Oltre

di Wolf
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo primo ***
Capitolo 3: *** Capitolo secondo ***
Capitolo 4: *** Capitolo Terzo ***
Capitolo 5: *** Capitolo quarto ***
Capitolo 6: *** Capitolo quinto ***
Capitolo 7: *** Capitolo sesto ***
Capitolo 8: *** Capitolo settimo ***
Capitolo 9: *** Capitolo ottavo ***
Capitolo 10: *** Capitolo nono ***
Capitolo 11: *** Capitolo decimo ***
Capitolo 12: *** Capitolo undicesimo ***
Capitolo 13: *** Capitolo dodicesimo ***
Capitolo 14: *** Capitolo tredicesimo ***
Capitolo 15: *** Capitolo quattordicesimo ***
Capitolo 16: *** Capitolo quindicesimo ***
Capitolo 17: *** Capitolo sedicesimo ***
Capitolo 18: *** Capitolo diciasettesimo ***
Capitolo 19: *** Capitolo diciottesimo ***
Capitolo 20: *** Capitolo diciannovesimo ***
Capitolo 21: *** Capitolo ventesimo ***
Capitolo 22: *** Capitolo ventunesimo ***
Capitolo 23: *** Capitolo ventiduesimo ***
Capitolo 24: *** Capitolo ventitreesimo ***
Capitolo 25: *** Capitolo ventiquattresimo ***
Capitolo 26: *** Capitolo venticinquesimo ***
Capitolo 27: *** Capitolo ventiseiesimo ***
Capitolo 28: *** Capitolo ventisettesimo ***
Capitolo 29: *** Capitolo ventottesimo ***
Capitolo 30: *** Capitolo ventinovesimo ***
Capitolo 31: *** Capitolo trentesimo ***
Capitolo 32: *** Capitolo trentunesimo ***
Capitolo 33: *** Capitolo trentaduesimo ***
Capitolo 34: *** Capitolo trentetreesimo ***
Capitolo 35: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


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Nota dell'Autore: Probabilmente questa non è la scelta migliore, nè la più saggia. Ciò nonostante ho deciso di pubblicare questo scritto, anche se non corretto. Ho deciso che gli errori sono quelli stessi errori che ho commesso io nel valutare la mia storia con Esmeralda e per questa ragione veri, intensi come lo sono sembrati allora. Meglio raccontare allora. Per ciò che l'Amore ti fa trovare, nei giardini e nei fondali inesplorati di questo sentimento, per tutti i ricordi che preserviamo, con la forza e la consapevolezza di cercare di non perdere mai se stessi anche quando si è persi tra siepi e scogli ed onde...

******************

Ad Esmeralda. La luna splende su di te e se alzi lo sguardo la vedi.

******************

Oltre

Prologo

Mi chiamo Leonardo.

Leonardo...

E già solo dal mio nome s’intuisce bene quale tipo d’amore potrò narrare.

Un amore banale, scarno, vuoto... forte, distruttivo, ossessivo, tormentante.

Un semplice amore, come moltissimi altri ma che mi riguarda.

Non voglio commettere l'errore, qui, di dire quanto il mio amore sia speciale per l'unicità della donna che amo. Perchè so, so bene che cadrei nel banale.

Ma mi chiedo se posso farne a meno; se da qui alla fine riuscirò a mantenere un alto grado di sofisticatezza, d’originalità; se potrò evitare di fare il banale, come ogni uomo innamorato.

Sicuramente Dio solo sa quanto stupido sarei se avessi la pretesa di raccontare una storia d'amore con le sfumature che essa effettivamente produce nel momento stesso in cui la si vive, sulla pelle, nelle ossa. Ma comunque voglio raccontarla. Ed anzi non è una storia che voglio raccontare ma soltanto l'intrecciarsi di vite, di quelle coincidenze che hanno reso il mio amore così forte da resistere per 5 anni nonostante sia stato lontano da lei.

Lei. Lei si chiama Noemi. E sentite già quanto diverso suoni il SUO nome... dolce, travolgente, selvatico, curioso... in grado di farti innamorare solamente nel sentirlo...

Ed ecco che scendo nel banale. Ma non posso fare altro che questo. Raccontare di un tempo, di un posto, di un destino scritto nel nostro codice genetico; un destino che ci ha spinto a questo.

E così racconto...

 

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Capitolo 2
*** Capitolo primo ***


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Capitolo primo

 

Era il luglio del '98. Io abitavo in un piccolo paesino marittimo e frequentavo il quarto anno di un piccolo liceo scientifico della zona con la convinzione di aver sbagliato la mia scelta, quando in terza media avevo compilato il modulo d'iscrizione; ma nonostante la mia poca passione per quell'indirizzo, non avevo mai perso l'anno anche se a volte l'avevo passato proprio per il rotto della cuffia.

Frequentavo un gruppo di ragazzi del liceo artistico, con cui avevo iniziato ad uscire durante il secondo anno quando, il mio migliore amico, Diego Giacomazzi, detto "Maratona", aveva cambiato scuola dopo esser stato bocciato e si era iscritto all'artistico, conoscendo "I Bengala" ed entrando a farne parte portando dietro anche me, come di norma. Il suo soprannome, Maratona, era una storpiatura del suo precedente soprannome "Maradona", che gli era stata affibbiata il giorno in cui in una partita di pallone aveva fatto tutto il campo rincorrendo Pelletti, il capitano dell'altra squadra, che l'aveva sfottuto perchè aveva insaccato la palla nella propria porta.

Io e Maratona eravamo amici fin dai 6 anni. I nostri padri suonavano entrambi, il mio il sax e il suo il piano, in una jazz band del paese chiamata gli Aristomatti. Ed entrambi concordavamo sul fatto che il nome Aristomatti facesse davvero vomitare verde pomodoro rancido. E poi è stata un amicizia come altre, passata a giocare a Batman e Robin al lago o al parco giochi (e io facevo Robin se no m’incazzavo), a sfottere i turisti tedeschi che tanto non ci capivano, a fare scherzi alle ragazzine, a giocare a calcio, a parlare lingue inesistenti in mezzo al centro commerciale...

E così eravamo amici, io e Maratona, anche se ora, all'età di diciassette anni, tutti quei passatempi erano un ricordo lontano e di ciò ci rimanevano solo due passioni davvero comuni: la musica e le ragazze. E queste passioni le condividevamo con ‘I Bengala’; eravamo in cinque:

- Maratona,

- Davide "Riso" Merino, chiamato così perchè era fissato con la dieta del riso,

- Marco "Ottanta" Briskin, soprannome derivatogli dalla sua maglietta preferita (che possedeva in diversi colori: nero, rosso, azzurro e beige), che diceva "80 voglia disco party",

- Ruben "Okay" Guglielmini, il taciturno del gruppo che rispondeva a tutto Okay,

Ed ultimo, io, Leonardo "Leo" Di Stefano.

Ora voi vi chiederete: perchè in mezzo a soprannomi così strani il mio era l'unico soprannome normale? Perchè io rifiutavo qualunque tipo di soprannome che non fosse Leo o, al massimo, Leon. Ci avevano provato eh, oh se ci avevano provato... mi avevano affibbiato i soprannomi più strani della terra, talmente tanti e diversi da non ricordamene quasi nessuno, ma io non rispondevo a nessuno che non mi chiamasse Leo, o Leon, o Leonardo. E su questo ero cocciuto come un mulo. Anche se ne avevo di soprannomi, nella mia testa! Di simboli in cui mi rispecchiavo ce n'erano un infinità anche se uno su tutti... qualcuno lo sapeva, mio padre e una volta l'avevo accennato a Maratona anche se ero certo che se lo fosse dimenticato. Io ero il Principe Della Luna. Lo ero, mia madre mi chiamava così, quando ero un bambino. Ed allora era forse uno dei pochi ricordi che mi rimanesse di lei. E me lo tenevo bello stretto al cuore. Io ero il principe della luna e quando la guardavo, puoi giurarci, lei mi guardava. E sorrideva.

Fatto sta che noi Bengala eravamo piuttosto conosciuti nella zona. Non conosciuti come i Jellicle Cats o i T- Birds, ma nell’unico pub del paese, lo Zero Gravità, e nelle scuole dei dintorni molto prossimi sapevano chi eravamo. Lo sapevano soprattutto "I Lucci", un gruppo di ragazzotti figli di papà che non aveva nessun nome ma che noi, fissati com’eravamo con i soprannomi, gli avevamo presto dato a nostra personale discrezione. E ne avevamo discusso a lungo! Ottanta diceva che avremmo dovuto chiamarli "Gli allegri ragazzi morti" come il gruppo, Riso sosteneva il nome "Budini fritti" consono alla sua fissa per il cibo ed io e Maratona sparavamo nomi a caso senza sostenerli più di tanto. Poi, mentre ne discutevamo seduti al nostro tavolo dello Zero, Ruben aveva parlato: "Assomigliano a dei lucci..." aveva detto. E tutti avevamo all'improvviso smesso di parlare e l'avevamo fissato. Lui ci guardò, serio come la pietra da sotto il basco. Uno di noi, credo fu Ottanta, disse "Okay!" e la risata generale ci mise tutti d'accordo.

I Lucci facevano quello che potevano per infamarci andando in giro a raccontare le loro stronzate a cui tanto nessuno o pochi, cioè quelli con la puzza sotto il naso come loro, credeva. Ma loro ci provavano eh... una volta pagarono una ragazza con cui Maratona era uscito un paio di volte per dire che era incinta a causa sua. Successe il finimondo. Il padre di Diego gli tirò due sberloni tanto forti da gonfiargli gli zigomi e lui, il giorno dopo, ne tirò quattro al Capo dei Lucci, Ringo "Il Pollo" Pelletti, lo stesso che aveva inseguito alla partita. La rissa che si scatenò dopo è storia.

Fatto sta che di scherzi del genere ai lucci passò la voglia di farne.

Fu un sabato sera come tanti che Ottanta se ne venne fuori con la sua trovata

"Sai cosa pensavo?" mi disse dopo la seconda birra che mi pagava.

"No..." risposi io, guardandolo di sottecchi.

"Mi sembra giusto visto che ancora non te l'ho detto..." ripose, poi continuò "Mia sorella... la maggiore intendo... sai, L' Ale... stava cercando un attore... sai che lei fa teatro no?"

Io lo guardai, sapendo benissimo dove voleva arrivare "Si..."

"Beh tu saresti perfetto nel ruolo, non sarebbe perfetto ragazzi? Insomma lo sai come sono quelli di questo paese... o intelligenti o belli... invece tu mischi perfettamente le due componenti nella tua persona e inoltre studi teatro e..."

"No..."

"Ma..."

"No..."

"Per favore..."

"Guarda che lo so che volete che mi metta con l'Ale ma non si può..."

"Ma perchè no?"

"Il nome Emma non ti dice niente? Perchè non provi a chiederlo alla mia ragazza cosa ne pensa?"

"Ooooh... devi mollarla quella... è una stronza..."

"Oh! Allora? Cos'è sta storia? Non insultare Emma va bene?"

"Madonna ti ho solo chiesto di recitare in uno spettacolo! Mica di farti l'Ale! Ma si vede che non sei buono..."

"Ma vai a cagare va..."

"Va beh... come ti pare..."

Gli altri ci guardavano con i tipici sguardi di chi non sa quanto brutta è la piega che sta prendendo la situazione. Io rimasi a guardare Ottanta seduto sulla sedia.

"Oh va bene! Se è così importante lo farò... cosa devo fare? L'albero?"

 

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Capitolo 3
*** Capitolo secondo ***


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Capitolo secondo

 

E fu così che mi ritrovai a fare Amleto. Non che la cosa mi spiacesse. Io amavo recitare e Shakespeare, e Alessandra (la sorella di Ottanta che ovviamente faceva Ofelia) non era quella che definirei una brutta ragazza. Il mio unico problema era la maledetta timidezza che mi portavo spesso dietro. Il primo giorno di prove stavo quasi male. Era un martedì ed il cielo era plumbeo e triste. Entrai a passo lesto nell'edificio di arte “Garibaldi” che conteneva una scuola di ballo, di recitazione e di musica. Non vi ero mai entrato, a parte una volta due anni prima con mio padre per portare degli amplificatori ad un suo amico. Ed in quell’occasione l'unica cosa che avevo visto era il pianoforte a coda che luccicava nel centro della sala musica. Quanto avrei dato per possedere un pianoforte del genere...

Comunque entrai, salii i tre gradini ed entrai. C'era un corridoio, tre porte ed una scala ed io non avevo la minima idea sul dove dovessi dirigermi. Si sentiva una debole musica provenire dalla porta più lontana. Una qualche forma di vita comunque che poteva aiutarmi, pensai, a trovare la strada. Feci qualche passo, debole, incerto, verso la porta ed alla fine appoggiai la mano alla maniglia, poi la tolsi, bussai molto debolmente e aprii. La musica era molto più alta all'interno della sala insonorizzata. Vi era il pianoforte al centro della stanza ed una ragazza stava cantando il pezzo, swing, a microfono. La sua insegnante la guardava facendogli qualche cenno di tanto in tanto. L'avevo già vista, quella ragazza. Scavai per un secondo nella mia mente fino a ricordare di averla vista in un musical un anno prima in cui interpretava Esmeralda ne “Il Gobbo di Nôtre Dame”.

Dio, sembra successo appena ieri. Io me ne stetti lì immobile, incantato dalla voce della ragazza, neanche chiusi la porta. Lei mi vide solo verso la fine e mi diede un paio di occhiate con gli occhi grandi, senza smettere di cantare. Che professionista!, Pensai. Io avrei smesso di certo... Ma intanto, in questo flusso di pensieri, non mi mossi. La guardavo, conquistato dalla voce, ammirato. La canzone finì prima di quanto avrei voluto e la ragazza fece un cenno alla maestra per indicare la mia presenza.

