Lifes' Fragments - When everything change

di PhoenixOfLight
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 2 bad ***
Capitolo 2: *** Leave me alone ***
Capitolo 3: *** Ben ***
Capitolo 4: *** Gone too soon ***
Capitolo 5: *** Baby be mine (parte prima) ***
Capitolo 6: *** Baby be mine (parte seconda) ***
Capitolo 7: *** When everything change ***
Capitolo 8: *** Solo, non sarai nessuno ***
Capitolo 9: *** Avviso... sorry... :( ***



Capitolo 1
*** 2 bad ***


ATTENZIONE: Avvenimenti e personaggi contenuti in questa Fan Fiction sono frutto dell’immaginazione dell’autrice. Ogni riferimento a fatti, cose e persone è puramente casuale. L’utilizzo di titoli di canzoni di Michael Jackson come nomi dei chappy della suddetta FF non è a scopi di lucro.

 

 

 

Lifes' fragments

WHEN EVERYTHING CHANGE

 

1.     2 BAD

                                                

Told me that you're doin' wrong
Word out shockin' all alone
Cryin' wolf ain't like a man
Throwin' rocks to hide your hand

You ain't done enough for me
You ain't enough for me
You are disgustin' me
(Yeah, yeah)
You're aiming just for me
You are disgustin' me
Just want your cut from me
But too bad, too bad

 

 

Mi ero svegliata alle sette quella mattina, talmente tanta era l’ansia. Era il mio primo provino; in diciannove anni non ero mai stata così agitata: il cuore stava per uscirmi dal petto e dovevo più volte prendere una boccata d’aria, o avrei rischiato di svenire dinanzi alla giuria… Rabbrividii al pensiero. Non potevo neanche contare sull’appoggio di qualcuno, perché – ovviamente – nessuno della mia famiglia sapeva che mi trovassi qui.

Ai miei genitori non faceva molto piacere la mia innata passione per la danza (avevo scoperto questa mia “vocazione” alle elementari, e mi esercitavo quasi ogni giorno nel garage di casa mia per non farmi scoprire)… in verità non era proprio il ballo a dare loro fastidio, quanto il fatto che io imitassi il mio idolo: Michael Jackson. Vivevo in una famiglia di bianchi, ma lo stesso i miei non vedevano di buon occhio il fatto che un uomo abbia cambiato colore della pelle così improvvisamente. Inutile spiegare loro che era a causa di una malattia, e che a lui non faceva di certo piacere vedersi mutato in così poco tempo… avevano i loro pregiudizi e quando una cosa era tale, non c’era nulla che avrebbe fatto cambiare loro idea, neanche se il Signore in persona fosse sceso dal cielo nella nostra cucina in un trionfo di luce e accompagnato da cori angelici che innalzavano un Alleluia per questa sua venuta. Immaginavo già la reazione di quell’ignorante di Stephan (non lo chiamavo mai papà da un periodo di tempo piuttosto lungo): -Ma guarda un po’ cosa è in grado di fare la tecnologia…-.

Per evitare quindi una punizione, avevo accuratamente evitato di dire loro del provino… anche perché si trattava di quello che mi avrebbe permesso di accompagnare Michael Jackson in uno dei suoi tanti tour in giro per il mondo.

La versione ufficiale era che io mi trovavo a casa della mia migliore amica Helen, magari per condividere qualche smalto o per fare una passeggiata (Helen mi copriva sempre in questi casi – il mio angelo custode – e aveva raccontato ai suoi genitori che avremmo passato un lungo, lungo pomeriggio di studio nella biblioteca…). Purtroppo, c’era un piccolo inconveniente: differentemente da me, che ero figlia unica, Helen aveva una sorella più piccola – Rose – dotata di un’astuzia inversamente proporzionale alla sua altezza. Il soldo di cacio – così la chiamavamo io ed Helen – aveva ricattato la sorella dicendole che non avrebbe spifferato ai suoi genitori quello che stavamo combinando se Helen le avesse dato dei soldi. La piccola Rose esigeva 50 bigliettoni e una manicure tre volte a settimana se avessimo voluto comprarci il suo silenzio. Non potevamo rischiare di farci scoprire, ma non avevamo neanche la minima intenzione di dare tutti quei soldi ad una ragazzina di 13 anni.  Helen riuscì a convincerla che aveva speso tutti i suoi risparmi comprando la splendida borsa di Gucci che le aveva regalato a Natale, e la somma da sganciare scese magicamente a 25 dollari, utili per una manicure decente.

Helen sei grande!, pensai.

Mi divertivo ogni volta che davamo vita a quelle nostre scorribande, ma in fondo ci soffrivo. Ormai avevo perso ogni speranza di chiarimento con i miei genitori, sebbene mi avrebbe fatto enormemente piacere vedere che almeno per un giorno non mi guardavano come se fossi una malata mentale tutte le volte che muovevo la testa a ritmo se sentivo una canzone. Capii che i miei sedicenti mamma e papà possedevano un’intelligenza un po’ scarsa, nonché una concezione della famiglia e dei giovani ferma a quarant’anni prima. Una volta provai a parlare con loro e capire il perché del loro comportamento. Ricordo ancora quando entrai decisa e orgogliosa nel salotto dove mia madre era impegnata a lucidare i mobili (sì, alle nove di sera: è la sua fissazione e la sua maledizione) e mio padre a guardare un programma idiota in TV. Nessuno di loro due si accorse di me. Mi schiarii la gola per attirare l’attenzione, ed ebbi solo occhiate annoiate.

Cominciamo bene…, pensai.

Mi feci coraggio e presi fiato. Fui bloccata subito da un’imprecazione di mio padre.

-Porca vacca, vuoi tirare bene quella cazzo di palla??-.

-Oh, Stephan, non fare così! I vicini si scandalizzeranno!-, disse mia madre voltandosi verso di lui lentamente.

-Ma chi se ne fotte dei vicini? Che vadano a quel paese anche loro! Bastardi…-.

Io rimasi spiazzata. Cioè, nessuno dei due si era accorto del fatto che io stessi parlando? Sentii montare la rabbia.

Calma, Wendy, non avere reazioni sconsiderate…,pensavo tra me e me per calmarmi.

Quando fui sicura che i miei nervi erano sotto controllo, tentai nuovamente di attirare la loro attenzione.

-Lucy, chiudi quella maledetta porta che mi arriva l’aria addosso, merda!-.

-Subito, caro-, rispose mia madre affrettandosi ad obbedire. Pur di passare – io stavo ancora impalata davanti alla porta – mi stava quasi per venire addosso e mi diede una gomitata negli stinchi.

-Ahio!-, esclamai, ma lei non mi chiese neanche scusa, tornando al suo lavoro di lucida-mobili-come-se-fossero-monili-dal-valore-inestimabile.

No, Wendy, non mollarle uno schiaffo in piena faccia o non ti faranno uscire per tutta la settimana… e tu come farai a provare?

Presi un altro respiro e mi schiarii nuovamente la gola.

-Bene-, iniziai, -non me ne frega un cavolo se mi ascoltate o no, io parlo e voi non potete fare nulla per fermarmi. Allora, io amo il ballo – certamente più di quanto io ami voi – e vorrei capire perché non rispettate questa mia passione. So che siete ottusi, superficiali e poco intelligenti, ma davvero non mi aspettavo fino a questo punto-.

Finalmente mi degnarono di uno sguardo, anche se non si poteva dire che fosse proprio amichevole.

-Quindi, se avete un minimo di coscienza, provate a chiedervi cosa avete fatto perché vostra figlia ha questa bassa concezione di voi. Se davvero ci tenete alla vostra reputazione, chiedetevi se potete fare qualcosa affinché io possa cambiare idea su di voi. Se v’importa almeno un po’ di me… allora lasciatemi ballare-.

Mi sentivo come se mi fossi appena tolta un peso di dosso. Quella sensazione però mi abbandonò appena Stephan aprì la bocca per lasciarsi scappare un sonoro e disgustoso rutto. Poi mi disse con la sua voce irritante e rivoltante: -A me non me ne frega un cazzo se tu ami il ballo, chiaro? Ci vuole fisico e grazia e tu non hai nessuno dei due. E poi quegli strani movimenti che tu chiami passi non ti faranno andare da nessuna parte: ti tireranno pomodori appena salirai sul palco. E non me ne fotte un cazzo neanche di quel che pensi di noi. Il tuo rispetto me lo ficco nel…-.

Fu come ricevere uno schiaffo in piena faccia. Quell’uomo mi disgustava talmente tanto da farmi venire il voltastomaco.

-Tu non sei mio padre-, sibilai.

-E ne sono fiero-, rispose.

-Mai quanto me-.

-Quello che mi dici non mi fa né caldo né freddo-, disse.

Ah, sì? Vediamo se sei indifferente anche a questo, stronzo.

Mi guardai attorno, conscia che la mia pazienza era ormai estinta peggio dei dinosauri.

Crash.

Il vaso greco che mia madre ricevette come regalo da sua sorella si schiantò a terra, con un fracasso che fece sobbalzare Lucy e Stephan.

-Ops! Scusate, ma Michael Jackson amava molto questo passo-, dissi fingendo di scusarmi per la piroetta che aveva appena mandato in frantumi il vaso.

-Tu! Brutta…-, esclamò Stephan, ma non finì la frase che io continuai la mia imitazione rompendo oggetti appena lucidati da Lucy.

-Tu non sai nulla di fisico né di grazia!-, urlai, -e non lo saprai mai! Eppure, guarda! Con i miei passi guarda cosa sono capace di fare!-.

Causai altri guai al salotto così amato da loro, e più lo facevo, più volevo continuare.

-Questo è per avermi ruttato in faccia prima-, e diedi un calcio alla sedia di mogano davanti a me.

-Questo è per la gomitata nei fianchi che tu, puttana, mi hai dato per chiudere la porta-, e mandai in frantumi una bomboniera.

-Questo è per aver strappato il mio poster del mio Michael nella mia stanza-, urlai gettando un posacenere di ceramica dalla finestra.

-E questo-, aggiunsi, in preda ad un collasso di nervi e brandendo pericolosamente il bastone da baseball che comprò mio padre per 1000 dollari, -è PER NON AVERMI MANDATA AL CONCERTO L’ALTRO IERI!!!-.

Scaraventai il bastone contro la vetrina con il maglione firmato da Michael Jordan appeso al muro dietro di me: era il cimelio più prezioso di mio padre.

Ero preda di una folle eccitazione e la mia sete di vendetta si era finalmente placata. I miei pensieri furono bloccati da un urlo

Stephan si era alzato in piedi, il volto paonazzo.

-Vieni qui, disgraziata!-, urlò, correndo verso di me.

Mi precipitai fuori, ma non fui abbastanza veloce. Mi agguantò per i capelli e mi sbatté a terra.

Fui colpita da una sensazione di stordimento che mi fece girare la testa vertiginosamente e subito dopo sentii qualcosa di caldo che mi colava dalla fronte. Sangue. Riuscii a rendermi conto solo del fatto che Stephan aveva una cintura in mano prima di affannarmi per scappare. Inutile. Il colpo mi giunse dietro la schiena, micidiale, malefico. Non avevo mai sentito così tanto dolore in vita mia. Ero scioccata e terrorizzata, e iniziai a piangere e gridare.

-Così impari!-, urlò Stephan, mentre mi assestava altre cinghiate dietro la schiena.

Tentavo di scappare, ma il dolore mi aveva bloccato. Ardere nelle fiamme dell’inferno sarà più bello, pensai.

Continuò per un’altra mezz’ora, finché non persi sensibilità alla schiena e non fui più in grado di reggermi in piedi.

Per tutto il tempo, Lucy restò barricata nel salotto.

Quando mi svegliai, la prima cosa che vidi fu un uomo accanto al mio letto.

-Alla fine sono diventata come te…-, allungai una mano verso di lui. -Michael…-.

Chiusi gli occhi e mi riaddormentai cullandomi fra quegli occhi di cartone.

Avevo quattordici anni.

 

-Wendy Moira Angela Darling!-.

Sobbalzai quando sentii il mio nome provenire da un angolo recondito della mia mente. Mi ero nuovamente persa in quel ricordo sgradevole.

Diamine.

-Sono io-, esclamai alzandomi.

La donna che mi aveva chiamato aveva corti capelli neri e la carnagione scura; mi sorrise.

-Vieni, è il tuo turno-.

Annuii e presi lo zainetto, avviandomi verso la porta che conduceva ad un corridoio. Lo attraversammo per un po’, finché non ci fermammo davanti un’altra porta.

La donna la aprì e mi sentii svenire.

Di fronte c’era un tavolo lungo color marrone chiaro e dietro vi erano seduti circa sei persone, tra cui…

Mi venne un tuffo al cuore: era lui.

Aveva i capelli lunghi e ricci legati in una coda di cavallo, e indossava una camicia bianca. Mi guardò per un attimo e mi sorrise. Non potei fare a meno di arrossire.

-Prego, entra-, mi disse con la sua voce da bambino vedendo che rimasi impalata davanti la porta.

Obbedii e tentai di calmarmi.

Guardarono il mio curriculum.

-Wendy Moira Angela…-, sussurrò Michael. Poi mi guardò. -Per caso conosci Peter Pan?-, mi chiese sorridendo.

Dapprima non seppi cosa pensare, ma quando capii che era una battuta divenni rossa come un peperone e risi nervosamente.

Calma, calma, calma, calma, calma, calma!

-Bene-, disse uno dei giudici. -Quale pezzo ci mostri?-.

-2 bad-, risposi, decisa.

Fece un gesto con la mano per indicarmi che potevo proseguire e posai lo zainetto a terra. Mi misi al centro della sala.

-Quando sei pronta-, disse Michael.

Pensai ai miei genitori e a Helen. Pensai alle burle dei miei compagni quando sapevano che mi piaceva Michael Jackson. Pensai alle mie innumerevoli prove in garage.

Non puoi sbagliare. È una canzone di Michael Jackson, e ne sai il ritmo a memoria. Ti sei preparata a questo da una vita: non rovinare tutto.

Annuii e lui fece partire il pezzo.

Mi voltai dando le spalle alla giuria e improvvisai qualche piccolo passo hip-hop nel momento in cui parlavano i rappers. Quando stava per arrivare la prima strofa urlai come Michael nel video e con un mezzo giro ebbi la giuria di fronte… per il resto della canzone non rimase altro da fare che lasciarmi trasportare dalle note.

 

Rimase impalata davanti la porta, e mi fissava con un’espressione vacua. In quel momento capii subito che poteva farcela. Fisico da modella a parte, c’era qualcosa in quei suoi occhi così incredibilmente azzurri che mi aveva attirato fin da subito. Desideroso di sapere di più su di lei, presi il suo curriculum ed ebbi appena il tempo di leggere il suo nome che subito Wendy Moira Angela Darling mi fu simpatica.

-Conosci per caso Peter Pan?- , le chiesi con una punta d’ironia nella voce. Lei rimase per qualche secondo senza dire nulla, per poi arrossire e dare il via ad una risatina alquanto nervosa.

-Bene-, disse improvvisamente Uriah, un giudice seduto accanto a me. -Quale pezzo ci mostri?- .

Lei spostò la sua visuale da me a lui e rispose, pronta: -2 Bad-.

Probabilmente non se ne accorse, ma sorrisi.

