mostrare una lunga ferita rosso vivo che partiva dallo zigomo destro percorrendo tutta la guancia fino alla bocca, dandogli un ghigno minaccioso, quasi diabolico.
James fissò la cicatrice inorridito.
-La vedi questa?-  disse lentamente in tono mellifluo, nascondendo di nuovo la ferita sotto la medicazione -Questo è il piccolo regalo che mi hai fatto l’altro giorno-
-Non posso farci niente se i vetri della finestra ti sono venuti in faccia- rispose James sentendo un lieve tremito di paura dentro di sé. Fece per superare il terzetto e andarsene ma i due che spalleggiavano Thomas gli si pararono davanti, bloccandogli il passaggio.
-Giusto, non è colpa tua se avrò in faccia questa cicatrice per tutta la vita. Però…- si fermò un attimo, come se stesse per dire qualcosa di importantissimo -Ora che ci penso, non mi interessa affatto!- e un attimo dopo, un violento quanto inaspettato colpo alla schiena lo fece stramazzare a terra con un gemito.
I tre lo circondarono immediatamente, mentre lui cercava prontamente di rialzarsi ma un altro calcio, dritto alla bocca allo stomaco lo fece cadere di nuovo, facendogli sbattere la testa contro il lavandino.
Tramortito dalla botta James tentò di rialzarsi una seconda volta, ma quattro braccia, due da una parte, e due dall’altra, lo afferrarono per le spalle rialzandolo di peso, e rimettendolo in piedi, bloccandolo con le spalle al muro. Thomas Wentz gli stava di fronte, sfidandolo con un ghigno soddisfatto. Avevano la stessa considerevole altezza, pur essendo due adolescenti, e quindi potevano guardarsi dritti negli occhi: James lo fissava sprezzante, con tutto l’odio di cui era capace, Wentz invece continuava ad avere quel sorrisetto odioso stampato sulla faccia.
-Ti conviene che i tuoi compari rimangano qui a tenermi fermo, altrimenti potrebbe andarti male bastardo!- gli gridò sprezzante James che cercava con tutte le proprie forze di liberarsi dalla presa dei due.
Thomas gli rise in faccia -La tua arroganza non manca mai, a quanto vedo- ribatté sarcastico -Peccato per te che noi siamo tre e tu sei uno e quello che farà una brutta fine non sarò di certo io, ti è chiaro amico?- sibilò avvicinandosi a lui e sfiorandogli i folti capelli castani con la punta delle dita mentre James si dimenava furibondo, come un leone in gabbia, urlando improperi irripetibili. Allora Wentz si staccò un po’ di più, lievemente infastidito da tanto chiasso e fece per voltargli le spalle.
-Cos’è non ce l’hai il coraggio per sporcarti le mani? Sei solo un vigliacco Thomas Wentz!- lo schernì James con odio, sputandogli addosso, ma un secondo dopo, quello si girò di nuovo e gli sferrò un pugno dritto in faccia, talmente violento che per un attimo vide tutto nero.
Un crack.
E poi un dolore fortissimo.
Gli aveva rotto il naso.
-Questo è per la mia cicatrice- sogghignò soddisfatto Thomas, mentre gli altri due che lo tenevano immobile esultavano eccitati.
Poi un altro pugno, feroce, di nuovo allo stomaco, che lo fece curvare pericolosamente in avanti, con la testa piegata sul petto a bagnargli di sangue la camicia.
-E questo, bamboccio, per tutte le volte in cui hai creduto di essere il più forte…E invece non eri nessuno…-
I due lo tirarono su di peso, ancora una volta, e un terzo pugno gli arrivò al fianco, e un altro ancora di nuovo in faccia, spaccandogli un sopracciglio, e altri due ancora in pancia, e quando ebbe finito, Thomas Wentz respirava affannosamente, fissando James, che ormai non si reggeva più sulle proprie gambe e aveva la testa ciondoloni.
-Lasciatelo!- ordinò agli altri due compagni, perentoriamente, e loro obbedirono, mollando la presa e facendolo afflosciare come un burattino, senza più fili, ai loro piedi.
Al contatto della sua faccia tumefatta e insanguinata contro il freddo del pavimento, James rabbrividì ma trovò ancora la forza di alzare lo sguardo verso Thomas e di sfidarlo con tutto l’odio e la rabbia di cui era capace.
-Adesso metterai in bocca quello che io ti darò- lo minacciò sottilmente Wentz, mentre da sotto, James lo fissava come un cane rabbioso, respirando affannosamente, il sangue che gli colava lento dal naso -Altrimenti stavolta io ti ucciderò-
La sua minaccia era ipocritamente carezzevole ma ugualmente terrificante.
Allora cominciò a fare quello che James non avrebbe mai sognato nemmeno nel peggiore dei suoi incubi.
Wentz iniziò lentamente a sbottonarsi i pantaloni, fissandolo con uno sguardo eccitato, da pazzo.
No, dimmi che non lo farà.
Io non…
-Ora obbedirai in silenzio, altrimenti ricomincerò a darti tante di quelle botte che rimpiangerai questo momento per tutta la tua schifosissima e inutile vita- e detto questo con un solo gesto lo strattonò per i capelli, facendolo gemere per il dolore, e se lo avvicinò all’inguine.
James poteva sentire solo le risatine di quei due, dietro Wentz mentre questo sempre più eccitato si slacciava anche l’ultimo bottone.
Allora capì che doveva reagire.
Non poteva soccombere a quel modo.
Doveva fare qualcosa.
Finse di non opporre resistenza in modo che Wentz smettesse di tenergli la testa premuta contro le proprie parti intime, e un secondo prima che lui liberasse la propria virilità già bella che eccitata gli diede un violento morso sulla mano, attaccandosi al palmo con tutta la forza che aveva in corpo.
-Brutto pezzo di…- Wentz urlò per il dolore mentre tentava di staccarsi da quella presa infernale.
Dovette intervenire immediatamente uno degli altri due e dargli un violento calcio nello stomaco per fargli mollare la presa.
-Mi ha quasi staccato la mano questo lurido figlio di puttana!- gridò Wentz inorridito, tenendosi con l’altra mano quella che James aveva morso e che ora sanguinava copiosamente.
Ora era lui, che aveva preso a sghignazzare in maniera scomposta, irridente –Sei…sei solo un povero scemo- continuò ridendo irrefrenabilmente, gettando la testa all’indietro, e riprendendo a ridere e a gemere per il dolore finché non ebbe più fiato e non sentì che gli altri due lo avevano bloccato di nuovo, facendolo rudemente stendere in posizione prona; ora uno gli sedeva sulla schiena, tenendolo fermo, con la faccia premuta a terra, l’altro gli aveva bloccato i polsi sopra la testa, con entrambe le mani.
-Io…io adesso sarei lo scemo, eh?- sorrise sprezzantemente Thomas, pronto a vendicarsi di nuovo, mentre con un gesto rapido della  mano sana finiva di slacciarsi i pantaloni e si chinava a cavalcioni su James, schiacciandolo con tutto il suo peso.
-No, non…- lanciò un grido soffocato, mentre avvertiva Wentz vicinissimo a sé.
Troppo vicino.
-Non farlo non…-
Lui emise una risata perfida, malvagia –Che c’è, adesso non fai più lo spaccone?!- ansimò mentre gli immobilizzava le gambe che scalciavano disperatamente, stendendosi con il proprio corpo.
-Adesso tu hai paura, non è vero?- sogghignò mentre armeggiava per abbassargli i pantaloni.
-Hai molta paura, perché io posso farti del male, vero?- ripeté Wentz sempre più eccitato.
La sua eccitazione cresceva in maniera proporzionale al terrore che poteva avvertire nel ragazzo sotto di sé.
Ma quel tremore, quel sudore freddo, quel gemito di paura lo facevano sentire ancora più forte e onnipotente.
La paura.
Quel sentimento che tutti loro conoscevano così bene.
Lo sentiva.
Sentiva bene quel ragazzo tremare sotto di sé, incontrollabilmente.
E più lui scalciava per liberarsi e più Wentz si eccitava.
-Fatelo tacere- ordinò ai due compari bruscamente.
Uno dei due gli cacciò in bocca a forza un panno che quasi lo soffocò.
Così con un’ unica, violentissima spinta entrò in lui, lacerandogli la carne e facendolo urlare per il dolore.
E fu l’urlo più straziante e acuto che i tre, e James stesso, nonostante il panno in bocca, avessero mai potuto sentire.
Lo tramortirono con uno schiaffo per farlo tacere, mentre Wentz ansimava, grugnendo e muovendosi ritmicamente dentro di lui con colpi implacabili, decisi, spietati, ma quel colpo non servì ugualmente a non fargli provare quel dolore nuovo, schifoso, rivoltante, indicibile che gli era stato completamente sconosciuto fino ad allora.

                        
                                                                                                                         ***                            


Rimase fermo e inerme, senza muovere un muscolo finché anche l’ultimo del terzetto non ebbe infierito su di lui, e dopo che questo si fu allacciato i pantaloni con un sorriso soddisfatto, lo liberarono, lasciandogli i polsi.
-Non c’è che dire sei proprio tenero come una femminuccia!- ridacchiò Wentz sguaiatamente dandogli un buffetto su una guancia, mentre James continuava a tenere gli occhi chiusi, il sangue rappreso al naso, senza quasi più respirare.
Sembrava morto.
-Cazzo Thomas, ci sei andato giù pesante stavolta- ridacchiò uno dei due rivolgendo un’ultima occhiata al ragazzo a terra, seminudo, immobile.
-Non è che lo hai ammazzato?- rise l’altro compiaciuto ed elettrizzato all’idea di quella bravata.
Wentz gli lanciò una lunga occhiata carica di disprezzo, poi gli diede un colpetto sul fianco con il piede -No, non è morto. Questo stronzo non lo vorrebbe neanche l’inferno, statene certi. Ora andiamocene però, non vorrei che Jonas o uno di quei bastardi ci ricambiasse il favore- disse prudentemente il capetto del trio.
Gli altri annuirono e dopo aver rivolto un ultimo sguardo a James si chiusero la porta alle spalle e se ne andarono via fischiettando orgogliosi della loro impresa.


Non si mosse per un tempo infinito.
Forse era morto.
O forse era già all’inferno.
Fattostà che quello era ciò che di peggio avrebbe mai potuto capitargli.
Le botte, la frusta di Jonas, i pugni, le umiliazioni non erano niente in confronto a…
Questo…
Perché nessuno aveva osato tanto.
Mai.
E quel giorno, in quel lurido bagno, violentato a turno da tre ragazzi, James, senza più vedere niente intorno a sé, gli occhi spenti e vacui, capì che la sua anima era morta per sempre.

E che mai più avrebbe rivisto la stella più luminosa di tutte.
                               


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Visti i miei tempi lunghissimi di aggiornamento direi che questo capitoletto, giunto a meno di  una settimana dal primo, può considerarsi come un vero e proprio record ^_^ E’ proprio vero che quando l’ispirazione ti supporta si procede che è una meraviglia…magari fosse sempre così!
Eccomi qui dunque con la seconda parte dell’infanzia di Jamie e Lee.
Capitolo piuttosto crudo e malinconico, lo ammetto ma volevo puntare sulle esperienze negative soprattutto di James per far capire poi, nel prosieguo della storia, determinati suoi atteggiamenti, che senza un’adeguata spiegazione potrebbero risultare bizzarri o quantomeno strani. Dal prossimo capitolo ho in mente un totale cambio di scena, spostando la storia molti anni dopo, ma non vi anticipo nulla…

Un'ultima cosa per chi se lo stesse chiedendo: Walter Beech e Eugen Bullard sono due aviatori statunitensi realmente esistiti, che volarono durante la prima guerra mondiale, il primo nell'Us Signal Corps, il secondo con la celebre squadriglia Lafayette.

Passo ora a ringraziare:

Bibby111: grazie di cuore per i complimenti e per la recensione entusiastica, mi ha fatto un immenso piacere! Sono lusingata nel sapere che la mia ti sembra una delle storie davvero promettenti della sezione! Figurati anch’io poi adoro le storie di piloti, pensa che uno dei miei film preferiti è Top Gun XD
Spero che anche questo capitolo ti sia piaciuto, e che la scena slash non ti abbia troppo infastidito ^^

Un grazie anche alla mia gemellina Rei che ha messo la fic tra i preferiti e a chi legge silenziosamente.

Buon anno a tutti cari lettori, che il 2010 vi porti tanta serenità e tutto ciò che di più bello desiderate.

Un abbraccio,

Hime









                                        
                          


                                                                                                                         

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Capitolo 3
*** III ***


  
 


                                                                             



Sei il mio volo a metà,
Sei il mio passo nel vuoto

Mango, La rondine



Londra, Febbraio 1939



James Railey rotolò con un gemito dall’altra parte del letto, il respiro affannoso, i folti capelli castani scompigliati.

Rimasero per un po’ in silenzio, ognuno perso nei propri pensieri, poi lui allungò una mano verso il comodino e si accese una sigaretta.
Lei si girò a fissarlo con occhi pieni di desiderio, la testa appoggiata su una mano, mentre con un dito scorreva lentamente sul profilo perfetto e regolare di lui, ubriacandosi della sua bellezza.
-La smetti di pensare anche dopo che abbiamo fatto l’amore?- mormorò la donna con una risatina maliziosa, rimproverandolo per quella serietà improvvisa.
James era un amante meraviglioso eppure non riusciva mai a togliersi quella continua aria truce e pensosa che lo faceva apparire sempre duro e inarrivabile, anche nei momenti di maggiore intimità.
Si voltò a guardarla alzando un sopracciglio con aria vagamente infastidita mentre aspirava una lunga boccata di fumo -Noi non abbiamo fatto l’amore- ribadì seccato, poi senza dire una parola scalciò le lenzuola e si alzò in piedi al lato del letto, nudo e bellissimo, dando le spalle alla sua amante, cominciando lentamente a rivestirsi.
Il più bel culo di Uxbridge non c’erano dubbi. Lo pensavano tutte quelle che lui si portava a letto da quando aveva diciotto anni. Senza alcuna distinzione.
-E’ stata solamente…uhm…una piacevolissima scopata- ghignò con aria divertita mentre le lanciava con malagrazia i suoi vestiti, gettati nella foga del momento su una sedia.
-Ora però ho da fare quindi alzati e vattene- le disse sgarbatamente con la sigaretta penzolante tra le labbra.
-Mpf, un vero gentiluomo, non c’è che dire- sospirò la donna attorcigliandosi una ciocca di capelli attorno al dito, continuando a fissarlo con occhi languidi.  Del resto la rudezza di James Railey faceva parte del suo fascino innato, del suo carisma, della sua potente carica seduttiva che ogni volta faceva cadere le donne ai suoi piedi come mosche. Ma tutte erano più che consapevoli di questo suo aspetto e anzi, il fatto di andare a letto con un uomo ruvido, passionale, e per nulla romantico come lui era per loro qualcosa di terribilmente eccitante. La maggior parte ci godeva ad essere trattata come una sgualdrina senza dignità.
-Sei pagata per scopare non per fare chiacchiere inutili, Angie- ribatté lui acido spegnendo il mozzicone nel posacenere e infilandosi rapidamente i pantaloni della divisa da libera uscita.
-Randy, mi chiamo Ran-dy!- sbuffò lei alzandosi a sua volta, con sommo dispiacere e facendo rapidamente il giro del letto.
-Sei uno smemorato caro mio- mormorò arricciando il labbro in segno di disappunto.
-Mmh mi aiuteresti ad agganciare il ferretto del reggiseno?- gli chiese poi all’orecchio in tono molto più provocante e lascivo.
Lui si voltò a guardarla dall’alto della sua statura, accigliato, poi però la fece girare rudemente, senza troppe cerimonie, chiudendole con poco garbo il gancio, attirandola a sé con fermezza.
Randy sorrise tra sé e sé mentre James le sfiorava il collo con le labbra, provocandole lenti e piacevolissimi brividi di piacere -Sei carina, sai…Randy- le sussurrò lui assaporando con piccoli morsi la pelle della prostituta che ultimamente gli riscaldava il corpo e il letto quando era in licenza. Sapeva che era proibito portarsi una donna nell’ alloggio privato del quartier generale di Uxbridge, ma il fatto che lui fosse uno dei migliori e dei più rispettati lì dentro, gli permetteva di fare il bello e il cattivo tempo, e di conseguenza, visto che quella era un’abitudine che avevano anche i suoi superiori, nessuno gli aveva mai contestato niente. L’importante era la discrezione e che al momento opportuno tutte quelle allegre donnine che di tanto in tanto si intrufolavano nei letti dei piloti che non si abbassavano a frequentare i bordelli di alto borgo, se ne andassero in silenzio e senza una parola così come erano arrivate, senza creare troppi problemi.
-Detto da te è un complimento lusinghiero!- rise lei gettando la testa all’indietro e girandosi a baciarlo in maniera voluttuosa e ardente. James le prese la testa con foga rispondendo a quel bacio che sapeva di tabacco e passione, poi si staccò con altrettanta violenza -Finisci di vestirti e sparisci- mormorò brusco -Non posso permettermi di ritornare a letto- disse in tono più sarcastico.
-Non puoi o non ce la fai, maggiore?- lo stuzzicò lei passandogli pigramente un dito sui muscoli tesi e guizzanti del torace, fissandolo negli occhi con espressione incredibilmente eccitante.
-Mi sembra di averti dato prova di grande resistenza poco fa- ribatté lui ironico, staccandosi da lei e infilandosi su una maglietta.
A Randy piaceva da impazzire quel suo modo di fare arrogante e prepotente: era una costante di tutti i piloti che aveva frequentato, quella di essere insolenti e dannatamente presuntuosi, ma il maggiore James Railey aveva qualcosa di particolare rispetto agli altri.
Qualcosa in più che le faceva impazzire tutte.
Fare l’amore con lui era un po’ come volare sui suoi fantastici aerei, ed era qualcosa di incredibilmente esaltante, che dava un’adrenalina pazzesca, elettrizzante, stupefacente, che per lunghi istanti ti faceva sentire l’unica donna sulla terra, la più desiderata, la più bella, la migliore, ma che un momento dopo, con la stessa repentinità dell’estasi, quando tutto finiva, ti faceva ritornare sulla terra.
E molto spesso il ritorno era brusco, ruvido, per nulla piacevole.
James Railey non voleva complicazioni.
Era appassionato e incredibilmente intenso persino con una prostituta, ma tutte avevano avuto sempre la sensazione di essere state possedute da quel corpo meraviglioso e perfetto, ma mai dal suo cuore freddo come l’acciaio. Nessuna era mai riuscita a leggere nei suoi occhi inquieti.
Nessuno lo aveva mai voluto.
E lui non lo aveva mai permesso.
Troppo complicato.
Troppo compromettente per un tipo pratico e istintivo come lui.
-Ehi! Ridammi la piastrina!- sbottò accorgendosi che lei gli aveva sottratto la piastrina di riconoscimento e ora gliela faceva ondeggiare con un sorriso di trionfo di fronte al naso.
-Sì può sapere quando cavolo me l’hai…-
-Mmh potrebbe essere un giochetto interessante. Per questo sono almeno trenta sterline in più- sogghignò Randy con aria di trionfo, vedendo l’impassibile maggiore Railey per la prima volta in difficoltà.
Lui non si separava mai da ciò che lo identificava.
-Piantala Randy, non è divertente!- esclamò assumendo di colpo un’espressione severa -Sono in ritardo- sbuffò poi con un sospiro, alzando gli occhi al cielo.
-Cos’è Jamie? Non hai tempo per un’ altra sveltina? Per caso devi andartene in giro in qualche pub a sbronzarti con i tuoi amici ufficiali?- lo prese in giro lei in un modo che a James non piacque affatto.
-Non chiamarmi in quel modo- le disse in tono secco, severo, strappandole letteralmente dalla mano la piastrina di riconoscimento. E nei suoi occhi per un attimo passò un brillio minaccioso e ostile che la fece rabbrividire.
Lei rimase lievemente spiazzata per quella reazione, ma preferì non replicare evitando di incorrere in qualche improperio velenoso.
-Ehi sta calmo, stavo solo scherzando- replicò lei alzando le spalle, offesa.
Finì di vestirsi in silenzio, e prima di andarsene, mentre prendeva i soldi che James aveva lasciato sulla sua scrivania, gli lanciò una lunga occhiata carica di compassione.
-Trovati una donna, maggiore. Potresti diventare quasi umano- mormorò con uno strano tono nella voce -Ti aggiusterebbe perfino il nodo alla cravatta- sorrise guardandolo a lungo dallo specchio e poi sbattendosi la porta alle spalle.
James, in piedi accanto al letto, non disse una parola.
-Tsk- si strinse il nodo della cravatta, borbottando tra i denti -Stupida. Chi le avrà mai detto che ho bisogno di una donna?-
Ma non riusciva mai a farselo dritto.


                                                                                                         ***

-Oh capitano! Mio capitano!-
Garrick cantilenava una canzonaccia stonata, la voce strascicata da ubriaco mentre tracannava l’ennesimo boccale di Guinness per quella sera.
Solito pub di sempre.
I piloti generalmente bazzicavano il Lamb & Flag di Covent Garden, nel cuore del West End londinese, dove si ritrovavano un po’ tutti a sbronzarsi e a passare qualche ora di disteso relax, anche se delle volte chi alzava un po’ troppo il gomito si ritrovava in mezzo a qualche scazzottata inaspettata: tutto sommato però, risse tra ubriachi a parte, era un posto tranquillo, caldo, accogliente, e per James e i suoi amici era diventato il punto di ritrovo ufficiale per scordarsi per un paio d’ore di indossare un’alta uniforme e di essere la punta di diamante dell’aviazione del Paese. Davanti un buon boccale di Guinness tornavano semplicemente giovani uomini inglesi un po’ triviali che amavano scherzare e sfottersi a vicenda.
-Garrick vacci piano non vorrei riportarti in caserma come l’altra volta che ti sei addormentato come uno stupido moccioso- ribatté Borden in tono visibilmente infastidito.
-Cazzo vuoi Bord non posso neanche sbronzarmi in santa pace?- biascicò Garrick con un tono che voleva essere minaccioso, cercando di alzarsi dal suo posto, ma le gambe non gli ressero facendolo di nuovo ricadere pesantemente sulla sedia.
Borden scoppiò in una risataccia di scherno mentre l’altro gli lanciava tra i denti improperi irripetibili.
-E questi sarebbero i famosi skyfighters di sua Maestà?- ridacchiò Allbright, l’altro ufficiale che era allo stesso tavolo, sorseggiando lentamente la sua pinta.
-Dio ce ne scampi- borbottò a sua volta cupo James accendendosi una sigaretta tra un sorso e l’altro di birra.
-Se i tedeschi vedessero con che razza di piloti presto avranno a che fare ci prenderebbero per il sedere a vita- sorrise ironicamente Allbright lanciando un’occhiata al suo parigrado.
-I tedeschi non sanno neanche da che parte sta una cloche!- asserì convinto Garrick con la stessa credibilità che poteva avere un uomo totalmente sbronzo.
-Falla finita di sparare cazzate Garrick! Voglio vedere quando ti ritroverai muso a muso con uno di quei maledetti crucchi se continuerai a blaterare così- lo ammonì Borden accigliandosi, scherzando, ma fino ad un certo a punto.
-Gli farò pum pum in fronte, semplice- ribatté Garrick alzando pollice e indice e mimando scompostamente il gesto di una pistola
-Sei un idiota-
-No tu non capisci che…-
-Secondo te fra quando succederà?!- Keith Allbright ignorò gli sproloqui di Garrick e Borden, che avevano continuato a trastullarsi biecamente tra loro, per rivolgersi seriamente al maggiore Railey, che sedeva proprio a fianco a lui e aveva sul volto un’espressione tetra e incupita che non prometteva niente di buono.
James aspirò una lunga boccata di fumo, fissando il vuoto di fronte a sé prima di rispondere -Non lo so. Quattro mesi. Forse Cinque. Tutto dipenderà da quando quel folle di Hitler si deciderà a muovere il suo esercito verso Nord e occupare le nazioni confinanti alla Germania-
-Credi davvero che sarà capace di trascinare tutta l’Europa in guerra?- Allbright fissò l’amico con espressione grave -Cazzo, si tratta di nazioni intere tu pensi che…-
-Hitler è assetato di potere- tagliò corto James -La Germania è riuscita a riarmare l’esercito in pochi anni dopo l’ultima guerra, ha ignorato i vincoli imposti dal trattato di Versailles e ora sta attuando una assurda campagna persecutoria contro gli Ebrei. Credi forse che possiamo dormire sonni tranquilli?- James era profondamente realista ed era sempre stato un ottimo soldato soprattutto per le sue innate capacità logistiche e intuitive riguardo le strategie di guerra, per questo Allbright non finiva mai di meravigliarsi di fronte al suo spirito pratico ed estremamente concreto.
James Railey era un ottimo ufficiale, un aviatore spericolato e imprevedibile e tutti lo ammiravano indiscutibilmente. Dai suoi superiori all’ultimo dei sottoposti.
Allbright era Ombra. Il secondo di James. Il suo braccio destro.
Railey invece era Asso.
Perché era il migliore della sua squadriglia, perché aveva intuito, riflessi di ferro, sangue freddo e una buona dose di pazzia che si fondeva a perfezione con una competenza straordinaria e una conoscenza minuziosa degli aerei.
Ed era uno dei migliori skyfighters dell’aviazione di Sua Maestà.
Indiscutibilmente.
Continuarono a discutere su varie questioni, più o meno serie, finché all’ennesima birra decisero di tornarsene in caserma. James era rimasto perfettamente sobrio, perché sapeva che il giorno dopo l’aspettava una lunga esercitazione a Stapleford nell’Essex orientale, per cui aveva evitato di proposito di ubriacarsi per non risentirne poi con un mal di testa colossale.
Quanto nella vita privata era privo di regole e di scrupoli, tanto sul lavoro era sempre impeccabile e rigido nei suoi compiti: mai un richiamo, mai una punizione, mai uno sgarro.
Era sempre stato dell’idea che chi sbaglia paga, soprattutto nel loro lavoro.
E lui, da quando era andato via dall’orfanotrofio San Francis, non aveva sbagliato mai più.
Mentre uscivano nella gelida aria della notte e si incamminavano a piedi verso la fermata della metropolitana più vicina, spintonandosi a vicenda come adolescenti e scherzando fra loro,  si ritrovarono a passare di fronte ad un locale con le luci soffuse da cui proveniva una musica piacevole persino per le loro orecchie da ubriachi. James si fermò un attimo, attirato dalla musica, giusto il tempo di curiosarci dentro per vedere che tipo di ambiente era. Si avvicinò alla piccola entrata facendosi schermo con le mani per focalizzare meglio l’interno e vide una giovane musicista che suonava il pianoforte sopra un piccolissimo palco rialzato, mentre alcuni clienti, intenti a  consumare la propria ordinazione, l’ascoltavano attentamente.
-Maggiore! Ehi, maggiore!- Borden lo chiamò, da poco lontano.
-Che fai il guardone maggiore Railey?- sghignazzò Garrick ormai troppo sbronzo per connettere, allungando lo sguardo a vedere cosa aveva attirato l’attenzione del superiore.
-Ma guarda quant’è carina!- biascicò illuminandosi tutto, ma Borden gli diede uno strattone per allontanarlo -E lascia perdere Pat. Andiamocene a dormire, piuttosto, che soprattutto  tu ne hai bisogno-
-Andate avanti, vi raggiungo fra poco- disse James con fare evasivo, scacciandoli con un gesto della mano, senza riuscire minimamente a staccare gli occhi da quella vetrina e da lei.
-James sei scemo? Andiamo dai- gli disse Keith avvicinandosi a guardare all'interno. Poi forse capì che cosa passava nella testa del suo collega e pari.
-Okay ma stavolta io non ti copro per le tue scappatelle, intesi? Le donne ti rovineranno maggiore- lo minacciò Allbright con sguardo eloquente, ma James non lo ascoltava più, perché era già entrato nel locale sbattendogli praticamente la porta in faccia.
-Le donne ti rovineranno James!- ripeté Keith ormai a se stesso.