Ella mi guardò "Salve..." mi disse, guardandomi incuriosita come un gatto guarda una mosca che cammina sul pavimento.

"Ehm... Buongiorno..." fu la cosa più stupida che potessi dire, visto che era sera.

"Posso aiutarti?" chiese come se avesse di fronte un bambino delle elementari.

Esmeralda, che oramai avevo soprannominato in quel modo non sapendo il suo nome, mi guardò un secondo e poi si voltò e bevve un sorso d'acqua da una bottiglietta che aveva appoggiato sul pavimento.

"Sto cercando... il posto dove si recita..." mi venne fuori "Il posto dove si recita" al posto di teatro, scuola di recitazione o qualunque altra cosa intelligente che avrei potuto dire.

Esmeralda tornò a guardarmi con gli occhi, non capivo se sbarrati o grandi di natura, che indagavano sulla mia persona.

"Devi salire..." mi disse l'insegnante.

"A-ah..." risposi, poi uscii di fretta e dopo aver fatto due metri tornai dentro e chiesi "Salire dove?"

Entrambe, che erano ritornate alla lezione, mi guardarono perplesse "Salire le scale..." disse la donna.

"Terzo piano." disse invece Esmeralda.

"Terzo piano." ripetei "Grazie."

"Prego..." mi disse l'insegnante mentre uscivo.

Salii le scale. Ed ogni gradino che facevo mi sentivo più strano. Le parole terzo piano mi rimbombavano in testa.

 

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Capitolo 4
*** Capitolo Terzo ***


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Capitolo terzo

 

E ci pensai sempre più spesso. Durante le prove successive, la settimana, il mese dopo. Ogni volta che passavo per quel corridoio, guardavo quella porta evidentemente credendo fosse di cellophane perchè tutte le volte la squadravo e risquadravo, mi giravo perfino a vedere se per caso si fosse aperta. A volte perfino mi fermavo ad ascoltare il pezzo che Esmeralda stava cantando. E non avevo idea del perchè potessi essere così incuriosito dalla cosa, quale importante tasto avesse toccato in me non ne avevo idea. Ero affascinato, richiamato come se fosse quello che da sempre avrei dovuto fare, entrare in quella stanza. Ma non ci entrai mai.

Fino al mese di settembre. All'interno le stanze erano silenziose, buie. E dalla stanza, da quella stanza non proveniva né la voce di Esmeralda né quella di nessun altro. Nessun suono. Ed allora non resistetti alla tentazione. Schiusi gentilmente timoroso la porta e vi infilai dentro la testa. Tutto era vuoto e solo una debolissima luce filtrava dalle finestrelle. Mi chiusi la porta alle spalle ed andai al piano. Ricordo quella sera, quel momento come fosse ora, anzi posso perfino ricordare la consistenza dei tasti, il calore che mi percorse le mani, come se adesso io stia premendo quegli stessi tasti. Le note erano dolci, stonate quando non prendevo la giusta nota. Passarono cinque o dieci minuti, forse cento. E poi tu ti sedetti di fianco a me. Posso ancora sentire, come allora, il tuo odore di pesca, un pò alcolico, come fosse vodka. Il tuo sorriso. A distanza di anni ti giuro che l'unica cosa che i miei occhi vedono, ovunque guardi, sono i tuoi occhi. Chiari, gentili, grandi. Appoggiasti delicatamente un dito ad un tasto ed improvvisamente tutto ebbe un intonazione.

Io tolsi le mani e ti guardai.

Esmeralda.

E suonasti, non so ancora per quanto tempo ma sembrò un attimo. Un flash, veloce come il vento che soffia la mattina, quando nessuno può vederlo o sentirlo allora si scatena e soffia fuori tutto quello che ha dentro. E' una grande nuvola, grande quanto l'Alaska, puoi giurarci, che produce il vento. Io la chiamo Frankie, ma ovviamente scherzo perchè nessuno sa come realmente si chiami. Forse Ghandi o Gesù... forse è l'anima reincarnata di Buddha. E soffia. Forte quando nessuno può sentirlo. E quel vento che mi attraversò la schiena, le dita, gli occhi, fino alle punte dei capelli, quel vento era di certo merito (o colpa) di Frankie.

Finì in fretta, non in modo indolore, ti alzasti e io, non so ancora perchè, mi alzai con te, guardandoti ammaliato. Alzasti la panca del pianoforte e prendesti degli spartiti. E io, sempre fisso su di te, la bocca spalancata. Non sono certo che sia io o meno a non ricordarmelo, ma non avevi alcuna espressione. Non eri imbarazzata, o divertita, non felice o triste. Eri tutto questo e quando uscisti dalla porta il mio cuore venne via con te.

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Capitolo 5
*** Capitolo quarto ***


Nuova pagina 3

Capitolo quarto

 

Ma perchè, mi chiedo ancora oggi senza avere una riposta, le cose succedono?

Com'è che ad un certo punto ti trovi sommerso, e vieni trascinato, scosso, portato avanti, e poi di nuovo indietro?

Com'è che un giorno sei in un posto e il giorno dopo al capo opposto del mondo?

Com'è che in un momento sei una persona colma di felicità fin sotto le suole delle scarpe e il momento dopo, d'improvviso, ti ritrovi sommerso dal più grande vuoto, che ti strazia e ti sciupa?

Com'è che si ama, si soffre, si odia, si è liberi, incatenati, vivi, spenti, luccicanti, opachi?

Com'è che si vive?

Com'è che ad un dato minuto di un dato mese di un dato anno una persona arriva e stravolge la tua vita?

E tu, ti guardi indietro, dentro, e ti chiedi se nelle tue esperienze passate qualcosa che ti possa dare una riposta c'è stato. Ci sarà pur stato! Ma dove l'avevo messo? Aspetta... la risposta... dov'è? Dov'è? Eppure ero certo di averla lasciati lì! In quello scatolone, guarda, sull'etichetta c'è scritto RISPOSTE! E allora, dove è finita?

E la risposta non c'è, non si trova. E allora ci si ritrova seduti al solito pub, con i soliti amici, la solita luce a chiedersi: “Qual'è il senso della vita?”

Tu sei sempre lì, seduto alla solita sedia e non li stai guardando dall'alto o robe simili, ma li guardi, i tuoi amici, Maratona, Ottanta, Okay, Riso... e ti chiedi come cazzo è successo che io sia qui? E, soprattutto, cosa sto facendo? Dove sto andando? Che senso ha tutto questo?

Li guardi e ti dici, sono uomini, così piccoli piccolini piccolissimi... sono un uomo anch'io, cazzo! E cerchi di ribellarti, tutto nella tua testa, e di dire NO porca vacca... io non sono uno qualunque e ti dico, mio caro, che cambierò qualcosa, la storia! Si proprio la storia, non dire cazzate, ma è quello che farò! Vuoi contraddirmi, io ci credo. Non sono come loro! Sono peggiore perchè credo di non esserlo...?

Poi ti calmi ed arriva un gran mal di testa. E tutto ti sembra offuscato, lontano, piccolo. Inutile.

Sarà successo a tutti prima o poi, no?

E quel mal di testa che pulsa e ti fa scoppiare il cervello. E' tutta colpa dell'amore dico io... E' l'amore che ti fa sentire piccolo, inutile, insufficiente a contenerlo. E allora cosa fai? Vai a casa, lungo il vialetto e già canti, sperando che la cosa ti possa già un po’ scaricare. Aspetti di scrivere, di pensare, hai bisogno di pensare quando capita, ovunque sei, pensi. Ma non come tutti gli altri, non come si fa di solito. Tu pensi in versi, pensi in musica, in dipinti. Le parole ti escono come componimenti strafighi che se solo riuscissi a buttarli su carta scriveresti un best-seller. Ma lo sai che non puoi e allora neanche inizi. Te ne stai lì, con il foglio in una mano ed una penna nell'altra, perché se buttassi giù i tuoi pensieri, anche se fossero proprio come li hai pensati, ecco che perdono tutto il senso. Non hanno più senso su quel foglio e nemmeno nella tua testa. Allora li tieni nel cuore, c'è una grande raccolta e non importa che non li pubblicherai mai... arriverà qualcuno in grado di leggerli.

Com'è che, tornando a casa dalla solita strada, sul muro c'è una scritta 25/07/1981 ESMERALDA TI AMO By Il Principe Della Luna?

Com'è che era lì da quando sei nato e non l'hai mai vista prima?

Com'è che quando torni a casa, completamente assuefatto, la tua matrigna, che ha sempre odiato i Musical, ti dice di aver comprato il dvd del Notre-Dame de Paris?

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Capitolo 6
*** Capitolo quinto ***


Nuova pagina 4

Capitolo quinto

 

Io volevo fare l'attore.

Io volevo, volevo e volevo. Volevo fare tutto e non facevo mai niente e questo tutti lo sapevano. Volevo scrivere, suonare, cantare, fare il regista ed ora l'ultima delle mie passioni che risaliva a soli 2 anni prima, l'attore. Ma non l'attore di cinema, alla Brad Pitt... no, l'attore di teatro.

Niente fraintendimenti, io amavo fare anche tutte le cose che avevo sognato fino a quel momento, suonare la chitarra, quando dicevo che l'amavo e di volerlo fare sul serio, era vero! E così per tutto il resto.

Ma quando entrai in un teatro per la prima volta, quel giorno mi chiesi davvero cosa aveva senso nella vita, come facevo ogni volta che incrociavo qualcosa che mi riempisse di gioia, di tristezza, di emozioni così pienamente da non riuscire a trattenerle. Affogò il mio cuore. Mi sentii tutto svuotato e non fui mai così pieno come quel giorno, vale la pena di parlarne ora che ho incontrato qualcosa che mi ha inspiegabilmente travolto ancor più del teatro.

E solo un attore sa cosa voglia dire. Non la felicità o la soddisfazione, quella no, può averla un ragioniere, come un cantante, un calciatore. Ma ognuno di loro proverà cose diverse, una felicità che produce note diverse, che ti riempie lo spirito in modo diverso, diversi gli odori, i colori. È quella cosa che riempie un attore, quando è al centro della scena, con le luci in faccia, non sente più niente, un torpore, e c'è solo lui. Niente riusciva (anche se per la verità dovrei dire riesce) a colmarmi più del teatro. Quando stai lì, sei davvero libero. Quelle luci che ti picchiano sulla pelle sono come il liquido amniotico, che ti scalda e ti contiene. E non è la gente che ti riempie (anche se certamente gli applausi o le risate ti fanno sentire le vibrazioni di tutti i tuoi tendini per la felicità) è qualcosa oltre il tempo e il luogo. Utopistico sarebbe descriverlo a qualcuno che non c'è mai stato su quel palco, qualcuno che per diversi codici genetici, non prova quello che provi tu quando sei lì. E per ogni attore è diverso, ma uguale.

Il teatro è una macchina del tempo che ti porta nel passato, presente e futuro tutto compresso, che ti scuote dai tuoi contrasti, dai tuoi pregiudizi, dalle tue perversioni, dai tuoi stereotipi. Ti lascia libero e nudo, leggero come se stessi correndo sotto la pioggia, cantando, in un prato, senza doverti preoccupare di niente, niente che sia sopra o sotto la pelle. Comprime ogni momento del tuo passato, e ti permette di vedere il futuro, quello che ovviamente noi tutti abbiamo già sotto la pelle da prima di nascere.

La recitazione era la massima espressione del vivere per me.

Fino a che non incontrai te. E il suono, che ancora sento, di quelle note che suonasti quel giorno, me lo dimostrano. Mi fanno sentire come se dovessi nascere ancora. Le sento dentro le orecchie, tutto il giorno, come se fossi ancora seduto lì al tuo fianco.

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Capitolo 7
*** Capitolo sesto ***


Nuova pagina 1

Capitolo sesto

 

E come conferma di ciò che vi ho appena accennato, avevo vari, moltissimi sogni. La maggior parte rimanevano nella mia testa come cose lontane che erano belle da immaginare ed anzi già nel momento in cui le pensavo sapevo benissimo che sarebbero rimaste sempre irrealizzate. Come quelle cose che si dicono, quando si incontrano per strada i vecchi amici, quando ci si lascia. "Ci si vede" o "Dai un giorno ci vediamo, facciamo una cena, qualcosa, poi ci sentiamo." Sai già dall'inizio che non succederà, ma non perché non lo si voglia entrambi, solo perché tornato a casa già te lo sei scordato. La mente umana ha un principio fondamentale che agisce di riflesso; è una cosa immediata "Lontano dagli occhi, lontano dal cuore." Cavolo se è vero. Anche per la persona più importante della tua vita questo succede. Puoi metterci minuti, giorni, anni interi. Ma prima o poi, quel giorno arriva. Quel giorno in cui quella persona diventa un pezzo di ricordo, il passato, s'incarna nel tuo stesso cuore come parte di te stesso e tu, vai avanti. Non c'è altro modo di per vivere la vita se non vivere. Continuare, andare avanti. Non esiste altro. Quel giorno arriva, per tutti. Ma, ehi, con questo non voglio mica dire che in un secondo tutto non può rinascere! E poi anche se quel giorno arriva e tu poni quella persona (o quella cosa, perché il procedimento può succedere con tutto quanto) dietro le tue spalle, ciò non vuol dire che non sia importante per te. Magari è ancora la più importante. Ti prende tutto il cuore, tutti i ricordi. Mia madre per me era stato questo. Lei, era rimasta dentro di me, era proprio parte di me. Ma anche per quello che la riguardava era arrivato quel giorno. Anche se ogni giorno la pensavo. Non è che la pensassi, non mi sedevo e la pensavo, semplicemente la ritrovavo nel mio stesso sguardo o sorriso, nelle parole, nei gesti, nelle cose, nei luoghi. Tutto viveva di lei, dentro e fuori me. Ma il giorno era arrivato. Ed era arrivato esattamente due anni prima. Il 16 settembre del 1996 era stata l'ultima volta. Me l'ero ripromesso. Mi sentivo un bastardo anche se non lo davo a vedere, cercavo di non pensarci, di pensarci il meno possibile per lo meno. Non volevo sentirmi in dovere di andarla a trovare, non volevo andarci, neanche mi riconosceva e... ma cristo lei era viva ed io l'avevo abbandonata! No, no... non l’avevo mica abbandonata andiamo... No? Sicuro? Eppure il fatto che la clinica per l'igiene mentale in cui era ricoverata era a cinque, solo CINQUE, minuti da casa mia non voleva forse dire averla abbandonata ed anzi ignorata, da bravo cristiano. Che cazzo dico, io non ero neanche cristiano... Ma ero come tutti gli altri milioni di uomini. Mi sentivo tale in questo. E la mia, presuntuosa, ricerca della superiorità nei confronti della massa ne risentiva. Perché, come tutti gli altri, se vedevo un bambino che non aveva niente non ero disposto a dargli più del minimo possibile. Se mi sentivo buono. Ma quei morsi allo stomaco li sentivo anch'io e mi facevano star male. Ed erano quelli che sentivo ignorando così la persona più importante della mia vita intera, passando davanti alla sua finestra ogni giorno. Ma avevo deciso. E non tornavo indietro, no, no... credevo che non avrei mai cambiato idea. Anche in questo arrivasti a smentirmi.