Uriah le indicò che poteva partire, e i suoi occhi si accesero. Si vedeva che non aspettava altro. Posò il suo zainetto in un angolo e si posizionò al centro della sala.

-Quando sei pronta-, dissi, e lei iniziò a tremare. Smise dopo qualche secondo, per poi annuire. Schiacciai il pulsante PLAY e la musica partì. Nel pezzo iniziale fece qualche piccola mossa hip-hop, e a pochi secondi dall’inizio della prima strofa gridò proprio come facevo io. Mi vennero i brividi: i miei stessi passi, i miei stessi movimenti… ma visti in un’altra persona. Era fenomenale! Se non fosse stato un provino mi sarei catapultato anch’io sulla pista da ballo per danzare con lei. Non ci fu alcun dubbio: era quello che cercavo. Fosse per me non avrebbe neanche continuato il resto della prova – ovvero delle sfide contro gli altri ballerini – : già la vedevo sul palco che ballava le mie canzoni ripetendo i miei stessi passi…

Sì, Wendy Moira Angela Darling sarebbe diventata parte del mio cast.

 

-Basta così-.

Una voce mi bloccò proprio nel bel mezzo della mia performance.

La musica si stoppò improvvisamente e mi ritrovai al centro della sala. Mi sentivo come se fossi stata risvegliata di botto dopo un sogno bellissimo. La giuria mi guardava severamente. Non ebbi il coraggio di verificare l’espressione di Michael.

-Signorina Darling… in realtà quello che sto per dirle dovrebbe essere ufficiale solo tra qualche giorno, ma è meglio essere chiari fin da subito-, cominciò togliendosi gli occhiali. Lo guardai speranzosa: di solito questa frase precede una buona notizia. 

-Lei non ha fatto altro che ripetere gli stessi passi del qui presente Michael Jackson durante tutta la prova. Non abbiamo bisogno di questo. Noi cerchiamo ballerini che siano in grado di affrontare nuove coreografie che non si limitano ad imitare, ma a creare nuovi movimenti-.

-Ma io credevo che il provino si basasse sulla verifica delle proprie capacità… c’era scritto sull’inserzione… e io vi ho mostrato ciò che so fare-, risposi, incredula e confusa.

-Non basta. Lei ha talento, ma non lo sfrutta a dovere. Noi cerchiami ballerini, non sosia. Ci dispiace, signorina, ma non ha passato la prova-.

Mi sentii vuota e ferita. In confronto le punizioni di mio padre non erano nulla. Ripensai ai suoi maltrattamenti e sentii la rabbia impossessarsi di me.

-Faccio questo da quando avevo 5 anni-, dissi trattenendo a stento le lacrime, -e ho dovuto esercitarmi nel minuscolo garage di casa mia, perché se mio padre veniva a sapere che ballavo di nascosto mi picchiava. Solo Dio sa quello che ho dovuto passare per arrivare fin qui, e sentirsi dire che i miei sacrifici sono stati buttati al vento non è una bella cosa-.

-Signorina Darling, ci rincresce molto la sua storia, ma se cerca in tal modo di comprarsi il provino non ha capito con chi lei stia parlando-, disse acido lo stesso giudice.

-Io non sto cercando di far pena a nessuno, se questo è quel che intende dire. Sto solo dicendo che non è facile subire una sconfitta se hai lottato tutta la vita per vincere la guerra-.

Detto ciò mi voltai, punta nell’orgoglio e col cuore a pezzi.

-Aspettate-.

Quella voce! Quante volte l’avevo ascoltata cantare? Quante volte avevo sperato di sentirla dal vivo? Il mio desiderio era stato esaudito, e mi sembrava che stessi ascoltando un coro angelico.

Mi fermai e mi girai nuovamente. Tutta la giuria aveva lo sguardo rivolto verso Michael, che, a sua volta, guardava me.

-Io credo che bisogna dare una chance alla ragazza… a Wendy. Ha buone potenzialità, ed è molto sciolta, una caratteristica propria solo dei grandi ballerini. Tecnica e grazia sono in perfetto equilibrio fra loro. E poi ha ripetuto le mie stesse movenze in modo strabiliante! Tutte le altre persone che ci provano o sono portate via di peso dalla polizia, o non ci riescono. Insomma, una rarità così non possiamo sprecarla!-, esclamò Michael.

Non so descrivere quello che sentii in quel momento. Ero così felice e così strabiliata che dissi a gran voce con un sorriso enorme stampato in faccia: -So fare persino il moonwalk-.

Gli occhi di Michael divennero di fiamma.

-Fammi vedere-.

Lo accontentai e il volto di Michael si allargò in un sorriso splendente che per poco non mi procurava un attacco cardiaco.

-Visto?-, chiese poi alla giuria con un tono stile te-l’-avevo-detto.

-Non possiamo far passare il provino ad una che non ha fatto altro che imitarla, signor Jackson-.

-Sbaglio, o forse non è questo ciò che devono fare i ballerini sul palco? E poi non spetta a me decidere se qualcuno è in grado o meno di far parte del mio cast?-, chiese con sfida lui.

Il giudice non disse nulla, e Michael continuò:-Per quanto riguarda gli altri passi, può benissimo impararli… glieli insegnerò io-, propose, e mi sentii la ragazza più felice della Terra.

I giudici non ebbero nulla da ridire, e Michael si rivolse a me con un sorriso a trentadue denti: -Signorina Darling… in realtà quello che sto per dirle dovrebbe essere ufficiale solo tra qualche giorno, ma è meglio essere chiari fin da subito. Lei ha passato la prova con gran successo. Mi complimento con lei e la informo anche del fatto che non ha alcun bisogno di presentarsi qui altre volte. Si presenti tra un mese…-.

-Aspetti! Vuole dire che solo perché ha fatto quattro volteggi e una specie di piroetta non deve affrontare gli altri livelli della prova? Adesso sta esagerando, signor Jackson!-, urlò il giudice antipatico che aveva parlato poco prima. Mi trattenei dal non lanciargli uno sguardo omicida.

-Non sto esagerando, questa ragazza deve far parte del cast o manderò a monte tutto e farò tornare a casa i ballerini che avete scelto-.

-Che abbiamo scelto, vorrà dire-, lo corresse l’antipatico.

-Io ho solo dato il mio parere, per il resto avete provveduto voi-, rispose con lo stesso tono Michael.

-Nessuno vi ha chiesto di non farlo-.

-Mi sono semplicemente limitato ad avvalorare o meno le vostre decisioni, che finora mi sono sembrate giuste e motivate. Ma non sono in grado di condividere la vostra opinione su Wendy, mi dispiace-.

-Dispiace anche a noi, signor Jackson, ma la signorina Darling qui presente deve superare anche le altre prove, o non saremmo corretti nei confronti degli altri ballerini che invece si esibiranno sul palco dopo aver sudato quattro camicie per superare ogni singola prova… e poi, se manderà a monte tutto, le ricordo che lei ci perderà, e non certo noi-.

Michael stava per ribattere quando io mi interposi fra loro – la situazione stava letteralmente degenerando –  e dissi a voce alta e con un tono del tutto innocente:

-Per me va bene-.

Michael mi guardò sorpreso e deluso, e io mi spiegai: -Ho combattuto tutta la vita con le unghie e con i denti per ottenere ciò che volevo, e il più delle volte ci sono riuscita. Ringrazio il signor Jackson per avermi dato questa opportunità a dir poco allettante, ma non mi sento di accettare. Mi basta di aver passato questa prima prova, e se non riuscirò a far parte del suo cast… beh, spero che mi contatti per un altro ruolo, magari in uno dei suoi splendidi video-, aggiunsi con un sorriso che lui ricambiò dopo un attimo di incertezza. -Se poi mi ritrovassi sul palco a ballare “Black or White” o “Thriller”… beh, avrò dimostrato al mondo intero che sono capace di stare accanto al grande Michael Jackson, e che i miei passi così simili ai suoi mi hanno portato in alto-.

L’espressione di Michael passò dalla delusione alla felicità e malizia più totali. Non aveva ottenuto ciò che voleva, ma da quanto io avessi capito di lui non si sarebbe arreso così facilmente

È proprio un bambino, pensai.

L’altra prova sarebbe stata due settimane dopo. Stavo già per andarmene quando Michael mi bloccò, di nuovo. Questa volta però mi prese per un braccio e mi sussurrò all’orecchio parole che avrebbero cambiato la mia vita per sempre: -Denuncia tuo padre-.

-Cosa?-, esclamai, con la vaga impressione di non aver sentito bene.

-Io non ho potuto farlo quando ero piccolo-, mi sussurrò con un tono triste, -perché ero troppo debole. Tu invece no. Nonostante sapessi che tuo padre ti avrebbe certamente punita, lo stesso ti sei presentata qui. Devi essere abbastanza forte da compiere questo piccolo gesto. Ti assicuro che se non lo fai ora, passerai il resto della tua vita immaginando cosa saresti diventata se quel giorno avessi ascoltato il mio consiglio-.

Un groppo mi bloccò la gola e poco dopo le lacrime presero a scorrere senza che potessi fermarle.

-Non lo so…-.

-Ti prego Wendy… fallo per me-.

Lo guardai negli occhi, dritto in quelle iridi così incredibilmente nere, e desiderai perdermi in esse per dimenticare tutto…

Tirai su con il naso ed annuii.

E, senza che potessi rendermene conto, improvvisamente Michael mi abbracciò. Ricambiai la stretta, per poi staccarmi delicatamente.

-Non deludermi-, mi ordinò con un tono al contempo dolce e iussivo.

-Mai. Promesso-, risposi, conscia del fatto che quel frammento di vita trascorso fino ad allora stava per cambiare.

                             

 

 

 

Nota dell’autrice:

Salve! Sono resuscitata dalle mie ceneri! XD!

Spero che questo primo chappy vi sia piaciuto, o perlomeno vi abbia mosso qualcosa dentro di voi… magari un piccolo Michael che vi suggerisce di seguire i vostri sogni e di non arrendervi mai…

Ringrazio di cuore tutti coloro che hanno aggiunto le mie scorse storie sui preferiti, chi ha recensito e chi ha semplicemente letto. Un grazie particolare a Alchimista, TanyaCullen e Crazy_klara: senza il vostro supporto non sarei arrivata fin qui.

Il prossimo chappy s’intitola “Leave me alone”, e ne vedrete delle belle…

Un saluto affettuoso a tutti voi, e con la speranza che mi facciate sapere la vostra con una recensione,

Bad_Mikey

 

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Capitolo 2
*** Leave me alone ***


So che molti di voi si aspettavano un ritorno di Wendy, ma purtroppo non è così (dalle recensioni lasciate per il primo cap è stata questa la mia impressione)

So che molti di voi si aspettavano un ritorno di Wendy, ma purtroppo non è così (dalle recensioni lasciate per il primo cap è stata questa la mia impressione). Essendo questa una raccolta ogni capitolo è un racconto diverso, con differenti protagonisti. Questo che ho appena postato è il più…”cattivo”, in un certo senso.

Quindi, vi prego, non spegnete il computer mentre leggete questo chappy! Sappiate che ho sofferto mentre lo scrivevo… poi capirete…

 

1.     LEAVE ME ALONE

 

I don't care what you talkin' 'bout baby
I don't care what you say
Don't you come walkin' beggin' back mama
I don't care anyway
Time after time I gave you all of my money
No excuses to make
Ain't no mountain that I can't climb baby
All is going my way
('Cause there's a time when you're right)
(And you know you must fight)
Who's laughing baby, don't you know?
(And there's the choice that we make)
(And this choice you will take)
Who's laughin' baby?

 

 

 

 

 

RE DEL POP O MANIACO SESSUALE?

I FANS: “NON LO RICONOSCIAMO PIÙ”

 

“Lasciatemi stare”, diceva il grande Re. “Non m’importa di cosa voi stiate parlando, perché non vi amo”. Chi, almeno una volta nella sua vita, non ha ascoltato “Leave me alone” di Michael Jackson? Allora avrete certamente riconosciuto questa strofa. Perché ormai tutti, e ripeto, tutti, lo conoscono. Perché è il Re, perché sa ballare, perché ha una bella voce. Certo. E poi? Sapete perché molti hanno ben presente il nome “Michael Joseph Jackson”? No? Allora vi do qualche indizio: chi ha cambiato colore della pelle? Chi ha praticato sesso orale con i bambini invitati nel suo ranch? Chi ha speso milioni di dollari per poi scoprire di essere indebitato fino al collo? A chi è sfuggito il naso durante un live? Chi si chiude in una camera iperbarica per non far trasparire la pelle raggrinzita e le rughe? Ecco, ora avete capito chi è veramente Michael Jackson. Perché, diciamocelo, l’era in cui il monarca ballava con gli zombie è ormai lontana. Lì sì che faceva paura con quei non-morti che gli volteggiavano attorno. Adesso invece l’unico nostro timore è ritrovarcelo nel letto dei nostri figli, mentre magari combina qualcosa descritto molto bene nella canzone “In the closet”. Più alto è il piedistallo più rovinosa è la caduta. E il nostro Michael lo sa bene. Sembra infatti che neppure i fans credano totalmente alla sua innocenza – e dovevano aspettare alla seconda denuncia per pedofilia –, a tal punto che nei sacchi della spazzatura sono stati trovati CD del cantante e una targa con su scritto “WE LOVE MJ”. Proprio per tale motivo la popstar ha deciso di concedersi un lungo periodo di vacanza invece di continuare il suo “Dangerous Tour”. Non si sa quanto tempo si dia di tregua, ma molti sono fermamente convinti che Michael Jackson non tornerà troppo presto sulla scena musicale. Forse vorrà trovare altri bambini con cui giocare a mamma e papà, o forse avrà in programma di riscattarsi da queste accuse non infondate con qualche nuovo pezzo mirante a provare la sua innocenza? Tutto inutile. Ormai la pedina finale di Jacko si è infangata, e nemmeno l’assoluzione dalla colpevolezza può purificarla. È la fine del Re del Pop; il mito è tramontato per colpa di un bambino.

SUSIE K. RIGHT

 

Il bar era affollato come sempre mentre leggevo il mio articolo di giornale. Era venuto molto bene, tutto quello che dovevo dire l’avevo reso pubblico. Era finalmente ora che tutti sapessero. Nessuno escluso, compresi i fan, quegli stupidi esseri che ritenevano una persona innocente o colpevole quando nemmeno l’avevano mai conosciuta.

Sorseggiai il mio caffé e ripiegai il giornale; se non mi sbrigavo rischiavo di far tardi al lavoro… e chi lo sentiva al boss…

Quel giorno c’era un importante evento alla Casa Bianca, ed ero stata scelta fra i miei molti colleghi per documentare il tutto. Il capo considerava molto le mie capacità, a tal punto da affibbiarmi gli articoli più importanti. Lui sosteneva che la buona stampa doveva essere perseverata, ma sapevo che di me non gli interessava la penna, quanto la disponibilità. Thomas J. Hunter non era famoso solo per il suo essere il direttore di uno dei più grandi giornali d’America, ma anche per aver “distratto” centinaia di nubili, single, divorziate e sposate – di cui le ultime sono le sue prede preferite.

Non ero ancora entrata nella lunga lista delle sue conquiste, e dubitavo fermamente di farne parte un giorno. Amici certo, ma il rispetto viene prima di tutto, soprattutto nei confronti di una propria dipendente.