L’atmosfera calda e accogliente, e le luci soffuse lo avvolsero immediatamente, dandogli un’improvvisa e piacevolissima sensazione.
Non c’era molta gente, ma le persone che assistevano sembravano tutte rapite da quella melodia riposante e piacevole.
-Signore, le occorre un tavolo?- gli domandò garbatamente un cameriere a voce bassa,  per non disturbare l’attento e silenzioso uditorio, distogliendolo dai suoi pensieri.
James lo fissò con aria vagamente sorpresa -Uhm sì grazie. Un…quel tavolo lì- mormorò facendo un cenno col viso, indicando un tavolino poco di lato al piccolo palco su cui si esibiva la giovane pianista.
Si andò a sedere cercando di fare meno rumore possibile, per non dare nell’occhio.
-Chi è?- chiese a bassa voce al cameriere che lo raggiunse discretamente per l’ordinazione.
-Lei? Lei è una delle pianiste più promettenti del West End. Il proprietario l’ha voluta assolutamente per alcune serate qui allo Swan Hart. E’ davvero in gamba-
James rimase in silenzio a lungo, assorto a fissarla.
-La conosce?-
-Mai vista prima- tagliò corto senza staccare gli occhi di lei, come immerso in chissà quali pensieri -Uno scotch grazie- disse poi seccamente per levarsi di torno l’uomo che lo fissava incuriosito.
Lei era bella.
Semplicemente.
Aveva un viso dai lineamenti delicati, i lunghi capelli ondeggiavano vaporosi sulla morbida schiena scoperta, il mento era lievemente sfuggente, gli occhi malinconici e profondi: alla luce soffusa del locale la sua pelle aveva un tenue colore ambrato, mentre le sue mani lunghe, aggraziate e affusolate si muovevano abili sulla tastiera del suo nobile amante. Mai vista una bellezza tanto fine e singolare.
Di colpo gli parvero lontani e insignificanti i gravi discorsi che aveva intrattenuto con Allbright e le idiozie di Garrick, e le donnacce che era solito portarsi a letto. Si sentiva totalmente trasportato in un mondo completamente diverso mentre veniva rapito da quella melodia dolce e struggente.
Faceva venire in mente posti lontani e incredibilmente belli, e proprio in quell’istante desiderò conoscerla ad ogni costo.
-Devo sapere chi è- si disse facendo roteare il fresco liquido biondo all’interno del bicchiere e bevendone una sorsata.
D'improvviso gli venne l' istinto brutale di possederla, in qualunque modo. Era una necessità urgente, animalesca.
Lei terminò il suo concerto e decise di avvicinarsi poco dopo quando stava per andarsene in compagnia di un giovanotto dai folti capelli rossi e dal viso da adolescente, cosparso di lentiggini.
-Buonasera, miss permette?- James si avvicinò togliendosi il berretto della divisa e rivolgendole un sorriso da seduttore che avrebbe mandato in visibilio qualsiasi donna. Quando incrociò quegli occhi chiari lei ebbe quasi un sussulto, poi gli sorrise lievemente sorpresa e imbarazzata.
Era carina quando arrossiva.
-E’ molto brava sa, ha del talento- esordì lui guardandola da capo a piedi senza aspettare una sua risposta. E quello di James Railey era uno sguardo che ti rimaneva impresso a lungo talmente era intenso e scrutatore.
-Grazie, signore- disse lei con semplicità mentre finiva di sistemare i suoi spartiti in una elegante borsa di cuoio, abbassando leggermente lo sguardo.
-Posso accompagnarla a casa miss?- James le porse una mano, del tutto inaspettatamente, senza mai staccare gli occhi dal suo viso. Lei arrossì di fronte a quell’uomo così bello che le dava quelle attenzioni ma non la accettò.
-Signore io e la mia fidanzata stavamo andando via, insieme- s’intromise il ragazzo che l’accompagnava calcando sull’ultima parola, cercando di darsi un tono, ma James lo ignorò totalmente, trattenendo il suo sguardo e le sue attenzioni unicamente sulla ragazza che gli stava di fronte -Quindi non credo proprio sia il caso-
 -E’ così?- James le rivolse quella domanda improvvisamente, in tono diffidente, come a volersi sincerare che il ragazzo che era con lei stesse dicendo la verità.
-Oh ma insomma si può sapere che diavolo vuole? Ma chi è lei?- sbottò il giovane spazientendosi davanti quell’atteggiamento prepotente e arrogante.
Forse anche molesto se fosse stato qualcun altro.
E non lui.
Allora lei rialzò gli occhi a fissare lo sconosciuto, senza alcun timore, sfidandolo quasi apertamente con espressione decisa e ferma.
-Will non preoccuparti, torna pure a casa- le parole le uscirono da sole, inconsapevoli, senza mai riuscire a staccare gli occhi di dosso da quell’uomo.
James le lanciò un sorrisetto compiaciuto, di trionfo.
Eccone un’altra che non aveva resistito…persino davanti al proprio fidanzato!
Sfacciata di infima categoria.
Ci voleva davvero poco per portarsele a letto.
Il suo sorriso galante e la sua uniforme (seppur da libera uscita) ed ecco che cadevano come tanti gustosi pesciolini nella rete.
Lei però aveva tutt’altri pensieri mentre guardava quell’uomo bellissimo e austero.
Ma era stato l’istinto a fidarsi di lui.
L’istinto e nient’altro.
E forse la divisa che indossava dato che addosso gli dava un aspetto elegante e incredibilmente attraente. Non poteva essere un malfattore un uomo che portava l’uniforme dell’aviazione inglese e che aveva uno sguardo così profondo e limpido.
O forse no?
-Ma sei sicura?- Will le lanciò un’occhiata titubante e poi tornò a guardare lo sconosciuto di sbieco.
-S-sì! Lui è un amico. Va' pure davvero- mentì lei sentendosi profondamente in colpa.
-Hai sentito, Will? Ha detto che puoi andartene- ribadì James bruscamente afferrando la mano della ragazza senza chiedere permesso e portandola dalla sua parte.
Lei non poté trattenere un sorriso davanti a quel gesto così perentorio e possessivo.
Mai nessuno dei suoi corteggiatori si era dimostrato così spavaldo e arrogante.
Ma la cosa, nella sua stranezza, non le dispiaceva affatto. Anzi, segretamente la elettrizzava non poco.
Il buon senso le avrebbe detto di non fidarsi di lui, ma nel preciso istante in cui quell’uomo le aveva rivolto la parola, aveva capito che il buon senso e la razionalità non avevano più significato.
-Davvero era il suo fidanzato?- James sogghignò tra sé, mentre uscivano fuori nella gelida notte di Londra, fianco a fianco. Quel tipo aveva proprio l’aria da fidanzato e da bravo ragazzo a differenza sua, eppure non riusciva a capire come una bella come lei stesse con un tipo tanto insignificante.
-Chi? Will?- lei rise piano -Ci frequentiamo da un po’. Lui è stato un mio compagno al conservatorio-
-Mi dispiace che se la sia presa- mentì con aria di finta compassione. Si considerava un vincente su tutti i punti di vista, soprattutto con le donne. E lei non poteva di certo considerarsi una banale eccezione, anzi.
Con qualche battuta calcolò di portarsela a letto quella sera stessa, si vedeva già che lei gli moriva dietro.
-Lei mente spesso oppure solamente in questa circostanza?- gli domandò a bruciapelo, avendo colto nella sua voce una sfumatura ironica e lievemente sprezzante.
Sapeva che i piloti di Sua Maestà si consideravano una spanna sopra ai comuni mortali per il semplice fatto di avere le ali e di non essere fatti per stare sulla terra, ma lui…lui li superava di gran lunga per insolenza e sfacciataggine. Insomma, quell’atteggiamento avrebbe infastidito qualunque donna se ad averli fosse stato un uomo comune, e non lui.
Perché oltre ad essere incredibilmente bello e attraente aveva un fascino da cui si rimaneva letteralmente abbagliati, e qualunque cosa che poteva fare assumeva di colpo quasi un’aura straordinaria e unica nella sua normalità.
Lei immaginò che dovesse essere maledettamente sexy persino quando si faceva la barba.
Aveva eleganza, stile, un portamento fiero e aristocratico.
Principe d’aspetto, plebeo nei modi.
-Solamente quando le circostanze lo richiedono- asserì James con noncuranza prendendo una  sigaretta dalla tasca, e proteggendosi con una mano dal gelo per accenderla.
La ragione continuava a dirle di lasciarlo perdere e di piantarlo in asso così su due piedi per fargli perdere di colpo tutta quella sua superbia e arroganza, e per vedere la sua faccia abbandonare quel ghignetto da seduttore, ma l’istinto le sussurrava qualcosa di cui forse si sarebbe pentita, ma che in quel momento le pareva incredibilmente eccitante e invitante.
-E questa circostanza sarebbe una di quelle?- lo stuzzicò lei per vedere se era abbastanza perspicace da stare al suo gioco.
-Forse- rispose lui laconico aspirando una lunga boccata di fumo.
-Me ne dà una?- gli chiese inaspettatamente.
James alzò un sopracciglio a fissarla interdetto.
-Per favore-
-Lei fuma?- le chiese incuriosito.
-Ogni tanto…di nascosto ovviamente. Il mio maestro di canto potrebbe uccidermi- rise con l’aria di una bambina che aveva appena commesso una marachella.
-Perché lei sa anche cantare?- le domandò James mal celando la sua ammirazione mentre le offriva il pacchetto di sigarette.
Lei ne prese una e lui gliela accese.
Gli piaceva quel suo modo di fare sicuro, ma non eccessivo, che rivelava una timidezza di fondo. Forse era persino intelligente.
-Sì, studio canto e pianoforte da quando ero piccola, la musica è un po’ la mia vita- e il modo in cui lo disse gli fece pensare a quanto dovesse essere serena e priva di pensieri la sua vita.
Si stringeva addosso il cappotto per il freddo.
-E lei? Lei è un pilota?- e uno dei più affascinanti che avesse mai incontrato in tutta la sua vita.
E non solo tra i piloti.
James aveva qualcosa da cui si rimaneva accecati: forse il suo modo di fare perentorio, i suoi glaciali occhi azzurri, le sue mani grandi e forti, il suo modo di sorridere così speciale, fatto sta che lei non riusciva a staccargli gli occhi di dosso talmente ne era ipnotizzata.
-Sì ci provo- si schernì con finta modestia. Si capiva che era un tipo pratico ed estremamente sicuro di sé e del proprio lavoro. Quella finta modestia non gli apparteneva affatto.
Dava un tale senso di sicurezza e di protezione che a lei fece venire in mente un faro che si erge imponente e svettante in un oceano scuro e tempestoso.
-E le piace?- gli chiese lei guardandolo di sottecchi, fissandogli come ipnotizzata il profilo regolare e perfetto. Aveva i lineamenti induriti da un’espressione continuamente pensierosa e accigliata, ma immaginò che se lo avesse visto sorridere sarebbe stato senz’altro molto più bello.
-E’ praticamente l’unica cosa che so fare, miss- borbottò lui gravemente, ma lei aveva intuito che in quelle parole c’era qualcosa di molto più profondo che volesse far trapelare in apparenza.
E volare era la sua missione, il suo principio, il suo unico scopo nella vita.
E volare, volare senza mai posare le ali a terra per paura che qualcuno potesse spezzargliele, sperando che mai nessuno riuscisse a prenderlo.
Per fargli del male.
-Abita molto lontano?- le chiese in tono pratico, come a voler troncare sul nascere quell’argomento. Non era certo in vena di parlare della propria vita privata con lei. Quella sera poi.
-Un isolato da qui. Mi dispiace però non poterla farla salire per offrirle un caffè- sogghignò lei gustandosi la sua faccia delusa quando gli comunicò la notizia.
Cosa credeva che fosse una stupida pivellina che si sarebbe lasciata abbindolare dal suo sorriso, seppur fantastico, e dai suoi modi decisi?
Spocchioso arrogante.
-Capisco-
Cosa fa adesso mi lascia qui in mezzo alla strada perché sa che stasera gli è andata male?
Ma che gentiluomo.
Lui però non disse altro, per tutto il tempo, continuando a fumare placidamente, come se in realtà non si aspettasse molto di più di quello che lei gli aveva fatto credere.
Quando arrivarono davanti casa a James venne quasi da ridere.
Non gli era mai capitato, neanche quando era più giovane, di dover accompagnare la propria fidanzatina davanti la porta di casa e magari darle un casto bacio sulla guancia. Non era davvero una cosa che gli apparteneva, pensò, dandosi mentalmente dell’idiota senza midollo.
Poi si disse che lui non aveva mai avuto una fidanzata, perché le sue storie non erano mai durate più di un paio di sere al massimo, e quindi era davvero impensabile un gesto così tenero e infantile per uno come lui.
Pensò a Garrick, Borden e Allbright.
Lo avrebbero preso in giro fino alla morte se avessero visto quella scena.
Patetico, patetico, patetico.
James Railey si è messo a fare il fidanzatino.
Tentò di scacciare dalla mente i suoi compagni che sghignazzavano alle sue spalle, pensando che quelli erano solo scherzetti da adolescenti e tornò a guardarla.
-Beh io sono arrivata-
Non gli chiese di salire. Semplicemente perché viveva ancora con i genitori.
Era la prima volta anche questa che non andava a letto con una tipa conosciuta la sera stessa.
-Beh è stato un piacere-
Il vero piacere in realtà non era arrivato proprio per niente.
Buca su tutti i fronti, maledizione.
-Miss?-
-Sì?- lei gli sorrise.
-Miss quando potrò rivederla?- le parole gli uscirono involontarie e un secondo dopo si era già pentito di avergliele dette.
Allora lei scoppiò in una risatina nervosa.
Mio Dio com’era serio, nella sua minima esperienza con gli uomini non aveva mai conosciuto un uomo tanto bello ma anche così cerimonioso.
Che non possedesse poi tutta questa sicurezza che l’aveva colpita al primo sguardo?
-Io suono tutte le sere allo Swan Hart fino a fine mese, se le piace la musica classica…- ma non dava l’idea di un grande intenditore musicale, anzi, e lei se ne accorse subito.
Era stonato da morire e per lui musica era fischiettare sotto la doccia, ma forse per lei poteva fare un’eccezione.
Controllati.
-Oh bene. Vedremo quando sarò libero- tossicchiò -Adesso devo andare- disse in tono improvvisamente brusco calcandosi bene il berretto della divisa sulla testa, nascondendo quasi gli occhi.
-D'accordo- mormorò lei lievemente delusa mentre il suo respiro caldo creava una lieve condensa al contatto con l’aria gelida della notte.
-Allora arrivederci- replicò la ragazza senza far trapelare la minima emozione, tendendogli una mano per stringergliela.
James non riuscì a trattenere un mezzo sorriso per quel gesto così privo di malizia e gliela prese in una stretta salda e decisa.
-Arrivederci- ripeté lui rimanendo con la mano a mezz’aria ancora stretta in quella di lei per un bel po'.
Quando se ne accorsero entrambi scoppiarono in una risata genuina, di cuore.
James di rado rideva.
Ed era dannatamente bello quando lo faceva. Parlava pochissimo, ma i suoi gesti rimanevano impressi nel cuore più di mille discorsi senza senso.
E a tutti e due quel momento ricordò vagamente qualcosa, anche se non avrebbero saputo dire con precisione cosa.
-L’aspetto, allora- disse lei rivolgendogli un sorriso tenero, da adolescente.
James le rivolse un piccolo cenno di saluto portandosi indice e medio alla tempia, senza dire una parola.
E lei capì che era il suo modo per dirle che sarebbe tornato a sentirla.
E lei avrebbe rivisto di nuovo quegli occhi severi ma gentili.

Arrivò dentro casa quasi volando.
-Lee, sei tu?- una voce dal piano di sopra la chiamò sentendo la porta d’ingresso che si richiudeva lentamente.
-Sì, mamma! Torna pure a dormire!- esclamò Lee Ann Keegan togliendosi le scarpe scalciando e buttandosi di peso sul divano con un sorriso sognante.
Non riusciva a capacitarsi di come tutto fosse successo in fretta. Però aveva capito subito che lui le piaceva, e anche tanto.
Non sapeva spiegarsene bene il motivo.
Okay era bello da impazzire, e aveva un sorriso strabiliante, ma non era abbastanza.
Mancava qualcosa.
Aveva un presentimento.
Una sorta di calore che le aveva fatto immediatamente provare uno strano affetto nei suoi confronti.
Quasi come una persona che aveva conosciuto tanto tempo prima e che non aveva mai dimenticato.
Peccato che non sapesse neanche come si chiamasse.
Particolare, che in quel momento, le pareva del tutto irrilevante.


________________________


Ed eccomi tornata con un nuovo capitolo della mia storia. Dunque comincia ad abbozzarsi il carattere di James Railey. Atteggiamenti ruvidi e forti i suoi, ma che forse nascondono una fragilità interiore non indifferente. Per ora sia lui che la bella musicista non conoscono le rispettive identità per cui non oso immaginare cosa succederà quando si riconosceranno. Come avete potuto notare l’ambientazione che ho dato al capitolo è situata precisamente a Covent Garden, quartiere di Londra che ho amato moltissimo, e i locali citati sono chiaramente esistenti. Sono letteralmente impazzita per cercare una collocazione specifica ad una base Raf, ma dopo tanto cercare, santissima Wikipedia mi ha dato il risultato perfetto: anche il quartier generale della Raf di Uxbridge, distretto nel North-West di Londra, esiste veramente, e questa scelta non è stata affatto casuale per i motivi che poi scoprirete se avrete la pazienza di continuare a leggere.  : )


Passo ora a ringraziare coloro che hanno lasciato una recensione alla storia:

Bibby111: Ciao!! Spero che ti sia piaciuto come piano piano sto delineando il personaggio di Jamie, che personalmente già adoro *_*   Il tristissimo capitolo precedente mi serviva materialmente per dare un accenno al carattere schivo e duro di James, una sorta di spiegazione per i suoi comportamenti futuri, ecco. Vediamo un po’ come reagirà quando la donna da cui è rimasto tanto colpito è la sua piccola Lee. Grazie ancora per le recensioni e spero continuerai a seguirmi!!
Un abbraccio!!

Lizzie83: Ecco socia il nuovo capitolo. Sono davvero felice che come per Aldilà, anche questa nuova “avventura” sia di tuo gradimento. Che ne pensi di questa nuova parte? Attendo impaziente il tuo commento sempre prezioso e importante. Un bacione!!

Piccola Ketty: Wow *_* Ma tu vuoi farmi arrossire?? Sapere che trasmetto delle sensazioni e che sembra di leggere un libro credo sia il sogno di qualunque scrittore ^_^  In realtà in ogni cosa che scrivo cerco sempre di dare una certa introspezione e un discreto spessore ai personaggi, quindi il fatto che le emozioni che cerco di dare al lettore arrivino direttamente, non può che farmi un piacere estremo!!
Per cui grazie e spero che mi farai sapere ancora cosa ne pensi!!
Un abbraccio!!
P.s. : anche l’ultimo capitolo di Aldilà dell’infinito è quasi terminato, quindi a breve saprai come si conclude anche la storia di Ash e Alix ^_^

Un’ultima cosa.
Le foto che ho inserito a inizio capitolo ritraggono Lee e James: ecco quando ho visto i volti di Keri Russel e Paul Sculfor ho avuto una specie di folgorazione. Sono loro nella mia mente.
Punto.