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Capitolo 8
*** Capitolo settimo ***


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Capitolo settimo

 

Te lo ricordi che giorno è oggi? Sono 5 anni precisi che non ti vedo. E non ti sento. Cinque anni, cinque cazzo di anni. Non una lettera, una cartolina, una telefonata, un SMS... niente. Sono venuto a Torino un casino di volte in questi anni ed ogni volta mi giravo intorno guardando la città come se fosse di cellophane, proprio come quella porta, avevo solo te in testa, nel cuore. Per quel che ti riguarda il giorno per lasciarti alle spalle, per fare il passo che oltrepassi quella linea, la tua linea.. Il Giorno, con la G maiuscola, ancora non è arrivato. Non sono ancora disposto a fare quel passo Noemi. No, per niente. E vengo da te.

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Capitolo 9
*** Capitolo ottavo ***


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Capitolo ottavo

 

Ti rividi un giorno d’ottobre. Senza che per tutte quelle settimane il mio pensiero mancasse l'appuntamento con te. Ogni giorno eri nella mia testa. Ed era inspiegabile per me, come era possibile, tutti quei segni... avevo sempre creduto nel destino ma in questo modo, così mai. Era come se tutto il mondo, ogni foglia e raggio di sole, cercasse di indicarmi te. E non sapevo neppure il tuo nome... era una cosa così stupidamente, completamente irrazionale! E Bum... Ecco che eri di fronte a me quando alzai lo sguardo. Una mattina di sole e stavo andando a scuola, niente di più. Andavo a scuola, come ogni giorno. E Bum. Tu eri lì. Il mio cuore crollò e con lui tutte le fondamenta su cui era posto. E tu eri lì. La borsa a tracolla, lo sguardo perso, i capelli castano chiaro che saltellavano con il vento. Mi fermai, proprio in mezzo alla strada. Immobile. Forse tu non te lo ricordi perché guardavi nella borsa, alla ricerca di un romanzo, ma io me lo ricordo. Mi ricordo te più di tutto il resto. E quando alzasti lo sguardo e sembravano passate ore. Quando mi guardasti, perplessa. I tuoi occhi... che mi mancano da impazzire.

Passammo una decina di secondi a guardarci, poi tu ti alzasti e mi venni incontro, proprio lì, al centro della strada.

"Ciao." dissi tu.

"Ciao." risposi io.

"Mi chiamo Noemi." e mi porsi la mano. Una bellissima mano.

Io te la strinsi con forza ma poi diminuì la presa sentendo la tua appena più morbida "Leonardo."

Ancora qualche secondo di silenzio. "Dobbiamo proprio stare qui in mezzo alla strada per parlare?" chiesi senza guardarmi. I tuoi occhi luccicavano come assenzio sotto la luce del sole.

"Dipende... "

"Da cosa?"

"Qual è l'alternativa?"

Tu risi. E colorasti l'aria d'oro, di profumi dolci, orientali, di suoni dolci come le note che suonasti.

"Che ne dici di un gelato?"

Credo che mi illuminai, in quell'esatto momento. Ti guardai negl'occhi e sorrisi con i brividi che mi attraversavano anche i denti. "Ti seguo."

E poi è un momento, mi prendi per mano e siamo già in gelateria, siamo già una cosa sola.

E' inspiegabile vero? Ci hai provato in questi anni a raccontarlo a qualcuno? Quello che c'è stato tra me e te... quella magia. O sei riuscita anche solo a spiegarla a te stessa? Io ci ho provato in questi anni, a raccontarlo. E non ci sono mai riuscito. Non l'ho mai capito neanche io fino in fondo. L'ho vissuto però, fino all'ultimo briciolo, fino all'ultima goccia. Mentre tu sei andata via.

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Capitolo 10
*** Capitolo nono ***


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Capitolo nono

 

Ti aspettavo, in quella sala con i muri gialli e la ferma tovaglie a forma di topo. Quel bar che rappresentava l'atmosfera dell'interno di una gigantesca gruviera. Miglia e Miglia di distanza da casa. E sai cosa pensavo allora? Me lo ricordo bene perché avevo appena incontrato un mio vecchio amico, uno che era pure stato l'ex di una mia ex. Si chiamava Stefano, il cognome non lo sapevo e quando lo rividi il nome non me lo ricordavo neanche. Lo chiamai Simone e da allora sai, una cosa tira l'altra, finimmo a parlare del perché mi trovassi così lontano da casa. Finimmo a parlare di te. Gli dissi, ho conosciuto una tipa... la sto aspettando. E così tra il suo stupore per il fatto che avessi fatto tutti quei chilometri solo per vedere una, lui mi chiese chi fossi ed io gli risposi. Così... sai quando si dice un nome e ci si aspetta che l'altro dica "Boh..."? Lui invece sgranò gli occhi e si sedette, ti descrissi meglio e cavolo sai cosa scoprii? Eri stata la sua ex. Per ben 6 mesi quando lui viveva ancora dalle nostre parti.

Ed anche se il mio iniziale pensiero fu: "Ma guarda se devo continuare a scambiarmi le morose con questo..." , dopo mi trovai a riflettere sulle circostanze della vita.

Pensai ancora più forte, quando lui se ne andò.

Tu mi eri passata davanti chissà quanto volte prima di quel fatidico giorno al Garibaldi. Eppure prima di allora nulla, nero, vuoto, zero. Non sapevo nemmeno che esistesse qualcuno come te. Nemmeno che esistesse un tipo d'amore come questo. Che dura per sempre.

E allora dimmi, non è forse vero che in alcuni momenti della nostra vita siamo destinati a fare certe cose, andare in certi posti ma soprattutto ad incontrare certe persone?

Non è vero che era quello il nostro momento?

Quel giorno in cui improvvisamente tu sei diventata il centro della mia rotazione ed io il tuo quando fino al giorno prima eravamo due perfetti estranei.

Non è forse vero che le persone arrivano per un motivo a sbatacchiare la tua vita come fosse un calzino sporco nel cesto dei panni?

Io so che un motivo c'è, eccome. Non mi è dato sapere quale anche se lo cerco.

Ma so che c'è.

Come quando senti qualcuno che ti osserva, sai che c'è, è lì. Ne senti la presenza.

Io sento la presenza del nostro motivo. L'ho sempre sentita, quel giorno al Garibaldi, il giorno in cui hai suonato al mio fianco, quando ti ho portato a teatro, ora in questo treno.

E' tutto intorno a me ed anche intorno a te. E' assordante.

Lo sentivi anche quel giorno, ci scommetto. Quando sei entrata e mi hai fatto quel sorrisone grande come il Titanic e i tuoi occhi si sono illuminati della luce che emanavi. Hai sventolato la mano con il tuo solito fare, la tua postura, i ritmi dei tuoi movimenti. Le tue movenze, erano sempre, tutte, scandite da un ritmo, unico nel suo genere, che mi faceva battere il cuore nel petto come se fosse un orologio a cucù; avevano tutto uno schema particolare, seguivano dei tempi precisi, erano armoniosi, musicali, eppure a scatti; come se dondolassi ma ad un certo punto dovessi bloccarti improvvisamente, senza preavvisi, con uno scatto, e poi ricominciare dolcemente come prima, senza che niente fosse successo.

Anche tu eri un po’ così. Certi giorni eri la donna più dolce del mondo, più affettuosa (mai troppo per me comunque), altri non salutavi neppure e poi ritornavi dolce come sempre.

Eri un completo mistero per me, eppure era come se ti capissi meglio di quanto non avessi mai capito me stesso.

Ti suona? Conosci queste cose che ho provato? Le hai provate anche tu? Oppure le hai capite immediatamente guardandomi negl'occhi?

Fu quel giorno, credo si possa dire, che tutto ha cominciato ad assumere una forma razionale. Almeno credo che gli storici porrebbero l'inizio qui o no? Tu che ne dici? Tu che con la tua cultura ed intelligenza ed arte bestiale mi facevi sentire un perfetto imbecille, io che facevo sentire così tutti gli altri e mi ero oramai abituato a lasciare tutti basiti dalla mia profondità o da un mio discorso ben articolato (in quelli poi ero un mago), ero abituato ad insegnare io agl'altri. E tu, tu sapevi già tutto ciò che volevo insegnarti e forse anche di più. Non eri superiore ma mi davi del filo da torcere, eri troppo intelligente. Forse per questo mi affascinavi così tanto?

Comunque sia io l'inizio voglio porlo qui. La prima cosa che ti ho mostrato, dopo averne viste alcune da te, come quel giorno al pianoforte.

Ti ho aperto il mio cuore, per cercare di farmi aprire il tuo. A dire il vero forse era già spalancato ma io non lo vedevo, angosciato com'ero da tutte quelle cose che angosciano un uomo innamorato. Ti ho mostrato una delle parti più importante di me, volevo che entrassi a farne parte. Ti volevo con me, sempre.

Volevo vivere con te ogni cosa.

Volevo darti la chiave di tutto me stesso.

Volevo avere lo stesso da te.

Volevo te, ma non nel senso puramente fisico della frase. Ti volevo mentalmente prima di ogni altra cosa.

Volevo una persona speciale, a cui mostrare tutti i pensieri che avevo nel cuore, che potesse leggerli.

Fu questo che mi uccise sai? L'aspettarmi qualcosa e non il prendere semplicemente quello che veniva. E' stato come pretendere di costruire un grattacielo sulle fondamenta di un capannone. Un gran casino.

Comunque, siamo ancora nella gigantesca gruviera. Tu davanti a me, non mi abbracci né mi dai i soliti bacini di rito sulla guancia, che io odio e tu con me. Ma non importa perché niente di tutto ciò avrebbe potuto darmi quanto il contatto che li avrebbe seguiti. Quando ti presi la mano per portarti con me, dentro di me. Non so dirti l'esatta motivazione ma stringerti la mano mi emozionava più di ogni altra cosa al mondo. Attraverso le tue dita sentivo davvero il tuo affetto. Quello che magari non hai mai dimostrato a parole, me lo passavi attraverso le mani. Il mio cuore sgusciava come un pesce tra le mani quando ti sfioravo la mano, si dibatteva, picchiava contro lo sterno. E poi si fermava improvvisamente, si calmava e trovava lo stato di pace più assoluto del mondo. E fu così che ti portai con me, attraverso le strade della città, fino al teatro, dove studiavo da tre anni. Dove trovavano sede almeno la metà dei ricordi più importanti della mia vita. Erano le nove di sera, all'incirca. Aprii la porta e ti guidai all'interno. E stavo così bene che non puoi neanche immaginarlo. Ti portai dietro, dove c'erano le quinte, in mezzo agli attori, frenetici per lo spettacolo che stava per andare in scena. Mi fermai, in mezzo a due file di costumi e ti guardai, tenendoti sempre la mano. Non la lasciai mai. Mi guardavi, mi sorridevi, avevi una luce negl'occhi, la solita luce che ci avevo sempre visto. La luce che amavo con ogni parte di me stesso. E risi. Non una vera e propria risata, non di gusto, né isterica. Era più che altro un sogghigno, lo facevo spesso- in particolare quando ogni cosa che avrei potuto dire mi sembrava molto stupida- in particolare con te.

"Leo! Cazzo ci sei allora! E' mezz'ora che Ghiliotti ti telefona! Tra cinque minuti sei in scena con il monologo... Emy è già pronta è di là..."

"No grazie Edo, stasera non lo faccio con lei il pezzo d'introduzione..."

"Ah...Ma Ghiliotti lo sa?"

"Che importa?"

"Sai che si arrabbia..."

"Dici?si...okay...ehm, chi se né frega."

"Beh okay, preparati..."

E tu mi guardasti. "Devi recitare? Ora?" mi chiesi.

Io ti sorrisi e afferrai una bandana di scena.

Tu seguisti con lo sguardo la mia mano "Che fai?"

"Non chiedere. Fidati." e ti lasciai la mano, solo per un attimo per allacciarti la bandana dietro la nuca, così da coprirti gli occhi. I tuoi capelli erano soffici ed emanavano un odore di shampoo alle mandorle aromatico come le spezie. Ti ripresi immediatamente la mano.

"Leo..." mormorasti tu, dubbiosa.

"Fidati." e ti portai tra la folla di scenografi e costumisti fino al sipario. Ti presi le spalle- ancora tenendoti la mano- e mi piantai dritto davanti a te, bellissima con le labbra socchiuse e la fronte inarcata in preoccupazione.