Salii nel taxi che mi avrebbe accompagnato all’aeroporto, dove avrei preso un volo per Washington; lì avrei soggiornato in un albergo in cui veniva ospitata la stampa durante queste convention. Avevo portato con me solo un piccolo trolley con una miserrima quantità di vestiti dentro: ciò di cui avevo davvero bisogno era un taccuino per gli appunti, una penna e un registratore, che in quel momento si trovavano nella mia borsa, accanto a me.

-Dove la porto?-, chiese il tassista, un uomo abbastanza corpulento sulla cinquantina.

- All’aeroporto, grazie-, risposi.

Presi lo specchietto dalla borsa per verificare se i capelli erano in ordine. Dopo essermi accertata che il mio cuoio capelluto si trovava in condizioni abbastanza presentabili, presi il volantino-guida arrivatomi il giorno prima direttamente in redazione, su cui c’era scritto tutto quello che i giornalisti che arrivavano alla Casa Bianca dovevano sapere sull’argomento; ero appena arrivata a metà del secondo rigo, quando il tassista mise una cassetta nella radio. Feci una smorfia quando la canzone partì.

-Michael Jackson?!-.

-“Billie Jean”, per la precisione. La conosce?-, mi chiese.

Annuii tentando di fermare i conati di vomito. Il tassista parve non accorgersene perché picchiettò le dita sul volante e continuò: -Anche se lei è giovane, non mi stupisco se dice di averla già ascoltata: questa canzone ha scritto la storia della musica. Ricordo che io e mia moglie la ballavamo sempre…-, si perse per un attimo fra i ricordi. -Sarà il ritmo, maBillie Jean” riesce sempre a trascinarmi. Eppure non sono neanche un bravo ballerino… Qualcosa non va?-, chiese, notando la mia espressione disgustata.

-Sì, mi da fastidio la canzone. Può chiudere, per favore?-.

Il tassista mi guardò per un attimo dallo specchietto retrovisore, per poi spegnere la radio.

Continuai a leggere.

-Le da fastidio ascoltare musica mentre legge, o è la canzone proprio?-.

-Credo che dalla precedente risposta abbia già capito da sé…-, guardai il suo nome sul cruscotto.

-… signor Heatherby-, aggiunsi.

Lui rimase in silenzio, e io ne approfittai per continuare a leggere il volantino.

-Non le piace Michael Jackson?-, chiese il tassista  con un filo di voce.

-Diciamo che non gli do tanta importanza. Ma se fossi nei suoi panni, non farei altre domande-, risposi con tono neutro, faticando a restare calma. Le note di quella maledetta canzone mi erano entrate in testa, rendendomi acida come tutte le volte che vedevo quell’orrenda faccia di un cantante da quattro soldi.

-Perché?-.

-Di quale dei miei tanti affronti volete sapere il motivo?-, domandai con un pizzico di sfida nella voce.

-Perché avete scritto quell’articolo stamattina, signorina Right?-, ebbi un sussulto e i miei occhi incrociarono quelli tenebrosi e profondi del tassista, fermi all’altezza del mio petto, lì dove c’era un tesserino con sopra scritto il mio nome e quello del giornale per cui lavoravo.

Solo allora mi accorsi le iridi, la pupilla e la pelle avevano lo stesso colore: era nero. O meglio caffelatte. Proprio come me.

-Perché è la verità-, risposi con un sospiro.

-Oh, certo. Giuri che ha ragione, perché se è così io sono Stevie Wonder-, disse con tono sarcastico.

E a quel punto scoppiai.

-È la gente come lei che mi ha fatto odiare Michael Jackson: lo venerate come se fosse un Dio! Ogni volta che fa quella specie di movimento con i piedi o mette la mano sul pube tutti lì ad idolatrarlo! Nessuno si rende conto del fatto che sembrate ridicoli?-.

-Io non ci trovo nulla di male ad andare al concerto del proprio idolo o tentare di imitarlo-, rispose lui, senza un accenno di emozione.

-Bene, allora non dovrò stupirmi se un giorno vedrò uno vestito con mocassini, calzini di pailettes e in testa un cappello che violenta un bambino per strada e dice: “Guardatemi sto imitando il mio idolo!”-.

-È la gente come voi che sta rovinando la fedina penale di una brava persona come Michael Jackson-, rispose, ora visibilmente arrabbiato.

-Essere accusato di pedofilia per la seconda volta dovrà pur significare qualcosa…-.

-Oh, andiamo, chi vuole che creda a queste cose?-.

-TUTTI!-, urlai io improvvisamente, facendo sussultare il tassista. –Altrimenti, perché si sarebbero messe in giro tali dicerie?-.

-Soldi. Gelosia. Cinismo. Le dicono niente queste parole?-, rispose, con un pizzico di malizia.

-Quindi secondo lei coloro che lo hanno accusato lo hanno fatto solo per spillargli soldi?-, chiesi, dubbiosa.

-Certo. Logico, no?-.

-No-, risposi. –Che cosa dovrebbe esserci di logico in tutto ciò? Insomma, accusare qualcuno di un crimine così grave solo per mandarlo in bancarotta… è esagerato secondo me-.

-No invece, signorina. È la vita-, rispose con un tono da saggi.

Sbuffai.

La vita. Ma per piacere…, pensai.

-Ma come fa a dire che è colpevole?-, chiese lui, senza arrendersi.

-E lei come fa a dire che è innocente?-, risposi imitandolo.

Stette un attimo a pensare.

-Una ragazzina potrebbe risponderle che lo legge nei suoi occhi. Ma sono del parere che un uomo con due figli che ha scritto una canzone bella come “Heal the world”, e che si è attivato per rendere questa catapecchia di mondo un posto migliore, non può semplicemente essere un maniaco sessuale-.

-Belle parole, ma molte lacune. Innanzitutto: Michael Jackson – questo lo ammetto – è un ottimo attore. Può aver finto anche mentre cantava o mentre ospitava i malati terminali nel suo ranch, o mentre faceva il bambino-.

-Anche il suo discorso ha dei punti deboli-.

-Davvero?-, risposi scettica. –Non credo proprio-.

-Oh, sì, invece. Come è strano tutto l’amore che si prova verso Michael Jackson, così anche il suo odio è immotivato. Chiunque ascoltando le sue parole l’avrebbe mandata a quel paese. Ma siccome io sono una brava persona, non mi tolgo questo sfizio-.

Mi aveva spenta. Non sapevo come controbattere. Aprii bocca, poi la rinchiusi. Niente. Non trovavo nulla da dire.

-Beh, visto che nessuno dei due dice nulla… almeno ascoltiamo della buona musica-. Detto questo accese la radio.

-Ascolti questa prima di giudicare qualcuno che non conosce-, mi disse, e schiacciò il pulsante play.

 

Hai mai visto la mia infanzia?

Sto ancora cercando il mondo da cui provengo

Perché mi sono guardato attorno

Tra la perdita e il ritrovamento del mio cuore…

Nessuno mi capisce

Mi vedono come un’anomala eccentricità

Perché continuo a scherzare

Come un bambino, ma perdonatemi…

Le persone dicono che non sto bene

Perché amo le cose elementari

È stata la mia sorte per compensare l’infanzia

Che non ho mai avuto…*

[…]

 

Era “Childhood”.

Tentai di fare l’indifferente, ma mi si bloccò il respiro. L’avevo ascoltata già qualche tempo prima, eppure mai quelle parole mi arrivarono al cuore come durante quella maledetta e benedetta giornata in un taxi decrepito.

 

Quelle parole d’inchiostro sembravano risucchiarmi. Non riuscivo a capire perché mi sentissi così male: d’altronde, non era la prima volta che scrivevano una cosa del genere. Avrei dovuto abituarmi, prima o poi. Eppure qualcosa era diverso. Lo sentivo già quando lessi il titolo, e man mano che proseguivo il respiro si faceva sempre più affannato. Poi, il colpo di grazia. Ecco perché quelle reazioni sconsiderate per un articolo che non meritava nemmeno di essere letto. I miei occhi caddero sul nome dell’autrice di cotanta falsità. E mi sentii mancare.

Corsi di filato nello studio, dove presi il telefono. Il centralino mi rispose dopo due squilli, che mi parvero venti.

-Posso aiutarla?-.

-Sì-, risposi con veemenza. -Mi può dare il numero della direzione del “Real Magazine”?-.

Mi fece attendere qualche minuto,  trascorsi a picchiettare le dita sul banco e lanciare sguardi sempre più frequenti all’orologio. Quando la signorina riprese la telefonata dovetti sforzarmi di non chiederle perché ci avesse messo così tanto tempo. Mi dettò il numero e biascicai un “grazie” per non sembrare maleducato.

Attaccai e composi le dieci cifre. Cinque squilli, e dall’altro capo del filo mi rispose una voce femminile.

-Pronto, qui è la redazione di “Real Magazine”-.

-Salve, vorrei parlare con il direttore del giornale-.

-Chi lo desidera?-.

Rimasi un secondo in silenzio, indeciso se rivelarmi o no. Presi la decisione che in quel momento mi sembrava migliore.

-Sono Michael Jackson-. La verità. Sempre ottima alleata.

Silenzio. Poi una forte risata.

-Certo! Lei è Michael Jackson! E io sono Lady Diana!-.

Sospirai.

-Può passarmi il direttore, per favore?-.

-Oh, sì. Subito!-, esclamò, continuando a ridere. –Rimanga in linea-.

La sentii mormorare: -Michael Jackson… come no…-, prima che la sua voce venisse sostituita da una musichetta che mi mandò sui nervi.

Ancora.

Dovevo aspettare ancora.

Quella volta restai attaccato alla cornetta del telefono per ben mezz’ora prima che mi decidessi ad attaccare.

Stupido giornale, pensai, mentre ricomponevo il numero.

Dalla voce capii che mi rispose un’altra segretaria: evidentemente quella di prima era fuggita per continuare a ridere. Davvero era così ironico il fatto che io telefonassi alla direzione di un tabloid? La risposta arrivò da sola, e feci una smorfia.

-Sono James Keith-, improvvisai, -presidente di un’agenzia pubblicitaria. Mi chiedevo se era possibile parlare con il direttore del vostro giornale riguardo una questione di estrema urgenza-. Le bugie. A volte ottime nemiche.

-Attenda, prego-, mi rispose.

La musica non durò più di un minuto. Una voce maschile mi riempì l’orecchio destro.

-Pronto?-.

-Credo che lei debba cambiare personale, signor Hunter: prima ho dichiarato il mio nome e la sua segretaria mi ha riso in faccia. Non credeva possibile che fossi io-.

Il direttore non fiatò. Passarono alcuni secondi interminabili.

-Signor Jackson! Vogliate perdonare Gwen. È una brava ragazza, nonché ottima assistente, ma spesso ci sono buffoni scansafatiche che chiamano qui fingendo di essere delle star… mi scusi, la starò annoiando… in cosa posso aiutarla?-.

I giornalisti. Quanto li odiavo. Dalla faccia doppia e la coscienza pari a zero.

-Vorrei parlare con la giornalista che ha scritto l’articolo su di me stamattina-.

Il direttore parve un po’ soprappensiero.

-Susie Right?-.

-Sì, esatto. È lì?-.

-Ehm… no, veramente no. In questo momento si trova a Washington-.

-Ah-, risposi. –E quando tornerà?-.

-Fra due giorni. Precisamente lunedì sera. Potrebbe richiamare martedì mattina, signor Jackson. Però se è qualcosa di urgente può riferirmi tutto-.

La sera torna a casa e la mattina è già a lavoro?

Sospirai.

-Mi chiedevo se era possibile avere un’intervista con la signorina Right-.

-Un’intervista?-, chiese, scettico.

-Esatto. Racconterò ogni cosa di me stesso. È impensabile che io sia stato dichiarato innocente tre anni fa e ci sono ancora persone che pensano che io sia un pedofilo-, dissi tutto d’un fiato.

Attimo di silenzio.

-Per me non ci sono problemi, ma dovrebbe chiedere a lei…-.

-Non c’è problema. Richiamerò martedì. Grazie mille. Ah! Se per favore quello che le ho detto può rimanere fra noi due, non so se mi spiego…-. Ecco, e adesso mi sentivo un perfetto idiota. Un giornalista che tiene nascosto uno scoop come una telefonata del grande Michael Jackson? Accidenti, ma perché proprio a me?

-Naturale, signor Jackson. A domani e grazie a lei-.

-Arrivederci-, e agganciai.

Emisi il solito sospiro. Speriamo…

 

Quando entrai nell’ufficio di Thomas capii subito che qualcosa non andava. Primo: non mi aveva mai chiamata lui fino ad allora, ma ero sempre io che andavo nel suo ufficio per portargli articoli, news, e quant’altro. Secondo: quando mi guardava non gli luccicavano gli occhi come quella mattina di 22 giugno. Terzo: se mi aspettava non lo faceva mai girovagando per la stanza, ma seduto sulla poltrona.

-Susie!-, esclamò tirandomi letteralmente nell’ufficio e chiudendo la porta alle mie spalle.

-Cosa succede, direttore?-, gli chiesi.

-C’è una telefonata di estrema urgenza per te-, mi disse solamente, per poi pigiare il dito su un tasto del telefono.

-Gwen? Passami la telefonata sulla linea 1-.

-Subito, direttore-, rispose lei.

Thomas tolse il vivavoce e alzò la cornetta.

-Eccola, è qui. Ora gliela passo-, e mi fece cenno di avvicinarmi a lui.

Perché mi tremavano le gambe? Perché il mio cuore stava per scoppiare?

-Pronto?-, dissi.

-Ciao Susie. Sono Michael Jackson-.

Chissà perché, ma me lo immaginavo.

-Buongiorno signor Jackson-, risposi con voce atona, contenendo la rabbia.

Sospirò.

-Ah, giusto, le formalità. Testarda come sempre, vero?-.

-No, signor Jackson. Solo precisa nel mio lavoro e rispettosa nei confronti degli estranei-.

-Oh, sì, certo. E anche il tuo articolo dell’altro giorno voleva rispettarmi?-.

Sospirai. –Cosa vuole?-.

Rimase per un attimo in silenzio, poi disse: -Un’intervista-.

Mi bloccai.

-Eh?-. Vidi con la coda dell’occhio Thomas ridere sotto i baffi.

-Hai sentito bene-, mi rispose. –Voglio che tu m’intervisti. Ti racconterò tutto su di me. Ogni minimo particolare-.

-So già tutto su di lei, signor Jackson-.

-Ah, non sapevo che i miei fans mi considerassero pedofilo-, ironizzò.

-Devo informarmi si ogni minima cosa quando scrivo un articolo. E comunque non sono sua fan, dovrebbe saperlo-.

-Uhm… oh, certo, informarsi-.

Lo immaginai scuotere il capo e farsi beffe di me senza che io potessi vederlo. Quel pensiero mi fece urtare ancora di più i miei nervi di per sé già provati.

-Sì, informarsi. La regola d’oro dei giornalisti. Ma cosa vuole che ne sappia lei di cose che vanno al di fuori del campo di bambini e sesso?-.

-La tua frase è alquanto sgrammatica. Strano, ti facevo più intelligente per essere una giornalista-.

Sbuffai.