Un abbraccio a tutti,
Hime 

                        



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Capitolo 4
*** IV ***



                                                                                       
 



There's a feeling that I can't ignore
Like a stranger at my door
So revealing that I cannot hide
When you settle up the score
Voices say -- night and day
Live your life as if each second
Was the final one

Larry Greene, Through the fire



-Cosa?!- Keith Allbright lo fissò con espressione sbalordita mentre James gli raccontava i dettagli della serata precedente, che in realtà non esistevano.
-Mi stai dicendo davvero che non ci sei andato a letto?!-
Avevano appena terminato la loro esercitazione in volo a coppia alla base di Stapleford, e dopo una lunga doccia ristoratrice, mentre si rivestivano, si erano messi a parlare di quello che era capitato al maggiore Railey la sera prima.
James si mise a ridere mentre frizionava energicamente i capelli bagnati con un asciugamano e apriva il suo armadietto per prendere il cambio d’uniforme pulita.
-Ragiona Ombra. Secondo te, se fossi andato a letto con quella ragazzina ti avrei forse fatto mangiare tutta la polvere dal mio Spitfire stamattina?-
Gli rivolse un ghigno di trionfo mentre richiudeva l’anta dell’armadio con un tonfo secco.
Allbright gli lanciò un’occhiataccia mentre si infilava addosso una maglietta -Maledetto spaccone che vuoi dire, che non hai più l’età per reggere una sveltina e un’esercitazione il giorno dopo?-
James fece per tirargli qualcosa addosso ma poi ci ripensò e si girò a specchiarsi: era ancora a torso nudo, l’asciugamano legato in vita, i capelli scuri che gli gocciolavano in piccoli rivoli lungo le tempie, i muscoli del torace tesi e perfetti.
-La finisci di rimirarti, Asso? Allora mi vuoi dire che quel pezzo di maschio è forse andato in bianco?- sghignazzò Keith alle sue spalle.
James si mise al collo la piastrina di riconoscimento mentre lanciava dallo specchio un’occhiata adirata al suo compagno -Non sono andato in bianco. Semplicemente mi ritengo ancora un signore e non ho approfittato dell’innocenza di una giovane fanciulla- ribadì anche se effettivamente non credeva neanche lui alle sue stesse parole. Lei gli aveva dato un bel due di picche e lui non aveva avuto quello che cercava.
-Balle. Hai quasi trent’anni. Stai invecchiando amico mio, è questa l’amara verità- sentenziò Keith appallottolando l'asciugamano e tirandoglielo addosso.
-L’importante è che abbia ancora i riflessi sufficienti per abbattere almeno tre crucchi messi insieme- sogghignò James acchiappandolo al volo.
Keith tacque un momento poi guardò il maggiore con aria seria e corrucciata -Mettiamoci l’animo in pace, Asso, noi non siamo fatti per avere una donna. Sarebbe troppo gelosa per dividere il proprio uomo con un apparecchio. Bellissimo e all’avanguardia, ma pur sempre un apparecchio-
-La mia donna ideale non dovrebbe rompermi le palle se ho voglia di andare a sbronzarmi, o se devo sparire per lavoro per un mese- sentenziò James convinto.
-In pratica dovrebbe essere muta per non lagnarsi, cieca per non vederti quanto sei carino quando sei sbronzo, e sorda per non sentire tutte le cazzate che dici. Complimenti Asso, credo che di questo passo andrai avanti a sgualdrine ancora per un bel po’- lo canzonò Keith finendo di allacciarsi le scarpe.
-Di certo è una cosa che non mi manca. Io appartengo unicamente a me stesso e ai miei aerei. Punto. Chi mi sta accanto deve semplicemente adeguarsi a questa banalissima condizione. A loro piace il sesso, a me piace sentirmi libero, senza rotture o complicazioni. Mi sembra uno scambio equo, non ti pare?-
Il suo ragionamento ottuso e unilaterale non faceva una grinza, peccato che Allbright, sebbene fossero amici da quando erano entrati alla scuola di addestramento piloti, la pensasse in maniera completamente diversa.
-Sei un maledetto egoista, ecco cosa sei. Nessuna donna con un po’ di cervello si sognerà mai di mettersi con uno stronzo come te-
James si girò a fissarlo con aria truce e indispettita
-E infatti credi che io abbia davvero bisogno di qualcosa aldilà di una sveltina ogni tanto e di volare? Mi fai tanto scemo?- esclamò sentendosi profondamente offeso nell’orgoglio.
Se c’era una cosa che James Railey non sopportava era il doversi giustificare riguardo il suo essere completamente indipendente dai legami di affetto e di sentimenti: non era mai stato uno a cui piaceva amare né essere amato. Era un individualista, un agonista dei cieli, un fottutissimo skyfighter, privo di qualsiasi scrupolo, uno che la vita l’aveva sempre presa a calci dopo averne ricevuti lui stesso, e amare una persona per giunta, buffa e anacronistica parola, gli pareva quanto di più lontano e inconcepibile dal suo modo di essere duro e indipendente.
-Chi mi dice se domani sarò ancora vivo? Posso farmi una famiglia se io stesso non ne ho mai avuta una?- sbottò esasperato buttando da parte il pettine che aveva in mano, dando le spalle al suo compagno -Posso stare con una donna se l’unica cosa che so fare è amare i miei apparecchi? Ti rispondo io. No, non si può. E l’ultima cosa che vorrei è lasciare cuori infranti e marmocchi ululanti in giro per il mondo-
Keith rise per sdrammatizzare -Mi spezzi il cuore mio principe!- esclamò avvicinandosi  e facendo finta di scoccargli un bacio con la punta delle dita.
-Va' a farti fottere Allbright, passami la maglietta che è meglio- grugnì in tono acido.
-Certo che ieri sera quando hai visto quel bocconcino suonare al pub non mi sembravi propriamente della stessa idea- ricominciò Keith passandogli la maglietta e fissando l’amico con aria sospettosa, gli occhi ridotti a due fessure -Non è che niente niente predichi bene e razzoli malissimo, maggiore Railey?-
James gli lanciò un’altra occhiata di fuoco che lo incenerì letteralmente -Giuro che se non la finisci ti attacco al muro. E quanto è vero Iddio lo faccio- ringhiò facendosi improvvisamente cupo, gli occhi azzurri splendenti di rabbia e di passione.
Keith alzò le mani in segno di resa, lievemente sorpreso per quella reazione incredibilmente veemente e inaspettata: ormai lo conosceva bene, James era un tipo silenzioso che però, appena veniva provocato si scaldava immediatamente,  e questo era un suo lato che i superiori gli avevano sempre contestato. Tanto in volo era impassibile, freddo, glaciale, distaccato e lucido, tanto sulla terra diventava spesso irascibile, scontroso, attaccabrighe, e quando gli girava male ostinato e taciturno come un mulo. Ormai un po’ tutti sapevano come evitare quel purosangue che si imbizzarriva per poco ma che allo stesso tempo risultava il migliore tra tutti loro, Keith Allbright per primo, eppure nessuno riusciva mai a comprendere quei suoi lati oscuri fino in fondo.
Forse perché nessuno era mai venuto a conoscenza del suo passato violento e solitario, forse perché lui non ne aveva mai parlato considerandola una parte imbarazzante e patetica della propria esistenza che avrebbe solamente rivelato la parte debole e fragile della sua personalità complicata e insofferente. Rivelare un’infanzia senza gioia e senza amore significava mettere a nudo la propria essenza, il proprio mondo interiore di cui era follemente geloso e questa era una cosa che lo tormentava e lo spaventava a morte: nessuno doveva permettersi di giudicarlo, né tantomeno doveva sapere di quelle circostanze che lo avevano reso un uomo tanto schivo e duro con gli altri. Oltretutto il suo compito di responsabilità non gli permetteva in alcun modo di mostrare una fessura oltre quella cortina invalicabile di orgoglio e disprezzo, poiché ne andava della sua reputazione e della sua fierezza morale che mai era stata messa in discussione.
-Sta' calmo amico. Questa rabbia mettila contro chi molto presto vorrà farci il culo- mormorò Allbright fissandolo con aria seria.
James si passò una mano tra i capelli, sospirando pesantemente -Scusa Keith, ma ultimamente ho i nervi a pezzi. Dovrei prendermi un bel periodo di vacanza per ricaricare, ma credo sia praticamente impossibile- sogghignò con aria malinconica infilandosi i pantaloni dell’uniforme.
La verità era che aveva continuamente i nervi tesi come corde di violino, dormiva di un sonno leggerissimo, e di tanto in tanto tornavano a tormentarlo gli incubi del passato: quelli non lo avevano mai lasciato, erano stati la sua più grande compagnia da quando aveva lasciato l’istituto, ed era qualcosa che segretamente, da anni lo rodeva sottilmente, rendendolo continuamente irritabile, nervoso, scostante e spesso cupo.
Non sorrideva spesso, né tantomeno gli piaceva farlo davanti gli altri, e il fatto di avere ultimamente così tante responsabilità non lo aiutava di certo.
-Quando sarai morto potrai riposare quanto ti pare- asserì Keith in tono grottesco mentre infilava le sue cose nella borsa -Nel frattempo pensa al modo migliore per toglierti da quella tua brutta faccia quell’espressione da cane arrabbiato, faresti molto più colpo sulle ragazze, sai, e magari riusciresti a renderti persino umano con il gentil sesso-
James gli lanciò l’ennesima occhiataccia, ma evitò di replicare con una risposta piccata, perché tutto sommato doveva convenire che il suo amico non aveva tutti i torti, ma poi tornarono a parlare di ciò che li appassionava di più oltre ogni cosa, gli aerei, e il discorso venne totalmente messo da parte.


                                                                                                              ***

 
Braunschweig, Bassa Sassonia, Febbraio 1939


-Troppo basso! Cazzo vola troppo basso!- digrignò tra i denti l’Oberstleutnant  Hirschberg rivolgendosi al suo parigrado Von Halder mentre dalla torre di avvistamento osservavano il volo spericolato di un BF109 che stava praticamente infrangendo tutte le regole che un pilota deve rispettare durante un’esercitazione.
Non volare mai da solo sotto i tremila metri.
Evita le virate ma utilizza solo il volo orizzontale, e se devi avvitare fallo per non più di trenta secondi, altrimenti rischi di schiantarti al suolo.
Sempre guardarsi dal nemico che viene dal sole.
Queste erano le regole basilari nell’addestramento di un Obergefreiter.
Lui le stava infrangendo come suo solito praticamente tutte.     
-Maledetto! Non ho mai visto nessuno fare quegli avvitamenti a volo perpendicolare al suolo per più di dieci secondi netti. Un giorno o l’altro si sfracellerà da solo per la sua spocchia del cazzo e noi avremo perso uno dei migliori Obergefreiter che la Wermacht abbia mai conosciuto- sbottò a mezza bocca sorseggiando il proprio caffè.
Lentamente.
Molto lentamente.
-Oberstleutnant io credo che…- Von Halder stava per dire qualcosa all’altro ufficiale, quando quest ultimo per un attimo non si rovesciò addosso l’intero contenuto della tazza, mentre attonito osservava a una distanza di forse cento metri una perfetta virata Immelmann.
-Oh Cristo Santo- riuscì a imprecare solamente l’Oberstleutnant sgranando gli occhi per la sorpresa.
Il Messerschmitt nel giro di pochi secondi aveva effettuato un mezzo looping per poi riportarsi in assetto corretto con un altro mezzo tonneau e tornare a volteggiare come se nulla fosse stato, fino alla pista d’atterraggio poco distante.
-Io dico che è pazzo- convenne Von Halder -E dovrà di nuovo fare rapporto per questa sua ennesima bravata-
Hirschberg però non riuscì a trattenere un sorrisetto divertito, nonostante l’irritazione per quel giochetto di prestigio inaspettato -Io invece credo che sia semplicemente molto, molto bravo-

Joachim Von Scherner scese con un balzo dalla carlinga, si tolse il casco e sorrise a Felix Bauer, il suo compagno di volo per quella giornata.
-E allora Herr Hauptmann, come le sembra questo bel giocattolino?- gli domandò l’aviere scelto sfilandosi i guanti e fissando con sguardo di ammirazione quel fantastico monoposto da combattimento nuovo di zecca. Il BF109 era il fiore all’occhiello dell’aviazione militare tedesca, uno degli esemplari migliori e all’avanguardia che solo ai piloti più in gamba era permesso utilizzare per i voli di collaudo.
Joachim però arricciò il labbro in segno di disappunto, guardando con aria scettica l’apparecchio e appoggiando una mano sulla fusoliera liscia e fredda.
-E’ un bell’esemplare, questo senz’altro. Forse il migliore che abbia mai visto. Ma ha l’abitacolo angusto e la carreggiata del carrello di atterraggio è troppo stretta e questo ci creerà un sacco di problemi nelle fasi di atterraggio e di decollo-
Bauer alzò le spalle con uno sbuffo mentre si accendeva una sigaretta -Sempre a cercare la perfezione Herr Hauptmann. Me lo dia a me questo gioiellino e poi ne riparliamo-
-Continuo a preferire di gran lunga il Focke- rispose il capitano con aria meditabonda -Quei musi corti sono in grado di surclassare a quote basse anche gli Spitfire inglesi in virata, mi ci gioco quello che ti pare. Velocità di rollio più efficace, virata molto stretta a dieci gradi di flap e accelerazione bruciante. No, indubbiamente non c’è paragone-
Bauer fissò il suo superiore a bocca aperta. Era sempre un piacere sentir parlare il capitano Von Scherner di quello che maggiormente lo appassionava e lo eccitava: l’aviazione e gli aerei. Sebbene non avesse compiuto ancora trent’anni era un giovane uomo estremamente colto, intelligente, preparato sia teoricamente che tecnicamente. Si era laureato ad Heidelberg in scienze strategiche e in seguito si era arruolato nella Wermacht tedesca entrando subito con il grado di  Unteroffizier. Da lì, la sua carriera era stata rapida e sfolgorante, e la sua passione per gli aerei, coniugata alla sua brillante laurea, aveva fatto sì che diventasse uno dei tecnici e degli assi migliori della Luftwaffe del Reich.
Bauer e gli altri giovani piloti lo ammiravano profondamente, ma lui pareva non esserne minimamente consapevole, o comunque era qualcosa che non lo colpiva più di tanto visto che il suo obiettivo era migliorarsi continuamente e non accontentarsi mai di ciò per cui gli altri lo apprezzavano.

Rientrarono nell’alloggio della base chiacchierando animatamente, dopodiché si spostarono nella sala comune per rilassarsi un po’.
Joachim generalmente amava riposare leggendo un buon libro, a differenza dei suoi compagni di esercitazione che preferivano di gran lunga passatempi meno impegnativi come giocare a carte, fumare, sfogliare qualche giornaletto di quart’ordine, o fare una partita a freccette.
Poco più in là, da dove era seduto, lo fissava con insistenza un giovane uomo dai capelli nerissimi e gli occhi impassibili, d’acciaio, scrutando ogni suo movimento: era stato trasferito da poco alla base di Braunschweig e aveva preso confidenza un po’ con tutti, tranne che con Joachim da cui si era sempre volutamente tenuto alla larga.
Non sapeva spiegarsene il motivo ma quel tipo fin da subito non gli aveva ispirato troppa simpatia, e a quanto pareva la cosa era reciproca.
Non si erano mai parlati, ma gli occhi del nuovo Oberleutnant non gli piacevano per niente.
Joachim era un suo diretto superiore ma quello sembrava non avesse affatto timore a guardarlo dritto negli occhi, sprezzante, come se lo conoscesse da molto tempo.
Tendeva ad ignorarlo, eppure sentiva continuamente su di sé quello sguardo indagatore, freddo e distaccato.
Come due pugnali conficcati teneramente nella pelle.
-Ehi! Herr Hauptmann dai un’occhiata un po’ qui!-
Bauer lo distolse improvvisamente dai suoi pensieri mentre gli passava una copia del Volkischer Beobachter. -Questa la devi proprio vedere, Cloche-
Joachim distolse lo sguardo dal libro che stava leggendo, con aria leggermente infastidita
-Giuro che se è per farmi vedere una delle solite starlette mezze nude che tanto ti esaltano ti faccio rapporto a Hirschberg- borbottò scherzando, ma solo a metà. Detestava essere disturbato mentre faceva qualcosa che richiedeva la sua concentrazione.
-Questa… questa capo vale più di mille Marlene Dietrich- gli disse Bauer con l’aria di chi la sa lunga. Gli porse il giornale e lui l’afferrò fissandolo con aria di scetticismo mista ad una certa dose di curiosità.
-Se è più bella di Marlene Dietrich allora- le parole però gli morirono in gola mentre il suo sguardo si posava sulla fotografia di un uomo.
Appoggiato al suo Spitfire fissava l’obiettivo dell’operatore con aria di sfida con un lieve ghigno di disprezzo che gli aleggiava sul volto dai lineamenti regolari e perfetti. Gli occhi azzurri avevano un brillio di trionfo, fiero, penetrante.
Indimenticabile.
Joachim ebbe un sussulto.
Si chiamava James Railey.
Ed era considerato uno dei migliori assi della Royal Air Force.
Ne aveva sentito parlare di fama, certo, ma non lo aveva mai visto in faccia. Una faccia dura, dall’espressione severa e penetrante che nelle sue dichiarazioni di fuoco ai giornalisti inglesi affermava con sicurezza che l’aviazione militare di Sua Maestà era ancora tecnicamente di gran lunga superiore alla Luftwaffe del Reich con i suoi pachidermi bombardieri, e che sprezzante, lui e gli assi della Squadriglia dell’ 11 Group Fighter Command potevano battere in volo e buttare giù gli aviatori tedeschi con uno schiocco delle dita.
Maledetto  presuntuoso.
Railey era famoso per le sue spacconate e per la sfacciataggine delle sue affermazioni, ma questa di certo fomentava ancora di più gli animi già surriscaldati delle due fazioni.
In quella intervista da eroe vincente e invincibile Railey sembrava molto sicuro dei suoi mezzi.
Lesse l'intervista rapidamente, uno scambio di domande e risposte una più insulsa dell'altra culminata in una velenosa battuta del maggiore Railey.
-Questo signor Clot... mai sentito nominare. Se ha voglia di gareggiare con me, me lo faccia sapere che lo bevo a colazione assieme ad una tazza di caffè- lesse ad alta voce.
Stizzito, Joachim gettò da parte il giornale.
-Crede di essere simpatico quest'inglese da quattro soldi?- sbottò rivolgendosi a Bauer con occhi fiammeggianti.
-Chi è? E cosa vuole da me?-
-La tua pelle Cloche- gli ribatté laconico Bauer con un'alzata di spalle.
Joachim lanciò un'occhiata incattivita prima al suo sottoposto, poi all' Oberleutnant il quale non era riuscito a celare un sorrisetto di scherno diretto nei suoi confronti.
Tornò di nuovo a fissare l'immagine del maggiore Railey e di colpo gli venne l'istinto profondo di togliere per sempre quel ghigno da quella faccia da stronzo assieme a quell'espressione boriosa e arrogante.
Un’espressione che gli lasciò una sensazione nel cuore…spiacevole, sgradita…
Fastidiosa…
Un’espressione che non si dimenticava facilmente…
Che restava impressa…

E Che assomigliava alla sua in maniera odiosa.


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Prima di tutto alcune note linguistiche:



Oberstleutnant: Nella gerarchia militare della Luftwaffe, l’aviazione militare tedesca, è il corrispettivo del tenente colonnello.

Obergefreiter: E’ il primo aviere, il Gefreiter invece è l’aviere scelto

Unteroffizier: Sergente

Looping e tonneau: Sono due manovre acrobatiche. La prima si esegue portando in quota l'aereo affinché esegua un giro completo a forma di anello (loop), il tonneau invece è quella manovra che porta ad effettuare un giro completo rispetto all'asse orizzontale del volo. Se si esegue un mezzo tonneau, l'aereo si trova capovolto.

Spitfire: Caccia monoposto impiegato dalla Raf, divenne uno degli aerei simbolo della seconda guerra mondiale soprattutto per il suo efficace e forse decisivo contributo alla vittoriosa resistenza inglese all'aggressione tedesca.

Messerschmitt : bimotore a getto impiegato dalla Luftwaffe, l'Aeronautica militare dell'allora Germania nazista, durante  la seconda guerra mondiale,

Herr Hauptmann: in tedesco Signor Capitano.

Völkischer Beobachter: Diciamo che era il quotidiano ufficiale del movimento nazionalsocialista tedesco.

Clot: E' un gioco di parole. James storpia il soprannome di Joachim, Cloche, con Clot, che nello slang della Raf vuol dire idiota.

La foto che compare all’inizio del capitolo ritrae uno Spitfire in coda ad un Messerschmitt. Il perché di questa immagine credo possiate immaginarlo bene^^


Finalmente riesco a pubblicare il nuovo capitolo! 
Lo so arrivo con un ritardo pazzesco ma purtroppo sono in fase ultima di tesi e quindi le energie e il tempo per scrivere la mia storia purtroppo sono quelle che sono ç_ç Diciamo che fino ad aprile non so quanto riuscirò ad aggiornare, ma cercherò di fare il possibile! 
Perdonatemi >.<
Devo dire che questo capitolo è stato complesso da scrivere, sia per i riferimenti storici e tecnici all’aviazione tedesca, sia per il plot e per le idee che arrivano inaspettate nella stesura.
Capitolo che introduce questo misterioso personaggio comparso inaspettatamente di cui James non sospetta minimamente l’esistenza. Sicuramente nel prossimo capitolo sapremo di più sia su di lui, che sull’uomo dai capelli neri che non ha grande simpatia per Joachim. Per quest ultimo mi sono ispirata ad un aviatore realmente esistito, di nome Joachim Marseille, soprannominato la stella d’Africa, e considerato uno degli assi della Luftwaffe tedesca.


Piccola Ketty: Grazie per i complimenti cara!!! Mi fai davvero felice ^__^  Mi fa sempre un immenso piacere sapere che riesco a trasmettere un’emozione o comunque una determinata sensazione al lettore, e i tuoi pareri per me sono davvero fonte di gioia e di continua ispirazione. 
Grazie ancora, un bacione!!

Bibby111: Grazie anche a te! 
Grazie per la recensione : )

E un ringraziamento particolare alla mia insostituibile socia e alla mia adorata Tsuku che leggono silenziosamente e i loro complimenti mi fanno davvero felice^^

Bene, per ora è davvero tutto.
Un abbraccio a tutti voi e alla prossima!!!

Hime




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Capitolo 5
*** V ***


                                                    

                                                                         




Tutti i grandi sono stati bambini.
Ma pochi tra loro se ne ricordano

Antoine de Saint-Exupéry, Le Petit Prince


-Cloche? Ehi Cloche mi ascolti?-
Bauer lo osservava con aria corrucciata, mentre il capitano Von Scherner continuava a fissare con uno sguardo profondamente accigliato la fotografia del maggiore Railey.
Era incredibile la somiglianza che li accomunava. James Railey e Joachim Von Scherner si assomigliavano in maniera incredibile ma quella era la prima volta che lui ne aveva la sicura consapevolezza. Un pensiero che però lo infastidiva inequivocabilmente vista l'arroganza dell' ufficiale inglese.
-Pensa che coincidenza assurda, eh? Mai visto due persone essere tanto simili e tanto diverse!- esclamò Bauer ingenuamente.
Joachim, dal canto suo, provò una stranissima e inspiegabile sensazione.
-Ti sbagli, quel tipo non mi assomiglia affatto- troncò deciso, alzandosi nervosamente, senza alcuna possibilità di replica.
Il nuovo arrivato, che lo stava fissando da un po', fumando placidamente una sigaretta, invece, si era subito accorto del disappunto malcelato del capitano Von Scherner.
Ricordava bene quel James Railey, eccome se lo ricordava bene, e sicuramente era una stranissima coincidenza che lui e Joachim si assomigliassero in quel modo.
Forse Joachim aveva i lineamenti meno marcati, ma in conclusione, la somiglianza era innegabile in maniera quasi imbarazzante; evidentemente, però in passato, lui non aveva avuto niente a che fare con il San Francis, altrimenti lo avrebbe ricordato di certo.
Come ricordava bene quel bastardo di Railey.
Lo seguì con lo sguardo mentre usciva rapidamente, di gran carriera, poi, in silenzio si alzò a sua volta, spense il mozzicone nel posacenere e gli andò dietro con aria interessata. Lo seguì in silenzio fin sulla pista di rollìo, e quando Joachim se ne accorse, voltandosi, lo squadrò con aria incattivita e sospettosa.
-Si può sapere che vuoi?- il capitano sembrava piuttosto agitato e scosso nonostante cercasse in tutti i modi di nascondere il proprio nervosismo. Non riusciva a comprendere se lo innervosissero di più le sue parole o la sua faccia tanto somigliante alla propria.
Probabilmente entrambe.
Joachim tremava impercettibilmente.
Thomas Wentz se ne accorse immediatamente.
-Sono giorni che ti controllo e non mi piaci per niente- gli disse in maniera aperta e rude, andandogli dritto incontro e parlandogli faccia a faccia, alterandosi non poco. Credeva forse di intimidirlo in qualche modo?
Sprezzante e fiero, pensò Wentz, come qualcuno di sua conoscenza.       
L'Oberleutnant, per nulla intimorito, si appoggiò alla parete, con un sorrisetto sarcastico, calcandosi sugli occhi il berretto dell'uniforme, infischiandosene altamente che l'uomo che aveva davanti fosse un suo diretto superiore.
-Se è per questo neanche tu mi piaci per niente, Cloche- sogghignò con aria di sfida -Soprattutto perché forse...uhm...come dire, potresti nascondere una qualche affinità con il nemico?- L'espressione del suo viso si increspò in un sorriso maligno, mentre percepiva la tensione di Von Scherner farsi sempre più accesa e incontrollabile.
-Tu sei pazzo, ma di che stai parlando?- il labbro inferiore gli tremava impercettibilmente mentre si trovava faccia a faccia con quell'uomo.
-James Railey- gli occhi d'acciaio di Wentz si rialzarono a fissare il capitano con freddezza inumana -A molti questo nome significa tutto e niente- soggiunse in tono velenoso -E a lei Herr Hauptmann?-
-Per me non vuol dire un cazzo. E' solo l'asso dell'11 Group Fighter Command. Lo conoscono tutti di fama, chi non conosce James Railey, e allora?-
-E allora non trova, come dire, particolarmente strano che lei e Railey vi assomigliate quasi come due gocce d'acqua?-
-E' solo una fotografia. Probabilmente anche ritoccata dalla stampa per farci su un articoletto idiota. Non ci baderei affatto. Ma poi a te cosa importa? Che vuoi da me? Chi sei?- lo incalzò duramente, senza mezzi termini.
In realtà quel volto, lo aveva toccato dritto al cuore.
Thomas lo fissò con un'espressione talmente penetrante e intensa che Joachim non riuscì a staccare gli occhi da lui.
Sembrava quasi volesse rivelargli un segreto molto importante o qualcosa di dolorosamente inconfessabile.
Fu dopo un lungo silenzio, e un faccia a faccia carico di tensione tra i due, che Wentz si decise a parlare:
-Credo la cosa possa interessarla Herr Hauptmann perché io conoscevo quell'uomo. L'ho conosciuto tanto tempo fa. In un orfanotrofio di Londra. Quando era solamente un ragazzino. Ribelle e indomito proprio come adesso-