"Ci siamo solo noi. Io e te. Capito?"

Eri ancora più preoccupata, le tue labbra s'erano contratte in una smorfia. "Che stai facendo?"

"Noe. Ascolta. Senti il rumore, quello delle onde? S'infrangono sugli scogli. E il vento, che ti accarezza la pelle, il grano che ti solletica le braccia. Ci siamo solo io e te qui, ora, in questo esatto momento. Io e Te." sussurravo appena.

E il sipario si apre. Tu non puoi dire nient'altro, la mia voce, il mio timbro improntato sulla recitazione e sulla dizione, ti sovrasta.

"Selene, gentile Selene dea di quella luna lassù nel cielo! Perché non mi aiuti? Non vedi che son morto? La luce di tuo fratello sole non vuole la mia bella conquistare, lei preferisce la gentil notte di cui tu sei sovrana ma tu, sua signoria, non vuoi dar me una mano? Oh, seducente luna, guardala. Il di lei sguardo è fermato da sudice bende che non la competono, ma assistimi, mia dea. Se ben la guardi, li puoi veder di già i suoi occhi, perché la loro luce splende oltre i muri e la terra e il cielo! Due smeraldi che ben s'apprestano ad esser scambiati per pietre preziose se non fosse che essi ben più preziosi son! Tu vedi quanto bella pare Esmeralda, bella a me sembra più d'ogni altra cosa che in cielo e in terra abbia mai respirato."

E le mie mani che ti sfiorano i capelli e le orecchie, ti slego la benda e la faccio scivolare per terra, lentamente.

"Libera! Libera ti faccio! Poiché non uno può incatenare cotanta bellezza nelle sue sole mani ed io, più umile tra gli uomini, potrei tanto meno degl'altri cavalieri che t'aman mia dolce Esmeralda  Libera, ma non dal mio amore liberata! Senza voler nulla da te, m'appresso a dare qui ogni cosa per il resto della mia immortalità." M'inginocchio e ti prendo la mano "Perché mi par vero quanto bella può esser donna, i suoi capelli e le sue dolci labbra, ma quanto bella vostra anima sia io non posso credere ma solo prestar servigio senza esiger nulla più di ciò ch'amor dà."

E il sipario si chiude e i rumori e gli applausi, tutto mi sembra lontano.

Solo i tuoi occhi nei miei.

Io e Te.

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Capitolo 11
*** Capitolo decimo ***


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Capitolo decimo

 

Non immagini nemmeno cosa volesse dire per me, quanta sofferenza, nei momenti in cui tu ti isolavi dal resto del mondo, me compreso. E lo facevi proprio quando tutto andava per il meglio. Ed io non riuscivo proprio a lasciar correre ed aspettare con pazienza che il tuo periodo "scazzo" passasse. Mi arrabbiavo, mi arrabbiavo da morire. E mi arrabbiavo perché non mi cagavi, e mi arrabbiavo perché dovevo sempre essere io quello a cercarti, e mi arrabbiavo perché mi sentivo inferiore, e mi arrabbiavo perché non volevo e non potevo pretendere da te che provassi qualcosa che non provavi, e mi arrabbiavo perché mi accorgevo di essere stupido e pazzo, e mi arrabbiavo per come tutto mi toccava, e mi arrabbiavo perché non riuscivo a farmi scorrere addosso le cose, e mi arrabbiavo perché ero come ero e perché tu eri come eri, e perché le cose erano come erano, e mi arrabbiavo con il destino, e mi arrabbiavo perché non volevo essere arrabbiato, e mi arrabbiavo perché tu non vedevi la mia rabbia e perché non volevo scaricartela addosso, e mi arrabbiavo perché la mia rabbia mi portava ad allontanarmi da te e a perderti, quando il tempo a disposizione era poco. Pochissimo.

Odiavo i tuoi periodi scazzo. Mettevano in discussione tutto, tutto ciò che di buono c'era stato, tutto ciò che di bello mi avevi mai detto, tutte le dimostrazioni d'affetto che mi avevi dato, ogni mia sicurezza a proposito di me e te. Tutto a puttane.

Mi facevano sentire completamente incapace di raggiungere l'obiettivo che mi stavo segretamente prefissando, che stavo cercando di raggiungere a piccoli passi; scuotendo la tua anima, stordendo i tuoi sensi, portarti ad una rinascita, darti tutto ciò che era mio, ricevere tutto ciò che era tuo; farti rinascere dalla pioggia attraverso il mio sole, accennarti i tuoi desideri per farli diventare reali in me, riscoprire terre di palloncini e colori. Volevo rinascere con te, grazie a me.

Ma era davvero difficile con te; era impossibile con te. Più mi avvicinavo e più ti allontanavi, più mi allontanavo e più ti allontanavi. Ma ogni tanto ti avvicinavi, in un botto rappezzavi tutta la distanza, ed io non capivo qual era stato il segreto di questa riappacificazione, il sussurro del mio cuore al tuo, il sussurro del tuo cuore al mio. Non capivo l'ingrediente ed allora durante i tuoi periodi scazzo, mi ritrovavo tutte le volte, punto e a capo, a stare male.

E stavo malissimo, non puoi neanche immaginartelo. Stavo male, male, male, male. E mi dicevo, bene, ora basta, vuole fare la super donna? Non mi caga? Cazzi suoi, solo peggio per lei. Sai quante ne posso trovare meglio di lei, io? Vaffanculo... fanculo, fanculo lei, fanculo il destino, fanculo tutto.

Il tempo si fermava intorno a quella decisione di non cercarti, per quanto sentissi l'errore che stavo commettendo. Eppure una volta che decidevo il mio orgoglio non mi permetteva più di tornare indietro. E chissà quanto tempo buttato nel cesso per questo... non l'ho contato ma dev'essere stato davvero tanto. Per cosa poi? Non mi sentivo affatto soddisfatto. Ed anzi, stavo male come un cane, mi mancavi da morire e volevo crocifiggermi perché mi stavo facendo male da solo.

Dopo le prime due crisi in-scazzo adottai un metodo più consono alla mia proverbiale testarda sensibilità. Pazienza e Perseveranza. Queste erano le due parole chiavi. E me le ripetevo nella testa durante i tuoi periodi scazzo, anche mille volte al giorno. Pazienza e Perseveranza.

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Capitolo 12
*** Capitolo undicesimo ***


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Capitolo undicesimo

 

Avevo un sogno nella testa. Da anni almeno, anche se io ero convinto che avesse sempre fatto parte di me. Il desiderio di prendere la mia maglietta migliore, tutti i soldi che avevo, le persone più importanti al mondo per me, e partire. Non per sempre, non definitivamente. Anche se doveva essere una cosa eccezionale per chi vi avrebbe partecipato. Non doveva rimanere nella storia ma nei cuori di tutti coloro che c'erano stati ed avevano visto, con i loro occhi. Doveva rimanergli nel cuore quella luce, la luce della Spagna, della Francia e poi in Germania, tappa a Lugano, Basilea e poi giù fino a Firenze, Roma, Pompei, Napoli, Venezia, Pisa; poi passata l'Italia di nuovo su, Slovenia, Repubblica ceca, Danimarca, Grecia, Croazia, Olanda, Portogallo, di nuovo Spagna e Francia, Inghilterra, Galles, Scozia e, ultima e più desiderata, Irlanda. La splendida terra smeraldo. Quella che consideravo la mia seconda terra, se non la prima. Non c'ero mai stato ma lo sapevo, lo sentivo, senza un motivo logico. E lì volevo andare a finire il mio sogno.

L'Inter-rail, il sogno di una vita. Un biglietto del treno che valeva per sempre. Sei mesi di pausa dalla routine. Sei mesi di VITA pura, caricata nel corpo, una spina attaccata direttamente al cuore. Te ne parlai il giorno stesso, o forse quello appena prima, in cui mi accorsi che eri diventata la persona più importante di tutta la mia vita.

Te lo promisi.

Ti dissi che ti sarei venuto a prendere. Che ti avrei caricato sulle spalle se fosse stato necessario.

Vengo a mantenere la promessa dal momento in cui, tu sei ancora la persona più importante della mia vita. Anche senza farne parte.

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Capitolo 13
*** Capitolo dodicesimo ***


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Capitolo dodicesimo

 

Ottanta aveva sempre idee nuove. E su questo nessuno potevo dire nulla. Peccato che erano tutte gigantescamente stupide. Come quando venne a dirci che dovevamo provare a pattinare su una pista da bowling, o come quando ci chiese cosa sarebbe secondo voi l'acqua se fosse asciutta. O perché il Galak avesse come simbolo un delfino. Voglio dire, il delfino mica fa il latte. O come si riempiono i tubetti del dentifricio, e soprattutto di cosa è fatto il dentifricio? Perché, voglio dire, lo shampoo fa niente se non so di cosa è fatto, ma il dentifricio me lo metto in bocca tutti i giorni! Se fosse fatto di lardo di maiale spremuto più foglie di aloe vera?

L'ultima trovata fu grandiosa. Ci disse che dovevamo assolutamente inventarci un chip che registrasse tutta la nostra vita, sogni compresi. Questo chip, il magazzicordi, doveva essere installato alla nascita in un area del cervello in cui avrebbe potuto immagazzinare tutte le memorie di un uomo. Il fatto è che Ottanta non sapeva neanche lontanamente quali fossero le aree del cervello, né se fosse lontanamente fattibile, né se esistesse una tecnologia simile. Ottanta era l'uomo più utopico che noi tutti avessimo mai conosciuto. Solo che lui non si accorgeva molto di esserlo ed, anzi, si sorprendeva che gli altri non gli dessero corda. Tutti noi ci scherzavamo sopra su questo suo estro, quasi tutti non consideravano la persona che si nascondeva sotto quelle magliette "Ottanta Voglia Disco Party". Lo vedevamo come un buffone, uno così, un Peter Pan eterno perso dietro alla barzelletta del pomodoro che non riesce a dormire perché l'insalata russa, un sognatore con in testa una visione del mondo alla Dawson's Creek. Un immaturo, a volte anche un insensibile.

La verità era che Marco era il ragazzo più sensibile che fosse mai esistito sulla faccia di questo mondo del cazzo. Lui era davvero un cazzo di genio. Era un grande. Uno che aveva capito tutto un attimo prima del resto del mondo ma che era stato zitto, senza prendersi la gloria aveva aspettato pazientemente che qualcun'altro ci arrivasse con la sua testa e si prendesse tutto il merito. Era un mediano, uno che si faceva il culo per tutti i novanta minuti più di tutti quanti, colui che faceva davvero vincere le partite mentre i giornali, i tifosi, tutti, idolatravano l'attaccante di turno. Lui era il migliore. Migliore di gran lunga di tutti quanti noi. E aveva accettato che altri, pur peggiori di lui, si prendessero la fama di migliori.

Ma tutti lo videro, tutti videro l'uomo che era. Improvvisamente a tutti fu chiaro. Io lo sapevo già che uomo fosse, lo ammiravo già da tempo. Ma quando si presentò, un giorno di pioggia, bagnato di fronte a casa mia, dicendomi che ora sapeva quali fossero le parti del cervello e che me le avrebbe svelate così potevo costruire il chip, dicendomi che ora le sapeva tutte benissimo perché aveva un tumore proprio lì, singhiozzando come chi ha paura di non poter più aiutare le persone che ama e non come chi ha paura per se stesso, piangendo sotto la pioggia mi abbracciò, la maglietta nera con un grande 80 stampato sopra appiccicata al petto, come se volesse sorreggere me più che farsi sorreggere. Tutti seppero che lui era il migliore.

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Capitolo 14
*** Capitolo tredicesimo ***


Capitolo tredicesimo

Capitolo tredicesimo

 

Capitolo tredici. Credo di doverlo trattare con le pinze questo numero, poiché mi ricorda te. Il tuo numero preferito, quello che indossavi su quella maglietta bianca e rossa di pallavolo, in quella foto in cui il tuo sorriso da bambina è grande come ora, in cui i tuoi occhi verdi brillano anche lontani cento metri. La maglia che indossavi in quei ricordi, quando ancora tu non conoscevi me ed io non conoscevo te. Eppure ti giuro che ogni volta che vedevo qualcosa di tuo, una foto, un luogo che per te era un ricordo, era come se l'avessi già visto, come se ci fossi già stato.

Lo sentivo sotto la pelle.

Lo sentii per la prima volta quando lessi "Ricordi di Cose Presenti". Tu amavi scrivere e questa nuova scoperta mi percosse come un tamburo. Perché anch'io amavo scrivere, da sempre.

Me lo chiedesti così, d'improvviso, di leggere quello che avevi scritto, quello in cui tu avevi messo tutta te stessa. Nemmeno mi conoscevi molto quando me lo chiedesti. Mi dissi che te lo sentivi, che ero la persona giusta. E non sbagliavi.

Proprio allora sentii quella sensazione. Fu stranissimo, la prima volta come la seconda, diverso, ma in entrambi i casi strano. Come se tutto quello che stavo leggendo l'avessi già visto, ma senza farne parte. Mi prendeva una certa malinconia mentre leggevo, come se facessi parte di qualcosa essendo invisibile e quindi non facendone parte per nessun altro. Parlavi di te, di altri, di sentimenti e pensieri, con naturalezza e forza, descrivevi i miei sentimenti, i miei pensieri pur senza averli mai ascoltati, perché erano forse anche i tuoi. Ma parlavi anche d'amore, di un amore vero, un amore come quello che da una vita anch'io cercavo. Tu questo amore, dio, l'avevi già trovato. Mentre io pensavo di averlo trovato in te, che stupido...

Ma lì, in quelle righe, tu parlavi di quello che io provavo per te, descrivendo quello che tu provavi per lui. Lui, che non ero io.

