Lilian

di NeverThink
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo uno: Lilian. ***
Capitolo 2: *** Capitolo due: Lilian. ***
Capitolo 3: *** Capitolo tre: Lilian. ***
Capitolo 4: *** Capitolo quattro: David. ***
Capitolo 5: *** Capitolo cinque: Lilian. ***
Capitolo 6: *** Capitolo sei: David. ***
Capitolo 7: *** Capitolo sette: Lilian. ***
Capitolo 8: *** Capitolo otto: David. ***
Capitolo 9: *** Capitolo nove: Lilian. ***
Capitolo 10: *** Capitolo dieci: David. ***
Capitolo 11: *** Capitolo undici: Lilian. ***
Capitolo 12: *** Capitolo dodici: Lilian. ***
Capitolo 13: *** Capitolo tredici: David. ***
Capitolo 14: *** Capitolo quattordici: David. ***
Capitolo 15: *** Capitolo quindici: Lilian. ***
Capitolo 16: *** Capitolo sedici: David. ***
Capitolo 17: *** Capitolo diciassette: Lilian. ***
Capitolo 18: *** Capitolo diciotto: David. ***
Capitolo 19: *** Capitolo diciannove: Lilian. ***



Capitolo 1
*** Capitolo uno: Lilian. ***


Lilian

 

 

~Sometimes you have to be apart from people you love,
but that doesn't mean you love them any less.
Sometimes it makes you love them even more.~
When my world is falling apart,
when there is no light to break up the dark
that's when I look at you.
When the waves are flooding the shore and I
can't find my way home anymore
that's when I look at you.

 

 Capitolo uno.

 

Il Natale dovrebbe essere il momento più dell’anno, no?
Le luci, l’albero, gli addobbi, i dolci, il tacchino… la tavola mai sparecchiata, i giochi da tavolo. Le canzoni di Frank Sinatra che inondano dolcemente la stanza illuminata e colorata.
Le serate con gli amici e bere birra e fare baldoria nell’affollata New York.
Così per qualsiasi altra festa, vacanza.
Il coprifuoco infranto. Fuggire si casa nel cuore della notte. Uscire di nascosto.
Ma il paesaggio che, in quel momento, mi si prospettava davanti era ben diverso da quello perfetto disegnato nella mia mente, oramai solo il ricordo di una vita passata ad essere l’adolescente ribelle che ero.
Ad ogni modo, guardavo il paesaggio della mia camera, o meglio, la camera che un tempo era stata di mia madre. Il mare si scagliava grigio, sotto il cielo pieno di pioggia, sulla costa sabbiosa. Mi portai istintivamente una ciocca di capelli chiari dietro un orecchio, giocando poi con la coda bassa che mi ricadeva sulla spalla.
Odiavo con tutta me stessa quel posto. Odiavo con tutta me stessa il North Carolina, eppure non avevo potuto far nulla per evitare la partenza programmata da mio padre, la settimana precedente.

Eravamo a tavola. Seduti, come di consuetudine, l’uno di fronte all’altra. Come di consuetudine, da oramai due anni, mangiavamo in silenzio.
«Andremo dai nonni.»
Alzai di scatto la testa, distogliendo la mia concentrazione dal pasticcio di verdure nel mio piatto.
«Scherzi, vero?» chiesi spalancando gli occhi.
«Ci divertiremo.»
«No!» urlai scattando in piedi. «Non puoi papà! Cosa vuoi che faccia io da nonni? Che vuoi che faccia in quella casa? Se qui è il deserto, lì non c’è vita!»
«Lily, tesoro...»
«Non possiamo passare l’ultima settimana di vacanze estive qui, come gli ultimi due anni?»
«Lily» il modo in cui pronunciò il nome, mi mise all’istante in allarme.
«Andiamo a vivere lì.»
Mi sentii la terra mancarmi sotto i piedi e le lacrime inondarmi gli occhi. «Papà… la mia vita è qui.»
Mio padre con sguardo duro e serio, imperturbabile, mi fissava, poi pulendosi le labbra con un fazzoletto puntò i suoi occhi nei miei.
«Noi andremo da nonni. Che ti piaccia o no. La nostra famiglia è tutta lì.»
Con le lacrime agli occhi mi voltai e mi chiusi in camera mia, sbattendo la porta.

Odiavo quella stanza, perché ogni cosa mi ricordava lei, mi ricordava la sua assenza.
I suoi capelli biondi, la stessa tonalità chiara dei miei, i suoi occhi verdi, come i miei, il suo sorriso allegro e contagioso, quello che da due anni avevo perso.
Mi asciugai col dorso della mano la lacrima solitaria che mi rigò all’improvviso la guancia e, alzandomi dal letto, su quale ero seduta, andai ad aprire la finestra.
L’aria fresca, proveniente dal mare, mi colpii in pieno viso facendomi rabbrividire. Chiusi gli occhi godendomi la sensazione della brezza sul viso.
Sentivo la rabbia ribollirmi nelle vene.
Odiavo quel posto. Odiavo la prospettiva si dover passare l’ultimo anno di liceo, in quella cittadina Quella cittadina dei North Carolina era come una prigione per me.
Passare le vacanze di Natale con mio padre, con il quale non avevo gran rapporti dal giorno in  cui… scossi i capo, come a voler scrollarmi dalla mente le immagini che crudeli cominciarono a riaffiorare. Passare le vacanze di Natale con la nonna ed il nonna. Passare il resto della mia vita, lontana da casa, dai miei amici, la mia scuola… trascorrere l’anno precedente al collage con la famiglia Lawson. La famiglia di… mamma.
«Così ti prenderai un accidente.»
Mi voltai di scatto verso la porta, alle mie spalle, e guardai la nonna con espressione dolce e tenera. Non le risposi, mi limitai ad scuotere il capo e ritornare a guardare il mare agitato.
«Posso?» chiese. Interpretò il mio silenzio come un si. La sentii avanzare nella stanza per poi carezzarmi i capelli con fare dolce.
«So quanto sia difficile per te, Lily, ma…»
«No, nonna Marie, non lo sai.» risposi secca sentendo la gola gonfia. Lei sospirò e sentii la retina del letto cigolare sotto il suo peso.
«Tuo padre, ti sembrerà assurdo, ma ha fatto la scelta giusta.»
«Sei qui per difenderlo?» sbottai con voce tagliente.
«No.»
«Allora non cercare di farmi cambiare idea.»
«Non sto cercando di farti cambiare idea, tesoro. Voglio solo farti aprire gli occhi.»
Non risposi, mi limitai a fissare il mare agitato.
«Questa non è la mia vita.» sibilai.
«Lì non avete nessuno… noi possiamo aiutarti, possiamo aiutare tuo padre… questa è casa vostra, ricordatelo.»
Mi alzai di scatto e mi voltai, rossa in volto per la rabbia. «Esatto, questa è casa vostra! Non casa mia! E’ la vostra vita! Non la mia! La mia vita e a New York! Lì ho la mia vita!» urlai con le lacrime agli occhi.
Nonna Marie mi guardava con sguardo imperscrutabile, seduta sul bordo del letto, poi sospirò.
«Voglio andare a casa.» mormorai con voce incrinata, sentendo le lacrime calde rigarmi il viso.
«E’ questa casa tua. Lo hai sempre saputo.»
La guardai e sentii il mento cominciare a tremarmi. Con grandi falcate superai il letto e uscii dalla stanza. Il pavimento i legno invecchiato scricchiolò sotto i miei piedi mentre mi dirigevo verso l’ingresso, afferrando la felpa che avevo poggiato sulla sedia.
«Dove vai?» chiese mio padre, intento a scartare uno scatolone. «Devi aiutarmi a sistemare la nostra…»
Non sentii il resto della frase, poiché sbattei violentemente la porta alle mie spalle.

 

Seduta sul spiaggia fissavo le onde del mare, andare a tornare. Il vento mi scompigliava i capelli lunghi e biondi, raccolti in una coda scomposta. Mi portai le ginocchia al petto, abbracciandole e poggiandoci sopra il mento.
Avevo vagato per un po’, lungo le stradina di quella desolata cittadina, senza una meta, fino a giungere al mare. In lontananza si potevano scorgere persone camminare e tenersi per mano, bambini far volare i loro aquiloni. Esattamente come io facevo con la mamma.
Sorrisi al ricordo di noi due sulla spiaggia, nel tardo pomeriggio estivo, a far volare l’aquilone. Quel ricordo, dolce sì come il miele fu anche una pugnalata al infertami al cuore. Feci una smorfia, quando avvertendo dolore fisico.
Odiavo quel posto. Odiavo tutto ciò che mi ricordava lei. Odiavo perfino il mio volto, quando mi le persone mi chiamavano Lilian. Solo lei mi chiama con il mio nome per intero.
Se New York, per certi versi era stata la mia medicina, il barlume di luce nelle tenebre, quella cittadina era il posto senza cielo. Senza luce. Il sole che illuminava il mare durante quasi tutto l’anno, non sarebbe servito a nulla, quel posto sarebbe sempre stato privo di luce, di calore.
Perché non era più casa mia oramai. Perché lei non sarebbe mai più tornata.

 

 

*

Eccomi qui, gente. Con una nuova fiction. Postata solo perché una è già finita in file word e una quasi completata.
Ma, in fondo, a voi, cosa importa? Giusta osservazione.
E’ un fiction nata quasi per necessità. E spero che a qualcuno di voi piaccia. Okay, è solo un inizio… ma… va bene, basta ciarlare.
Ispiratoad una storia bellissima.

Alla mia dolce Ether…

A voi, un bacio,
                   Panda.

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Capitolo 2
*** Capitolo due: Lilian. ***


 

~Sometimes you have to be apart from people you love,
but that doesn't mean you love them any less.
Sometimes it makes love them even more.~
When my world is falling apart,
when there is no light to break up the dark
that's when I look at you.
When the waves are flooding the shore and I
can't find my way home anymore
that's when I look at you.


 


Capitolo due.

Lilian

 


Arrancai sulle scale della veranda della casa dei nonni, quella che sarebbe diventata casa mia per un intero anno. Ferma, immobile, rimasi a fissare il legno logoro della porta d’ingresso, ferma dinanzi ad essa, combattuta. Non mi andava di entrare, affrontare mio padre, dovergli dare spiegazioni, ascoltare gli inutili discorsi della nonna circa la mia nuova vita lì. Non mi andava di sorbirmi lo sguardo indagatore del nonno. Non volevo vedere nessuno, eppure non potevo e non volevo continuare a vagare per le strade, da sola.
La sera era giunta, e la temperatura si era abbassata ancor di più. Solitamente a Settembre il clima era molto più caldo, tanto che si poteva ancora circolare con calzoncini e magliette a mani corte, ma, per qualche inspiegabile motivo, la mattina di quel giorno la temperatura era scesa vertiginosamente. Quasi ad accogliermi con freddezza e riluttanza, nella cittadina, nel mio inferno personale.
Scossi il capo e mi trascinai nell’angolo della veranda, dove vi era situata una vecchia sedia a dondolo e non potei impedire il doloro flashback che mi colpì come una secchiata d’acqua gelata.


Era il tardo pomeriggio di una calda giornata di giugno. E, oltre la casa bianca, dalle ringhiere e veneziane blu, i gabbiani stridevano sul mare calmo.
Amanda, seduta sulla sedia a dondolo color noc,e disegnava su un blocchetto. Le mani sporche di carboncino, i capelli biondi e ondulati raccolti grazie ad un pennello, delle ciocche ribelli le sfioravano il viso sottile e ovale. Dondolava piano e canticchiava. Accanto alla sedia un tavolino con decorazioni floreali, dipinte dalla stessa Amanda, un bicchiere di thè freddo alla pesca. Il suo preferito.
Lilian, sulla soglia della porta guardava la mamma disegnare con espressione tranquilla. Poi, un sorriso si allargò sul suo viso e alzò il capo, puntando il suo sguardo in quello della bambina di nove anni.
«Lo dai un bacio alla mamma?» chiese con fare dolce, sorridendo come solo lei sapeva fare. La bambina annuii e si avvicinò alla mamma, baciandole la guancia.
«Cosa fai, mamma?» chiese curiosa Lilian.
«Disegno.»
«Lo vedo. Ma cosa?»
Amanda le mostrò il blocchetto e Lilian sorrise, mentre gli occhi le si illuminarono.
«Sono io!» esclamò.
«Esatto!». Il disegno ritraeva Lilian sulla spiaggia, con un aquilone.
«Mamma…»
«Dimmi, piccola.» disse Amanda carezzandole il viso e facendola sedere sulle sue gambe.
«Mi insegni a dipingere?» chiese bevendo un sorso di thè dal bicchiere della mamma.
«Oggi stesso!»
«Davvero?»
Amanda annuì dolcemente baciandole sulla fronte.
«Ti voglio bene, piccola mia. Non scordarlo mai.»
«Ti voglio bene anche io, mamma.»


Ferma, lì, persa nei ricordi, guardavo la sedia a dondolo, rovinata dal tempo e dall’umidità. Ferma, immobile, fredda.
L’immagine dai caldi e vividi colori fu rimpiazzata da quella realtà cruda, desolata e piena di struggente dolore e malinconia.
Mi avvicinai alla sedia a dondolo e la sfiorai con i polpastrelli. Sentii le venature del legno sotto la pelle.
Sorrisi, consapevole che non appena mi sarei rifugiata in camera, circondata dalle pareti che un tempo furono la sua segreta dimore, sarei scoppiata a piangere.
Perché mio padre sembrava non capire? Perché tutti sembravano volermi infliggere i più atroci dolori ogni secondo della mia vita? Perché voleva farmi restare lì, ricordarmi la sua assenza, quel sorriso che non avrei mai più rivisto? Era come se non importasse ciò che mi stesse accadendo, la tempesta di dolore e solitudine che si abbatteva sul mio animo.
Odiavo mio padre per ciò che stava facendo.
Quella casa per ogni vacanza estiva, natalizia, primaverile, era stato il nostro rifugio, come un mondo magico fatto dio colori, sorrisi e risate. Ed ora, senza lei, tutto sembrava vuoto e triste. Tutto era vuoto e triste. Quel luogo conteneva mille ricordi che ogni secondo sembravano scagliarsi contro il mio cuore, come il mare fa sulla scogliera. Non era come New York. Quel posto non era magico, non era il… nostro posto.
Mi passai una mano sul viso e mi sedetti sulla sedia a dondolo,  con lo sguardo fisso sulla stradina deserta dinanzi a me. Abbracciandomi le ginocchia e poggiando il mento su di esse, una posizione che troppo spesso avevo assunto negli ultimi due anni, presi a dondolare. Raggomitolata su me stessa cercavo di non sgretolarmi.
Con la coda l’occhio, vidi una figura avvicinarsi alla scalinata della veranda. Proveniva dal lato opposto a quello dov’erano io, dalla destra. Il secondo scalino scricchiolò, un’eterna caratteristica di quella scalinata. Alzai lo sguardo ed una donna sembrò guardarmi prima confusa, poi rasserenata, come mi avesse riconosciuta.
«Lilian?» chiese con l’ombra di un sorriso e notai che in mano teneva un vassoio di cartone. Pasticcini?
Feci una smorfia. «Lily.»
La donna sorrise e si avvicinò a me. Era alta, probabilmente superava il metro e settantacinque. Sarei sembrata una bambina affianco a lei, con il mio metro e sessantacinque.
Non mi alzai, rimasi, lì, con le gambe strette al petto a dondolare.
«Forse non ti ricordi di me, sono  Cathy. Abito a circa cinque case da qui. Quando eri piccola giocavi spesso nel mio giardino.» disse sorridendo.
Rovistai nel cassetto dei ricordi il suo viso rotondo, i suoi capelli neri come la notte, gli occhi marroni.
«Forse.» risposi vaga.
Cathy sorrise, ed io rimasi lì a fissarla seria.
«Forse eri troppo piccola.»
Annuii col capo. Probabilmente si aspettava che mi alzassi ma non lo feci, rimansi ancora lì seduta, senza muovere un muscolo.
«Tuo padre è in casa? Sono venuta per darvi il benvenuto.»
Annuii col capo. «Grazie.» risposi indifferente, senza sorridere.
«Okay.» mormorò. «Se avessi bisogno di qualsiasi cosa non esitare a venirmi a trovare, Lilian.»
«Lily.»
«Okay, Lily. Abito al 43.»
Annuii ancora col capo.
«Bene, allora… busso.» aggiunse a corto di parole, oppressa probabilmente dal mio silenzio. La guardai darmi le spalle e avvicinarsi alla porta, battendo tre colpi.
Qualcuno aprii. Riconobbi la voce della nonna.
«Cathy, cara!»
«Marie!», poi la porta si chiuse e le voci sparirono.
Sospirando, ritornai a guardare la strada.
Poi ricordai dove avevo visto il suo viso.


«Ciao, piccola.» disse una donna a Lilian, piegandosi sulle ginocchia per poterla guardare negli occhi.
«Ciao.» rispose. Le piacev, quella donna. A differenza di sua madre aveva i capelli corvini e gli occhi scuri. Era come guardare la luna, per la piccola Lily. Contrapposta al sole estivo della mamma.
«Io mi chiamo, Cathy. Ti va di giocare in giardino, mentre io e la mamma scambiamo quattro chiacchiere?» chiese la donna sfiorandole una ciocca di capelli chiari.
Lilian, che allora aveva solo cinque anni, alzò lo sguardo verso la mamma, che le sorrise con fare dolce e la carezzò appena la schiena.
La bambina tornò a guardare Cathy ed annuì col capo.
«Vedrai, di divertirai. C’è anche mio figlio, sai? Non giocherai sola. C’è uno scivolo.»
«Niente altalena?»
Cathy sorrise. «C’è anche quella piccola.»


«Odiosi vicini.» sibilai stendendo le gambe e poggiandole sulla ringhiera.
«Lilian Hemsworth, giù le gambe da quella ringhiera. L’ho ridipinta prima dell’estate  e non vorrei rifarlo.
Mi voltai, sobbalzando verso la porta, che non avevo sentito aprirsi. «Lily, nonno. Lily.» ringhiai.
Certo, certo. Fila dentro signorina, abbiamo un ospite.», la voce del nonno Liam era ferma e severa, ma sapeva che era dolce come il miele. Forse fu per questo che mi alzai senza fiatare e una volta entrata in casa, mi congedai con un gesto della testa, per poi salire al piano di sopra borbottando: «Vado a farmi una doccia.


La settimana dopo sarebbe cominciata la scuola.
Dalla settimana successiva, la mia vita sarebbe cambiata.

 

*

Ringraziamenti.

Miriam_Cullen: ciao! Sono contenta ti sia piaciuto il primo capitolo e spero anche questo sia stato un po’ di tuo gradimento. E’ un capitolo introduttivo, quasi, e spero non abbia troppo annoiato. Grazie per averla inserite fra le seguite! Grazie davvero!
Elly4ever: ciao! *-* okay, dopo gongolato per la felicità, eccomi qui a dirti: grazie! Sono contenta che il primo capitolo ti sia piaciuto, anche se è solo un inizio. E spero che anche questo non ti abbia delusa. Sul serio hai letto anche le altre? Oh, non sai che piacere! La tua recensione… cavolo, troppo gentile! Grazie di cuore… grazie!
KeLsey: mia Eri… ovvio che te l’ho dedicata! Non pretendere troppo da me… non posso fare miracoli, e lo sai. Ad ogni modo, sono contentissima di sapere che ti piace Lily! E’ un personaggio un po’ diverso dagli altri delle fiction, e sarà… ardua, forse. Eh, si, la nonna nonnossa Marie…sarà un bel personaggio. Bravissima? Pff. Ti voglio bene, Eri. Grazie di tutto, come sempre. Sei un angelo. (L)
Nessie93: ciao, Chiarì! Beh, è presto per dare giudizi sul padre e sulla nonna, non credi? E poi… è ovvio che è sua moglie! O.O Poi… ho detto che è ispirato alla storia… non che ne è una riproduzione -.-“  Grazie per la recensione. Come sempre mi ha fatto molto piacere. A presto. <3
Martiis: ciao! *-* grazie mille per al recensione! Sono contenta la storia ti piaccia. Per me è molto importante. Spero di non averti annoiata con questo capitolo. A presto, cara!
__Yuki__ : ciao! Beh, diciamo che ci hai preso un po’, nella recensione, circa il tema della fiction. Sono contenta sia stata di tuo gradimento. Mi ha fatto molto piacere leggere, ma soprastutto ricevere, una tua recensione. Come ben sai, mi piace il tuo modo di scrivere. Pero di non averti annoiata con questo capitolo. A presto.
Fairwriter: mia adorata Juls! Non sai che piacere mi ha fatto la tua recensione! Cavolo il tuo parere per me conta davvero molto, lo sai! Spero ti sia piaciuto anche questo. Ti voglio bene, Cip. Tua, Ciop <3

 

A voi, un bacio,
                   
 Panda.

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Capitolo 3
*** Capitolo tre: Lilian. ***


~Sometimes you have to be apart from people you love,
but that doesn't mean you love them any less.
Sometimes it makes you love them even more.~
When my world is falling apart,
when there is no light to break up the dark
that's when I look at you.
When the waves are flooding the shore and I
can't find my way home anymore
that's when I look at you.





Capitolo tre.
Lilian.

 

«Non fai colazione?». Mi voltai verso la nonna che in cucina cuoceva della pancetta. L’odore di carne inondò la stanza e per un istante fui sopraffatta da sensi. Papà seduto al tavolo, con gli occhiali sul naso sfogliava un libro. Gli era stato offerto un posto, alla scuola elementare della cittadina. Era ciò che aspettava per potersi definitivamente trasferire qui, dai nonni, nel posto che, secondo lui, mi avrebbe ridonato vita. Bazzecole. New York, era la mia vita. New York, era vita.
Ad ogni modo, dopo un freddo “buon giorno”, come tutte le mattine, intenzionata ad ignorare sia lui, che il nonno e le sue esce per l’imminente pesca, mi diressi verso il piano della cucina.
«Non ho fame.» risposi indifferente.
Era una settimana  che le conversazioni con papà e i nonni si basavano su semplici saluti e “mi passeresti l’insalata, per favore?” o “apparecchieresti la tavola?”, per il resto mi rifiutavo di parlare con loro o sviavo qualsiasi discorso con estrema facilità, forse fin troppo, tanto che cominciai a sospettare che mi stessero assecondando, ogni tentativo di conversazione che andasse oltre le semplici basi della conversazione civile fra estranei, io la debellavo.
«Sicura?» chiese ancora nonna Marie.
«Prendo un po’ di caffè.» dissi versandomi del liquido nero in una tazza color del mare.
«Hai i soldi per il pranzo?», la voce di mio padre era bassa e roca e, tutto sommato, si addiceva al suo viso asciutto e squadrato. Alzò il cappo, guardandomi negli occhi.
Annuii col capo e bevvi il mio caffè, in religioso silenzio, mentre mia nonna e mio nonno si perdevano in una conversazione sulla pesca.
«Secondo me, Liam, non prenderai nessun pesce.» disse la nonna porgendogli un piatto con del bacon.
«E perché mai, donna?» chiese corrugando la fronte.
«Perché è tardi e a quest’ora non se ne trovano.» ribatté Marie.
«E qui che ti sbagli. Eh, donna di poca fede. I pesci sanno che nessuno andrà a pescare a quest’ora, perciò consapevoli di tale realtà, usciranno andando a zonzo. Ho sale in zucca io, Marie.» disse il nonno picchiettandosi sulla testa.
Sentii papà sospirare a alzare gli occhi al cielo, come la nonna. Per qualche strano motivo quella conversazione non mi era nuova. Fu come… un dejà-vù. Ma, in quel momento, non avevo voglia di cercare di capire a quel vita passata o futile ricordo, appartenesse quella scena. Così poggiando la tazza nel lavabo mi diressi verso l’ingresso, afferrando la zaino che avevo lasciato in fondo alle scale e mettendomelo in spalla.
«Vuoi un passaggio, Lily?» chiese papà dalla cucina.
«No.». Ed uscii sbattendo, come sempre la porta.
Non era un mattinata felice, per me, quella. Era il primo giorno di scuola. Il primo giorno nella “giungla”, come oramai la definivo nella mia testa da diciassettenne.
La scuola non distava molto da casa e poi camminare mi piaceva. La temperatura era mite, perciò indossai jeans chiari e logori, una maglia anonima ed una felpa, altrettanto anonima.
Il vento mattutino, fresco e leggero, mi scostò prepotentemente qualche ciocca, facendole oscillare.
In cuor mio, silenziosamente, piangeva New York. Desideravo con tutta me stessa poter essere lì, lì per l’ultimo anno di liceo, ma era inutile sperare e desiderare, perché non si può riavvolgere il nastro della propria vita e cancellare i mali, gli errori, le disgrazie.
Il colpo di grazie mi fu dato quando, in lontananza, scorsi la scuola.
Grugnii facendo una smorfia.
Avrei passato lì il mio ultimo anno di liceo. Senza i miei amici, senza le mie amiche.
Il giorno prima avevo chiamato Sarah, quella che era la mia migliore amica.
«Sono così eccitata, Lily! Ci credi? L’ultimo anno di liceo!» aveva esclamato, e cercai con tutta me stessa di non chiuderle il telefono per il poco tatto. «Oh. Mi dispiace che tu non sia qui. Mi manchi.» aveva aggiunto dopo. Perciò, lottando contro la bile acida e dolorosa del mio fegato, cambiai argomento, sforzandomi di essere il più normale, tranquilla e cortese possibile.
Cercai di ignorare le sfarzose auto costose, di quella che probabilmente era l’èlite di quell’odioso posto desolato, e le macchine che appartenevano ai comuni mortali.
Scossi il capo, affondando le mani nella mia felpa blu.
Era giunto il momento. Osservando un paio di ragazze bionde, aventi la stessa tonalità dei miei capelli, ma così diverse da me non solo per pettinatura, ma anche per l’abbigliamento, osservando dei ragazzi che molte avrebbero considerati “fichi”, osservando ragazzi dai grandi occhiali con spesse lenti e ragazze con le unghie tinte di nero e la matita usata a mo’di panda, mi resi conto che quella non assomigliava ad una giungla, bensì ad un manicomio.

 
Quando uscii dall’aula di biologia fui grata a Dio di essere nell’anonimo banco al lato dell’aula.
La lezione tutto sommato, non era andata così male… se non fosse che il professore, un signore di mezza età, calvo e robusto, aveva una parlantina lenta e bassa simile ad una ninna nanna. Ogni cinque minuti, uno sbadiglio. Fortunatamente, nascosta fra i miei compagni di corso, ero riuscita a non farmi notare.
Perciò, con la zaino penzoloni da una spalla, la felpa legata in vita, i capelli biondi, che ricadevano fino alla vita, mi diressi verso la lezione di inglese. Masticavo svogliatamente una gomma, pur sapendo che, in teoria, lì non si poteva. Ma non mi importava. Non mi importava di fare colpo sulla gente. Non era così a casa mia, nella mia scuola, non poteva di certo cambiare in quello stupido posto.
Ogni tanto qualcuno si voltava a guardarmi, io quella nuova che, nella piccola cittadina, non si era mai vista.
Rispondendo torva e di malumore alle occhiate che mi venivano riservate, facendo immediatamente girare gli osservatori, mi trascinai fino all’aula. Ero in anticipo, perciò, come per la lezione precedente, mi sedetti al banco accanto alla finestra, in ultima fila.
Facendo scivolare lo zaino sul pavimento, mi sedetti sulla sedia incrociando le braccia sul banco e posandoci sopra la testa, chiudendo gli occhi e ascoltando il chiacchiericcio che piano inondava la stanza. Gli studenti piano cominciarono a prendere posto e si sentivano le sedie strisciare sul pavimento.
«Ciao.» sentii ad un tratto. La voce era troppo vicina tanto che sobbalzai alzando di scatto la testa.
Una ragazza dai folti capelli rossi e una mappa di lentiggini sul viso mi sorrideva. I suoi occhi verdi, erano luminosi e curiosi.
«Ciao.»
«Mi chiamo Samantha, ma puoi chiamarmi Sam, o Sammy, insomma come vuoi.» disse porgendomi la mano che strinsi con decisione.
«Lily.» risposi accennando un sorriso. Sam era seduta davanti a me.
«Sei nuova, eh?»
«Viso nuovo?» chiesi portandomi una ciocca di capelli dietro un orecchio.
Sam annuii. «Ho una memoria fotografica. C’è anche da precisarlo, se fossi stata qui da sempre ti avrei ricordata. I visi di questa città non hanno segreti per me.» scherzò strizzandomi un occhio.
Feci un risolino. «Carina.»
«Io o la battuta?»
La guardai confusa, corrugando la fronte.
«Okay, okay. La mia domanda non è degna di risposta». Rise.
«Posso farti una domanda, Lily?» chiese inclinando il capo di lato.
Annuii.
«Sei bionda naturale?»
Risi. «Guardami, Sam» dissi indicandomi, facendole notare la mia anonima maglia bianca, i capelli lisci e naturali, «ti sembrò il tipo da tingersi i capelli di biondo?»
Sam sembrò pensarci un po’ su, carezzandosi il mento fra l’indice ed il pollice. «Beh, in effetti.»
Per qualche strano motivo, parlare con quella ragazza era straordinariamente semplice. Lei stessa, esprimeva… semplicità.
Sentii delle forti risate, provenire dalla porta dell’aula e scostai lo sguardo dal viso di Sam. Con la coda dell’occhio la vidi fare lo stesso, sospirando.
Un paio di ragazzi avanzarono nell’aula dandosi spintoni e evitando pugni amichevoli, sbattendo contro i tavoli con i fianchi. Corrugai la fronte e Sam scosse il capo.
Uno dei ragazzi, dai capelli neri, indietreggiò lungo il nostro corridoio e pensai che avrebbe colpito in pieno il mio banco, così mi preparai a scattare non appena ce ne fosse stato il bisogno, passando in rassegna, mentalmente, tutti i tipi di insulti che non implicassero un linguaggio eccessivamente volgare. Ma il ragazzo, si voltò appena in tempo, come avesse calcolato le distanze con estrema precisione, bloccandosi quando incontrò il mio sguardo.
Alzò un sopracciglio. «E tu chi sei?»
«Importa?»
«Quello è il mio posto.» disse facendo scorre lo zaino lungo la spalla per poi trattenerlo con la mano.
«Oh.» sussurrai cominciando a voltarmi osservando il banco, la sedia. «Non vedo scritto il tuo nome.» aggiunsi facendo spallucce ad arricciando le labbra.
Sentii Sam soffocare delle risate. Il ragazzo dagli occhi color della notte, di fronte a me, la fulminò con lo sguardo e lei roteò gli occhi.
«E’ il mio posto da sempre. Lo sanno tutti.» ribatté il ragazzo.
«Ed io ti ripeto che qui sopra non c’è scritto il tuo nome. Finché non trovo scritto il tuo nome io non mi muovo di qui.» sibilai e con aria di chi sa di averla vinta feci un pallone con la gomma, che scoppiò poco dopo.
Non mi accorsi che il silenzio era calato, nell’aula.
Qualcuno tossii ma né io, né il ragazzo dinanzi a me ci voltammo. I nostri occhi erano come incatenati, impegnati una lotta “all’ultimo sguardo”. Alla fine fu lui a cedere, quando il professore di inglese, il professor Cope, lo richiamò all’attenzione.
«Signor Smith, qualche problema? Perché non si accomoda qui, in prima fila. Non è forse l’ultimo banco vuoto?» chiese l’uomo alzando un sopracciglio.
Rivolgendomi un’ultima truce occhiata il ragazzo si voltò prendendo posto in prima fila.


«Sei forte, Lily.» disse Sam voltandosi non appena la campanella suonò.
Un angolo della mia bocca si sollevò verso l’alto. «E cosa avrei fatto?» chiesi alzandomi e prendendo lo zaino dal pavimento.
«Con David, sei stata geniale. Solitamente gli viene lasciato quel posto.»
Feci spallucce. «Sono nuova. Direi che per me le cose non valgono molto.»
«Non ti importa quello che pensa la gente di te, vero?»
«E’ tanto evidente?» chiesi mentre ci dirigevamo verso la porta.
Lei fece un risolino ed annuii col capo. «Sei forte.»
Risi. «Grazie, Sam. Lo sei anche tu.»
Samantha non era molto più alta di me, forse un paio di centimetri. Aveva lunghi capelli ondulati e l’abbigliamento piuttosto trasandato…  e nero. Mi accorsi di quanto, nella sua anonimità, fosse simile a me.
«Da dove vieni?» chiese curiosa.
Deglutii a fatica. «New York.»
«Una ragazza di città.»
Accennai un sorriso. «Già.»
«Perché sei qui?». Temevo quella domanda e, anche volendo, non potevo evitarne la risposta. Certo l’idea di fuggire via correndo, era allettante.
«Mio padre ha ottenuto qui un posto.»
Sperai che la mia risposta vaga la dissuadesse da altre domande.
«Capisco.» disse infine. E le fui grata.
«Ora ho algebra, adesso. Tu?»
Sam sorrise. «Algebra.»

 

*


Ringraziamenti.


Nessi93: ciao, Chiarì! Come già ben sai, una delle tue ipotesi è giusta… ma di quale non ne parlo. Sono contente ti piaccia la fiction, è davvero importante per me. E, sai, che ci tengo sempre a sapere cosa ne pensi. Beh, riguardo Cathy… non posso parlarne per il momento, ma se fossi stata io al suo posto sarei finita a litigare con una che rispondeva a monosillabi. Spero ti sia piaciuto questo capitolo, Chià. A presto. Ti voglio bene. E grazie, grazie di tutto.
­­__Yuki__ : ciao! Non hai idea di quanto mi abbia fatto piacere leggere la tua recensione, davvero! Per Lily sarà dura, cioè… credo che molti avrebbe reagito così… io probabilmente lo avrei fatto. Cathy… riguardo lei non posso ancora esprimermi XD  Si è vero, le recensioni aiutano molto. Io tento a recensire tutto ciò che leggo, ma ultimamente… il tempo per leggere fiction è davvero poco. Il poco tempo a disposizione, dopo i compiti lo uso per scrivere, o finisco davvero al manicomio. Si, efp è bello anche per il confronto. Conosci un sacco di persone genuine che sono disponibili per qualsiasi tuo problema ^.^  grazie per la recensione, mi ha fatto davvero piacere. A presto!
KeLsey: ciao, Eri! *-* Davvero ti piace così tanto? Non sia quanto ne sia felice… il tuo parere conta molto, il perché non mi sembra il caso di ripeterlo. I flashback a volte, devo ammettere, che mi fanno sudare un po’, ma sono felicissima di sapere che ti piacciano! Si, su Lily ci hai preso. E’ un mix di varie caratteristiche. Grazie mille, tesoro, davvero Grazie di cuore. A presto. Ti voglio bene.

 

A voi, Panda.

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Capitolo 4
*** Capitolo quattro: David. ***


~Sometimes you have to be apart from people you love,
but that doesn't mean you love them any less.
Sometimes it makes you love them even more.~
When my world is falling apart,
when there is no light to break up the dark
that's when I look at you.
When the waves are flooding the shore and I
can't find my way home anymore
that's when I look at you.



Capitolo quattro.
David.

 

«Allora, oggi surf?» mi chiese Logan.
Mi voltai a guardarlo, sistemandomi lo zaino in spalla, dopo essere uscito dall’auto.
«Non sono previste onde, amico.» dissi. Logan, il mio migliore amico dai tempi dell’asilo, mi raggiunse con una falcata.
«Non per nulla useremo la vela.»
«Non lo so, Logan. Ho… ho da fare.» dissi dirigendomi verso la scuola.
Era il primo giorno, quello, purtroppo. L’estete era finita. Niente più notti brave, festini,giornate passato sotto il sole cocente, immerso nell’acqua con la mia tavola da surf. Niente lavoretti saltuari. Solo scuola. La consapevolezza che, però, quello era l’ultimo anno di liceo mi rincuorava, facendomi dirigere verso la struttura col sorriso. L’anno successivo sarei partito per il college. Lontano da quella cittadina fatta di adolescenti omologati fra loro e zitelle che non facevano che spettegolare circa lo stato coniugale di mia madre. Lei, donna bellissima lasciata dal marito avvocato… per la sua segretaria.
Strinsi automaticamente i pugni immerso nei miei pensieri.
«Sei un pessimo bugiardo, David.»
Mi voltai verso Logan che mi fissava con un sopracciglio alzato.
Risi. «Perspicace.»
«Dai, amico.»
«Un attimo, ma non hai fatto fuori la tua auto? Come sei venuto?» chiesi corrugando la fronte e salendo gli scalini della scuola.
«Sono venuto con Beth.»
Con un cenno del capo risposi al saluto di una ragazza dai capelli castani, del mio corso di spagnolo. «Tua cugina?»
«Vedo che te la ricordi ancora.» scherzò lui, prima di salutare delle ragazze che passavano di lì. Era sempre così, durante l’anno. Ogni mattino c’era sempre un sacco di gente che ti salutava, ed il primo giorno molti si fermavano anche per due chiacchiere. Durante l’anno questo poteva essere fastidioso, specialmente nei giorni in cui non hai voglia di parlare con nessuno, solo startene da solo a rimuginare sulla tua vita, sui tuoi errori da adolescente… e sugli errori commessi dai tuoi genitori.
Ad ogni modo… Beth era la cugina di Logan, con la quale ero uscito agli inizi dell’estete, resomi subito conto che il suo fare civettuolo non era per me. Ragazza dolce e buona, senza dubbio… ma, come avrebbe detto mia madre, la scintilla dell’amore non era scoppiata.
Accennai un sorriso.
«Allora?» chiese Logan. Mentre aprivamo i nostri armadietti, fortunatamente l’uno vicino all’altro.
«Cosa?»
«Ci vieni a fare surf?» insistette.
Sbuffai. «D’accordo, d’accordo. Ci vengo». Finché non avessi detto “sì”, Logan mi avrebbe assillato per tutta la giornata, come suo solito. Non avevo dubbi.
«Grande!» esclamò dandomi una pacca sulla spalla.
«Certo, certo. Mi devi molto, sappilo.»
«Sissignore.»