Londra, 1913  


Faith Railey fissava ansiosamente l’uomo che guardava con aria cupa la pioggia che batteva insistente contro i vetri della finestra.
Erano in silenzio da un po’, ognuno perso nei propri pensieri.
-Ti ho fatto una domanda- ribadì lei seccamente, dopo un po', la voce che vibrava impercettibilmente.
Janos Von Scherner le voltava le spalle, le braccia incrociate dietro la schiena, il profilo forte e deciso, contratto in una maschera d’indifferenza.
Le parve un’eternità quando lui si decise a risponderle di nuovo.
-E a me sembra già di averti dato una risposta- ribatté in tono distaccato, mentre si girava a fissarla con quegli occhi azzurri e glaciali. -Non aspettarti che io ti sposi solo perché abbiamo avuto un figlio insieme. Sai bene qual è l’unica cosa giusta da fare. Lo sai da quando l’hai scoperto, quindi ora tutte queste scene patetiche sono inutili. Non ti ho mai illuso, né è stata mai mia intenzione farlo, dovevi saperlo, o almeno ricordartelo quando hai deciso di tenerlo-
La sua voce era dura, incolore, piena di disprezzo. Faith fu percorsa da un brivido di orrore quando incrociò quello sguardo freddo e calcolatore. Janos le voltò nuovamente le spalle per avvicinarsi alla sedia dove aveva appoggiato il pesante cappotto, e ne trasse fuori una piccola busta bianca, anonima, che le porse seccamente, senza dire una parola. -Sono tutti. Cinquecento sterline, contali pure se non ti fidi-
Faith rimase a guardarlo da capo a piedi, incredula, poi d’improvviso, una profonda sensazione di disgusto la pervase, facendole allontanare con uno gesto improvviso e stizzito la mano dell’uomo.
-Pensi davvero che potrei accettare la tua elemosina? Mi credi così meschina?- gli occhi di lei si erano riempiti di lacrime e dolore mentre Janos rimaneva con la busta a mezz’aria, l’aria sorpresa e vagamente imbarazzata. Allora appoggiò la busta sul cassettone a lato e si mise le mani in tasca, continuando ad osservare Faith attentamente,  riprendendo il controllo della situazione.
-Non li vuoi eh?! Dì un po' vuoi fare l’eroina…l’orgogliosa e la sprezzante a tutti i costi? O forse, più semplicemente, vuoi farmi sentire…uhm…diciamo lievemente in colpa?-
Un lieve ghigno di sfida gli aleggiava sul volto mentre la guardava da capo a piedi.
Faith rimaneva sempre una donna splendida, nonostante le difficoltà e le continue sofferenze che aveva patito per colpa sua e di altri uomini che l’avevano usata senza ritegno. Aveva un fuoco negli occhi verdi, indimenticabile, da cui si rimaneva accecati, e nonostante in quel momento lui provasse nei suoi confronti un profondo disprezzo, non poteva fare a meno di rimanere profondamente affascinato e incredibilmente attratto dal suo corpo snello e flessuoso, dal suo viso dai lineamenti fini ma decisi, da quelle labbra carnose, dal seno pieno e florido, dalla sua personalità passionale e indomita. Faith era un frutto proibito, un essere oggetto della trasgressività più pura, della sensualità inconsapevole e anche per questo ancora più invitante, ed era stata proprio quella consapevolezza nella sua bellezza appariscente a farlo irrimediabilmente attirare tra le sue braccia, una sera, quando l'aveva vista servire ai tavoli di quel pub di dubbia categoria gestito da alcuni immigrati di Francoforte, dove lui ed alcuni ufficiali del Deutsches Heer, in servizio a Londra per una breve ricognizione, usavano andare per sbronzarsi e trovare dolce compagnia, quando le famiglie e le mogli gelose erano lontane e loro si sentivano soli e tristi, in cerca di affetto. Era stato così che aveva conosciuto Faith Railey: Faith dai capelli biondissimi e dagli occhi verdi. Faith che pronunciava il suo nome straniero in quel modo tanto buffo. Faith e la sua bellezza indimenticabile. Faith dal sorriso accattivante e incredibilmente seducente con quella fossetta ai lati della bocca. Faith e il suo bambino. Era stato una specie di colpo di fulmine: almeno da parte di lei.
Lei si era innamorata immediatamente dei modi ruvidi ma sensuali del colonnello Von Scherner, mentre per lui, quella giovane inglesina, aveva rappresentato fin da subito solamente un piacevole diversivo a cui poi, piano piano si era affezionato. La sua puttana preferita con cui dimenticare la noiosa e fiacca routine familiare che lo aspettava in Germania. Il suo svago poco impegnativo, niente di più. Ma per sbaglio era successo che lei, durante le loro divertentissime notti di passione, era rimasta incinta e non ne aveva minimamente voluto sapere di rinunciare a quel bambino, nonostante fosse già madre di un altro bastardello di tre anni, senza padre.
Non c'era stato verso di dissuaderla dal rinunciare a quel bambino e lei ad un certo punto aveva cominciato a fargli strani discorsi, su una possibile idea di lasciare sua moglie, di costruirsi una famiglia tutta loro visto che lei era profondamente innamorata: ma Janos non aveva voluto sentire ragioni.
Il coinvolgimento con quella donna era andato troppo avanti, e l'unica cosa che lui le aveva concesso era stato una specie di patto piuttosto meschino e avido che prevedeva di cedergli il bambino in cambio di soldi, per poterlo crescere in Germania, assieme alla consorte legittima. Ariana, la moglie di Janos, soffriva di una grave forma di sterilità, e da tempo ormai era a conoscenza delle scappatelle, in patria e non, del marito, ma quando aveva scoperto che la sgualdrina di cui si era stoltamente invaghito era rimasta incinta, dapprima lo aveva minacciato di morte, poi lo aveva cacciato di casa, e qualche mese più tardi, dopo le pressanti insistenze e gli squallidi ragionamenti del marito lo aveva riammesso, in cambio di quella maternità che non le era stata concessa naturalmente. Faith inizialmente, spinta dalle necessità economiche e dal desiderio di garantire una piccola rendita anche all'altro figlio, aveva accettato la sua proposta, ma una volta avuto il bambino ci aveva ripensato, e si era rifiutata di assecondare il patetico tentativo di Janos di accontentare tutti e salvarsi, per quanto poteva, la reputazione.

-Joachim è figlio mio! Tu non puoi farmi questo, non puoi Janos!- Faith urlava, gli occhi fuori dalle orbite, il respiro affannoso, disperata e pronta a tutto perché non la privasse del suo bambino. Joachim strillava, piangendo nella piccola culla accanto al letto della madre, come se avesse capito tutto quello che gli stava tristemente accadendo attorno. James, suo fratello più grande, sedeva raggomitolato dietro la porta della cameretta attigua con le manine a coprirsi entrambe le orecchie per non sentire il pianto disperato del suo fratellino, le urla di sua madre, e la voce melliflua e calmissima, nella sua spietatezza, di quell'uomo sconosciuto e cattivo.
-Tu non hai nemmeno la possibilità di mantenere l’altro tuo bastardo, di certo non ti permetterò di far condurre la stessa gretta esistenza a mio figlio. Questi erano i patti. Avrai i tuoi soldi, ma in cambio devi sparire dalla mia vita e da quella di Ariana, e lasciarmi Joachim. Di certo avrà una vita migliore rispetto a quello che potrai offrirgli tu. E’ meglio per tutti, credimi- Janos la scostò con un energico spintone, oltrepassandola risolutamente.
-Meglio?! Per chi? Per te, forse? Per tua moglie? Ma non puoi farmi una cosa così ignobile. Non puoi!- urlò lei furiosa come una belva, attaccandosi al suo braccio.
-Janos io ti amo ancora. Ti prego, potremmo essere felici, io, te, James e Joachim. Resta con me, non mi lasciare...non...-
-Smettila, sei patetica. Non puoi fare più niente e lo sai benissimo- Janos la scostò nuovamente da sé con aria di profondo disappunto -Ci sono le carte scritte, c'è la mia firma, la tua, e quella del notaio, le chiacchiere stanno a zero. Joachim da adesso in poi viene con me, è figlio mio, tu hai rinunciato alla patria potestà quando hai acconsentito a prenderti i soldi per crescere quell'altro- Sembrava un uomo completamente diverso, risoluto, spietato, senza scrupoli. Un' altra persona rispetto all'uomo appassionato e gentile di cui lei si era innamorata tanto tempo prima, e che ora la tradiva in quel modo tanto subdolo.
Prese di malagrazia in braccio il neonato che piangeva disperatamente, e che era diventato tutto rosso per lo sforzo, senza accorgersi minimamente che due occhietti, da una porta leggermente socchiusa, adesso, stavano fissando ammutoliti la scena che avveniva nella stanza. Due occhi azzurri e innocenti che non riuscivano a capire fino in fondo perché la mamma piangeva mentre quel signore urlava, gridandole parole cattive.
Sentiva ripetere solo un nome. Joachim, Joachim, Joachim.
Ed era quel bambino piccolissimo che la mamma cullava continuamente, cantandogli delle canzoncine tenerissime.
Suo fratello.
Una volta lo aveva preso in braccio lui stesso, lui, lui che aveva appena tre anni, lui che mai aveva conosciuto il suo papà, lui che dormiva nel lettone della sua mamma e ricordava ancora il profumo del suo seno su cui dormiva beato come un cucciolo. Aveva preso in braccio quel neonato minuscolo e immobile e aveva capito che in un modo o nell'altro lo avrebbe protetto per sempre, e che non lo avrebbe mai dimenticato.
Lo avrebbe protetto. Lo avrebbe protetto. Lo avrebbe protetto.
Allora d'istinto aprì la porta dietro cui era nascosto e si gettò addosso alle gambe dell'uomo, cercando di fermarlo con tutte le sue forze.
-Lascia stae mio fratello! Lasciao stae, hai capito?!- gridò aggrappandosi alla gamba destra di Janos che, dall'alto della sua statura, dapprima parve sorpreso nel vedere comparire d'improvviso quel marmocchio, poi lo guardò con un sorriso maligno, scacciandolo disgustato come un cane pulcioso.
-Tu non mi interessi piccolo bastardo cencioso, togliti di mezzo, mi sporchi i pantaloni-
-James!- sua madre lo richiamò con ferma disperazione, ma il bambino non l'ascoltò per correre di nuovo verso il fratellino e l'uomo che lo stava portando via.
-Che bambino coraggioso che abbiamo- ridacchiò Janos Von Scherner, deridendo il piccino e scacciandolo di nuovo, scrollando la gamba -Ma anche molto, molto fastidioso. Peccato che tu sia figlio di nessuno, quindi dovrai rimanere qui ad accudire tua madre- disse asciutto, consegnando il neonato alla bambinaia che era venuta con lui e che aveva assistito atterrita e in silenzio a tutta la scena.
-Janos non farlo ti prego- mormorò Faith, ormai quasi senza più forze, in un sussurro, ma lui non si voltò più, né ascoltò le sue parole, prese semplicemente la porta e uscì, oltrepassandola senza dire più una parola.
-No, Joachim!- urlò ancora, in un ultimo disperato tentativo di riaverlo a sé, ricadendo pateticamente su se stessa, come una bambola spezzata.
E quella fu l'ultima volta che Faith Railey vide suo figlio e l'uomo con cui lo aveva messo al mondo.
James gli sgambettò dietro, ma la porta gli venne letteralmente sbattuta davanti facendolo ricadere indietro.
Faith allora lo prese in braccio mentre lui scalciava furiosamente, allungando le braccine e strillando che voleva il suo fratellino a tutti i costi. Sua madre non riusciva a calmarlo in alcun modo, sembrava una belva talmente era agitato. -Buono Jamie, sta buono amore- mormorava come una cantilena, gli occhi vacui persi nel vuoto mentre accarezzava i morbidi riccioli del suo bambino, pensando disperatamente a quello che aveva appena perso.
Non possiamo farci niente...non possiamo farci niente...non...
Joachim non tornerà più da noi. Tuo fratello l'hanno portato via.
Restarono abbracciati fin quando i singhiozzi disperati di Jamie non si furono leggermente placati, allora Faith prese la busta con i soldi e si sedette alla scrivania, lentamente, con gesti meccanici. Rimase a lungo con la testa tra le mani, senza sapere più cosa fare, sentendosi completamente perduta e ricominciando a piangere sommessamente: Jamie la osservava per terra, sporcandosi costantemente il braccino con il moccio che gli scendeva dal naso, continuando a chiedere petulante alla mamma dove quell'uomo cattivo aveva portato il suo fratellino, senza però ricevere alcuna risposta.
Poi la donna trasse dal cassetto un foglio e una penna e cominciò a scrivere qualcosa, poche parole, un messaggio indirizzato a chissà chi, e lo ripose all'interno della busta con i soldi che le aveva lasciato Janos.
Jamie non udì più sua madre pronunciare una parola, e lui stesso evitò di fiatare, sia quando lei gli diede qualcosa da mangiare, sia quando lo mise finalmente a letto.
Faith gli diede solo il bacio della buonanotte accarezzandogli amorevolmente i morbidi riccioli castani. L'ultima cosa che James ricordò prima di addormentarsi fu il sorriso pieno di tristezza e di rassegnazione della mamma e il suo profumo buono che sapeva di latte. Gli era sempre piaciuto così tanto appoggiare la testa sul suo seno morbido e appoggiarvisi sopra prima di addormentarsi.
-Domani andremo a riprendere 'Chim vero?- le aveva domandato con la voce già piena di sonno, gli occhioni rossi per il pianto, mentre la mamma gli rimboccava le coperte con cura.
Che ometto coraggioso che era stato quel giorno.
-Sì amore. Domani lo andremo a riprendere. Ora dormi, dormi piccolo angelo. La tua mamma è molto stanca-
Molto stanca
Il mattino dopo, James si svegliò quasi di soprassalto: aveva fatto un brutto sogno, e per lo spavento aveva fatto la pipì a letto.
Aveva sognato che degli uccellacci neri attaccavano sia lui che la sua mamma, e che lei ed il suo fratellino venivano ricoperti di piume che li soffocavano orribilmente. Si era risvegliato con il fiatone e per la paura aveva cominciato a chiamare la mamma a pieni polmoni, strillando come un ossesso per lo spavento.
Ma nessuno gli aveva risposto.
Nessuno lo ascoltava.
Nessuno pareva curarsi più di lui.
Allora si fece coraggio, scese piano piano dal lettino, vergognandosi profondamente per quello che aveva combinato tra le lenzuola e andò alla ricerca di sua madre.
La trovò sdraiata sopra le coperte, gli occhi chiusi, immobile, pallida.
-Mamma! Mamma- James corse da lei, saltando come un grillo sul letto e allungò le manine paffute a darle tanti pizzicotti sul viso per svegliarla. Sembrava che dormisse tanto era bella, infatti Jamie si aspettava che da un momento all'altro lei aprisse gli occhi e lo abbracciasse forte forte, mentre adesso sembrava immobile e non gli rispondeva affatto. Jamie le scoccò un bacio sonoro sulle guance, e poi tra i capelli, tirandoglieli leggermente, chiamandola di continuo, e poi si mise di nuovo a piangere, un pianto lento, disperato, sul petto di sua madre.
Che non respirava più.
Fu la vicina di casa, che generalmente portava sempre un regalino ai bambini, ad assistere, dopo molte ore, ad una scena raccapricciante. Aveva ritrovato Jamie, sporco di pipì e di moccio, abbracciato alla madre morta, mentre continuava a parlarle, ad accarezzarla e a fare finta che lei stesse solamente dormendo.
Separarlo da Faith per portare via il cadavere della donna, che si era suicidata con del Valium, fu un disastro completo. Il bambino non aveva fatto altro che dare calci e sputi a chiunque lo aveva avvicinato, urlando, pronunciando parole irripetibili per un bambino di tre anni, dicendo che non dovevano portargli via anche la mamma, perché un signore cattivo aveva già rapito il suo fratellino e così lui sarebbe rimasto solo per sempre.
Solo per sempre.
Per sempre.
Nessuno però badò alle sue disperate richieste: non c'era tempo, né persona che potesse occuparsi di un bambino che venne definito semplicemente come un ragazzino dissociato e profondamente disadattato, senza alcun punto di riferimento, il cui unico destino, alternativo alla strada, consisteva in un orfanotrofio qualunque.
Un nameless. Un senza nome e senza famiglia lo avevano definito, quando era arrivato a tre anni al San Francis. Solo e spaventatissimo, con un piccolo fagotto, senza più lacrime ormai, taciturno e scontroso, aveva giurato a se stesso che non avrebbe voluto mai più bene a nessuno.
Perché nessuno gli aveva voluto bene. Tutti lo avevano abbandonato, lasciandolo da solo. La mamma, così gli avevano detto i grandi, era partita misteriosamente per un viaggio lunghissimo e non lo aveva voluto con sé. Chim era troppo piccolo e aveva trovato una mamma e un papà ricchi, mentre a lui non rimaneva niente, se non rinchiudersi in un'ostinata aggressività e rimanere per sempre in quel posto brutto, dove c'erano tanti bambini tristi, arrabbiati e cattivi come lui.


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Sono felice finalmente di essere riuscita a pubblicare questo nuovo capitolo! Perdonate i miei clamorosi ritardi, ma purtroppo l'ispirazione come al solito va e viene, e non sempre mi supporta, e sopporta XD Stavolta, però, mi ha permesso di completare questa parte in cui un po' di cose vengono scoperte. Perdonate il James versione Oliver Twist che probabilmente vi ha intristito non poco, ma non potevo fare a meno di svelare una parte fondamentale della sua infanzia che lo ha reso così diciamo...inacidito con il mondo. Spero che anche voi riusciate ad amare questo personaggio almeno una piccola parte di come lo amo e lo sto delineando io ♥


Un ringraziamento speciale come sempre alle mie adoratissime recentrici:

Piccola Ketty: ciao cara, sentirti dire che riesci ad immedesimarti con i personaggi delle mie storie, è un piacere immenso. Grazie per i complimenti, davvero, spero di non averti intristito troppo con questo nuovo capitolo : ) 

Bibby111: Grazie anche a te, carissima per i complimenti^^ 

Poi ringrazio anche lizzie83, kiravf, Sophief88 e la mia adorata Tsuku per aver inserito "Per ardua ad astra" tra i preferiti, e DianaV e luisina tra i seguiti.
Un ringraziamento speciale anche a Pagliaccio di Dio, al cui splendido Le Fleurs du Mal contest, questa fic, con i primi due capitoli, è arrivata terza, vincendo il Premio Giuria ^^

Grazie a tutti, e alla prossima (laurea permettendo e sperando di riuscire ad aggiornare in un tempo relativamente più breve)
Vostra Hime