Ma va’, idiota…

-Alle 15, oggi pomeriggio nell’albergo “Sun” di NewYork. La mia camera è la 25. Non tardare-, e riattaccò.

Rimasi per un minuto buono senza fiatare con la cornetta in mano. Quando la posai, Thomas mi chiese: -Allora?-.

-Allora niente. L’intervista è per oggi pomeriggio-.

-Fantastico! Allora va’ a preparare domande e tutto, e non dimenticare il registratore. Il tuo articolo sarà un figurone! Già immagino i titoli in prima pagina: MICHAEL JACKSON MESSO A NUDO. L’INTERVISTA DEL SECOLO-.

E uscì dall’ufficio con le speranze già rivolte ad un articolo inesistente. Non sarei mai andata da Michael. Non l’avrei mai perdonato. Mai.

 

***

 

-Michael! Michael!-.

Una bambina dai capelli ricci e la pelle color caffelatte correva raggiante nel cortile verso il suo cugino preferito.

Il ragazzino si girò verso di lei e le sorrise, uno spettacolo da togliere il fiato.

-Susie!-, esclamò, abbracciandola.

La bambina inspirò profondamente il suo profumo. Gli voleva tanto bene, forse perfino più di quanto ne volesse a sua madre.

-Sei stato bravissimo stasera! Mi hai fatta piangere! Hai cantato benissimo!-, disse la piccola.

-Grazie! Però, ti prego, non piangere! Lo sai che non sopporto le lacrime su quel tuo bel visino da angioletto!-, la pregò lui e lei sorrise.

-Visto? Sei più bella ora. Scommetto che quando ti farai più grande un sacco di maschietti ti pregheranno per mettersi insieme a te!-.

La piccola scosse la testa.

-No,  sei tu  il mio futuro marito!-.

Il ragazzino rise, e lei si sciolse.

-Aspetta un attimo! Prima ero il tuo cugino preferito, poi tuo padre, poi il tuo fratellone… e adesso addirittura tuo marito?-.

La bambina annuì.

-Tu per me sei tutto!-, esclamò lei, facendolo cadere sull’erba.

Risero entrambi, felici come solo i bambini potevano esserlo.

 

La ragazza lo guardava con sguardo furioso. Si era di nuovo lasciato mettere i piedi in testa, e – come al solito – non aveva fatto nulla per impedirlo.

-Perché non reagisci?-, gli chiese lei, cercando di incontrare quegli occhi che fuggivano il suo sguardo.

-Ti prego, Susie…-,mormorò lui sprofondando con la testa nel cuscino.

-No, Michael, ti prego un bel niente!-, gridò lei facendolo sobbalzare. –Perché non li mandi tutti a quel paese? Lo sanno che la tua è una malattia, non devono prenderti in giro! Mio fratello è un ignorante! E, scusa se lo dico, ma tuo padre lo è ancora di più! Non puoi permettere che continuino a farlo! Devi porre fine a tutto questo! In questo mondo non esiste solo il perdono, ma anche la vendetta! Reagisci, cavolo, reagisci!-. La ragazza lo strattona e riesce a guardarlo negli occhi. Gli venne un tuffo al cuore. Il piccolo Michael, il suo adorato cugino, stava piangendo.

-Non posso …-, bisbigliò fra le lacrime.  La guardava come se fosse un gattino sperduto. -Non voglio …-, disse infine, voltandosi dall’altra parte.

La ragazza lasciò la presa. Rimase a guardarlo singhiozzare ancora, per poi avviarsi verso la porta.

-Stupido…-, disse ad alta voce, e uscì dalla stanza con le lacrime agli occhi e le mani che le prudevano.

 

Quando entrò in casa, solo Susie rimase di sasso.

-Che cosa hai fatto?-,gli chiese, avvicinandosi a lui.

-Non vedi?-, disse zio Joseph, il padre del ragazzo. –Ha cambiato colore-.

Lei lo guardava stranita. Lui si sentiva a disagio da quello sguardo strano, e abbozzò un sorriso.

-“Thriller” ha avuto un successo inaspettato… mi hanno chiesto di pubblicizzare delle marche… l’intero mondo ora sa chi sono… e con i soldi ricavati ho  pagato il chirurgo che mi ha… ehm…-, e si indicò il viso e le mani non più caffelatte, ma rosee.

Impossibile, pensò Susie, continuando a guardarlo frastornata.

-Perché? A me piacevi com’eri prima…-, biascicò lei.

Lui sospirò.

-Sto avendo troppa notorietà. Non posso rischiare di farmi vedere in pubblico con queste macchie addosso. Immagino già cosa diranno i media…-.

-Non diranno un bel niente! Tu sei malato! Ti perseguiteranno invece se ti vedranno così! Penseranno che l’hai fatto perché non ti accettavi, perché preferivi nascere bianco piuttosto che nero!-, esclamò lei.

Lo sguardo del ragazzo era triste.

-Non ho avuto altra scelta…-, mormorò.

Gli occhi le iniziarono a bruciarle e le lacrime presero a scorrere da sole.

-Sì, invece. C’è sempre un’altra scelta. Potevi farti accettare così com’eri, e invece hai deciso di trasformarti. Potevi fregartene altamente del giudizio degli altri, e invece hai deciso di subire tutte le ingiurie delle persone senza dire nulla e serbare tutto dentro. Allora sappi che dovrai soffrire ancora. Non finiranno qui le ingiustizie, anzi… ogni giorno peggioreranno. Purtroppo però non ci sarò più io ad asciugare le tue lacrime e a farti forza. Mi dispiace, Michael, ma da ora in poi io per te non sarò più niente. Addio-.

E fuggì via lasciandosi alle spalle il suo vecchio cugino che urlava dalle scale: -Susie! Susie!-.

 

***

 

Qualcuno bussava alla porta insistentemente.

-Un attimo, arrivo!-, urlai, posando il piatto sul tavolo.

-Ma che modi…-, mormorai, abbassando la maniglia.

Rimasi impalata quando vidi chi era il rompiscatole.

-Che modi? CHE MODI?? Dovrei dirla io questa frase! Ti ho aspettata tutto il pomeriggio e non sei venuta! Ti sembra educazione, questa?-.

Michael Jackson si trovava davanti a me, in carne ed ossa, con i capelli lisci sul viso e gli occhi che fumavano.

Rimasi impalata, incapace di parlare. Poi mi accorsi di avere la bocca.

-Che diavolo ci fai tu qui?!-, esclamai, irata.

-Beh, visto che tu non sei venuta…-, mi disse, entrando.

-Ehi! Non ti ho dato il permesso di entrare!-.

Mi guardò. Poi scrollò le spalle.

-Fa niente-.

-Che maleducato…-, dissi, chiudendo la porta alle sue spalle.

-Io maleducato?-, esclamò. –E allora tu come sei? Ti aspettavo oggi pomeriggio per quell’intervista! Mi hai fatto cancellare tutti i miei impegni, per poi scoprire che tu non venivi… come credi che mi sia sentito?-, mi chiese, furioso.

Mi accigliai.

-Dovresti saperlo che io di pomeriggio lavoro-, risposi, acida.

-Ma davvero? E come mai il tuo direttore ti ha mandato via prima?-.

-Che ne sai tu?-. Adesso aveva anche la facoltà di leggere nel pensiero, oltre che ballare come se fosse sulla Luna?

-Me l’ha detto lui stesso-, rispose semplicemente.

Ovvio, no?

Lo guardai ancora un po’. Era diverso dall’ultima volta che l’avevo visto – di persona, intendo. Ovvero, ai tempi di “Bad”, quando avevo 23 anni. Sapevo che non si era rifatto il naso più di due volte – sebbene nei miei articoli scrivevo che lo aveva modificato almeno 7 volte –, ma il suo cambiamento mi fece male ancora una volta.

Perché sei così cambiato?

Mi sedetti sul divano, e lo guardai.

-Non c’è bisogno dell’intervista. Domani inventerò qualcosa per giustificare me e te. Non ne hai bisogno, e io non ho alcuna intenzione di ascoltare nuovamente la storia della tua vita. La so a memoria-, gli annunciai.

Mi aspettavo qualcosa tipo “Nemmeno per sogno, io non torno indietro”, ma come al solito Michael mi sorprese.

Sorrise.

-Veramente… non sono io quello che devi intervistare…-.

Lo guardai, interdetta.

-Eh?-.

Andò verso la porta e l’aprì.

-Adesso potete entrare-, disse affacciandosi, per poi lasciar passare tre strane figure mascherate. Uno aveva i capelli biodo platino, l’altra marrone chiaro e l’altro ancora marrone scuro. Si avvicinarono a Michael, che disse: -Ora potete togliervi le maschere-.

Loro obbedirono.

E io rimasi incantata.

Erano bellissimi.

Erano i suoi figli: Prince, Paris e Blanket, e mi guardavano incuriositi.

Rimasi senza fiato, prima di registrare le sue parole.

-Vuoi che io intervisti… loro?-, e li indicai.

-Certo-, rispose scrollando le spalle come se io fossi una sciocca a non aver capito prima quello che intendesse dire.

Lo guardai stralunata.

-Tu sei matto!-.

-Quindi accetti?-.

-Io non ho detto ques…-.

-Bene! Accettato!-, esclamò battendo le mani. –Bambini, sedetevi-, ordinò.

Scossi la testa. Una volta che si metteva qualcosa in testa nulla e nessuno l’avrebbe distolto dai suoi obiettivi. Strano che dopo tutto quel tempo passati in lontananza io mi ricordassi ogni minimo particolare del suo carattere fanciullesco.

Mi sedetti sulla piccola poltrona di fronte il divano e Michael prese posto su una sedia accanto a me.

-Non vuoi infondere coraggio ai tuoi figli?-, gli chiesi, guardandolo.

Scosse la testa.

-Devo suggerirti le domande-.

-Giusto…-, mormorai, annuendo.

Guardai i tre bambini. Erano uno più bello dell’altro. Mi persi nella profondità dei loro occhi.

-Da dove devo iniziare?-, chiesi a Michael.

-Sei tu la giornalista-, mi disse sorridendo.

-Sei odioso-.

-E tu paranoica. In fondo sono solo dei bambini!-.

Lo guardai di sbieco e presi fiato.

-È vero che sei nostra zia?-, chiese Blanket con voce sottile.

Rimasi un momento allibita.

-Non può essere nostra zia-, gli rispose Prince. –Non l’abbiamo mai vista. Non è mai venuta a trovarci. Di solito gli zii fanno i regali-.

Aprii la bocca, ma non ne uscì alcun suono.

-I-io… non…-, farfugliai.

-Ma guardala!-, esclamò Paris. -È uguale a papà!-.

-Sì, però non l’abbiamo mai vista prima! Chi ci dice che sia veramente nostra zia?-, obiettò Prince. Non potei non dargli ragione.

-Se siamo qui ci sarà un motivo…-, disse Paris.

Il fratello maggiore annuì.

-Infatti…-, disse.

Il più piccolo mi guardava in modo strano, come se volesse dirmi qualcosa. Ricambiai lo sguardo e la sua voce mi giunse cristallina e terribile nelle orecchie.

-Perché non ci hai mai cercati?-.

Tutti fecero silenzio, compresa io. Mi sentivo un groppo in gola e gli occhi iniziarono a luccicarmi.

-N… non… potevo, io… io non sapevo…-, mormorai abbassando lo sguardo.

Perché stavo piangendo? Perché non ero ma corsa dai miei nipoti? Perché avevo detto quelle cose tremende a Michael? Perché? Perché? Perché?

All’improvviso, tra la confusione della mia mente, sentii qualcosa. Una stretta soffice. Un profumo dolce. Un cuoricino che batteva sul mio.

Blanket mi stava abbracciando.

Non ce la feci più e scoppiai in singhiozzo, ricambiando la stretta. Anche Prince e Paris si unirono all’abbraccio e mi sussurravano: -Sssh… non piangere, zia Susie… noi sappiamo chi sei… papà non ha fatto altro che mostrarci le vostre foto…-.

Mi allontanai, mi asciugai le lacrime e guardai Michael. Mi accorsi che anche lui stava piangendo come me.

-È vero?-, gli chiesi, anche se sapevo già la risposta.

Lui mi sorrise e annuì.

Mi alzai e lui fece lo stesso. Sprofondai la testa nel suo petto e lui mi cinse le spalle con un braccio e la vita con l’altro.

-Mi dispiace…-, mormorai, stringendolo forte a me.

-Non importa. Io già ti ho perdonata-, mi rispose.

Risi pensando che litigammo proprio perché lui non conosceva la vendetta, ma aveva sempre perdonato chiunque, anche chi non lo meritava.

-Cugini come prima?-, chiesi, guardandolo negli occhi.

-Più di prima, piccola Susie-, rispose sorridendo sciogliendomi il cuore.

 

Il bar era affollato come sempre mentre leggevo il mio articolo di giornale. Era venuto molto bene, tutto quello che dovevo dire l’avevo reso pubblico. Era finalmente ora che tutti sapessero. Nessuno escluso, compresi i giornalisti, quegli stupidi esseri che giudicavano una persona quando nemmeno l’avevano mai conosciuta.

Sorrisi ripensando al giorno prima. Le lacrime, gli abbracci, i chiarimenti…

Presi il mio diario e una penna.

Ripensai al volto di Michael e sulla mia bocca comparve un sorriso.

Da ieri, 23 giugno 2009, questo piccolo frammento di vita sta per cambiare.

 

 

 

Note dell’autrice:

Ed ecco a voi il nuovo chappy!!! Adesso avete capito perché soffrivo mentre lo scrivevo? Solo all’inizio, però: alla fine ho deciso che avrei voluto farvi diventare simpatica la cuginetta… sì, io amo il “e vissero felici e contenti”… si è capito? XD! Spero che non vi siate arrabbiate troppo con me, e che questo chappy vi sia piaciuto. L’asterisco accanto il testo di “Childhood” indica che la traduzione è stata fatta da me, e non copiata da nessun sito o forum, se vi trovate qualche errore, vi prego di segnalarmeli tramite una recensione. E adesso, passiamo ai ringraziamenti:

 

X eclipsenow: Grazie, grazie mille!! Mi sto emozionando… oddio, divina…

Lo so, il pezzo della lotta con i genitori è piuttosto triste… però devi ammettere che quando rompe tutto è divertente…XD! Grazie, spero che anche questo capitolo ti sia piaciuto… un bacio!

 

X Porsche: Sono davvero contenta che ti sia piaciuto! Grazie per i bei complimenti! Spero che questo nuovo capitolo non abbia deluso le tue aspettative… un bacio!

 

X rara193: Grazie mille… erto, continuerò a scrivere per me, per voi e – dulcis in fundo – per Michael, che chissà se ora mi sta sussurrando ciò che devo scrivere… un bacio!

 

X Eutherpe: Dai, non farmi tutti questi complimenti, che poi arrossisco. Ad ogni modo, grazie mille, le tue recensioni mi rendono sempre felice, e non smetterò mai di ringraziarti. Sono contenta che ti piaccia il personaggio di Wendy, ci ho messo anima e corpo per darle carattere… Per quanto riguarda l’ultima parte anche io concordo nel dire che Michael è incantevole (hehehe…); inoltre ho immaginato come dovesse sentirsi Mike vedendo che – nonostante avesse perdonato suo padre – questo non l’aveva mai trattato come un figlio… sì, il fan che veniva trascinato dalla polizia mi ha sempre fatto una pena…;) Ah, lo sai che anch’io sono iscritta sul forum FanSquare? Però il mio nick è “MichaelInTheHeart”… magari ci becchiamo lì, okay? A presto! Un bacio!