Tremavo, piangevo quasi, mentre leggevo. Sentivo questa cosa che tu provavi per un altro, che era la stessa cosa che io provavo per te.

Non funzionava. Non potevo essere io la tua persona speciale se tu già ne avevi una.

Perché allora, perché? Mi chiedevo perché tutto mi portasse a te, se questo non significava niente. Ed intanto, nel sedile anteriore della macchina di mio padre, andando verso teatro, alzando gli occhi da quei fogli in cui tu avevi messo l'anima e io avevo lasciato la mia, un cartello pubblicitario grande come una casa diceva "NOEMI bomboniere".

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Capitolo 15
*** Capitolo quattordicesimo ***


Capitolo quattordicesimo

Capitolo quattordicesimo

 

A volte avrei voluto davvero essere stupido. Uno qualsiasi.

Il 18 gennaio 1999 Marco Ottanta morì. Lo sapevamo che sarebbe successo. Lo sapevamo tutti che era grave, irreversibile. Ma mi scarnai le mani da quanto strinsi i pugni. Mi rimase dentro come pianse Rebecca. Anche sua madre piangeva, anche suo padre, Davide, Diego, Ruben, io. Tutti piangevamo, ma quando vidi Rebecca mi sentii male in profondità, fino al fegato. Il pianto di una ragazza innamorata quando gli tolgono l'uomo che ama. Non respirava, era accucciata in un angolo del corridoio e singhiozzava, si agitava come una tartaruga a pancia in su, tremava, rantolava, chiamava il nome Marco sincopato dal respiro che mancava. Morii dentro e rinacqui vedendola, tra la sofferenza che mi graffiava ogni parete del cuore, fui preso da una gioia immensa, da una voglia di te che mi riempì di vita.

Respiravo ancora. Morto respiravo.

Emma mi abbracciava, mi accarezzava i capelli e io mi staccai da lei di colpo, con gli occhi gonfi come due palle da bowling la guardai, le labbra che tremavano e il viso che si contorceva tra la sofferenza. Guardandola, mi voltai e corsi via. Giù per le scale, veloce come non lo ero mai stato, l'aria mi entrava nei polmoni anche se avevo la bocca e il naso chiusi, di corsa per le strade, sotto la pioggia e il sole che bucava le nuvole. Morto e pieno di vita, fino a casa tua, e, la cosa mi stupì e mi colpì come una freccia nel cuore, tu eri lì davanti alla porta, come se già lo sapessi, come se già mi aspettassi. Mi guardasti da sopra i tre gradini del portico di casa tua e io guardai te, bagnato tanto da sentirmi davvero libero, davvero vivo. Mentre piangevo, risi guardandoti. Risi e piansi, fortissimo, mentre ti abbracciavo, forte come non avevo mai abbracciato nessuno in vita mia. Tu eri ancora lì, con me. Ed io, ero vivo.

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Capitolo 16
*** Capitolo quindicesimo ***


Capitolo quindicesimo

Capitolo quindicesimo

 

A volte avrei voluto davvero essere uno stupido. Uno qualsiasi.

Avrei voluto non dover sentire tutto quell'amore, quelle emozioni che mi sommergevano di tanto in tanto. Sempre. Avrei voluto non accorgermi delle piccole cose, avrei voluto non sentire le emozioni degl'altri. Avrei voluto non rendermi conto di nulla. Essere uno stupido.

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Capitolo 17
*** Capitolo sedicesimo ***


Capitolo sedicesimo

Capitolo sedicesimo

 

C'erano certi giorni Noe, che i tuoi occhi erano belli più dell'aurora boreale. Come quando, quella sera di febbraio, ti sentii cantare, proprio seduta al mio fianco, quella canzone. Natural Woman, mi guardasti dritto negl'occhi. Fino in fondo all'anima. E i tuoi occhi erano intensi come una pioggia d'estate e chiari come l'arcobaleno. Bellissimi. Io ti amavo, ti amo, e i brividi che mi percorsero la schiena quella sera di fine inverno furono veri, veri come un pugno nella bocca dello stomaco, mi lasciarono senza respiro.

Quella canzone cantata, sul filo tra la coscienza e l’incoscienza, per me, mi rimase dentro. Ancora oggi la ascolto, almeno una volta al mese, e tutte le sere, ad un anno, due, tre, quattro, cinque di distanza da quella sera. Ogni anno, come se fosse diventato un appuntamento fisso. Ed ogni volta che l'ascolto, l'immagine di te che mi guardi cantando, una mano che mi stringe con forza l'avambraccio, seduta al mio fianco, la tua voce, favolosa da far venire i brividi, i tuoi occhi...

Ogni volta quei ricordi ritornano prepotentemente nel mio presente, come fantasmi che, riapparendo, mi tormentano così dolcemente da far sorgere lacrime sul bordo dei miei occhi.

Lacrime di rimpianto, di rabbia, di dolore, di mancanza. Lacrime di felicità, di una felicità sgomentante da prendermi tutto il corpo, tutto il cuore, tutta l'anima.

Quelle immagini mi colpiscono come gocce di pioggia di un temporale estivo, mi percorrono la pelle, mi impregnano i capelli fino a gocciolare dalle punte dei ciuffi, sulle labbra, mischiandosi con le lacrime calde che racchiudono emozioni forti come il sole su mercurio.

Quella sera, era il 2 febbraio, era una di quelle sere... rare, splendide, in cui tu spugnavi tutto di un interso argento vivo, spruzzavi le pareti d'arancio, il cielo d'azzurro intenso, il sole splendeva di più, anche se era già tramontato, la luna brillava come in un film di Baz Luhrman, e le stelle avevano occhi e sorrisi.

Era una di quelle sere in cui ci sembrava di poter cambiare il mondo.

Tu mi guardavi e vedevi tutto ciò che c'era da vedere, tutto, fino in fondo al cuore, e cantavi. Cantavi di sensazioni. Ed io, dal canto mio, che ti avevo sempre in testa, rimanevo estasiato dalla potenza del tuo affetto, colpito dal furore delle tue attenzioni come se fossi stato fulminato, folgorato dal tuo modo di illuminare, di riempire le stanze, di riempire me.

Non succedeva mai, davvero mai.

Tu, in mezzo a tanta gente, guardavi me.

Era una tavolata di almeno, almeno quindici persone. Perché poi, lo sai, per diciassette anni la mia esistenza era andata avanti nella più assoluta ignoranza di te, di chi fossi, di quali fossero i tuoi sogni e le tue sofferenze, e poi, in un botto, scopro che la persona che mi ha fatto scoprire la cosa per me più importante, il teatro, una persona che per me era come e più di una sorella, era anche una tua grande amica; ovviamente doveva succedere.

Ed allora, torniamo alla tavolata. Io da una parte del tavolo, tu dall'altra. Se fosse stata una sera normale, tu sai meglio di me, non te ne saresti neppure accorta.

Ed invece, era una di quelle sere in cui ci sembrava di poter cambiare il mondo e tu, tu te ne accorsi. E mi guardasti spesso, dicendomi, così dolcemente che pensavo che tu non fossi tu, di cambiare posto e venire lì vicino a te. Non hai idea di quanto il mio cuore si riempì, di te, di me, del luogo, dell'aria che tirava; il momento si stampò dentro di me come un francobollo, come un marchio a fuoco. Quella sera, la tua voce mi bucò i timpani e penetrò come un chiodo fino all'interno. Il tuo viso, il tuo sorriso... i tuoi occhi mentre mi chiamavi, senza motivo, per abbracciarmi alla vita, appoggiando il tuo viso sul mio fianco. Non mi sembrava possibile, la luce che brillava nei tuoi occhi che erano verdi più del prato dell'Irlanda. Erano belli più del sole che si nasconde dietro al mare.

Quasi non mi sembravi tu... Eppure, era come se fossi tu, più di ogni altra volta te stessa. Tu, alla massima potenza.

Era una di quelle sere in cui ci sembrava di poter cambiare il mondo.

 

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Capitolo 18
*** Capitolo diciasettesimo ***


Capitolo diciassettesimo

Capitolo diciassettesimo

 

Una volta, una delle tante, parlammo di Dio.

Fu quando ti chiesi di venire con me al cimitero, a trovare Marco. Perché pensavo che con te lì di fianco non avrei pianto come uno scemo. Pensavo che avresti potuto riempire il vuoto che provavo.

E poi, volevo che lui ti vedesse, dovunque fosse. Volevo che vedesse la persona più importante della mia vita.

Alla fine, piansi. Ma non come uno scemo. Piansi come uno che ha perso un suo amico, piansi come un uomo e, porco cane, come uno che aveva il diritto di piangere.

E tu eri lì, anche allora.

Eri lì.

E c'era il tuo abbraccio, le tue dita tra i miei capelli, il tuo profumo. Il tuo silenzio, più confortante di centomiliardi di milioni di parole.

E sì, mi sentivo uno scemo ma invece feci quello che sa che è più forte uno che non ha paura di mostrare le lacrime che uno che le trattiene. Cioè, lo sapevo teoricamente ma praticamente era tutta un'altra storia...

Ma l'imbarazzo sparisce presto quando muore una persona che non puoi credere morta, da un momento all'altro. Ti spezza in due.

Ed una lacrima si trasforma in due, due lacrime in quattro, e quattro lacrime in otto, e otto in sedici... E più piangi e più hai voglia di piangere, più ti ricordi tutto quello che hai condiviso, le immagini ti percuotono, ti straziano sapendo che non ce ne saranno altre. Vedi la pietra, lì al tuo fianco e sotto quella terra c'è il corpo, quel corpo che hai abbracciato, che hai visto vivere, sorridere.

E ti rendi conto di quanto sia vicina la morte alla vita. Nessuno ci pensa, ci si pensa raramente e penso sia giusto perché non si può vivere pensando di morire.

Ma ognuno dovrebbe realizzare quanto sia vicina la morte.

La linea tra la vita e la morte; sottilissima, invisibile, forse nemmeno esiste se fai caso al fatto che molti uomini che respirano sono come già morti e molti uomini che stanno sei piedi sotto terra sono vivi come mai lo sono stati nei ricordi, nei cuori.

E' proprio lì, la morte, affacciata all'angolo.

Ed uno può vederla come un oscura figura con una falce, o come un angelo dal bel sorriso, o come un sonno eterno... non ha importanza come, ciò che importa è che c'è, è presente, tanto quanto la vita. Ed uno dovrebbe saperlo, rendersene conto di quanto è facile morire, così come togliere la vita.

Ed accettarla come un mistero, che nessuno sa se sia meglio o peggio della vita stessa.

Che ci sia un Dio, un paradiso o un inferno, un lungo buio, una fine completa, una nuova vita.

Che non ci sia, e basta.

E così come a volte il non sapere mi angosciava a volte m'incuriosiva, a volte mi lasciava indifferente. Ma abbracciandoti quel giorno sperai solo, vivo o morto, di rimanere insieme a te perché, lontano da te, quella sarebbe stata l'unica mia morte.

E giurai che niente, nemmeno l'oscura figura con la falce, mi avrebbe tenuto lontano da te.

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Capitolo 19
*** Capitolo diciottesimo ***


Capitolo diciottesimo

Capitolo diciottesimo

 

La prima serata, dopo un mese dalla morte di Marco, in cui ci sedemmo di nuovo al nostro tavolo fu una freddissima sera di metà febbraio. Nessuno aveva voglia di ridere, di parlare, di vivere o di andarsene. Per un mese nessuno di noi aveva più messo piede in quel posto. Ma ora, tutti sapevamo di dover andare avanti. I carezzevoli ricordi del nostro amico ci apparivano davanti agl'occhi, ognuno li vedeva in modo diverso ma ognuno, al tempo stesso, fissava quella sedia vuota, con il cuore come se fosse stato calpestato cento volte e poi buttato nella tazza del cesso. C'era una foto, vicino al bancone, in bianco e nero, in cui lui sorrideva di gusto con i ciuffi neri che gli coprivano appena le sopracciglia e gli occhi, che a tutti noi sembrava di vedere azzurri nonostante la foto non fosse a colori, così luminosi da rimbalzare fuori dal foglio come un colpo di fucile. Ci sembrava di sentire la sua risata. Una corona di fiori era stata posta sotto la foto, delle candele, delle dediche.

"Marco, nei cuori di tutti, batterà sempre una parte di Te", diceva uno dei biglietti.

Davide ad un certo punto prese la giacca e si alzò, così senza dire nulla, se ne andò. Nessuno ebbe la forza, né il cuore di dirgli qualcosa. Tutti sapevamo che andava a casa per piangere da solo.

Ma non arrivò neanche all'uscita che entrò Pelletti, seguito a schiera dagl'altri sei. Davide neanche li guardò, voleva solo uscire, andare via.

"Uno in meno..." mormorò Cesare Grinasco, uno dei sei. Fu appena un sussurro. Ma tutti, tutti quanti lo sentirono. Maratona scattò in piedi, così veloce che quasi non ce ne rendemmo conto, veloce come un cobra in trappola che attacca la preda al collo. Afferrò la sedia e la spaccò in testa a Cesare. Si frantumò con un Crac così forte che a tutti parve il suono più forte che avessero mai sentito. In cinque pezzi si spaccò. In cinque. E il ragazzo cadde per terra improvvisamente. Con un suono orribile.

Tutti rimasero immobili. Tutti quanti.

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Capitolo 20
*** Capitolo diciannovesimo ***


Capitolo diciannovesimo

Capitolo diciannovesimo

 

Cesare Grinasco fu ricoverato e rimase in ospedale per venticinque giorni pieni prima di riprendersi dal coma e dal trauma cranico. Diego ricevette una lettera di denuncia che lo invitava cortesemente a presentarsi in tribunale il 18 Marzo.

Quando si presentò a casa mia aveva uno zigomo nero come la pece e non dovetti neanche chiedergli chi era stato perché mi parve chiaro. Aveva addosso una maglietta ed un paio di jeans e stringeva in mano la denuncia.