Seduto in penultima fila seguivo distrattamente la lezione. Non era da me, mi piaceva seguire ogni lezione, ma quello, essendo il primo giorno di scuola faceva eccezione. Poggiato allo schienale della sedia giocherellavo con la penna. Distrattamente presi a scorrere con lo sguardo sui vari studenti che si trovavano nell’aula, e fui catturato da una esile figura. Era seduta in seconda fila, verso la porta. A catturarmi fu l’insolito colore dei capelli. Conoscevo bene le ragazze dell’ultimo anno, nel corso delle superiori avevo frequentato i corsi con almeno ognuna di loro, per non parlare delle feste ed appuntamenti. Erano chiari, un biondo particolare che non avevo riconosciuto in nessuna ragazza, lì. Certo, magari poteva essere qualcuna che conoscevo, dai capelli schiariti dal sole estivo. Ebbi la certezza di non conoscerla, quando voltò il capo verso la finestra.
I capelli si mossero sinuosi e lungi, scoprendo il profilo lineare ed armonico del suo viso. Sembrava avere un’espressione tranquilla, non ne fui certo, poiché dalla mia posizione era difficile capirlo.
Lei scosse il capo, tornando a guardare l’insegnante.
Durante la lezione il mio sguardo cadeva sempre su di lei, immaginando come fosse il suo viso visto frontalmente.
L’avrei scoperto. Ne ero certo.


«Ritornare a fare Algebra, dopo un’estate d’ozio è stato orribile.» disse Logan ad occhi sgranati, passandosi una mano fra i corti capelli castano chiaro. Come, suo solito, Logan si era materializzato dal nulla. Probabilmente grazie ad suo eccezionale radar che usava per trovare le persone. Questo a mio parere. Secondo Logan, invece, noi eravamo legati telepaticamente.
«Io avevo biologia.» risposi. Facendo spallucce.
«Ora cos’hai?»
Controllai il mio orario, tirando fuori un foglietto dalla tasca. «Inglese.»
«Anche io.»
«Ciao, David.»
Mi voltai verso la ragazza che comparve alla mia sinistra. «Ciao, Mandy.»
«E’ da un po’ che non ci si vede. Come stai? Passato una bella estate?» chiese portandosi una lunga ciocca di capelli scuri dietro un orecchio.
«Ciao anche a te, Mandy.» disse Logan.
«Ciao, Logan. Non ti avevo notato.»
«Certo, come no.» farfugliò lui a mezza voce. Mandy non se ne accorse. Mandy era la capo cheerleader. Alta, corpo scolpito, lunghi capelli raccolti in una coda di cavallo.
«Si. E tu?»
«Oh si! Sono stata a Parigi. Che città magnifica. Tutti quei negozi, le luci…»
Sorrisi. «Ne sono felice.»
«Tutto okay, Dave?»
Annuii col capo. Lei sorrise. «Allora vado a lezione. Ciao, David! Oh, ciao Logan.». Salutandoci con la mano, Mandy sparì fra la moltitudine di studenti.
«Sarà anche una civetta senza cervello, ma… wow, lei si che è uno schianto!» disse Logan sgranando gli occhi e guardandola allontanarsi.
«Sì, è carina.» dissi arrivato vicino l’aula di inglese.
«Carina? Amico… carina?» chiese quasi sconcertato.
Roteai gli occhi.
«Chiedile di uscire.» continuò dandomi un leggero spintone.
«No, grazie. Passo. La lascio a te.»
«Ma se non mi sopporta. Una serata con lei non ti farebbe male.»
Alzai un sopracciglio scettico, prima di tossire e drizzarmi. «Sono stata a Parigi. Oh, i negozi! Le luci!» esclamai imitandola.
Logan mi diede uno scappellotto. «Tu non hai diciotto anni. Tu ne hai quaranta!»
«Sì, me lo dice anche la mamma.» dissi in un risolino entrando in classe, ricordando quel tanto amato banco in ultima fila che da sempre era mio e che oramai nessuno osava più occupare.
Logan mi diede uno spintone amichevole facendomi perdere appena l’equilibrio. Mi volati a feci lo stesso. Lui alzò i pugni a mo’ di attacco e io cercai  di scansarlo, sbattendo con il bacino ai vari banchi. Alzò un bracciò in alto, puntandomelo verso il viso, ma subito lo portò all’addome e per evitarlo fui dovetti girarmi, pronto a gettare lo zaino sul banco.
Fui costretto a bloccarmi.
Guardai per un attimo la ragazza dai lunghi capelli biondi, la stessa ragazza che si trovava nell’aula di biologia.
«E tu chi sei?» chiesi alzando un sopracciglio.
«Importa?»
«Quello è il mio posto.» risposi come fosse la cosa più ovvia al mondo.
«Oh.» mormorò pensierosa, prima di esaminare la sedia ed il banco.
Ma cosa…
«Non vedo scritto il tuo nome.» aggiunse facendo spallucce ed arricciando le labbra piene.
«E’ il mio posto, da sempre. Lo sanno tutti.»
«Ed io ti ripeto che qui sopra non c’è scritto il tuo nome. Finché non trovo scritto il tuo nome io non mi muovo di qui.» disse e fece scoppiare il pallone fatto con la gomma da masticare, con aria di sfida.
Non era possibile. Quello era il mio posto. Io dovevo stare lì, come da tradizione.
Sconcertato la fissai. Aspettai che si alzasse, ma non lo fece. Rimase lì a fissarmi senza muovere un muscolo.
Non è possibile, pensai.
«Signor Smith, qualche problema? Perché non si accomoda qui, in prima fila. Non è forse l’ultimo banco vuoto?»
Mi voltai verso il signore Cope che mi fissava in piedi, dietro la cattedra. Sospirai, cercando di fermare la rabbia che cominciava a ribollirmi nelle vene. Mi diressi, così, verso il banco in prima fila. Rivolgendo un ultima occhiata alla ragazza bionda.
Non era così il modo in cui mi aspettavo di vedere il suo viso. Lei mi aveva soffiato il posto e sentii un impeto di antipatia nei suoi confronti. Ma dovetti ammetterlo. Il suo viso… era molto meglio di come mi aspettassi.

 

*

Ringraziamenti.

Nessie93: ciao, Chià! *-* Grazie per la recensione magnifica, davvero! Mi ha fatto un piacere enorme! E mi ha fatto tanto sorridere! Beh, spero sia stato chiaro, il capitolo. A narrare è un altro personaggio. Spero di non averti delusa, o annoiata, in tal caso per favore dimmelo. Non so perché, ma scriver dal punto di vista di un ragazzo, qui, è molto più complicato. Ad ogni modo… grazie mille!
Miriam Cullen: ciao! *-*  Tranquilla, non preoccuparti! Sono contenta però tu l’abbia letta. Mi scuso per il tremendo ritardo ma
l’organo della mia immaginazione si era momentaneamente prosciugato. Beh, riguardo Lily… nella mia testa lei è un personaggio complicato. Fino ad adesso ho mostrato un lato del suo carattere che dipende soprattutto dalla nuova vita e da ciò che il… “destino” gli ha preservato. Sono contenta ti piaccia il mio stile. Solitamente è la cosa che mi preoccupa di più. Grazie davvero di cuore per la recensione. Spero di non averti annoiata. A presto!


A voi, un bacio,
                    
Panda.

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Capitolo 5
*** Capitolo cinque: Lilian. ***


~Sometimes you have to be apart from people you love,
but that doesn't mean you love them any less.
Sometimes it makes you love them even more.~
When my world is falling apart,
when there is no light to break up the dark
that's when I look at you.
When the waves are flooding the shore and I
can't find my way home anymore
that's when I look at you.

Capitolo cinque.
Lilian.

Salii le scale della veranda, giocherellando con le chiavi e facendole tintinnare. Quando infilai la chiave nella serratura mi accorsi che la porta era aperta.
Lentamente l’aprii, poi ricordai: lì non era come New York.
Scossi il capo, sospirando e poggiando le chiavi all’ingresso, mi diressi verso la scale, trascinandomi con passo pesante su di esse.
«Lily?»
«Si, papà. Sono io.» risposi atona.
«Tesoro, ti spiacerebbe venire qui, un momento?»
Sbuffai e lasciando lo zaino sulle scale, svogliatamente mi diressi verso la cugina. Solo allora mi accorsi che la casa era vuota. I nonni mancavano. Stavo per chiedere dove fossero, ma mi morsi la lingua ricordando quella sottospecie di sciopero della parola che avevo iniziato la settimana prima.
Mio padre che consultava libri scolastici, alzò il capo, sfilandosi gli occhiali.
«Questa sera avremo ospiti a casa. La nonna ha invitato Cathy a cena.»
Annuii col capo, senza proferire parola.
Per un attimo i suoi occhi indugiarono sui miei, carichi di tristezza. Per qualche inspiegabile motivo, forse sotto il suo sguardo indagatore, sofferente e malinconico allo stesso tempo, fui pervasa dalla nausea.
«Com’è andata la scuola?» chiese.
«Bene.»
«Hai fatto nuove conoscenze?»
«Sì.»
«Bene.» rispose annuendo impercettibilmente. Aprì la bocca per parlare, ma da essa non vi uscì alcun suono. La richiuse, fissando il legno chiaro del tavolo in cucina.
«Ho da fare. Se non c’è altro me ne vado.» dissi con una tale freddezza nella voce da non riconoscermi. Mio padre non rispose. Rimase a fissarmi per attimi che mi parvero essere minuti. Poi, scuotendo il capo, mi voltai.
«Per quanto ancora hai intenzione di comportarti così, Lilian.» disse con voce bassa e ferma.
Sentendo la rabbia montare, rimansi lì, con i pugni stretti e senza voltarmi sibilai: «Non chiamarmi Lilian.»
«Che senso ha, avercela col mondo intero ancora? Oramai sei qui e…»
Fu allora che le parole trattenute negli ultimi dieci giorni sgorgarono dalle mie labbra come l’acqua da una sergente. «Oramai sono qui?» strillai, «Tu sei qui, tu felice qui! Questa non è casa mia papà! Questa era casa sua! Quella era la sua camera!». Sentii le lacrime prepotenti superare il muro invisibile dei miei occhi e rigarmi calde il viso. «Tu non capisci! Io… odio questo posto! In ogni singolo oggetto lei è qui! Tu vuoi stare qui perché vuoi avere la certezza che lei non sia mai andata via. Ma sono io quella che vive nel suo profumo, papà. Non tu.». Un singulto mi scosse le spalle. E vidi negli occhi di mio padre sofferenza, come se le mie parole avessero avuto la potenza di uno pugno in pieno addome.
«Lily…» la sua voce era pari ad un sussurro nella tempesta.
«Al diavolo, papà!» urlai voltandomi e scappando su per le scale singhiozzando.
Entrai in camera e buttai in un angolo lo zaino. Oramai i singhiozzi mi percuotevano, facendomi male. La vista mi si era annebbiata a causa delle lacrime. Piangendo tirai via le lenzuola del letto facendole volare in aria. Ringhiando, dimenandomi.
«Dove sei?» urlai e non fui sicura che la domanda era rivolta a mia madre.
Con una mano, facendo scorrere il braccio sulla scrivania, feci cadere tutti i miei cd, i miei fogli. Lanciai i cuscini del letto contro la finestra. Svuotai cassetti, lasciandoli poi vuoti, sul materasso.
Scossa da tremori e singhiozzi, mi appoggiai con la schiena contro la parete accanto alla finestra e mi lasciai scivolare, abbandonandomi ad un pianto disperato.
«Mamma… dove sei…» balbettai e la mia voce era appena udibile, un sospiro rauco perso nell'aria. Mi lasciai cullare dal ricordo del suo respiro e dall’immagine del suo dolce viso, impresso nella mia mente.

Con lo sguardo vitreo e vacuo fissavo un punto indefinito dell’armadio bianco. Seduta contro il muro mi sentivo spossata, priva di qualsiasi energia, come se la mia linfa vitale fosse scomparsa, lasciandomi arida, devastata da violenti tempeste di sabbia rossa. Il mio respiro era corto e, di tanto in tanto, un singhiozzo mi scuoteva il petto. Mio malgrado, sentivo gli occhi riscaldarsi di lacrime, che immediatamente cacciavo via, o asciugavo col dorso della mano.
Avevo le mani strette al petto, come a tentare di nascondere lo squarcio che mi solcava il petto, a voler tenere insieme i cocci del mio animo ormai devastato.
Secondo alcuni dopo due anni avrei dovuto star meglio, ma erano solo persone ciniche e senza cuore. Non potevano coglier il filo invisibile ed indistruttibile che ancora mi legava a lei, che affondava le proprie radici dal mio essere, legandosi ad esso. Loro non potevano capire chi era mia madre. Loro non potevano capire cosa mi legava ancora a lei, nonostante tutto.
Immersa nelle mie congetture, nella costatazione di un dolore imperturbabile, non mi voltai quando qualcuno bussò alla porta, non mossi un solo muscolo quando mio padre fece capolino oltre la porta.
«Vattene.» soffiai, priva di voce.
Mio padre, invece, rimase lì fermo sulla porta ad osservarmi. Così voltai il capo, desiderando che non mi vedesse in volto, ancora vulnerabile.
Sospirò e le parole che seguirono erano cariche di affetto ed amore che mi colsero di sorpresa. «Lily… io… ti cedo la stanza degli ospiti.»
«Non importa.» risposi fredda.
«Sì che importa. Piccola… so che per te è difficile stare qui» non si fermò quando feci un risolino scettico e pieno di isteria, «e non voglio doverti… non voglio vederti soffrire ancora.»
Sentii le lacrime premere crudeli per uscire. «Il solo vivere qui… non è il mio posto.»
Mio padre sospirò. «Evitare il dolore non porta a nulla. Evitare di affrontare un problema non porta a nulla. New York non contava più senza… la mamma». Faticò a pronunciare l’ultima parola, ed io lottai contro l’istinto di piangere, ancora. «Che senso aveva continuare a vivere in una città dove siamo soli?»
«New York era diventata casa mia.»
Non rispose. Probabilmente non aveva voglia in quel momento di litigare ancora.
Mio padre mi carezzò i capelli. «Dai, cambiamo stanza.»
Scossi il capo, alzandomi e dirigendomi verso la porta, strofinandomi un occhio.
«Dove stai andando?»
«Esco.»
«Va bene, ma… ricordati che alle otto abbiamo ospiti a cena.»
«Certo, certo.» dissi sulla soglia.
«Lily?» mi chiamo mio padre. Fui costretta a fermarmi. Non volsi il capo. «Ti voglio bene.»
Non risposi. Mi limitai ad annuire col capo, desiderando solo scappare da quella casa.

Il sole era calato ed il cielo, privo di nuvole, era tinteggiato di un suggestivo rosso. Una folata di vento fresco mi fece rabbrividire, tanto che fui costretta ad infilarmi la felpa che reggevo fra le braccia incrociate al petto.
Camminavo lungo la stradina e l’odore del mare mi inondava i polmoni, così, voltai lo sguardo verso la spiaggia e notati il numero civico sulla cassetta delle posta, della casa alla mia sinistra: 43.
Le luci erano accese e un paio di ombre si muovevano in quella che probabilmente era la cucina.
Cathy, la nostra ospite. Scuotendo il capo mi avviai verso casa, che raggiunsi in pochi minuti.
Entrata in casa, poggiai la felpa sulla sedia e mi diressi in cucina, fermandomi sulla soglia della porta.
Nonna Marie era indaffarata a rivestire una torta di panna. Si voltò appena e, guardandomi, mi sorrise con fare dolce. La mia cara dolce nonna Marie.

«Nonna, nonna, nonna… cosa stai facendo?» chiese Lilian, a soli quattro anni, alla nonna che trafficava con un vassoio e dei guanti da forno.
Marie si voltò a guardare la nipote che le tirava i pantaloni. «Biscotti. Quelli che ti piacciono tanto.» aggiunse in un sorriso.
Gli occhi di Lilian si illuminarono e guardò la nonna con occhi pieni di dolcezza.
Marie rise. «Ne vuoi uno?» chiese carezzandole il viso.
Gli angoli della bocca di Lily si sollevarono verso l’alto e gli occhi le si illuminarono, come stelle nel cielo notturno.
Marie rise ancora. «Tieni.» disse porgendole un biscotto preso da un vassoio sul tavolo.
«I tuoi sono i biscotti più buoni di tutto il mondo, nonna!» esclamò poi abbracciandole un gamba.

Fu inevitabile sorridere a quel dolce ricordo. Anche se ero arrabbiata con la nonna, come con papà, con il nonno, non potei non ricambiare il sorriso che era stato il mio secondo rifugio per tanto tempo.
«Ciao, cara.» disse la nonna facendomi la linguaccia. Accennai un sorriso.
«Ciao, nonna.»
I capelli brizzolati, che si rifiutava di tingere, brillavano morbidi sotto la luce della lampada. L’osservai combattuta. Rimanere lì o salire in camera. La prospettiva della mia camera devastata, della sua camera devastata mi fece venire la nausea. Feci una smorfia.
«Me la daresti una mano? Tuo padre e tuo nonno sono fuggiti con la scusa del vino. Eh, ma loro non mi prendono in giro. Io, qui,» disse picchiettandosi sulla testa, «ho materia grigia.»
Roteai gli occhi. «Cosa devo fare?». La mia voce però, nonostante la mia disponibilità momentanea, dovuta ad un bizzarro annebbiamento, era sempre atona.
«C’è da tagliare e condire l’insalata. Potresti farlo tu?» chiese con sguardo concentrato sulla torta.
Non risposi, mi limitai a dirigermi verso il frigo, prendendo l’insalata.
Non ero stata sempre così, ma da due anni, oramai… avevo dimenticato chi fosse… Lilian.

Qualcuno busso alla porta. Lily, china sulla scrivania con un mano un penna, si voltò.
«Si?» chiese.
«Posso?» la testa della mamma fece capolino oltre la porta.
«Sì, certo che sì, mamma.» rispose la ragazzina di quattordici anni.
Amanda avanzò, facendo oscillare i lunghi capelli biondi che le incorniciavano il viso sottile, fino a giungere al tavolo di legno chiaro, carezzando con infinita dolcezza il capo della sua unica figlia. Sbirciò il foglio scarabocchiato.
«Scrivo.»
Amando corrugò la fronte. «Cosa?»
Lily sentì le guance avvamparle di rossore. «Una poesia. Sul mare davanti casa di nonna Marie.»
La mamma sorrise. «Me la farai leggere appena finita?»
Lilian alzò il capo per guardare la mamma in volto, ed annuì col capo. «Promesso.»
E poi rise. Era una cosa che la caratterizzava, che la distingueva. Sul viso di Lilian c’era sempre un sorriso e la sua risata cristallina era contagiosa. Era unica, era allegra. Era piena di vita.
Amanda le baciò il capo. «Ti voglio bene, tesoro. Più della mia stessa vita.»

Sentii la gola gonfiarsi e gli occhi pungermi. Ricacciai in magone che mi si era formato in gola e cominciai a tagliare l’insalata, come movimenti meccanici, cercando di evitare di perdermi nei ricordi.
«Come ti sembra la scuola?» chiese la nonna.
«Come tante altre.»
«Capisco. Hai fatto amicizie?»
Non risposi subito, incerta se rispondere con sincerità. Sospirai. «Sì.»
«Chi?»
«Si chiama Sam.»
Con la coda dell’occhio vidi la nonna voltarsi. «Un ragazzo?»
Scossi il capo. «E’ il diminutivo di Samantha, nonna.»
«Capisco. La inviterai qui?»
«A prendere il thè coi biscotti?» ironizzai scettica.
«E la torta.»
«Certo, certo.» risposi con non curanza cercando di sviare il discorso.
«Non la porterai mai qui.» sospirò. La sua non era una domanda, ma una ovvia constatazione. Non risposi e, quasi certamente, interpretò il mio silenzio con un sì.
Continuai a condire l’insalata in silenzio. «Vuoi che ti aiuti anche ad apparecchiare?»
«Oh, no, cara. Continuo io.» rispose sorridendomi con dolcezza.
«Vado a farmi una doccia.»
Così mi uscii dalla cucina, sperando che quella serata non si prospettasse così tragica come in quel momento.


*

Ed eccomi qui, ancora –purtroppo per alcuni.
Allora, sono tornata dalla meravigliosa Praga e di certo non potevo non postare! Perciò, banco alle ciarle, passiamo ora ai ringraziamenti.

Piccola Ketty: ciao, tesoro! *-* Che dire? Tu mi fai commuovere così! Non puoi dirmi cose del genere! Oramai il tuo parere –come avrai già capito- conta molto per me. Sono contenta ti piaccia, ci tengo molto a questa storia, ed ho paura che non sia mai abbastanza. Sapere che è di tuo gradimento… mi rende felicissima, davvero, credimi! Ti voglio bene, tesoro. Grazie di tutto, davvero. Di cuore.
XXX_Ice_Princess_XXX: ciao! Sono contenta ti abbia incuriosito la mia storia! Bhe, David è il solito bel ragazzo popolare e lei l’anonima adolescente segnata dal dolore. Spero sia stato di tuo gradimento anche questo capitolo. A presto, cara! Grazie mille per la recensione! Mi ha fatto molto piacere!
Miriam_Cullen: ciao! Sono contenta ti sia piaciuto il capitolo precedente. In questa storia volevo mostrare i diversi personaggi, perché ognuno ha qualcosa da raccontare, un qualcosa che ha segnato al loro vita. Sono contenta anche di sapere che ti ha fatto piacere la mia recensione. Davvero. Ma ho detto solo ciò penso! Ora, spero ti sia piaciuto anche questo capitolo. E’ un po’ delicato. A presto, cara! Grazie mille, davvero!
KeLsey: mia dolce Eri! *.* il tuo parere, è il tuo parere e mi fido di te. Sono contentissima di sapere che la storia ti piace, te l’ho dedicata, ricordi? Mandy la odierebbero tutti probabilmente e tutti si innamorerebbero di David con un solo sguardo… tranne la nostra Lilian. Sono contenta che ti piaccia lei come personaggio. E’ difficile scrivere questa storia perché lei è un personaggi piuttosto complesso e non voglio che risulti banale. Grazie di cuore, Eri, davvero. Di tutto. Ti voglio bene, tesoro. (L)
Nessie93: ciao, Chiarì! Beh, dai, menomale che lo scorso capitolo non ha annoiata –spero anche questo! Ad ogni modo, non potevi renderti conto che lui l’aveva vista a biologia perché lei non lo aveva notato. XD Logan è il solito ragazzo che pensa a divertirsi e viversi i suoi diciotto anni, ed aggiungiamo che è anche un bel ragazzo. Sono contenta ti piaccia David che –forse- potrebbe divenire una costante nelle tue recensioni. Grazie mille, Chià, per la bella recensione. Sei sempre così accurata e gentile. Grazie di cuore, davvero. Ti voglio bene.


A voi, un bacio,
Panda.

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Capitolo 6
*** Capitolo sei: David. ***


-In foto, come immagino, Lily e David. -

 

 

  

~Sometimes you have to be apart from people you love,
but that doesn't mean you love them any less.
Sometimes it makes you love them even more.~
When my world is falling apart,
when there is no light to break up the dark
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When the waves are flooding the shore and I
can't find my way home anymore
that's when I look at you.


 

Capitolo sei.
David.



I piedi affondavano nella sabbia tiepida, riscaldata appena dal sole. Indossavo una maglia grigia poiché la muta da windsurf era arrotolata fino ai fianchi. Sotto il braccio la mia tavola bianca.
La brezza marina mi scompigliava i capelli corti, sfiorandomi la pelle del collo.
Chiusi gli occhi e feci un respiro profondo, assaporando l’aria satura di sale. «Mi è mancata quest’aria.»
«Ma se vivi sul mare.» rispose Logan.
Aprii gli occhi e gli tirai una leggere gomitata. «Sta zitto.» lo ammonii.
Logan roteò gli occhi. «Sei un caso da studiare, amico. I ricercatori potrebbero usarti come cavia. Sai, tipo i topi da laboratorio.»
«Ah, ah, divertente.»
«Lo so.» rispose Logan facendo spallucce. «Allora? Stasera cinema? O festa in spiaggia?»
«Sai, Logan, mi piacerebbe venire con te al cinema, o a una di quelle feste in spiaggia dove l’alcool fa da Re, ma ho una cena da amici di mia madre. Non posso mancare. Mi odierebbe a vita, sai com’è.» dissi, entrando in acqua.
«Vieni più tardi, no? Non credo durerà in eterno questa cena. Siamo giovani garzoni, Dave!» urlò salendo sulla tavola. «Se non ci godiamo ora le magnifiche notti brave, quando lo faremo?»
Presi a muovere le braccia in avanti, nell’acqua fresca, mentre il vento mi sfiorava il viso.
Amavo il mare. Solo sulla tavola mi sentivo davvero libero. Libero dalla frenesia della vita, dai pensieri che caotici volteggiavano nella mia mente. Dall’imminente scelta del college, dalla tristezza e solitudine di mia madre, dalla futile quotidianità di una vita adolescenziale fatta di materialità e superficialità. Mi sentivo fuori posti, sì. Per Logan era difficile comprendere il mio comportamento. Uno dei ragazzi più popolari della scuola, membro della squadra di atletica… che nell’ultimo mese aveva declinato proposte da ragazze che lui riteneva da “urlo”. Ma a lui piacevano così, belle e prevedibili.
Scossi il capo e lasciai che le onde dell’oceano cancellassero ogni mia preoccupazione. Immergendomi in un mondo fatto di sole, sabbia e acqua.
Così cavalcai le onde per ore che mi parvero dolcemente infinite, ridendo e godendomi la sensazione dell’acqua sul corpo, del vento fra i capelli bagnati.

«Cavolo amico, è stato fenomenale!» esclamò Logan allungando il pugno. Feci scontrare il mio col suo, sorridendo e passandomi una mano fra i capelli, togliendo l’acqua che schizzò ovunque.  Con un braccio tenevo la tavola. Recuperata la nostra roba, ci dirigemmo verso il pick-up di Logan.
«Ehi, attendo, mi graffi la vernice così!» esclamò Logan mentre abbandonavo la tavola sul retro, con un tonfo a dir poco sordo.
Risi, sommessamente, e la mia voce era roca, a causa della sete e della salsedine che mi raschiava la gola. Colpa dell’acqua di mare che accidentalmente avevo bevuto.
«Andiamo, Logan, la mia tavola non può graffiare questa magnifica, resistente, bellissima vernice blu.» dissi prendendolo in giro.
«Tu credi. E’ bastato un tacco a rovinare quella vecchia.» disse sfilandosi la muta e asciugandosi l’addome.
Risi passandomi un asciugamano sulla testa, asciugando i corti capelli scuri. «Pericolose le Cheerleader, Logan.» dissi. «Loro si che sanno come far fuori un ragazzo. Oh, dimenticavo, sei stato tu a graffiarla.» dissi massaggiandomi la nuca.
«Simpatico, davvero.» disse Logan. «E poi è stata lei a saltarmi addosso e finire contro la macchina. Io l’ho solo assecondata. Avrebbe potuto farmi davvero fuori con i suoi tacchi a spillo.» ironizzò infilandosi la maglietta.
Roteai gli occhi e sospirai. «Probabilmente non cambierai mai.» ridacchiai infilandomi la maglia e salendo sul pick-up.
Era sempre stato quello più immaturo, Logan, ed io ragazzo apparentemente festaiolo, quello con la testa sulle spalle, quello diligente. A tali osservazioni i ricordi si fecero avanti. Un ragazzino, di soli undici anni, che vede la sua famiglia sgretolarsi davanti agli occhi.


«Alan! Alan, dove vai?» urlava la bella donna dai capelli color della notte. Gli occhi le si erano inumiditi di lacrime che, amare e crudeli, presero a scorrere sul suo viso d’angelo.
«Me ne vado, Cathy.» disse l’uomo con tono duro, un violento schiocco di frusta.
«Cosa?» domandò la donna, e la sua voce risultò un suono acuto e strozzato.
«Me ne vado.» ripeté con voce ferma Alan.
Le valige erano accanto alla porta. L’auto pronta per essere caricata delle sue cose.
Il torace di Cathy si muoveva velocemente ed il suo cuore martellava contro le pareti del suo petto. Palpitava di dolore, causandole quasi dolore fisico.
Stava guardando l’uomo della sua vita andare via, fuggire dalla vita e dalla famiglia che avevano creato insieme… fuggire dal
suo amore, fuggire senza una spiegazione.
«Perché? Perché, Alan?» ripeté lei ancora struggendosi in un dolore mai provato prima.
«Perché ho un’altra, Cathy! Perché non ti amo più!» urlò l’uomo con tutta la voce che aveva.
E il mondo di Cathy si sgretolò piano, la vita le scivolo piano dalle mani, senza poterla trattenere, esattamente come il bambino dagli occhi della notte che, dalla cima della grande scalinata, udiva e spiava i genitori. Era piccolo, ma capì che nulla sarebbe stato com’era un tempo.
Lacrime e singhiozzi silenziosi scossero il gracile petto di David. Abbracciò la ringhiera in legno, lasciando che fiumi d’acqua salata scorressero sulle sue gote arrossate.
«Un’altra?» soffiò a corto di voce Cathy.
«Sì. Ciao, Catherine.» disse Alan, prima di afferrare le due valige e chiudersi, dietro le spalle, le porte di quella casa bianca, abbandonando dietro di sé due vite colme di dolore.
Violenti singhiozzi percuotevano il petto di Cathy che, lentamente, si fece scivolare lungo il muro alla quale fu costretta a reggersi per non cadere. Si prese, così, il viso fra le mani.
In balia del dolore, dilaniata da un peso che le schiacciava il petto, avvertì due braccia sottili circondarle le spalle ed un piccolo petto singhiozzare contro la sua spalla.


Scossi il capo, cercando di eliminare i brutti ricordi dalla mente, concentrandomi sulla guida, poco responsabile, di Logan.
«Ehi, di questo passo ti impediranno di usare anche il pick-up.» dissi aprendo il finestrino per godermi la sensazione del vento sul viso.
«Sì, certo, certo. La mia guida non ha difetti.»
«Fino a che non ti vedete l’ispettore capo della polizia.» dissi corrugando la fronte ed alzando un sopracciglio, rivolgendogli una fugace occhiata.
«Prendi la vita troppo sul serio, amico.» sbuffò Logan.
«Qualcuno, fra i due, deve farlo.»
Nell’abitacolo calò il silenzio. Logan guidava tenendo gli occhi fissi sulla strada, mentre io, rivolto verso il finestrino mi godevo la sensazione che il vento provocava fra i capelli. Cancellare quel ricordo prepotente fu per me difficile. Doloroso mi scuoteva, ricordandomi come un ragazzino avesse dovuto, nel giro di pochi mesi, maturare, dimenticare la sua vita spensierata. Quei ricordi mi scatenarono un impeto di rabbia e mi fecero ribollire il sangue nelle vene. Strinsi i pungi, posati sulle ginocchia.
«Ehi, David. Tutto okay?» chiese Logan alternando lo sguardo tra la strada e me, con la fronte corrugata ed espressione preoccupata.
Annuii distrattamente col capo. «Sì, sì. Ah, quasi dimenticavo. Dobbiamo passare a prendere Diane.» dissi.
«Dove?»
«Da un’amica. E’ andata lì dopo scuola.»
Diane. Quanti mesi aveva allora Diane? Solo due. Non ero stato solo suo fratello maggiore, ero stato suo amico, ero stato, ed ero, quel punto di riferimento che mai aveva e avrebbe avuto. Ero suo complice, ero quella figura maschile che non aveva mai conosciuto.
«Dammi l’indirizzo.» disse, e così feci.
Quindici minuti dopo, fermatosi davanti alla villetta dalla pareti le legno scuro, scesi dall’auto e, correndo, mi diressi verso la porta d’ingresso.
Bussai e la porta si aprii.
«David, ciao!» una ragazzina di sedici anni comparve sulla soglia.
«Ciao, Norah. Diane?» chiesi ignorando il rossore che le aveva intinto le gote.
«E’ di sopra. Vado a chiamarla. Se vuoi entrare intanto, ti offro qualcosa.» disse spostandosi ed aprendo un varco.
«Oh, no, grazie. Siamo in ritardo. Aspetto qui.» dissi entrando e sostando all’ingresso. M’infilai le mani in tasca e attesi. Norah, una ragazza dai capelli biondo cenere, mi fissava sorridente. Annuii piano col capo, prima di abbassare lo sguardo e passarmi una mano fra i capelli, indugiando sulla nuca. Tossii e tornai a guardarla. Norah spalancò gli occhi e, arrossendo ancora di più –come se fosse possibile- , salì velocemente le scale.
Dopo alcuni attimi, un vociare ed un sonoro “uffa”, sentii passi pesanti sul pavimento di legno e, in cima alle scale, comparve mia sorella.
Le sorrisi, osservando la sua figura minuta, i capelli neri raccolti in una coda scomposta, ciocche ondulate che le ricadevano davanti al viso, gli occhi neri, come la notte, tristi.
«Ciao, Diane.» dissi e, quando mi fu vicina, le carezzai la testa, baciandogliela.
«Ciao, Dave.» rispose tristemente lei con voce sottile.
«Quanto entusiasmo.» ridacchiai.
«Non potevi venire più tardi? Ci stavamo divertendo.»
«Beh, potrete farlo anche domani, e il girono dopo. C’è tanto tempo a disposizione. Anche io volevo fare ancora surf, ma non posso.» dissi mentre l’aiutavo a prendere le sue cose.
«Hai fatto surf oggi?» chiese Norah.
Alzai il capo ed annuii, sorridendo appena.
Norah, sfoderò un largo sorriso. «Mi piacerebbe vederti.» disse arrossando e abbassando lo sguardo.
«La spiaggia e a disposizione di tutti, Norah.» dissi aprendo la porta. «Ringrazia tua madre per i biscotti di ieri.»
Lei fece spallucce. «L’ha fatto con piacere.» disse quasi con una traccia di tristezza nella voce.
Uscito in veranda, mi voltai, mostrando un sorriso sghembo. «E grazie a te, Norah.»
La ragazza arrossì, aprì la bocca per parlare, ma da essa non uscì parola.
Sorrisi e mi allontanai entrando nel pick-up con Diane. Norah, ancora sulla soglia si casa.
«Ehi, ciao piccola.»
«Ciao, Logan. Dave, perché Norah si comporta in quel modo strano?» chiese Diane corrugando la fronte.
Logan cercò di reprimere le risate ed io, accigliandomi, mi voltai verso mia sorella. «Ecco… non lo so.» dissi facendo spallucce, sapendo benissimo che Norah aveva una cotta per me da quando frequentava il primo anno di liceo.
Logan rise.
«Perché ridi?» chiese Diane.
«Lascialo stare Diane. Piuttosto, raccontami del tuo pomeriggio. A cosa avete giocato tu e Cassie?»
E così, Diane cominciò a parlare, senza darci l’opportunità di replicare. Dire che quella bambina era logorroica… beh, era poco.

«Allora, ricordati Diane, sii educata.» disse mia madre puntandole un dito contro.
Mi potai le mani nelle tasche dei jeans, stringendomi nella spalle. Eravamo sulla veranda dalla famiglia Thomas.
Diane annuii energicamente col capo.
«Bene.», poi si voltò verso me, «Beh, di te mi fido.»
Sorrisi flebilmente e la carezzai piano un braccio. Poi bussò.

 

*

Allora, vorrei ringraziare a modo coloro che hanno recensito, ma, davvero, sono a corto di tempo. Domani ho la simulazione della terza prova d’esame e devo ripetere ancora un sacco. Uff.
Perciò ringrazio, non solo colore che hanno inserito la storia fra le preferite e le seguite, ma soprattutto quei cinque angeli che hanno recensito lo scorso capitolo.
KeLsey,
Miriam_Cullen,
Nessie93,
Piccola Ketty,
__Yuki__ .
Grazie di cuore, ragazze. Davvero.

A presto, con immenso affetto,
                                              
Panda.

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Capitolo 7
*** Capitolo sette: Lilian. ***


 

 

 

~Sometimes you have to be apart from people you love,
but that doesn't mean you love them any less.
Sometimes it makes you love them even more.~
When my world is falling apart,
when there is no light to break up the dark
that's when I look at you.
When the waves are flooding the shore and I
can't find my way home anymore
that's when I look at you.

 

Capitolo sette.
Lilian.