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Capitolo 6
*** VI ***


James e gli altri ufficiali rientrarono a Londra dopo qualche giorno, e la cosa che gli risultò più strana fu il ritrovarsi a pensare più del dovuto alla ragazza dello Swan Hart: quella era una cosa che lo rendeva ancora più inquieto e insofferente. Non riusciva a togliersi dal cuore quegli occhi grigi, e il problema più urgente e preoccupante sembrava proprio che quella sensazione non gli risultava affatto sgradita, anzi gli pareva persino piacevole.
A quanto ricordava lei gli aveva detto che si sarebbe esibita per tutto il mese, per cui propose al suo amico Keith di andare a prendere qualcosa in un posto un po' diverso dal solito. Voleva rivederla; non sapeva esattamente per fare cosa, ma voleva farlo.
Il suo amico accettò, così non appena ebbero entrambi la libera uscita andarono a prendersi un tavolo e una birra proprio allo Swan Hart.
James rimase gradevolmente colpito quando la ritrovò di nuovo, seduta al piano su quel palchetto fumoso, circondata da una luce soffusa che la faceva apparire ancora più inavvicinabile. Si accomodarono allo stesso posto da dove l’aveva vista la prima volta, e cominciò a fissarla con insistenza. Non poteva farci niente, lei lo catturava in un modo speciale, che lo trascinava in mondi lontani e sconosciuti, facendogli quasi dimenticare chi era, dove si trovava e perché era lì. Vedeva solo quelle mani lunghe, aggraziate muoversi rapide e sfuggenti come acqua che scorre e comporre una melodia struggente, viva, ardente, proprio come l’espressione dei suoi occhi totalmente rapiti da quella sua musica meravigliosa, quegli occhi pieni di passione, di brio e di fuoco impressi nella sua mente come un segno indelebile. Keith se ne accorse e dovette dargli una gomitata sul braccio per farlo ritornare sulla terra.
-Maggiore sei ridicolo- bofonchiò Ombra sorseggiando la sua pinta e fissando con aria scettica la pianista -Ha l'aria della professoressa, si vede lontano un miglio. Quella ti bacchetta anche a letto-
James gli lanciò un'occhiata sorniona, mascherando con le parole ciò che nell'intimo provava -Ho i miei modi per farle stare zitte tutte, comprese le professoressine del cazzo-
-Dieci a zero che non riesci a scopartela neanche stasera- ghignò Allbright.
-Come sei indelicato Ombra. Non vedi che è un'artista?-
-Ti conosco, tu punti solo a quello-
-Shhh!- Asso lo zittì con la mano -Fammi ascoltare la soave melodia di Chopin- borbottò chiudendo gli occhi e fingendo di essere rapito dalla melodia.
In realtà, nonostante le sue parole da spaccone, continuò mentalmente a darsi dello sciocco, del sentimentale, del debole, eppure non riusciva a distogliere lo sguardo da lei; aveva qualcosa di indecifrabile, qualcosa che lo attirava irrimediabilmente. Forse era semplice attrazione fisica, forse voleva solamente conquistarla e scaricarla non appena lei ci fosse stata, eppure questo non gli bastava. Non del tutto almeno. Sentiva che sotto c'era qualcos altro, qualcosa che non riusciva a spiegarsi pienamente. Questo strano pensiero lo perseguitò intimamente per tutto il tempo,  e quando il suo concerto terminò fu estremamente naturale avvicinarsi e presentarsi di nuovo.
Lei, che non si aspettava minimamente di ritrovarselo davanti, anche se lo aveva segretamente sperato, rimase davvero colpita e sbalordita: in quei giorni non si era minimamente azzardata a pensare che lui potesse davvero tornare, e invece i fatti le dicevano che i suoi pensieri più nascosti si erano trasformati in una piacevolissima realtà. E questa realtà aveva gli occhi azzurri e lo sguardo severo di quel bellissimo ufficiale di poche parole.
James abbozzò un pallido sorriso mentre con l’indice e il medio si sfiorava la tempia in un vago gesto di saluto, presentandole il suo amico e Lee, come se nel cuore avesse sempre capito che quell’uomo sarebbe tornato da lei, gli sorrise a sua volta, dimenticandosi di tutto ciò che la circondava intorno, sentendosi come una bambola senza più volontà. Quel profumo speziato, maschio, inebriante le ricordava delle sensazioni piacevoli, che avrebbe rivissuto molto volentieri.
Il maggiore Railey lanciò un’occhiata dietro di lei al cappotto e ai numerosi spartiti raccolti ordinatamente in un’elegante cartella di cuoio -Posso accompagnarla di nuovo? O devo ancora fare i conti con qualche fidanzato geloso?- Lei rise, lusingata per quelle attenzioni. Mai si sarebbe aspettata che un uomo tanto bello si ricordasse di lei.
-Nessun fidanzato geloso, e sì se vuole…- gli lanciò un’occhiata divertita -Le do il permesso ufficiale di riaccompagnarmi a casa-
Allora lui, senza farselo ripetere una seconda volta, l’aiutò educatamente ad infilarsi il cappotto prima di uscire nella gelida serata del West End.
-Lei non mangia mai?- le chiese lui non appena furono fuori, con aria seria e tesa. Non riusciva a spiegarsi il perché ma il suo comportamento gli risultava affettato ed eccessivamente cerimonioso. Troppo per un uomo come lui che non voleva compromettersi in alcun modo, soprattutto con lei.
Lee alzò le spalle con aria scanzonata -Uhm…beh…ecco talvolta riesco a suonare per ore senza avere alcuno stimolo famelico. Però ora che mi ci fa pensare, credo che mi farebbe davvero piacere mettere qualcosa sotto i denti-
Così era tutto molto più semplice.
Lui non le avrebbe mai chiesto esplicitamente di uscire a cena assieme, ma, se lo avesse invitato lei, probabilmente le cose sarebbero andate in modo diverso, e così fu Lee a proporgli di andare in un posto che conosceva molto bene e dove si mangiava il miglior bacon del West End.
James dapprima sembrò riluttante ad accettare, anche perché c'era anche Keith, ma poi non riuscì a non farsi coinvolgere dall’entusiasmo genuino e puro di quella ragazza e si fece trascinare in un pub dove suonavano dal vivo musica irlandese e tutti si scatenavano in vivacissime danze Ceili accompagnate da fiumi di Guinness.
Lee lo prese per un braccio conducendolo dentro nella bolgia -Vieni con me!- esclamò a lui che sembrava riluttante, cercando di sovrastare il frastuono della musica.
Evidentemente lei conosceva un po’ tutti perché si metteva a salutare a destra e a sinistra quasi tutte le persone che incontrava, mentre James, in mezzo a quel caos si sentiva vagamente imbarazzato e fuori posto.
O forse no?
Poi Lee salutò calorosamente una ragazza snella dai lunghissimi capelli rossi e il  viso cosparso di lentiggini che trovò per loro tre un posto per sedersi e mangiare qualcosa.
-Lee ma quale dei due è il tuo nuovo ragazzo?- le chiese Blaine, prendendola per un braccio da una parte e fissando con malizia quei due uomini incredibilmente attraenti che mettendosi a sedere scambiavano qualche parola fra loro.
Lee rise mentre scoccava un bacio sulla guancia alla sua amica -Blaine io non ho un ragazzo. Comunque il fascinoso di cui ti parlavo è quello più alto. E’ un bel tipo vero?!-
-Non farmi dire cose sconce dannata ragazza, che Dio mi perdoni, ma quello è un pezzo raro bella mia. Se te lo fai scappare giuro che me lo prendo io!- le disse all’orecchio con espressione eloquente.
-Credo sia troppo serio per te. Il suo amico sembra più simpatico! - le rispose Lee di rimando strizzandole l’occhio. Non lo conosceva ma il solo averci scambiato qualche parola le aveva fatto intendere che fosse un tipo molto meno incavolato con il mondo rispetto a James ed estremamente più cordiale.
Blaine lanciò una lunga occhiata a Keith -Il suo amico ha la faccia da furbo. Probabilmente è un tizio abituato a spezzare i cuori delle giovani pulzelle- le disse con aria melodrammatica.
Non che James avesse un'aria meno irriverente, ma Keith sembrava proprio il suo degno compare, uno che sa il fatto suo, che piace e ne è perfettamente consapevole.
-Se vuoi te lo presento-
-Chi? Quel tipo? No bella mia, preferisco stare alla larga da certa gente. Si vede lontano un miglio che è un soggetto poco affidabile, e credo che sotto sotto anche il tuo damerino non sia da meno. Profuma troppo di acqua di colonia e tabacco per i miei gusti-
-Uhm, secondo me andreste d'accordo-
Keith era più basso e meno elegante di James ma aveva due occhi verdi magnetici che restavano impressi e un fascino più rude, da canaglia oltre che una voce roca estremamente seducente.
-Secondo me no- tagliò corto lei, ma il modo in cui lo disse, e il secondo di più che restò a fissarlo, le fecero intuire che forse c'era qualcosa che Blaine non le aveva detto completamente.
Alla fine il discorso cadde così ordinarono del bacon rosolato e tre piatti di uova fritte, e quando Blaine portò loro i boccali di Guinness la giovane cameriera le pestò di proposito il piede -Go raibh maith agat!- esclamò solamente guardando entrambi con l’aria di chi la sa lunga, e quando se ne fu andata James fissò incuriosito Lee mentre si dividevano la porzione di bacon appollaiati su una sorta di trespolo.
Lei rise a bocca piena, immaginando già cosa stesse pensando, buttando giù un sorso di birra, e poi tornò a guardarlo.
-Uhm…vediamo, non chiedermi niente, credo ci abbia augurato solamente una buona cena!- mentì in tono vago.
James le lanciò di rimando un’occhiata poco convinta ma ugualmente divertita: le piaceva quel suo aspetto così fresco, sbarazzino, vivace, appassionato, così diverso da come l’aveva conosciuta inizialmente.
Non si faceva problemi a scolarsi un intero boccale di Guinness e a mangiare poco elegantemente come uno dei suoi soldati e quando finito il pasto, circondati dall’allegro frastuono, lei lo trascinò sulla pista, in una scatenatissima Virginia Reel, non poté fare a meno di sorridere.
Fu praticamente impossibile tirarsi indietro di fronte a tanta energia, e nonostante fosse una cosa totalmente nuova e inaspettata per lui, sempre così impassibile e distaccato,  si ritrovò a muovere una serie di passi sconnessi, trascinato dalla gente che gli stava intorno al suono dei fiddles e delle cornamuse e a quella ragazza che ora gli pareva così diversa dall’angelica creatura dello Swan Hart con i capelli tirati su, la camicetta generosamente sbottonata, a piedi scalzi, le guance rosee per il caldo e la Guinness che cominciava a fare effetto.
-Ehi gente! Vaffanculo agli inglesi, viva l'Irlanda libera!- urlò ad un certo punto, dal centro della sala un uomo dalla stazza enorme, levando in alto il boccale di Guinness.
-Viva l'Irlanda libera!- gli urlarono dietro tutti gli avventori del pub in preda a sentimenti patriottici e ai fumi dell'alcool, mentre i musicisti attaccavano a suonare “The Foggy Dew” e tutti si mettevano la mano sul cuore.
Lee lanciò a James e Keith un'occhiata quasi di scuse mentre continuavano gli improperi contro l'Inghilterra e sua Maestà.
-Fossi in loro non insulterei così tanto la patria che gli dà da mangiare e per la quale molto presto combatteranno contro i crucchi- commentò James ad alta voce, volutamente, fissando in cagnesco gli irlandesi che si sa, se vengono provocati reagiscono molto male, dato il loro carattere fumantino.
James Railey non era da meno.
-Ehi dì un po' si può sapere che cazzo ci sei venuto a fare qui, damerino di sua Maestà?- lo provocò un ragazzo alto e imponente, venendogli sotto con fare intimidatorio.
-A farmi quattro grasse risate alle tue spalle, roscio- ghignò James faccia a faccia con l'altro, senza paura.
-Brutto figlio di putt...- ma prima che potesse anche solo colpirlo, James lo aveva già reso inoffensivo prendendogli il braccio e girandoglielo dietro la schiena in un movimento secco e preciso che gli fece uscire l'osso della spalla, facendolo urlare dal dolore e contorcere su se stesso.
Un secondo dopo, tre uomini gli furono praticamente addosso, in una zuffa clamorosa, seguita da urla spintoni, sputi e imprecazioni varie.
Lee urlava di smetterla, un paio di altri avventori si misero in mezzo per sedare la rissa tra inglesi e irlandesi. James e Keith davano e ricevevano pugni con la stessa meticolosità, spalleggiandosi a vicenda, e alla fine dovette arrivare il gestore del pub per cacciare tutti i protagonisti della rissa che ormai se le stavano dando di santa ragione.
Riconobbe i due ufficiali della Raf per cui non chiamò la polizia, ma li minacciò severamente a brutto muso, e li buttò fuori entrambi senza troppe cerimonie.
Lee salutò rapidamente Blaine scusandosi profondamente per la figura fatta con quei due personaggi, e uscì assieme ai due uomini, mezzi barcollanti che ridacchiavano per la bravata appena compiuta.
-Figlio di puttana allora sai ancora boxare come un vero pugile- sogghignò Allbright appoggiandosi alla spalla di James. -Oh certo, soprattutto quando c'è da fare a botte con chi non mi va giù- gli rispose Railey passandosi la punta delle dita sotto il naso e accorgendosi che sanguinava copiosamente.
-Scusaci miss per questo piccolo...uhm...imprevisto!- esclamò Keith.
Erano sbronzi e si vedeva.
Le birre ordinate allo Swan Hart e all'irlandese cominciavano a dare i loro effetti.
Lee rimase disgustata dalla scena e stava quasi per andarsene, mollandoli entrambi lì, quando si accorse che James aveva cominciato a perdere sangue, così ci ripensò.
-Siediti, avanti- lo rimproverò in tono sbrigativo, infischiandosene di trovarsi davanti ad un alto ufficiale. Per quanto la riguardava, quella sera, lui aveva perso ai suoi occhi tutta la sua aura romantica, facendo, assieme al suo compare di bisboccia, la figura dell'imbecille.
-Sei carina quando ti arrabbi, miss lo sai- biascicò lui sedendosi pesantemente sulla panchina, accanto al suo amico.
-Asso, non vale, anch'io voglio l'infermiera di fiducia- protestò Allbright mentre Lee prendeva dalla borsetta un fazzoletto e gli tamponava la narice picchiettandola con decisione.
-Grazie, mammina- sorrise lui, mentre senza accorgersene, faceva salire una mano, lungo la coscia di lei, a sfiorarla con delicatezza, e quando Lee se ne accorse e lui fece per baciarla gli mollò un violento ceffone in piena faccia, infischiandosene della ferita al naso e tutto il resto.
-Sei uno stronzo!- gli urlò sentendosi profondamente offesa.
-E dai quanto la fai tragica, che sarà mai un bacetto- ridacchiò James che rivolse un'occhiata da perfetto idiota al suo compare, massaggiandosi la guancia.
-C'è che sei un vero e proprio imbecille, mio caro- disse lei alzandosi di scatto a lisciarsi la gonna -Un pervertito, un mascalzone, maleducato e zotico. Oltretutto mi avete fatto fare una figuraccia con la mia amica. Beh vi saluto, e tu arrangiati per conto tuo- e detto questo, gli gettò in grembo il fazzoletto insanguinato e girò i tacchi, allontanandosi il più in fretta possibile nonostante i patetici tentativi di lui di scusarsi, richiamandola a sé.
Ma come aveva fatto a fidarsi di un essere del genere?
Nel ritorno a casa si diede della perfetta cretina.
Era chiaro il piano di quell'uomo.
Fare all'inizio la parte dell'ufficiale distinto e tutto d'un pezzo, per rivelare poi la sua natura bieca e meschina.
Non c'era niente da fare, gli uomini erano tutti uguali, esseri dagli istinti bestiali ed elementari. Quel bell'ufficiale -di cui tra l'altro non conosceva neanche il nome- e il suo amico di bisboccia non erano affatto da meno.
Si decise che era meglio se cominciava a toglierselo dalla testa, e soprattutto dal cuore, prima che fosse troppo tardi.



Braunshweig


Lei aprì lentamente la porta e, ritrovandoselo davanti, sorrise sorpresa.
-Non credevo che saresti venuto- mormorò, fissandolo dritto negli occhi.
-Volevo vederti. Beh, mi fai entrare o devo rimanere sulla porta ancora per molto?-
Eva si sporse leggermente fuori dall'uscio a guardare con aria circospetta a destra e a sinistra per vedere se in corridoio passasse qualcuno, e poi gli fece cenno di entrare, aprendo un po' di più la porta. Non era l'orario di visita dei clienti quello, ma tutte lì sapevano chi fosse l'amante di Eva, per cui avevano sempre un occhio di riguardo. Joachim non se lo fece ripetere e un secondo dopo la prese tra le braccia, baciandola appassionatamente.
-Mi sei mancata- le sussurrò sulle labbra.
Lei lo scostò con un risolino malizioso, richiudendosi la porta a chiave alle proprie spalle, poi gli prese il cappello e il soprabito e lo appoggiò sulla sedia.
Joachim si accomodò sul piccolo sofà, accavallando le lunghe gambe snelle e allungando le braccia dietro lo schienale, e la fissò con uno sguardo colmo d'amore e di desiderio.
-Ciao, capitano-
-Ciao, Janka. Come sei bella-
Eva indossava un delizioso corpetto di pizzo nero sotto ad una camicia di seta rosa antico che le svolazzava sui fianchi snelli e flessuosi, e con i capelli color rame, sciolti sulle spalle le pareva ancora più bella dell'ultima volta che l'aveva vista. Sapeva di rosa, di buono, d'amore.
Lei si era seduta davanti lo specchio e aveva cominciato a struccarsi lentamente, togliendo quella maschera che la faceva sembrare molto più adulta e sofisticata dei suoi ventun anni. Ed ecco che tornava Janka. Semplicemente, solo tra le braccia del suo capitano. Gli rivolse un sorriso rilassato dallo specchio, ma, dall'espressione tesa del viso di lui, capì subito che c'era qualcosa che lo turbava.
Come lo capiva bene, ormai!
Lo amava da quando aveva diciotto anni, da quando Eva aveva rubato la vita e i sogni di Janka. Era stato il primo cliente gentile e attento a lei e ai suoi sentimenti. L'aveva fatta sentire protetta in un certo senso, e amata, in un modo del tutto particolare, come solo lui sapeva fare. Joachim, nonostante quei clienti che andavano e venivano, trattandola come un oggetto, rimaneva il suo amore più grande. Lui era il primo che l'aveva fatta sentire donna e desiderata sinceramente.
-Vieni qui, da me- mormorò lui arricciando il labbro come un bambino e battendo una mano accanto a sé.
Lei finì di passarsi una salviettina di cotone sulle gote e, a piedi nudi, lo raggiunse con un piccolo salto, gli circondò la vita con le braccia e gli scoccò un bacio sul collo.
-Che c'è Cloche? Oggi non stai bene?- mormorò accarezzandogli una guancia con la punta delle dita e scrutandolo con attenzione. Capiva molte cose di lui solamente da come la salutava o dal modo in cui la stringeva quando si rivedevano. Joachim ormai era un po' un libro aperto per lei nonostante la maggior parte delle volte mostrasse la sua parte dura ed enigmatica e lei era l'unica a saper toccare sapientemente i tasti giusti del suo cuore, facendolo fremere di tenerezza e passione.
-Non molto. Ma non ho voglia di parlarne- si girò a rivolgerle un sorriso un po' triste mentre la prendeva tra le braccia e le accarezzava il seno morbido. Il capitano non era uomo di tante parole, e ora come non mai le parole sembravano non servire a molto.
Janka lo capì, e, senza dire una parola lo prese per mano e lo fece stendere sul letto.
Poi come un rito che ormai faceva parte di loro, gli tolse in silenzio, lentamente gli abiti di dosso, cominciò ad accarezzarlo con la lingua e con le dita, facendolo gemere sommessamente, infine, lui la prese per i fianchi e l'attirò a sé, impaziente.
L'amore fu rapido e violento, e lasciò ad entrambi quella sensazione di appagamento che riuscivano a trovare solamente l'uno nelle braccia dell' altra. Janka aveva per lui una dedizione e una cura che non aveva mai trovato in nessuna donna prima di allora. Era la sua amante, la sua confidente, la sua amica  e lui la amava con tutto se stesso. O perlomeno nel modo con cui lui concepiva la parola amore.
Dopo aver fatto l'amore rimasero in silenzio, nella penombra della stanza illuminata solamente da un pallido abat jour, i corpi nudi ancora intrecciati. Joachim fissava il soffitto, senza dire una parola mentre lei gli disegnava dei piccoli cerchi regolari sul petto.
-Sei distante capitano- mormorò Janka ad un certo punto osservando il suo profilo forte e perfetto.
Lui tacque un momento, ripensando a quell’articolo su James Railey, ma scacciò subito il pensiero e quella faccia odiosa, poi si girò a guardarla con un sospiro profondo e le rivolse un sorriso pieno di dolcezza mentre le accarezzava il viso -Mai troppo da te- le rispose in un soffio.
-Ormai te lo leggo negli occhi cosa provi. Parlami, Cloche- gli disse lei schiettamente.
-Problemi a lavoro. Niente che non si possa risolvere- mormorò.
-Ti ostini a credere di poter risolvere sempre tutto, non è vero Herr Hauptmann?- lo schernì lei rivolgendogli un buffo saluto militare.
Lui le rivolse un'occhiata accigliata -Se c'è una soluzione al problema, questa prima o poi si trova, se non c'è soluzione alcuna allora non la troverò mai, quindi tanto vale evitare di preoccuparsi, non ti pare?-
-Direi che non fa una piega. Peccato che questo problema sembra preoccuparti lo stesso- continuò appoggiando il mento sul suo petto, ma lui parve non ascoltarla, perso nei suoi pensieri.
Allora allungò una mano nella tasca dei pantaloni e ne trasse una piccola scatola di velluto rosso, poi gliela porse, senza dire una parola.
-Per te, amore mio-
Lei fissò quel piccolo dono con aria profondamente stupita -Per...me?-
-Sì, avanti aprilo!- la esortò lui impaziente, allora lei, con aria impacciata, prese la scatolina e fece scattare il piccolo marchingegno, mostrando un paio di splendidi orecchini di zaffiro.
Brillavano nella semioscurità.
-Oh Joachim ma sono...sono- era senza parole mentre si portava una mano alla bocca per lo stupore.
-Non belli come te. Avanti indossali, fammi vedere come ti stanno- le sorrise e un secondo dopo si ritrovò travolto dall'entusiasmo di Janka che gli aveva già buttato le braccia al collo, lanciando gridolini deliziati come una bambina.
-Oh Joachim ti amo! Ti amo, grazie sono bellissimi!- esclamò tempestandogli il volto di baci. Lui l'aiutò ad indossarli, poi le scostò una ciocca di capelli dietro l'orecchio e la ammirò con aria piena d'orgoglio.
-Come sto?- le domandò lei, civetta girando il capo prima a destra e poi a sinistra a mostrargli il profilo delicato e perfetto.
-Bellissima- rispose lui accarezzandole i morbidi capelli rossi, poi con un balzo, Janka scese dal letto e andò a rimirarsi felice allo specchio della toeletta. Si guardò e poi si girò a fissare il capitano con un sorriso a trentadue denti -Sembro una principessa, non ti pare?- esclamò cominciando a sfilare su e giù per la stanza, completamente nuda, davanti a lui, la mano su un fianco come una di quelle attrici di Hollywood che ammirava tanto. Era così buffa e tenera che Joachim si sentì inondare d'amore e di dolcezza per lei.
La sua piccola Janka.
E pensare che doveva dividerla con decine e decine di uomini che di lei conoscevano solo la parte sensuale.
Eva.
Il frutto proibito.
Nient'altro.
Janka era talmente diversa. Talmente adorabile senza quel mascara e quel rossetto rosso, e quel fard troppo calcato sulle gote. Più vecchia e più esperta rispetto a quella ragazzina sorridente e vivace che si ammirava tutta contenta per un paio di orecchini nuovi regalati dal suo principe azzurro. Che poi di azzurro Cloche non aveva neanche gli occhi, ma per lei era l'uomo migliore del mondo, anche se non la sposava, anche se l'amava di nascosto, anche se non l'aveva mai portata a mangiare il gelato a Charlottenburg. Quanto le sarebbe piaciuto passeggiare per la Kurfusterdamm a Berlino sottobraccio a lui, come le signore per bene la domenica pomeriggio, e invece Joachim non voleva mai farle conoscere il mondo, la sua vita. Per loro il mondo finiva nelle quattro pareti di boiserie della sua stanza in un bordello d'alto rango del centro di Braunshweig.     
Si ostinava a credere che non fosse solamente il sesso ad unirli: a volte immaginava un'esistenza completamente diversa, immaginava un bambino che assomigliasse a Joachim, immaginava di essere sua moglie, di legittimare la loro unione. Come sarebbe stata felice sua madre se gli avesse fatto conoscere una persona gentile e rispettabile come lui.
Come avrebbe voluto dirle -Mamma sai non faccio più la prostituta per vivere. Joachim vuole sposarmi, ora non ho più bisogno di fare quella vita orribile. Sono Janka, mamma-
Invece no. Queste rimanevano solo le sue pure illusioni  e i suoi sogni di ragazzina, ma lo amava talmente tanto che per lei andavano bene anche le briciole della sua vita, del suo tempo. Lei era la sua confidente, con lei il capitano Von Scherner tornava ad essere Joachim, il ragazzo fragile di cui lei si era innamorata per caso durante un incontro fugace e appassionato, tre anni prima.
Gli si accoccolò di nuovo vicino, completamente nuda, addosso solo gli zaffiri -Mi piacerebbe farli vedere in giro, lo sai?
Lui sospirò a guardarla -Lo faremo prima o poi. Te lo prometto meine kleine blume-          
-Quando?- gli chiese ansiosa e impaziente.
-Quando questa brutta situazione sarà finita-
-Una guerra intendi?- gli chiese trattenendo quasi il fiato.
Lui annuì gravemente.
-E finita la guerra ci sposeremo?-
Le sorrise sorpreso -Ti piacerebbe?-
-Con tutta l'anima, capitano- mormorò mentre le parole le sgorgavano spontaneamente dal cuore.  
-E sia. Ci sposeremo. Sarai Janka Von Scherner- ribadì lui solennemente.
-E avremo due bambini?- incalzò sempre più estasiata.
-Certamente-
-E anche un cane?-
-Anche un cane-
-E lo chiameremo Pietr?-
-Come vuoi tu amore mio. Sarai la mia signora e la mia regina e avrai tutto quello che desideri-

-Spero allora che questa guerra finisca molto presto- mormorò Janka tra sé sognando come faceva sempre quelle parole mentre gli fissava, accarezzandolo, il profilo nobile e il suo viso disteso e già profondamente addormentato.


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Angoletto Hime: Fa una stranissima sensazione riprendere una storia interrotta più di due anni fa, ma rileggendola, correggendola e modificando alcune parti, mi era venuta voglia di continuare a dare vita a Jamie e Lee e a tutti gli altri personaggi che ruotano intorno a loro. In questo capitolo James non ha fatto una bellissima figura; volevo farlo apparire un po' più umano, meno impostato e serio, anche se le conseguenze per lui sono state abbastanza disastrose. Joachim il tedesco invece, sembra essere rimasto particolarmente turbato dall'articolo sul suo rivale aviatore. Vedremo un po' come si evolverà la questione. Ho introdotto anche due nuove figure femminili che sono Blaine e Janka e che avranno un ruolo importante all'interno dell'intreccio. Spero di non avere più pause così lunghe anche perché vorrei dedicarmi ad un progetto per volta, quindi speriamo che il tempo e l'ispirazione mi supportino : )
Passiamo ora a qualche piccola nota linguistica:

Go raibh maith agat: è un'esclamazione in lingua gaelica che letteralmente dovrebbe significare "Possa esserci del bene per te". Diciamo che è una specie di augurio che Blaine fa alla sua amica.

Meine kleine blume: in tedesco significa "Mio piccolo fiore". Anche quel pezzo di ghiaccio di Joachim ha un suo lato tenero, evviva : )

Bene, credo che sia tutto per il momento!
Un abbraccio a chi leggerà e a chi vorrà commentare!

Hime






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Capitolo 7
*** VII ***


                                       


                                       






James e Lee non ebbero più modo di incontrarsi per diverse settimane, il che probabilmente, fu un bene per entrambi.