Mi aveva telefonato dieci minuti prima da una cabina, dicendomi che suo padre l'aveva sbattuto fuori di casa.

Appena lo vidi mi feci da parte e lasciai che entrasse, richiudendo la porta alle sue spalle. Lui si gettò sul letto che aveva usato parecchie volte per stare da me la notte e non si mosse più per ore. Una parte di lui era morta, insieme ad Ottanta. Quella parte di lui che ancora non voleva crescere era morta. E stata sepolta da un colpo di sedia.

E quella parte di lui che era morta con Marco singhiozzò da dietro la porta della stanza, per tutta la notte.

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Capitolo 21
*** Capitolo ventesimo ***


Capitolo ventesimo

 

Il giorno in cui mi dissi la data, quella terribile, impietosa data, mi sentii morire dentro.

Lo sapevo che dovevi andare via, lo sapevo.

Ma quando mi dissi le parole "13 agosto", fu più forte di me, quel dolore che mi prese il fegato.

Te ne saresti andata, via, via, via lontano. Per sempre. Via da questa vita, via da questo posto, via da me.

Il Portogallo... non era chissà dove, non c'era nemmeno l'oceano a separarlo dall'Italia, ma sembrava così lontano... Lontanissimo.

13 agosto... era come se qualcuno avesse scritto nella sabbia la data della mia morte.

Quel giorno pioveva, a dirotto. Ed eravamo in un locale con i soffitti alti e i tavoli quadrati, plastificati con dell'adesivo bordeaux. Era un tavolo vicino alla finestra e tu eri di fronte a me, i tuoi occhi grandi erano scuri, verde muschio, spenti. Ci misi un’ora a farti dire che cosa avevi. Cosa ti tormentava offuscandoti gli occhi e i sorrisi.  E forse alla fine neanche avrei voluto saperlo.

Pensavi a lui. Il tuo lui speciale. Pensavi a lui.

Ed i ricordi ti bombardavano e la malinconia t’invadeva.

Come feci a consolarti, a parlarti dolcemente, non lo capisco ancora. Con quello squarcio dentro, con il cuore che sanguinava, trovai il coraggio di asciugare le tue lacrime senza amarezza, di guardarti negl'occhi senza dolore, di assaporarti in tutta te stessa, di darti la forza per aprirti senza paura. Avevo il cuore bucato ma ti sorrisi con determinazione. La trovai, quella sicurezza. Non so dove, ancora oggi, non me lo spiego. Morivo dentro ma fui dolce come non lo ero mai stato e mai, più di allora, ti amai davvero. Ti amai non per come ti vedevo o per come ti avrei voluta.

Ti amai, per quello che eri, per tutto, tutto quello che eri.

Ed i miei occhi non vedevano altro che questo, te, fino in fondo te.

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Capitolo 22
*** Capitolo ventunesimo ***


Capitolo ventunesimo

Capitolo ventunesimo

 

Fu quando ti chiesi di venire con me da mia madre, fu allora che la magia divenne concretamente amore. Non l'avevo mai chiesto a nessuno. A Nessuno. E non mi seppi mai spiegare perché sentii il bisogno di chiedertelo, radicato dentro.

Continuava a piovere. Le gocce cadevano e il rumore rimbombava tutt'intorno a noi. Potevamo quasi sentire una canzone scritta solo per noi, rallentare il tempo ed ascoltare il suono di ogni singola goccia che s'infrange, una sull'asfalto, una su un'alfa color blu notte, una sulle tue labbra. Il suono del nostro respiro, lento, e quello delle macchine, un frullato di suoni, un rallentamento di ogni movimento e di ogni vita. Tutto al rallenty. Tu che camminavi al mio fianco, i tuoi passi nelle pozzanghere. La senti, la canzone che la vita ha composto per me e te, per quel momento?

I gradini della clinica erano in marmo bianco, più ripidi e scivolosi di quanto non me li ricordassi. Ogni secondo, aveva un preciso suono, accompagnato da quel freddo odore di pioggia che ci riempiva l'anima.

Mi sentivo strano. Come se non sapessi razionalmente cosa ci stessi facendo lì con te. Eppure il mio cuore lo sapeva molto bene.

Mi prendesti per mano, d'improvviso, una mano asciutta e calda, fine.

Le porte, le facce, il bianco odore di alcool. Tutta quella gente che mi guardava strano, sbarrando gli occhi, un uomo che mi bestemmiava contro. Odiavo gli ospedali, li odiavo. Una sensazione di vomito mi percosse lo stomaco e la tua mano si strinse di più nella mia, come se anche tu l'avessi sentito.

“Sono qui per vedere Mia Muratti... si sono un (cazzo di) parente, sono suo figlio... Va bene, dove devo firmare?... sì lei è con me... avete bisogno delle impronte digitali o vi basta una scansione della retina?!... aspetto quanto è pronto lei, non si scomodi signore...”

Uno sbuffo seguito da un altro e il tuo sorriso. Il tuo sorriso che cancella tutta quella merda. I tuoi occhi che oggi sono color verde bottiglia brillano come se fossero trasparenti, come se fossero acqua colpita dal sole.

Mia madre è poco più di uno scheletro, la tua mano si stringe nella mia questa volta ancora prima che il disagio possa invadermi. “Mamma...?” chiamò in una speranza vaga come la nebbia alla mattina. E lei, sorprendentemente, alza gli occhi dalle sue mani scarne, i suoi occhi neri e li punta su di me. I suoi occhi che sembrano voler piangere e ridere, mentre la faccia rimane una maschera di nulla, i suoi occhi sembrano voler amare. “Lei è Noemi, mamma”. Vorrei aggiungere che ti amo ma la voce mi muore in gola mentre nasce la censura dei sentimenti che mi accorgo di non aver mai pronunciato. Ma non c'è bisogno di parole perché tu hai saputo fin dall'inizio quello che la mia bocca non ha mai detto, e gli occhi di mia madre sono vivi come non li ho mai visti. Delle lacrime, non sono certo se di gioia o di rabbia mi rigano il viso quasi senza che me ne accorga, tu le asciughi con il dorso della mano e poi, improvvisamente, mia madre alza una mano, la tende con lentezza assolutamente sicura verso di me. Ed io mi immobilizzo per attimi che sembrano già finiti prima di iniziare, le afferro la mano e gliela stringo, forte e ancora più forte, fino a che è la sua mano, senza apparente ragione sensata visto che la stringevo così forte, scivola via, come fosse acqua. E il suo sguardo scivola con lei nell'abisso. Per la prima volta nella mia vita, ricordo mia madre. L'ho vista, seppur per un momento, ed, attraverso qualcosa di assolutamente insensato, ho visto il suo amore. Per me.

E c'eri tu lì, con me.

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Capitolo 23
*** Capitolo ventiduesimo ***


Capitolo ventiduesimo

Capitolo ventiduesimo

 

Diego fu condannato a sei mesi nei servizi sociali. Un bellissimo spazzino con tanto di divisa e targhetta. Ma il suo sorriso non brillava affatto insieme ai catarifrangenti della sua tenuta. Era spento, con gli occhi neri che sembravano un gigantesco pozzo di petrolio, così vuoti come quelli di uno scheletro da far paura. E fu con quella faccia che mi disse che preferiva la galera, che preferiva morire che vivere. Con il tono di uno che sta dicendo la cosa più normale del mondo come "Scusa mi passi i cereali?". E mi sentii così idiota appena uscii dalla stanza che condividevamo dopo avergli fatto un bel discorso su quanto la vita fosse piena di belle cose da vivere, sul fatto che si può guarire dalla sofferenza solamente continuando a vivere, su tutte quelle stronzate che si dicono sempre. Stronzate, vere ma pur sempre stronzate. E non c'era nulla che potessi fare, ogni parola mi sembrava così vuota da rimbombare.

Io mi sentivo inutile ed egoista mentre pensavo che avrei dovuto soffrire anch'io.

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Capitolo 24
*** Capitolo ventitreesimo ***


Capitolo ventitreesimo

Capitolo ventitreesimo

 

Lessi Novecento. Di Baricco.

Lo lessi perché me l'avevi chiesto tu e niente al mondo mi sembrava più importante che quello che volevi, dicevi e facevi. E poi mi fidavo, te l'avevo promesso ed inoltre volevo vedere te.

Novecento era il tuo libro preferito, ti aveva plasmato, fatta crescere. Ne eri ancorata ed innamorata. Mi guardasti e mi dissi: "Lo leggerai?" Sì, lo leggerò, lo leggerò...

"No promettimelo Leo..." Promesso, parola di boy scout.

"Sul serio però eh..." Non ti preoccupare, fidati. E poi te l'ho promesso...

E così feci. Un giorno, uno come un altro in cui mi trovai in tasca qualche soldo entrai in libreria e, aspettando tra l'altro una quantità di tempo non indifferente, chiesi se gentilmente avesse Novecento di Baricco...

"Certo, è su quello scaffale lì, lo vedi? E' quello blu con una nave in copertina." D'accordo grazie...

Andai a prenderlo, me lo girai tra le mani. Era davvero microscopico, come avevi detto. Grazie al cielo il tuo libro preferito non era i promessi sposi...

Lo pagai, ringraziai, afferrai un segnalibro di quelli in offerta, in cui c’erano tre scritti da una parte, a te toccava scegliere quello che preferivi e leggere il profilo corrispondente sul retro. Mi cadde, così, senza senso, l'occhio sul secondo scritto. Sulla parola. Su QUEL nome. Esmeralda, stampato sulla carta rossa come se fosse un cartello enorme su una strada desertica nel mezzo della Death Valley.

"Che notte, quella notte! Esmeralda non era mai stata così dolce e, insieme, così appassionata. L'immagine di lei (gli occhi socchiusi, le labbra dischiuse) torna prepotente e vivida quando la luna si affaccia alla grata e il bugliolo, nell'angolo opposto alla branda, diventa una pietra fosforica e spiritata."

Diceva così e non me lo sono mai scordato. Quelle parole mi hanno marchiato a fuoco. Il nome con cui ti avevo chiamato, su quel segnalibro, in quel momento, la parola luna che brillava fuori dal foglio, illuminando proprio il tuo ricordo, la luna... mi spaccò in due, mi sconvolse a tal punto da non permettermi di non arrestarmi lì, di fronte alla porta.

Allora dimmi, come si fa a non credere nel destino quando certe cose ti prendono per mano per portarti proprio dove devi andare?

Come hai fatto a sbagliare strada?

Come hai fatto a non crederci?

Come hai fatto se persino sulla strada che ogni giorno facevi per andare a casa c'è un cartello pubblicitario con scritto a caratteri cubitali "DI STEFANO L. & Co." ?

Come hai fatto, cazzo, come hai fatto a non vedere?

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Capitolo 25
*** Capitolo ventiquattresimo ***


Capitolo ventiquattresimo

Capitolo ventiquattresimo

 

Una settimana dopo aver finito di leggere Novecento ti costruii una nave.

Una barchetta di carta con una scritta, Virginian, che sarebbe stata tua per sempre.

Era una cosa piccola, stupida forse, ma era così importante, così figurativa per me che ci misi tutto il cuore. Era un ricordo, qualcosa che ci legava e non solo perchè, tu me lo ricordasti parlandone, il Virginian era la nave più solida del mondo intero, avevano dovuto farla esplodere per farla affondare. E mi sembrò una cosa alquanto metaforica che io te l'avessi regalata; pur senza pensarci ti avevo regalato la cosa più solida che esistesse nel nostro mondo di idee.

Solida, proprio quanto volevo fosse quello che ci legava, qualunque cosa esso fosse.

Quando andasti via ne feci una uguale e la misi sulla mensola della mia stanza; ogni tanto la guardavo, la tenevo tra le mani, ci piangevo un po’ su, ci riversavo ogni pensiero o ricordo, mi ci buttavo dentro e ti vedevo lì, in abito da sera tra tutti quei gentiluomini che ti circondavano.

Sul ponte in legno della nave si rispecchiava la luna ed io ti guardavo, allibito dalla tua bellezza, dall'altra parte del ponte. E poi, ogni volta era diverso; a volte alzavi lo sguardo e tra la folla puntavi i tuoi occhi nei miei senza mai smettere, a volte ero io che mi facevo strada, con la mia arguta dialettica, tra tutti quegl'uomini in frac e ti portavo via.

Sembrava un po’ più Titanic forse, ma la jazz band c'era.

E c'era Novecento, c'eri tu ed io, di nuovo insieme.

E solo questo mi importava, stare di nuovo con te.

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Capitolo 26
*** Capitolo venticinquesimo ***


Capitolo venticinquesimo

Capitolo venticinquesimo

 

Tra la vita di tutti i giorni e le cose che comunemente accadevano mi era successo di incontrare te.

Così, per caso dicevi tu. Per destino, dicevo io.

C'è sempre stata una cosa, in cui non ho mai smesso di credere.

Credevo nella reincarnazione, piuttosto fermamente. Credevo soprattutto che durante le vite passate s'incontravano persone che diventavano le persone più importanti della tua esistenza. Così importanti da diventare parti della tua stessa anima. E così, continuavi a rincontrarle nell'arco di tutte le tue vite future.

Ci credevo perché l'avevo provato, quel qualcosa di inspiegabile che ti s'incrina dentro quando incontri una di queste persone. Si possono avere affetti, amici nell'arco della vita che sono per te importantissimi, ma quando li incontri, quando li guardi non lo senti quel qualcosa.

A me era successo due sole volte e l'avevo riconosciuto entrambe, senza esitazioni. Una volta era stato con Diego e l'altra, Noemi, proprio con te.