 

X Alchimista: Tesoooooooooooooooro!!!!!!!!!!!!! Che bello, grazie mille!! Al solo pensare che ti ho contagiata e che stamattina non hai fatto altro che ascoltare la stupenda “Heal the World” mi vengono le lacrime agli occhi… posso sempre contare su di te, e grazie mille ancora… di tutto. Ti voglio un mondo di bene!!! Un bacio!

 

Ringrazio inoltre coloro che mi hanno aggiunto questa storia ai preferiti e alle seguite, a chi mi ha aggiunto tra gli autori preferiti, e a coloro che hanno letto e basta. Il prossimo chappy s’intitolerà “Ben”… spero di riuscire a postare presto…

Ancora grazie mille a tutti voi! Alla prossima! Bad_Mikey!!

 

 

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Capitolo 3
*** Ben ***


Dedicato alle mie migliori amiche: Alchimista, TanyaCullen, Crazy_klara, Anna…

Dedicato alle mie migliori amiche: Alchimista, TanyaCullen, Crazy_klara, Anna…

Senza il loro supporto tutte le mie fan fiction sarebbero solo utopia.

Grazie mille, ragazze!

 

3. BEN

 

Ben, the two of us need look no more
We both found what we were looking for
With a friend to call my own
I'll never be alone
And you my friend will see
You've got a friend in me
(You've got a friend in me)

Ben, you're always running here and there
You feel you're not wanted anywhere
If you ever look behind
And don't like what you find
There's something you should know
You've got a place to go
(You've got a place to go)

I used to say, "I" and "me"
Now it's "us", now it's "we" (X2)

Ben, most people would turn you away
I don't listen to a word they say
They don't see you as I do
I wish they would try to
I'm sure they'd think again
If they had a friend like Ben
Like Ben
Like Ben

 

 

Dicono che il destino non esiste… e do loro ragione. Ma a volte succede qualcosa che ti fa cambiare idea. Tipo quando lo vidi per la prima volta; non potevo credere che fosse accaduto tutto per caso. Quando ascoltai per la prima volta il Re del Pop mi trovavo nel pancione della mamma. Quando tremai per una sua canzone avevo poco più di quattro anni. Quando Michael Jackson entrò nella mia vita… beh, semplicemente non sapevo che era lui.

 

Mia madre aveva in mano un pezzo di stoffa nera. Lo manteneva solo con due dita, il pollice e l’indice, come se ne avesse paura.

Mio padre era… spaventato. E anche stupito. Sì, o almeno credo. A dieci anni non riesci a decifrare tutte le emozioni della gente…

Io guardavo la scenetta da dietro la porta della stanza da letto dei miei; non capivo nulla di quello che stava accadendo, ma sentivo che quella situazione non era molto bella… era come se avessi un qualcosa dentro di me che mi sussurrava: “Scappa… andrà a finire male…”.

Ma per qualche insolito motivo decisi di restare. E non mi pentirò mai della scelta che feci quel giorno.

-Cosa ci fa questa nel mio letto?-, mormorò mia madre indicando lo strano oggetto che aveva in mano. Solo allora mi accorsi che era una mutandina di pizzo nero. Ma perché era così arrabbiata? E perché papà stava sudando così tanto?

-Hannah… lasciami spiegare…-, disse lui, avvicinandosi a lei e posando le sue mani sulle sue spalle. Lei si scostò.

-Voglio sapere cosa cazzo ci fa questa mutanda nel mio letto-, ripeté.

Ma prima che lui potesse rispondere, mia madre iniziò a gridare.

-Come hai potuto? Hai una famiglia a carico! Un figlio! E hai preferito portarti a letto un’altra!-.

Trattenei il respiro.

-I…io… mi dispia…-.

-Non dire quella parola! Se davvero eri “dispiaciuto” non ti scopavi una puttana!-, lo interruppe lei.

-Non gridare, ti prego…-.

-No, io grido quanto mi pare e piace, invece! Che tutti sentano! I vicini, l’altro quartiere, tutta la città… tutti devono sapere che sei uno STRONZO!-.

Iniziò a prendere a calci la poltrona e il letto.

-Ferma! Ferma, cosa fai?-, urlò mio padre. L’agguantò da dietro, ma lei si liberò dalla stretta e lo spinse verso la porta.

-Via! Via da qui! Non ti voglio più vedere qui! Tu. Non. Sei. Mio. Marito!-, disse, mano a mano che lo portava fuori dalla stanza da letto.

Mi scostai evitando per un pelo di essere travolto da mio padre, che cadde con la faccia a terra. La porta si rinchiuse. Io rimasi a fissarlo ancora per qualche secondo, guardandolo alzarsi a fatica e sospirare di resa. Poi i suoi occhi incontrarono i miei.

-Michele…-, sussurrò.

Mi voltai e mi avviai verso la porta d’ingresso.

Sentii mio padre gridare, e subito dopo la sua stretta. Mi aveva preso prima che potessi raggiungere l’uscita. Non ricordo quello che mi disse: pensavo solo a staccarmi dalla sua stretta, perché per lui provavo solo odio.

Riuscii a scrollarmelo di dosso e aprii la porta di casa. Uscii fuori e iniziai a correre. Corsi fino a star male, fino a non sentire più le gambe, pur di andare il più lontano possibile da quella casa.

Avrei continuato a correre per ore, ma mi fermai. Mi guardai indietro. Di mio padre nessuna traccia.

Tirai un sospiro di sollievo e alzai gli occhi. Di fronte a me si ergeva in tutta la sua imponenza il Colosseo.

Cavolo, ero arrivato fin lì? Da casa mia al monumento ci voleva come minimo un quarto d’ora… a piedi… ah, allora non avevo fatto molta strada.

Sospirai e mi sedetti su una panchina.

Mio padre aveva tradito mia madre. Non sapevo bene cosa significasse, ma di sicuro era una cosa cattiva se aveva fatto piangere mia madre. Rividi quelle guance bagnate quando disse a mio padre di andarsene… presi le ginocchia fra le mani e vi immersi il volto.

Poi, inaspettatamente, sentii un tocco caldo sulla spalla.

-Why are you crying, child?-.

Alzai la testa e vidi tre uomini davanti a me. Uno aveva i capelli biondo scuro e occhi azzurri, l’altro era moro e l’altro ancora aveva i capelli corti biondo platino e portava un berretto e gli occhiali da sole.

Scossi la testa.

-You don’t understand me, right?-, mi chiese quello col berretto. Solo allora mi accorsi che la sua voce era tenera e cristallina come quella di un bambino.

-Vi capisco-, risposi in inglese. –Non preoccupatevi, sto bene-.

-Non mi pare. Stai piangendo-, mi fece notare il tizio che aveva parlato prima.

Mi asciugai in fretta le guance.

-No, queste non sono lacrime!-, risposi.

-Certo… è pioggia, giusto? A fine giugno è normale-, disse ironico.

Abbassai la testa.

-Che volete da me?-, gli chiesi.

-Eravamo preoccupati, tutto qui. Ti abbiamo visto… ehm… bagnato per colpa della pioggia e ho pensato che sarebbe stato bello se ti avessi dato un ombrello-.

Lo guardai stupito.

-Eh?!-.

-Okay, parlo normalmente, però non ti lamentare. Ti abbiamo visto piangere e abbiamo pensato che sarebbe stato bello se ti avessimo… consolato-.

Sorrisi.

-Grazie mille, ma adesso passa tutto-, risposi.

-Sicuro?-.

Annuii.

-Grazie-, dissi di nuovo, e mi alzai dalla panchina.

Li sentii borbottare fra loro.

Non capii quello che dicevano, ma per un attimo mi parve di sentire il mio nome.

Mi voltai.

-Mi avete chiamato?-, chiesi, e li vidi scambiarsi occhiate strane.

-No…-, rispose quello moro.

-Non avete detto Michele?-, domandai dubbioso.

Quello con il berretto aveva un’espressione strana.

-Ti chiami Michele?-, mi chiese.

Annuii.

Lui sorrise.

-Il mio cantante preferito si chiama come te! Michael, però…-, disse.

Gli occhi mi luccicarono.

-Non dirmi che stai parlando di Michael Jackson! Perché anche a me piace tantissimo! Sono fiero di chiamarmi come lui!-, esclamai tutto d’un fiato.

Le due persone dietro s’irrigidirono e il tizio sorrise; chissà perché, ma per un attimo ho creduto che fosse felice.

-È bello vedere come un cantante così conosciuto possa piacere anche ai bambini-.

-Ma a tutti piace! La sua musica entra nell’anima! O almeno, è quello che mi dice mia madre…-, dissi io, e per un attimo ricordai perché ero scappato. Stavo per piangere di nuovo, quando sentii di nuovo la voce del tizio col cappello.

-Anche tua madre è una fan di Michael Jackson?-.

Annuii, frenando le lacrime.

-E mio padre. Si sono conosciuti ad una festa e hanno scoperto di avere gli stessi gusti musicali. Mia madre si trovava in Italia da due mesi, e conosceva solo la ragazza che aveva fatto la festa. Mio padre, che sa parlare bene l’inglese, l’aveva vista sola e le aveva fatto un po’ di compagnia, e così…-.

-Ah, allora tua madre non è italiana… ecco perché sai parlare così bene la nostra lingua!-, esclamò lui.

-Sì, infatti, è americana. Viene da Phoenix-.

Lui fece un cenno con la testa. –Arizona… ci sono stato un paio di volte. È molto bello lì-.

-Mia madre me lo dice spesso. E voi di dove siete?-, chiesi, curioso.

-Di Los Angeles-, rispose il moro.

Rimanemmo un po’ in silenzio, fin quando il tizio col berretto mi chiese: -Ti va un gelato?-.

Lo guardai per un attimo. In fondo non c’era niente di male, no?

-D’accordo. Grazie-.

-Ah, comunque mi chiamo Thomas-, disse lui.

Gli sorrisi e lo presi per mano.

-Piacere di conoscerti, Thomas-, risposi, e ci avviammo al chiosco.

 

Il Colosseo era un monumento sensazionale. Era enorme, stabile… in tutti quegli anni era rimasto in piedi per infondere paura e timore ai nemici e a farsi ammirare da coloro che venivano in pace nella sua terra.

Desideravo da anni di venire a Roma e poter dire che anche io, il famoso Michael Jackson, ho visto il Colosseo e sono rimasto colpito dalla sua grandezza e dalla sua magnificenza. Era come se mi fossi prostrato davanti a lui e gli chiesi di rendermi grande, forte e coraggioso, e di farmi vivere per sempre proprio come lui. Eterno, saldo e capace di infondere ammirazione fra gli animi di tutte le persone. Ecco come mi immaginavo. Ma in quel periodo le cose non andavano proprio a meraviglia. E non si trattava dei dischi, “Bad” in pochi mesi aveva raggiunto le milioni di vendite… anche se non avrebbe mai superato “Thriller”. No, il problema era un altro. Il problema era che da quando avevo cambiato colore della pelle i tabloid non facevano altro che attaccarmi. Approfittavano di ogni mia minima azione per ingigantirla e trasformarla in articolo di prima pagina, per cui dovevo stare molto attento a quello che combinavo.

Ma quella volta era diverso. Io dovevo andare a Roma. Lo dissi categoricamente ai miei produttori, e loro non ebbero nulla da ridire. Restava solo da decidere come sarei sopravvissuto a Roma. Se i miei fans lo avrebbero scoperto addio giri turistici, benvenuti al bagno di folla e all’orda di giornalisti. Per cui, avevamo attuato un piano di riserva: mi sarei travestito.

Ci volle meno di un’ora per fare in modo che i miei tratti somatici cambiassero con il trucco. Poi indossai altri accessori, in modo da rendermi praticamente irriconoscibile.

Per tutta la mattinata non ci fu alcun problema, e finalmente riuscii a vedere il Colosseo. Mi guardai attorno per cogliere ogni minimo particolare di quella città stupenda, quando vidi un bambino  dai capelli biondi rannicchiato su una panchina con la testa fra le ginocchia.

Senza fregarmene delle due guardie del corpo accanto a me, mi avvicinai a lui. Solo allora mi accorsi che singhiozzava.

No, perché sta piangendo?, pensai.

Non sapevo cosa fare, anche perché molto probabilmente era italiano e non capiva l’americano…

Oh, ma che t’importa, Michael? Sta piangendo! Ed è solo un bambino!

Così mi feci coraggio e gli chiesi con un filo di voce: -Why are you crying, child?-.

 

-Allora, quale gusto vuoi?-, mi chiese Thomas.

-Ehm… io non ho soldi…-, mormorai imbarazzato.

Lui mi guardò stupito. Poi mi sorrise. Ma perché mi sembravano così familiari quei gesti?

-Secondo te ti faccio pagare un gelato? Ad un bambino? Naturalmente te lo offro!-, esclamò. –Quindi? Il gusto?-, aggiunse.

Stetti un attimo a pensare se era il caso o no. Di certo non potevo tornare a casa, non volevo rivedere il volto triste di mia madre. Ma i miei genitori mi ripetevano sempre: -Non accettare mai nulla da uno sconosciuto!-. Però… era strano, non riuscivo a spiegarlo… eppure, mi sembrava che conoscessi Thomas da una vita, sebbene durante il tragitto fino al chiosco io abbia parlato solo di me. Sospirai.

-Tiramisù e nocciola-, risposi. Poi, dopo una breve pausa:-Con la panna-.

Thomas mi guardò divertito.

-Ah, allora non sei poi così timido!-, rise lui.

Sorrisi fingendo di essere imbarazzato e mi misi le braccia dietro la schiena.

Vidi Thomas che si avvicinava a me correndo e mi spaventai. Poi mi abbracciò.

Io ricambiai la stretta e ridemmo entrambi. Mi trovavo proprio bene con lui: saremmo diventati ottimi amici, lo sentivo.

-Perché piangevi prima?-.

Eravamo seduti su una panchina non lontana dal chiosco con i gelati in mano – a parte i due amici strani di Thomas che stavano in piedi e si guardavano attorno  come se stessero cercando qualcuno.

Abbassai la testa.

-Nulla…-.

-Se è qualcosa che ti fa soffrire, scusami. Però io credo che ti servirebbe proprio sfogarti con qualcuno. Ovvio, se non vuoi parlare nessuno ti costringe-, disse Thomas.

Lo guardai e vidi il mio riflesso nei suoi occhiali.

-Sono scappato di casa-.

Non disse nulla.

-Mio padre ha tradito mia madre-, continuai.

-Ah-, disse solamente.

-Non so bene cosa significhi…-, mormorai pensieroso, -…ma mi sa tanto che non è una cosa bella…-.

-No, infatti-, rispose Thomas. –Ma sono convinto che tutto si sistemerà-, aggiunse, rassicurante.

Annuii.

-No, non piangere…-, mormorò asciugandomi una lacrima. Poi si batté la testa con una mano. –Ah, già! È pioggia, vero?-, domandò sorridendo.

Risi.

-Visto? Sono riuscito a farti ridere!-, esclamò trionfante.