 

Salii gli scalini svogliatamente, diretta in camera sua per prendere la biancheria ed o vestiti puliti. Potevo avvertire la salsedine sulla pelle. Ma, quando aprii la porta della camera, rimasi incredula a fissarla. Tutto era sorprendentemente in ordine, la biancheria arancione del letto era stata sostituita con una blu ed i cassetti erano al loro posto, i cd ed i fogli non erano sparsi sul pavimento… erano del tutto assenti. Mi avvicinai alla scrivania vuota, sfiorandola.
Corrugai la fronte e, scioccamente, credendo che o la nonna, o mio padre, avessero gettato tutto via, corsi lungo il corridoio scendere velocemente gli scalini. Quando comparsi sulla soglia della porta della cucina avevo il fiatone. Mia nonna che reggeva dei piatti bianchi, mi guardò da sopra le lenti degli occhiali.
«Tutto okay?» chiese confusa.
«Dov’è la mia roba?» chiesi con voce stridula, preparandomi ad urlare contro di lei. «Perché avete buttato via tutto?» strillai alzando le braccia al cielo.
«Oh, ma tuo padre non ha buttato via nulla, Lily. E nemmeno io.» disse sorridendo appena.
«Cosa?» chiesi corrugando la fronte.
«Sottovaluti tuo padre, tesoro. Fa un giro della casa. Sei una ragazza intelligente, sono sicura che capirai.» disse col sorriso di chi la sapeva lunga.
Perplessa rimasi a fissare la nonna che cominciava ad apparecchiare.
«Su, che ci fai ancora qui? Va a lavarti! Fila via, signorina!»
Allora capii. Certo, come potevo essere stata tanto stupida e distratta. Salii velocemente le scale fino a giungere la stanza la cui finestra dava sulla strada.
Un groppo mi si formò in gola, quando vidi lenzuola pulite sul letto, i miei cd ed il mio computer sistemati sulla scrivania. Quando vidi i miei fogli ed i miei quaderni.
L’aveva fatto. Aveva cambiato stanza. Da solo.
Mi asciugai la lacrima che mi rigò la guancia.
Per la prima volta, dopo tanto, mio padre mi aveva ascoltata.
Per la prima volta… mi sentii… considerata.



Davanti allo specchio mi infilai un paio di jeans chiari stracciati all’altezza del ginocchio ed una maglia a maniche corte color della neve. Mancava mezz’ora alle otto. Non mi andava di sedermi in salotto col nonno e con mio padre, o di ciondolare in cucina, e la prospettiva di rimanere in camera emanava struggente malinconia. Così, mi diressi verso i libri impilati sulla cassettiera, facendo scorrere l’indice sulle copertine. 
Il mio cuore perse un battito, quando il mio dito sfiorò il suo libro.

«Cosa leggi mamma?» Lilian si diresse verso la mamma che, in veranda, seduta sulla sue sedia a dondolo, sorseggiava del thè.
Allora Lilian aveva sette anni. Accanto a lei, John. Entrambi si avvicinarono ad Amanda, lei alzò lo sguardo sulla figlia e sul marito, per poi sorridere.
Lilian si avvicinò alla mamma saltellando. John si chinò a baciarla dolcemente sulle labbra.
«Per favore, non davanti a me!» esclamò Lily coprendosi il viso con le mani.
Amanda e John risero della buffa espressione della giovane figlia.
«Vado a prendere una birra fresca. Vuoi del thè, Lily?»
«Sì, papà. Ho una sete.»
Lui le scompigliò i capelli e, dopo che lui fu dentro, lei cercò di sistemarseli, raccogliendoli in una coda.
«Com’è stata la passeggiata?» chiese Amanda porgendo il suo bicchiere di thè freddo a Lilian.
«Meravigliosa. In spiaggia ci sono tante conchiglie mamma! Guarda.» disse poi mostrando il tesoro che aveva nelle tasche.
«Lilian, sono bellissime! Potremmo farci dei ciondoli.» disse Amanda sorridendole con fare dolce e carezzandole il braccio.
«Domani devi venire anche tu.»
Amanda annuii col capo. «Promesso.»
«Non mi hai ancora detto cosa leggi.»
Amanda chiuse appena il libro, mostrando alla figlia la copertina.
«Jane Eyre?» chiese Lily corrugando la fronte.
«E’ il mio libro preferito da quando avevo tredici anni.»
«Davvero?»
Amanda annuii. «Davvero. E tu? Hai un libro preferito?»
Lilian scosse il capo. Amanda sorrise e chiuse il libro. «Te lo regalo.»
«Perché?» chiese confusa Lily.
«Perché magari potrebbe essere il tuo libro preferito.»
«Come fai a dirlo?»
«Non lo so. Lo scopriremo solo quando lo leggerai.»
E Amanda le baciò la fronte.

Estrassi malinconicamente il libro dalla pila, sfiorandone la copertina logora.
Sì, la mamma aveva ragione. Era il mio libro preferito. Ma non ero pronta. Non ero pronta a leggerlo, non in quel posto. Così lo poggiai in cima alla pila ed estrassi Orgoglio e Pregiudizio, intenzionata a rileggerne qualche riga.
D’armadio estrassi una giacca a vento e mi diressi al piano di sotto, indossandola.
«Non starai mica uscendo?» chiese mio padre.
Risposi con un grugnito dirigendomi in cucina ed uscendo in veranda. La veranda che dava sul mare, sulla spiaggia buia illuminata appena dalle luci delle case che si affacciavano su di essa.
Una mezza luna di rifletteva sull’acqua increspata dal vento. Fredda, sola.
Mi sedetti sui gradini di legno, poggiandomi con la schiena alla ringhiera e cominciai a leggere.
Poco tempo dopo, sentii qualcuno bussare alla porta, così alzai lo sguardo scrutando oltre la porta di vetro. Vidi  la nonna accogliere i nostri ospiti. Sospirai e, mio malgrado, dovetti alzarmi.
Tre erano le sagome appena entrate in casa. «Venite accomodatevi.» disse la nonna. Entrai in cucina poggiando sul davanzale della finestra il libro e sfilandomi la giacca.
«Posso portarvi qualcosa? Un bicchiere di thè?» chiese nonna Marie.
«Un bicchiere di thè va benissimo.» rispose Cathy.
La nonna fece capolino ed entrò in cucina, sobbalzò quando mi vide accanto alla porta con la giacca in mano.
«Sei qui. Mi hai fatto prendere un colpo.» disse in un risolino.
 
«Ci vivo, ora.»
La nonna non rispose, si limitò ad aprire il frigo e prendere una brocca di thè freddo.
«E’ alla pesca?» chiesi, e sperai che non si accorgesse della mia voce tremante.
Passò qualche attimo di silenzio. «Sì.»
Annuii col capo, più a me stessa, che a lei. «Ti do una mano.» dissi avvicinandomi alla credenza.
«Quanti bicchieri servono?»
«Sei.»
Afferrai i bicchieri e li sistemai sul vassoio che la nonna appoggiò sul piano della cucina.
«Devo proprio?» latrai. Nonna Marie mi fissò, alzando un sopracciglio. Sbuffai, mentre lei si dirigeva verso il salotto, dove ci attendevano gli ospiti.
Così, seguendo nonna Marie, feci la mia comparsa in silenzio. Cathy, un uomo dai capelli neri corvino ed una bambina erano seduti sul divano blu, dandomi le spalle.
«Ecco a voi del thè.» disse la nonna poggiando il vassoio sul tavolino davanti le poltrone per poi  versare il contenuto della brocca nei lunghi bicchieri.
«Buona sera.» dissi con una smorfia, ma in tono educato e pacato.
Fu allora, quando i tre si voltarono, che mi resi conto che, l’individuo con i capelli corti e neri, non era un uomo, bensì un ragazzo.
Strabuzzai gli occhi, incredula, fissando il suo viso, il naso dritto, gli occhi scuri.
«Ciao, Lily.» disse Cathy con un sorriso sulla labbra. Le rivolsi un’occhiata priva di espressione, prima di rivolgerne una fugace al ragazzo.
Cathy si alzò, passandosi le mani sui pantaloni per sistemarli. «Lui è mio figlio, David. E lei,» disse accarezzando una bambina dai capelli ondulati color cioccolato, «è mia figlia Diane.»
«Ciao.» disse lui porgendomi una mano. «David.» continuò impassibile.
«Lily.» continuai stringendola con freddezza.
Mi voltai verso la bambina e alzai un mano a mo’ di saluto. «Ciao, Diane.»
«Ciao, Lily.» disse dondolando sul posto. Dire che era un bambina tenerissima e dolcissima d’aspetto, era ben poco. Il suo viso era così simile a quello di Cathy, ma così diverso da quello di David.
Marie sorrise. «Voi già vi conoscete.» disse.
Entrambi ci voltammo di scatto verso la nonna. «Cosa?» chiesi strabuzzando gli occhi.
«Sì, Lily, non ricordi? Giocavate da piccoli nel giardino di Cathy.»
Ritornai a guardarlo. I miei occhi scrutarono un attimo i suoi, prima di ricordare.

«Mamma, mamma! Taylor non vuole farmi salire sullo scivolo!» gridò il bambino dai capelli neri sbucando dal retro della casa.
Cathy si voltò a guardare il figlio e Lilian lo scrutò curiosa.
«Ehi, David. Guarda un po’ chi c’è. Lei è Lilian.»
Il bambino osservò la creatura dai grandi occhi verdi ed i capelli chiari ed ondulati.
«Saluta, Lilian.» le sussurrò Amanda all’orecchio.
«Ciao.» mormorò lei.
«Ciao!» disse raggiante David.
«Allora, piccolo, la porterai a giocare con te e Taylor?» chiese Cathy carezzandogli la testa. Il bambino annuì.
«Se lui la smette di fare l’antipatico.» rispose imbronciato David.  Sia Cathy che Amanda risero.
«Su, andata a giocare. E, mi raccomando ometto, difendila.» disse la donna dai capelli della notte, alzandosi.
«Promesso, mamma.»
David porse la mano a Lily che, dopo un attimo di esitazione, l’afferrò.
«Posso andare sull’altalena?» chiese lei.
«Certo… tanto a Taylor quella non piace. Non ti darà fastidio. Ho promesso alla mamma che ti difenderò.»

«oh. No, non ricordo.» mentii affondando le mani nelle tasche dei jeans.
David annuì. «Già.»
Per alcuni secondi tutti tacemmo. Il silenzio fu rotto dal nonno Liam che, alzandosi e battendosi una mano sullo stomaco disse: «Non so voi, ma io ho una fame che mi mangerei un bufalo intero.»
Ridemmo tutti, prima di accomodarci in salotto.


La nonna si alzò dalla sedia accanto al divano. «Vado a preparare le porzioni.» disse.
Cathy si alzò. «Lascia che ti aiuti, Marie.» disse seguendo la nonna in cucina.
«Oh, ma non ce n’è bisogno!» esclamò con un gesto della mano.
«Lo faccio con piacere.» rispose la donna dai capelli color della pece prima di sparire in cucina.
Mi voltai ed incontrai lo sguardo, duro e serio, di mio padre seduto su una poltrona. Con un cenno del capo, quasi invisibile, mi fece segno di andare in cucina.
Sbuffai. «Scusate, vado ad aiutare.» dissi senza guardare in volto nessuno, alzandomi dalla sedia accanto a quella della nonna. Con la coda dell’occhio vidi David osservarmi mentre gli passavo accanto, e la cosa m’irritò. Portandomi una ciocca di capelli dietro un orecchio e cercando di ignorarlo, entrai in cucina.
«Posso darvi una mano?» chiesi dondolando sui talloni. Mia nonna e Cathy, che trafficavano sul piano della cucina, si voltarono. Entrambe sorrisero e Marie mi guardò con espressione estremamente dolce.
«Potresti portare i piatti in tavola?» chiese.
Annuii col capo e afferrai i piatti, sistemandoli sulla tavola. Lo stesso fece Cathy.
«Cathy cara, potresti chiamare la ciurma?» chiese la nonna.
«Certo!» rispose la donna prima di sparire oltre la porta della cucina.
«L’hai fatto apposta, eh?» dissi. Conoscevo bene mia nonna. Avrebbe potuto chiederlo a me, invece no. L’aveva chiesto a Cathy.
«Volevo ringraziarti.» disse la nonna carezzandomi i capelli che, in morbide onde, mi ricadevano davanti al viso. Annuii flebilmente col capo abbozzando un sorriso.
«Ti voglio bene, Lily.»
Anch’io nonna. Ma non risposi.

 

*

Thanks.

Piccola Ketty: ciao, tesoro! *-*  oh, così mi fai scogliere! Sì, delle volte mi riesce difficile rendere il tutto. Non voglio che risulti banale perché le oro vite sono particolari e ne sentono molto le conseguenze. Sapere che ti piace… mi rende felicissima! Ho paura di essere scontata o cadere nel banale e ne ridicolo – mia maggiore preoccupazione. Grazie mille per l’aiuto, per tutto ciò che fai e per le magnifiche recensioni che mi lasci. Grazie davvero. Ti voglio bene.
__Yuki__: ciao! Sul serio li avevi immaginati così? *-* waw! Esatto! Hai colto molto di David, sai? E’ come se la popolarità non se la fosse cercata… non è superficiale e tende ad andare al nocciolo delle cose. Con l’avanzare dei capitoli magari riuscirai a farti un’idea migliore del personaggio –e spero di riuscire a permetterlo. Grazie di cuore per la bellissima recensione! Mi ha fatto molto piacere! A presto cara!
Nessie93: ciao, Chià! Beh, ora alcune ipotesi sono sparite e spero che tutto sia almeno un po’ più chiaro. E poi ci hai preso su un paio di cosette… ovviamente non ti dirò quali, ti pare? XD Grazie per le recensione, sono sempre così capillari *-* e mi fai morire dalle risate. Mi chiedo le tue ipotesi future quali saranno. Grazie mille, Chiarì, grazie davvero.
Fairwriter: mia Juls! *-* tu non hai idea di quanto mi abbia fatto piacere ricevere una tua recensione! Sai bene quanto ci tengo al tuo parere e quanto mi manchi! Non merito tutti questi complimenti perché non è nulla di che, ma sono contenta che ti piacciano i personaggi e la complicità fra Dave e Diane. Grazie, Juls, grazie davvero di cuore. Ti voglio bene, Cip. Tua, Ciop.
Miriam_Cullen: ciao! Oh… speravo in una tua recensione sai? *-* Sono contenta ti piaccia il personaggio di David, ci tengo molto a renderlo al meglio, esattamente come Lily… ma è difficile. La paura di cadere nel banale è tanta, come quella di non essere all’altezza. Spero sia stato di tuo gradimento questo capitolo –un po’ piatto. Grazie, cara, davvero. Alla prossima!
mary whitlock: ciao! *-* hai pianto? Davvero? Okay, ora comincio a gongolare. Sono contenta ti piaccia la fiction, davvero! Mi ha fatto molto piacere ricevere al tua recensione! E spero che questo capitolo sia stato odi tuo gradimento anche se un po’… piatto. A presto! Grazie davvero di cuore!


A voi, con immenso affetto,
                                           
Panda.

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Capitolo 8
*** Capitolo otto: David. ***


  

 

~Sometimes you have to be apart from people you love,
but that doesn't mean you love them any less.
Sometimes it makes you love them even more.~
When my world is falling apart,
when there is no light to break up the dark
that's when I look at you.
When the waves are flooding the shore and I
can't find my way home anymore
that's when I look at you.

 

Capitolo otto.
David.

 

Seduto sul divano l’osservai alzarsi. I capelli che lunghi le carezzavano la schiena le finirono davanti al viso, tanto che fu costretta a portarseli dietro un orecchio. Solo allora osservai quanto fosse minuta ed esile, quanto le sue gambe fossero sottili ed affusolate, fasciate da jeans scoloriti. Osservai la linea sottile dei fianchi, il ventre piatto, abbracciato morbidamente da una maglia color della neve.
Per tutto il tempo non aveva proferito parola e non aveva guardato nessuno negli occhi, quasi fosse arrabbiata col mondo intero. E, magari, era proprio così.
La sua voce, un suono sottile e delicato, era come racchiuso all’interno di quel corpo da bambina troppo cresciuta.
Mi sporsi in avanti, poggiando un gomito sul ginocchio e reggendomi il mento con una mano.
Perché era così silenziosa? Una domanda che non faceva che fluttuarmi nella testa e a cui non potevo rispondere.
Sospirai e sentii strattonarmi la maglia. Così, mi voltai verso la bambina di sei anni alla mia destra.
«Dave?» mi chiamò con voce d’usignolo.
«Dimmi.» dissi sorridendo teneramente.
«Tieni. Ho finito.», e mi porse il bicchiere vuoto. Lo presi e lo poggiai sul  vassoio adagiato sul tavolino di fronte al divano.
«Quindi, quanti anni hai detto di avere, giovanotto?» mi chiese Liam.
Alzai lo sguardo. «Diciotto.» risposi accennando un sorriso.
«Pronto per il college?» chiese.
Arricciai le labbra. «Si spera, signore.»
«Oh, chiamami solo Liam.» disse lui. «Mi fa sembrare meno vecchio.»
Diane rise e Liam le strizzò un occhio.
«Hai già scelto che college?» mi chiese John.
Sospirai. «Avevo intenzione di fare medicina. Desidererei il più possibile vicino. Non voglio lasciare la mamma e Diane sole.» risposi con sincerità.
John annuì piano col capo. «Questo è lodevole per un ragazzo della tua età.»
Sorrisi e desiderai non facesse più domande. E così fu. Nel salotto calò un momento di silenzio rotto subito da Liam.
«Ehi, signorina, dopo cena ti andrebbe di vedere la mia collezione di canne da pesca?» chiase a Diane, con occhi che brillavano.
Mia sorella, una bambina curiosa e socievole, annuì. «Che bello andare a pesca!»
«Magari un giorno potrai venire con me.»
Diane si voltò verso me, tirandomi un lembo della maglietta. «Posso Dave?»
«Oh, piccola, devi chiederlo alla mamma.» ridacchiai.
Diane batté felice le mani, saltellando seduta sul posto.
«Ehi, la cena è pronta.», la voce calda della mamma irruppe nella stanza. Così ci alzammo, dirigendoci in cucina.
Poggiata alla cucina c’era Lily, le braccia conserte, le caviglie incrociate. I suoi occhi indugiarono, apparentemente inespressivi, nei miei. Chiari come il cielo d’estate mi scrutarono, imperscrutabili.
Cosa stava pensando?
Prima o poi, avrei avuto risposte.

«Vi va un dolce?» chiese Marie alzandosi da tavola.
«Sì!» esclamo Diane in un gridolino.
Fu strano ciò che accadde allora. Era come se Marie e John attendessero da tempo quel momento, e anche Liam, ero pronto a scommetterci, che, anche se cercava di non mostrarlo, il suo flebile sorriso gridava felicità. Un risolino, chiaro e delicato, inondò la stanza silenziosa. Tutti alzammo lo sguardo su Lily, che ne frattempo, chinando lo sguardo, si era portata una mano sulle labbra piene quasi a nascondere quell’improvviso momento d’ilarità. Tutto questo avvenne nel giro di pochi secondi, ma abbastanza per accorgersene. La luce che brillava negli occhi di Marie, che lampeggiava in quelli di John, era insolita. Erano come… felici. Qualcosa non andava, era evidente, qualcosa tormentava lo sguardo dei commensali quella sera. Ma, per quanto fossi curioso di sapere cosa succedesse a quella ragazza dagli occhi del mare, non era affar mio. Perciò mi limitai a sorridere e voltarmi verso Diane, così come Marie.
«Ti piace la crostata di ciliegie, piccola?» chiese la donna.
Un sorriso colorò il viso di Diane. «Sì!» esclamò. Tutti risero.
«Allora, su, andate in salotto, così posso servirvi!» esclamò Marie facendoci segno di uscire. Liam roteò gli occhi e scosse il capo.
«Posso aiutarti, Marie?» chiese mia madre.
La donna scosse il capo. «Oh, no, cara. Hai già fatto tanto. Perché non vai sul divano? Mi darà una mano Lilian.»
«Lily, nonna. Lily.» ringhiò lei, incrociando le braccia al petto. La donna annuì.
Per quanto il suo viso fosse delicato, per quanto i miei occhi cercassero sempre ed involontariamente i suoi, il suo tono di voce, delle volte, le sue espressioni, mi causavano un impeto di rabbia. Il perché non lo sapevo nemmeno io.
In salotto Cathy e John si lasciarono andare ad una conversazione sulla scuola elementare della piccola cittadina, mentre Liam spiegava le tecniche di pesca a Diane.
Mangiammo il dolce fra sorrisi e risate. Solo Lily sembrava essere l’unica a non gradire la compagnia. Mangiava svogliatamente la sua fetta di torta in religioso silenzio, lo sguardo fisso sul piatto. Mi chiesi a cosa pensasse, cosa le passasse per la testa e avrei tanto voluto conoscere la risposta.
Immerso nei miei futili pensieri l’osservai alzarsi e, dopo essersi scusata, dirigersi in cucina.
Fu allora che colsi l’occasione. Mi alzai diretto in cucina.
«Dove vai giovanotto?» chiese Marie fulminandomi con lo sguardo.
Con aria innocente mi voltai e feci spallucce. «Porto il piatto in cucina.» dissi sorridendo innocentemente.
«Oh, no, lo porto io.» disse face nodosi per alzare.
Le posai una mano sulla spalla. «No, tranquilla. Rimani pure qui. Ho bisogno anche di un po’ d’acqua.» dissi educato, per poi dirigermi in cucina.
Cos’avevo intenzione di fare? Cos’avevo in testa? Non lo sapevo, ma avevo bisogno di andare in cucina, di constatare se lei fosse lì. In tal caso, cosa le avrei detto? Ehi, ciao, sono quello delle battute sarcastiche di questa mattina.
Scossi il capo e sospirai quando, entrando in cucina, non la vidi. In cuor mio, ne fui grato.
Ma la vita è imprevedibile e ne ebbi la conferma anche allora.
Quando mi voltai per tornare in salotto fui costretto a fermarmi, poiché il mio sguardo aveva notato una sagoma seduta sui gradini della veranda, illuminata dalla fioca luce argentea della luna.
Il vento, leggero, le sfiorava i capelli facendoli ondeggiare sulla schiena, come il mare.
Non so come mi spinse ad afferrare la maniglia della porta e ad aprirla, in fondo fra me e lei non vi era grande simpatia. Eppure uscii in veranda senza saper con precisione cosa dire, o fare.
Quando la porta cigolò, Lily si voltò. Mi rivolse una fugace occhiata, il viso nascosto nella semioscurità notturna. Poi, senza proferire parola, ritornò a guardare il mare, la luna che si rifletteva lontana sull’acqua appena agitata. La fissai indeciso sul da farsi, poi avanzai lentamente e i miei passi risuonarono nella piccola veranda e le tavole di legno invecchiato scricchiolarono ad ogni mio passo. L’affiancai fissando il mare.
Dopo alcuni attimi mi decisi a parlare. «Bello, eh?» domandai e mi parve un buon modo per cominciare una conversazione, ma Lily m’ignorò. Continuava a fissare il mare con sguardo attento, ma ero sicuro che mi guardasse con la coda dell’occhio.
«Così… adesso puoi far parte anche tu di questa magnifica comunità.» ironizzai facendo un risolino. Aspettai che rispondesse, ma non accadde. Aprii la bocca per aggiungere altro, ma dovetti richiuderla immediatamente perché Lily si voltò ed il suo sguardo non era per nulla amichevole.
«Ti sembra che ne sia felice?» rispose con voce dura.
«No. Come darti torto.» risposi, più a me stesso che a lei, voltando il capo e guardando i raggi argentei della luna giocare con le increspature dell’oceano.
«Cosa tenti di fare… conversazione?» sbottò dopo alcuni istanti di silenzio, voltandosi di scatto verso me.
La guardai, corrugando la fronte. «Rischio la pena di morte per questo?» risposi, e nella mia voce v’era traccia d’acidità.
«Probabile.» rispose freddamente prima di volgere ancora lo sguardo al mare.  Non ne fui sicuro, ma immaginai che l’espressione indecifrabile sul suo viso fosse dovuta ad un sorriso represso. E in cuor mio me ne convinsi. Fu, per me, inevitabile sorridere di rimando e scuotere lentamente il capo. Non riuscii a trattenere un risolino.
«Cosa c’è?» chiese d’un tratto, e fui colto di sorpresa dal tono della sua voce, così docile e pacato, un suono leggero perso nella brezza.
Mi voltai a guardarla. «Allora non mordi.» sorrisi.
Lily alzò le sopracciglia per poi mordicchiarsi il labbro inferiore. Non riuscì a trattenere un sorriso. «E sorridi anche.» aggiunsi con estrema cautela.
«No, direi di no.» rispose scuotendo il capo e tornando a guardare il mare, passandosi una mano fra i lunghi capelli chiari. «Non credere che la mia antipatia per te sia passata.» aggiunse d’un tratto con tono duro, distaccato. Quel repentino cambio d’umore mi lasciò perplesso e confuso. Inquadrarla era per me particolarmente difficile.
«A quanto pare no.» risposi più a me stesso che a lei.
Era come se… se evitasse qualsiasi contatto col modo. Come se vivesse in una bolla fatta di rancore e rabbia, dalle pareti indistruttibili. Entrarvi sembrava impossibile.
«Potrei renderti la vita impossibile.» la sfidai quando si voltò a guardarmi in volto.
«E’ una minaccia?»
«E’ un avviso.» risposi serio.
«Potrei renderti la vita impossibile anch’io.»
«E’ una minaccia?»
«Oh, no. E’ un avviso.»
«O l’inizio di una guerra.»
Lei annuì col capo. L’espressione imperscrutabile. «Sei stato avvisato.»
«Sei stata avvisata.»
«Fossi in te non spererei in una vittoria.»
«Fossi in te starei attenta.»
«A te?» chiese corrugando la fronte, scettica.
Risi, scuotendo il capo. «Oh, no, Lily. A te.»
«Hai intenzione di disarmarmi col tuo fascino da atleta e ragazzo popolare?»
Sorrisi e feci un passo verso di lei. «Con questa.» dissi, e picchiettai con un dito sulla tempia.
«Allora sta sicuro che non ci riuscirai mai.»
«Vedremo.»
«Vedremo.»
«Ci vediamo, Lily.»
«Non vedo l’ora, David.» rispose con astio.
Mi voltai e aprii la porta entrando in cucina.
Ma cosa mi sta succedendo?
Scossi il capo incapace di darmi una risposta.

«E’ stato un piacere. Grazie per la magnifica cena.» disse mia madre mentre aiutavo Diane ad infilarsi la giacca.
«E’ stato un piacere per noi, cara. Tornate quando volete.» disse Marie, mentre Liam annuiva col capo.
«Magari la prossima settimana potreste venire da me. Potrei farvi assaggiare le mie lasagne.»
«Lasagne? Io ci sto!» esclamò Liam. Marie si voltò scioccata e gli diede un leggero spintone.
«Che marito ineducato.» e tutti risero, tranne lei che, sulla soglia della cucina, appoggiata con una spalla allo stipite, osservava la scena.
«Allora… buona notte.» disse Cathy aprendo la porta.
«Buona notte. E’ stato un piacere.» risposi sorridente, guardando i volti di coloro che gentilmente ci avevano invitato a cena, soffermandomi appena sul suo.
«’notte.» aggiunse con voce sottile Diane, prima che fossimo tutti e tre fuori.
«E’ stato divertente, no?» chiese Cathy, dopo alcuni istanti di silenzio.
«Sì, direi di sì.» risposi facendo spallucce.
«Marie è così gentile. Lo è sempre stata. Anche sua figlia era così.» aggiunse e potei cogliere una nota malinconica nella sua voce.
Corrugai la fronte. «La moglie di Steve?» chiesi. Non volli menzionare Lily, anche se era lei la mia maggior fonte d’interessamento.
«Sì.»
«Cosa l’è successo?» chiesi curioso, guardandola in volto.
«E’ morta un paio d’anni fa.» mormorò chinando appena lo sguardo.
«Come?»
«Incidente stradale. Tornava dal supermercato quando fu investita. Non è mai stato scoperto il colpevole.» aggiunse con voce spenta.
Meditai sulle sue parole, come per cercare in esse le risposte che desideravo avere. Ed un po’, alcune cose mi furono chiare. Forse il suo pessimo umore, il suo essere così dannatamente scontrosa col mondo, potevano derivare non solo dall’essere stata trascinata in una cittadina del North Caroline, ma anche da ciò che anni prima era accaduto. E fu, per me, inevitabile ripensare al mio passato, a mio padre. Avvertii con impressionante chiarezza i sentimenti che negli anni passati ero stati parte di me, le emozioni che per mesi, anni, avevo provato, il rancore provato verso mio padre, verso la vita. Forse non era lo stesso, certo, la situazione era diversa. In parte, capii.
Perso nei miei pensieri entrai in casa, salii in camera ed aprii l’acqua per una doccia. L’acqua calda sembrò sciogliermi i muscoli tesi i pensieri quasi scivolarono sul mio corpo, trascinati da essa.
Avrei dovuto lasciar perdere. Ma, in fondo, sapevo che non sarebbe successo.


«Ciao, Dave.»
Voltai il capo, per guardarmi dietro, mentre mi dirigevo verso l’entrata della scuola.
«Ehi, Logan.» risposi rallentando e aspettando che mi fosse vicino. «Sei venuto ancora con Beth?» chiesi.
Lui annuì col capo. «E non ha fatto che parlare di te.»
Alzai un sopracciglio. «No, non è vero.»
«Giuro amico. Non fa che parlare di te. Mi chiede che posso convincerti ad uscire con lei. Ma non ho intenzione di farlo. So che già che è fiato sprecato.» disse facendo spallucce.
«Lo stai già facendo.» sbuffai sistemandomi lo zaino in spalla, mentre salivamo la piccola scalinata.
«Chi, io? No, certo che no.» rispose con aria innocente. Lo conoscevo fin troppo bene e, per me, decifrare molti dei suoi comportamenti era oramai troppo facile. E per lui, era lo stesso.
«Non funziona con me, Logan. Beth non fa per me, lo sai. Ed io non faccio per lei.»
«Potresti darle un’altra possibilità.» disse mentre ci dirigevamo verso gli armadietti, salutando con cenni del capo i conoscenti e compagni di corso.
«La terza? No, grazie. So che le vuoi bene, Logan, ma… no, non è il caso.»
«Come ti pare.» sbuffò in fine con una scrollata di spalle, ed il discorso finì lì.
«E ieri? La cena?»
Le parole di Logan mi portarono immediatamente al suo viso, quei lineamenti che, fino ad allora, sembravano essere distanti anni luci dall’album della mia mente.
«Oh. Non hai idea di chi fosse lì.» dissi abbozzando un sorriso involontario.
«Chi?» chiese curioso mentre recuperava i libri d’inglese.
«La ragazza che ha occupato il mio solito posto.» risposi senza guardarlo.
«Oh, quella strana?»
«Non è tanto strana.» risposi, quasi difendendola, senza saperne il perché.
«Beh, in effetti. Strana è riduttivo.» ridacchiò.
Mi voltai a guardarlo ed aprii la bocca per replicare, ma la richiusi immediatamente, sapendo che ciò che avrei detto avrebbe aperto una discussione che volevo ben evitare.
«Forse.» mi limitai a rispondere prima di infilare un libro nello zaino e dirigermi verso l’aula d’inglese.
E fu lì che la vidi entrare in aula. Il capo chino, i capelli raccolti in una coda, ciocche che le ricadevano scomposte sul viso. Una maglia rossa che metteva in risalto la sua vita stretta, i capelli chiari e lucidi.
Sorrisi consapevole di ciò che entro poco sarebbe accaduto.

 

*

Tadan, eccomi qui.
Allora, spero di non avervi fatto attendere troppo. Oggi non sono andata a scuola (chiama molo pure virus intestinale) perciò ho colto l’occasione per postare questo capitolo.
Piano l storia si evolve e spero non vi annoi così tanto. Volevo ringraziare di cuore una persona un po’ speciale che negli ultimi tempi mi sta donando un sacco di sorrisi… anche involontariamente. Grazie, tesoro, grazie davvero.
Ed ora passiamo a ringraziare i sette angeli che hanno recensito lo scorso capitolo.

Piccola Ketty: ciao, Kè! Okay, se tu mi scrivi certe recensioni io mi sciolgo… oltre che gongolare come una cretina. Cavolo, sono contenta ti piaccia David… e spero la tua opinione con questo capitolo –pessimo a parer mio- non sia cambiata. In caso contrario esigo che tu me lo dica. Il mio timbro, la mia semplicità… le rendono uniche? O.O okay, ora sto proprio gongolando! Grazie, Ketty! Non sai che piacere sapere cosa ne pensi… che piacere sapere che pensi tutto ciò! *-*  Non smetterò mai di ringraziarti. Ti voglio bene.
mary whitlock: ciao! *-*  davvero ti ha commossa? Questa storia… non lo so, mi prende, come tutte del resto .Quando scrivo… e come se lì ci fossi anch’io e tutte le emozioni dei personaggi diventano anche mie. Sapere che ti ha trasmesso qualcosa il capitolo… mi rende felicissima! E’ il mio primo intento quello! 
Orgoglio e Pregiudizio è il prossimo libro nella mia lista. Purtroppo non l’ho ancora trovato (devo andare in città per farlo e quando ci vado me ne scordo >.< ) Però, avendolo studiato…. Beh, lo adoro. La Austen… è la  Austen. Spero ti sia piaciuto questo capitolo! Grazie mille, davvero!
Nessie93: ciao, Chià! Oh, sono contenta ti piaccia David… renderlo com’è nella mia testa è abbastanza difficile, come un po’ capita per tutti i personaggi. Non si sono scannati, è un inizio, no? Anche se l’incontro non è stato proprio roseo. Sì, Marie è una donna buona e dolcissima, e darebbe la vita per sua nipote. Beh, quello è già il suo libro preferito. Grazie, Chià, davvero. Sapere che ti piace mi rende felicissima! Ti voglio bene.
Miriam_Cullen: ciao! *-* che piacere leggere la tua recensione! Sono contenta ti sia piaciuto il capitolo. Ho sempre paura di cadere nella banalità e nella superficialità, di non riuscire a comunicare le emozioni dei personaggi al lettore, cose importantissima secondo me. E sono contentissima ti piaccia il mio modo di scrivere! Grazie mille per la recensione! Spero non averti tanto annoiata con questo.
KeLsey: ciao, Eri! Okay, ora gongolo. Il tuo parere lo sia è moto importante, specialmente su questo storia. Oh, sul serio ti piace sempre di più David? Non hai idea di quanto mi renda felice questa cosa! Ho sempre paura che i personaggi siano superficiali e banali, ne ho il terrore. Poi, la nonna Marie… beh, come hai detto tu, è nonnosa, almeno, io la vedo così nella mia mente. Grazie, tesoro, davvero. Grazie. Ti voglio bene.
Fairwriter: mia, Juls! Oh, cavolo, non sai che piacere ricevere una tua recensione! Il tuo parere è sempre contato molto, per me, lo sai. Sono contenta che ti piacciano personaggi ed i flash-back, del tutto assenti in questo capitolo, però. Sei sempre troppo buona con me, tesoro. Grazi, grazie di cuore. E mi manchi, Cip.
Sognatrice85: ciao, Marghe! Oddio, stai leggendo anche questa! *-* cioè… io.. oh, non sia che piacere mi ha fatto piacere la tua recensione! Sono contenta ti piaccia la storia, davvero, e spero di non averti delusa, o annoiata, con questo capitolo. Io vorrei seguire un sacco di tuo storia, ma per via della scuola non ho nemmeno il tempo di leggere. Appena finirà mi rifarò… per forza!


A voi, un bacio,
                      
Panda.

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Capitolo 9
*** Capitolo nove: Lilian. ***


 

 

 

 

~Sometimes you have to be apart from people you love,
but that doesn't mean you love them any less.
Sometimes it makes you love them even more.~
When my world is falling apart,
when there is no light to break up the dark
that's when I look at you.
When the waves are flooding the shore and I
can't find my way home anymore
that's when I look at you.

 

 

Capitolo nove.
Lilian.

 

La porta fu chiusa ed oltre la finestra della cucina, nel buio della sera, potei osservarli allontanarsi sul vialetto. Forse era sbagliato, o giusto. In quel momento poco m’importava. Osservai la figura snella e atletica di David allontanarsi, rimuginando ancora sulla rabbia, sul rancore e sull’antipatia che provavo nei suoi confronti. Ero sicura di aver a che fare con il solito ragazzo bello e popolare, superficiale, che cerca qualcuno con cui divertirsi, magari accendendo qualche discussione. Ma, dovevo ammettere che, in certi momenti, sembrava essere… diverso. Ma l’episodio della mattina precedente, lo aiutò ad entrare nella mia lista di persone da evitare.
Sospirai e mi voltai, per dirigermi in camera.
«Vai a dormire?» chiese mio padre. Mi voltai ed annuii col capo.
Sbuffai. «Cavolo, il libro». Svogliatamente ritornai in cucina a prenderlo e, poggiata al bancone, c’era la nonna che stava mettendo dell’acqua sui fornelli.
«Ti va del thè caldo?» mi chiese aprendo un pensile della cucina. Dopo alcuni attimi di silenzio, per qualche oscuro motivo, risposi di sì. Con il libro stretto al petto mi sedetti sul tavolo di legno.
«Non c’è niente di meglio del thè caldo prima di una bella dormita. Tua madre l’adorava.» rispose con una nota di tristezza e nostalgia nella voce.
Deglutii rumorosamente e la bocca mi si seccò. Ancora scombussolata dalla tempesta di emozioni che si era abbattuta sul mio animo quel pomeriggio, chiusi gli occhi cercando di mantenere quel briciolo di autocontrollo che mi era rimasto. «Sì, lo so.» risposi e fui grata alla nonna, che rimase in silenzio, senza aggiungere altro. Non avrei potuto sopportarlo.
«Non credi sia adorabile la piccola Diane?» chiese voltandosi e prendendo le bustine da thè.
Annuii col capo.
«E’ così diversa da David. E’ piuttosto silenzioso.»
«Non saprei.» mi limitai a rispondere fissando il pavimento di legno scuro.
«Quando eravate piccoli più volte avete giocato insieme. Non ricordi?» chiese corrugando la fronte.
«No.» mentii.
Lei inclinò il capo verso destra. «Strano. Ha la tua età, comunque. Frequenta la tua stessa scuola.» aggiunse poggiandosi con le mani al paino della cucina.
«E’ anche l’unica.» risposi con voce piatta.
Rise. «Sì, hai ragione. La vecchiaia gioca brutti scherzi, cara.» disse prima di versare l’acqua nelle tazze decorate a mano.
Abbozzai un sorriso di cortesia, poi saltai giù da tavolo e mi avvicinai alla nonna per prendere la mia tazza.
«Ecco a te del buon thè caldo.» rispose porgendomela.
«Grazie.»
«Aspetta, ti prendo lo zucchero.» disse afferrando il contenitore trasparente. Me ne verso dentro due cucchiaini –oramai conosceva bene le mie abitudini- e lasciò il cucchiaino nella tazza, affinché girassi io per scioglierlo.
«Buona notte, piccola.» disse baciandomi la fronte.
«’notte.» rispose ricordandomi quando era lei a baciarmi prima di addormentarmi.