E' una cosa che senti dentro, che non può derivare dal momento, è una forza grande come l'universo, qualcosa che non ti puoi tenere dentro, è proprio come riunirsi con una parte di te stesso. Tu eri quella parte di me stesso, quella mancante che andavo cercando da una vita intera. Eri tu e non avevo neanche mezzo dubbio in proposito.

Chissà cosa avevamo condiviso in passato... forse io ero un cavaliere medievale e tu la figlia ribelle di un Re francese che, scappata di casa, si era travestita da uomo per dimostrare al mondo che le donne possono combattere le guerre degli uomini meglio di quanto essi possano fare. O magari io ero un Irlandese ribelle, quando ancora l'Eire non era una repubblica, e tu la figlia di un ricco politico inglese che io, durante una cena con i massimi esponenti politici inglesi, avevo rapito come ostaggio. O forse c'eravamo incontrati proprio su una nave, io corsaro spietato e tu principessa persiana dalla sconvolgente bellezza che sapeva il fatto suo, che io avevo rapito per puro divertimento prima di scoprire che era la figlia del Re persiano che, intanto, m'aveva scatenato contro l'inferno.

Mi divertivo ad immaginare come avrebbe potuto essere il nostro passato, perché ero, sono, sicuro che qualcosa di forte noi l'avevamo già vissuto, qualcosa di travolgente che c'aveva uniti per la vita.

Qualcosa che, il tuo cuore sapeva quanto il mio, non si poteva ignorare a lungo.

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Capitolo 27
*** Capitolo ventiseiesimo ***


Capitolo ventiseiesimo

Capitolo ventiseiesimo

 

Se allora era vero che le cose non avvengono per caso, mai o quasi, se era vero che tutto quello che avevo fatto e detto, tutto quanto, mi aveva (ri)portato a te come se fossi stata fin dall'inizio la tappa fondamentale di tutto il mio viaggio, se era vero che tutto era stato, era e sarebbe stato in funzione tua, se era vero che nella mia vita ogni cosa mi trascinava con una forza irrefrenabile verso di te, allora era vero quello che mi venne detto. Le cose non succedono per caso, le persone non s'incontrano per coincidenza, le cose che ti vengono dette e le cose che vivi sono sempre al momento giusto, perfetto, e c'è sempre un senso in tutto se sei capace di vederlo.

Un pomeriggio di primavera, in cui ero con te ed altri due amici in comune, incontrai dopo una vita che non lo vedevo Ermes.

Ermes era un amico, non uno di quegli amici con cui hai passato pomeriggi o serate insieme, uno di quelli che, per quelle due ore complessive passate insieme da quando vi conoscete, sapete già un sacco di cose l'uno dell'altro. Uno di quelli che sa diventare tuo amico dopo un minuto d'orologio. Cominciammo a parlare, senza un vero e proprio motivo, del più o del meno, tu che ci ascoltavi e ridevi delle sue battute, dei suoi modi di fare, dei suoi racconti. E andammo avanti così, per metà del pomeriggio, decideste di andare a fare shopping ed io vi seguii; anche Ermes ci seguii; l'unico pomeriggio della mia vita passato con lui che non poteva tornare a casa per uno sciopero dei mezzi pubblici fino alle sette di sera.

Proprio quel pomeriggio, in quel particolare momento, mi cambiò la vita. Mi aprii un mondo immenso di prospettive che conoscevo già ma di fronte alle quali avevo chiuso gli occhi.

Voi entravate nei negozi, noi vi seguivamo poi uscivamo ad aspettarvi fuori per non soffrire troppo e, in quel vialetto ad aspettare che sceglieste cosa comprare, parlammo a lungo, io e Ermes.

Parlammo di te, del fatto che ero innamorato di te. E lui mi disse tutto ciò che avevo bisogno di sentire, ciò che già sapevo ma che avevo bisogno di sentire da qualcun'altro per aprire gli occhi, quella particolare frase, in quel particolare momento.

Mi disse: "Ehi, lei è troppo importante, troppo speciale per lasciartela scappare. Non penso che tu voglia stare lì mentre ti presenta il suo fidanzato e se lo fa al tuo fianco. Buttati, a testa in giù, a capofitto, lotta per quello che provi."

E io lo guardai e non feci altro che annuire, perfettamente consapevole di quanto tutto ciò fosse vero e difficile.

E tornando a casa sembravo una matrioska vuota, con gli occhi persi nel nulla, così perso in quel vasto, immenso, universo che mi si era aperto di un botto davanti. Non avevo mai pensato, non so per quale oscuro motivo, di poter davvero lottare. Non l'avevo mai considerato, nemmeno lontanamente. Ero stordito, angosciato, perso. Ero incapace di distinguere le cose vere da quelle nella mia testa, non capivo più nulla, quello che stavo facendo, quello che stavo provando, quello che era successo, era successo veramente? Tutto ciò era vero e lo stavo vivendo sul serio. Non solo nel mio mondo platonico, chiuso nella mia testa, ma anche nella realtà. Nella verità in cui mi svegliavo tutti i giorni. La forza reale del mio amore mi investì di tutto quanto in un solo istante. L'istante in cui ti risvegli da un lunghissimo sogno e ti rendi conto che tutto quanto è successo davvero.

E Ermes aveva ragione, pienamente. Era arrivato il momento di lottare, di vivere il sentimento che provavo con dignità che meritava, a testa alta. Anche perché era troppo grande per tenermelo tutto dentro, ero egoista a volerlo tenere per me quando era talmente bello, ed intenso, e grande da doverlo urlare a tutto il mondo. Ed io non lo potevo più ignorare. In quel particolare momento.

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Capitolo 28
*** Capitolo ventisettesimo ***


Capitolo ventisettesimo

Capitolo ventisettesimo

 

La prima cosa che feci, la mattina dopo, fu parlare con Emma.

L'avevo tenuta lì troppo a lungo, inutilmente, non sapevo bene per quale motivo.

Ed anche lei se ne era accorta, che c'era qualcosa di più grande di me che mi prendeva e mi travolgeva e non mi faceva guardare ad altro, ne vedere altro.

"Se vuoi puoi lasciarmi tu." le dissi "In fondo sarebbe più corretto."

Lei aveva gli occhi color caffè abbassati sulla tovaglia del bar in cui eravamo seduti.

"Non me ne frega un cazzo, Leo... Non soffrirò di meno. Soltanto, non usarmi, non prenderti gioco di quello che provo..."

Mi colpirono, quelle parole. Perché in fondo le volevo davvero bene. Sette mesi di relazione non si dimenticano solamente passandoci su la spugna. Ma io, non vedevo altro che te, non volevo altro che te e non potevo stare con nessun altro al mondo.

"Mi dispiace Emma... ti voglio un bene dell'anima e tutto quello che c'è stato io non me lo dimenticherò, l'ho vissuto con forza, sulla mia pelle; questi sette mesi sono stati veri, quello che ti ho detto di provare non è mai stato uno scherzo... ma ora, non posso continuare a stare con te, pensando a qualcun'altro. Ti voglio troppo bene per lasciare che succeda."

Lei annuisce; sapeva già quello che ti avrei detto, mi conosceva troppo per non saperlo.

"Buona fortuna." disse solo. Poi si alzò, con le lacrime agl'occhi che non riusciva a trattenere, le labbra e le mani che tremavano in una disperata richiesta di dignità. Andò via.

Io pagai il suo caffè e tornai a casa.

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Capitolo 29
*** Capitolo ventottesimo ***


Capitolo ventottesimo

Capitolo ventottesimo

 

Mancavano sette giorni al tredici agosto.

Sette giorni.

Avrei voluto fermare il tempo, ma non ne ero proprio capace.

Sette giorni quando mi sedetti al tavolo rotondo dei Bengala, oramai un nome sepolto insieme ad Ottanta.

Ero solo, quando arrivai. Mi sedetti lì, al mio posto e guardai le altre quattro sedie vuote. Sul tavolo in legno, di fronte alle sedie di ognuno, c'era inciso un nome.

Leo, Okay, Riso, Maratona ed Ottanta.

Incisi dalle nostre stesse mani, con un unico Opinel, quello di Okay, che c'eravamo passati di uno in uno, quella sera di due o forse tre anni prima.

Accarezzai con le dita quella scritta, Leo, mentre mi lasciavo pervadere dai ricordi del grande castello che c'eravamo costruiti, del grande castello che era distrutto.

Tutto finisce prima o poi, il sole come la pioggia. Ma il sole c'è sempre, anche dietro le nuvole cosa che di certo non si può dire della pioggia. E che caso mai arrivi l'arcobaleno?

Diego entrò dopo circa venti minuti, con lo sguardo distrutto che oramai gli si era appiccicato in faccia, e si sedette, proprio alla sua sedia. Nessuno di noi due disse niente, nemmeno quando arrivò Ruben e neanche quando, molto titubante, Davide si sedette alla sua sedia.

Nessuno disse nulla e quel silenzio fu più eloquente di miliardi di parole asciugate al sole.

E, così come eravamo entrati in ordine sparso, uscimmo tutti e quattro insieme.

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Capitolo 30
*** Capitolo ventinovesimo ***


Capitolo ventinovesimo

Capitolo ventinovesimo

 

La sera del 10 agosto fu durissima.

Ancora non ero riuscito a scrollarmi di dosso la paura di parlarti.

Ancora non ero riuscito a scrollarmi di dosso la voglia di dirti tutto, tutto quanto.

Dal momento in cui volevo aprirti tutto me stesso, senza riserve, non avrei potuto fare altro se non dirti quello che provavo per te. Perché mi assorbiva completamente.

Non avrei mai voluto che andassi via senza dirti tutto, fino all'ultima goccia di parola.

Ma ero frenato, immobilizzato.

A volte, erano le peggiori, desideravo che tutto questo non fosse mai successo, desideravo non aver incontrato Ermes, non aver incontrato te. Perché faceva troppo male e io non volevo stare male, non ne potevo più di soffrire.

Ma mi facevo solo il doppio del male con quei pensieri che mi bucavano il cervello, bucavano i miei ideali. Mi tagliavano in due.

E lo sai perché?

Perché nella mia vita non c'era nulla di migliore di te.

Nulla di più bello, più profumato, più melodioso.

Tu.

E per questo, non volevo perderti, ad ogni costo, ma non sapevo cosa dire, cosa fare.

Essere o non essere? mi chiedevo... Vivere o non vivere? Agire o non agire?

Mio padre lo vide, il mio dissidio interiore, come lo vedono i padri che sono un po’ come delle madri.

Mio padre era la figura più ferma, più grande, il mio unico vero punto di riferimento, il migliore che avessi potuto scegliere.

Si sedette di fianco a me e mi disse solo: "Non chiudere in un carcere quello che provi."

E nient'altro, senza che io gli dicessi niente di niente. E poi si alzò ed andò fuori a comprarsi i jeans nuovi.

Ed io, stravolto nella stanchezza del dolore che provavo, rimasi bloccato lì.

 

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Capitolo 31
*** Capitolo trentesimo ***


Capitolo trentesimo

Capitolo trentesimo

 

Il giorno dopo ti chiesi di passare il pomeriggio insieme. Ti dissi che dovevo parlarti.

Non so cosa tu ti aspettassi, e i tuoi pensieri erano l'insidia peggiore nella mia testa.

Non ero certo di desiderare una risposta, non volevo farti cadere tra le mie braccia, anche se mentirei dicendo che una piccolissima speranza non mi animava il cuore.

Ma no, io volevo dirtelo, semplicemente, buttarlo fuori, farti vedere me stesso.

Non c'era prezzo che non avrei pagato per guardarti negl'occhi e dirti: "Sei la persona più importante di tutta la mia vita."

Ovviamente mi ero già preparato un discorso che, anche se era mutevole, toccava all'incirca sempre gli stessi punti.

Ma ero terrorizzato, paralizzato dall'arrivare al momento in cui la mia vita sarebbe cambiata per sempre. Lo sapevo che quando avrei pronunciato quelle quattro parole "Sono innamorato di te" tutto quanto sarebbe cambiato.

Ero terrorizzato da quello che mi aspettava, o forse dal non riuscire a fare il passo decisivo.

Non dovevo tirarmi indietro, non potevo, non volevo.

Fino a quel momento avevo guardato la mia vita piuttosto che viverla ed ora mi rendevo conto che era arrivato il momento di iniziare a viverla. Ed ero paralizzato.

Cosa sarebbe successo se la voce non mi fosse uscita?

Fino a quel momento, tutto quello che avevo vissuto fino ad allora, mi aveva ricondotto a te. Ogni cosa nella mia vita, fin da quando ero nato, mi aveva fatto prendere una strada che presto o tardi, tra milioni di altre porte, mi avrebbe portato davanti alla tua. Avevo provato ad ignorare i cartelli, a cambiare strada, ma ero stato preso per mano, trascinato, mille volte di nuovo, davanti alla tua porta. Una porta chiusa.

Fino a quel momento avevo forse cercato la chiave, e poi avevo cercato un altra porta che fosse più semplice attraversare, ma non avevo potuto ignorare il fatto che, qualunque porta attraversassi, qualunque strada prendessi, anche la più distante da te, mi ritrovavo di nuovo di fronte alla tua porta. Chiusa.

Non potevo più continuare a cambiare strada. Era arrivato il momento di buttarla giù, quella porta.

Cosa sarebbe successo se non ci fossi riuscito?

Era uno di quei giorni in cui i tuoi occhi erano circondati da un verde intenso per schiarirsi in un botto e diventare quasi invisibili. Il mio cuore batteva così forte da non riuscire nemmeno a contare i battiti. Cercai in tutti i modi di sentirmi al tuo livello ma la tua bellezza mi sommergeva.

"Quello che devo dire non è affatto facile... e probabilmente non ti piacerà. - iniziai - Ma fammelo dire, fino in fondo, perché mi sono già scordato tutto il discorso che mi ero preparato e se tu dici qualcosa sono sicuro che non riuscirò più a dire mezza parola."