Gli feci una boccaccia e lui iniziò a farmi il solletico.

-No! No, ti prego!-, lo implorai fra una risata e l’altra.

-Ah, lo soffri?-, e continuò più veloce.

-Sì! Ti prego, smettila!-.

-E tu promettimi che non piangerai più!-, esclamò.

Non riuscivo a parlare, mi stavo soffocando. Lui fraintese il mio silenzio in un segno di testardaggine e iniziò anche a pizzicarmi.

-NO! Lo prometto! Lo giuro!-.

-Cosa giuri?-, domandò lui senza fermarsi.

-Giuro che non piangerò più!-, gridai alla fine, esasperato.

Mi lasciò.

-Bravo. Così si fa. E mi raccomando: mantieni la tua promessa, altrimenti verrò a punirti fin dentro casa tua-.

Annuii.

-E adesso torna a casa, perdona tuo padre e sta’ vicino a tua madre, ha bisogno di te-, mi disse.

Abbassai la testa, ma non piansi. No, gli avevo promesso che non l’avrei fatto.

-D’accordo-, e lo abbracciai.

Lui mi accarezzò la schiena e i capelli.

-Adesso siamo amici?-, gli sussurrai all’orecchio.

-Fin quando mi vorrai accogliere-, rispose.

Non capii la sua risposta, ma non ci pensai più di tanto. Thomas mi capiva e mi voleva bene, e saremmo rimasti attaccati anche se lui viveva lontano. Avevamo trovato entrambi ciò che cercavamo: un amico vero. E io non l’avrei mai tradito.

 

-Michele? Michele, è per te!-.

Mia madre mi chiamava dalla cucina. La sua voce era più viva, più rilassata. Da quando lei e mio padre avevano divorziato si sentiva più serena. C’era stato un periodo in cui credevo che non avrebbe mai superato il dolore, ma mi sbagliavo: ormai stava bene. E io anche. Era passato qualche mese dall’incontro con Thomas, e l’unica notizia che avevo da lui era una lettera in cui diceva che era appena partito e che voleva sapere se stavo bene.

Io gi risposi di sì, che ormai i miei stavano per divorziare, che soffrivo – quello è ovvio – ma che non ho mai pianto, perché gliel’avevo promesso.

Aspettavo con ansia qualche sua notizia, ma non era arrivata nemmeno una cartolina. Col tempo ho cercato di non pensarci più, ma ogni mattina mi svegliavo con la speranza di trovare nella cassetta della posta una sua lettera, o foto, o anche uno straccio di carta con la sua firma. L’importante era sapere che stava bene.

Quando mia madre mi chiamò non pensai a nulla. Tuttavia, quando la vidi con un pacco in mano, mi incuriosii. Me lo porse e io guardai il foglietto attaccato sopra. C’era scritto “Los Angeles”.

Trattenei il fiato rumorosamente e presi velocemente un taglierino dal cassetto alla mia sinistra. Aprii il pacco e guardai dentro.

C’era carta.

La tolsi.

Cellophane.

Tolsi anche quello.

Poi lo vidi.

In fondo alla scatola c’era qualcosa.

Un altro pacco.

Lo presi e lo aprii tremante.

C’erano due pezzi di carta e un rettangolo incartato.

Guardai prima i pezzi di carta.

E mi si fermò il cuore.

Erano due biglietti per la prima fila al “Bad Tour” di Michael Jackson a Roma.

Aprii il rettangolo.

C’era la figura di un uomo con i ricci e addosso una giacca nera di pelle con borchie varie.

Il vinile di “Bad”.

Lo girai.

Sul retro era appeso un biglietto. Quando lo lessi, iniziai a piangere.

 

Al mio fan numero uno,

a cui ho offerto un gelato ai sensazionali gusti tiramisù e nocciola con panna.

Con l’augurio che ora non soffra più e che

Verrà a trovarmi al mio concerto.

Un bacio, il tuo grande amico

Thomas / Michael Jackson

 

Strinsi a me quei meravigliosi regali mentre piangevo di gioia e mia madre mi abbracciava.

Sì, grazie a lui quel frammento di vita stava per cambiare. Per sempre.

 

 

Note dell’autrice:

Eccomi di nuovo! Scusate se vi ho fatto attendere molto!! *si prostra umilmente dinanzi a tutte implorando perdono con le lacrime agli occhi*

Ed ora, per non farvi più aspettare, un saluto e un grazie grandissimo a tutte coloro che hanno recensito, che hanno aggiunto la storia alle preferite e alle seguite, a coloro che mi hanno aggiunto tra gli autori preferiti e anche a chi ha letto e basta.

Un saluto particolare non solo alle mie amiche di sempre, ma anche ad eclipsenow ed Eutherpe: un bacione affettuosissimo ad entrambe, siete fantastiche e troppo buone con me! A presto! Bad_Mikey!

 

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Capitolo 4
*** Gone too soon ***


Forse questo è il chappy più triste finora, e sono abbastanza convinta che piangerete più di quanto non abbiate fatto con i precedenti capitoli

Forse questo è il chappy più triste finora, e sono abbastanza convinta che piangerete più di quanto non abbiate fatto con i precedenti capitoli.  Spero però che non mi abbandonerete. Buona lettura!

 

4. GONE TOO SOON

Like a comet
Blazing 'cross the evening sky
Gone too soon
Like a rainbow
Fading in the twinkling of an eye
Gone too soon
Shiny and sparkly
And splendidly bright
Here one day
Gone one night
Like the loss of sunlight
On a cloudy afternoon
Gone too soon
Like a castle
Built upon a sandy beach
Gone too soon
Like a perfect flower
That is just beyond your reach
Gone too soon
Born to amuse, to inspire, to delight
Here one day
Gone one night
Like a sunset
Dying with the rising of the moon
Gone too soon
Gone too soon

 

Il centro commerciale non era molto affollato quel giovedì mattina. Io e le ragazze ci eravamo messe d’accordo per farci un giro e festeggiare la fine della scuola. Era una giornata tersa, serena, tipica di fine giugno, e il centro commerciale la rispecchiava perfettamente: era tutto così splendente e allegro e meraviglioso… il nostro gruppo sembrava un insieme di creature nate direttamente dal sole dalla felicità e l’allegria che sprizzavano dai nostri pori. Ero spensierata e felice, quel giorno più che mai. Strano, per me che ero sempre la più timida, riservata e malinconica del gruppo. Stavo bene e non sapevo nemmeno io perché. Ma in quel momento non m’interessava il motivo di cotanta positività. Avrei respirato il favoloso profumo della contentezza per il resto della giornata.

-Ambra?-.

Mi voltai sentendo il mio nome. La ragazza dai capelli e gli occhi scuri che mi aveva chiamata guardava una vetrina.

-Dimmi, Joanne-, le risposi.

-Vieni a vedere-, mi disse solamente indicando una vetrina.

Mi avvicinai a lei e guardai ciò che indicava.

-Mio Dio…-, mormorai.

Davanti a me si ergeva in tutta la sua bellezza un poster a grandezza naturale che raffigurava un uomo dai lunghi capelli neri e ricci che mi sorrideva. Per un attimo mi si fermò il cuore. Non capivo cosa mi succedeva, né tanto meno quello che accadeva attorno a me. Ero completamente assorbita dai suoi occhi neri, profondi e dolcissimi.

-Mio Dio-, ripetei, questa volta più forte. –Ma è vero?-, chiesi, scioccata.

-Certo che no, Bra! Secondo te Michael Jackson si fa trovare così facilmente? In una vetrina di un negozio? E poi adesso ha i capelli lisci, non ricci!-, osservò intelligentemente Dora, un’altra mia amica dai corti capelli platinati.

-Ah-, dissi, delusa.

Ovvio che non è lui, Ambra… mica ti aspettavi che venisse da te a braccia aperte?, mi domandai.

Cavolo, stavo di nuovo precipitando nel mio stato di perenne malinconia. No, dovevo essere allegra, allegra!

Entrai di corsa nel negozio.

-Ambra, che fai?-, chiese Kate.

-Un po’ di spesa-, risposi, e mi diressi al bancone.

-Salve-, mi salutò il commesso, un uomo sulla quarantina. –Posso fare qualcosa per lei?-.

-Sì. Quanto costa quel poster gigante di Michael Jackson in vetrina?-, chiesi.

-15 euro-, rispose.

Sorrisi maliziosa.

-Lo compro-.

 

-Ambra, sei cosciente del fatto che questo poster non ti farà dormire la notte, vero?-.

Annuii.

-Certo, Joanne, ma saranno notti trascorse in paradiso con lui che mi sorride-, risposi sognante.

Joanne scosse la testa.

-Spero di non arrivare ai tuoi livelli, un giorno…-, mormorò.

Io risi.

-Allora quando ci vediamo?-, chiesi.

-Questo sabato James ci ha invitati ad una festa a casa sua. Vieni?-, mi domandò Kate.

-Uhm… credo di sì… devo chiedere, ma non credo che ci siano problemi! Allora a sabato!-.

-Okay, a sabato! Ciao!-.

Ci salutammo e mi diressi a piedi a casa.

Durante il tragitto non facevo altro che pensare a come sarebbe stato bello guardare quel poster accanto il mio letto al mio risveglio, con che gioia avrei iniziato la giornata… sorrisi felice e presi l’mp3. Mi infilai gli auricolari e dopo alcuni secondi le note di “Thriller” riempirono le mie orecchie.

Che giornata meravigliosa…, pensai, felice mentre mi rinchiudevo la porta di casa alle spalle.

-Mamma, sono tornata!-, urlai.

Nessuno rispose, stranamente, alla mia chiamata.

-Mamma? Papà? Ci siete? Maria?-, chiamai.

-Ambra?-, era la voce di mia madre.

-Sì, sono qua-, risposi.

Entrai in cucina, dove c’era tutta la famiglia davanti il televisore.

-Guardate cosa ho comprato!-, esclamai, prendendo il mega poster e mostrandolo a tutti.

Mi guardarono strabiliati e mamma scoppiò a piangere.

-Che succede?-, chiesi preoccupata, e mia madre mi abbracciò forte.

-Non hai saputo?-, mi domandò.

-Saputo cosa?-.

Mi guardò con quei suoi splendidi occhi blu uguali ai miei e indicò la televisione.

Non avevo fatto caso al fatto che fosse accesa. Trasmettevano l’edizione straordinaria del telegiornale. Alla mezza? Strano. Cosa ancora più ambigua era il fatto che parlavano di Michael. Ma che diavolo…

-Michael Jackson è morto circa mezz’ora fa per arresto cardiaco. Inutili i soccorsi dell’ambulanza: quando è arrivato all’ospedale il suo cuore non batteva più. Grande il dolore dei fans che aspettavano il suo ritorno a luglio col suo ultimo tour “This is it”. I testimoni della sua morte…-.

Il poster mi cadde da mano.

No…

Non sentii il resto del telegiornale.

Non è possibile…

È indescrivibile ciò che provai in quel momento.

Non può essere vero…

Un misto di emozioni negative cancellarono perfino la felicità provata fino ad allora.

-NON È VERO! NON PUÒ ESSERSENE ANDATO, NON È POSSIBILE! NON È VERO!-.

Scoppiai a piangere e mi accasciai sul divano.

-Non è vero…-, mormorai, coprendomi il volto con le mani.

Pensai al suo sorriso. Pensai alla sua voce. Pensai ai suoi passi. Pensai alla malvagità di chi lo aveva attaccato per tutti quegli anni.

E sentii qualcuno che mi abbracciava.

Alzai la testa, convinta che fosse stato lui che mi stringeva forte e che mi avrebbe sorriso dicendomi: “Sto bene, non preoccuparti”.

Ma dovetti ricredermi. Era mia madre che aveva preso posto accanto a me, non Michael.

Ovvio che non è lui, è morto, disse una vocina nella mia testa.

Non ce la feci più. Mi alzai e corsi di sopra.

Volevo stare da sola, in quel momento più che mai.

Entrai nella mia stanza e sbattei la porta.

Poster, cuscini, dvd, cd, foto, perfino un fotomontaggio di me e lui abbracciati.

C’era dappertutto.

Mi aveva fatto sempre compagnia e consolata nei momenti più bui.

E io gli avevo voltato le spalle.

Stavo bene e lui si sentiva male.

Ero allegra e lui soffriva.

Ero felice e lui moriva.

Mi gettai sul letto e continuai a piangere.

Non poteva essersene andato, e invece era proprio così.

Di solito sentivo la sua presenza, invece ora… l’unica cosa che provavo era dolore, tristezza e un’angoscia che venivano direttamente dal cuore.

Presi l’mp3 dalla tasca del pantalone e misi “Gone too soon”.

Sentivo il bisogno di piangere.

Era l’unico modo che avevo per far passare il dolore.

Far passare?

No, non avrei mai smesso di soffrire, né avrei mai dimenticato tutto quello che era successo, tutte quelle immagini terribili che avevo visto poco prima in televisione.

L’ambulanza…

I fans in lacrime…

Quel corpo ricoperto da un telo bianco che veniva portato nell’elicottero…

-Te ne sei andato troppo presto… proprio come l’arcobaleno dopo un giorno di pioggia…-.

 

Buio. Buio pesto. Totale. Non vedevo assolutamente nulla.

Credo che mi guardai intorno, ma non ne sono tanto sicura, perché era tutto così uguale e  maledettamente tenebroso.

Mi sentivo oppressa, i polmoni reclamavano aria… pensai, per un millesimo di secondo, che io stessi per morire.

Tristezza, sopraffazione, tenebre… se quella non era la morte…

Poi, un luccichio lontano.

Era piccolo, ma mi ridiede la speranza.

Corsi verso quello spiffero di paradiso e il buio non fu più tale. Al mio fianco si aprivano strade, case ed edifici. Era scuro, sì, però c’era quella luce. Correvo a perdifiato verso di essa, non potevo perderla. La città sfrecciava accanto a me.

Mi stavo avvicinando, ed esultai. Vidi una sagoma in quel fascio di speranza. Una persona.

Corsi più veloce, e le gambe iniziarono a dolermi.

Ancora un po’, ci siamo quasi.

Lo vedevo. Vedevo chi era. Quel volto l’avevo ammirato ogni giorno della mia vita, ogni secondo della mia esistenza… non potevo crederci… eppure qualcosa non andava: perché era girato di spalle? Perché si stava allontanando? Perché fuggiva da me?

Provai a chiamarlo, ad urlare il suo nome, ma dalla mia bocca non usciva alcun suono.

No! No! Torna qui!

Correvo, ma non sentivo più le gambe. E lui si allontanava… lontano, lontano, sempre di più…

Non potevo fermarmi, perché se l’avessi fatto lui sarebbe scappato… ed io non potevo vivere senza di lui…

Improvvisamente, non sentii più la terra sotto i piedi. Precipitai nel vuoto, ma in alto potevo ancora vedere la sua luce. Non potevo gridare, non potevo chiamarlo… non esistevano suoni. Nulla.

Ma allora cos’era quel bisbiglio nelle mie orecchie che ogni secondo si faceva più insistente?

“Lasciami andare”, diceva.

Addio.

 

Mi svegliai urlando e con le lacrime agli occhi.

Guardai la sveglia digitale sul comodino. Erano le cinque di pomeriggio.

Mi portai le mani nei capelli e le lacrime continuarono a scorrere.