Erano le undici di sera quando Lilian alzò il capo dal libro per guardare chi era entrato. La testa di Amanda fece capolino oltre la porta. La donna sgranò gli occhi e Lilian la guardò colpevole.
«Signorina, hai idea di che ora sia?» le chiese entrando nella stanza. La ragazzina di dodici anni poggiò il libro aperto, sul comodino e guardò la mamma.
«Scusa, non mi ero accorta che fosse così tardi.» mentì guardando la radiosveglia.
Amanda avanzò nella stanza, per poi sedersi sul bordo del letto. Rise. «Puoi mentire a tutti, Lilian, ma non a tua madre. Io so leggere i tuoi occhi, piccola. Ed ora, i tuoi occhi mentono.» disse con dolcezza.
La ragazzina sbuffò. «Uffa. Non è giusto. Mi smascheri sempre.»
Amanda sorrise. «So che ami leggere, ma è giunta l’ora di andare a dormire. Avresti dovuto essere a luci spente già un’ora fa.»
«Okay.» sospirò. «Scusa.» mormorò.
«Buona notte, Lilian.» sussurrò Amanda mentre le rimboccava le coperte. Si alzò dal letto e le baciò con estrema delicatezza la fronte.
«Buona notte mamma. Ti voglio bene.»
«Più della mia stessa vita.» aggiunse la donna dai capelli del grano prima di dirigersi verso la porta. «Ah, dimenticavo. Domani sei in punizione. Vai a letto alle nove.»
Lilian sbuffò, mugugnando qualcosa di incomprensibile. Ma, in fondo, sapeva di meritarselo.

Deglutii con fatica cercando di liberare la mente dai ricordi e, abbozzando un sorriso, mi diressi in camera con passo strisciato e spalle basse, quasi oppressa dal peso dei ricordi.
Entrai in camera, chiudendomi la porta bianca alle spalle. Accessi lo stereo e partì il cd che stavo ascoltando nel pomeriggio. Mi sedetti sul letto e presi a sorseggiare con lentezza il thè caldo.
Con la mente, senza volerlo, ritornai alla conversazione avuta con David e all’avviso di guerra che implicitamente  -o quasi- gli avevo lanciato. Ripensai al suo viso, ai lineamenti marcati, al naso dritto e gli occhi color della notte sotto folte ciglia nere.
Chi era in realtà David Smith? Avrei tanto voluto avere una risposta, ma non era possibile… almeno, non in quel momento.
Mi lasciai cadere sul letto, poggiando a tazza sul pavimento e chiusi gli occhi. La mia mente si perse in prati infiniti, trascinata dalla melodia e, piano, senza nemmeno rendermene conto, m’addormentai.

 

Sbattei più volte le palpebre, accecata dalla luce del giorno. Mi portai una mano sul viso, cercando di porre fine all’agonia dei miei occhi. Mi poggiai poi sui gomiti, alzando il capo, e mi guardai un attimo intorno. Dopo alcuni istanti mi resi conto di essermi addormentata la sera prima, con ancora indosso i vestiti. Corrugai la fronte osservai la coperta in lana che adagiata sul mio corpo. Mi ci volle qualche secondo per notare anche che lo stereo era spento. Osservai attentamente la coperta. Era quella che nonna Marie teneva nel baule in corridoio. Doveva avermi coperta lei.
Sospirai e mi passai una mano sul viso, fino a farla scivolare fra i capelli spettinati ed annodati. Feci una smorfia di dolore.
Controllai la radiosveglia. Le sei e mezza. Mi misi in piedi prima di dirigermi in bagno con in mano il beauty ed i vestiti puliti. La testa mi doleva e l’ultima cosa che avrei voluto fare era andare a scuola. Ero stanca, mi sentivo spossata, ma non avevo alternativa. Nemmeno l’acqua calda sembrò distendermi nervi e muscoli, tesi come fili di metallo.
La colazione fu anche quel giorno silenziosa. Bevvi del caffè e mangiai distrattamente un paio di biscotti prima di uscire di casa mormorando un semplice “ciao”, dopo aver taciuto per tutta la turata del pasto.
Anche l’andata a scuola fu piuttosto silenziosa, almeno nella mia mente. L’acquazzone di pensieri sembrava esser diventata solo una pioggia leggera. Cercai di estraniarmi dal resto della cittadina, ignorando il rumore dei motori delle auto, le grida dei ragazzi, dei bambini pronto per andare a scuola. Oltre le pareti della mia invisibile bolla di sapone non v’era più nulla. Nei due anni precedenti ero riuscita a crearmi spazi in cui nessuno poteva entrarvi, muri in cui nessuno poteva farsi breccia, ma soprattutto ero riuscita a raggiungere un livello tale di annebbiamento che poco m’importava del mondo esterno e di ciò che mi capitava intorno, ciò che la gente pensava di me. Non m’importava. C’eravamo solo io, la mia rabbia ed il mio viscerale dolore per la perdita di una perte di me stessa, un pezzo cuore strappato crudelmente a sangue caldo. Quando scorsi la scuola infondo al grande viale scossi il capo, come per liberarmi, rompere quell’invisibile bolla di sapone e, sospirando, entrai nel cortile.
Varcata la soglia della struttura in mattoncini rossi mi diressi al mio armadietto. Presi i libri mi diressi verso l’aula d’inglese grata di essere riuscita ad avere il posto in ultima fila, lontano da tutti. Lontano da David.
Sorrisi involontariamente quando vidi che il banco era libero e mi diressi verso esso. Mi sedetti. Ero la prima ad essere arrivata, ovviamente. Non provavo nemmeno ad avere una vita sociale. Non m’interessava.
«Ciao, Lily.» la voce di Sam irruppe il mio meraviglioso silenzio.
Mi voltai ed abbozzai un sorriso. «Ciao.» risposi con voce pacata.
«Non so tu, ma io muoio di sonno. Forse tornare a casa a tarda notte non è un bene.» ridacchiò sedendosi e voltandosi verso di me. «Tu che hai fatto ieri? Sei uscita?» chiese.
Scossi il capo. «No, ho avuto ospiti in casa. E poi… uscire da sola non è il massimo.»
«Non conosci proprio nessuno?» chiese strabuzzando gli occhi.
«No.» risposi con tono secco. «Tutti i miei amici sono a New York.»
«Allora oggi uscirai con me. Ti offro da bere. In un locale c’è la miglior birra della contea. Ti piace la birra, no?»
Annuii col capo. «Sì, certo.» risposi con gli angoli della bocca rivolti appena verso l’alto.
«Perfetto, allora. Ci vediamo al molo verso le otto.» disse strizzandomi un occhio.
Mentre parlavo con Sam non mi ero accorta che la classe si fossa riempita di persone, non fino a che sentii qualcuno tossire accanto a me. Alzai lo sguardo e lo vidi. Un sorriso sghembo e beffardo sul viso, i capelli neri e ribelli, gli occhi della notte.
«Lily.» disse con estrema cortesia. Il suo tono di voce mi allarmò.
Mi poggiai allo schienale della sedia ed incrocia le braccia al petto. «David.» risposi.
«Stai occupando il mio posto.» disse, tranquillo.
«Come ti ho già detto, qui, non c’è scritto il tuo nome, perciò non mi muovo.»
«Uhm». Si prese il mento fra le mani, osservando con aria concentrata il banco. Poi affinò lo sguardo come se qualcosa d’inaspettato avesse catturato la sua attenzione. «Oh, ma… cos’è questo?» chiese fingendosi, palesemente, sorpreso. Si chinò sul banco e s’accigliò. «Ma qui c’è scritto il mio nome!» esclamò voltandosi, esterrefatto.
«Cosa?» chiesi drizzandomi, allarmata.
«Sì, guarda,» disse indicandomi il banco, «qui, proprio qui. David Smith.»
Lo guardai con occhi spalancati e mi alzai dal banco per verificare. Inciso nel legno c’era davvero il suo nome.
Spalancai gli occhi scioccata. «Brutto…»
«Cosa vuol dire ciò?» chiese con innocenza.
Ridussi gli occhi a due fessure e imprecai qualcosa che per lui era incomprensibile, tanto la mia voce era bassa.
«Questa me la paghi.» sibilai a denti stretti afferrando il mio zaino e dirigendomi a passo pesante al banco in prima fila, evitando di guardare la sua espressione compiaciuta mentre batteva cinque all’amico e prendeva posto. Sicuramente soddisfatto.
Me l’avrebbe pagata. Senza dubbio.



La campanella suonò e, con un movimento secco del braccio, chiusi il libro. Feci un respiro profondo e recuperai lo zaino mentre mi alzavo.
«Ciao, Lily.» mi salutò David con tranquillità. Sentii la rabbia salire ed il sangue ribollirmi nelle vene, quando passa davanti al mio banco diretto alla porta.
Ridussi gli occhi a sue fessure e digrignai i denti.
«Ciao, David.» ringhiai.
«Non credo ti abbia sentita.», la voce di Sam irruppe nei miei pensieri, cacciando via l’immagine delle mie mani strette al suo collo.
«Meglio per lui.» sibilai voltandomi e dirigendomi verso la porta per poi uscire nel caotico corridoio.
«E’ stato un colpo basso. Però… ti ammiro sai? Hai mantenuto la parola.»
Feci un risolino isterico. «Sono onesta, e sciocca. Ma giuro che questa me la paga.» dissi dirigendomi verso l’aula di trigonometria, cercando di non andare a sbattere contro gli altri studenti che nemmeno sembravano essersi accorti della mia presenza. L’essere così anonima, in fondo giovava. Un paio di volte, il giorno precedente, avevo notato qualcuno osservarmi, ma, per oscuri motivi, forse legati alle mie poco amichevoli espressioni, non si erano permessi di farlo ancora.
Ma, se non avessi respinto l’idea di potermi legare in amicizia con diverse persone, la mia solitudine sarebbe comunque dipesa dalla mia sciocca volontà o da qualcosa che, in me, non andava?
Non ne avevo idea, ma era meglio così e, di certo, non avrei provato ad avere nuove amicizie.
«Hai già qualcosa in mente?» chiese accigliandosi.
«Più o meno.»
«Cosa?» chiese con estrema curiosità nella voce squillante.
Mi fermai di colpo per poi voltarmi verso lei. «Anche tu hai algebra?» chiesi corrugando la fronte.
Sam si batté il palmo della mano sulla fronte mentre la campanella suonava. «Ho educazione fisica!» esclamò prima di sbuffare e far cadere le braccia lungo i fianchi.
Risi. Ed era da un po’ che non succedeva. Il suono della mia risata spontanea mi lasciò perplessa e confusa, come non ne avessi mai sentito il suono, mai prima d’allora.
Anche Sam rise. «Allora ci vediamo a pranzo. Ti tengo il posto in mensa… o viceversa. A dopo, Lily.» disse d’un fiato prima di voltarsi e allontanarsi, facendo oscillare la folta massa di capelli ricci colorata da ciocche di vivido azzurro.
Scossi il capo prima di varcare la soglia dell’aula.


Quando uscii dall’aula di Algebra sentivo le palpebre pesanti. Se in quel momento avessi dovuto definire la lezione avrei senza dubbi urlato: soporifera!
Con passo strisciato mi diressi verso il mio armadietto per lasciare i libri e prendere Il Richiamo della Foresta. Con il libro riposto nello zaino mi avviai alla mensa. Era la prima volta che mangiavo lì, o meglio, che sedevo ad uno dei tavoli. Il giorno precedente, fedele alla mia asocialità, al volermene stare appartata a rimuginare sulla mia nuova vita, pranzai in cortile, seduta sul muretto. Perciò non sapevo bene cosa aspettarmi. Sarebbe stato come New York? Sarei passata inosservata o anche qui sarei stata un’attacca brighe? Non ne avevo idea, ma sperai con tutta me stessa di confondermi con la moltitudine di ragazzi. Se non fosse stato per Sam, senza la minima incertezza, avrei pranzato ancora sul quel desolato muretto. E, dovevo ammettere, che l’idea di prendere il mio sandwich e girare i tacchi per uscire in cortile mi allettava molto. Ma non lo feci, e ne fui sorpresa.
Entrata in mensa notai con piacere che Sam era seduta ad un tavolo rettangolare, di quelli rivestiti con rigida plastica rossa. Lei alzò una mano a mo’ di saluto e, i due ragazzi seduti l’uno di fronte l’altro, volsero lo sguardo verso me. Sorrisi e mi diressi a prendere un vassoio, portandomi una ciocca di capelli ribelli dietro un orecchio. Così, preso un panino ed una soda mi diressi al tavolo in fondo alla sala mensa.
«Ciao.» dissi atona.
Sam sorrise. «Ciao. Ragazzi lei è Lily, la ragazza di cui vi ho parlato. Loro sono James ed  Aaron.»
Feci un cenno con la testa a mo’ di saluto.
«Prego, siedi.» tuonò la voce scura di James. Tolse la giacca poggiata sullo schienale dell’unica sedia libera, accanto a lui e mi fece segno d’accomodarmi. Mi sedetti accanto a lui, di fronte Sam, pregando che quella non fosse una gabbia di matti.

 

*

Eccomi qui, ancora.
Allora, mi scuso per l’enorme ritardo, ma la scuola mi sta risucchiando ed è un miracolo che oggi sia riuscita a postare. Non vedo l’ora finisca ç_ç
Mi dispiace non poter ringraziare a modo chi ha recensito lo scorso capitolo, davvero. Vorrei, ma ho così tante cose da fare che non ne ho davvero il tempo materiale.
Perciò ringrazio di cuore: Piccola Ketty (L), mary whitlock, Nessie93, KeLsey, sbrodolina, Miriam_Cullen, LadyEl, Fairwriter, Sogantrice85.

E grazie a te. Grazie, grazie di cuore.
Ti voglio bene.

A voi, un bacio,
                      Panda.

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 10
*** Capitolo dieci: David. ***




 

~Sometimes you have to be apart from people you love,
but that doesn't mean you love them any less.
Sometimes it makes you love them even more.~
When my world is falling apart,
when there is no light to break up the dark
that's when I look at you.
When the waves are flooding the shore and I
can't find my way home anymore
that's when I look at you.

 

 

Capitolo dieci.
David.



«E’ stata una mossa magnifica, amico.»  disse in un risolino Logan mentre entravamo in sala mensa.
Risi. «Forse.»
«Oh, sì, che lo è stato. Se l’è meritata.»
«Magari… magari è diversa da come appare.» mi azzardai a dire mentre ci dirigevamo a prendere il pranzo.
Logan, di scatto, di voltò a guardarmi. «Vuoi provarci.»
«La tua è una constatazione, non un domanda.» osservai.
«Certo che sì.»
Non risposi e Logan interpretò il mio silenzio con un sì. «Andiamo, Dave,» disse, «non fa per te. Puoi avere Mandy, Sharon… Beth! E vuoi lei? Per un’avventura?»
«Ehi, ehi, ehi.» lo fermai, «credo tu abbia capito male. Io non ho detto nulla, sei tu che interpreti ogni mia parole a modo tuo. Non ho detto che voglio provarci Logan. Non ho detto proprio nulla.»
«Hai taciuto.»
«Non significa fosse un sì.» risposi mentre, con il pranzo sul vassoio di dirigevamo verso il  nostro solito tavolo, nella parte centrale della grande stanza.
«Certo, certo.» borbottò, poi, nel giro di pochi istanti, sul suo viso comparve un largo sorriso seducente. «Salve ragazze.» disse raggiante sedendosi accanto a loro.
C’era Mandy, c’era Sharon. Ragazze con la quale si poteva avere un profondo discorso sulla fame in Cecenia.
Io e Logan prendemmo posto davanti alle due ragazze dal trucco e capelli perfetti. Erano l’una vicina all’altra e sul tavolo era poggiato uno specchietto portatile. Feci una smorfia, abbassando lo sguardo sul vassoio per non essere visto.
«Ehi, David, non mi saluti?» chiese con fare civettuolo Mandy, cercando al mia attenzione.
«Sì, ciao, Mandy.» risposi con finto entusiasmo. Lei parve non accorgersene. Bastava così poco…
Durante i minuti successivi finsi di ascoltare interessato la conversazione tra Sharon e Logan, rispondendo con semplici monosillabi a Mandy che, di tanto in tante, mi faceva domande sulla squadra di football… nonostante io non ne facessi parte. Lei parve innervosirsi a causa della mia poca attenzione dedicatagli, ma non avevo voglia di mostrare atteggiamenti dannatamente falsi, non più di quanto già stessi facendo. Alzai lo sguardo osservando la sala affollata e fu lì che i miei occhi si posarono su un viso sottile ed occhi cielo. Camminava fra i tavoli, facendo ondeggiare in capelli chiari raccolti in una coda alta. L’espressione sul suo viso era indecifrabile. Si fermò, e fu allora che posai lo sguardo sul tavolo a cui stava per sedersi. C’erano Samantha e c’erano James ed Aaron. Non che fossero tipi pericolosi, ma vederla sedersi accanto al quel tipo nerboruto… mi fece agitare sul posto. Non erano… “cattivi” ragazzi, ma gli ambienti che frequentavano non erano dei migliori.
«Cosa guardi?» chiese Mandy voltandosi e cercando di capire dove fosse indirizzato il mio sguardo.
«Niente.» risposi tornando a guardare il mio vassoio.
«Oh, okay.» mormorò indugiando ancora con lo sguardo sui tavoli.
Quando fui sicuro che non mi guardasse alzai lo sguardo, cercando ancora il suo viso.
Così, quasi di nascosto, l’osservai. Mangiava con estrema lentezza un panino e beveva di tanto in tanto un sorso di sorsi di soda, fissando con sguardo vacuo il piano del tavolo. James, che frequentava il mio stesso corso di teatro, parlava allegramente con Samantha e Aaron, seduti di fronte a lui. Inaspettatamente voltò lo sguardo verso Lily guardandole il profilo. Involontariamente strinsi un pugno, poggiato sulla mia coscia, sotto il tavolo.
Che mi stava prendendo? Avrei dovuto ignorarla, in fondo eravamo… rivali. Eppure vi era qualcosa nei suoi lineamenti, nel suo comportamento freddo e distante, nel suo –forse- mascherare sentimenti celati, che mi costringeva a cercare la sua figura. Come se… si sforzasse di apparire ciò che non era. Avevo osservato le sue espressioni la sera precedente, la luce che, di tanto in tanto, le lampeggiava negli occhi chiari e cristallini. C’era vita, bellezza.
Sembrano interminabili i minuti spesi ad osservare, di nascosto, il suo viso e le sue espressioni, mentre entrambi consumavamo lentamente il pranzo. Poi alzò il capo di scatto, quasi sobbalzando e guardai il viso di Samantha, davanti a lei. James si voltò ancora a guardarla con sguardo indecifrabile. Lily prima scosse il capo, poi annuì energicamente col capo senza proferire parola, accennando solo un flebile sorriso. James, Aaron e Samantha si alzarono con i vassoi in mano per uscire poi dalla sala mensa.
«Allora? Ci vieni Dave?» chiese Logan.
Annuii col capo, osservandola bere altra soda.
«Perfetto, allora ci vediamo tutti a molo alle otto.»
Mi voltai di scatto. «Perché?» chiesi corrugando la fronte.
«Ma cosa ti prende oggi?» mi chiese Logan.
«Sono solo stanco.» mentii passandomi una mano fra i capelli.
«Non si direbbe. Magari pensi ad una ragazza.» sbottò Mandy. Alzai gli occhi su di lei e la fulminai con lo sguardo. 
«No.» sibilai.
«Comunque, riportandoti sulla terra. Stasera si esce tutti insieme.»
«Cosa?» chiesi con vece strozzata.
«Hai già detto di sì, perciò se hai impegni, disdici.» mormorò.
«Okay.» borbottai prendendo la mia soda e, dopo esser sicuro si non avere più lo sguardo Mandy su viso, tornai a guardare Lily.
Aveva i piedi sulla sedia, le gambe affusolate strette al petto, e sulle ginocchia vi era poggiato un libro. Mi chiesi cosa stesse leggendo, e avrei voluto saperlo, curioso di capire chi fosse veramente quell’eccentrica ragazza. Poi, d’un tratto alzò gli occhi, posandoli su di me. Non abbassai o distolsi lo sguardo. Ressi il suo cercando di leggere l’espressione del suo viso. Ma era imperscrutabile, un muro fatto di invisibili mattoni, difficile da demolire. Fu lei a distogliere lo sguardo, sbuffando, nervosa, chiuse il libro e, afferrando lo zaino ed il vassoio, si diresse verso l’uscita della mensa.
Era forte, era decisa ed era evidente che lo fosse, ma qualcosa nel suo sguardo, nei suoi occhi mi faceva pensare che ci fosse dell’altro, che fosse terribilmente fragile.
Scossi il capo, cercando di liberarmi la mente dagl’insistenti pensieri, e cercai di partecipare alla conversazione che Logan stava intrattenendo con le due ragazze.

«Allora? Passi a prendermi?» chiese Logan mentre mi dirigevo verso la mia auto.
«Secondo me, dovremmo andare a piedi. Sai… abbiamo la spiaggia davanti casa.»
«Ma il molo dista mezz’ora da casa mia!» esclamò.
«Ma sta zitto, idiota. Ora devo andare a prendere Diane.»
Logan sbuffò.
«Ci vediamo alle sette.» continuai.
«D’accordo… nonnino. Senti… me lo dai un passaggio? Non ho voglia di tornare con Beth e le sue amiche.»
Risi. «Okay, ma prima passiamo a prendere mia sorella.»
«Quella bambina mi adora.» ridacchiò facendo il giro dell’auto e salendo al posto del passeggero.
«Certo, certo. Vuoi sapere cosa mi disse quando ti ha conosciuto?» chiese una volta messa in moto l’auto.
Logan corrugò la fronte. «Cosa?»
«”Dave, Dave, il tuo amico è buffissimo!” Ecco cosa ha detto.» ridacchiai uscendo dal parcheggio della scuola.
«Piccola pestifera…» borbottò sgranando gli occhi.
«Dai, non prendertela amico.» dissi facendo spallucce.
«Sì, certo.» bofonchiò aprendo il finestrino e godendosi la sensazione del vento sul viso.
Accessi la radio, ma dopo pochi istanti Logan abbassò il volume.
«Mi spieghi che ti prende?» chiese d’un tratto.
«Scusa?», gli rivolsi una fugace occhiata prima di tornare a guardare la strada.
«Sì, sei strano. E perché non vuoi uscire con Mandy? Cavolo, Dave, è uno schianto!»
Scossi il capo. «Non sono strano. E  non esco con Mandy, perché non baso i rapporti umani sull’aspetto fisico, caro Logan. Sai, di tanto in tanto, potresti provare a farlo anche tu.» scherzai. Logan, in fondo, non era così superficiale come appariva ed io lo sapevo bene. Gli piaceva divertirsi. Se non fossi stato sicuro della brava persona che era, non sarebbe stato certamente il mio migliore amico.
«C’entra la ragazza nuova, non è vero?»
«Di chi parli?» mentii.
«Non fare il finto tonto con me, Dave. Ti conosco. Sputa il rospo.»
«Non c’è nulla da dire. Logan. Non la conosco nemmeno. E poi non voglio relazioni sentimentali al momento.» sbottai sperando che il discorso finisse lì.
«Qualcosa mi dice che non è vero.»
«Beh, lo è.»
«Okay, allora non ti dispiacerà se mi presento alla nuova ragazza, no?»
Strinsi con forza il volante tanto che le nocche divennero bianche. A Logan non sfuggì, sorrise fiero.
«Non avevi detto che era troppo anonima per te? Che non era il tuo tipo ed era fuori di testa?»
«Ci ho ripensato.»
«Bugiardo. Sei un pessimo bugiardo.» dissi allentando la presa al volante.
Logan rise. «Oh, anche tu.» disse. «E comunque è tutta tua, tranquillo. Non è il mio tipo.»
«Ho detto che non voglio uscire con lei. Dacci un taglio, Logan.» risposi infastidito dalla piega veritiera che la conversazione aveva preso.
«Okay, okay.», ed il discorso, per mi grande fortuna, cadde lì.
Così, arrivato a casa dei Miller bussai, sperando che Diane questa volta fosse più allegra.
«Ciao, David.» mi salutò la signora Miller.
«Ciao, Jane.» risposi sorridente.
«Su entra. Diane sta finendo di bere una tazza di latte.» sorrise. Annuii col capo ed entrai in casa, prima di dirigermi in cucina accompagnato da Jane.
«Ehi, Diane.» dissi.
Mia sorella si voltò col le labbra sporche di latte. «Dave, può venire Cassie a giocare a casa? Dai, la signora Miller ha detto di sì.»
Jane rise, scuotendo il capo.
Sorrisi. «Ma certo che può!»
Diane si voltò verso l’amichetta e le batté il cinque, risero di gusto prima di scattare in piedi e correre verso l’ingresso.
«Grazie mille, Jane.» dissi mentre aspettavo che Diane e Cassie di infilassero le felpe.
«Figurati, tesoro. E’ un vero piacere.»
Fu allora che la porta si aprii ed una sorridente Norah entrò.
«Ciao, mamma. Oh ciao, David!» esclamò incontrando i miei occhi. «Come stai?»
«Tutto bene. Tu?»
«Beh, la scuola è ricominciata… mi manca Agosto.» rispose roteando gli occhi e lasciando cadere lo zaino sul pavimento.
Sorrisi. Diane e Cassie erano pronte.
«Allora noi andiamo. Riaccompagno io a casa Cassie.» disse accingendomi alla porta, mentre Norah si spostava per lasciarmi passare.
«Oh, no, caro. Non è necessario. Posso venire io.» rispose Jane.
«Non c’è nessuno problema. Verso le sette vado a fare un giro e posso riportarla a casa.» dissi uscendo in veranda seguito dalle due bambine che teneramente si tenevano per mano.
«Dove vai?» chiese Norah con molta nonchalance. Jane sorrise, avendo capito il suo interessamento.
«In giro, nulla di importante.» risposi sventolando una mano in aria.
«Capisco. Beh, ci si vede in giro, David.» disse raggiante, prima di sorridermi ed entrare in casa seguita da Jane. Salutai cordialmente la donna dai capelli castani, prima di dirigermi verso l’auto.
Aprii la portiera e, Cassie e Diane, si accomodarono sui sedili posteriori.
«Ciao, Logan!» esclamò Diane. Quando entrai mi sedetti al posto del guidatore Logan aveva già fatto la conoscenza di Cassie.
«Vedi, mi amano?» disse quando le bambine presero a parlottare fra loro.
Gli rivolsi un’occhiata. «Oh, sì, molto, direi. Ma come darli torto… sei buffissimo!» ridacchiai.
«Ah-ah.»
Risi di gusto prima che cadesse il silenzio.

Seduto al tavolo della cucina sorseggiavo del caffè, mentre osservavo il sole avvicinarsi sempre più all’orizzonte. Gettava luce arancione all’interno della cucina. Dal piano di sopra provenivano risate squillanti ed allegre. Avrei voluto farmi all’istante una doccia, ma  non potevo, almeno fino a che mia madre non fosse rientrata. Qualcuno doveva tener d’occhio quelle due furfanti.
Con la mente, inevitabilmente ritornai al viso di Lily, alla sua espressione infastidita in classe e in mensa.
Che cosa strana… forse Logan aveva ragione, o forse no.
Ad interrompere il fluttuare dei miei pensieri fu mia madre.
«Ehi.» disse sorridendo. Mi voltai ed un angolo della mia bocca si sollevò verso l’alto.
«Ciao, mamma.» dissi alzandomi e baciandole una guancia. «Ti va del caffè?» chiesi avviandomi al piano della cucina.
«Te ne sarei grata.» sospirò sedendosi ad una sedia.
Sorrisi e presi una tazza dal pensile sopra il lavandino per versarci dentro del caffè.
Mia madre era una delle due farmaciste in quella cittadina desolata e stava fuori casa gran parte della giornata. La sera, tornava a casa stremata.
«Oggi com’è andata? Chi c’è sopra?» chiese quando Diane rise rumorosamente.
«C’è Cassie. Stanno giocando.» dissi porgendole la tazza. Cathy ne respirò il profumo. «Comunque,» continuai, «è tutto okay.»
Lei annuì col capo prima di avvicinarsi la tazza alle labbra.
«Vuoi che ti prepari la cena?» chiesi poggiandomi alla piano della cucina ed incrociando le gambe.
Scosse il capo. «Oh, no, caro, non è necessario.» disse.
«Sai che non ci sono problemi, mamma.»
«Tranquillo. Fai già tanto.» disse sorridendo stanca.
Le pesanti occhiaie sul suo viso mi convinsero che era meglio se me ne occupassi io.
«Sì, certo, non lo metto in dubbio mamma, ma cucino io oggi. Mi faccio una doccia veloce e arrivo.» la baciai una guancia e corsi sopra.
L’acqua calda mi rilassò portandomi in un dolce oblio. Quando il contatto con l’acqua l’oblio sparì.
Vestitomi, preparai la cena cuocendo del pollo e condendo l’insalata.
La casa era vuota. Quando scesi le scale chiamai il nome di mia madre, di Diane e di Cassie, ma non ricevetti risposta. Così, dando uno sguardo sul retro notai che giocavano in spiaggia.
Uscii in spiaggia per chiamare le due bambine e dare la possibilità a mia madre di farsi una doccia veloce prima di cena. Fu solo, allora, quando i miei piedi affondarono nella sabbia morbida che notai una quarta figura.

 

*

Eccomi ancora qui, gente.
Mi scuso per il ritardo… ma la scuola, è al scuola… e il quinto anno è il maledetto quinto anno.
Ad ogni modo, mi dispiace tantissimo, di non potervi ringraziare a modo, ma, avendo solo un giorno di “relax” ho un po’ di cose da recuperare.
Quindi, un grazie a:
Nessie93, mary withlock, Piccola Ketty, Giulietta7, KeLsey, Miriam_Cullen e sbrodolina (sì, Sparks è anche uno dei miei preferiti *-*).
Grazie, davvero, di cuore.


Un bacio, la vostra Panda.

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Capitolo 11
*** Capitolo undici: Lilian. ***


 

 

 

 

 

 

~Sometimes you have to be apart from people you love,
but that doesn't mean you love them any less.
Sometimes it makes you love them even more.~
When my world is falling apart,
when there is no light to break up the dark
that's when I look at you.
When the waves are flooding the shore and I
can't find my way home anymore
that's when I look at you.


 

 


Capitolo undici.

Lilian.



Aprii la porta di casa e, senza proferire parola, mi diressi in cucina.
«Lily, sei tu?» gridò Marie dal soggiorno.
«No, nonna, sono Capitan Hook.» ironizzai aprendo il frigo e tirando fuori la caraffa di thè, dopo aver poggiato zaino e felpa su una sedia.
Sentii i passi della nonna riecheggiare nella casa vuota, fino a giungere in cucina e cessare.
Aprii un pensile e presi un bicchiere. Senza voltarmi le chiesi: «Ne vuoi un po’ anche tu?»
«Sì, grazie.» rispose lei. Presi un altro bicchiere e li riempii entrambi prima di riporre la caraffa in frigo. «Com’è andata?»
«Se fossi stata a New York, bene.»
Marie sospirò, ma ignorò il mio astio. «Ti va del pesce per cena?» chiese dopo aver bevuto una grande sorsata.
Annuii col capo, ma non dissi nulla.
«Quando la smetterai, tesoro? Non puoi avercela con il mondo per sempre.» domando esasperata. Mi voltai a guardarla.
«Oh, sì che posso invece.» risposi sprezzante. Scossi il capo e, afferrando le mie cose uscii dalla cucina.  «Vado a farmi una doccia. Chiamami quando è pronta la cena.» dissi, prima di sparire oltre le scale.


Dopo essermi asciugata, reduce da una doccia calda, mi sedetti sul letto a gambe incrociate.
Lasciai che i capelli umidi mi coprissero parte del viso, mentre finivo di sorseggiare il mio thè.
Ero stanca, molto stanca. Mi sentivo spossata, ma non avevo voglia di dormire, così, tirai fuori dallo zaino Il Richiamo della Foresta, e mi stesi sul letto a pancia in giù, immergendomi nella lettura. Il cielo pomeridiano cominciò a tinteggiarsi di arancione e rosa.
Fu allora che decisi di uscire. Mi alzai dal letto nel momento esatto in cui lo pensai. Afferrai la felpa e indossai le scarpe da tennis, prima di scendere velocemente i gradini.
«Ciao, Lily.» disse mio padre.
«Ciao.» risposi secca. «Esco.» e sbatti la porta del retro. Con il libro ancora in mano, scesi velocemente le gli scalini e presi a camminare sulla sabbia, fino a raggiungere la battigia. Per alcuni istanti fissai il mare, e chiusi gli occhi, godendomi la sensazione del vento leggero sulla pelle del viso, poi rallentai il passo cercando di dare un ordine al vortice di pensieri che mi scombussolava la mente. Ma i ricordi mi colpirono in pieno petto.

«Mamma, mamma, andiamo sulla spiaggia?» chiese Lilian ad Amanda, tirandole un lembo della maglia. A quel tempo, era solo una bambina, Lily, aveva compiuto sei anni.
«Ora?» chiese distogliendo lo sguardo dalla tela adagiata con cura sul cavalletto, in quella piccola stanza che fungeva da laboratorio.
«Sì, sì» saltellò lei.
Amanda rise. «Ma non c’è vento per l’aquilone, piccola.» disse piegandosi sulla ginocchia per poterla guardare in volto.
«Non importa! Andiamo a fare una passeggiata!» esclamò in un gridolino saltellando verso la porta.
«D’accordo.» ridacchio con dolcezza Amanda, prima di prendere per mano la figlia e condurla fuori da quella casa, che era stata la sua dimora per tutti gli anni della sua fiera giovinezza.
I piedi di entrambe affondavano nella sabbia calda e il vestito, color del cielo in primavera, che Amanda indossava, svolazzava alla lieve brezza marina. I lunghi capelli di Lily ondeggiavano ad ogni suo movimento, come le onde del mare.
Il sole stava tramontando, gettando luci arancioni sulla spiaggia, sulle increspature del mare e sui capelli biondi di Amanda.
Lilian lasciò la mano della mamma e, correndo, si diresse verso la spiaggia, bagnandosi i piedi. Un’onda, troppo alta, le bagnò parte dei calzoncini. La bambina rise allontanandosi di rimando.
Amanda ridacchiò e scosse il capo pensando che non poteva avere vita più bella, una figlia così dolce e vitale da amare per sempre. Era il suo mondo, il centro del suo universo, l’animo per cui avrebbe dato la vita, non una, non cento, ma mille volte. Era la ragione per svegliarsi al mattino e sorridere al sole, per affrontare con gioia le lunghe giornate.
Lilian si voltò. «Mamma, mamma, guarda!» disse la bambina correndo verso lei. «Sono un fulmine!»
«Lo vedo, tesoro, lo vedo!» esclamò allargando le braccia, lasciando che Lily si accoccolasse per alcuni istanti sul suo petto.
«Ti voglio tanto bene, piccola mia.» mormorò Amanda scompigliandole i capelli e sorridendole, come solo lei era capace di fare.
Lily sorrise. «Più della tua stessa vita?»
«Sì.» e le baciò la fronte.