Lei aveva bisogno di dimenticare quell'uomo che le aveva fatto girare la testa e illudere, e lui aveva tutt'altri pensieri che gli passavano per la mente.
Per James i due mesi che seguirono furono impegnativi e pressanti e la giovane pianista dello Swan Hart al momento, rappresentava l'ultimo dei suoi problemi. A inizio marzo fu incaricato di coordinare un'esercitazione e un corso teorico a Salisbury, nel Wiltshire che durò cinque settimane. Il suo compito fu molto delicato dal momento che oltre a formare tecnicamente i suoi sottosposti fu chiamato a collaudare aerei da ricognizione come gli Airspeed Envoy e un paio di monomotore De Havilland da addestramento. Il maggiore Railey era profondamente ammirato dai sottoufficiali e i suoi allievi di corso erano tutti molto entusiasti delle sue lezioni, tant'è vero che facevano a gara per poter fare un'esercitazione a squadra o in coppia con lui. James trasmetteva nel suo lavoro una passione e una competenza unica, per questo era stimato anche dai superiori: era uno di quei tipi che riesce a fare carriera rapidamente grazie alla sua intelligenza e alla sua preparazione. In molti ad Uxbridge erano convinti che entro l'inizio della guerra sarebbe passato al grado di capitano di gruppo, il che, a trent'anni appena compiuti, era un evento raro e difficile.
Ritornò a Londra verso metà aprile, poco dopo che la Gran Bretagna e la Francia si erano fatti garanti dell'integrità territoriale della Polonia e l'immagine di quella ragazza era rimasta solamente uno sbiadito ricordo. In quel mese e mezzo c'erano state un paio di storielle, ma tutte senza un seguito rilevante. In quei giorni il lavoro e le notizie che arrivavano dal fronte continentale lo preoccupavano non poco. L'Italia di Mussolini dopo la stipula del Patto d'Acciaio con la Germania aveva invaso l'Albania, mentre sul fronte tedesco Hitler si apprestava a concludere un patto di non aggressione con l'Unione Sovietica. Ultimamente quei pensieri erano l'unico argomento di conversazione, anche quando con gli altri ufficiali si recavano in libera uscita.
Una sera, verso fine aprile, lui e Allbright si erano ritrovati a fumare una sigaretta e a bere una birra al Lamb & Flag, discutendo gravemente di questioni che li riguardavano molto da vicino. La guerra per tutti era ormai imminente, di certo non ci si poteva nascondere, e quei momenti rimanevano gli unici per svagarsi ancora un po' e non pensare alle conseguenze prossime e inevitabili.
James stava sorseggiando lentamente la sua pinta quando ad un certo punto vide Keith alzare lo sguardo al di sopra della propria spalla e rivolgergli un ghigno divertito
-Toh, guarda un po' chi c'è. La tua pianista e la sua amichetta-
James si voltò con aria torva ritrovandosi praticamente ad un paio di metri da Lee Keegan.
Non la ricordava così carina, seppur indossasse un paio di pantaloni, una camicia e una giacca di tweed marrone e avesse l'aria tutt'altro che femminile.
Lei lo aveva riconosciuto subito, e la faccia disgustata che fece non appena lo ebbe di fronte gli fece capire che aveva ricordi tutt'altro che positivi su di lui.
-'Sera, miss- borbottò lui rivolgendole un mezzo cenno di saluto con la mano.
-Salve maggiore- lo apostrofò lei con un pallido sorriso.
Lo aveva notato appena entrata ed era stata quasi sul punto di girare i tacchi e andarsene ma poi si era detta che non c'era nulla di male a ritrovarsi nello stesso posto di quello zotico travestito da ufficiale perbene. Che in fondo fosse stata felice di averlo ritrovato?
Probabilmente no, ma non si era posta molte domande.
-Volete accomodarvi al nostro tavolo?- propose Keith tutto ringalluzzito scostando una sedia e fissando Blaine con una certa insistenza. Lei ricambiò con un'occhiata vagamente imbarazzata mentre spostava gli occhi su Lee come a dire E ora che facciamo?
-Uhm, perché no?- acconsentì avvicinandosi e mettendosi di fianco al maggiore Railey con naturalezza, spostando rumorosamente la sedia per fargli capire quanto fosse stato maleducato a non scostarla per farla accomodare. Era come se di colpo avesse perso tutte le sue buone maniere e la sua finta aura romantica da bello e tenebroso.
Lui non riuscì a nascondere un sorrisetto da dietro il suo boccale mentre la sua angelica pianista prendeva una sigaretta dalla tasca e se ne accendeva una con noncuranza rivolgendogli uno sguardo di fuoco.
-Stasera ci è andata davvero bene in quanto a compagnia- bofonchiò James tra il serio e il faceto. Effettivamente non pensava di poterla rivedere, ma la cosa segretamente tuttosommato gli aveva fatto piacere.
-Posso dire la stessa cosa- signor maggiore dei miei stivali, disse lei scandendo bene le parole.
-Non le fa bene fumare, miss- la redarguì lui ignorando deliberatamente le sue frecciatine.
-Ah davvero e da quando in qua una sigaretta uccide? Forse è più nociva la presenza di qualcuno, non le pare, maggiore?- gli rispose lei piccata soffiandogli in faccia una boccata di fumo. James fece finta di niente per non mandarla al diavolo e continuò a bere placidamente la sua birra.
-Peggio per lei allora-
-Come sei scorbutico James!- intervenne Keith in maniera gioviale -Non sai che ormai le donne di oggi sono emancipate. Fumano, bevono...-
-E guidano persino meglio di un uomo- esordì Blaine sorridendo a Keith schioccando le labbra.
Lui le rivolse un'occhiata divertita scoppiandole quasi a ridere in faccia -Vuole dire che lei sa guidare?-
-Le irlandesi stanno un passo avanti mio caro- asserì la rossa con convinzione, ma era evidente che i due uomini la pensavano molto diversamente dalle ragazze.
Mentre parlavano, d'un tratto Lee si accorse di un dettaglio insolito. Lui si chiamava James, e quella sensazione strana, nel momento in cui l'amico lo aveva chiamato, le aveva fatto provare qualcosa di particolare. Ma non ci badò molto perché tuttosommato fu una serata piacevole nonostante le premesse. Non l'avrebbe mai pensato ma Keith e James, più il primo probabilmente che il secondo, si rivelarono davvero simpatici e alla mano.
Nel complesso dunque fu una serata piacevole, quasi divertente se non fosse stato per quel maggiore arrogante e quando tutti e quattro uscirono fuori erano piuttosto brilli ed euforici.
Per Lee fu una sorpresa vedere il compassato maggiore in quelle vesti così poco formali, la giacca dell’uniforme buttata su un braccio, i capelli scompigliati, gli occhi brillanti. Era evidente che gli piaceva alzare il gomito quando era in libera uscita, e il fatto che fosse meno parruccone e persino umano quando beveva a Lee non dispiaceva affatto.
Pochi minuti dopo il gruppetto si divise: Keith aveva proposto a Blaine di riaccompagnarla a casa, data l'ora tarda e lei aveva accettato con entusiasmo. Quell'ufficiale le era piaciuto immediatamente: le piacevano i suoi modi galanti e per nulla artificiosi, le piaceva il suo garbato corteggiamento e soprattutto le piaceva il fatto che fosse un tipo semplice, alla mano, nonostante fosse un damerino di sua maestà.
Così quando Lee e James rimasero da soli calò improvvisamente un imbarazzante silenzio.
-Immagino che dovrei scortarla anch'io fino a casa- borbottò lui all'improvviso con aria impacciata -Se non ricordo male dovrebbe abitare poco distante da qui-
Lei sorrise tra sé stringendosi nella propria giacca. Tuttosommato le sarebbe piaciuto essere riaccompagnata da lui: continuava ad essere attratta segretamente dai suoi modi un po' spicci e vagamente intimiditi.
-Se non ha di meglio da fare, le accordo il permesso maggiore- acconsentì lei, perché l'orgoglio le impediva di poter accettare completamente la sua richiesta.
Non parlarono quasi per niente, persi ognuno nei propri pensieri e quando arrivarono al 29 di Floral Street, davanti la palazzina a mattoncini rossi in cui abitavano Lee e i suoi genitori lei lo fissò in un modo del tutto particolare, in quel modo con cui una donna si aspetta che l'uomo faccia qualcosa di speciale. Per lui, che era sempre stato un calcolatore e un uomo tutto d’un pezzo, fu quasi inevitabile, ad un certo punto, posarle una mano sul viso e sfiorarle le labbra con le proprie per salutarla.
Quando si staccarono, Lee lo fissò sorpresa. Anche gli occhi di lui, per la prima volta, avevano un brillìo sbarazzino e vagamente divertito.
-Credo che se non lo avessi fatto ora non lo avrei fatto mai più. E' passato fra noi fin troppo tempo- le confessò James in tono euforico ed estremamente elettrizzato. Lee sotto sotto era convinta che se non avesse bevuto non avrebbe mai avuto il coraggio di baciarla in quel modo, allora lei lo sfidò con uno sguardo strano, misterioso, ma ugualmente diretto, da donna.
-Credo che ha fatto davvero bene, maggiore- gli sussurrò scendendo con gli occhi a fissargli quelle labbra sensuali e perfette. Era chiaro il sottile gioco della seduzione tra loro. Entrambi si erano osservati a lungo, studiandosi, lanciando segnali, prima di lasciarsi andare ad un gesto importante -Ma ora che ci penso, io non so neanche…il suo cognome…lo sa questo?- lo prese in giro a bassa voce. Stavolta era lei che si prendeva gioco di lui.
-Ha importanza?- le sorrise James ad un centimetro dalla sua bocca, come se quella domanda di colpo gli fosse parsa del tutto inutile.
-Hmm…credo proprio di sì. Non posso…baciare…un emerito sconosciuto…direi…un semplice e comunissimo James- gli rispose di rimando fissandolo dritto in quegli occhi belli e intensi provando l'impulso di affondare le dita in quei morbidi capelli castani.
-Perché se le dicessi come mi chiamo, cambierebbe il fatto che è…totalmente…e uhm…- fece per pensarci un po’ su mentre il desiderio di lei di baciarlo su quelle labbra morbide e sensuali si faceva sempre più urgente -Pazzamente attratta da me?- sorrise stringendola a sé e provando il desiderio spasmodico di farla sua in quell’istante preciso. Era pazzo, e lo sapeva. Non la vedeva da mesi, ma il solo fatto di ritrovarsela tra le braccia, finalmente, gli aveva fatto letteralmente perdere la testa.
Lei rise e lui cercò di rubarle un altro bacio ma Lee si scansò, richiamando a sé tutto l’autocontrollo di cui era capace.
-Eh no, maggiore. Io non sono una di quelle- gli sussurrò sulla bocca, guardandolo ancora negli occhi, ma lui non l’ascoltò mentre la zittiva con un bacio che le fece quasi  cedere le ginocchia talmente fu intenso e passionale.
Lee gli circondò la vita con le braccia mentre rispondeva con tutta se stessa a quel bacio e quando lui si staccò per lasciarla respirare le prese il  viso tra le mani, ansante -A ben pensarci, neanch’io so il suo nome miss- la baciò di nuovo -Ma credo non m’importi poi molto-
Le accarezzò il viso con la punta delle dita, in silenzio, godendo solamente di quel contatto, e poi si chinò nuovamente su di lei –Se per lei è tanto importante. I miei sottoposti mi chiamano maggiore Railey, ma per lei miss potrei fare un’eccezione- le sussurrò ironico sulle labbra con un lieve sorriso, prima di baciarla ancora, ma non appena Lee sentì quel nome fu come se una potente scarica elettrica l’avesse percorsa da capo a piedi, lasciandola totalmente svuotata. Neanche si era accorta che istintivamente, appena aveva sentito quel suono, gli aveva dato un morso in bocca.
-Ehi ma che cazz…!- imprecò James portandosi una mano al labbro sanguinante, staccandosi immediatamente.
-James Railey hai detto?- lei sgranò gli occhi, ammutolita, con espressione a metà tra lo sbigottito e il furibondo.
L’ultima persona che si sarebbe mai aspettata di baciare.
Lui
Lui che era stato il suo sogno per anni, lui che non si era più degnato di scriverle mezza riga per sapere come stava, lui che non aveva mai risposto alle sue lettere.
Mai neanche una volta.
Lui che era sparito dalla sua vita quindici anni prima.
E che ora tornava prepotentemente nelle vesti di un inaffidabile ufficiale che cercava di sedurla con ogni mezzo a sua disposizione.
Lui, con il quale da bambina aveva condiviso il cibo, lui che gli aveva curato le ferite quando lo picchiavano duro al San Francis, con lui, che aveva giocato a chi volava più in alto e correva più veloce.
Lui e quel bellissimo uomo erano la stessa persona.
No, non era possibile. Era un incubo. Un meraviglioso incubo.
-Sì, James, e per la miseria se mi fossi chiamato Archibald mi avresti staccato la testa a morsi per caso?- le domandò irritato tamponandosi il labbro ferito con le dita.
Lei non poté non trattenere una risatina. Probabilmente se si fosse chiamato Archibald avrebbe quasi tirato un sospiro di sollievo. In fondo, però, ora che sapeva che lui era il suo James le sembrava così…Umano!
-Sarebbe stato…uhm…meglio…forse…- mormorò mentre lui la fissava di sbieco.
-Ma tu sei fuori di testa. Dì un po’ ti ha dato per caso di volta il cervello?!- sbottò senza accorgersene di essere passato direttamente al tu.
-L’istituto San Francis ti ricorda niente?!- gli chiese lei a bruciapelo ignorando le sue parole.
Lui la fissò per un attimo interdetto guardandola con aria sempre più accigliata -E tu cosa ne sai del…-
-Lo conosci sì o no?- incalzò lei in maniera concitata.
-Sì, lo conosco. Ma non capisco dove vuoi andare a…- e poi di colpo si bloccò, come fulminato da un’intuizione importantissima e di fondamentale interesse.
-Sì…Vedi che ha importanza…Ora- gli sorrise lei esitante, tendendogli una mano mentre di colpo i suoi occhi si riempivano di lacrime.
-Lee?- mormorò lui a voce bassissima, tremando impercettibilmente, come se avesse avuto una paura matta a pronunciare proprio quel nome.
Lei gli sorrise lievemente, con aria impacciata, e poi assentì piano piano.
-Jamie?-
Per un attimo lui non seppe cosa dire, poi si passò una mano dietro la nuca, con aria imbarazzatissima -Lee…hai detto eh?-
-In persona maggiore Railey-
-Uhm…Beh…ecco questa sì che è una sorpresa- balbettò come uno sciocco, sentendosi per la prima volta in vita sua  un perfetto imbecille.
-Che c’è ti hanno tagliato la lingua?- sogghignò lei, perfettamente conscia di metterlo in grave difficoltà.
Lui rimase a lungo in silenzio –No, cioè sì…cioè…Ma…Cavolo…Ma…Ma…si può sapere da dove saresti spuntata eh?!-
-Sei proprio uno sciocco Jamie Railey-
Io non me ne sono mai andata.
-Non sei cambiato affatto a quanto pare- continuò lei prendendolo in giro, e cercando di apparirgli simpatica e disinvolta.
In realtà, dentro, tremava. L’ultima persona che si sarebbe aspettata di vedere e soprattutto di baciare in maniera tanto ardente era proprio James.
-Credo…credo di avere le visioni-
Lei rise e gli diede un pizzico sul braccio -Ehi! Ma vuoi forse uccidermi stasera?- le chiese bruscamente, ma Lee non l’ascoltava mentre prendeva un fazzolettino dalla tasca e lo tamponava sulla ferita al labbro sanguinante -Vedi che non cambi mai- mormorò dolcemente guardandolo fisso in quegli occhi belli tanto simili ai propri. James provò uno strano fremito mentre lei gli puliva delicatamente il taglietto, ma non riuscì a spiegarsene il motivo -Devo sempre curarti le ferite-
Lui cercò di aprire la bocca per ribattere, ma poi ci ripensò, e quando lei ebbe finito riuscì solamente a guardarla sempre più piacevolmente sorpreso.
-Che c’è? Hai perso tutta quell’aria da dongiovanni, maggiore?- rise lei prendendolo in giro –Ora che hai appena scoperto che hai baciato la ragazzina che hai sempre considerato come tua sorella?-
-Lee?!- sembrava non riuscisse a dire altro talmente era rimasto shockato. Quello più sconvolto sembrava proprio lui.
-Riesci solo a dire questo?- lo prese in giro lei, facendo un passo indietro a squadrarlo da capo a piedi.
Dio se era dannatamente bello. Una bellezza che metteva quasi soggezione in chi lo fissava troppo a lungo ma che allo stesso tempo ti impediva di concentrarti su qualsiasi altra cosa che gli girava intorno.
Sembrava che avesse appena visto un fantasma. O meglio, i fantasmi del suo passato, perché assieme a tutto ciò che di più bello Lee portava con sé, allo stesso modo con lei ritornavano anche gli orrori e le violenze del passato.
Soprattutto…quella.
Scacciò il pensiero e le sorrise cercando di apparire più rilassato –Sono un bello stronzo eh?-
Lei fece finta di pensarci un po’ su e poi si trovò ad annuire con un sorrisetto divertito: ora la cosa non le importava più di tanto, ma quanto aveva sofferto per i suoi silenzi interminabili e inspiegabili! Senza di lui, i primi tempi era come se si fosse sentita totalmente abbandonata dalla persona che, durante i primi anni della sua vita, le aveva fatto da padre, madre, amico, fratello. Ora che ce l’aveva davanti però, le pareva che in fondo quella sofferenza non era stata poi tanto orribile…o forse no. Forse gli occhi azzurri di James riuscivano a scaldarle il cuore e a farle dimenticare ogni cosa brutta della propria esistenza, proprio come quando erano due ragazzini, e lui la proteggeva dal resto del mondo con le sue grandi ali. O forse c’era anche qualcos’altro. In fondo ormai erano un uomo e una donna, e lui l’aveva appena baciata, e lei aveva provato un piacere struggente che era svanito solamente quando aveva saputo il suo nome. Semplicemente sembrava una cosa da poco, eppure il suo cervello aveva reagito d’istinto, dicendole che stai facendo?  Lui è Jamie, tuo fratello, il tuo amichetto, il tuo piccolo papà. Non è quel bellissimo uomo da cui sei, o forse eri, irrimediabilmente attratta.
Si squadrarono a lungo, negli occhi, come se ciò che avevano appena saputo l’uno dell’altra fosse qualcosa che andava completamente aldilà della loro immaginazione, poi ripresero a camminare uno a fianco all’altra, imbarazzati come due adolescenti: James si girava nervosamente il berretto dell’uniforme tra le mani, mentre lei lo fissava di sottecchi per vedere se avrebbe fatto lui la prima mossa. Infatti dopo un interminabile silenzio, si schiarì la voce e se ne uscì con la cosa più banale che avesse mai potuto dire -E allora come ti vanno le cose?-
Lee scoppiò in una risatina divertita -Lo so che ti pare buffo e assurdo, ma quella pianista che stavi cercando molto disinvoltamente di rimorchiare ero sempre io. Hai parlato con la stessa persona se non te ne fossi accorto-
-Simpatica lo so benissimo, mi sembra solo tutto molto…uhm come dire…strano!-
Al solo pensiero di aver per qualche istante pensato di potersela portare a letto come faceva di solito con le donnacce che frequentava abitualmente, fu percorso da un fremito di dispiacere: ora che ci pensava bene, lei era la sua piccola Lee, la bambina con la quale era cresciuto, la sua piccola stella in quel posto orribile.
Lei capì che aveva in mente strani pensieri mentre si sedevano su una panchina, a una certa distanza di sicurezza. Tutto d’un tratto sembrava che lo spavaldo James Railey si fosse trasformato in un parruccone inibito, mentre accavallava elegantemente le lunghe gambe muscolose e allargava le braccia sullo schienale della panchina proprio davanti casa sua, gettando il berretto da una parte: Lee gli fissò il profilo forte e perfetto e poi tornò a guardare il cielo pieno di stelle. Sebbene non fossero che all'inizio della primavera, le pareva di non avvertire affatto il freddo tipico di Londra: in altre circostanze James l’avrebbe attirata a sé, per proteggerla dal freddo, e l’avrebbe circondata in un possente abbraccio, ma in quel momento si sentiva più impacciato e glaciale di un adolescente al suo primo appuntamento.
-Perché non entri in casa? Mamma e papà sarebbero curiosi di conoscerti- gli propose lei dopo un po’, entusiasta -E potresti finalmente bere qualcosa di caldo, almeno così eviteresti di congelarti il naso-
Jamie borbottò qualcosa d’incomprensibile poi scosse energicamente la testa –Hmm credo proprio che si sia fatto molto tardi mi aspettano in caserma…-
Lei gli rivolse un sorrisetto malizioso –Bugiardo, ti tocchi sempre l’orecchio quando dici una frottola come adesso-
Lui la fissò sbalordito: come faceva sempre a capire ogni cosa di lui e dei suoi gesti?
Semplice, perché lo conosceva fin da quando erano bambini e assumeva gli stessi, identici atteggiamenti.
-Non credo potrei mentire ulteriormente con te, mi scopri subito. Cacchio, Lee. Possibile che sei davvero tu?-
-Potrei farti la stessa domanda. Sei davvero tu il mio James?-
Lui inarcò un sopracciglio con aria scettica -Tu che dici?-
-Dico che sei tu. Semplicemente. Mi chiedo come abbia fatto a non capirlo prima- mormorò a voce bassissima, chinando lo sguardo a fissarsi le mani, poi lo rialzò e gli sorrise, prendendogli entrambe le mani tra le proprie, con gli occhi brillanti –Però facciamo una prova per essere davvero sicuri. Che cosa mi hai promesso quindici anni fa, prima che io me ne andassi via dal  San Francis?-
James la fissò con aria stupita poi ci pensò un po’ su mentre lei lo fissava con aria ansiosa
-Una promessa, eh? Uhm dunque, vediamo…-
In realtà la ricordava perfettamente, come se tutto fosse accaduto il giorno prima. E ricordava anche il regalo che le aveva fatto prima che i suoi nuovi genitori la portassero via. Il piccolo aeroplano di carta, e i loro visetti disegnati sulle ali, a ricordarsi per sempre di lui.
Tossicchiò, borbottando qualcosa, prendendo tempo e poi finalmente abbozzò un sorriso
-La stella più luminosa di tutte, giusto?-
Gli occhi grigi di Lee si illuminarono di una luce particolare, intensa che subito gli scaldò il cuore -Sei tu, allora- mormorò piano, accorgendosi solo allora di avere le mani grandi e forti di James tra le sue e staccandosi bruscamente -Sei Jamie. Ho ritrovato il mio Jamie-
Ora ne aveva la prova. E la certezza nel cuore. E uno strano calore cominciò a pervaderla.
-Ed io…la mia Lee-

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Eccomi tornata con un nuovo aggiornamento : ) Tuttosommato, considerando i miei tempi, non dovrei aver fatto troppo ritardo. In questo capitolo, che ho deciso di dividere per non renderlo eccessivamente lungo, finalmente l'identità di James e Lee viene fuori anche se entrambi, nel cuore, sapevano già chi avevano veramente di fronte. Ringrazio la carissima Lorena per la scorsa recensione al capitolo, e spero che anche questo sia altrettanto gradito : )
Un ringraziamento speciale anche alla bravissima Rose (le cui creazioni sono pubblicate qui  Roses's Creation ) per l'immagine che fa da copertina alla storia. (Per chi se lo chiedesse i due in foto sono proprio Lee e James).
Un saluto a chi mi segue, a chi ha messo la storia tra preferiti e seguiti e a chi legge soltanto.
Alla prossima,
Hime






