Non ti guardavo perché sarei morto. Ero già morto, ero un pazzo, cosa cavolo stavo facendo???

"Sono innamorato di te. Per non azzardarmi a dire che ti amo. Di sicuro sei la persona più importante di tutta la mia vita. Ci ho pensato bene prima di decidere di dirtelo ma sono arrivato al punto in cui non potevo più trattenerlo, né ignorarlo. Quello che provo per te è così forte che non riesco proprio a tenermelo tutto dentro, ho bisogno di dirlo, di urlarlo perché è... è troppo. E non è una cosa che dipende da me, o da te, ma solo dall'amore stesso. Ogni cosa che ho fatto, detto o pensato mi ha portato a te, ed ogni cosa che farò, dirò o penserò continuerà per sempre a riportarmi a te. Non voglio essere presuntuoso ma c'è qualcosa tra me è te, di diverso, qualcosa che non c'è tra le altre persone. Lo si può vivere in modo diverso, io posso sentirlo come amore, tu come amicizia, ma quello è solo un modo di provare la cosa. Rimane il fatto che c'è qualcosa di troppo speciale, di troppo importante per seppellirlo o per ignorarlo. E anche tu lo sai. Io non troverò mai più nessuno come te ma nemmeno tu troverai mai più nessuno come me. Non ti sto dicendo di sposarmi, Noe... ti sto dicendo che non esisterà posto al mondo abbastanza lontano da separarti da me. Perché tu sarai con me, per sempre. Perché tu sei dentro di me, sei la parte che mancava al mio cuore per essere completo, sei ciò che sono sempre destinato a trovare, ciò che ho sempre cercato. Tant'è che se mi guardavi negl'occhi prima che ti conoscessi avresti visto già te, così come chi l'America ce l'ha già negl'occhi, io avevo già te. E non ci sarà momento nella mia vita in cui non ti avrò nel cuore, non ci sarà pensiero non rivolto a te, non ci sarà ricordo in cui mancherai; in tutto quello che dirò, in tutto quello che penserò, ci sarà un pezzettino di te. Dovunque guarderò vedrò sempre e solo i tuoi occhi, ogni sorriso sarà il tuo, ogni lacrima sarà per te. Non smetterò mai di amarti."

Respiravo, credo, ancora. Ero ancora vivo anche se le mani mi tremavano come s'avessi avuto il Parkinson. Dalla prima parola in avanti tutte quelle cose mi erano uscite dalla bocca senza controllo, travolgendoti -travolgendomi- come un fiume in piena. Mi ero svuotato di tutto me stesso. Mi sentivo così libero da non potermi muovere.

Ti guardai negl'occhi e non seppi decifrarli, per la prima volta in vita mia.

Ti alzasti e te ne andasti senza dire nulla, lasciandomi solo.

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Capitolo 32
*** Capitolo trentunesimo ***


Capitolo trentunesimo

Capitolo trentunesimo

 

La sera di quel fatidico 11 agosto andai in scena con la prima di Amleto.

E non recitai mai così bene probabilmente, con tutte quelle emozioni che mi esplodevano dentro, quella rabbia, quel dolore, quel pugnale che avevo ancora nel cuore.

E tu eri lì, a vedermi. E io e il mio orgoglio non volevamo più vedere te.

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Capitolo 33
*** Capitolo trentaduesimo ***


Capitolo trentaduesimo

Capitolo trentaduesimo

 

Quando la mattina del 12 agosto mi svegliai, ero morto.

Aprii gli occhi e vidi la parete di casa mia, vidi i tuoi occhi che non riuscivo a cancellare dai miei.

Occhi verdi.

In qualche modo rotolai, dopo due ore da quando aprii gli occhi, in bagno e poi in cucina, riuscii addirittura a vestirmi per qualche forza che, nonostante fossi già morto, mi trascinava.

Erano le quattro di pomeriggio quando decisi di uscire. Dopo esattamente 20 ore e 14 minuti te ne saresti andata via per sempre. Per sempre.

Scesi fino al molo, le gambe che si muovevano per qualche oscuro processo a me sconosciuto, e mi sedetti lì, con il mio lettore cd e Aretha Franklin che mi cantava nelle cuffie. Ogni tanto il mio sguardo scivolava verso il punto, appena venti metri alla mia destra, in cui ti avevo detto tutto quello che provavo, in cui ti avevo aperto tutto quanto me stesso. Non mi sembrava più di provare dolore, solo un uniforme senso di torpore che mi scuoteva.

C'era un cappellino, che galleggiava al fianco del molo, era mezzo capovolto e non riuscivo a leggere la scritta che portava sull'ala.

Avevo sonno, volevo solo dormire e dimenticare tutto quanto. Entrare in un letargo e svegliarmi dopo dieci anni quando sarebbe stato tutto finito. Morire, dormire, nulla di più.

Mi alzai e feci per andare via, lontano. A casa. Ma un ondata improvvisa si alzò fin sopra il cemento arrivando a bagnarmi le suole delle scarpe. Richiamò la mia attenzione.

Mi voltai e vidi che il cappellino era stato portato a riva, lo guardai bene e lessi.

Lessi Esmeralda Princess of the Moon.

Il mio corpo tremò come una piccola foglia secca in balia del vento, che la trascina di nuovo al punto di partenza.

Se avessi avuto qualcosa in mano probabilmente mi sarebbe caduto.

Se fossi stato una statua, non avrei pianto.

Mi voltai e corsi a casa.

Via, in fretta, con il vento che ti percuote la pelle, le lacrime che ti rigano il viso.

A casa...

...presi la chitarra, la mia chitarra e, senza neanche metterla nella custodia, io che c'ero così gelosamente affezionato, tornai a correre, fino alla spiaggia, proprio vicino a casa tua.

E mi fermai lì, con gambe incrociate e lo sguardo verso il mare infinito, le nuvole grigie e bianche che si scontravano e si sfumavano l'una con l'altra.

E suonai, non so per quanto tempo, ancora. Il posto era diverso, lo strumento pure.

Eppure, ancora una volta, passarono cinque o dieci minuti, forse cento. E tu ti sedetti di fianco a me. Cantasti, mentre io suonavo, cantasti per ore. A volte io cantavo con te, a volte stavo in silenzio e ti guardavo, ascoltavo la tua voce che era dolce come un arcobaleno, calda come l'oro fuso.

Restammo fino a che non fece buio a suonare e cantare, io e te, fino a che le nuvole si diradarono, guardammo il tramonto insieme mentre suonavo Green Eyes dei Coldplay, fino a che non rimase solo una grande e luminosa luna piena e un mucchio di puntini luminosi che disegnavano immagini, storie, vite.

Poi io ti guardai, tu guardasti me e, non ricordo chi lo disse per primo, ma entrambi lo pensavamo, "Una pausa, solo un attimino...".

Appoggiai la chitarra al mio fianco, sulla sabbia e mi distesi, guardando le stelle. Tu appoggiasti la testa sul mio ventre e respirasti al mio stesso identico ritmo. Il tuo cuore batteva insieme al mio mentre, senza parole, la luna e le stelle ci guardavano sorridere, chiudere gli occhi, addormentarci.

Risvegliarci, sotto timide gocce di pioggia che ci picchiettarono il viso, ridestandoci da quel meraviglioso sogno che avevamo vissuto.

Era la mattina del 13 agosto.

Tu mi guardasti, con gli occhi ancora socchiusi e stanchi, io ti sorrisi.

"Merda..." mugugnasti guardando il cielo e la pioggia, che odiavi. Risposi al sorriso e poi diventasti seria "Ci siamo addormentati..."

"Ottimo spirito d'osservazione." ti dissi sogghignando.

"Devo andare via... merda tra due ore devo partire!"

Guardavi l'orologio, io guardavo te. Per l'ultima volta.

Ti alzasti, sospirando e presi la tua tracolla da terra.

"Beh... allora ciao." dissi.

"Allora...ciao." ripetei io.

"Ci sentiamo magari."

"Certo..."

"Ciao."

"Ciao."

Te ne andasti, un passo dopo l'altro come una tortura eterna che non volevo finisse mai.

La pioggia era diventata battente, si confuse con le mie amarissime lacrime.

E poi tu ti voltasti, lentamente e mi guardasti. Ero in ginocchio, con i pugni stretti e gli occhi rossi. Ero un uomo che va alla forca. E tornasti indietro, ti inginocchiasti di fronte a me e mi abbracciasti, fortissimo.

"Senti le onde del mare che si infrangono sugli scogli? L'odore della rugiada di prima mattina sull'erba fresca, l'odore dell'aria, l'odore del cielo, l'odore del mare. Ci siamo solo io e te qui, e una parte di noi, rimarrà qui per sempre." te lo sussurrai con tutta la mia forza e il mio dolore, con tutto il mio amore.

Tu mi guardasti negl'occhi e poi mi baciasti, così delicatamente e brevemente che sembrò durare per sempre. Poi tornasti a guardarmi, occhi verdi puntati direttamente dentro occhi azzurri, occhi che si guardano l'anima, un ultima, dolcissima, amarissima volta.

Andasti via in quella mattina d'agosto.

Ma io e te, siamo ancora lì.

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Capitolo 34
*** Capitolo trentetreesimo ***


Capitolo trentatreesimo

Capitolo trentatreesimo

 

E siamo all'epilogo, alla fine della storia.

Sono passati cinque anni e ventuno giorni da quel giorno.

Ed io sto scendendo da un treno nella stazione di Torino.

Te l'ho detto, non sono ancora riuscito ad oltrepassare quella linea. Non ho ancora lasciato alle mie spalle quella porta. Non ho ancora smesso di stringere il Virginian tra le mani, ne di ascoltare Natural Woman. Non posso farlo finché non mantengo la mia promessa.

In cinque anni tutto è cambiato, siamo due persone diverse, lontane, ancora unite indissolubilmente. Ma cinque anni non mi hanno fatto dimenticare la mia promessa. Non l'avrei dimenticata nemmeno se fossero stati cento.

E per questo tengo in mano un biglietto per un Inter-rail con il tuo nome sopra. Noemi Lieac.

E' strano sai? Essere qui davanti a questa porta. Busso, a tempo di musica, come facevi tu.

E sei tu ad aprirmi. I tuoi occhi grandi sono ancora più belli, verdi come sempre.

Sei tu, e non ho dubbi, mi guardi con l'aria di chi ha visto un fantasma.

"Ciao." dico.

"Ciao." rispondi.

Non riusciamo a toglierci l'uno di dosso all'altro Noemi. Lo sai è così, non possiamo stare lontani, non possiamo vivere separati, non è per questo che tutto il mondo ci indica l'uno all'altro, c'è qualcosa tra di noi e direi che se dopo cinque anni sono qui, questa ne è la conferma. Ti amo, ancora, sei la persona più importante della mia vita. Lo so, ti chiedo molto ma vieni via con me. Il tuo lavoro, tutto questo... sono importanti ma non ci puoi costruire sopra una vita. La vita va costruita insieme alle persone che, senza spiegazione, sono destinate a te. La tua vita va costruita con me, la mia con te.

Vorrei dire tutto questo, vorrei averlo detto o sono felice di essere stato zitto.

"Noe, amore, vieni solo un secondo, ho bisogno di te." la voce dall'interno della casa arriva alle mie orecchie più forte di qualunque altra al mondo.

"Arrivo subito, non scappare." mi dici.

Chissà perché l'hai detto. Forse sapevi che sarei scappato, sapevi perché ero lì, sapevi tutte quelle cose che non ti avevo detto. Ti lascio il biglietto dell'Inter-rail sul gradino di casa tua, insieme a questa cosa che ho scritto. Che ho scritto per te.

E vado via.

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Capitolo 35
*** Epilogo ***


Epilogo

Epilogo

 

Sogno; sogno piacevole e lontano di una speciale mattina d'autunno in cui tu eri il sole che girava intorno a me. Sarei stato un bugiardo se avessi detto che non è stato il momento migliore della mia vita, se ti avessi detto che non ti amavo già profondamente, nonostante te; Avrei voluto poterti avere completamente conquistato come tu avevi fatto con me. Avrei voluto sciogliere ogni mio dubbio nel tuo sorriso, avrei voluto poter vedere nei tuoi occhi quando era bello o cattivo tempo, quando pioveva o era tempesta avrei voluto poter...

... avrei voluto poterti amare più di quanto avrei mai potuto fare.

Ora chiudo tutto questo in una valigia, ogni ricordo è ripiegato con cura materna, e appoggio questa valigia proprio in quell'angolo.

Nessuno mai ha detto che sarebbe stato facile.

Non sto abbandonando quella porta, ne oltrepassando quella linea.

Sto tenendo quello che provo.

Per la prima volta nella mia vita provo qualcosa che va oltre l'amore.

Non ha a che fare con me o te, è qualcosa che non si può spiegare.

E' semplicemente che tu non hai mai smesso né iniziato, ad essere parte di me.

Lo sei sempre stata e, nel bene o nel male, non potrò mai cancellarti da me stesso.

Oltre l'amore c'è proprio questo.

Ci sei tu, ci sono io.

Nessun pensiero, nessuna parola, nessun ricordo, solo colori, profumi e sentimenti, una coltre di emozioni che non si scioglierà mai.

Oltre la nebbia ti vedo.

Oltre l'amore non vedo altro che te.

 

 

 

Domenica, 22 Maggio 2005.

Fine.

 

 

 

****

 

 

Pensando a te, ovunque tu sia.

Preghiamo perché questa sofferenza abbia fine, nella speranza che i nostri cuori si riuniscano.

Ora io realizzerò questo desiderio.

E chissà: ricominciare a viaggiare non è poi così difficile.

O forse il mio viaggio è già iniziato.

Ci sono tanti mondi ma tutti condividono lo stesso cielo.

Un solo Cielo. Un solo Destino.

 

****

 

 

 

 

 

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