Deglutii rumorosamente, cercando di mandar via il magone che mi si era formato in gola. Sbattei più volte le palpebre, come per cercare di asciugare le lacrime che indugiavano sui miei occhi. Nervosa presi a tormentare le pagine del libro che stringevo fra le braccia.
Feci un respiro profondo, fermandomi un attimo. Chiusi gli occhi, cercando di tranquillizzarmi e non lasciarmi andare alla lacrime. Gli attimi che passai immobile mi parvero eterni e, quando li riaprii, ripresi a camminare, lentamente.
Avanzai forse per un centinaio di metri, non sapevo di preciso quanto. Guardandomi intorno, decisi di fermarmi. Il sole illuminava ancora la spiaggia, così mi sedetti a gambe incrociate sulla sabbia tiepida per poi aprire il libro e immergermi nella lettura.
Tenere la mente occupata fu più difficile di quanto immaginassi. Riuscii a non pensare a mia madre, riuscii a tenere i ricordi chiusi in un cassetto, cosa che mi era difficile fare, ma col tempo stavo imparando a giostrare e controllare le mie stupide emozioni.
Ripensai a quella mattina, allo scherzo di cattivo gusto che David mi aveva fatto. E ripensai al suo viso in sala mensa. Odiavo quando le persone mi fissavano, odiavo sentire su di me lo sguardo di altri. Certo, dovevo ammettere che il suo viso aveva un qualcosa che ti costringeva ad osservarlo più del dovuto, e forse si aspettava che io lo facessi, ma non ero come tutte le ragazze. Lui mi aveva rubato il posto, in quella scuola di quella cittadina che odiavo con tutta me stessa. E non poteva essermi simpatico.
Scossi il capo, cercando di eliminare il suo viso dalla mia mente. Per quanto gli fossi ostile, per quanto mi fosse antipatico, non potevo non ammettere a me stessa che forse era il ragazzo più bello che avessi visto. Persino a New York, in quella scuola dove incrostarvi ragazzi carini ad ogni due metri.
Smettila, mi ammonii.
Chiusi il libro con un movimento secco. Lasciai le scarpe da tennis sulla sabbia e tenendo il libro sottobraccio presi a camminare lentamente sulla battigia, la testa china ad osservare le conchiglie. Quando mi chinai per raccoglierne una che aveva catturato la mia attenzione per il riflesso perlato, sentii delle grida gioiose non molto distanti da me. Alzai istintivamente il capo osservando le due bambine che, scalze correvano vero la battigia e non potei fare a meno di ripensare al ricordo che poco prima mi aveva colpito in pieno petto, quando ero io a correre sulla sabbia. Le bambine si avvicinarono e riconobbi la massa di capelli scuri.
Diane.
Sorrisi quando lei incrociò ilo mio sguardo  e la salutai con la mano. Corse verso me.
«Ciao, Lily!» esclamò. «Ti ricordi di me?»
Risi. «Certo, Diane, come dimenticarti. Come stai?» chiesi abbassandomi sulle ginocchia per poterla guardare in volto. Una cosa che avevo ereditato da mia madre. Diceva che amava guardarmi bene in viso quando mi parlava. La bocca dello stomaco mi si strinse a quel ricordo.
«Bene. Lei è la mia amica.» disse indicandomi la bambina ad un paio di passi più indietro.
«Ciao!» esclamai sorridendo. «Io sono Lily. Tu come ti chiami?» chiesi inclinando il capo di lato.
«Cassie.» rispose lei portandosi le dita sulle labbra e abbassando appena lo sguardo. Sorrisi intenerita dalla sua timidezza.
«Guarda, ti piace?» dissi mostrandole la conchiglia, avvicinandomi con un saltello, senza alzarmi. In piedi l’avrei messa ancor più a disagio.
Cassie annuii. «Che bella.»
«Tieni , te la regalo.», e le porsi la conchiglia.
Lei sorrise e l’afferrò. «Grazie!» esclamò.
Mi voltai verso Diane che mise un tenero broncio. Sorrisi. «Ne cerchiamo una anche per te, Diane?» chiesi.
Lei alzò il capo e il suo viso si colorò di un sorriso. «Sì!» esclamò battendo le mani.
Mi alzai in piedi e fu solo allora che notai Cathy, ferma, con le braccia incrociate che guardava la scena abbozzando un sorriso.
«Ciao, Lily.» disse avvicinandosi.
«Ciao.» mormorai .
«Come stai, cara? Tutto okay?»
No, non è nulla okay.
«Sì, tutto okay. Lei?» chiesi con educazione.
«Tutto bene, ma per favore, dammi del tu.»
Abbozzai un sorriso. «Okay.»
«Dai, Lily andiamo!» esclamò Diane tirandomi un lembo della maglietta e mi ricordò me, alla sua età. Le sorrisi, prima di voltarmi verso Cathy.
«E’ un problema se cerchiamo conchiglie?» chiesi.
Lei scosse la testa. «No, no, non c’è nessun problema. Io ne approfitterò per godermi un po’ l’imminente tramonto. Mi fai un favore.» ridacchiò sedendosi sulla sabbia.
Annuii col capo e sorrisi, prima di prendere a cercare conchiglie sulla sabbia.


«Guarda questa!» esclamò Diane correndo verso me e mostrandomi una conchiglia rosa.
«Ma è bellissima, piccola!» risposi guardandola entusiasta.
«Davvero?» rispose lei con occhi raggianti.
«Parola di scout.»
«Guardate questa!» esclamò Cassie correndo verso noi  mostrandoci una conchiglia bianca.
«Cassie, è fantastica!»
«Ne ho trovate tante, guarda.» disse svuotando una tasca del pantalone  e porgendomi circa sei conchiglie.
«Ma siete bravissime! Ehi, magari domani potremmo fare delle collane o dei bracciali. Quando avevo la vostra età io e la mia… mamma,» faticai nel pronunciare quelle parole, rimasero sospese nell’aria come goccioline d’umidità, «le facevamo sempre. Proprio come questo.» dissi mostrando il braccialetto che da anni portavo al polso.
«Sì!» esultarono loro in coro. Risi di gusto, scuotendo il capo, prima di solleticare i loro fianchi sottili. Le sue bambine risero e si dimenarono come anguille, così presi a farli il solletico, rincorrendole per la spiaggia illuminata dall’ormai calda ed arancione luce del tramonto.
«Ti prendo!» esclamai a Diane, mentre la seguivo. Lei però cambiò subito direzione ed io caddi a terra, inciampando nei miei stessi piedi. Per essere una bambina di soli sei anni, correva… e correva veloce.
«Dave, Dave, Dave, salvami!» disse lei ridendo. A quel nome m’arrestai all’istante guardando il ragazzo che, in piedi, sorrideva, carezzando la testa della sorella che, da dietro la sua schiena, mi guardava ridendo. Col fiatone ed il petto che si muoveva velocemente per il respiro corto, lo guardai in volto, incatenata ai suoi occhi. Mi misi eretta e cercai di assumere un certo contegno, di regolarizzare il mio respiro affannoso.
«Ma Diane,» esordì senza staccare lo sguardo dal mio viso, «non posso salvare una donzella da un’altra donzella.» ridacchiò guardando la sorella. Poi si voltò verso me. «Ciao.» disse, accennando un sorriso.
«Ciao.» risposi ancora col respiro corto. Deglutii e abbassai un attimo lo sguardo, quel che bastava per notare la sabbia che mi ricopriva i jeans scoloriti. Così mi passai le mani sulla stoffa, scrollandomi via la sabbia di dosso.
«Qualcosa mi dice che ti hanno fatta sudare.» disse.
Alzai il capo. «Te lo fa pensare il fiatone o la sabbia?»
«Nah… sesto senso.»
Mio malgrado, anche se non avrei voluto farlo, risi. Mi passai una mano fra i capelli, fermandoli dietro la testa.
David mi guardò con sguardo strano, indecifrabile, e mi pentii di essermi lasciata andare a quel momento di piccola, folle ilarità.
Volgendo lo sguardo dietro di lui, mi accorsi che Cathy non c’era più.
«Dov’è?» chiesi corrugando la fronte.
«Chi?»
«Tua madre.» risposi come fosse la cosa più ovvia del mondo.
«Oh. E’ andata a farsi una doccia prima di cenare.»
Annuii col capo. «Allora io vado.» dissi  portandomi una ciocca di capelli dietro un orecchio.
«No, Lily!» esclamarono in coro Diane e Cassie.
Sorrisi, abbassandomi sulle ginocchia. Le due bambine si avvicinarono. «Orami il sole è tramontato e fra poco sarà buio. Ma domani, vi prometto che faremo i braccialetti, okay? Costi quel che costi! Anche se per farli dovessi circumnavigare il globo!» dissi scompigliando i capelli di entrambe. Risero.
«Ciao!» dissero prima di baciarmi su una guancia e correre verso casa. Le osservai correre, sorridendo più a me stessa che a loro. Era da tanto che non ero così… me stessa. E ne fui sorpresa. Con i bambini non si poteva fingere, con i bambini si ritornava a quello stato di natura. all’essenza chi eri prima di cambiare.
Mi alzi e posai il mio sguardo su David. «Credo tu le abbia incantate.» sorrise.
«Lo credo anch’io.», abbozzai un sorriso e mi diressi verso le scarpe che avevo lasciato a qualche metro di distanza, insieme al libro.
«Torni?» chiese, ed alzò la voce di un’ottava affinché sentissi.
Annuii col capo.
«Vuoi che ti accompagni?» disse e probabilmente lo fece per semplice cortesia. Nonostante tutto ne rimasi sorpresa e disorientata.
«No… ehm… non ce n’è bisogno. So badare a me stessa.» risposi raccogliendo le mie cose e guardandolo.
«Non lo metto in dubbio, ma essere cortesi non ha mai ucciso nessuno.», fece spallucce.
«Sì, forse.» mormorai.
«Sicura di non voler compagnia? Non mi costa nulla.»
«Come ho già detto, so badare a me stessa e non mi serve una scorta per fare un centinaio di metri.» sbottai, irritata.
Lui alzò gli occhi al cielo e scrollò le spalle. «Come vuoi.»
«Certo.» sibilai prima di voltarmi e dirigermi verso casa, con lo sguardo di David sulla mia schina.

 

*

Ringraziamenti.

sbrodolina:
ciao! Beh, come si fa a non amare Sparks? In parte è anche lui la mia ispirazione *-*  Davvero hai chiuso un suo libro per leggere il mio aggiornamento? Oddio, quando ho letto al tua recensione ho cominciato a gongolare! Dio, non sai che piacere mi abbia fatto! Sono contenta ti piacciono Lilian e David *-*  spero di non averti annoiata questo capitolo. Grazie, grazi di cuore per la recensione. Davvero. A presto, cara!
KeLsey: ciao, Eri! Cavolo, sai quanto conta il tuo parere per me… soprattutto in questa storia! Non puoi dirmi certe cose… io mi sciolgo per davvero! Eh, sì, la quarta figura è Lily… ma lo sapevi già XD Ho sempre paura di deluderti, non prendermi per scema, non ci posso far nulla! >.< Il parere di Erica, è il parere di Erica! Grazie come sempre per le bellissime parole. Ti voglio bene, piccola. E grazie davvero di tutto. <3
Nessie93: ciao, Chià! Visto? Aggiornata anche questa! Dai, dillo che non te l’aspettavi. Okay, la smetto di perdermi in stupide ciarle. Ecco, ci hai preso. I due non possono conversare subito amabilmente XD Spero ti sia piaciuto questo capitolo. Lo spero con tutto il cuore… e conoscendoti, forse ci ho preso! Grazie, come sempre, per la splendida recensione, tesoro. Ti voglio bene.
Piccola Ketty: ed ora, veniamo a noi, mia adorata. Ma per te… sono tutte signore storie? ._. no, perché in tal caso è grave, eh. XD  Tu sei di parte, signorina… e, diciamocelo, i semi di papavero non aiutano di certo. Ad ooooooogni modo, torniamo a questa specie di storia. Oh *-* non puoi scrivermi certe cose! Io poi mi imbarazzo e divento rossa –dillo che lo fai di proposito. Sì, devo dire che scrivere questa storia… come per quella di Helen e Selene, mi crea… un po’ di difficoltà… okay, quella di Helen di meno, ma comunque sono… particolarmente importanti per me. Sapere che ti piacciono… cavolo, mi rendono felicissima! Non hai idea quanto! No, forse lo sai XD Ti voglio bene, Kate. Davvero, credimi. Grazie per avermi sopportato durante il mese di giugno. Sei il mio angelo *-* <3
N a k i r i: ciao! *-* quando ho letto la tua recensione mi sono sciolta, sai? Mi ha fatto un piacere enorme leggerla! Sono contenta ti piaccia David. E’ una ragazzo segnato dall’abbandono del padre, che ama la sorella e la mamma. E’ stato cresciuto da lei con determinati valori e non può fregarsene di tutto. E Lily… sono contenta ti piaccia. Descrivere i sentimenti di entrambi mi costa una certa fatica… più delle altre storie, devo ammettere. Esame della maturità? Io ho dato l’orale martedì XD A presto! Grazie mille per la recensione!
mary whitloch: ciao! Che piacere leggere una tua recensione anche qui! Sì, David è tremendamente dolce e maturo, con la testa sulle spalle. E gentile… credo XD Ad ogni modo, eh già, la quarta figura era Lily che… finalmente, per un po’, è stata se stessa. Spero di non averti annoiata con questo capitolo. A presto, cara! E grazie, grazie mille!
uley: ciao! *-*  Guarda, sul rapporto fra i due ho… un po’ di difficoltà. Non vanno propriamente d’accordo, ma non si odiano. E’ complicato ed io, in ogni storia, vado sempre ad impelagarmi con qualcosa. Sono pessima XD Comunque, ho finito l’esame, ho sistemato delle cose… ed eccomi qui con un nuovo capitolo. Ce l’ho fatta finalmente. Spero che questo capitolo sia stato di tuo gradimento, cara! Grazie mille per la splendida recensione, davvero. A presto!


A voi, con immenso affetto,
                                          Panda.

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Capitolo 12
*** Capitolo dodici: Lilian. ***


 

 

 

 

 

~Sometimes you have to be apart from people you love,
but that doesn't mean you love them any less.
Sometimes it makes you love them even more.~
When my world is falling apart, 
when there is no light to break up the dark 
that's when I look at you.
When the waves are flooding the shore and I 
can't find my way home anymore 
that's when I look at you.


 

 

Capitolo dodici.
Lilian.




Aprii la porta del retro, sbattendola. Entrai in cucina dando un’occhiata all’orologio. Le sette passate.
«Magnifico.» borbottai fra me.
Mia nonna, intenta a preparare la cena, sobbalzò, portandosi una mano sul petto.
«Lily, mi hai fatto prendere un colpo!» disse chiudendo un attimo gli occhi.
Non risposi, mi limitai a prendere un bicchiere d’acqua e berlo d’un sorso. Poi mi diressi verso le scale, desiderosa di fare una doccia ed eliminare la sabbia che, inopportuna, si era infilata ovunque.
«Fra un po’ sarà pronta la cena.» disse.
«Non ho fame.» mentii, e sperai che, in quel momento, il mio stomaco non mi tradisse.
Non riuscii a sentire ciò che la nonna disse. Ignorando il saluto di mio padre salii in camera per poi chiudermi in bagno.
Con l’acqua calda che mi scorreva sulla pelle, a mente lucida e sgombra ripensai al tempo passato in spiaggia, alla serenità inaspettata che quelle due bambine mi avevano fatto provare e alla promessa fatta. Mantenevo sempre le mie promesse, era una cosa che mi aveva lei.

«Allora, andiamo?» chiese Amanda entrando nella camera di Lily.
«Dove?» chiese la bambina di soli cinque anni che, in quel momento, stava giocando sul pavimento in legno chiaro.
«Sulla Statua della Libertà. Avevo promesso che ti ci avrei portato oggi. Ricordi?» disse entrando e sedendosi accanto alla figlia.
«Che bello!» esclamò scattando in piedi e gettandole le braccia al collo.
Amanda rise sommessamente, stringendo la figlia per i piccoli fianchi stretti.
«Mantengo sempre le promesse, Lilian. Tesoro,» disse allontanandola da sé e costringendola a guardarla negli occhi, prendendole il viso fra le mani, «se fai una promessa devi mantenerla sempre, ricordalo. Sempre. A qualsiasi, costo… e se non ci riesci, non importa. L’importante è che tu faccia del tuo meglio per mantenere la parola data.»
Forse Lily era troppo piccola per capire… oppure no.


Non versai lacrime, ricordando il suo viso. Mi sentivo svuotata, stanca. Avrei voluto piangere, ma non ne avevo la forza, devastata dal ricordo del suo dolce sorriso e del suo bellissimo viso.
Faceva ancora male, terribilmente male. Avrebbe sempre fatto male.
Uscita dalla doccia mi vesti velocemente e sciolsi i capelli, raccolti in una coda affinché non si bagnassero.
Indossai una maglia a maniche lunghe e jeans scuri, poi, con la felpa sulla spalla scesi velocemente le scale. Senza proferire parola mi diressi verso la porta.
«Dove vai?» chiese mio padre che dalla cucina si dirigeva in salotto.
«Esco.»
«Da sola?»
«No.» dissi fermandomi e guardandolo con espressione dura.
«Nuove amicizie?»
«Sì.»
«Affidabili?»
«Dio, papà, la vuoi piantare!» sbottai con voce tagliente. «So badare a me stessa.» ringhiai e voltandomi uscii, sbattendo la porta.
Mio padre uscii in veranda, pregandomi di fare attenzione e di rincasare ad un orario consono, poiché, l’indomani, ci sarebbe stata scuola.
Non risposi, come sempre; lo ignorai.


Passando per il centro della cittadina mi diressi verso il molo in cui Sam mi aveva dato appuntamento. Ero in orario e camminando lungo il pontile, potei chiaramente scorgere tre figure poggiate alla ringhiera di legno scuro. Infilandomi le mani nelle tasche dei jeans e abbassando appena lo sguardo li raggiunsi.
«Lily!» esclamò Sam alzando una mano. Gli altri due mi salutarono con un cenno del capo.
«Aaron nutriva seri dubbi circa il tuo arrivo.» disse voltandosi a guardare l’amico. Solo allora notai il loro abbigliamento. Anonime maglie nere, anonimi pantaloni neri. Ripensai alla mia indecisione prima di uscire, davanti l’armadio. Verde o nero. Scelsi il verde. Ironia della sorte.
«Perché?» chiesi corrugando la fronte.
«Non sembravi tanto entusiasta all’idea di uscire.» rispose lui sedendosi sul cornicione. Il solo guardarlo mi provocò vertigini.
«Non credi sia sconveniente star seduto così?» chiesi senza pensarci.
Lui scrollò le spalle. «No.»
James rise.
Mi voltai, fulminandolo. «Perché ridi?» chiesi acida.
«E anche se cadesse? Al massimo si farebbe un bel bagno.» ridacchiò.
Non risposi, lo ignorai e guardai Sam.
«Che programmi avete per stasera?» chiesi.
«Volevamo andare a bere qualcosa in un pub.»
Sentii alle mie spalle due ragazze chiacchierare e ridere. A vederle sembravano avessero la mia età, forse un paio d’anni in più. Castane. Bellissime. Di quelle che non passano mai inosservate. Probabilmente cheerleader.
Mi voltai ed annuii col capo. «Dov’è?»
«A due isolati da qui. Verso Sud. Non puoi non notare l’insegna viola.»
«Magari vi raggiungo. Vado a mangiare qualcosa.» dissi dondolando sui talloni.
«Non ti perderai?» mi prese in giro Aaron.
Mi voltai a guardarlo seria. «Conosco questo posto come le mie tasche. Ci ho passato l’infanzia. Ogni estate.»
Sam s’accigliò. «Sul serio?»
«Sul serio.» risposi facendo spallucce.
«Non ti ho mai vista. Mi ricorderei di te.»
«Gli ultimi tre anni sono rimasta sempre a New York.»
«Capisco.» annuì piano col capo.
«Allora ci vediamo dopo.» dissi voltandomi per cominciare a camminare, ma qualcosa mi fece bloccare. Fissai i due ragazzi che avanzavano lungo il molo, alti ed atletici. Anche se ad una notevole distanza non potei non riconoscere quel viso. Gli occhi color della notte, i capelli nero corvino e quel singolare neo a sfiorargli il contorno delle labbra. Camminava sicuro di sé e, quando mi notò, sorpreso spalancò gli occhi, che brillavano come stelle nel cielo notturno.
Che strano, pensai.
Sul suo viso comparve un flebile sorriso, un angolo della sua bocca si sollevò verso l’alto, quasi involontariamente.
«Ehi, Lily, aspetta, vengo con te.» disse James. Mi voltai verso di lui, guardandolo senza proferire parola. Lui mi affiancò e mi sentii ancor più minuta, accanto a lui, che probabilmente sfiorava il mento e novanta.  Annuii impercettibilmente e mi voltai, incontrando ancora lo sguardo di David. Le ragazze, dall’altro lato del molo salutarono i due, prima di avvicinarsi. David le ignorò, a differenza dell’amico che s’illumino d’un sorriso. Poi scostò lo sguardo da me a James e sembrò irrigidirsi, prima di tornare a guardare me, con espressione indecifrabile.
Sbattei confusa le palpebre, prendendo a camminare. «Ciao.» dissi alzando la mano e abbozzando un sorriso, che sembrò coglierlo di sorpresa.
«Ciao.» mormorò lui, senza staccare gli occhi dai miei. «A quanto pare non ti spiace lasciarti scortare.» disse con acidità nella voce calda. Quella frase, pronunciata con sgarbo, colse di sorpresa non solo l’amico e le due ragazza, ma anche Sam, Aaron e James.
Mi accigliai. «Non ti riguarda e non dovrebbe importarti.» sibilai. Lui non rispose, si limitò a guardarmi negli occhi con sguardo duro. Sbuffai e, scuotendo il capo, presi a camminare lungo il molo, seguita da James.

Sì, in realtà mi era difficile capire che tipo fosse David Smith. Dovetti ammettere che, da un lato m’incuriosiva capire cosa gli frullasse per la testa, dall’altro, invece, mi innervosiva. Il perché, in realtà, non lo sapevo. Forse era la sua sincerità, o lo screzio circa il banco a scuola, o la battuta che poco di poco prima. O quel suo voler apparire a tutti i costi carino e simpatico. A passo pesante e veloce, irritata, mi diressi verso il chiosco più vicino.
«Quanta fretta.» osservò sbuffando James.
«Ho fame.» sbottai, mettendomi in fila per un hot dog. Incrociai le braccia al petto, dondolando sui talloni.
«Come mai conosci quell’idiota di Smith?» chiese James.
Mi voltai appena per poterlo guardare in viso. «Stesso corso d’inglese.» risposi.
James sbuffò. «E magari anche tu sei suscettibile al suo fascino.» sputò. Era ovvio che ci fosse astio fra i due. James non era certo il genere di ragazzo bello e dannato. Era carino, sì, ma vi era una differenza abissale fra i due.
«No.» risposi e mi parve quasi di mentire a me stessa.
«Meglio.», mi sorrise. Mi voltai per ordinare il mio hot dog. Meditai un attimo sulle parole di James e per qualche assurdo motivo, nonostante, avessi voluto tornare da David e dirgliene quattro, sentii l’impeto di difenderlo. La compagnia di James –in quel momento troppo vicino per i miei gusti- cominciava ad innervosirmi e mettermi a disagio. Specialmente il suo fissarmi senza proferire parola o sorridermi cordialmente; così lo liquidai, dicendo che avevo dimenticato qualcosa a casa e che li avrei raggiunti al pub. Sentii l’urgenza di starmene da sola, come se non fossi più abituata alla compagnia delle persone, almeno per non più di un certo numero di ore. E poi non avevo voglia di tornare al molo. Dal chiosco potevo ben distinguere il gruppetto che i quattro aveva formato. David.
James annuì e si diresse verso il molo, mentre io presi a camminare lungo la spiaggia gustandomi da sola il mio hot dog.


«Io vado.» dissi alzandomi dalla sedia.
«Dove?» mi chiese Aaron poggiando sul tavolo il suo boccale di birra.
«A casa.»
«Di già?» s’accigliò James.
«Perché?», corrugò la fronte Sam.
Mi mossi nervosa sul posto. Tutte quelle domande mi irritavano. «A casa. Sono stanca.»
«Ma non hai preso nulla.» osservò Sam.
«Lo so. Non ne avevo voglia.» risposi scrollando le spalle.
«Ci vediamo domani a scuola.» dissi accennando un sorriso e salutando James e Aaron che risposero con un cenno della testa. Sul viso di James mi parve di intravedere una nota di delusione. Perché?
«Okay.» mi sorrise Sam. « A domani. E vedi di non perderti.» scherzò.
Sorrisi e feci spallucce. «Farò del mio meglio.»
Mi strizzò un occhio e girai i tacchi per poi uscire dal locale. L’aria frizzante della sera mi pizzicò la pelle del viso e mi fece rabbrividire, tanto che fui costretta ad infilarmi la felpa. Mi guardai intorno. Non avevo voglia di passare per il centro della città, così decisi di ritornare a casa dalla spiaggia.
Il vento non era molto forte, ma nemmeno troppo debole. I capelli mi finivano fastidiosamente davanti al viso, così, utilizzando l’elastico che avevo al polso, li fermai in una coda alta. Le onde del mare erano un mormorio di sottofondo nella guazzabuglio dei miei pensieri, rivolti alla mia vita lì.
Avevo sempre amato l’oceano, quella piccola cittadina, la sabbia chiara ed il vento che ti sferza sul viso. Ed, in quel momento, l’amore ed il piacere di una passeggiata sulla spiaggia era tornato, rendendomi, per attimi inaspettati, quasi felice di essere lì. In fondo, anche se non volevo ammetterlo, né a mio padre, né ai miei nonni,  ma soprattutto a me stessa, avevo sempre ritenuto quel posto casa mia. Ed era così, in fondo. Gli ultimi due anni era stati duri, molto duri, ed ancora faticavo ad accettare l’idea che lei non ci fosse più. Senza lei… nessun posto valeva la pena d’esser chiamato casa. Perché era lei casa mia. E quella minuscola cittadina era casa sua. Il mio posto, semplicemente, era dov’era lei.
Lottai contro me stessa e la voglia di piangere, di prendere il primo autobus e fuggire lontano.
Sospirai, passandomi una mano sul viso, per poi soffermarmi a giocare con una ciocca ribelle di capelli, ma qualcosa mi costrinse a fermarmi, facendomi rabbrividire.
Forse ero paranoia, o semplicemente era la luce argentea della luna a rendere, in quell’istante, tutto così spettrale. Mi voltai di scatto, tremante, come se qualcuno mi stesse seguendo, ma nell’oscurità non riuscii a vedere nulla, se non dune di sabbia. Fui pervasa da un’orribile sensazione e lo stomaco mi si strinse in una morsa, dandomi la nausea.
«C’è qualcuno?» chiesi istintivamente, sicura di aver sentito dei passi poco prima. Nessuno rispose. Sentii la paura crescere, forse irrazionalmente. «C’è qualcuno?» gridai ancora cercando di mantenere la voce ferma e sicura. Nessuno rispose. Poi, qualcosa si mosse nell’oscurità e, senza pensarci, senza guardare con attenzione cosa fosse il realtà, corsi. Correvo lungo la battigia. All’inizio non guardai indietro, correvo nell’oscurità della sera e mi maledì per aver scelto di tornare lungo la spiaggia desolata, poi mi voltai per guardare se qualcuno mi inseguiva, cercando di scorgere movimenti strani nell’oscurità. Con la coda dell’occhio notai una duna, che superai con facilità, senza però accorgermi di chi vi era dietro. Mi voltai e solo allora mi accorsi della figura che immobile, mi fissava. Il cuore mi saltò in gola.



*

Salve gente! Eccomi qui… ancora. Mi scuso per il tremendo ritardo, ma senza l’ispirazione è difficile andare avanti. Ad ogni modo, sono qui.
Purtroppo non ho il tempo necessario per rispondere alle recensione che, voi angeli, mi avete lasciato nello scorso capitolo. Perciò ringrazio di cuore:
bibii,
uley,
Nessie93,
C r i s,
mary whitlock,
N a k i r i,
Piccola Ketty <3
con la promessa di rifarmi nel prossimo aggiornamento.

Ancora grazie.

Un abbraccio va alla mia Cip che nonostante tutto mi segue *-*

E ad Eri… che mi manca tanto.



Un bacio, Panda.

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Capitolo 13
*** Capitolo tredici: David. ***


 

 

 

~Sometimes you have to be apart from people you love,
but that doesn't mean you love them any less.
Sometimes it makes you love them even more.~
When my world is falling apart, 
when there is no light to break up the dark 
that's when I look at you.
When the waves are flooding the shore and I 
can't find my way home anymore 
that's when I look at you.

 

 

 

 

Capitolo tredici.
David.


Non riuscii subito a distinguere i tratti del suo viso. Con la fonte corrugata e l’espressione concentrata cercai di mettere ben a fuoco quel viso a poca distanza. Quando capii chi fosse, m’accigliai, sorpreso. Notai, in quel momento, la sua espressione. Era come se... fosse impaurita, disorientata, sentimenti che però lasciarono spazio, in pochi istanti, alla sorpresa e, ci avrei scommesso, alla tranquillità. Le sue spalle si muovevano velocemente ed il suo respiro affannoso era udibile sopra il mormorio delle onde. Aveva corso? Perché? L’idea che l’avesse fatto per raggiungermi mi sfiorò la mente, ma ricordai la traccia di terrore sul suo viso e quel pensiero scivolò via, come portato via dal vento.
Inclinai il capo di lato. «Lily?»
Lei sospirò. «Ciao.» disse, respirando col naso, cercando di regolarizzare il suo respiro troppo veloce.
«Tutto okay?» chiesi corrugando la fronte. «Stavi correndo?»
Non rispose subito. Per alcuni secondi rimase a guardarmi negli occhi, prima di voltarsi un attimo indietro.
«Qualcuno t’insegue?» chiesi alzandomi sulle punte dei piedi e cercando di scorgere qualcuno dietro la duna, con grande insuccesso.
«No… avevo solo voglia di correre un po’.» disse tornado a guardarmi.
«Non scapperesti mai. Sei in grado di badare a te stessa.» dissi annuendo piano col capo, ricordando con un impeto d’irritazione James.
Lei sbuffò. «Sì, e allora? Cosa c’è di strano a voler correre di sera sulla spiaggia? E’ molto liberatorio.» disse riprendendo a camminare e superandomi.
«Non ci credo neanche un po’.», sorrisi voltandomi e seguendola.
«Come vuoi.» rispose facendo spallucce, con tono tranquillo e sereno. «Mi stai seguendo?» chiese voltandosi verso me. Illuminata dalla luce argentea della luna era ancor più bella di quanto ricordassi.
Feci un risolino. «Si da il caso che abiti a poca distanza da casa tua.»
«Dettagli.» rispose portandosi una ciocca di capelli dietro un orecchio.
Per il resto del tempo nessuno dei due parlò ed io non feci ulteriori domande sul perché stava correndo e sul perché era così terrorizzata. Avrei voluto, ma ero sicuro che non avrei ottenuto risposte e che, certamente, lei non ne voleva parlare. Così rimasi ad ascoltare il mormorio del mare e il suo respiro oramai regolare. Un silenzio che sembrò non pesare a nessuno dei due, ma, certamente, non potevo saperlo con certezza.
«Mia sorella ha parlato di te per tutta la sera.» dissi. A destra v’era casa mia, ma non mi fermai. Desideravo riaccompagnarla. Non solo perché ricordavo l’espressione impaurita sul suo viso, ma perché, per qualche motivo, desideravo ancora la sua compagnia. Anche se eravamo stati in silenzio per gran parte del tragitto, la sua presenza era per me fonte di piacere.
La guardai sorridere e chinare appena il capo. «Davvero?» chiese voltandosi e guardandomi negli occhi. Fui sorpreso dall’ingenuità del suo sguardo, dalla sincerità e dalla gioia che guizzarono nei suoi occhi chiari.
«Sì.» mormorai sorridendo. «L’hai parecchio colpita e non vede l’ora che sia domani.»
Represse una risata. «Mantengo sempre le mie promesse.» disse rivolgendo lo sguardo sul mare dove il riflesso della luna giocava con le increspature dell’acqua.
«E’ lodevole.»
«Mi è stato insegnato così.» disse facendo spallucce e giocando con una ciocca di capelli .
«Perciò… l’accompagno da te?» chiesi, quasi titubante.
Lei aprì la bocca per parlare, ma la richiuse immediatamente.  Sembrò meditare sulle mie parole. «Se non è un problema vengo io.» rispose infine.
A quelle parole provai un impeto di gioia che soffocai prim’ancora che mi tradisse.
«Tranquillo, se ci sarai tu in casa non sarò d’intralcio.» aggiunse con voce dura, tagliente.
Scossi il capo. «Non è un problema.»
Ad un tratto lei sgranò gli occhi, per poi sbattere ripetutamente la palpebre confusa. «Se questa è casa mia… vuol dire che tu hai superato la tua.» disse fermandosi. Si voltò a guardarmi.
Mi finsi sorpreso. «Oh, hai ragione. Non me n’ero reso conto.» mentii.
Lei alzò un sopracciglio. «Certo.»
Risi. Sì, senza dubbio era meglio tacere, non dirle che in realtà avevo ben visto casa mia, ma desideravo troppo la sua compagnia per rientrare, e che non me la sentivo di lasciarla andare da sola nel buio della notte. Ero sicuro che, dietro quella facciata dura, impertinente e sicura, fosse fragile come cristallo.
«Ci si vede a scuola, David.» ghignò. In quel momento non capii cosa vi avesse celato dietro. Solo col senno di poi capii perché. In quel momento mi limitai a corrugare al fronte.
«Sì. Buona notte, Lily.» dissi prima di sorriderle. «E’ stato un piacere.»
Lei alzò un pollice verso l’alto, senza proferire parola mentre rientrava in casa, dandomi le spalle.
Scossi il capo, prima di girare i tacchi e ritornare verso casa.