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Capitolo 8
*** VIII ***


L’espressione di James si rilassò in un sorriso più disteso, mentre allungava le lunghe gambe davanti a sé con un profondo sospiro.
–Non te l’aspettavi questo vero?- Lee gli rivolse un’occhiata vagamente imbarazzata, mentre osservava il suo profilo forte e deciso. Si diede mentalmente della perfetta cretina. Come poteva anche soltanto lontanamente immaginare che quell’uomo che aveva tentato di baciarla fosse in realtà il suo Jamie? Il solo fatto di essere sfiorata da lui le aveva donato un piacere fisico, istintuale, incredibilmente intenso, mai provato in tutta la sua vita. La cosa che più la turbava, tuttavia, era il fatto che quella sensazione non se n’era andata neanche quando aveva scoperto che lui era il suo piccolo James, e dunque una figura fraterna, che avrebbe dovuto ispirarle tutt’altre sensazioni.
Invece ora il pensiero di toccarlo di nuovo, la faceva fremere, uno strano fremito che partiva dallo stomaco per poi espandersi sottilmente e inequivocabilmente più in basso a desiderarlo in quel preciso istante, come un fuoco che lambisce teneramente la pelle e non si spegne.
Dolore e piacere.
Desiderio.
Di colpo avvampò senza accorgersene.
Possibile che lui le avesse fatto quell’effetto? E possibile che la piacevole e al tempo stesso inspiegabile sensazione non riuscisse a dissolversi neanche adesso?
Neanche adesso che il suo cervello e la sua parte razionale la richiamavano a smetterla di pensare a lui in quello strano modo.
-Se qualcuno me lo avesse detto, avrei pensato che mi stessero prendendo in giro- la sua voce la distolse dai suoi pensieri. Lui sembrava sempre così calmo, impassibile e distaccato da ogni situazione. Persino ora che avevano scoperto un passato in comune sembrava aver ripreso tutto il controllo delle proprie azioni. Si lasciava andare solamente quando la sua mente era annebbiata dall’alcol che serviva a proteggergli le insicurezze del cuore.
Non era cambiato di una virgola. Rimaneva sempre quell’uomo bruscamente razionale, glaciale, poco incline a lasciarsi andare, di poche parole che era stato fin da ragazzo.
Con il tempo però questo suo lato austero era diventato ancora più evidente e e grave.
Lee se ne era accorta immediatamente. Timidezza forse, ma anche una serietà e compostezza molto rara tra i giovani uomini della sua età che lo rendevano ancora più misterioso e inavvicinabile.
Inattaccabile.
-Uhm già. Peccato che tu, in tutti questi anni non ti sia mai fatto vivo. Non sai quante volte ho aspettato il postino ho controllato nella cassetta delle lettere per ricevere tue notizie, e soprattutto quante lettere ti ho scritto, sperando che tu le ricevessi. Non ho mai, dico mai, neanche una sola volta ricevuto risposta. A tredici anni allora ho capito che Santa Claus non esiste e l’ho piantata di sognare- gli rivolse un sorriso un po’ amaro a ricordargli, senza più rancore, quanto aveva sofferto per i suoi silenzi, e per le sue mancate risposte, ma ora che erano due adulti, sembrava che il passato non contasse più poi tanto.
James sorrise sentendosi profondamente in colpa –Lo sai che scrivere non è mai stato il mio forte, no?-
-Bugiardo come sempre- sogghignò lei con aria scettica –Tu non volevi scrivermi, ecco tutto- mormorò con una semplice alzata di spalle e l’espressione piena di rimpianto.
Allora, d'improvviso, lui si girò a guardarla, con quei fantastici occhi azzurri, seri e scrutatori  -Me lo ripeto in continuazione anch'io quanto sia un emerito stronzo. Ma non cambio, non riesco a farci niente. Le persone non cambiano. Odio le persone e molto probabilmente anche le persone odiano me- sospirò con aria meditabonda, ma lei, che lo conosceva tanto bene, capì che come al solito esagerava con il suo solito misantropismo.
-Io non ti odio. Pensi che questo possa bastarti?- gli sorrise prendendogli una mano e stringendogliela calorosamente.
James inarcò un sopracciglio con aria stupita mentre osservava la sua mano tra quelle di Lee -Tu sei diversa. Lo sei sempre stata. Non fai testo- borbottò vagamente intimidito.
E ora che ti ho ritrovato mi sembra così assurdo pensare a te come una...donna.
-Perchè non faccio testo?- lo stuzzicò, desiderando con tutto il cuore di sfiorargli il dorso della mano con la punta delle dita.
Sapeva che dopo un po' lui avrebbe distolto lo sguardo, infastidito, per questo lo provocava. Avrebbe tanto voluto fare qualcosa di più, ma non osava.
Lo temeva e allo stesso tempo ne era attratta inequivocabilmente, come due poli opposti che però si attraggono in maniera tacita e irrefrenabile.
-Perché tu sei Lee. Non sei una qualunque- tagliò corto lui, ma era evidente che a lei una risposta del genere non bastava.
Erano parole che avrebbe potuto pronunciare quando entrambi erano due adolescenti, non adesso, che erano un uomo e una donna.
-Avresti dovuto fare il pianista, sai?- disse lei, ad un certo punto, dopo un lungo silenzio, osservandogli le dita lunghe e affusolate.
Lui sogghignò -Sì, per diventare frocio come qualcuno dei tuoi amichetti-bofonchiò con malagrazia.
Il giovane Will, per esempio, non aveva un aspetto, che, secondo la sua concezione di maschio, poteva definirsi propriamente virile.
-Oh...oh...E sentiamo gli skyfighters di Sua Maestà sarebbero tutti dei gran...maschioni?- lo prese in giro lei, di rimando, socchiudendo gli occhi.
James evitò di proposito di darle una risposta che l'avrebbe fatta arrossire.
-Non penso che avrei una lunga carriera da musicista.  Non so neanche cantare una canzoncina per neonati. L'unica cosa che so fare è volare, nient'altro-
-E scappare dalle persone- aggiunse lei, ma poi pensò di aver detto una cosa poco piacevole, così gli sorrise -Ma sei un pilota meraviglioso. Lo so-
-Ah sì? E come lo sai?- sogghignò lui con aria da presa in giro. Sotto sotto però ci godeva che lei lo ammirasse per le sue innate doti nel campo dell'aviazione. Quella in fin dei conti rimaneva la sua sicurezza più grande.
-Perché mio padre è un tuo grande ammiratore, semplice. Ma io non gli ho mai detto di aver conosciuto uno dei migliori aviatori inglesi quando...uhm...come dire...quando veniva a rubarmi la merenda- rise allegramente, mentre le sue guance diventavano di nuovo rosse di gioia e di imbarazzo al tempo stesso. Stare accanto a lui le dava una sensazione di benessere e di calore che non ricordava di provare da tanto, troppo tempo.
-Io non ti ho mai rubato la merenda, eri tu che me la portavi di nascosto quando Jonas o Kennington mi punivano per bene! Sei sempre stata protettiva e adorabile nei miei confronti...anche quando non lo meritavo-
-E tu nei miei- soggiunse lei in un soffio.
-E quando hai cominciato a suonare così bene?- le chiese James improvvisamente, tagliando volutamente il discorso sul capitolo doloroso della loro infanzia.
-Quattordici anni fa, subito dopo essere andata via dal San Francis. Assieme allo studio ho coltivato la passione per la musica e il pianoforte, e così ho frequentato il conservatorio e infine mi sono diplomata-
-E canteresti per me?-sorrise lui con aria divertita, sicuro che lei gli avrebbe detto di no, e si sarebbe rifiutata, invece Lee, inaspettatamente, gli diede un bacio sulla guancia
-Ti piacerebbe?-
-Credo proprio di sì- rispose imbarazzato.
-Allora quando mi farai volare, io canterò per te- aggiunse lei solennemente.
-Questo è un colpo basso miss Keegan, lo sa?- le rispose lui con voce stranamente tenera. I suoi occhi erano dolci come una carezza.
-Lo so bene, ma non mi importa. Fammi volare, portami con te, Jamie. Me lo hai promesso tanto tempo fa, ti ricordi?-
-Lo ricordo eccome, tu piuttosto hai una bella memoria, eh?!- rise, per la prima volta, una risata calda, di gola, piacevole e incredibilmente sexy.
-Solo per ciò che mi fa comodo. Allora, che mi rispondi?- lo incalzò in un tono a metà tra il serio e il faceto.
Le sarebbe piaciuto enormemente entrare nel suo mondo, conoscerlo, condividere la sua passione più grande, fargli scoprire a sua volta ciò che la emozionava e la inorgogliva maggiormente, insomma, viverlo, ma sapeva anche che non sarebbe stato affatto facile. Il mondo di James era un mondo esclusivo, particolare che non a tutti era permesso scoprire, lo sapeva benissimo, eppure sentiva che lui dopotutto, avrebbe potuto darle un'opportunità. In fondo era o non era la sua Lee? Quella che tanto tempo prima era stata la sua migliore amica? Le pareva di aver sprecato tanto di quel tempo in tutti quegli anni di lontananza! Ora l'unica cosa che le premeva maggiormente era recuperare tutto, ma allo stesso tempo non voleva pressarlo troppo o renderlo insofferente. Sapeva quanto lui fosse restìo ad aprirsi o a far trapelare le proprie emozioni, per questo voleva di nuovo recuperare il loro rapporto piano piano, con discrezione, in punta di piedi.
-Vuoi davvero volare...con me?-
-Assolutamente sì.-
Non aspetto altro da quindici anni.
Assieme al tuo amore.
Perché lo sai che io ti amo da quando avevo nove anni, e forse anche prima, vero?
-E ti dimenticherai di quello che è successo stasera, vero? Se, insomma...io...dovessi portarti con me- mormorò con aria di circospezione, come a sincerarsi di qualcosa di vitale e di importantissimo.
-Il bacio, intendi?-
-Sì. Hai capito-
-Okay- sussurrò lei lasciandogli la mano lentamente, sentendosi lievemente delusa da quella sua affermazione. -Farò finta che tra noi non sia mai successo nulla. Io sono Lee e tu sei Jamie, ti ricordi?-
-Così va meglio- sospirò lui come se si fosse tolto dal cuore un peso opprimente e insopportabile.
Che lo soffocava.
-L'anno scorso ho comprato una casa nell' Warwickshire. Era di un vecchio che aveva un pianoforte, magari...un giorno...uhm, potrresti suonarlo tu. Io di certo gli farei fare la muffa-
-Tu? Una casa nell' Warwickshire? Dici sul serio? Cioè una vera casa in campagna, lontano dal mondo, per vivere in solitudine lontano da tutti gli esseri viventi?- rise lei con fare compiaciuto, prendendolo in giro.
-Esattamente miss, una casa in campagna. Oddio in realtà sarebbe da ristrutturare perché il vecchio proprietario, a quanto ne so, era uno di quei vecchi aristocratici caduti in disgrazia che si era ipotecato persino le mutande. L'ho acquistata a due soldi. E lì a fianco, ci ho costruito il mio hangar personale!- esclamò tutto orgoglioso.
-Cioè, per la miseria, tu hai una casa tutta da ristrutturare e la prima cosa a cui pensi è costruirti un hangar per i tuoi aerei?!- Era evidente che le loro opinioni erano alquanto discordanti.
-Ti sbagli mia cara. Il mio aereo. E' un biplano rimesso a nuovo da queste mani qui. Un Gresham del'27 restituito a nuova vita. Se ti fidi, potrei farti persino salire a bordo-.
-Lo faresti davvero? Mi porteresti con te per vedere quello che sai fare?-
-Solo perché sei tu. Da amici, ovviamente, niente di più, niente di meno. Non aspettarti altro- tagliò brutalmente, lasciando cadere di colpo tutta la magia inaspettata di quella rivelazione. -In realtà devo ancora passarci il cromato di zinco e finire di verniciarlo ma potresti passarmi gli attrezzi se ti va-.
-Ah e di certo non mi permetteresti mai e poi mai di toccare una cosa tua- replicò lei, arricciando il labbro superiore, offesa.
-Mi pare che ti abbia dato fin troppe libertà per dimenticarti di quella cosa che è successa prima, non ti pare?-
-Tsk...figurarsi. Mi sento una privilegiata, maggiore. Lei non porta mai le sue amiche a casa sua?-
-Amiche? Quali amiche?- ribattè lui con aria di finta noncuranza.
-Io non ho amici.-
Non sapeva spiegarsi il motivo per cui le aveva fatto quella strana proposta, fattostà che la cosa gli era uscita spontanea e stranamente inaspettata, e di fatto, a ripensarci quando si ritrovò da solo, a rigirarsi nel letto, solo con i propri pensieri, dopo che si erano salutati con la promessa di rivedersi presto, la cosa non gli risultava tanto sgradevole.
Solo perché era lei.
Di nuovo il suo viso lo venne a tormentare più e più volte quelle notte, e non riuscì di nuovo a spiegarsi quella sensazione dolorosa e al tempo stesso incredibilmente eccitante che lo percorreva da capo a piedi mentre pensava a Lee.
Non doveva.
Non poteva.
Non era eticamente giusto o corretto pensare a lei in un determinato modo, eppure non riusciva a farne a meno. Gli risultava quasi impossibile non provare un desiderio proibito di stringerla a sé in un modo completamente diverso dall'abbraccio di un fratello e di una sorella.
Calmati James. Non perdere il controllo. Puoi farlo tranquillamente.

Eppure quella notte il suo sonno fu molto più leggero e agitato del solito.



Berlino


Lo Schloss di Wannsee era immerso in uno splendido parco pieno di verde e di fiori. Si accedeva da un pesante cancello in ferro battuto che apriva su un lungo sentiero ghiaioso; questo portava fino ad un ampio piazzale acciottolato in cui troneggiava una fontana zampillante e l'imponente scalinata in marmo bianco.
Joachim si fermò con la sua fiammante Mercedes-Benz 770 nera proprio davanti l'ingresso della tenuta della famiglia Von Scherner. Il primo ad accoglierlo fu il fedele pastore tedesco Britos che, a dispetto della sua mole, non appena riconobbe il suo adorato padrone, gli andò incontro scondinzolando festoso come un cucciolo. Lui gli fece una lunga carezza affettuosa mentre il vecchio maggiordomo Heinrich lo aiutava a scaricare il proprio bagaglio. In realtà non ne aveva molto visto che si sarebbe fermato solo pochi giorni, giusto il tempo di una brevissima licenza.
Sua madre Ariana lo accolse quasi volando e un secondo dopo si ritrovò stretto nel suo caloroso abbraccio proprio come quando era un bambino.
-Bentornato a casa Jo- mormorò la donna accarezzandogli estatica il volto. Erano mesi che non tornava a casa e quello era un evento speciale per tutta la famiglia.
-Ciao, mutti- mormorò lui vagamente imbarazzato dandole un lungo bacio sulla fronte. Nonostante fosse ormai un uomo fatto e finito sua madre, per certi aspetti, continuava a trattarlo nello stesso modo di quando aveva cinque anni.
-Vater...- disse solamente quando si sciolse dall'abbraccio di sua madre, a fissare gli occhi glaciali di Janos Von Scherner così simili nell'espressione ai propri, immobile davanti suo figlio.
Le smancerie e gli slanci d'affetto non avevano mai fatto parte dell' Oberst Von Scherner, ma nonostante questo non poté trattenere un sorriso di soddisfazione quando gli strinse la spalla in una pacca energica.
 -Ciao Herr Hauptmann-
Joachim stava diventando tutto quello che lui non aveva potuto essere in gioventù. Janos, nonostante il grado da colonnello, nel privato non aveva mai avuto il suo equilibrio, il suo sangue freddo, la sua responsabilità, mettendo sempre al primo posto i suoi vizi, le donne soprattutto, nonostante quello che pensava di lui sua moglie piuttosto che i suoi principali doveri. Joachim in questo senso era molto più ponderato e serio.
-Danke Herr Ob...-
-E allora, vogliamo entrare in casa? Joachim devi raccontarci tutto quanto!- esclamò Ariana prendendolo sottobraccio e dirigendosi verso l'ingresso del palazzo di famiglia.

Ritrovarsi nella sua stanza, dopo parecchi mesi fu strano.
Tutto era rimasto come lo aveva lasciato prima di partire. L'ampio letto e la finestra che affacciava sul parco da cui immaginava un giorno di spiccare il volo con il suo aeroplano, la scrivania, i suoi libri dell'università e i modellini dei velivoli ordinati sulla mensola. Ne prese in mano uno, rigirandoselo tra le dita, con un sorriso.
Tutta la sua infanzia e poi la sua giovinezza erano state serene, senza un'ombra: i suoi genitori non gli avevano mai fatto mancare niente, era cresciuto nel loro amore, gli avevano offerto una vita agiata e tranquilla e da sempre Joachim era stato un bimbo allegro e felice. Non riuscì a spiegarsene il motivo, ma di colpo, ricordando la propria infanzia, gli tornò alla mente James Railey. Era un pensiero assurdo il suo, eppure in qualche angolo segreto del proprio cuore quella fotografia, gli aveva toccato qualcosa nell'anima, qualcosa che lo aveva turbato e continuava segretamente ad agitarlo. Quegli occhi penetranti lo avevano colpito senza riuscire ad essere scacciati, era come se da qualche parte, in qualche posto indefinito lui e quell'uomo si fossero già incontrati. Come se ci fosse stato un tempo in cui erano stati profondamente legati. Scacciò quel pensiero, deciso a non farsi turbare da inutili problemi, poi si cambiò indossando un caldo maglione a collo alto e un paio di pantaloni chiari, e scese per la cena.
I suoi lo aspettavano già a tavola. Mutti gli aveva fatto trovare i suoi piatti preferiti; fu una cena tranquilla, chiacchierarono del più e del meno, senza soffermarsi troppo sulle questioni politiche, e nel complesso fu una serata piacevole e rilassante. Erano mesi che Joachim non faceva un pasto decente. Il purè della mensa ufficiali non era niente di paragonabile a quello che preparava Fraulein Hilde. Aveva cucinato per lui anche i biscotti alla cannella.
I suoi preferiti.
Si ritrovò a sgranocchiarne qualcuno quando, terminato il pasto, lui e suo padre si ritrovarono nello studio a chiacchierare.
Quello era il loro passatempo preferito. Padre e figlio erano sempre stati legati, anche se tra loro non c'erano mai state troppe parole o gesti d'affetto. Entrambi taciturni e poco inclini alle tenerezze, sapevano tuttavia capirsi al volo anche solo con uno sguardo. Erano molto simili ma anche molto diversi per certi aspetti. Joachim si sedette sulla morbida poltrona di pelle nera girevole su cui amava arrampicarsi quando era ancora un bambino, accavallando le lunghe gambe e mangiucchiando un biscotto.
-E allora come ti vanno le cose Cloche?- gli chiese Janos versandosi un bicchiere di scotch e fissandolo attentamente da dietro il pesante vetro.
Joachim fece un vago cenno con la mano, poi sospirò -Il lavoro è molto impegnativo, ma me la cavo-
-Ti hanno dato degli attendenti decenti o sono dei senza cervello come alla Deutsche Heer?- gli domandò Von Scherner con un sorriso.
Joachim rise -No al contrario, sono ragazzi in gamba. Ai tuoi tempi prendevano i raccoglitori di luppolo di Dortmund. Adesso è tutta gente preparata ed esperta. Dall'ultimo dei Gefreiter agli Unteroffizier. Vater ci sarà una guerra fra pochi mesi, non stiamo scherzando- constatò gravemente, mettendo per un momento da parte la sua sottile ironia.
-Lo so, Cloche. Il Fhurer non si fermerà davanti a niente e voi dovrete essere pronti per quando succederà. Perché succederà, e molto presto...- ribatté Janos -Io ormai sono troppo vecchio per farla vedere agli inglesi e ai garconnes-
-Potresti fargliela sotto al naso a molti di quegli yankees fidati, Vater- asserì Joachim con convinzione.
-Può anche darsi-
-Soprattutto con certi soggetti spocchiosi della Raf inglese- mormorò con voce rauca.
Janos avvertì un leggero fremito nel suo tono -Ti riferisci a qualcuno in particolare?-
Chissà perché la Royal Air Force richiamava anche a lui un nome ben preciso.
-C'è un uomo che si diverte a provocarmi dalle pagine dei giornali. Proprio qualche giorni fa è stato così educato da rilasciare un'intervista su quanto sia bello e bravo e a come farà un sol boccone dei mangiatori di Krauti come definisce il Reich. E' un uomo molto spocchioso e arrogante-
-Un inglese, del resto- ribatté Janos con un sorriso laconico.
Joachim fece segno di sì, con aria profondamente turbata -Si chiama James Railey, nel nostro campo lo conoscono un po' tutti. Il bello è che non riesco a capire perché oltre alle sue parole da perfetto idiota nei miei confronti ci sia qualcosa che mi dia ancora più fastidio-
Janos ebbe un sussulto quando udì quel nome. Tacque per un attimo.
-Railey hai detto?-
Credeva di non aver capito bene.
-Sì, il migliore dell' 11 Fighter Command di Uxbridge, così si dice. Crede di dominare i cieli d'Europa e di far polpette dei bombardieri crucchi-
Janos si sistemò meglio sullo schienale della poltrona, appoggiando il bicchiere e incrociando le braccia.
-Lascialo parlare. Chi si riempie la bocca di fandonie in realtà non ha molto da dimostrare in volo- replicò categorico. In realtà sapeva bene che a parlare non era uno qualsiasi, ma un uomo che aveva in comune con Joachim lo stesso sangue. Aveva visto un paio di foto di Railey e aveva trovato una somiglianza impressionante tre lui e Faith. James aveva il suo stesso sguardo passionale, intenso, struggente ma allo stesso tempo incredibilmente grave e serio, un po' come quello di suo fratello.
Fratello, fratello, fratello.
Impossibile.
Janos rimosse automaticamente il pensiero anche se spesso gli capitava di ritornarci, involontariamente.
James e Joachim non avevano più nulla in comune se non un breve periodo disgraziato dell'infanzia.
Perché se avesse lasciato suo figlio a Londra, con Faith e suo fratello probabilmente a quest'ora sarebbero stati insieme, a combattere per la stessa causa. Ma allo stesso tempo, probabilmente, lui non avrebbe mai avuto le stesse possibilità, la stessa vita, lo stesso destino che gli aveva offerto portandolo via da quell'ambiente.
Sarebbe stato segnato da un'esistenza misera e meschina. A quanto ne aveva saputo, Faith era morta subito dopo l'ultima volta che si erano visti. Ventisei anni prima ormai. Una vita fa.
Probabilmente Joachim sarebbe morto dentro quache orfanotrofio, abbandonato da tutto e da tutti, o avrebbe preso una strada sbagliata. Di certo, non avendo la stessa indole dura e testarda di suo fratello che era riuscito a rialzarsi dai bassifondi, sarebbe crollato. Ora si facevano la guerra, ignari l'uno dell'altro.
No, nessuno avrebbe mai saputo niente. Sarebbe stato meglio per tutti, oltretutto non voleva causare un dolore inutile a sua moglie Ariana che aveva amato quel figlio come se fosse stato suo naturalmente.
Cambiò discorso repentinamente prima che lui potesse fare altre domande e capire il suo turbamento.
-E con quella ragazza? Come va?- gli chiese con una disinvoltura lievemente eccessiva.
Joachim avrebbe voluto chiedere ancora qualcosa a suo padre, ma poi decise che James Railey era un argomento superfluo per quel momento e così lo accantonò.
Lui gli aveva parlato di Janka. Aveva omesso il suo mestiere ed evitato di rivelargli completamente cosa c'era tra loro, ma suo padre, tra le righe, aveva capito che era una persona importante.
-Chi, Janka? Tutto bene. Lei è sempre più innamorata- rispose lui con un sospiro evasivo, come se non gliene importasse niente, in realtà Janos si accorse di uno strano tremito nella voce di suo figlio.
-Perché tu no? Un giorno potresti farcela persino conoscere-
-A mamma non piacerebbe- tagliò corto in maniera piuttosto brusca. Janka non era quel genere di donna che poteva piacere ad una donna all'antica come Ariana Von Scherner. Per il suo adorato pupillo poteva andar bene una Rotschild o comunque qualche buona signorina dell'alta società, non di certo una ragazza giovane ma di umili origini come la sua dolce Janka. Il suo sguardo si intenerì involontariamente pensando a lei. A volte si sentiva egoista e superficiale nel trattarla in quel modo, nell'ostinarsi a volerla nascondere al mondo, ai suoi genitori, ai suoi amici. Lei lo amava e anche lui, a modo suo la ricambiava.
Piccola, dolce Janka.
Joachim fissò a lungo suo padre, senza dire nulla.
Per entrambi quel silenzio era carico di parole non dette.





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Capitolo 9
*** IX ***


E sto abbracciato a te, senza
Chiederti nulla, per timore
Che non sia vero
Che tu vivi e mi ami.