Era solo un sogno, ma mi aveva scossa profondamente.

Perché in fondo quell’incubo nascondeva una verità che, per quanto dolorosa, era realmente accaduta.

Se n’era andato. Si era allontanato da me.

-Ambra!-, urlò mia madre entrando nella stanza.

Mi vide piangere e si sedette sul letto. Mi abbandonai sul suo ventre.

-E Prince? Paris? Blanket? Come faranno senza un padre, eh? Come faremo noi fans senza di lui? Come farò io?-, singhiozzai mentre continuavo a piangere.

-Non serve a nulla essere tristi… prova a pensare che adesso lui sta bene…-.

-Bene? Bene!? Mamma, lui è morto! Morto! E io… io…-.

-Tu non potevi saperne nulla, bambina mia…-.

-Io credevo che quando succede qualcosa di brutto ad una persona che ami tu senti qualcosa… tipo dolore fisico o psicologico… invece io non ho provato niente. Niente. Anzi, vuoi sapere una cosa? Ero felice. Sì, felice, e invece lui stava malissimo… lui è morto, e io non ho mai fatto nulla per fargli capire che non era mai solo, non potevo aiutarlo, non potevo dirgli di stare più attento alle persone che lo circondavano…-.

Mi sdraiai sul letto, afflitta.

-Lasciami stare-, dissi, una frase così simile a quella con cui lui mi aveva pregato nel sogno… lasciami andare

Mia madre mi carezzò i capelli.

-Sorridi perfino quando il tuo cuore si spezza-, mormorò accanto al mio orecchio, per poi poggiare qualcosa sul letto e andarsene.

Rimasi qualche secondo immobile; decisi infine di alzarmi e vedere cosa mia madre aveva posato sul letto. Era il poster che avevo fatto cadere a terra quel pomeriggio e che avevo dimenticato di riprendere.

Adesso dimenticavo perfino il suo poster?

Non contava più nulla per me lui?

Era questo quello che era accaduto?

Avevo smesso di amarlo?

No, non era possibile!

Non avrei mai potuto fare una cosa del genere!

Mi passai nuovamente le mani nei capelli.

Posai il poster nel cassetto. Non ce la facevo a guardare il suo sorriso. Era troppo doloroso.

Mi sedetti sul letto e sospirai.

-E adesso?, mi chiesi. –Cosa faccio?-.

Ascoltare le sue canzoni mi avrebbe solamente provocato maggior dolore. Vivere senza di lui però era assolutamente impensabile.

L’intero mondo era vuoto e inutile senza la sua voce e il suo sguardo da bambino.

Ma allora?

Che senso aveva una vita piena di dolore? Che senso aveva continuare a respirare se la persona che ami non l’avrebbe più fatto?

Mi alzai e presi un biglietto e una penna.

Se questa è l’unica soluzione…

 

Cara mamma,

so che sarà troppo tardi quando leggerai questo biglietto.

Sappi che ti ho voluto bene e te ne vorrò per sempre, a te, papà e Maria.

Siete stato un punto fermo nella mia vita, ma non mi basta. Non basta perché il dolore si plachi. Addio.

 

P.S.  Non giudicatemi: non riesco a vivere senza di lui.

Non posso vivere senza il suo sorriso.

E adesso lo rivedrò finalmente risplendere solo per me.

 

Piegai il biglietto e mi diressi alla porta.

Guardai un’ultima volta la mia stanza con i suoi occhi dappertutto, ma non piansi.

Tanto lo avrei rivisto tra poco.

Scesi giù.

Feci il giro della casa , ma non c’era nessuno.

Poggiai il foglio sul tavolo in cucina e aprii la porta d’ingresso.

Addio, pensai, e uscii fuori da quella casa, fuori dal mondo.

 

La città sfrecciava al mio fianco.

Correvo, correvo perché ero impaziente, correvo per non sentire la sofferenza, correvo per non farmi raggiungere da nessuno che mi conoscesse e che avrebbe potuto fermarmi.

Correvo e correvo.

Le gambe mi dolevano, ma non m’interessava.

Ora avevo qualcosa di più importante a cui pensare.

-Michael, aspettami-, mormorai.

 

La vedevo correre per la città con le lacrime agli occhi. Quanto dolore c’era nel suo cuore… una sofferenza enorme ed unica. Aveva tante altre cose da imparare, tante altre esperienze da vivere  in quel mondo, tanto tempo da trascorrere felice e spensierata…

-La prego, lasci che io l’aiuti-, lo pregai.

In un attimo fu accanto a me.

-Ci tieni così tanto a lei?-, mi chiese.

Non so descrivere la sua voce, è come se tentassi di mettere insieme il rumore della pioggia, del vento, del fuoco, dei fiori, delle rocce, delle foglie e delle altre meraviglie del mondo con il verso di una fenice o di un unicorno… assolutamente indescrivibile.

-Gli altri non sono riusciti a salvarli semplicemente perché io non ero ancora qui. Ma quella ragazza… posso fare qualcosa per salvarla. Almeno ora. La prego-.

Sospirò, ma a me quel rumore parve più quello che faceva il vento passando fra le foglie.

-Va’-, mi disse, e io volai sulla Terra.

Altri dodici erano appena morti per causa mia… no, non potevo permettere che se ne andasse anche lei.

 

Il cuore batteva forte.

Il vento mi scuoteva i capelli.

Era tutto così piccolo dall’alto.

Un altro po’ riuscivo a toccare le nuvole con un dito.

I fidanzati avrebbero trovato il tutto piuttosto romantico, ma quello non era il momento adatto per pensare alle sdolcinerie.

Era tutto così calmo… così silenzioso…

Riuscivo a sentire il rumore del vento…

Sembrava che mi stesse chiamando…

 

Poi la vidi. Si trovava su un grattacielo e aveva gli occhi chiusi.

-Ambra! Ambra!-, urlavo, ma non mi sentiva. Ancora non l’avevo raggiunta.

-Ambra, non farlo!-.

 

Ambra… Ambra…

Sì, il vento sussurrava proprio il mio nome…

Mi stava dicendo che mi avrebbe cullata… che non avrei dovuto avere paura…

Chiusi gli occhi e feci un piccolo passo avanti, verso il cornicione.

 

-Ambra! No! Non farlo! Aspettami!-.

 

Aspettami… cosa avrei dovuto aspettare?

Che la polizia mi impedisse di ritrovare il mio Michael?

Che mia madre leggesse il biglietto prima che io avessi potuto coronare il mio sogno?

No… ormai avevo deciso. Nulla e nessuno mi avrebbe impedito di tornare indietro.

Lasciai scorrere l’ultima lacrima sulla mia guancia.

-Questo è per te, Michael…-.

Presi un bel respiro, aprii le braccia e mi tuffai nel vuoto.

 

La vidi abbandonarsi fra le braccia del vento con un’espressione serena sul volto.

Rimasi pietrificato.

Non poteva averlo fatto realmente…

No…

-Ambra!-, urlai più forte. –AMBRA!-.

 

Era stupendo.

Il vento che sembrava cullarti, la sensazione di libertà…

Poi, qualcosa andò storto.

Aprii gli occhi e vidi il cielo che si allontanava sempre di più.

Ma allora… non serviva a nulla… non l’avrei mai raggiunto…

Alzai il braccio verso le nuvole… solo allora mi accorsi che non le avrei mai toccate…

Rividi i volti di tutti i miei familiari e, per ultimo, quello di Michael.

Sentii una voce.

Solo quella.

Mi chiamava.

Gridava il mio nome come un ossesso.

Poi il buio.

 

Vidi il terrore e il dolore nei suoi occhi… aveva capito che non mi avrebbe mai incontrato…

Alzò il braccio verso il cielo… verso di me.

-Ambra! Ambra!-.

Mi avvicinai velocemente a lei.

La raggiunsi, finalmente.

E le nostre mani si incrociarono.

 

Luce.

Luce bianca.

Allora era il Paradiso…

Aprii gli occhi… o li avevo già aperti?

Mi guardai attorno.

-Ma che…-.

Mi trovavo di nuovo sul grattacielo.

Mi ero immaginata tutto?

Non mi stavo suicidando?

Mi sedetti.

Poi sentii un tocco sulla mia spalla.

Mi voltai, impaurita.

E mi bloccai.

Era lui.

Ed era bello, bello come il sole, bello come l’avevo sempre immaginato.

La sua pelle era candida e i suoi capelli nero carbone avevano la stessa consistenza delle nuvole. Gli occhi avevano dentro tutta la bellezza dell’arcobaleno.

Inoltre, cosa che non stonava affatto con il suo volto, aveva le ali. Ali bianche, da angelo.

-Stai bene, Ambra?-, mi chiese con una voce che assomigliava ai cori del Paradiso e che mi riempì il cuore di gioia.

-Sì… ma sono morta?-, chiesi, titubante.

Lui sorrise, e il mio cuore si fermò.

-No… a meno che io non sorrida di nuovo-.

Abbassai lo sguardo. Mi sentivo così… strana.

-Sei un fantasma?-, chiesi.

-No-.

Sospirai.

-Menomale… perché ho un po’ paura dei fantasmi… quando ho visto il video di “Ghost” se non ci fossi stato tu sarei scappata via terrorizzata…-, balbettai senza sapere il perché di quella rivelazione.

-Sì, lo so-.

Lo guardai scettica.

-Davvero?-.

Mi sorrise.

-Lascia perdere. Non è di questo di cui volevo parlare-.

La sua espressione divenne improvvisamente seria e severa. Non potevo guardarlo, e abbassai lo sguardo.

-Perché stavi per buttarti?-.

-Volevo solo incontrarti…-.

-E io no-, rispose secco lui.

Quelle parole mi pugnalarono, e iniziai a piangere.

Come poteva dire una cosa del genere?

-Non in quel modo-.

Mi bloccai e lo guardai.

Sorrideva.

-Ti sei mai chiesta perché tu ti sia sentita felice durante tutta la mattinata?-, mi chiese.

Io scossi la testa.

-Perché io ero felice. Non è vero che tu non hai sentito nulla. Quando hai visto il mio poster, io stavo esalando il mio ultimo respiro e tu ti sei sentita malinconica: io in quel momento pensavo a voi, e ai miei figli. Ho provato un po’ di dolore, ma poi sono diventato felice. E tu lo sei stata con me. Poi hai saputo la notizia e sei rimasta sconvolta. Io in quel momento stavo trapassando e sentivo tutte le emozioni di coloro che mi avevano amato, quindi ero in balia di milioni di sensazioni messe insieme. Poi tu ti sei fatta trascinare dall’oblio e dal dolore, e non ti ho sentita più. Così ti ho “spiata” dall’alto, visto che ormai mi trovavo nell’aldilà e avevo capito le tue intenzioni. Sono sceso sulla Terra apposta per salvarti e... menomale che ci sono riuscito!-, concluse trionfante.

Io lo guardavo allibita.

-Allora io non ti ho mai abbandonato…-, mormorai.

-Mai. Nessuno di voi l’ha mai fatto. E io non vi ho mai persi di vista. Beh, a parte…-.

Abbassò il capo e tirò un sospiro.

-A parte?-, lo incitai.

Lui alzò lo sguardo incrociandolo con il mio.

-Dodici ragazzi hanno preso la tua stessa decisione oggi, ma non sono riusciti a salvarli-.

Una lacrima brillò sul suo volto lucente.

Io l’asciugai prontamente.

-Non piangere-, gli dissi.

Lui sorrise.

-Questo dovrei dirlo io a te…-.

-Ma tu sei solo un bambino e devi essere consolato. Io sono più grande e devo assumermi questa responsabilità-.

Mi accarezzò una mano. Era la prima volta che mi toccava, e mi sentii la ragazza più felice della Terra.

-Ma tu sei solo una mortale e devi essere vegliata. Io sono un angelo e devo assumermi questa responsabilità-, rispose lui, dolce.

-Se sei tu a proteggermi allora mi fido-.

-Devi farlo, perché non ti lascerò mai-.

Strinse la mia mano, ma non mi sentivo a disagio pensando che stavo parlando con una persona morta. Strano, ma il suo tocco era caldo, e non freddo come tutti immaginavano.

-Come farai a capire che ho bisogno di te?-.

-Lo so e basta-, rispose semplicemente.

-Spiegati meglio-.

Iniziò ad accarezzarmi la mano con il pollice.

-È difficile da descrivere… ogni tanto “vedo” quello che fanno tutti coloro che mi amano… è come se avessi delle visioni. Per esempio, so che in Germania due ragazzi – Gustav e Viktor – si stanno abbracciando e piangono perché alla radio hanno appena ascoltato “Childhood”. So che in Francia una bambina di nome Charlotte sta intonando le note di “Heal the world”, e che in Cina una ragazza chiamata Ko-Ni ha appena dato un soldo ad un bambino povero dedicando questo suo gesto a me. So che fra due mesi circa in Italia due mie grandi fans – Orsola ed Elena – mi dedicheranno delle storie, e diverranno grandi amiche insieme ad una ragazza che ha il tuo stesso nome-.

Lo fissai allibita.

-Wow-, dissi solamente.

Lui annuì.

-Quindi mi basterà pensarti...-, mormorai.

-Beh, allora dovresti proprio aggiungere un letto nella tua stanza, perché tu mi pensi ogni secondo di ogni minuto di ogni ora di ogni giorno!-.

Scoppiai a ridere, e lui si unì a me.

Che bella sensazione la sua voce nelle mie orecchie!

-Basterà che tu mi nomini, o che mi dedicherai una buona azione, o che tenterai di ballare come me, e io sarò lì a ringraziarti, perché senza di voi ora non sarei proprio nulla-.

Gli sorrisi.

-Senti anche i tuoi figli?-.

-Ovvio. Loro sono la mia vita. Però è diverso, perché riesco a sentire e vedere tutto quello che fanno, dalla mattina alla sera, 24 ore su 24. Non li perdo mai di vista, insomma. Invece coi fans solo a volte. Però è stupendo vedere quante persone mi vogliano bene anche se non i hanno mai conosciuto di persona-.

-Noi sappiamo quello che traspare dalle tue canzoni. È come se ti conoscessimo da una vita, alla fin fine-.

Lui annuì.

-Spero che i piccoli non soffrano a lungo…-, mormorai.

-È dura perdere un padre, ma ce la faranno. Supereranno questo momento. Io sarò con loro sempre, ogni giorno. Neanche la morte può separare persone che si vogliono bene-.

Annuii.

Quanto era dolce quando pensava ai figli… erano davvero la sua vita…

Mi balenò un’idea in mente, ma chissà se lui sarebbe stato d’accordo. Beh, tanto valeva chiederglielo, no?

-C’è una cosa che ho sempre voluto fare…-, iniziai, arrossendo.

-E cioè?-.

Mi avvicinai a lui finché non rimasero cinque centimetri di distanza fra il mio volto e il suo.

I suoi occhi non tradivano alcuna emozione, erano innocenti e puri come sempre.

Sorrisi.

-Once all alone I was lost in a world of strangers, no one to trust on my own, I was lonely…-, iniziai ad intonare la prima strofa di “You are my life”, ma Michael mi guardava come se non capisse quello che stessi dicendo.

Sospirai e mi voltai.

-You suddently appeared, it was cloudy before, now it’s so clear. You took away the fear, you brought me back to the life…-.