Il sole  inondava la stanza e filtrava attraverso la tenda azzurra che mia madre aveva scelto con tanta accuratezza. Mugugnai prima di infilare la testa sotto il cuscino. Stavo scivolando nuovamente nel mondo dei sogni, quando la radiosveglia cominciò a suonare, fastidiosamente. Allungai una mano sul comodino, tastando il legno chiaro fino a trovare l’oggetto che spensi all’istante. Liberandomi dal groviglio di lenzuola, nella quale le mie gambe erano avvolte, mi misi a sedere.  Mi passai le mani sul viso, sbadigliando. Dire che il sole sul viso, appena svegliato, era la cosa più bella al mondo, era un eufemismo. Come consuetudine, mi alzai dal letto e mi diressi verso la finestra, scostando la tenda, quasi a voler farmi del male, cercando il sole. Sbattei più volte le palpebre facendomi ombra sugli occhi, con una mano. Per quanto odiassi essere… accecato da sole al mattino, amavo ancor di più guardare il mare, guardare l’immensa distesa d’acqua che mi si stagliava davanti, l’unico posto dove potevo essere davvero libero, me stesso. Sospirai prima di recuperare la mia roba e dirigermi in bagno.
Dopo aver fatto colazione, baciai mia madre sulla guancia ed aiutai Diane ad infilarsi la giacca. Quel giorno l’avrei accompagnata io a scuola.
«Dave?» chiese una volta salita in auto, al posto del passeggero.
«Dimmi.» risposi dopo essere entrato in auto.
«Perché devo andare a scuola?»
Risi. «Beh, è un dovere a cui dobbiamo adempiere.»
«Uhm… capisco…» mormorò fissando il parabrezza, mentre la macchina si muoveva. «Ma, Dave… che significa adempire?» chiesi poi voltandosi verso me.
Repressi una risata, scompigliandole i capelli. «Significa che è un tuo dovere andare a scuola. Ma è soprattutto un tuo diritto.»
Diane annuì col capo. «Lily!» urlò d’un tratto.
Confuso, con la fronte corrugata mi guardai un attimo intorno, rallentando. E poi la vidi. Camminava con le mani affondate nelle tasche della felpa, forse troppo larga, lo sguardo fisso sul marciapiede. Sorrisi e fu involontario. Rallentai sino ad accostarmi al ciglio della strada e abbassai il finestrino.
«Lily!» gridò entusiasta Diane. Lei saltò udendo la voce squillante di mia sorella e si voltò appena, come se non avesse notato la macchina rallentare dietro di sé. Quando incontrò il volto di Diane i suoi occhi fu come se si illuminassero, come se divenissero d’un tratto più chiari e limpidi di quanto già erano, poi quando il suo viso incontrò il mio il sorriso cominciò a spegnersi. Per un attimo provai un impeto di rabbia, che andò spegnendosi quando abbozzò un timido sorriso.
«Ciao, Diane!» esclamò. «Ciao, David.» aggiunse alzando una mano.
«Vai a scuola?» le chiese mia sorella, sporgendosi dal finestrino, quasi strozzandosi con la cintura di sicurezza.
Lily rise. «In verità pensavo di fuggire in Africa per fare un saluto alla giraffe, ma, ahimè, mi hai trovata. Perciò credo andrò a scuola.» disse facendo spallucce.
«No, no! Se vuoi andare dalle giraffe vai! Io non lo dirò al tuo papà.» ridacchiò. «Lo so che in realtà vai a scuola!» esclamò. «Non sono così sciocca. Sono grande oramai.»
«Oh, non lo metto in dubbio.»
«Oserei troppo chiedendoti di salire?» chiesi infine sporgendomi verso il finestrino per poterla guardare meglio in volto.
Non rispose. Rimase a guardarmi negli occhi con espressione imperscrutabile. Sembrava combattuta sul da farsi.
«Frequentiamo la stessa scuola, Lily.» aggiunsi, cercando di convincerla.
«Sì! Dai, Lily!» esultò mia sorella e, in quel momento, fui grata a quello scricciolo che, giorno e notte, mi teneva occupato.
Lily si morse l’interno della guancia, prima di sospirare e sorridere. «Va bene. Mi hai convinta.» disse in un risolino, prima di accomodarsi sui sedili anteriori. Il suono della sua risata era rilassante e gioioso. Raramente l’avevo sentita ridere e, dovetti ammettere senza tanto rammarico, che era contagiosa, cristallina, di quelle che ti strappano sempre –e comunque- un sorriso.
Spinsi con piede sull’acceleratore, immergendomi nel poco traffico mattutino. Diane si voltò verso Lily, inginocchiandosi.
«Ehi, signorina, attenta.» dissi rivolgendole una fugace occhiata, ma lei m’ignorò.
«Tu e Dave andata a scuola insieme?» chiese, poi si voltò verso me. «Perché non me l’hai detto?»
Feci spallucce. «Perché non me l’hai chiesto.»
Diane sbuffò. «Oggi facciamo le collane?» chiese esultante alla ragazza che, dai sedili posteriori, le rivolse un tenero sorriso. Fui grato che non si fosse accorta che l’osservavo dallo specchietto retrovisore.
«Ti ho dato la mia parola, ricordi?»
«Anche Dave lo dice sempre. Dice che le promesse si devono sempre mantenere. Solo che io delle volte non lo faccio.»
Alzai lo sguardo sullo specchietto ed incontrai il suo. I suoi occhi erano pieni di sorpresa, spalancati.
«Davvero?» chiese con una traccia di… gioia nella voce chiara.
Feci un sorriso sghembo. «Sì.»
Lei distolse lo sguardo e lo chinò, per poi scuotere impercettibilmente il capo e sorridere a se stessa. Aprii la bocca per replicare ma Diane mi batté sul tempo.
«Vieni a casa mia?» chiese.
«Sì, certo che sì.»
Sorrisi, felice di poter udire il suono della sua voce e di potermi giovare, come la sera precedente della sua compagnia, soprattutto perché sapevo cosa sarebbe successo l’attimo dopo.
«Ehi, Diane, siamo arrivati a scuola.» dissi parcheggiando sul ciglio della strada.
«Uffa. Non voglio andarci.» borbottò incrociando le braccia al petto.
Lily rise, ancora. Mi voltai a guardarla.
«Sai, Diane, anche io vorrei non andare, ma non ho scelta.», si sporse fra i due sedili anteriori e il suo profumo m’invase i polmoni. Sapeva di albicocca.«E poi pensa, se vai a scuola il tempo passerà e arriverà il pomeriggio. E che faremo questo pomeriggio?» chiese mentre i capelli le sfioravano il viso sottile.
«Le collane.» mugugnò. «Va bene, ci vado.» sbuffò alla fine prima di aprire la portiera.
«Aspetta, scricciolo, ti accompagno!» esclamai sganciandomi al cintura di sicurezza. Diane si voltò.
«Dave, non ho quattro anni. Ci so arrivare da sole alla fine del vialetto.» disse roteando gli occhi.
Mi accigliai e spalancai la bocca, scioccato. «Non è possibile.» mormorai.
Lily mi batte la mano sulla spalla in segno di conforto. «Crescono.», e fece spallucce.
Mi voltai verso di lei, sorridendo. «Perché non passi avanti?» chiesi.
Lei arricciò le labbra ed io alzai un sopracciglio. Per alcuni attimi rimanessimo l’uno negli occhi dell’altra –cosa che, in fin dei conti, non mi dispiaceva-, poi sbuffò e scese dall’auto per passare al posto del passeggero.
«Così direi che è molto meglio.» dissi prima di ripartire. Durante i minuti successivi nessuno dei due parlò, esattamente come la sera prima e, anche questa volta, il silenzio non pesò. La sua presenza, per qualche oscuro motivo, era… rilassante. Non seppi descriverlo in altro modo.
«Non hai paura che la tua ragazza si ingelosisca?» chiese d’un tratto con tono duro. Mi voltai di scatto verso lei, che fissava il parabrezza con espressione seria.
«Come, scusa?» domandai incredulo. Lei si voltò, puntandomi gli occhi chiari nei miei.
«Sì, la ragazza castana di eri.» disse come fosse la cosa più ovvia del mondo.
Sgranai gli occhi. «Entrambe le ragazze erano castane.» dissi.
«Beh, una delle due.»
«Nessuna delle due è la mia ragazza.» risposi con una smorfia.
«Ah.», e si voltò verso il finestrino.
«Ah?»
Mi guardò come venissi da un altro pianeta. «Sospettavo che fossi un po’ fuori… dal mondo, ma non fino a questo punto.»
Scoppiai a ridere.
«Cosa c’è da ridere?» chiese incrociando le braccia al petto.
«Non sei la prima che me lo dice.», le sorrisi.
«Ecco, visto? Qualcosa vorrà pur dire.» disse scrollando le spalle.
«Me lo ha detto mia madre.»
«Ancor più grave!» esclamò voltandosi appena col busto.
«In senso affettivo. Perché sono il figlio ideale.» , mi voltai a guardarla, con espressione di sfida.
Aprì la bocca per replicare, ma la richiuse subito.
Sorrisi, trionfante, mentre entravo nel parcheggio della scuola.
«Due a uno per me.» dissi ammiccando, mentre entravo nel parcheggio della scuola e prendevo posto.
Lily si voltò e corrugò la fronte, poi ghignò. «Fossi in te, aspetterei.» disse.
Sbattei le palpebre, confuso. «Che intendi dire?»
«Ciò che detto.» rispose facendo spallucce. Aprì la portiera dell’auto e uscì, dirigendosi verso la scuola. Scesi dalla macchina e dopo averla chiusa, ignorando gli sguardi curiosi degli altri studenti, la inseguii.
«Ehi, ehi, aspetta!» esclamai.
«Ci vediamo, David.» rispose lei voltandosi e salutandomi con la mano.
Rimasi fermo, lì, interdetto, cercando di dare un senso alle sue parole. Prima che Logan mi travolgesse dicendo: «Tu non la stavi inseguendo, vero?»
Solo allora mi accorsi di avere una decina di sguardi fissi su di me.

 

*

Eccomi qui, ancora.
Purtroppo non posso ringraziarvi a modo, non come vorrei. Oggi niente facoltà e perciò si studia… iuppy.

Perciò grazie mille a:
Nessie93,
bibii,
__Yuki__,
_ether <3 .

Perdonatemi ragazze, vi ringrazierò a modo nel prossimo capitolo, promesso.

 

A voi, un bacio,
                    Panda.

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Capitolo 14
*** Capitolo quattordici: David. ***


 

 

 

~Sometimes you have to be apart from people you love,
but that doesn't mean you love them any less.
Sometimes it makes you love them even more.~
When my world is falling apart, 
when there is no light to break up the dark 
that's when I look at you.
When the waves are flooding the shore and I 
can't find my way home anymore 
that's when I look at you.

 

 

Capitolo quattordici.
David.



Chiusi l’armadietto con forza. «Andiamo, Logan!» esclamai allargando le braccia. «E’ un’amica di famiglia!»
«E posso essere libero di credere che non sia solo questo?»
«Oh, va al diavolo!» sbottai dirigendomi verso l’aula di inglese.
«Sei incredibile.» sospirò affiancandomi, e quasi dovette correre per tenere il mio passo.
«Anche tu.»
Scosse il capo. «Dai, cosa ti costa ammetterlo? E poi sono il tuo migliore amico!»
Mi fermai all’istante e mi voltai. «Vuoi piantarla?»
Sbuffò, prima di ruotare su se stesso e guardarmi implorante. «Dai, amico. Ammettilo.»
«La lezione di trigonometria ti ha dato alla testa, eh?»
«E tu non vedi l’ora di fare inglese.»
«Taci, Logan.» dissi prima di entrare in classe. Lui sbuffò, seguendomi.
Sì, non vedevo l’ora, per quanto folle o stupido potesse essere. Non desideravo altro che incontrare i suoi occhi smeraldo ed i dolci suoi lineamenti. Quando varcai la soglia la vidi. Era seduta in prima fila, occupava il banco poco distante dalla cattedra, quello che le avevo affibbiato il giorno prima. Accennai inconsciamente un sorriso e mi diressi verso il mio banco, passandole davanti.
«Lily.» dissi.
«David.» rispose lei poggiandosi allo schienale della sedia ed incrociando le braccia al petto.
Logan scosse il capo ed io sospirai, passandomi una mano sul viso. Quando mi sedetti, vidi Lily alzarsi e dirigersi verso me, con lo zaino in spalla.
«Cosa c’è?» chiesi corrugando la fronte e sporgendomi sul banco.
«Credo proprio che tu debba alzarti, Smith.» disse facendo spallucce, mentre una traccia di malizia le guizzò negli occhi e cercava di reprimere un sorriso.
«Perché?»
«Beh, hai occupato il mio banco.» rispose con innocenza.
«No, quello davanti è il tuo banco, questo è il mio.» risposi annuendo con capo.
Lily inclinò il capo di lato. «Ne sei sicuro?»
«Sì, certo. Guarda qui c’è il mio…» esordii chinandomi per cercare il nome inciso sul banco, ma quando capii fu troppo tardi. In nero, probabilmente con un pennarello indelebile, v’era scritto il suo nome. Scattai diritto puntando i miei occhi sorpresi nei suoi.
Lei sorrideva, trionfante. D’un tratto si voltò ed affinò lo sguardo. «Oh, credo che quello lì sia il tuo. Vedo chiaramente il tuo nome, David.»
Annuii piano col capo, prima di ghignare. «Credo di averti sottovalutata Hemsworth.»
«Sì, lo credo anch’io.» rispose mentre mi alzavo dal banco.
«Lo terrò ben a mente, la prossima volta.»
«Ci sarà una prossima volta?» chiese inarcando un sopracciglio.
Recuperai il mio zaino ed ignorai lo sguardo di alcuni compagni di corso puntati su noi. «Ovvio.»
«Bene. Uno ad uno.» disse e nei suoi occhi colsi traccia di sfida, mista a divertimento e malizia.
Feci un cenno col capo e mi diressi al banco in prima fila, meditando sulla mia vendetta.
Nella mia mente, in sottofondo, l’immagine del suo viso.

 

La campanella suonò e quasi sobbalzai, concentrato sulla lezione d’inglese.
Dopo un attimo di smarrimento mi alzai ed ignorai i ragazzi che si dirigevano fuori la classe, ma non potei ignorare il profumo di vaniglia che Lily lasciò passandomi dinanzi. Alzai di scattò il capo intendo a recuperare il libro di Shakespeare, e varcare la soglia dell’aula in movimenti fluidi.
«Chi l’avrebbe mai detto.» sospirò Logan.
Mi voltai verso lui e corrugai la fronte. «Che intendi dire?»
«Hai trovato pane per i tuoi denti.» spiegò mentre ci dirigevamo fuori dall’aula, diretti in sala mensa.
Risi e scossi il capo. «Forse.»
«Concentrati su Mandy amico, o su Beth. Concentrazione, concentrazione.» esclamò muovendo una mano all’altezza del mio viso.
«Piantala, Logan.» sbuffai salutando con un cenno del capo una ragazza dai capelli color platino che mi sorrise.
«Ecco, magari su lei sì, ma sulla psicotica bionda, no.»
«Lei almeno è un essere autonomo e pensante, Logan. Non voglio una ragazza superficiale come Mandy.» sbottai entrando in sala mensa.
«Quindi ammetti che hai intenzione di provarci.»
Attesi alcuni istanti prima di parlare. «Ancora non lo so.» ammisi infine.
«Uno: avevo ragione. Due: come fai a dire che è un essere pensante?»
Mi voltai e corrugai aggrottai e sopracciglia. «Ti pare un ragazza dal tutto trucco e tacchi a spillo?» chiesi, afferrando un vassoio per il pranzo.
«E’ psicotica.»
«Piantala.» lo ammonì con voce dura e grave.
Logan s’accigliò. «Deve piacerti parecchio per provocare una tale reazione.»
Scossi il capo e mi passai una mano fra i capelli. «Non è come pensi… ho bisogno di capire, Logan. E’ complicato.»
Lui annuì piano col capo e si morse l’interno di una guancia. «Quando avrei fatto”chiarezza” me ne parlerai.»
«Promesso.» sospirai grato che quella conversazione terminasse lì.
Dopo aver preso il pranzo –pizza e patatine fritte- ci dirigemmo al solito tavolo al centro della stanza. Ovviamente non potevano mandare Mandy e Sharon, accompagnate da Miles e Tayler, due giocatori della squadra di football della scuola. Fui sorpreso di trovarli lì, conoscendo i vari soggetti presenti nella scuola, i quattro dovevano avere un appuntamento se i due ragazzi non pranzavano con il resto della loro squadra, come di consueto.
Con lo sguardo, quasi inconsciamente, osservai la grande stanza. I miei occhi vagarono di tavolo in tavolo in cerca di lunghi capelli chiari e grandi occhi verdi, d’un tratto la vidi. Sedeva con Samantha ed Aaron, le gambe strette al petto, mentre si portava distrattamente delle patatine alla bocca con una mano, e con l’altra giocherellava con un vecchio libro, di cui non riuscii a leggerne il nome.
Consumai il mio pranzo lanciando brevi occhiate a Lilian e ascoltando distrattamente la conversazione sull’imminente partita di football della scuola.
«Ehi, Dave, ma che ti succede ultimamente?» mi chiese Mandy.
«Perché?»
Sorrise con dolcezza. «Sei così assente.»
«Dormo poco.»
«Agitato per qualcosa?»
«Non lo so.»
«Capisco. Beh, se hai bisogno di parlare… lo sai, io ci sono.» e della malizia le guizzò negli occhi.
Era incredibile. Nonostante ci fosse lì Miles, continuava a sorridermi e parlarmi allo stesso modo di sempre.
«Non c’è nulla che non vada.»
In quel momento, con la coda dell’occhio, la vidi passare accanto al tavolo vicino al nostro e dirigersi con lo zaino in spalla verso l’uscita, svuotando prima il vassoio.
Senza pensarci due volte, agendo d’istinto, scattai in piedi. «Scusate. Ho dimenticato una cosa in auto.» disse e, ignorando le loro domande, la seguii. Ma, uscito in corridoio, non la vidi. Avanzando con lentezza e guardandomi intorno per cercare di capire dove fosse, la vidi. In cortile camminava con passo svelto. Quasi correndo uscii dalla scuola e seguii anch’io il piccolo vialetto di ghiaia. Quando girai l’angolo della grande struttura, rallentai il passo, notando la sue minuta figura seduta a gambe incrociate sul muretto. Accanto a lei, una bottiglietta di soda. Con i capelli che le ricadevano davanti al viso, leggeva quello stesso libro che, nell’aula mensa, sfogliava distrattamente.
Avanzai verso lei non sapendo con precisione cosa dire, o fare. La ghiaia sotto i miei piedi scricchiolava, ma lei non si voltò. Nel parcheggio ragazzi parlottavano fra loro, seduti sull’erba verde delle aiuole, mentre alcune cheerleader provavano nel campo da football.
Mi sedetti accanto a lei e mi schiarii la voce. Lilian non alzò il capo.
«Ciao.» esordì.
«Cosa ci fai qui?» chiese senza staccare la testa dal libro.
«A dire il vero… non lo so. Credo avessi solo bisogno di prendere un po’ d’aria.» risposi alzando le braccia sopra la testa, stiracchiandomi.
Lei rispose con un grugnito.
«Cosa leggi?» chiesi dopo alcuni attimi di silenzio.
Lei mi mostrò la copertina.
«Il richiamo della foresta. L’ho letto due anni fa.»
«Bene.» mormorò prima di immergersi nella lettura.
Sospirai e mi chinai prendendo della breccia. Cominciai a lanciarla in aria, cercando di colpire il tronco di un albero posto a qualche metro di distanza.
D’un tratto Lily sbuffò. «Sei rumoroso.» disse voltandosi e puntando i suoi occhi verdi nei miei. Alla luce del sole sembravano smeraldi.
«Oh. Ti disturbo?» chiesi con innocenza.
Lei mi fisso e la sua espressione non era amichevole. «Cosa te lo fa pensare?»
«Sesto senso.»
«Certo… sesto senso.» annuì piano col capo. «Sì, ovvio.»
Feci spallucce. «Dote naturale.»
Roteò gli occhi e scosse piano il capo, ma, ci avrei giurato, stava reprimendo un sorriso. 
«Ho visto che hai fatto nuove amicizie.» continuai lanciando sassolini.
«Non sono un’eremita, sai?»
«Mai detto.»
«Ma pensato.»
Mi voltai e la guardai con un sorriso malizioso a colorarmi il viso. «Provamelo.»
Lily si voltò, puntando i suoi cangianti occhi chiari nei miei. Non si mosse, resse lo sguardo fino a sorridere.
«Pallone gonfiato.» disse allontanandosi, cercando di leggere il libro.
«Non mi conosci.» la sfidai.
Non rispose subito. D’un tratto chiuse il libro e si alzò, fronteggiandomi. «Invece sì.»
Corrugai la fronte, confuso.
Lei si portò la mani sulla vita stretta e mi guardò con aria spavalda. «Da piccoli giocavamo nel tuo giardino. O sulla spiaggia.»
«Avevi detto che….»
«Sì, sì, okay, ho mentito.» disse senza darmi il tempo di finire. «Puoi anche non ricordartelo, ma io ti conoscono David Smith.» disse puntandomi un l’indice conto, prima di posarlo con forze, per soli alcuni secondi sul mio petto. Poi si allontanò e fece spallucce.
«Io ricordo.»
S’acciglio, per poi inclinare il capo. «Oh.»
«Eh, cara Lilian.» mormorai alzandomi in piedi.
In quel momento lei s’irrigidii e pensai scioccamente che il motivo fosse legato al mio movimento.
«Lily, prego.»
«Lily.» ripetei avanzando di un passo, mentre lei indietreggiava guardandomi negl’occhi, senza distogliere il suo sguardo da essi. «Da bambina eri l’essere più timido, innocuo e dolce di tutta questa sciocca cittadina. Ed te ne stavi sempre per conto tuo. Dov’è finita ora la tua innocenza?» chiesi alzando un sopracciglio. Il suo viso a poche spanne dal mio.
«Si cresce nella vita, David. Dovresti saperlo.» disse con tono duro.
«Sì, si cresce. Ma quello che ciò che penso è… che… l’essenza delle persone non cambia.»
«Che ne sai della mia… essenza
«Perché i bambini non mentono mai.» mormorai prima di mettermi eretto ed allontanarmi di un paio di passi da lei. Forse era solo la mia immaginazione che giocava brutti scherzi, ma le sue gote parvero intingersi di rosso.
Seria, arricciò le labbra, prima di incrociare le braccia al petto. Non parlò.
Sorrisi e mi voltai a prendere lo zaino. Sopra le nostre teste il cielo tuonò.
«Pioggia in arrivo.» osservai alzando lo sguardo, osservando per poco le nuvole grigio scuro.
Lei schioccò la lingua in segno di disapprovazione, poi sbuffò. «Fantastico.» mormorò più a se stessa che a me.
Sorrisi. «Ci vediamo all’uscita. Ti accompagno a casa.»
«Piuttosto attraverserei un uragano.»
Risi, annuendo col capo. Mi voltai a guardarla, prima di imboccare il vialetto per rientrare nella scuola. «Ci vediamo dopo, Lily.»
«Mai.»
Scossi il capo e sorrisi… soddisfatto.

 

La pioggia ticchettava violenta sul vetro dell’aula di spagnolo. Mi voltai verso la finestra, sorridendo. Sì, inutile dire che ero grato alla pioggia. Ed il motivo era uno. Inspiegabile, irrazionale, folle, assurdo: desideravo la sua compagnia. Non vi erano lugubri fini. Per quanto lei mi odiasse, non potevo non desiderare di guardare i suoi occhi e parlare con lei. Forse perché sembrava diversa dalle ragazze da cui ero circondato, la cui unica preoccupazione era quelle di sapere se lo smalto era intonato al fermacapelli. Lei, che non si preoccupava di apparire perfetta, non le interessava se i capelli erano in ordine o legati perfettamente.
Mi passai una mano fra i capelli, soffermandomi sulla nuca. La campanella suonò e, sorridendo, scattai in piedi, afferrando lo zaino. A passo svelto mi varcai la soglia dell’aula, diretto al mio armadietto, per recuperare il libro di algebra.
«Dave!» sentii Logan gridare il mio nome. Mi voltai e, con la testa, gli feci segno di seguirmi.
Aprii l’armadietto con un scatto veloce del braccio. «Che stai tramando?»
«Non capiresti.» mormorai prendendo il libro e richiudendo l’armadietto.
«Porti a spasso Mandy?»
«Divertente.»
«Porti a spasso Lily.»
«Che bravo, hai imparato il suo nome.» dissi scettico.
«Dai, amico, non fare così. Tanto non deve piacere a me. Ma a te.» aggiunse dopo un attimo di esitazione.
M’accigliai appena. «Non ci credo, Logan sta crescendo.» ironizzai portandomi lo zaino in spalla.
«Ah, ah, ah. Facciamo qualcosa stasera?» chiese poi affiancandomi quando presi a camminare verso l’uscita.
«Cheeseburger e patatine fritte al molo?»
«Ti adoro, amico. Se vuoi, beh… porta anche la tua amica.» disse velocemente.
Risi. «Tranquillo, ti risparmierò l’agonia. E fra me e lei non c’è ciò che credi ci sia. Lei mi odia. E in teoria, anch’io.»
«Oh, sì, certo.»
Risi. «Ci vediamo dopo, Logan.»
Lui alzò gli occhi al soffitto, prima di ruotare su se stesso e dirigersi verso la parte opposta.
Mi diressi verso l’uscita cercando di non urtare nessuno con la spalla. Con lo sguardo la cercai e la vidi. Era in un angolo della piccola scalinata, con le braccia strette al petto mentre dondolava sui talloni.
Sorrisi e mi diressi verso lei, fermandomi a circa un metro di distanza.
«Ciao, Lily.»
«Ciao, David.» grugnì guardando la pioggia scrosciante, e non potei reprimere un sorriso.
«E’ più violenta di quanto pensassi. Sicura di voler andare a piedi?»
Non rispose.
«Potresti aspettare che finisca… ma… a giudicare dai quei nuvoloni grigi, credo ce ne sia ancora per molto.» osservai sporgendomi un attimo in avanti ed osservando il cielo terso.
Lily riprese a dondolare sui talloni, incrociando le braccia al petto. «Potrei.» mugugnò.
«Okay. Allora, ci vediamo domani mattina. Magari potresti trovare un posticino per la notte, lì all’angolo.» dissi.
«Okay, okay! Va bene!» sbottò alzando le mani a mezz’aria, prima di scendere gli scalini e avanzare nel parcheggio a passo svelto. Sorrisi soddisfatto di me stesso e, correndo, la superari aprendo l’auto. Con la fronte corrugata e la felpa bagnata da gocce di pioggia, entrò in auto. Mi passai le mani fra i capelli, liberandoli dell’acqua fredda, mentre lei si sfilò la felpa. L’osservai passarsi una mano fra i lunghi capelli chiari, fino a portarsi una ciocca di essi dietro l’orecchio sinistro. Quando si poggiò allo schienale del sedile, si voltò a guardarmi. Corrugò la fronte e dischiuse le labbra piene e rosee.
«Cosa c’è?» chiese confusa.
Sorrisi e scossi appena il capo, prima di accedente il motore ed uscire dal parcheggio.
«Sei strano. Molto strano.» osservò accendendo l’autoradio e cominciando a cambiare stazioni.
«Ehi, mia automobile, mia musica.»
«Io l’ospite, io decido.» rispose ignorandomi e fissando concentrata la radio.
Alternai lo sguardo da lei alla strada, dalla strada a lei, mentre cercava una canzone orecchiabile. Quando la trovò, dopo attimi che mi parvero infiniti, si poggiò allo schiena e cominciò a portare il ritmo battendo la mano sulla gamba.
Alzai un sopracciglio e, per sfida, cambiai stazione radio. Lily si voltò di scattò, fulminandomi con lo sguardo.
«Ehi!» esclamò sporgendosi per cambiare stazione. «Io ospite, io musica, Smith.»
Non risposi, mi limitai ad abbozzare un sorriso. «Okay.»
Trovata la stessa canzone di poco prima, tornò a guardare oltre il vetro alla sua destra. Colsi l’occasione per cambiare ancora.
Lei si voltò, quasi ringhiando e cercò nuovamente quella canzone. Adempiuto il suo compito, si mise comoda. La canzone terminò.
Di scatto si voltò verso me, girandosi col busto per potermi guardare meglio. «Sei contento, ora?» sbottò puntandomi un dito contro.
Risi. «Un po’. E’ divertente, sai?» chiesi guardandola con la coda dell’occhio.
«Beh, io non mi sto divertendo.»
«Certo, perché sei strana. Molto strana.»
«Ehi, non rubarmi le battute.»
«Chi, io? Non lo farei mai.» dissi voltandomi appena per poterla guardare.
Scosse il capo, prima di sbuffare, poggiarsi allo schienale del sedile ed incrociare le braccia.
«Com’è vivere a New York?» chiesi dopo alcuni attimi di silenzio.
«Come vivere in città.» rispose con astio nella voce. Serio, mi voltai a guardarla.
«Oh, sì, scusa.» continuò, «non puoi saperlo.»
«Perspicace. Allora, com’è?»
«E’… diverso. E’ tutto molto più caotico e frenetico. Le persone non camminano, corrono. Le auto, l’aria pesante… ma, nonostante tutto, è bello. Le luci nel periodo natalizio, gli alberi addobbati, le canzoni…» la sua voce piano andò scemando e chinò il capo, giocando con un lembo della felpa.
«Ti manca, eh?»
«E’… era casa mia. Prova a passare da una città ed una… cittadina, lasciando le amicizie e la casa in cui sei cresciuto e poi fammi sapere.» 
Abbozzai un sorriso. «Giusto». Avrei voluto chiedere altro, ma dal tono della sua voce capii che era meglio tacere. Le mancava, era evidente, e chiederle perché si fossero trasferiti non mi sembrava il caso. Sarebbe stato come buttare sale su ferite.
«Non sembra male.» aggiunsi.
Sorrise, amaramente. «No, non lo è. Qui non c’è nulla. Non ci sono locali, non ci sono concerti.» sbuffò sprofondando nel sedile.
«Ehi! Guarda che ti sento!»
Lei si voltò a guardarmi. «Lo so.»
Scossi il capo. «Qui ci sono locali. E’ solo che tu, la nuova arrivata, non hai ancora avuto occasioni di vederli.»
«Confortante.» disse in tono sarcastico.
«Sei sempre così scontrosa? Non ci credo.»
«Oh, sì, invece. Io sono il male. Credo dovresti arrenderti all’idea.»
«Non ci credo.»
«Non mi conosci.»
Mi piacerebbe farlo, avrei voluto dire, ma non lo feci. «Ti ho vista con mia sorella e Cassie. Non funziona, Lily.»
Si voltò di scatto, fulminandomi con lo sguardo. «Prego?»
«Mi hai sentito.»
«Ripetilo.»
«Mi stai sfidando?»
«Sì.»
«Non metterti contro di me, Lily, perderesti.»
Sgranò gli occhi. «Tu sei matto. Sei un pallone gonfiato, ecco cosa sei. Uno stupido sbruffone che crede di sapere cose molto più grandi di lui.»
Schioccai la lingua. «Attenta, Lily.» mormorai con voce roca.
Lei ringhiò, incrociando poi le braccia al petto e voltandosi verso il finestrino.
Per alcuni istanti rimanemmo in silenzio ed ascoltai a stento la canzone che trasmetteva in quel momento la radio. I miei pensieri erano concentrati su di lei, sui suoi capelli chiari, sugli occhi prato, sulla pelle chiara e setosa, sul suo profumo di vaniglia…
«Perché hai mentito?» chiesi d’un tratto, senza pensarci.
«Riguardo cosa?» chiese corrugando la fronte.
«Il passato.»
Intanto eravamo arrivati davanti casa sua. «Perché?» chiesi fermandomi, ma senza spegnere il motore e voltandomi verso lei.
Lei non si voltò e non rispose subito. Rimase a fissare il vetro, le goccioline che la bagnavano, seguendone la traiettoria con il dito. Poi disse piano, con voce pari ad un sussurro: «Non lo so.» mormorò con voce sottile e bassa. Poi, si voltò a guardarmi e qualcosa nei suoi occhi mi mozzò senza fiato. Rammarico, dolore, allegria, gioia, sentimento, affetto… un mix di emozioni contrastanti, che si abbatterono su di me come un tifone, mi colpirono in pieno viso, schiaffeggiandomi. Per un attimo fu come se abbattesse ogni barriera, come se aprisse il libro della sua anima e dicesse: guardami oltre questo verde vetro, leggimi. Sono qui, aiutami.
«Da chi cerchi di proteggerti?» sussurrai guardandola negli occhi, incapace di muovere un solo muscolo.
Poi lei innalzò ancora quel muro impenetrabile, indistruttibile  i suoi occhi si velarono di malinconia e sfida.
«Da nessuno, David. Da nessuno.» sibilò aprendo la portiera e uscendo sotto la pioggia.
Forse avevo immaginato tutto…
Rimasi, lì, fermo in auto, anche quando lei fu dentro casa.

 

*

Ed eccomi qui, ancora… con un po’ di ritardo. Purtroppo ho avuto molto da studiare e poco tempo a disposizione per scrivere. Ma ora… eccomi da voi.
Ringrazio di cuore chi ha recensito lo scorso capitolo e risponderò certamente alle recensioni… se ci saranno, ovvio.

A voi, un bacio,
                       Panda.

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Capitolo 15
*** Capitolo quindici: Lilian. ***


 

 

~Sometimes you have to be apart from people you love,
but that doesn't mean you love them any less.
Sometimes it makes you love them even more.~
When my world is falling apart, 
when there is no light to break up the dark 
that's when I look at you.
When the waves are flooding the shore and I 
can't find my way home anymore 
that's when I look at you.

 

 

Capitolo quindici.
Lilian.


Scesi dall’auto e lasciai che la pioggia mi bagnasse la felpa, i capelli chiari ed il viso accaldato. Mi diressi verso la veranda, salendo le scale velocemente, quasi saltellando.
Mi morsi il labbro inferiore, nervosa, mentre cercavo le chiavi nello zaino.
Ero nervosa, molto nervosa. La conversazione avuta con David non aveva fatto altro che indispettirmi, perché, forse… aveva ragione. Per alcuni istanti mi ero sentita nuda, disarmata dinanzi ai suoi occhi e alle sue parole. Avevo mollato la presa, creando un varco in quelle mura costruitami tutt’intorno per evitare che gli altri capissero. Gli avevo permesso di leggere la mute parole che il mi cuore gridava invano da tempo, le urla che squarciavano l’aria piatta della mia camera, quel vano grido d’aiuto che desideravo nessuno cogliesse.
Mi madre era morta ed io non potevo essere felice.
Aprii la porta di casa e la sbattei con violenza, poggiandomi poi al vecchio legno e lasciandomi cadere lungo esso, fino a sedermi. Mi portai le ginocchia al petto, poggiandoci poi la fronte.
Un respiro. Due respiri. Tre respiri. Quattro respiri. Cinque, sei, sette…
Lentamente alzai il capo e fissai la scala dinanzi a me. Poggiai la testa alla porta e chiusi gli occhi.
Vorrei averti qui, mamma.

«Un giorno, piccola, capirai cosa vuol dire amare.» mormorò Amanda carezzandole i lunghi capelli chiari.
«Ma, mamma, io voglio capirlo adesso.» disse mentre si alzava per sfilare una VHS dal videoregistratore.
La madre rise. «Devi privarlo per capire.»
«Come farò a capirlo?» chiese Lily sedendosi sul divano accanto a lei.
Amanda l’abbracciò, la strinse a sé, baciandole e carezzandole il capo. «Perché vedrai con l’anima, piccola mia.»

Scossi il capo cercando di scacciare via i ricordi. Irritata da me stessa, dalla mia incapacità di controllarmi, mi alzai e portandomi lo zaino in spalla mi diressi in cucina, dove trovai la nonna intenta a preparare una crostata di mirtilli.
«Ciao.» dissi avvicinandomi al frigorifero. La nonna si voltò e mi sorrise con dolcezza.
«Ciao, Lily.» disse. «Com’è andata a scuola?»
«Bene.» risposi atona. Aprii il frigo e afferrai il cartone di latte, ne versai poi il contenuto in un bicchiere molto capiente. Mi voltai per dirigermi in camera, ma in quel momento mi accorsi che la nonna mi fissava, sospettosa.
«Cosa c’è?» chiesi guardandomi intorno.
«Come fai a non essere bagnata?» chiese.
«Ombrello?» tentai di mentire.
«No, impossibile. Sono nel portaombrelli, tutti. Ho controllato.» rispose accarezzandosi il mento fra indice e pollice.
«Okay.» sbuffai. «Mi ha accompagnata David.» roteai gli occhi e mi diressi verso le scale.
«Lo sapevo!» esclamò seguendomi e puntandomi un dito contro, sorridente.
Sgranai gli occhi, scoccata. «Nonna?»
«E’ così un bravo ragazzo, tesoro.»
«Nonna!» l’ammoni.
«E siete così giovani…» sospirò con occhi scintillanti.
Stupita, incapace di ridere, o di arrabbiarmi, la fissai sconvolta. «Siamo… amici, nonna.» risposi. La parola amici stonava… e molto.
«Oh, amici…» sospirò lei unendo le mani, come per una preghiera, e  svolazzando in cucina.
«Tu sei matta, nonna Marie!» le urlai cominciando a salire le scale e scuotendo il capo.
«Amici!» urlò di rimando lei.
Sbuffai e mi passai una mano fra i capelli. «Ma dove sono finita?» sussurrai a me stessa.
A follilandia, tesoro.