Pedro Solinas


La visita nella casa di James nello Warwichshire, avvenne prima del previsto. Stranamente era stato lui a proporglielo solo pochi giorni dopo essersi incontrati, e Lee non se lo era fatto ripetere due volte: aveva una voglia matta di conoscere quell’uomo così complicato un po’ più da vicino, e l’idea di trascorrere anche solamente una giornata in sua compagnia la elettrizzava particolarmente.    
Manor House era una specie di villa che probabilmente in passato aveva visto tempi migliori, ma se la casa era ancora da risistemare, l’hangar che le stava a fianco era stato praticamente rimesso a nuovo da cima a fondo.
Tipico di James aveva pensato Lee la prima volta che aveva visto il netto contrasto tra la casa e la rimessa. Quest’ultima era la prima cosa che lui le aveva mostrato con fierezza.
Entrarono da una porticina laterale, e Lee rimase senza fiato di fronte al piccolo, grazioso aereo al quale lui fece una lunga carezza affettuosa, rivolgendogli un sorriso pieno di orgoglio. Poi, raggiante, aprì lo sportello per mostrarle la carlinga. Aveva apportato diverse modifiche, tra cui l’allargamento del retro della fusoliera di modo che ci si potessero infilare comodamente almeno due persone.
-Jamie ma è fantastico!- Lee non se ne intendeva minimamente di aerei e roba simile, ma adesso, per la prima volta, sentì come un brivido di eccitazione correrle lungo la schiena. Era opera di James, ed era un apparecchio splendido. Lui allora le tese una mano e la aiutò a salire nella carlinga, dedicando una mezz’ora buona a mostrarle tutto il possibile e a spiegarle come funzionavano i meccanismi di pilotaggio. Non aveva mai perso troppo tempo a descrivere cose del genere a un novellino, e si stupì profondamente accorgendosi che Lee imparava molto rapidamente e con grande entusiasmo. Lo ascoltava con attenzione e ricordava quasi tutto di quello che lui le spiegava. Chiacchierando con lei, James aveva come la sensazione che tutt’intorno a loro si stessero spalancando le porte del suo cuore e nuovi mondi, che mai avrebbe immaginato, potessero esistere realmente. Inaspettatamente si era accorto che dividere tutto questo con Lee gli piaceva enormemente, perché in fondo questo era il suo mondo esclusivo, gli aerei la sua vita, e farglielo scoprire passo dopo passo era addirittura più emozionante per lui di quanto lo fosse per lei.
-E allora, te la senti di fare un giro su questo giocattolo?- le chiese James dopo un po’ con fare compiaciuto, per provare la sensazione di come ci si sentisse una volta staccatisi dal suolo.
-Non aspettavo altro!- esclamò eccitata dal posto di comando rivolgendogli un sorriso che le andava da un orecchio all’altro. Non avrebbe potuto desiderare regalo più bello. Anche solo girare intorno al velivolo con lui per esaminarlo dall’esterno era stata un’esperienza meravigliosa. L’abituale riservatezza e il modo di fare burbero che James assumeva quando era a terra scomparivano appena si avvicinava ad un apparecchio: era come se si sentisse capace di allargare le ali, come un grande uccello maestoso, per librarsi in aria, e a Lee questo suo aspetto piaceva enormemente.
James avviò il motore che si accese con un rombo improvviso, senza difficoltà, poi si diressero fuori dal piccolo hangar, rollando lentamente.
D’un tratto però, le venne improvvisamente in mente qualcosa di inquietante: la specie di pista che avevano davanti a loro era lunga meno di cinquecento metri, dopodiché vi erano solamente prati e un boschetto, il che voleva dire che James avrebbe dovuto staccare l’apparecchio almeno in un tempo e in uno spazio ragionevole perché non si andassero a sfracellare contro il bosco poco distante. Tutto d’un tratto, l’adrenalina che aveva provato nel salire dietro all’uomo di cui si fidava ciecamente, svanì per far spazio al puro e autentico terrore di schiantarsi da qualche parte.
Respirò a fondo, concentrandosi sulla nuca di James che le sedeva davanti, e pregando che non stesse cercando in qualche modo di ammazzarsi assieme a lei per le sue manie di grandezza.
Ma la manovra d’asso che fece pochissimi secondi dopo la lasciò senza fiato. Praticamente in quello spazio ridottissimo era riuscito a calibrare perfettamente la velocità e il tempo di distacco, e infatti mezzo minuto dopo, Lee aprì gli occhi senza riuscire completamente a credere di ritrovarsi in aria, assieme a lui.
-Di' un po’ non soffrirai mica di mal d’aria, per caso?- rise James per prenderla in giro, voltandosi dietro di sé, dalla sua parte. Aveva capito che quella bravata l’aveva spaventata a morte, così cercò di tranquillizzarla.
Lei scosse la testa, ma era pallida come un cencio.
-Finché ci sarò io non devi avere paura, okay?- le gridò per farsi sentire oltre il frastuono del motore e del volo.
-Se ci sfracelliamo verrò a cercarti nell’aldilà, hai capito?!- gli rispose lei di rimando, maledicendolo con tutte le sue forze e aggrappandosi istintivamente ai lati della carlinga, ma allo stesso tempo, nonostante l’autentico terrore che aveva provato pochi istanti prima, non poté fare a meno di sentire un tacito rispetto e un’ammirazione sconfinata per quell’uomo magnifico.
Perché James era esattamente come lo aveva sempre immaginato: coraggioso, pacato, forte, abile, nel pieno controllo dell’apparecchio che aveva costruito, padrone dei cieli. Era come se fosse nato per volare, e lei finì per convincersi che non ci fosse nessun altro al mondo che sapesse farlo meglio. Il fascino che incuteva era irresistibile; quell’uomo rappresentava per Lee tutto quello che aveva sempre sognato e ammirato. Perché James era potenza e forza, libertà e gioia e passione infinita. James era il cielo e le nubi e il sole splendente e il vento che rincorreva scherzoso quelle nuvole, ma, per quanto lo desiderasse con tutte le sue forze, non riusciva mai a prenderle.
-Dio, è stato così perfetto! Grazie Jamie- mormorò quando tornarono di nuovo sulla terra, ormai a sera inoltrata.
Era stata quasi una profonda esperienza religiosa per entrambi, e per Lee era stata la cosa più folle e splendida che avesse mai compiuto in tutta la sua vita.
-Sono felice che ti sia piaciuto- mormorò pensando che se lei avesse reagito diversamente ne sarebbe rimasto deluso.
-Non mi è solo piaciuto, è stato fantastico!- replicò Lee in tono solenne. Trovarsi nei cieli con James non solo glielo aveva fatto sentire più vicino, ma lei stessa si era sentita più vicina a Dio.
-Era proprio ciò che speravo, e dì un po’ ti piacerebbe imparare a volare?- indagò lui con aria interessata.
-Moltissimo!- gli rispose lei con gli occhi che le brillavano, togliendosi gli occhialoni da aviatore. Era stata un’esperienza che l’aveva commossa ed emozionata profondamente.
-Sei in gamba come secondo pilota, lo sai?- la elogiò. D’istinto Lee aveva capito che cosa domandare, quali commenti fare e quando rimanere in silenzio a gustare la gioia pura e la bellezza del cielo.
C’era da dire che James era anche molto abile a spiegare i principi fondamentali del pilotaggio ed era rimasto particolarmente impressionato dal fatto che per lei alcune cose apparissero naturali, come se avesse innati l’istinto e la capacità di pilotare un aereo.
Le tese entrambe le braccia per farla scendere, ma in maniera poco elegante, Lee inciampò, rovinandogli praticamente addosso con tutto il peso del corpo, e se James non avesse avuto una presa forte e sicura, probabilmente sarebbero caduti entrambi indietro, per terra. Si ritrovarono così, a pochi centimetri l’uno dall’altra, senza dire una parola, occhi negli occhi, mentre il respiro di entrambi si faceva impercettibilmente più veloce. Lo vide deglutire stranamente imbarazzato, mentre la scostava piano piano da sé e si girava a cercare qualcosa all’interno della piccola carlinga del biplano, estraendone un largo telo di plastica che distese a terra, poco più in là, vicino a dove erano appena atterrati, e una vecchia coperta a quadri che le porse con un mezzo sorriso: si sdraiò e con una mano invitò Lee a sedersi accanto a sé, con aria vagamente imbarazzata.
Lei non se lo fece ripetere e si sedette accanto a lui, che la fissava con un’espressione strana, le braccia incrociate dietro la testa e le lunghe gambe muscolose distese davanti a sé. Si buttò indietro i capelli con un gesto della mano e gli osservò a lungo il viso, dalla sua posizione privilegiata, senza dire una parola. Lui se ne accorse, e fissandola di rimando, si accigliò improvvisamente: Lee allora distolse gli occhi e li alzò a fissare la quieta e splendente volta stellata. Era una serata fresca, non troppo rigida, ma nonostante questo, una lieve condensa si formava continuamente al contatto con il loro respiro caldo. Si strinse di più nella coperta di lana che poco prima si era buttata addosso, e alzò il dito indice a indicare un punto lontano, ma incredibilmente splendente.
–Ho deciso che quella sarà la nostra stella. Che te ne pare?- disse dopo un po’, con aria meditabonda -Oggi credo che ci siamo andati molto vicino-
James ridacchiò sommessamente seguendo la traiettoria del suo dito –La nostra stella dici? E sentiamo come la chiameresti?- Anche solo quell’idea stramba di avere una stella in comune insieme, gli metteva addosso una curiosa sensazione di calore e di terrore.
-Uhm…credo…credo che la chiamerei KeeRay-
James inarcò un sopracciglio con aria scettica –E adesso, questa come ti sarebbe venuta?-
Lei era sempre stata un po’eccentrica e fantasiosa, e questa sua qualità, a quanto pareva non era affatto svanita con l’età.
-Sono le lettere iniziali dei nostri cognomi, scioccone che non sei altro. Keegan e Railey. E poi potresti leggerla anche con un altro significato se credi- disse facendo spallucce con aria di falsa noncuranza.
James non riuscì a trattenere una risatina –Okay allora che ne dici di dare anche un nome a quella nuvola lassù, due gradi a est della nostra stella?- rise e lei, capendo che la stava bonariamente prendendo in giro, si offese –Mpf, non mi prendi mai sul serio, tu eh?-
-Non è vero, ti prendo sul serio eccome. Oggi, per esempio, sei stata bravissima- le disse a voce più bassa con un tono incredibilmente carezzevole e stranamente dolce. Il viso di lei si illuminò improvvisamente mentre si girava a guardarlo sorpresa: sentirgli dire certe cose che per lui erano significativamente importanti, era indubbiamente qualcosa che la inorgogliva profondamente. –Più brava dei tuoi allievi al corso di pilotaggio?-
James fece una smorfia, ci pensò un po’ su e poi annuì –Saresti un’ottima allieva. Hai mai pensato di arruolarti nella RAF?-
-Non scherzare con il fuoco, maggiore. Teoricamente sarei ancora in tempo- ribatté lei con l’aria di chi la sa lunga, mentre si distendeva accanto a lui, incrociando le gambe davanti a sé.
-Jamie?-    
-Mmh?-
-Posso farti una domanda?- gli chiese dopo un po’ che erano rimasti in silenzio a guardare il cielo solitario.
-Dipende. Se devi farmi arrabbiare no-
-Ti piace inseguire le nuvole con i tuoi aeroplani?-
Ci pensò qualche istante.
-Non sono così poetico, ma suppongo di sì. Mi piace sentirmi libero e potente, senza impedimenti-
Oh sì, certo che lo sapeva. Aveva imparato a capirlo quel pomeriggio con quel volo indimenticabile, e ciò che aveva appena assaporato l’aveva eccitata profondamente.
-E ti piace correre più veloce del vento?- continuò lentamente.
-Dove vuoi arrivare?-
-Rispondimi-
-Sì, mi piace. Non ho paura, non ho mai avuto paura, perché dovrei averne?-
-Non credo che tu non abbia paura di niente. Ci sarà pure qualcosa che ti intimorisce-
-Sì le ragazze troppo curiose- ridacchiò girandosi a guardarla a pochi centimetri dal suo viso, e cambiando improvvisamente espressione quando si trovò a un soffio dagli occhi grigi di Lee.
-Io, sarei troppo curiosa, maggiore Railey? O sei forse tu che scappi di continuo?- lo sfidò lei.
-Ti pare che stia scappando, ora?- lo sguardo di James era quasi accecante talmente era intenso e profondo.
-Tu credi di tenere sotto controllo tutto, di essere forte come il vento, di poter spostare le nuvole al tuo passaggio così come fai con le persone, ma non funziona così, sai, non con chi ti vuole bene, per lo meno-
-E cosa ne sai delle persone che mi vogliono bene, sentiamo?- le chiese con aria di vaga supponenza.
-Credo di conoscerne qualcuna, forse-
-Bugiarda-
-Non si mente guardando negli occhi una persona, non lo sapevi, maggiore?-
-Se è per questo, io mento sempre con gli occhi- la sfidò.
-E adesso?- gli chiese lei a bassa voce, osservandogli con attenzione e desiderio le labbra morbide e perfette.
James allora allungò una mano verso di lei, e con la punta delle dita le sfiorò il viso con delicatezza, fissandola con espressione intensa, quasi commossa -Tu lo pensi?-
Lee scosse la testa, sentendosi improvvisamente spogliata da quegli occhi spaventosamente grandi e intensi, e vagamente intimidita.
Si fissarono a lungo, come a cercarsi di dire tutto quello che era stato taciuto per anni, tutto quello che avevano nascosto nel cuore, fin da bambini. Lee avrebbe voluto stringerlo a sé e confessargli che lo amava da sempre, da tutta la vita, da quando gli sgambettava intorno e lui cercava di proteggerla dalle brutture del mondo, ma evidentemente James aveva pensieri molto diversi dai suoi. Lui pensava e agiva credendo di fare sempre la cosa più giusta per entrambi. E per questo lei lo odiava.
Si staccò bruscamente, e in quel preciso istante, quel lieve tepore che aveva avvertito sulla guancia al suo tocco, svanì di colpo.
-KeeRay hai detto eh?- mormorò, spezzando quella sottile alchimia che si era creata e tornando a fissare intensamente quel puntino più luminoso degli altri.
-Sì, la stella che porta i nostri nomi. Così quando saremo lontani, nelle notti come queste, potremo guardare la stessa stella nello stesso istante, ed entrambi ci sentiremo a casa- rispose lei malcelando la sua malinconia.
-Mi sembra un’idea geniale. Anche se io non ho mai avuto una casa più piccola del cielo-
-Mpf, il solito esagerato- sogghignò un po’ offesa.
–Vorresti dire che…uhm…potrebbe esistere qualcosa che assomiglia ad una casa in cui non…non sarei più…-
Solo?
-A te piacerebbe?- gli chiese lei, accorgendosi quasi di trattenere il fiato mentre aspettava una risposta da parte sua.
-Non saprei. E’ una domanda che non mi sono mai posto, onestamente- le rispose pensieroso.
Non ne aveva avuto mai dubbi. Per James la parola casa era sempre stato un concetto astratto, totalmente lontano dalla sua realtà fatta di singole giornate, senza progetti né affetti che non andassero aldilà del suo lavoro. A rifletterci bene a chi sarebbe importato se lui fosse morto? Probabilmente tutti avrebbero pianto il celebre maggiore Railey, l’asso dei cieli, uno degli aviatori più spericolati del Regno Unito, ma in conclusione, a chi poteva interessare di James? Dei suoi sentimenti e di quello che provava? Si voltò a fissare Lee, con aria pensierosa, in silenzio, provando l’impulso irrefrenabile di stringerla al cuore e di confessarle quanto tutto ciò intimamente lo spaventava, ma poi fece finta di nulla e le sorrise, senza dire una sola parola.
-Okay, adesso devi mantenere la promessa- le disse dopo un po'.
Lei gli rivolse un'occhiata vagamente stupita.
-Non dirmi che te ne sei già scordata. Un volo, Lee canta per me- sorrise puntellandosi di fianco sul gomito. Aveva sul viso un'espressione irresistibile e di nuovo lei ebbe l'impulso di mandare al diavolo tutto e di baciarlo, fare l'amore lì sotto le stelle, che cosa romantica, per un uomo tanto pragmatico come il maggiore! Scacciò subito quel pensiero perché era evidente che James aveva in mente tutt'altro che sdolcinatezze varie.
-Credevo te ne saresti dimenticato- sbuffò lei mettendosi a sedere.
-Credevi male, ho una memoria a lunga scadenza- le rispose fissandola con quegli occhi che la mettevano costantemente a disagio.
-Okay, hai qualche preferenza?-
-Uhm...conosci  Easy to love di Billie Holiday?-                          
Lei fece finta di pensarci un po' su e poi cominciò a canticchiarla sottovoce perché era una delle sue canzoni preferite. Chissà perché le parole gli facevano proprio pensare a lui.
James l'ascoltò con attenzione, in silenzio, poi, inaspettatamente la prese tra le braccia e l'aiutò ad alzarsi. Lei si fermò interdetta -No, continua, balla con me stasera- mormorò cingendole la vita e accompagnandola piano con le parole e con i passi. Lei lo guardò stupita mentre James le faceva appoggiare le braccia intorno al suo collo. Era un gesto che mai si sarebbe aspettata da lui, totalmente inatteso, ma non le importava. Stava imparando a capire che con Jamie erano importanti i piccoli gesti, i momenti preziosi e non le parole o i fatti eclatanti.
-I'm sure you hate to hear, that I adore you, dear...That you can't see your future with me, 'cause you'd be oh, so easy to love- Chissà perché quelle parole sembravano destinate proprio a loro.
Fu un momento magico per entrambi, Lee non si era mai sentita al sicuro come in quell'istante che avrebbe voluto durasse per l'eternità -Te la cavi anche con i passi- sorrise lui dall'alto della sua statura -Sicuramente meglio di te- replicò lei con un'ironia che malcelava il suo imbarazzo. -Sarai bravo con i tuoi aerei ma non si può dire che sia un ballerino provetto- lo canzonò garbatamente mentre senza farlo apposta le pestava un piede. -Avevo dimenticato la tua simpatia piccola vipera dalla lingua biforcuta- mormorò lui stringendole di più la vita e attirandola a sé in un gesto perentorio e possessivo che le piacque enormemente.
-E io non avevo scordato il tuo essere permaloso maggiore- Risero entrambi, nella fredda notte e per un breve attimo fu come se il mondo e l'universo intero si fossero dissolti per far spazio solamente a loro due, alla loro canzone e al sentimento che li univa indissolubilmente da sempre. Lee ne era sicura, il suo era amore, un amore mai provato per nessuno, perché James era suo amico, suo fratello, suo padre e un giorno avrebbe voluto che fosse anche molto, molto di più. Ne era innamorata, ormai non poteva farci nulla. Era bastato quel poco per riscoprirsi di nuovo e capire che quel filo che li aveva legati per anni in realtà non si era mai interrotto.
Si sdraiarono di nuovo, prima di andare e restarono ancora a lungo, in silenzio, a fissare la quieta volta celeste, quando ad un certo punto James si accorse che lei gli si era letteralmente assopita a fianco, così, con un piccolo sorriso l’avvolse meglio nella calda coperta e, senza pensare alle conseguenze, la prese in braccio, mentre lei mormorava qualcosa di incomprensibile, la faccia premuta contro il suo petto.
James sorrise tra sé mentre a passi lenti rientravano in casa, adagiandola delicatamente sul comodo letto che aveva preparato per lei il giorno prima che arrivasse a Manor House.
-Buonanotte piccola- le sussurrò sistemandole per bene la coperta. Era un gentiluomo e non si sarebbe mai approfittato delle sue debolezze. Si era accorto che lei non aspettava altro che un suo gesto, un suo bacio, una sola parola che le facesse capire ciò che le premeva nel cuore, ma in realtà lui non riusciva a lasciarsi andare. Non era giusto. Lei era la sua piccola Lee e non voleva in alcun modo turbarla o darle false speranze. Un giorno avrebbe avuto una brava persona al suo fianco, e magari anche un paio di marmocchi, e comunque un tipo di esistenza che spetta ad ogni donna e che lui non avrebbe mai potuto donarle. La contemplò a lungo, in silenzio, con occhi pieni d’amore, e di dolcezza, azzardandosi solamente a farle una lieve carezza tra i capelli. Solo quel gesto innocente gli diede un brivido di emozione nell'anima.
E guardandola con quegli occhi che in quel momento Lee non avrebbe mai potuto immaginare. Gli occhi di un uomo che ha disperatamente bisogno di quella donna, proprio lei, ma che non ha il coraggio di confessarle quello che sente nel cuore.
-Canta sempre per me...amore- sussurrò senza che lei potesse minimamente sentirlo.
Poi, senza fare altro si alzò e si richiuse la porta alle spalle, cercando di fare il minimo rumore possibile.

Braunshweig, in un posto qualunque


Thomas Wentz fissava il soffitto sopra di sé con aria torva e un’espressione vagamente accigliata, poi qualcosa si mosse e il suo sguardo si spostò verso il giovane Gefreiter accanto a sé con cui aveva appena condiviso momenti di puro piacere. Il ragazzo si spostò su un fianco, nel sonno, mugolando qualcosa: era bello, non c’era che dire, aveva folti capelli biondi e un viso che avrebbe detto quasi innocente se non avesse ricordato quello che era successo tra loro quella notte. Lo aveva abbordato la sera prima, in un locale da quattro soldi di Braunshweig: ultimamente Wentz si sentiva molto solo e quel ragazzo era stato il primo, dopo tanto tempo, che gli aveva rivolto un sorriso. Chissà perché i suoi occhi gli avevano ricordato quelli di un altro uomo.
Joachim Von Scherner.
Il solo pensiero lo irritava e lo eccitava allo stesso tempo.
-Herr Hauptmann io conoscevo quell'uomo. L'ho conosciuto tanto tempo fa. In un orfanotrofio di Londra. Quando era solamente un ragazzino. Ribelle e indomito proprio come adesso-
-Come faceva a conoscere James Railey?- gli aveva chiesto quasi ringhiando.
-Perché siamo praticamente cresciuti insieme- aveva risposto Wentz impassibile. -Lui è arrivato al San Francis che aveva neppure cinque anni. Dicevano che la madre si era suicidata e fosse una sgualdrina di infima categoria, del padre invece non se n'è mai saputo nulla. E' rimasto lì fino ai sedici anni poi è scappato per arruolarsi nella Raf-
Joachim aveva avuto uno strano fremito
-Non trova anche lei una somiglianza curiosa Herr Hauptmann con il maggiore Railey? Quando James era arrivato al San Francis andava ripetendo continuamente a noialtri ragazzini che quando sarebbe stato grande avrebbe ritrovato il suo fratellino piccolo che era stato portato via da un uomo che parlava strano, in un posto lontano che si chiamava tipo...Germania...Le dice niente questa storia capitano?-
-Cosa vorrebbe dirmi tenente?- aveva sbottato Joachim sempre più innervosito -Vuole forse insinuare qualcosa? Non devo di certo darle spiegazioni-
-Oh, a me no di certo Herr Hauptmann ma all'alto comando certamente sì. Sarebbe veramente curioso se si venisse a conoscenza che uno dei migliori piloti della Luftwaffe in realtà vanta una nobilissima nascita...uhm...in terra d'Inghilterra. In tal caso dovrebbe dare un bel po' di spiegazioni al nostro amato Fuhrer- aveva ridacchiato accendendosi una sigaretta.
Non si era quasi accorto che un istante dopo Joachim l'aveva preso con violenza per il collo, sbattendolo al muro, facendogli cadere repentinamente la sigaretta dalla labbra -Fai ancora un'altra insinuazione del genere lurido bastardo e ti faccio radiare per sempre dall'esercito, sono stato chiaro?- aveva sibilato a denti stretti, gli occhi ridotti a due fessure. -Una soltanto, mi hai capito?- aveva ripetuto con un tono che non ammetteva repliche.
 -Che c'è la verità fa male, capitano?- aveva mormorato lui con un ghigno sadico pur cominciando a far fatica a respirare. Joachim continuava a stringere implacabilmente, lo sguardo pieno di una rabbia quasi inumana
-Ripetilo ancora e io ti uccido con le mie mani-
Wentz stava diventando quasi viola quando fortunatamente era sopraggiunto uno dei piloti che accortosi della scena era intervenuto a separare i due uomini -Signori ma che diavolo succede qui?-
Joachim si staccò da Thomas con un colpo secco, facendolo caracollare e continuandolo a fissare come un cane rabbioso, senza dire una parola,
-Niente, è tutto a posto. Io e il tenente Wentz stavamo solo chiarendo delle questioni- aveva risposto Joachim riprendendo il controllo dei propri nervi in pochi istanti.
-Sì Breitner io e il capitano Von Scherner ci siamo chiariti- aveva ribadito Wentz sistemandosi il nodo della cravatta continuandolo a fissare con ostinazione. Per poco non lo aveva strangolato a mani nude per quella sua pesantissima insinuazione. Aveva capito che Von Scherner non scherzava affatto; sarebbe stato capace di ucciderlo senza pietà se solo lui avesse detto un'altra parola. Chissà perché sotto certi aspetti, nella parte più recondita e maligna dell'animo, lui e suo fratello si assomigliavano in maniera indicibile.
Lo guardò allontanarsi a passi frettolosi e nervosi, senza più voltarsi e per un momento brevissimo gli parve di rivedere la copia fatta e finita di James Railey.

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So di essere in mostruoso ritardo *si cosparge il capo di cenere*, ma questi mesi sono stati talmente intensi che non ho proprio avuto né il tempo, né la costanza e né tantomeno l'ispirazione per scrivere mezza riga. Spero di essermi fatta un pochino perdonare con il nuovo capitolo.
Grazie come sempre a chi segue la storia, a chi lascerà un commento o a chi semplicemente leggerà.
Un abbraccio e buona estate a tutte voi.
Hime

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