Nelle due ore successive finì il mio saggio di letteratura inglese, mi feci una doccia ed ascoltai un vecchio cd degli Smiths mentre mi asciugavo i capelli, che lasciai sciolti in lunghe onde. Indossai una maglietta a manica lunga e pantaloni scuri, la felpa e, afferrando la borsa, scesi le scale.
«Esci?» chiese la nonna alzando gli occhi dal libro che teneva sulle gambe. Il nonno, che guardava la tv sul divano, voltò il capo.
«Ciao tesoro.» disse sorridendo.
«Ciao, nonno.» risposi alzando una mano, mostrandone il palmo e rimanendo sulla soglia. «Esco. Vado da Diane.» aggiunsi voltandomi e dirigendomi in cucina.
«La figlia di Cathy?» chiese curiosa. «La sorella di David
Poggiai le mani sul bancone della cucina ed inspirai, chiudendo gli occhi. «Sì, nonna.» dissi in uno sbuffo.
Quando alzai il capo, per guardare oltre la finestra sul lavabo, con la coda dell’occhio la vidi poggiata allo stipite della porta e sobbalzai. «Nonna!» esclamai portandomi una mano al petto.
«Scusa, non volevo spaventarti.» disse con fare dolce. «Ti va della crostata di mirtilli?»
M’inumidì le labbra prima di parlare. «Sì.»
Lei annuì, mostrandomi un largo sorriso. La sua crostata di mirtilli era a dir poco meravigliosa. Poggiai la borsa su una sedia e mi riempii un bicchiere di latte. Mi sedetti al tavolo e cominciai a mangiare la fetta di crostata. Osservai la nonna trafficare con la carta d’alluminio.
«Cosa stai facendo?» chiesi poggiano la forchetta sul piatto e portandomi il bicchiere alle labbra.
«Qualche fetta da portare a Cathy.» rispose come fosse la cosa più ovvia del mondo. Sorrisi; la nonna non sarebbe mai cambiata. La mamma aveva preso da lei quell’infinita gentilezza, dolcezza e tenerezza che avevano la capacità stringermi il cuore e farmi sciogliere come neve al sole.
Ed io? Chi ero?
Loro erano pure, genuine, semplici come il pane appena sfornato al mattino.
Lo ero anch’io?
Loro era divertenti, erano belle, erano solari.
Lo ero anch’io?
In quel momento mi resi conto di non sapere chi fossi, chi volevo essere nella vita e cosa ne avrei dovuto fare. Mi sentii persa, un barca alla deriva, sballottata dalla tempesta. Senza il mio porto sicuro, di cui avevo tremendamente bisogno.
Mamma… dove sei…
Deglutii a fatica, passandomi una mano fra i capelli; mi alzai e poggiai il piatto ed il bicchiere nel lavello. La nonna mi porse il contenitore con la crostata, sorridendo.
«Salutala da parte mia.»
Annuii piano col capo, afferrandolo. Presi la borsa e uscii di casa, non prima di aver salutato il nonno.
L’aria fresca mi carezzò il viso in una folata di vento, facendomi oscillare delicatamente i capelli e facendomeli finire davanti agli occhi. Me li scostai dal viso, fermandoli dietro un orecchio.
Sperai di non trovare David. Dopo la conversazione avuta nel pomeriggio, nell’abitacolo della sua auto, non avevo nessuna voglia di incontrarlo, o parlare ancora con lui. Che sciocca, fui. Cercai, con tutta me stessa, di non ammettere che, in realtà, desideravo immergermi nel cielo notturno dei suoi occhi. Irritata dai miei stessi pensieri, da quel lampo di follia che mi scosse per un attimo, presi a mordermi l’interno della guancia, con una smorfia dipinta sul viso.
Quando arrivai davanti a quella semplice villetta bianca, rimasi ferma, all’inizio del vialetto. Osservai le persiane azzurre, la veranda, il verde prato, i fiori. Il vento continuava a scostarmi il capelli, soffiandomeli sul viso.
Dovevo entrare. Non volevo. Volevo.
Scossi il capo. Oh, piantala, Lily, mi ammonii. Percorsi i vialetto, salii le scale scricchiolanti e bussai alla porta. Forse David…
La porta si aprii ed un paio di occhi color della notte mi scrutarono, maliziosi. «Ciao, Lily.» disse cortese.
Mi mossi sul posto, nervosa; lo stomaco annodato. «Ciao, David.» risposi secca.
Per alcuni istanti i suoi occhi indugiarono ne miei, mettendomi a disagio.
Stava ancora tentando di leggermi dentro?
Lui sorrise e si spostò di lato per farmi entrare. Grugnendo varcai la soglia della porta che lui richiuse alle mie spalle. Osservai per un attimo la casa. Era un bell’ambiente. Accogliente e quasi famigliare. Il pavimento era in legno chiaro e porte ed infissi di un tranquillo color panna. Sulla destra vi era la cucina, sulla sinistra il soggiorno e dinanzi a me la scala che portava al primo piano.
«Diane, Cassie è arrivata Lily!» esclamò lui poggiandosi alla ringhiera in legno e guardando su per le scale. Pochi istanti sentirono si risate e schiamazzi.
Non mi voltai a guardarlo; i suoi occhi erano puntati sul mio viso, lo vidi con la coda dell’occhio.
«Lily!» disse in un gridolino Diane saltellando giù dalle scale, seguita da Cassie.
«Ciao!» esclamai io abbassandomi. Le bambine si fermarono di fronte a me e sorrisero. Cassie si portò un dito sul labbro inferiore.
«Come state?» chiesi sorridendo con fare dolce.
«Bene! Sei venuta!» disse Diane battendo le mani.
Risi. «L’avevo promesso!»
Così, mi alzai per sfilarmi la felpa e con la coda dell’occhio osservai David al mio fianco.
«Dai a me.» mormorò con tono indecifrabile. Mi voltai, guardandolo in volto, guardando gli occhi scuri, e gli porsi la felpa. L’appese prima che Diane e Cassie mi trascinassero in cucina. Mi guardai un attimo intorno, osservando la cucina ben ordinata e pulita, il legno chiaro, il barattolo dei biscotti sul tavolo, l’orologio con alcune rose dipinte, i fiori nel vaso sul davanzale della grande finestra, l’odore di cannella che aleggiava nell’aria.
«Dove sono le conchiglie?» chiesi sedendomi su una sedia.
«Lì!» esclamò Diane indicando una mensola delle cucina. Alzai lo sguardo e feci una smorfia di disapprovazione. La mensola era troppo alta per me.
Sospirando mi alzai sulle punte e cercai di afferrare il barattolo, ma una voce irruppe nel silenzio. «Ti aiuto.» disse, calda ed armoniosa. Persi l’equilibrio, quasi fosse stata capace di spintonarmi via con dolcezza; pensai che mi sarei ritrovata sul pavimento, che mi sarei fratturata ironicamente il coccige, ma ciò non accadde. Una mano, delicata si posò sulla mia schiena, impedendomi di cadere sul suolo. Deglutii rumorosamente quando mi voltai a guardarlo e, per qualche inspiegabile ragione, tremai. Sentii il viso avvamparmi di rossore a quell’improvvisa vicinanza, quell’improvvisa invasione del mio spazio vitale. Il suo petto, a poche spanne dal mio viso si muoveva ritmicamente. Il suo profumo mi inondò i polmoni. David alzò un braccio, guardandomi con la coda dell’occhio, ed afferrò il barattolo con le conchiglie, poi incrociò il mio sguardo e fissai i suoi occhi scuri, profondi e scuri come pozzi.
«Grazie.» mormorai. Lui sorrise. «Non c’è di che.»
«Questa è da parte della nonna. Crostata di mirtilli.»
Afferrò il contenitore. «Oh, grazie! E’ un angelo.» rispose prima di allontanarsi ed aprire il frigo.
«Già…» mormorai più a me stessa che a lui.
«Vuoi qualcosa da bere?» chiese mentre stringevo allo stomaco il barattolo e mi accomodavo su una sedia, Diane e Cassie invece mangiucchiavano un biscotto.
«Sì, grazie.» risposi con un filo di voce.
Lui, chino sul frigo, voltò il capo, inclinandolo. «Tutto okay?» chiese corrugando la fronte.
Annuii col capo.
Sorrise. «Ho del thè freddo e del succo di frutta alla mela.»
«Thè.» risposi senza esitazioni. Lui afferrò una brocca ed una contenitore di cartone. Riempii due bicchieri di thè e due di succo di frutta (per Diane e Cassie), prima di riporre tutto al proprio posto.
Ci porse i bicchieri, prima di riporre brocca e cartone in frigo. Mentre mi portavo il bicchiere alle labbra, l’osservai di sottecchi, notai i muscoli affusolati della schiena e dei fianchi. Poi si avvicinò al tavolo, accomodandosi ad una sedia.
«Posso aiutarvi?» chiese rivolgendosi alle bambine e poi guardando me, quasi a cercare il mio permesso.
Le bambine esultarono, io mi limitai ad annuire piano col capo.
«Bene. Spago, nastri e corallini?» chiese poggiando il bicchiere sul tavolo ed alzandosi in piedi.
«Sì. E un paio d’aghi e un accendino.» aggiunsi mentre usciva dalla cucina.
«Vuoi un biscotto, Lily?» chiese Cassie porgendomene uno.
«Sono con pezzi di ciliegie.» aggiunse sorridente Diane.
Gli angoli delle mie labbra si sollevarono verso l’alto. «Certo!» esclamai afferrandolo. Dire che era buono sarebbe un eufemismo.
In quel momento mi accorsi che il mio viso andava in fiamme. I tastai la pelle con il dorso della mano, trovandola tremendamente accaldata. Sbattei le palpebre più volte, confusa da ciò che negli istanti prima era accaduto… e mi rimproverai. Rimproverai quella reazione sciocca e spropositata, così fuori luogo. Ma, per quanto mi sforzassi di cancellare dalla mente il ricordo sei suoi occhi scuri e magnetici, non potei chiedermi se qualcosa non stesse cambiando. La risposta era chiara, eppure io non la vidi.

 

*
Ed eccomi qui… ancora. Questa volta ho impiegato meno tempo.
Beeeeene, anche se ho risposto alle recensioni del capitolo precedente, ci tenevo a ringraziare ancore gli angeli che hanno recensito: Londoner, Nessie93 ed Elly4ever.
Grazie, grazie di cuore.

A presto, Panda.

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Capitolo 16
*** Capitolo sedici: David. ***


 

 

 

~Sometimes you have to be apart from people you love,
but that doesn't mean you love them any less.
Sometimes it makes you love them even more.~
When my world is falling apart, 
when there is no light to break up the dark 
that's when I look at you.
When the waves are flooding the shore and I 
can't find my way home anymore 
that's when I look at you.

 

 

Capitolo sedici.
David.

 

Con il mento poggiato sul palmo della mano, seduto al tavolo della cucina, osservavo Lily creare braccialetti e collane per Cassie e Diane.  Osservavo ciocche di capelli chiari carezzarle il viso, sfiorarle la pelle del collo. Le labbra schiudersi in un dolce e fine sorriso, gli occhi verdi, illuminarsi ogni volta che le bambine ridevano. Ascoltai la sua voce sottile, la sua risata cristallina riempire l’ambiente. Rimasi incantato da Lily, senza ombra di dubbio. Dal suo modo di parlare, di sorridere, di parlare, così diverso da quello che avevo conosciuto nei gironi di scuola. Lì, con Diane e Cassie, sembrava essere un’altra, smettendo probabilmente di fingersi ciò che non era, abbandonando l’aria fredda e gelida di cui si circondava. Era calorosa, era solare, era allegra, dolce, nel porsi con le due bambine, nel parlare con me, nel guardarmi con gentilezza, cosa che forse non era mai avvenuta, salvo una o due volte.
La sua risata, mi riposto alla realtà. Sorridendo, mi allungai sulla sedia, poggiandomi allo schienale.
Lei alzò il capo guardandomi con occhi sinceri. «Potresti anche aiutarci.» disse in un risolino.
«Nah, preferisco guardare.» risposi sorridente senza staccare i miei occhi dai suoi. Lei scosse il capo, prima di rivolgersi ancora a Cassie. Non cercò di mascherare. In quel momento era ciò voleva essere, era chi era. Lilian Hemsworth.

Cathy verso del thè caldo nella tazza di Amanda. Erano sedute sulla veranda, mentre l’aria frizzante del primo autunno li pungeva la pelle del viso.
David si avvicinò alle due donne correndo, il berretto gli ricadeva sugli occhi. Cathy rise e baciandogli la punta del naso, glielo sistemò, prima di esortarlo ad andare a giocare in giardino con Lily.
Ma le parole che David avrebbe ricordato per sempre, con estrema chiarezza, erano quelle di Amanda.
La donna gli sorride col dolcezza, con amore negli occhi azzurri, vivi e devoti. «Con i bambini non puoi fingere. Sarai sempre ciò che sei.»

L’immagine di Amanda non era nitida, era confusa, come se osservassi il suo viso attraverso della fitta nebbia, ma potei rivedere i suoi lineamenti delicati sul viso di Lily.
Accennai, involontariamente, un sorriso che a lei non sfuggì. Alzò il capo, guardandomi negli occhi. M’immersi nel mare verdeazzurro delle sue iridi, chiedendomi cosa stesse pensando in quel momento, cosa provasse, a che ritmo batteva il suo cuore. I suoi occhi indugiarono nei miei, limpidi ma impenetrabili allo stesso tempo. Per la prima volta, inspiegabilmente, le sue difese parvero crollare, prima che fossero erette ancora. Piano abbandonava quell’aria gelida che non le si addiceva affatto.
«Ne vuoi anche tu uno?» chiese con un sorriso sghembo. «Se li faccio per loro, non posso non farlo anche a te.» continuò.
Scossi piano il capo, ridacchiando. «Mi stai dando del bambino?»
«Forse.» disse in un risolino prendendo delle conchiglie.
«Sì, certo che ne voglio uno anch’io.» dissi fingendomi offeso per la domanda rivoltami.
«Cordoncino rosa?»
«Amo il rosa, ma desidero il nero.»
Lei fece spallucce, rivolgendomi una fugace occhiata divertita, prima di afferrare il cordoncino.
«Devi scegliere una conchiglia.» disse, permettendomi ancora una volta di osservare i suoi occhi chiari.
«Uhm…», esaminai le conchiglie sparse sul tavolo, dalle mille forse, dai mille colori. Ne scelsi una, bianca, piccola, con striature azzurre.
«Questa.» dissi porgendogliela. La mia mano sfiorò la sua, lei la ritrasse immediatamente.
Osservò la consiglia con espressione indecifrabile.
«Non ti piace?» chiesi corrugando la fronte. Lo dissi senza pensarci. Volevo sapere a cosa pensava, poiché i suoi occhi era impenetrabili.
Un angolo delle sue labbra si sollevò verso l’alto, poi poggiò la conchiglia sul tavolo e si scoprì il polso. Legato ad esso vi era un braccialetto in cuoio con una piccola conchiglia ciondolante.
Sgranai gli occhi e la osservai dondolare, identica a quella che avevo scelto poco prima.
«Oh.» mormorai incapace di aggiungere altro.
Lei sorrise, abbassando poi lo sguardo. Prese due cordoncini neri ed uno verde, poi cominciò ad intrecciarli.
Poggiai il mento sul palmo della mia mano e la osservai armeggiare. Quando, con la coda dell’occhio, si rese conto del mio sguardo fisso su di lei, alzò il capo, inclinandolo.
«Il verde è il mio colore preferito.» mormorò sorridendo appena.
Involontariamente un angolo della mia bocca si sollevò verso l’alto, in un sorriso sghembo. «Anche il mio.»
«Bugiardo.» disse in un risolino, scuotendo il capo.
La guardai, finemente indignato, rivolgendomi poi a Diane. «Qual è il mio colore preferito, Diane?»
Lei alzò il capo dal piccolo mucchietto di conchiglie. «Il verde.»
Lily alzò il capo, poggiando lo sguardo sul mio viso. «Okay, d’accordo.» sbuffò prima di continuare ad intrecciare i cordoncini.
«Lily, possiamo usare anche i corallini? Mamma me li ha regalati per Natale!» esclamò Diane richiamando l’attenzione su di lei.
«Certo! Verrebbero braccialetti meravigliosi!» esclamò, sorridendo con dolcezza.
Mia sorella scattò in piedi. «Vieni con me, Cassie!» esclamò prendendo per mano l’amica e trascinandola per le scale.
Con lo sguardo ritornai sul suo viso, sugli occhi verdi illuminati dalla luce crepuscolare e dalla lampada accanto alla finestra. La osservai per attimi che parvero eterni e mi chiesi a cosa stesse pensando, cosa le frullasse per la testa. Si portò una ciocca di capelli chiari dietro un orecchio e si passò la punta della lingua sulle labbra.
«Sei per caso uno di quei ragazzi che, credendosi il sesso forte, pensa di essere esonerato da qualsiasi tipo di lavoro che non comprenda un’alta percentuale di virilità?» chiese con l’ombra di un sorriso sul viso.
«Beh, sì… in effetti cucinare, fare shopping con la sorellina, stirare e fare il bucato è davvero da uomo macho.» risposi poggiandomi nuovamente allo schienale della sedia ed incrociando le braccia, senza smettere di sorridere.
«Touchè.», schioccò la lingua, poi alzò il capo, puntando i suoi occhi nei miei. Il suo petto era immobile, poi prese a muoversi con più velocità. Inclinai il capo, corrugando la fronte. Che avesse trattenuto il respiro?
Subito chinò il capo e le sue ciglia fecero da sipario. Non potei non sorridere del sangue fluitole nelle gote.
«Po-posso aver un bi-bicchiere di plastica?» chiese.
«Di plastica?» chiesi confuso.
«D’acqua!» esclamò con enfasi alzando lo sguardo sul mio viso. Aveva gli occhi sgranati, gli occhi lucidi e le guance appena arrossate. Quell’immagine, ancora oggi, è impressa nella mia mente, come marchiata a fuoco. Il suo viso, sincero ed imbarazzato, così sottile e dai tratti infantili, mi strinse il cuore per la dolcezza. Sarei rimasto ore a guardare i suoi occhi limpidi le sue labbra piene appena dischiuse. In quel momento, la sua anima nuda davanti i miei occhi, mi mostrò quanto bella lei fosse e quanto fosse bugiarda. La finta corazza si sgretolò ed ebbi l’ennesima conferma che Lilian Hemsworth non era affatto come voleva far credere che fosse.
«Io… mi… sono confusa.» mugugnò corrugando la fronte e coprendosi il viso con le mani.
Sorrisi con dolcezza e sentii l’irrazionale ed improvviso impulso di scostarle le mani dal viso.
Senza smettere di sorridere poggiai le mani sul tavolo e, facendo perno, mi alzai per dirigermi in frigo. Riempii un bicchiere d’acqua fresca e quando mi voltai Lily abbassò immediatamente lo sguardo. Corrugai confuso la fronte.
«Pensavo ad altro.» disse con un filo di voce.
«Di cosa parli?» chiesi reprimendo un sorriso.
Un angolo della sua bocca si sollevò piano verso l’alto, in un sorriso timido che le colorò il viso. 
Il sole oramai era tramontato e voltando il capo verso sinistra potevo ammirare il cielo azzurro con spruzzi rosei. Mi resi conto che di lì a poco sarebbe arrivata mia madre.
Schioccai la lingua.
«Cosa c’è?» mi chiese Lily alzando lo sguardo su di me.
«La cena.»
«Si è fatto tardi.» rispose lei con voce indecifrabile, scattando i piedi e facendo strisciare la sedia.
«Oh, no, no, resta!» esclami alzando le mani e allungandole verso lei. «Devo solo cuocere un po’ di carne.» mi affrettai a dire.
I suoi occhi indugiarono imperscrutabili nei miei e, per alcuni attimi, rimase immobile dinanzi a me, poi chinò piano il capo e si sedette.
«Puoi fermarti per cena, se vuoi.» dissi aprendo il frigo.
«No, non mi sembra il caso.» rispose dopo alcuni attimi, senza guardarmi.
«Sicura?» chiesi sperando invano che cambiasse idea. «Non disturbi.»
«La nonna ha già preparato la cena.» rispose guardandomi e abboccando il sorriso. Questo atteggiamento pacifico e gentile, quella che doveva essere la vera Lily, mi fece fremere dall’eccitazione e sperai che alzasse il capo dalle conchiglie e esclamasse: “Ehi, resto!”, ma ovviamente ciò non accadde.
 «Okay.» mormorai prendendo quattro bistecche. «Sicura?» chiesi nuovamente voltandosi.
Lei rise, prima di mordersi un attimo e tornare seria, come se si fosse lasciata scappare quel momento di ilarità. «Sì, sicura.» disse con l’ombra di un sorriso sulle labbra piene e rosee.
Feci spallucce e la vidi reprimere un sorriso.
Pochi istanti dopo, con la forza di un tornado entrarono in cucina Cassie e Diane, che agitava il sacchetto di corallini in aria.
«Gli ho trovati, gli ho trovati!» urlò saltellando.
Mentre prendevo una padella da un pensile, volsi la testa per gaurdarle. Lily sorrise con dolcezza, mentre gli occhi le brillavano sotto la luce fioca della lampada. «Sono meravigliosi!» esclamò entusiasta, quasi quanto le due bambine che presero posto.
«Guarda, possiamo usare questi turchesi.» disse Lily esaminando i corallini e accostandole ad una grande conchiglia rosa.
Mentre mettevo a cuocere la carne e tagliavo i pomodori le osservavo. Osservai il modo in cui lei sorrideva, in cui si rivolgeva alle bambine, la dolcezza e la tenerezza dei suoi sorrisi, sinceri e contagiosa. Al centro c’era lei, bella e radiosa come il sole a mezzogiorno. Poi si alzò e posizionandosi dietro le bambine, legò le collane ai loro piccoli colli, lasciando ricadere i ciondoli di conchiglia sui loro petti. Alzò il capo ed incontro i miei occhi. Per alcuni istanti la sua espressione mi fu imperscrutabile, poi sorrise flebilmente e mormorò: «Finito. Qui c’è il tuo bracciale.»
Fece penzolare l’oggetto.
Un angolo della mia bocca di sollevò verso l’alto. L’ascia i mestolo per l’insalata ed alzai il braccio, tendendolo verso lei.
Abbassando lo sguardo si diresse verso me, poi lo alzò sul mio viso, rivelandomi occhi verde smeraldo. Sorrise.
«Così va bene? Troppo stretto?» chiese alzando ancora lo sguardo su di me, questa volta senza distoglierlo.
Scossi il capo, incapace di proferire parola, mentre le sue dita sottili legavano il braccialetto al mio polso, mentre la sua pelle chiara e vellutata sfiorava la mia, con gesti naturali e delicati, tanto leggeri da sembrare petali di rosa su acqua fresca.
«Ecco.»
Le sua dita scivolarono sotto il mio palmo, mentre i suoi occhi, così chiari da apparire cristallo, trasparente e fragile, ma così impenetrabili da sembrare una foresta immersa nel buio, brulicante di vita, vite ed esistenze che non vedi, ma di cui ne avverti inevitabilmente la presenza.
«E’ bellissimo.» dissi con vice calda. «Grazie.» sorrisi.
Lei fece spallucce. «Fare braccialetti e collane per i bambini è un nobile gesto, non credi?»
Schioccai la lingua, annuendo piano col capo.
«Tre a uno per me, David.» sorrise inclinando il capo di lato e facendo un passo indietro.
«Comincio a perdere colpi.» sospirai riducendo gli occhi a due fessure.
Sorrise, ma ero certo che la sua voleva essere una smorfia. Per interminabili secondo i suoi occhi rimasero fissi nei miei, ed osservai la fioca luce della lampada riflettersi nelle verdi iridi.
«Ora è meglio che vada.» mormorò, sbattendo un paio di volte le palpebre, come a riprendersi da un momento di trans.
«D’accordo.» risposi a malincuore.
«Te ne vai?» chiese Diane avvicinandosi.
«Di già?» continuò Cassie.
Lily rise, carezzando i capelli delle bambine. Poi si abbassò sulle ginocchia e parlò piano, con estrema dolcezza.
«Possiamo continuare domani, se vi va. Possiamo preparare i pancakes.»
Non potei guardare l’espressione del suo viso, poiché era di spalle.
Diane e Cassie la salutarono, abbracciandola. Poi corsero su per le scale, dirette in camera di Diane.
«Ti accompagno alla porta.» dissi facendole segno col capo di seguirmi.
«Verrai domani, quindi?» chiesi porgendole la giacca.
Fece un cenno col capo. «Per Diane e Cassie.»
«Sì, per Diane Cassie.» ripetei guardandola negli occhi.
«Alle cinque?»
«Alle cinque.»
«Allora ci si vede, David.»
«Allora di si vede, Lily.» ripetei con l’ombra di un sorriso. Quella prospettiva non mi dispiaceva affatto.
«Puoi smetterla di ripetere tutto ciò che dico?» chiese corrugando la fronte e voltandosi per aprire la porta.
«Potrei.»
«Certo, certo.» sbuffò scendendo gli scalini e imboccando il vialetto. Affondò le mani nella tasche della giacca.
«Sì, Lily, passa una buona serata anche tu!» esclami alzando la voce di un’ottava affinché mi sentisse.
Alzò una mano in segno di saluto e uscì dal cancelletto in legno, girando verso sinistra e dirigendosi verso casa.
Una cosa era certa:ero attratto da lei più di quanto credessi possibile.



*

Eccomi qui. Capitolo non molto lungo che spero comunque vi piaccia.
Ringrazio di cuore coloro che hanno recensito lo scorso capitolo e, come al solito, risponderò di volta in volta… sempre che ce ne siano.
J

Un bacio,
            Panda.

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Capitolo 17
*** Capitolo diciassette: Lilian. ***


 

 

 

~Sometimes you have to be apart from people you love,
but that doesn't mean you love them any less.
Sometimes it makes you love them even more.~
When my world is falling apart, 
when there is no light to break up the dark 
that's when I look at you.
When the waves are flooding the shore and I 
can't find my way home anymore 
that's when I look at you.

 

 

 

Capitolo diciassette.
Lilian.


Con le mani affondate nella tasche della giacca mi diressi verso casa.
Nella mia mente i pensieri vorticavano frenetici, giravano in mulinelli, come foglie autunnali carezzate dal vento. Immagini si susseguivano sulla palpebra del mio occhio, ogni qual volta le sbattevo. Vedevo conchiglie, Diane, Cassie… David. La sua immagine non faceva che mettermi in agitazione e, per quanto odiai doverlo ammettere, mi intimoriva.
Paura. Ma paura di cosa? Di sbagliare ancora? Di lasciarmi andare? Dimostrare che mio padre aveva ragione, che avrei accettato tutto questo e continuato una vita che non mi apparteneva? Ma, forse, era proprio questo il punto: il mio orgoglio. Quel maledettissimo orgoglio ereditato da mio padre. E in quel momento l’unica cosa che avrei davvero voluto scoprire era: che ruolo avesse David.
Per qualche inspiegabile motivo, la sua compagnia non mi era dispiaciuta. Per qualche assurdo motivo, in quella cucina, l’uno di fronte all’altra, legati da un cordoncino ed una conchiglia avevo la sensazione di conoscerlo da anni… anche se, in effetti, in parte era così. Tutto era diventato facile. La sua pelle calda sotto le mie dita, i suoi occhi sinceri e gentili, il suo sorriso cordiale. E l’irritazione, l’antipatia erano svaniti, come non ci fossero mai stati. E, per questo, ne ero terrorizzata.
Accettare tutto, a che costo? A che prezzo?
Scossi il capo, cercando di cancellare i numerosi pensieri e alzai gli occhi al cielo, alle nuvole azzurre e grigie, desiderosa di sgombrare la mente… ma non ci riuscii.
Sbuffai, irritata da me stessa, e, scuotendo il capo, mi morsi il labbro inferiore chiedendomi cosa sarebbe accaduto il girono seguente. Cosa sarebbe accaduto a scuola, cosa sarebbe accaduto a casa di David, come si sarebbe comportato lui, Diane.
Basta!, mi rimproverai.
Salii le scale della veranda e le assi del pavimento scricchiolarono sotto il mio passo leggero. Girai la maniglia ed entrai, sfilandomi la giacca e poggiandola sul mobile a sinistra.
«Lily?»
«Sì, nonna, sono io.» risposi dirigendomi in cucina. Sbirciai in salotto, non c’era nessuno.
«Il nonno e papà?» chiesi poggiandomi allo stipite della porta ed incrociando le braccia al petto.
«Sono passati al supermarket.» rispose sorridendo. Indicò la ciotola che teneva stretta fra le braccia. «Vuoi assaggiare?»
Corrugai la fronte e mi sporsi appena in avanti. «Cos’è?»
«Pastella al cioccolato.»
Mi morsi il labbro inferiore e mi avvicinai cautamente, con lo sguardo della nonna fisso sul mio viso. Esitai prima di affondare l’indice nella pastella e portarmelo alla bocca. Chiusi gli occhi, gustandone il sapore.
«Ti piace?» chiese in un risolino.
Aprii di scatto gli occhi ed esclamai: «Sì!» poi affondai ancora il dito nella pastella e mi nonna mi diede un buffetto sul dorso della mano.
«Fila via, signorina!» ridacchiò prendendo una teglia.
Risi, sedendomi sul piano della cucina. Mia nonna, che reggeva la ciotola con un braccio, si voltò e guardarmi con espressione sorpresa.
«Cosa c’è?» chiesi confusa.
I suoi occhi scrutarono per attimi interminabili i miei, poi sorrise scosse piano il capo.
«Nulla.»
Sospirai. «Avanti, parla.»
Scosse il capo.
«Dai.»
Lei si voltò e rispose, titubante. «Sembri felice.»
Quelle parole mi travolsero e mi sentii in colpa. Lei non aveva colpe. Lei non era responsabile di nulla. Le avevo fatto del male, l’avevo ferita.
E, d’un tratto, non potei non chiedermi chi stessi diventando. E il ricordo di mia madre mi colpii in pieno viso, mozzandomi il respiro e lacerandomi il cuore. Lei non avrebbe mai voluto che mi comportassi così, non avrebbe mai voluto vedermi in quello stato, non avrebbe mai voluto che mi… facessi del male.
Feci una smorfia di dolore, piegandomi su me stessa, poggiandomi una mano sul ventre.
La nonna lasciò la ciotola e si avvicinò preoccupata.
«Lily, cosa succede?» mormorò spaventata, carezzandomi il capelli.
Alzai il capo e guardai i suoi occhi, così simili a quelli della mamma, così simili ai miei.
Sentii le lacrime pungermi gli occhi e dovetti sbattere più volte le palpebre per cacciarle via.
«Lily…» gemette la nonna.
Perdonami, mamma.
«Ti voglio bene, nonna.» mormorai, lasciandola senza fiato.

L’acqua calda mi accarezzò il corpo, mi distese i nervi, mi abbracciò e mi tenne stretta per attimi interminabili. Mi massaggiò e mi distese i muscoli. Mi poggiai al muro, lasciandomi cadere fino a toccare il piano in ceramica. Strinsi al petto le ginocchia e lascia andare indietro la testa, poggiandola al muro.
Mi sentivo confusa, stralunata. I ricordi del pomeriggio sembravano appartenere ad una vita passata, ad un girono lontano. In quel momento tutto mi parve irreale, e mi chiesi se fosse davvero accaduto. A darmene conferma fu il battito del mio cuore, troppo veloce.
Sospirai e mi misi in piedi, liberando i capelli dagli ultimi residui di balsamo.
Chiusi il rubinetto e coprendomi con un accappatoio uscii dal bagno, ma prima di dirigermi in camera, mi avvicinai alla finestra nel corridoio, quella che dava sul mare ed osservai l’andirivieni delle onde, il loro accarezzare la sabbia, il loro essere assorbite dalla sabbia, troppo gelosa per lasciarle andare via. Poggiando i polpastrelli sul vetro freddo, osservai le prime gocce di pioggia infrangersi con delicatezza contro esso ed il cielo tuonò in lontananza. Mi chiesi cosa stesse facendo David… cercai di eliminare il suo pensiero dalla testa e, scuotendola, mi diressi in camera, chiudendomi la porta alle spalle.
Inserii nello stereo un vecchio CD di Frank Sinatra e mi stesi sul letto, lasciandomi cadere con un tonfo sordo.
«Cosa ti prende?» mormorai prendendomi il viso fra le mani. «Cosa?»
Con movimento meccanici, persa con la mente nell’oceano, pensando a quanto i delfini fossero mammiferi straordinari, mi vestii, indossando una vecchia tuta grigia e mi asciugai i capelli.
Afferrai il libro di biologia e scesi le scale, lentamente.
«Ciao, tesoro.» disse mio padre, alzando gli occhi dalla sua agenda.
«Ciao, Lily.» mi sorrise mio nonno, distogliendo lo sguardo dalla TV.
Alzai una mano a mo’ di saluto e accennai un sorriso. «Ciao, papà. Ciao, nonno.» poi mi diressi in cucina, dove trovai la nonna indaffarata ad apparecchiare.
«Lascia che ti aiuti.» mormorai lasciando il libro su una sedia e sorridendo flebilmente.
«Grazie, cara.» mormorò baciandomi il capo.
Così afferrai i piatti e le posate. Apparecchiamo insieme, in religioso silenzio, un silenzio che però non era opprimente, ma naturale come l’acqua che scorre in montagna. Non mi sentivo in dovere di parlare dopo ciò che era successo nel pomeriggio, anzi, era come se mi fossi in parte liberata di un peso invisibile, di cui ne ignoravo l’esistenza e la natura.
Cenammo ed, io, mi limitai ad ascoltare mio nonno organizzare con mio padre la prossima mattinata dedicata alla pesca, sorridendo di tanto in tanto.
«Perché non vieni anche tu, Marie?» chiese il nonno.
Lei scosse il capo. «Devo andare in parrocchia sabato mattina.»
«Oh, giusto, giusto.» annuì piano lui.
Mi portai alle labbra un pezzo di torta al cioccolato.
«E tu, Lily? Perché non vieni? Sono certo che a tuo padre farebbe piacere.»
Mi bloccai, con il braccio a mezz’aria. Poggiai la forchetta nel piatto.
Mi morsi il labbro inferiore, abbassando lo sguardo sul piatto. «Non lo so.» mormorai, ignorando la risposta celata nel mio cuore.
Mio nonno schiocco la lingua, per poi ridacchiare. «Le donne. Sempre così indaffarate.»
«Il mondo gira intorno a noi, caro.» sorrise la nonna, carezzandomi il dorso della mano. Quella scena carica d’amore mi lasciò interdetta e mi intenerì.
Finimmo di cenare e mio padre aiutò la nonna a sparecchiare. Io indossai una giacca pesante e, afferrando il mio libro di biologia, uscii in veranda, sperando di riuscire a studiare qualcosa.
L’aria frizzante mi colpii in pieno viso, così chiusi gli occhi e, lì, in piedi, con il libro stretto fra le braccia, inspirai profondamente, assaporando quasi sulla lingua il sapore dell’acqua salata.
Mi sedetti sul dondolo, appeso al soffitto, nella parte destra della veranda. Mi portai le gambe al petto, coprendole con la coperta in lana che la nonna aveva portato quel pomeriggio, aprii il libro e cominciai a leggere. Senza accorgermi di Morfeo che piano aveva cominciato a salire le scale della veranda.

Quando mi svegliai, in un primo momento, non avevo idea di dove fossi. In un paio di secondi misi a fuoco e mi resi conto di essere in camera mia, sotto la trapunta blu.
Sbattei più volte le palpebre, mentre mi mettevo a sedere.
Fuori il sole non era ancora sorto, ma, sì, l’alba era imminente. Guardai la radiosveglia: segnava le sei del mattino.
Mi passai una mano sul viso, prima di sospirare e prendermi il capo fra le mani. La radiosveglia sarebbe suonata venti minuti dopo e di certo rimettersi a dormire avrebbe significato non risvegliarsi più. Così, presi la decisione più folle… e scesi dal letto. Mi resi conto di indossare i calzini, ma non avevo idea di come fossi finita nel mio letto. Non ricordavo cosa avessi fatto la sera precedente.
Mi sedetti sul bordo del letto, poggiando i piedi sul legno fresco. E piano ricordai tutto. Dovevo essermi addormentata in veranda e mio padre mi aveva sicuramente portata in camera, del resto era l’unico a poterlo fare. Quel pensiero mi strinse il cuore e per qualche irrazionale motivo mi si inumidirono gli occhi di lacrime. Ricacciandole indietro mi alzai in piedi e indossando le pantofole scesi in cucina, nella casa silenziosa. Il rumore dei miei passi era l’unico udibile, insieme a stridio dei gabbiani proveniente dall’esterno. Mi strinsi nella felpa della tuta e preparai il caffè. Mi imburrai, inoltre, un paio di fette di pane.
L’odore del caffè nero inondò la cucina, così, dopo essermene versata un po’ in una tazza, uscii in veranda e mi sedetti sui gradini. Osservando il mare, i gabbiani rincorrersi sulla sabbia, le canne ondeggiare al vento freddo del primo mattino, consumai la mia colazione.  In quel momento, mentre bevevo la mio ultimo sorso di caffè, scorsi una figura oltre le dune ed il mio cuore parve bloccarsi per la paura. Trattenni il respiro.
Era un uomo. Un ragazzo. Aveva i capelli scuri. Stava facendo jogging. Voltò il capo. Era David.
Sgranai sorpresa gli occhi e solo quando la testa prese a girarmi mi resi conto di trattenere ancora il respiro. Lui rallentò fino a fermarsi in corrispondenza di casa mia. Per diversi secondi, i suoi occhi rimasero nei miei, e non mossi un solo muscolo, incapace di farlo. Indossava una felpa nera e dei pantaloni di tuta grigio scuro.
Ed ora?, mi chiesi.
Piano lui si avvicinò, camminando sulla sabbia asciutta.
All’istante mi resi conto di non essere passata in bagno prima di scendere. Mi chiesi che aspetto avessi e in che condizioni fossero i miei capelli. Ci mancava solo lui che scherzava sul mio aspetto al mattino. Sospirai piano, rassegnata.
Mi passai velocemente una mano fra i capelli ondulati, cercando di dargli un ordine.
«Buongiorno.» disse in un sorriso. Aveva il fiatone per la corsa.
«Buongiorno.» risposi con un filo di voce. «Non sapevo facessi jogging.»
«Ogni Lunedì ed ogni Giovedì.» disse. Vedendo che non parlavo, continuò. «E tu? Come mai in piedi?» chiese poggiandosi con una mano alla ringhiera in legno.
«Mi sono svegliata presto.» risposi con voce piatta. Mi alzai e mi voltai, dirigendomi verso la porta. Ma prima che potessi aprirla chiusi gli occhi, chiedendomi che stessi facendo. Così, mi voltai, e lui era ancora lì, confuso.
«Ho fatto il caffè. Ne vuoi un po’?» chiesi, quasi lottando contro l’irrazionale desiderio di risponderli con sarcasmo.
Sorrise. «Sì, grazie.»
Gli feci cenno col capo di seguirmi dentro e lui obbedii. Rivolta verso la cucina, dandogli la spalle, lo sentii chiudere la porta e accomodarsi ad una sedia. Gli riempii in caffè in una tazza e ne versai un altro po’ nel mio. Mi sedetti al tavolo, di fronte a lui.
«I tuoi capelli sono così ogni mattino?»
Sbuffai. «Sto cercando di essere gentile. Non farmene pentire, Smith.»
Rise, sommessamente. «D’accordo, Hemsworth.»
La casa era immersa nel silenzio e, dalla finestra della cucina, era visibile il sole che pian piano faceva capolino dall’orizzonte, gettando fioca luce nella cucina.
David si portò la tazza alle labbra, bevendo una lunga sorsata di caffè. «E’ persino più buono del mio.» parlò.
«Oh, modesto.» risposi alzando un sopracciglio e portandomi le ginocchia al petto, poggiando i piedi sulla sedia.
Sorrise, bevendone ancora.
«E così fai jogging? Ti tieni in forma per la miriade di spasimanti –sicuramente dotate di infinita intelligenza?» domandai con sarcasmo.
«Dio, sei sempre così antipatica?» chiese stizzito. «Comunque no. Lo faccio solo perché è liberatorio. E fa bene alla salute. Dovresti farlo anche tu.» annuii.
«Passo. Non fa per me.»
«Giusto. Tu non fai ciò che fa la gente comune, vero?»
«Attento a ciò di dici, Smith.» ringhiai.
Lui alzò una mano in segno di resa. «Scherzavo.»
«Sei impossibile.» ringhiai.
Per alcuni istanti nessuno dei due parlò. Così mi alzai diretta al lavandino, dove vi poggiai la tazza ormai vuota.
La sua voce ruppe il silenzio. «Mi spieghi una cosa, Lily?» mi voltai e, solo allora, mi resi conto di quanto mi fosse vicino. Distanziava di appena un mentreo da me.
«Come mai,» esordì posando la tazza nel lavabo,«mi hai fatto entrare se ti sono così antipatico?» chiese con voce calda e bassa. I suoi occhi, resi neri dalla poca luce, mi scrutarono con attenzione, forse in attesa di una risposta che non arrivò.
Il mio respirò accelerò.
Lui sorrise e schiocco la lingua, poi indietreggiò piano fino alla porta. «Ci vediamo più tardi, Lily.»
Uscii dalla cucina, riprendendo a correre sulla spiaggia. Seguii con lo sguardo la sua figura, l’osservai allontanarsi velocemente, rimanendo lì, immobile, senza parole.
Perché?, mi domandai.
Non seppi darmi risposta, ma, in realtà l’avevo solo ignorata.

 

 

*

Eccomi qui, finalmente.
Mi scuso per il ritardo (ancora una volta), ma è difficile scrivere al momento. Il prossimo capitolo è quasi pronto, quindi, nei prossimi giorni riuscirò a postarlo.
Ringrazio di cuore chi, comunque, continua a seguire questa storia.

Con immenso affetto,
                                  Panda.

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Capitolo 18
*** Capitolo diciotto: David. ***


 

 

 

~Sometimes you have to be apart from people you love,
but that doesn't mean you love them any less.
Sometimes it makes you love them even more.~
When my world is falling apart, 
when there is no light to break up the dark 
that's when I look at you.
When the waves are flooding the shore and I 
can't find my way home anymore 
that's when I look at you.

 

 

 

Capitolo diciotto.
David.

 

Quando salii le scale della veranda, avevo il fiatone. Mi dovetti reggere al corrimano per riprendere fiato. Quella mattina, come di consuetudine, mi ero svegliato alle cinque e trenta, per la corsa del giovedì. Ero sceso di casa e avevo cominciato a correre sulla battigia, cercando di sgombrare la mente dal ricordo di lei. Ma i miei buoni propositi erano scemati quando la scorsi sulla veranda di casa sua, le mani strette intorno ad una tazza bianca. I capelli chiari, appena arruffati, oscillavano con dolcezza, accarezzati dal vento mattutino. Mi aveva invitato ad entrare in casa e senza rispondere alla mia domanda, mi lasciò uscire di casa.
Ora, mentre fissavo la porta del retro mi chiesi cosa stesse facendo e cosa aveva pensato nel lasso tra l’avermi riconosciuto e l’avermi visto uscire dalla porta della veranda.
Entrai in casa per una doccia e in cucina trovai mia madre seduta al tavolo. Mangiava distrattamente dei cerali, leggendo il giornale.
«Ciao.» mormorò, sorridendo.
«Ciao, mamma.», le baciai una guancia e mi sedetti accanto a lei. «Come mai già in piedi?»
«Non riuscivo a dormire.»
«Cosa succede oggi? Nessuno riesce più a dormire?»
Mi madre corrugò la fronte, mentre una ciocca di capelli scuri la ricadeva davanti un occhio. «Cosa intendi?»
Esitai. «Prima,» dissi, «mentre correvo, ho incontrato Lily.»
«Corre anche lei?» chiese masticando altri cereali.
«No,» risposi scuotendo appena il capo, «era in veranda.»
Lei sorrise. «Che cara ragazza.» mormorò.
Abbassai un attimo lo sguardo, prima di posarlo ancora sul suo volto. «Già. Simpatica.»
Lei sorrise e mi baciò la fronte. «Certo, simpatica.»
Corrugai la fronte, confuso.
«Fila a farti una doccia, tesoro, o arriverai tardi a scuola. L’accompagno io, Diane.»
«Okay…» mormorai confuso, osservandola uscire dalla cucina.

 

Quando uscii di casa, restai qualche secondo ad osservare  la strada silenziosa e tranquilla, i giardini delle villette di fronte, le cassette della posta, le auto parcheggiate nei vialetti.
Volsi il capo verso sinistra, in direzione della casa di Lily e rividi il suo viso nei miei ricordi.
Cosa mi stava succedendo?
Era presto e quel giorno non avrei dovuto accompagnare Diane. Avevo finito prima del previsto, così ero sceso prima. In quel momento, guardando verso casa di Lily, compresi.
Compresi cosa in realtà mi aveva spinto a vestirmi in fretta, cosa in realtà mi aveva portato ad uscire così presto.
Con passo svelto aprii l’auto e, poggiando lo zaino sui sedili posteriori, misi in moto, ma invece di risalire la strada verso il centro della cittadina, andai dalla parte opposta.
Il cuore mi martellava e il mio buon senso non faceva che gridarmi quanto pessima fosse la mia idea, ma agii d’istinto ignorandolo del tutto.
Certo, sarebbe potuto essere un fiasco totale, ma non me ne curai, non quel mattino.
Poco dopo parcheggiai sul ciglio della strada, in direzione della porta in legno bianco, ed attesi.
Non dovetti aspettare molto prima che la porta si aprisse e sulla soglia comparisse lei.
Guardava in basso, aveva il capo chino, i lunghi capelli biondi a coprirle il viso. Poi alzò lo sguardo ed i suoi occhi, incontrarono i miei. La vidi sobbalzare appena, mentre sgranava sorpresa gli occhi e si chiudeva alle spalle la porta. Rimase immobile sulla veranda, il suo sguardo era indecifrabile, come spesso accadeva, e avrei tanto desiderato sapere cosa stesse pensando. Inclinò il capo, prima di mordersi l’interno della guancia e scendere gli scalini, dirigendosi verso l’auto.
Indossava un paio di jeans scoloriti ed una giacca blu sopra un maglioncino a righe grigie e bianche. Sorrisi osservandola, lei invece fissava il vialetto. Quando fu davanti la mia portiera si portò le mani sui fianchi ed inclinò il capo, puntando i suoi occhi chiari nei miei. Così, abbassai il finestrino.
«Che ci fai qui?» chiese.
«Buongiorno anche a te, Lily.» dissi sorridendole.
Alzò un sopracciglio e fece roteare una mano a mezz’aria, come a volermi dire di continuare.
«Sono uscito prima di casa… così mi sono detto, perché non darle un passaggio? In fondo, frequentiamo la stessa scuola, Hemsworth.»
«Come fai ad essere così sicuro che accetti?»
«Non ne sono sicuro, infatti. Ci spero. E poi sono già qui, vorresti rifiutare un passaggio in una comoda macchina?» chiesi sorridendole. «Avanti, Sali.» continuai facendole segno col capo.
Lei, in risposta, incrociò le braccia al petto. «No.»
Sospirai. «Lily…»
«No.» rispose con tono risoluto, ma, ci avrei scommesso, stava reprimendo un sorriso.
«Ti prego…»
Lei alzò un sopracciglio. «Mi stai pregando? Uhm… due ad uno per me.» sorrise trionfante facendo il giro dell’auto e accomodandosi al posto del passeggero.
Sorrisi. «Due ad uno per te.» ripetei partendo.
Mi guardò ancora per alcuni istanti, le braccia incrociate al petto e un’espressione imperscrutabile sul viso. Sospirò e facendo ricadere le braccia lungo i fianchi fece il giro dell’auto, accomodandosi poi al posto del passeggero.
Sorrisi e, tornando a guardare dinanzi a me, partii.


«Mia sorella non fa che parlare di te. E’ diventata petulante.» dissi dopo alcuni minuti di silenzio. Viaggiavo verso la scuola con il volume dell’autoradio tanto basso da apparire un mormorio.
Sorrise, chinò appena il capo, prima di tornare a guardare dinanzi a sé. «E’ una bambina adorabile. Una delle più belle che abbia mai visto, inoltre. Non riesco, infatti, a capacitarmi del fatto che sia tua sorella. Com’è possibile, David?» chiese corrugando la fronte e voltandosi a guardarmi, negli occhi una traccia di malizia.
Schioccai la lingua. «Sei simpatica come la sabbia nelle scarpe, sai?»
Fece spallucce. «Sì, credo di averla già sentita da qualcuno questa.»
«Beh, a questo punto credo tu debba cominciare a preoccuparti, non credi?»
Le osservai fugacemente il viso, quel po’ che bastava per vedere che stava reprimendo un sorriso. «No, non credo.»
Risi. «Sai, sono sempre più convinto che tu debba fare jokking.»
«E per quale assurdo motivo?» chiese in un risolino.
Feci spallucce. «Beh, diventeresti più alta.», mi voltai guardandolo fugacemente.
Aveva gli occhi sgranati e la bocca spalancata. «Questo non è vero.»
«Oh, si che lo è.» risi.
«No, non lo è.», incrociò le braccia al petto e si spostò appena sul sedile, torcendo in busco.
Schioccai la lingua. «Okay, non lo è.»
«Bene.» disse poi rimettendosi composta. «E non sono bassa.»
«Oh, sì che lo sei.»
«No, non lo sono.»
«Invece sì. Quanto sei alta un metro e cinquanta?»
Sbuffò. «Sei dannatamente irritante…»
«E divertente.»
Fece una smorfia. «Irritante e superbo.»
Sogghignai.
Sospirò. «Uno e sessantadue.»
«Ci sono andato vicino.», le sorrisi voltandomi.
«Dodici centimetri fanno la differenza, David.» sorrise e quasi mi parve che il viso le si fosse intriso  di rosso.
«Ho notato che hai legato molto con Samantha.»
«Sì, l’ho conosciuta il primo giorno di scuola. Sai, è stata piuttosto cortese con me
«Se ti conoscessi, questa, potrei definirla “sottile ironia”.» risi, mentre parcheggiavo l’auto.
«Ma non mi conosci, quindi…»
Spensi il motore e mi voltai a guardarla. Non riuscii a frenare le parole che mi uscirono di bocca una slavina. «Vorrei tu me lo permettessi.» mormorai incatenandomi ai suoi grandi occhi chiari.
Dischiuse le labbra, come a voler parlare, ma non disse nulla. Le richiuse prima di guardare dinanzi a sé. Si portò una ciocca di capelli dietro un orecchio. «Faremo tardi.» balbettò senza guardarmi. Aprì la portiera dell’auto e scese.
Pietrificato, sconvolto da me stesso, mi voltai e guardarla, oltre il vetro dell’auto. Mentre osservavo la sua figura minuta dirigersi verso la scuola, non potei fare a meno di chiedermi che razza di idiota fossi.
Quelle parole avrebbero cambiato tutto? L’avrebbero nuovamente allontanata? Avrebbero demolito ciò che piano ero riuscito a conquistarmi?
No, non può essere. Stavo cercando di convincere me stesso.

«Cosa le hai detto?» sibilò Logan.
Sbuffai e mi voltai verso il suo banco. «Piantala, amico.»
«”Vorrei tu me lo permettessi?” Dov’è finito Dave? Da quanto sei così sdolcinato?»
M voltai ancora verso lui. «Non sono sdolcinato.»
«Ah, no?»
«E’ solo che lei è diversa.» sussurrai voltandomi verso il professore appena entrato.
«Non ci credo.»
«Cosa?»
«Ti stai innamorando.»
«Non è vero!» sibilai dando una gomitata al suo banco, tanto che il libro e la penna caddero a terra con un tonfo.
«Tutto okay, signor Stewart?» chiese il professore di algebra.
Logan scosse il capo. «Sissignore. Credo che il mio compagno qui davanti abbia battuto accidentalmente contro il mio banco.»
Mi morsi l’interno della guancia con una smorfia. Il professore mi guardò.
Feci spallucce. «Ahia.»


Alla fine della lezione, quando al suono della campanella tutti si alzarono, mi voltai verso Logan dandogli un leggero pugno alla spalla.
«Cosa c’è?» chiese lui massaggiandosi la parte colpita.
«Questo è per ricordarti quanto sei idiota.»
«Sei un tipo violento, sai? Dovresti fare esercizi per controllare la collera.» disse dandomi un pugno.
Sbuffai. «Ti serve un buono psichiatra.»
«Come sei divertente, Dave.»
«Sì, è una delle mie mille doti.»
Mi portai lo zaino in spalla mentre ci dirigevamo verso la porta.
«Come la modestia?» chiese mentre camminavamo lungo il corridoio.
«Sì, esatto, come la modestia.» sorrisi scuotendo appena il capo.
«C’è inglese, adesso, vero?»
Strinsi i pugni e li riaprii ritmicamente, nervoso. «Sì.»
«Con Lily.»
«Logan!»
«Con Lily.»
«Sì, con Lily.» esclamai tanto forte che alcuni studenti si voltarono a guardarmi confusi.
«Vuoi che ammetta che mi piace? Te l’ho già detto e l’hai capito.»
«Lo so… ma è divertente.»
Sulla soglia della porta mi voltai a guardarlo. «Ti sembra che io stia ridendo.»
«Sei pesante, amico.»
«Ne sono consapevole.» annuii.
«L’importante è saperlo.» a mormorare quelle parole fu una voce chiara, sottile, dolce. Mi voltai di scatto e la vidi. Non sorrideva, le sue labbra erano chiuse in una linea retta, un’espressione che non seppi decifrare, mio malgrado. Io, a mia volta, non mi mossi di un solo millimetro, gli occhi fissi sui suoi, fissi sui miei.
«Beh, io vado a prendere posto.» disse Logan indicando la classe col pollice.
«Okay.» risposi senza smettere di guardarla negli occhi.
«Ciao.» disse inclinando il capo di lato.
«Ciao.» risposi inclinandolo dalla stesso lato.
Fece un risolino, scuotendo appena il capo. «Sei un tipo strano, sai?»
«Dipende dai punti di vista.»
«Forse. Hai intenzione di sbarrarmi la strada fino alla fine dell’ora?» chiese portandosi una ciocca di capelli dietro un orecchio.
«Non ti sto impedendo d’entrare.»
Indugiò, dondolando sui talloni. «Lo so.» sussurrò, prima di sorridermi ed entrare in classe.


Durante la lezione, la osservavo, dal mio banco accanto alla finestra. Sì, l’avevo ancora una volta spostato. Due e due per me. Un gioco infantile il nostro che consisteva nel spostare il banco dell’altro, con i nostri nomi incisi sopra. Probabilmente quello screzio circa il posto in aula, quello accanto alla finestra, in ultima fila –il migliore a mio parere… e per Lily- , non avrebbe mai avuto fine. Dovetti ammettere a me stesso però, che la cosa non mi dispiaceva.
Sembravo un idiota, lì, fermo, a far roteare la matita fra le dita, mentre le osservavo i lunghi capelli biondi, che le accarezzavano in morbide e grandi onde la schiena. La osservavo passarsi la mano sulle spalle, bloccarla sulla nuca, portarsi una ciocca di capelli dietro un orecchio.
Era strano come, in poco tempo, quella ragazza avesse catturato la mia attenzione, rapito i miei occhi, che ammaliati la guardavo confusi, a volte adoranti per quel viso sottile e quello sguardo color dello smeraldo.
A piacermi di certo non era lei in quanto novità, ma il modo in cui sorrideva, in cui i suoi occhi brillavano sotto il sole, o il suono della sua voce che parlava con dolcezza a Diane, o sussurrava il mio nome. Era strano, non c’erano dubbi, ma qualcosa mi attirava verso di lei, e di certo non era solo il suo aspetto fisico. C’era qualcosa in lei, che mi attirava, quasi fosse una calamitàa. Per molti fascino, charme, ma, ne ero certo, c’erano qualcosa di ignoto che non si identificava con nulla di tutto questo.
Scossi il capo, quasi a voler scollarmi tutti qui pensiero che mi vorticano in testa, ed , in quel momento, la campanella trillò.
Sorrisi e mi alzai dopo aver recuperato le mie cose, intenzionato ad andarle a parlare, ma non potei, fui fermato dopo essere avanzato di un passo.
«Ciao, David.»
«Ciao, Anne.» risposi cortese.
Anne era una ragazza con cui era uscito poche settimane prima, una sola uscita prima di dirle che non era il mio tipo. Dire che era fuori di testa, era un eufemismo.
«Non mi hai più richiamata.» mugugnò lei giocando con una ciocca di capelli mogano.
«Oh… ehm…» farfugliai mentre con lo sguardo seguivo la figura di Lily che, fra la calca di ragazzi, usciva dall’aula.
Il suo sguardo per un frangente di tempo incontrò il mio, poi imperscrutabile, si posò su Anne.
Avrei voluto gridare “No, Lily, aspetta!”. Uscì dall’aula confondendosi con tutti gli altri.
Sospirai. «Vedi, Anne… credevo fosse chiaro che fra me e te…»
«Potremmo uscire ancora. Che ne dici? So che sei spaventato, David, ma lo sono anch’io.» mormorò suadente  a poche spanne dal mio viso.
«Come?» chiesi con voce strozzata.
«Avanti, Dave…»
«Oh, si è fatto tardi. E’ meglio che vada.» annuii, «ci vediamo in giro, Anne!» esclamai mentre mi allontanavo in fretta.
Non mi voltai a guardarla e sperai di aver chiarito finalmente la situazione. In quel momento, riuscivo solo a pensare a Lily; la cercai con lo sguardo tra la moltitudine di studenti, senza però trovarla.
Era ora di pranzo, mi chiesi cosa sarebbe accaduto. L’avrei osservata, lì, dal mio tavolo al centro della sala mensa, scherzare con Sam e quei tipi che non mi piacevano affatto. O forse era solo gelosia. Provai un impeto di irritazione nell’immaginarla sorridere, ridere alle battute di James, che la guardava come fosse un ambito premio.
Mi passai una mano fra i capelli sospirando. In fondo, nel pomeriggio sarebbe venuta a casa.

 

*

Ed eccomi ancora qui, gente. Chiedo perdono per il ritardo, ma questa è la parte dell’anno in cui si concentrato tutti gli esami, e scrivere è davvero difficile.
Spero possiate perdonarmi.

A immenso bacio,
                            Panda.

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Capitolo 19
*** Capitolo diciannove: Lilian. ***




 

~Sometimes you have to be apart from people you love,
but that doesn't mean you love them any less.
Sometimes it makes you love them even more.~
When my world is falling apart, 
when there is no light to break up the dark 
that's when I look at you.
When the waves are flooding the shore and I 
can't find my way home anymore 
that's when I look at you.

 

 

Capitolo diciannove.
Lilian.



Vorrei tu me lo permettessi.
Ma che diavolo gli era preso? Come gli era venuto in mente di dire una cosa del genere? Cos’ero, un altro premio? Un’ulteriore tacca sulla cintura?
Non ti sto impedendo di entrare. Lo so. L’ho detto davvero? Quale razza di cretina direbbe mai una cosa del genere? Un’adolescente innamorata, certo. Ed io non lo ero. No. Ero una ragazza matura, non innamorata di una ragazzo tanto bello da far perdere qualsiasi cognizione di causa, dai profondi e magnetici occhi neri.
Andiamo, Lily, che ti prende!, mi ammonii prima che la campanella suonasse, mettendo fine alla lezione di inglese.
Mi stava guardando, lì, dal suo posto accanto alla finestra? Dovetti usare tutta la mia forza di volontà per non voltarmi a guardarlo, con le gote intinse di rosso.
Imbarazzata dai miei stessi pensieri scattai in piedi quando la campanella trillò e uscii dall’aula in fretta, cercando di mimetizzarmi fra gli studenti, ringraziando la mia piccola statura. Volevo evitare, in quel momento, qualsiasi contatto con David, troppo emotiva e imbarazzata da me stessa, da quell’irrazionale e spaventoso desiderio di immergermi nel cielo notturno dei suoi occhi.
Mi diressi a passo svelto verso la sala mensa, senza passare nemmeno dall’armadietto. Con il libro sotto il braccio e lo zaino sulla spalla zigzagavo fra gli studenti, fino a che, sulla soglia della sala mensa non mi scontrai con un qualcuno, ed il mio libro cadde. Solo una volta averlo recuperato mi resi conto con chi mi ero scontrata.
«Ciao!» esclamò James.
«Ciao.» risposi sistemandomi lo zaino in spalla. Avrebbe potuto aiutarmi, mi aveva fatto cadere il libro, poteva anche mostrarmi un minimo di gentilezza e cortesia. Quel suo mancato gesto, mi irritò appena, non tanto da permettermi di mostrarlo.
«Sam ed Aaron sono già seduto al tavolo.»
Annuii. «Okay.»
Sorrise e insieme ci dirigemmo al tavolo in fondo alla sala. Nel vedere la fila di persona in attesa del pranzo, sbuffai.
«Anche tu già stanca della scuola?»
Mi voltai a guardarlo, alzando un sopracciglio. «Come?»
«Sembra che tu sia già stanca di venire a scuola. Ti capisco perfettamente. Sono qui solo perché sono costretto.» rise.
Feci un risolino isterico. «Già.» aggiunsi roteando gli occhi e guardando dalla parte opposta.
Rise ancora.
«Cosa c’è?» chiesi corrugando la fronte.
Eravamo a un paio di metri dal tavolo, ormai. Sam ed Aaron ci guardavano sorridendo. James mi afferrò per un braccio, costringendomi a voltarmi verso lui.
«Ti va di uscire con me?»
Sgranai gli occhi. «Cosa?»
«Ti va di uscire con me?»
Non sapevo cosa dire. No, in realtà, lo sapevo: certo che non volevo uscire con lui! Me lo chiese, lì, vicino al tavolo a cui sedevano Sam ed Aaron, che di certo avevano sentito. Boccheggiai non sapendo cosa rispondere, cercando un modo gentile e cortese per declinare, senza essere sgarbata, come troppo spesso mi accadeva nell’ultimo periodo.
«D-devo andare in bagno.» farfugliai voltandomi e scappando dalla sala mensa, diretta la bagno. Mi sciacquai il viso, rinfrescandomi la pelle accaldata.
Perché? Perché mi aveva chiesto di uscire? Perché le persone non facevano che complicare le cose?
Cosa gli avrei detto ora?
Nella mia testa piano l’immagine del viso di David si fece chiara, un’immagine che mi fece stringere con forza i bordi del lavando e scuotere il capo per l’irritazione, quasi potessi liberarmene.
Perché avevo pensato a lui? Cosa mi stava succedendo?
Chiusi un attimo gli occhi, ignorando le ragazza che mi guardavano quasi impaurite, e feci un respiro profondo, cercando di calmarmi.
Quando gli riaprii compresi che non avevo alternativa. Dovevo dire a James che non sarei uscita con lui. Non era il mio tipo. E probabilmente non lo sarebbe stato mai e non perché non fosse attraente. No, a volte, c’era qualcosa nel suo sguardo che mi faceva venire i brividi.
Prima di andare in sala mensa decisi di passare dal mio armadietto e lasciare i libri superflui, poi m’incamminai nei lunghi corridoi poco affollati. Quando entrai nella grande stanza la fila per il pranzo si era esaurita, così non dovetti aspettare molto. Quel giorno c’era la pizza. Ne presi un pezzo, insieme ad una soda, e mi diressi verso il tavolo al margine della stanza, accanto alle finestre. Mentre camminavo con lo sguardo chino, mi sentivo osservata, certamente non era così, ma quella sensazione mi accompagnò per tutto il tempo.
«Ehi, Lily, cominciavo a preoccuparmi!» esclamò Sam mentre mi sedevo accanto a lei, di fronte a James, che mi fissò senza battere ciglio.
Sorrisi.
Mentre mangiavo il mio pezzo di pizza, Sam ed Aaron mi rivolsero qualche domanda al quale risposi a monosillabi. James non parlò, rimase a guardarmi. Evitavo il suo sguardo, sentendomi terribilmente a disagio. Mi muovevo spesso sul posto, irritata da quel suo odioso comportamento.
Mentre masticavo l’ultimo boccone di pizza alzai lo sguardo dal mio vassoio, posandolo oltre la figura di James, incontrando un viso familiare che per un momento, per qualche assurdo motivo, mi tranquillizzò.
Al centro della stanza, seduto con un ragazzo ad altre tre ragazze, sul viso di David vi era dipinto un sorriso sghembo. Sorrisi a mia volta e certamente quel mio flebile sorriso non sfuggì a James che si voltò, torvo.
Grugnì. «Maledetto Smith. Hai ceduto anche tu al suo bel faccino.» sputò incrociando le braccia al petto e guardandomi.
M’accigliai. «Scusa?»
«Mi hai sentito.» ribatté.
«Va al diavolo, James.» sbottai scattando in piedi. «Tu non mi conosci. Non sai niente di me.»
Sentii la mano di Sam sfiorarmi il braccio. «Calmati, Lily.»
Non l’ascoltai, continuai a guardarlo con aria di sfida, ma dovetti mettere fine a quel contatto perché la campanella suonò.
Sbuffai d’irritazione e afferrai il mio zaino. «Ci vediamo in classe, Sam.» sibilai camminando verso l’uscita e lasciando il vassoio.
Le parole di James non avevano fatto altro che irritarmi, dopo avermi messa tremendamente a disagio. Come aveva potuto? Sam era l’unica persone con cui avevo un rapporto che poteva essere –anche alla lontana- definito amicizia. E amici di Sam erano James e Aaron. Loro pranzavano insieme… ed io non volevo finire ad un tavolo vuoto o in cortile al freddo.
Mia nonna avrebbe proposto David, ma non potevo pranzare con lui, sulla difensiva com’ero. E, in fin dei conti, era ancora il mio nemico di banco. Non potevo socializzare con la fazione avversa, anche se, in fondo, non volevo ammetterlo a me stessa, stava già capitando.


«Lily, mi spiace tanto per prima.» sussurrò Sam.
Eravamo a lezione di algebra e il professore era di spalle, scriveva equazioni sulla lavagna. Mi allungai con il busto verso di lei, che si trovava al banco dietro al mio.
«Non importa.»
«James è fatto così. Rovina sempre tutto.»
«Tranquilla.»
«Ascolta… ti va di uscire domani sera? Solo tu ed io.»
Mi voltai quel che bastava per guardarla in volto. «Okay. Mi farebbe piacere.» risposi sincera. E, certamente, avrebbe fatto felice mio padre ed i miei nonni.
Sorrise. «Bene.»
«Ci vediamo alle otto, al molo.» sussurrò prima di tornare a seguire la lezione.


Quel giorno saltai l’ora di ginnastica. Era l’ultima e non avevo voglia di saltellare a destra e sinistra rincorrendo una palla da basket. Così, mi rintanai sotto un albero, quello ai confini del parco della scuola, nascosta dalle siepi. Se fossi tornata prima a casa avrei trovato mia nonna intenta a cucinare e, probabilmente, mio padre che usciva da scuola. Non mi andava di mentire, di trovare una scusa per il mio arrivo in anticipo, così rimasi lì seduta, con il libro di letteratura inglese, cominciando a scrivere un breve saggio assegnatoci su Keats.
Cominciai a scrivere qualche riga, ma presto mi ritrovai a scarabocchiare sovrappensiero, pensando ad un paio di occhi color della notte. Quando me ne resi conto, immediatamente, scossi il capo, come a volerli eliminare dalla mia fervida immaginazione. In quella frenetica mattinata mi stava capitando troppo spesso, forse la pazzia, o qualche forma di demenza, si stava impadronendo di me. Stavo perdendo il senno, il lume della regione. Quando alzai il capo incontrai un paio di occhi così diversi da quelli che, quasi, mi fecero rabbrividire.
«Ciao, baby.» mormorò con voce roca, quasi ghignate.
«Ciao, James.» cercai di mantenere il tono di voce più neutro possibile. «Come puoi ben notare, ora sono impegnata. Ci si vede.» mi limitai a dire, ritornando a guardare il libro, fingendo di immergermi nella lettura.
«Hai saltato la lezione?» chiese.
Mi morsi l’interno della guancia. «Uhm-uhm.», grugnii senza alzare il capo.
«Anche io. Perché sei qui tutta sola?»
Non risposi subito, dopo alcuni istanti alzai il capo e lo guardai inespressiva. «E tu perché sei qui?»
«Perché ci sei tu. Mi dispiace, per prima.» rispose con un sorriso beffardo sul viso pieno.
Deglutii. «Devo studiare, James.» ripetei.
C’era qualcosa nei suoi occhi, non saprei dire cosa, ma l’unica cosa che in quel momento mi sovveniva alla mente era una lucertola. Sì, una lucertola. James mi ricordata una lucertola con la pelle di una rana. Quell’immagine mi fece rabbrividire e grugnire di disgusto, tutto questo non gli sfuggì.
«Cosa c’è, ti disgusto? Per questo non vuoi uscire con me?» chiese inclinando il capo e corrugando la fronte stretta.
«Scusa, devo andare.» dissi afferrando la mia roba e alzandomi.
Lui mi afferrò per un braccio e mi costrinse a voltarmi verso di lui. «Non hai risposto alla mia domanda, Lily. Ti disgusto?»
«No.» soffiai guardandolo negli occhi, le gambe non rispondevano all’impulso di andar via.
«Lasciami il braccio, mi fai male. Devo andare.»
«Dobbiamo andare.» disse sorridendo e lasciandomi il braccio. «Vengo con te.»
«Non puoi.» mi affrettai a dire camminando verso la scuola a passo svelto.
«Perché?»
«Ho lezione.»
«Bugiarda.»
«Devo studiare.»
«Bugiarda.»
Mi voltai, lasciandomi assalire dalla rabbia che, per un attimo cancellò la paura. «Dio, James, lasciami in pace!» strillai allargando un braccio al cielo.
Sorrise nello stesso modo di prima, come se le parole appena pronunciate non avessero importanza, come se non le avesse nemmeno udite. Mi guardava…
«Ehi, cosa succede qui?», nell’udire quella voce provai un’improvvisa ondata di tranquillità, fu come respirare dopo aver trattenuto a lungo il fiato e solo quando ebbi una leggera vertigine mi resi conto di aver davvero trattenuto il fiato. I miei muscoli di distesero.
«Non servi qui, Smith.» disse con cattiveria James, mentre io mi voltavo a guardare i suoi occhi scuri. Incontrare il suo sguardo fu un sollievo, un’irrazionale (in realtà, assolutamente razionale) sollievo. Esattamente come in precedenza mi era accaduto in sala mensa.
«Non servo qui, Lily?» chiese lui inclinando il capo di lato e alzando un sopracciglio.
«Ciao, James.» dissi dandogli le spalle e avvicinandomi a David.
«Ci vediamo in giro, baby.» ridacchiò lui prima di allontanarsi.
«Uhm.»
Alzai lo sguardo sul viso di David. «Cosa c’è?»
«Conosco James da un po’. Non i è mai stato simpatico… credevo fosse innocuo.»
Spalancai appena gli occhi. «Cosa intendi dire?» chiesi con una punta di preoccupazione, che non gli sfuggì.
Sorrise. «Tranquilla, Hemsworth, ci sono io a proteggerti.»
Rotei gli occhi e cominciai a camminare verso l’albero più vicino. James aveva ragione, non dovevo andare da nessuna parte, era troppo presto per tornare, volevo solo fuggire da lui e dalle sue movenze di lucertola.
«E’ tutto okay?» chiese premuroso. Quel repentino cambio di voce, quell’avvolgente tono che m’infuse sicurezza, mi fece fremere.
«Sì.», lo dissi guardandolo negli occhi, mentre mi sedevo incrociando le gambe. «Adesso mi pedini?»
Rise, sedendosi sull’erba, di fronte a me. «Ho saltato la lezione di ginnastica.»
«Non siamo nello stesso corso.»
Sorrise. «Lo so. Abbiamo professori diversi però.»
«Oh.» mormorai portandomi una ciocca di capelli dietro l’orecchio.
«E’ una cosa che fai spesso.»
«Cosa?»
«Portarti i capelli dietro l’orecchio.»
Deglutii, sperando non si accorgesse che era segno d’imbarazzo. «Quindi, abbiamo avuto entrambi l’idea di saltare la lezione di ginnastica e di venire qui a passare il tempo?» chiesi inclinando il capo.
Fece spallucce. «Esatto. Non ti pedino.»
«Uhm… okay.»
I suoi occhi mi scrutarono e non potei, in quel momento, non notare quanto fosse attraente, quanto il suo viso, nonostante l’antipatia nata il primo giorno di scuola, fosse rassicurante. Era strano, non mi era mai capitato prima di allora. Era come se, lentamente, come la lava che cola lungo un pendio, si stesse insinuando nella mia testa, bruciandomi, divorandomi. Quasi non riuscivo a rendermene conto. Un processo così lento da non sembrare nemmeno reale.
«Non mi sembri il tipo da saltare una lezione di ginnastica. Fai jogging al mattino e chissà cos’altro ancora.»
«Surf.»
Schioccai la lingua. «Appunto.»
Sospirò. «Evito una persona.»
«Una ragazza.» dissi scrutando il suo viso.
Fece una smorfia. «Una pazza.»
Risi. «La tua ragazza?»
«No. Una pazza.»
In qualche strano modo, mi sentii sollevata. «Così, David Smith scappa da una ragazza.»
Si grattò la nuca. «Se vogliamo porla in questo modo… sì. e tu, invece?»
«Non avevo voglia di saltellare facendo rimbalzare un pallone.»
«Cattivo sport il basket.»
Feci un risolino abbassando appena lo sguardo, quando lo rialzai incontrai il suo. «Non ne avevo semplicemente voglia.»
«E’ un modo per dire che la coordinazione mano occhio non è il tuo forte?» mi stuzzicò.
«Oh, lo è invece. Sono molto coordinata… è solo che sono più topo da biblioteca che ragazza sportiva.»
Sorrise. «Sei la prima a cui lo sento dire.»
«Beh… c’è sempre una prima volta, David.» mormorai incapace di scostare lo sguardo dal suo viso.
«Sì, direi di sì. Ultimamente c’è così tanto di nuovo.», negli occhi una strana luce.
Le parole che mi uscirono poco dopo, non riuscii a fermarle. «Pensi davvero quello che ha detto questa mattina?»
Non rispose subito, per attimi eterni i suoi occhi rimasero fissi nei miei, potei avvertirli accarezzarmi l’anima. L’intensità di quello sguardo, mi spaventò. Cosa stava succedendo?
«Ogni singola parola.»
«Sono un casino, David.»
Non rispose, i suoi occhi indugiarono nei miei.
Dischiusi la bocca, mentre il respiro accelerava appena. La mia vita stava cambiando, era cambiata. Era tutto nuovo, a volte doloroso, a volte triste, a volte senza colore. Mi resi conto che il quel momento, per un qualche scherzo del destino, la mia vita era appena colorata. Non aveva tonalità lucenti, intorno a me il verde dell’erba, il marrone degli alberi erano slavati, ma pur sempre appena colorati. Non era tutto grigio, come quando ero arrivata… no, non lo era affatto. Quell’improvvisa consapevolezza mi fece paura. Una strana sensazione di soffocamento. Non riuscivo quasi a muovermi, dovetti concentrarmi il più possibile per alzarmi dall’erbetta fresca e umida.
«Dove vai?»
«Ho… ho… bisogno di andare in bagno.» farfuglia allontanandomi da David… allontanandomi, inconsciamente, da me stessa.

 

Tossi l’ultima volta e tirai lo sciacquone, prima di uscire dal piccolo bagno dalla porta nera e le mattonelle lucide. Arrancai ai lavandini del bagno della scuola, con una mano poggiata sullo stomaco dolente. La gola mi bruciava, la testa pulsava di dolore.
Poggiai le mani su uno dei lavandini e aprii l’acqua per sciacquarmi la bocca ed il viso. Mi asciugai con la carta dei contenitori appositi, situati accanto agli specchi e mi guardai in uno di essi. Ero pallida, più pallida del solito e ciò che vidi non mi piacque affatto.
Cosa mi stava accadendo?
Non riuscivo a focalizzare chi fossi, perché fossi lì e quali eventi mi ci avevano portato. Era come se fossi giunta lì senza nemmeno rendermene conto. Non era come se avessi camminato per inerzia.. come se… una forza, più potente di me e della mia volontà, mi avesse attratto a sé. E fu in quel momento, in quel preciso istante che quasi potei avvertire la presenza di mia madre, la sua mano sfiorarmi i capelli, il suo profumo inondarmi i polmoni. Fu come se fosse lì, chiusi gli occhi per imprimere quella sensazione inaspettata nella mente, intrappolarla nel mio cuore e  non lasciarla più andar via.
Mamma…

«I cambiamenti, piccola mia, possono essere di due tipi. Possono essere tanto radicali che tutto è diverso, subito, tanto velocemente da togliere il fiato. Oppure così costanti, così lenti, che non senti nessuna differenza, che ti accorgi che tutto è cambiato solo quando tutto cambia.»

Aprii gli occhi di scatto prima di correre nuovamente nel piccolo bagno.

 

Quando uscii da scuola, mi sentivo ancora lo stomaco sottosopra e di certo la situazione non migliorò quando, scendendo le scale e non notai la figura seduta sugli scalini.
«Lily!» esclamò mentre avanzavo nel parcheggio.
Mi fermai e chiusi per un memento gli occhi. Mille emozioni contrastanti m’investirono, dandomi alla testa. Sospirai, prima di voltarmi.
«David.» dissi abbozzando un sorriso.
«Sei sparita prima. Tutto okay? Non hai una bella cera.»
«Sì… ehm… tutto okay. Ho solo un po’ di mal di stomaco.»
Si avvicinò a me, con espressione preoccupata. «Mia madre è una farmacista. Se ti va puoi passare da casa… ho tanti di quei medicinali da far concorrenza ad un ospedale.» disse sorridendo.
Mi morsi l’interno della guancia. «No, tranquillo, è tutto okay.»
«Ti accompagno a casa.»
«Non ce n’è bisogno.» mi affrettai a dire.
«Sì, invece. Sei di strada.»
«Meglio se prendo un po’ d’aria.»
Cercavo ogni scusa per evitare di rimanere sola con lui nell’abitacolo dell’auto. Anche se, una piccola parte di me, fremeva per l’impazienza di salire su quell’auto… per tornare prima a casa, ovvio.
«Non credo tua nonna me lo perdonerebbe.»
Alzai un sopracciglio. «Non è detto che debba saperlo.»
Si passo una mano fra i capelli. «Beh… non sarei io a perdonarmelo. Non posso lasciarti andare da sola in queste condizioni. Abiti a pochi metri da casa mia.»
«Ti ho detto che sto bene.» sbuffai, leggermente irritata.
«Sei più bianca del solito. Sembri fatta di panna.» disse incrociando le braccia al petto. «Avanti, ti accompagno.»
Scossi il capo. «Non mollerai mai, vero?»
«Dovessi seguirti con l’auto, non ti lascerò andare da sola. Se svieni ci vuole un prode cavaliere a soccorrerti.»
Sbuffai, riducendo gli occhi a due fessure. «Ti odio.»
Rise. «Anche io, Lily.»

 

*
Salve gente, eccomi qui… di nuovo.
Purtroppo scrivere in questo periodo è un’impresa. L’estate è sempre frenetica e fra mare ed amici il tempo è sempre poco. Ora, si comincia a studiare e la sera, in teoria, dovrei riuscire a recuperare questi due mesi di “silenzio”.
Grazie a voi che, nonostante tutto, continuate a seguire la storia.

Un bacio, Panda.

 

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