La sua voce mi arrivò inaspettata e meravigliosa nelle orecchie. Era ancora meglio che sentire quella canzone dalle cuffie. Quel suono magnifico sembrava impregnare l’aria e riempirti il cuore.

Mi avvicinai a lui.

-Insieme?-, chiese.

Lo guardavo dritto negli occhi. Nessuna visione era più bella.

-Insieme-, risposi.

-You are the sun, you make me shine, or more like the stars who twinkle at night. You are the moon that glows in my heart. You’re my daytime, my night time, my world…-.

Sorridemmo entrambi.

-…you are my life…-.

Conclusi quel duetto felice come non lo ero mai stata prima.

Ma c’era un’altra cosa che volevo fare. Un’ultima cosa prima che se ne andasse.

Michael vide quello che avevo intenzione di attuare e sorrise.

-Ovvio che puoi, piccola-, disse, precedendo la mia domanda.

Io sorrisi e lo abbracciai.

Poi alzai il volto e gli lasciai un piccolo bacio sulle labbra.

-Questo non era previsto, però…-, disse lui.

Arrossii.

-E… ehm… è stata un’improvvisata…-, mentii. Da tutta la vita aspettavo quel momento.

Temevo però che si fosse offeso, ma – riusciva sempre a stupirmi – Michael iniziò a ridere.

-Improvvisata… sicuro…-.

Anche io risi. Come poteva offendersi?

Quando finimmo, sospirò.

-Ora devo proprio andare. Devo consolare… ehm… almeno qualche milione di persone-, terminò sorridente e modesto come sempre.

Io gli sorrisi.

-Certo. Ti capisco. Ma tanto sarai sempre vicino a me, vero?-, domandai, anche se sapevo benissimo la risposta.

-Contaci, piccola. Sempre accanto a te. Ah!-, esclamò improvvisamente. Si avvicinò a me e mi prese le spalle. I nostri volti si avvicinarono di nuovo.

-Ricorda: “Ora mi sveglio ogni giorno con il sorriso sul mio volto. Niente lacrime, niente dolore, perché tu mi ami”. Ogni volta che sarai triste, Ambra, tieni sempre in mente queste mie parole, chiaro?-.

Annuii.

-Lo farò per te. Promesso-, dissi.

Si librò in cielo e – dovevo aspettarmelo – attorno a sé si creò una splendente luce bianca.

-Sorridi perfino quando il tuo cuore si spezza-, mormorò salutandomi con una mano.

Ricambiai il saluto e lo vidi sparire fra la luce.

-Prega per noi da lassù, Michael-, mormorai. –E continua a proteggerci come hai fatto finora-.

Mi parve di sentire la sua risata da bambino diffondersi nel cielo, e per un attimo una nuvola prese la forma del suo volto.

Sorrisi e tirai un profondo sospiro.

Sì, tutta la mia vita stava per cambiare. Ora più che mai.

 

 

Note dell’autrice:

Ed eccomi con questo nuovo chappy. Spero che non vi abbia fatto piangere molto. Ci ho messo anima e cuore per scriverlo, e più volte appariva quel maledetto nodo in gola… però continuavo, pensando che eravate impazienti di leggere il nuovo capitolo e che io ero in enorme ritardo. Vogliate perdonarmi per l’orario sconveniente, ma non ho potuto terminare prima.

Ed ora, passiamo ai ringraziamenti!

 

X eclipsenow: Tesoro!!! Grazie mille! È vero, Michael è dolcissimo, infatti ho voluto “ricalcare” questa parte del suo carattere quando consola Michele… anche io sarei tanto voluta andare ad un suo concerto, ma purtroppo… beh, fa niente, vuol dire che mi accontenterò dei DVD!

Perdonami, ma c’è stato un blocco dello scrittore lungo 3 giorni, in cui non facevo altro che maledirmi perché non mi veniva neanche un’idea in mente… Un beso! Ti voglio bene!

 

X Heartagram: Grazie per i tuoi complimenti, non sai quanto mi renda felice vedere che la mia storia piaccia a tutte queste persone! Hai perfettamente ragione, Michael è stato un grande non solo professionalmente, ma anche e soprattutto umanamente… Spero che anche questo nuovo chappy sia stato di tuo gradimento… Un bacio!

 

X Eutherpe: Gioia! Hai visto? Ho chiamato la protagonista proprio come te! Vabbè che già lo sapevi, però… spero che non ti sia offesa vedendo che ti ho fatto fare la fine di una che voleva suicidarsi… Grazie mille, i tuoi complimenti mi lasciano sempre senza fiato, mi fanno sentire bene ogni volta! Però devo ammettere che lo scorso chappy non è stata tutta farina del mio sacco… innanzitutto, l’idea del gelato è stata di Alchimista, che mi ha dato anche dei consigli sui genitori di Michele: in pratica, se dovevo farli divorziare o meno. Secondo: Michael è DAVVERO venuto in Italia ai tempi di “Bad” e DAVVERO l’avevano travestito per non farlo riconoscere… che poi si fosse messo la parrucca bionda, un cappello e gli occhiali da sole e avesse consolato un bambino… ah, questo non lo so! Immagini se fosse accaduto realmente? O.O

Anche io adoro il tiramisù, è il mio gusto preferito, e “Bad” è stata la canzone che mi ha fatta innamorare di Michael (con annesso video… pensa che mi sono ritrovata a fare certi pensieri su Michael Jackson senza che l’avessi mai considerato prima… XD!).

Ancora grazie mille per tutti i tuoi complimenti, tesoro! Un bacione! Ti voglio bene!

 

X Alchimista: Amore! Prima come sempre… XD! Scusami se non ti ho avvisata prima, ma non ho avuto proprio tempo… per quanto riguarda il PS… ma no, dai, perché dici che è una cretinata?! Oddio, non so se qualcuno ci ha pensato, però… *rimane inorridita vedendo una sua fan brandire pericolosamente il bastone da mille dollari di Stephen Darling e rincorrendo Alchimista*. Okay, è finita la pazzia. Comunque spero che anche questo chappy sia stato di tuo gradimento, e perdonami se l’ho postato tardi! Ancora grazie mille per il tuo contributo nella stesura di questa storia: senza di te e delle K.A.T.O. non so proprio come farei. Un bacione! Ti amo di bene!

 

Ed ora, prima di salutarci definitivamente, devo lasciarvi un avviso. Sì, lo so che li odiate, ma proprio non posso farne a meno.

Siccome la settimana prossima ricomincerà la scuola, non so se riuscirò a postare velocemente la storia. Per cui, se notate un ritardo un po’ più lungo, anche di una o due settimane, non temete: non ho abbandonato la ff né sono morta: semplicemente non ho avuto il tempo di postare.

Spero che non abbandoniate la storia, comunque.

Ancora un’ultima cosa: stasera, oltre al solito pensiero per Michael, una preghiera in più anche per il grande Mike Bongiorno, che ieri ci ha lasciati. Addio, Mike. 

Bene, ora vi lascio! Un bacione a tutti voi! Alla prossima!

 

 

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Capitolo 5
*** Baby be mine (parte prima) ***


05

05. BABY BE MINE (Parte prima)

 

I don’t need to dream when I’m by your side
Every moment takes me to paradise
Darlin’, let me hold you
Warm you in my arms and melt your fears away
Show you all the magic that a perfect love can make
I need you night and day

So baby, be mine (Baby you gotta be mine)
And girl I’ll give you all I got to give
So baby, be my girl (All the time)
And we can share this ecstasy
As long as we believe in love

 

 

Guardavo quei pezzi di carta bianca come se fossero doni caduti dal cielo.

Beh, più o meno stavamo lì.

Il fatto era che non riuscivo ancora a credere che fosse vero.

-M…ma… sono pe-per me?-.

-Ovvio, Diane. Sono due. E puoi portarci chi vuoi-.

Per la prima volta da quando li avevo in mano guardai i miei genitori. I loro occhi erano puri, ma anche divertiti: di sicuro trovavano buffa la mia reazione.

-Non è una balla? State facendo sul serio?-, chiesi, titubante.

-Certo. Altrimenti non te li avremmo mai fatti vedere-, rispose mio padre calmo.

-No, aspettate un attimo-, dissi decisa a capire meglio quella situazione assurda.

Mi portai le mani nei capelli e tornai a guardare ciò che avevo in mano.

-Volete dire che voi mi avete regalato di vostra spontanea volontà due biglietti per il Dangerous Tour di Michael Jackson a Bucharest?-, domandai tutto d’un fiato, assumendo un’espressione shockata – che, d’altronde, avevo già dall’inizio di quella conversazione con i miei…

Loro si scambiarono degli sguardi.

-Oddio, di nostra spontanea volontà no, però… sì, alla fine hai avuto quello che desideravi-, rispose mia madre.

Io li guardavo come se fossi appena arrivata sulla Terra.

-Non ci posso credere… allora è tutto vero…-, mormorai.

Loro annuirono.

Sorrisi raggiante e li abbracciai.

-Grazie, mille volte grazie! Non so proprio che dire!-.

-Una cosa c’è: non ringraziare noi, ma tua zia Karol. È stata lei a convincerci-, disse mio padre.

Annuii.

-Ah, ecco, mi sembrava strano…-, mormorai.

Fortunatamente, i miei genitori non hanno mai fatto storie sul fatto che mi piacesse Michael… però non sopportavano le fissazioni, tra cui: ascoltare sempre le sue canzoni, comprare CD e gadget come spille o maglie, tappezzare i muri di suoi poster e foto e camminare per la strada cantando a squarciagola “Thriller”. Beh… per me quelle non erano fissazioni… erano la normalità.

Per cui, dovevo stare molto attenta a come mi comportavo: se mi facevo beccare inginocchiata mentre tentavo di ballare come lui, o a baciare lo schermo della televisione perché trasmettevano un suo video… altro che addio Michael: addio, mondo crudele!

-Stai pensando a chi devi portare con te?-.

La voce di mia madre mi riscosse dai miei pensieri e mi riportò alla realtà.

-E…ehm… veramente… non…-, farfugliai, spiazzata sia dalla domanda improvvisa sia dal fatto che non ci avevo mai pensato prima.

Riflettei sul fatto che i miei amici rispettavano i miei gusti ma non amavano Michael… e l’unica che lo amava non sarebbe potuta venire con me… no, non mi avrebbero accompagnata.

Riflettei sul fatto che i miei genitori sarebbero potuti venire con me… ma se fossi stata scelta per salire sul palco e abbracciare Michael… possibilità alquanto remota, ma se fosse successo… non me l’avrebbero permesso… mi avrebbero costretta a rimanere accanto a loro per tutta la serata.. senza muovermi… no, non mi avrebbero accompagnata.

Riflettei sul fatto che i miei cugini amavano altri tipi di canzoni… che non sopportavano Michael e che mi prendevano in giro tutte le volte che mi facevo scappare una parola di troppo su di lui… no, non mi avrebbero accompagnata.

Riflettei sul fatto che…

-Ma come cavolo ho fatto a non pensarci prima?-, esclamai. –Torno subito!-, e sfrecciai accanto al telefono.

-Io avrei un presentimento…-, mormorò mia madre mentre componevo il numero.

Dopo pochi secondi iniziò a squillare.

-Pronto?-, mi rispose una voce femminile dall’altro capo del filo dopo tre squilli.

-Ciao zia Karol, sono Diane!-, dissi, frizzante.

-Oh, ciao, Diane! Che cos…-.

-Grazie mille!-, urlai interrompendola.

Lei rimase qualche secondo in silenzio, per poi scoppiare a ridere.

-Ah, i tuoi ti hanno fatto vedere il mio regalo?-.

-Sì, sì! Non so davvero come ringraziarti!-, urlai (letteralmente).

-Oh, cara, ma non…-.

-Anzi, no!-, la interruppi ancora una volta. –So come ricambiare il favore!-.

Mia zia stette in silenzio.

Sospirai.

-Vuoi venire al live di Bucharest con me?-, chiesi.

In quel momento compresi appieno la frase: “Fa’ prima sedere la gente e poi dai loro delle notizie shockanti”.

Ah, e poi capii anche cosa significava perdere i timpani.

Se fino a poco tempo prima mia zia è stata muta il tempo necessario che il suo cervello registrasse meglio le mie parole, pochi secondi dopo dovetti staccare la cornetta dal mio orecchio, perché zia Karol iniziò ad urlare. Perfino i miei genitori sentirono le sue grida di gioia, e scuoterono la testa.

-Grazie, grazie mille! Non ci posso credere! E io che credevo che avessi portato qualche tua amica con te!-.

Io risi.

-Consideralo un ringraziamento per quello che tu hai fatto per me l’anno scorso… senza di te proprio non so come avrei fatto… sei speciale e indispensabile nella mia vita proprio come Michael-, le dissi, raggiante e grata. E fanculo i miei se mi sentivano nominare Mike: ero troppo felice per badare alle loro parole!

-Oh, cara, grazie! Mi fai commuovere!-, disse imbarazzata.

Sbuffai.

-Ma vaff…-, ma non finii la frase che ricordai dell’esistenza dei miei genitori, i quali mi stavano guardando di sbieco. -Ehm… volevo dire… ma no, non piangere!-.

-Ci sono i tuoi, vero?-.

-Eh, già-.

-D’accordo, allora vieni a casa mia che parliamo meglio-.

Sorrisi raggiante.

-Vengo subito!-, e agganciai.

Corsi nel bagno, mi lavai, mi pettinai e mi truccai. Poi indossai le scarpe, corsi nell’ingresso, presi le chiavi sul mobile accanto la porta e prelevai dall’appendiabiti una giacca nera con la fascia bianca sulla manica e un cappello completamente nero.

Mi guardai allo specchio.

Mancava solo una cosa.

Corsi di nuovo sopra e presi dal cofanetto sulla scrivania della mia stanza una bustina. Presi otto cerottini e li misi attorno le dita.

Ecco, ora sì che stavo bene.

Scesi di corsa le scale.

-Ciao, vado da zia Karol!-, gridai ai miei.

-Quando torni?-, mi chiese mia madre.

-Non so… forse rimango a mangiare lì… ti faccio sapere comunque, chiamerò dal telefono di zia, non preoccuparti! Ciao, a dopo!-, e uscii di fretta fuori.

La giornata era stupenda e respirai a fondo.

Volevo gridare, volevo far sapere a tutto il mondo che andavo al concerto del grande Michael, del mio Michael…

Improvvisamente, mi venne una canzone in mente, i miei piedi e la mia bocca si mossero da soli e mi ritrovai a saltellare e a cantare in mezzo alla strada “Black or White”.

Ero così felice, così allegra, così contenta che non me ne fregava un corno se la gente mi guardava e mi considerava una pazza: avrei finalmente incontrato il mio amore, l’unico della mia vita.

Saltavo e cantavo, cantavo e saltavo.

-If you’re thinking about my baby I don’t matter if you’re black or white!-, urlai.

Mi girai di spalle e iniziai a fare l’unico passo di danza di Michael che avevo imparato: il moonwalk.

Mi veniva davvero bene, e per farlo ancora meglio pensavo ai movimenti di Michael, e tentavo di imitarlo quanto più fedelmente possibile. Sapevo che non sarei mai riuscita ad eseguirlo come lui… simile sì, ma uguale mai. Come si fa ad eguagliare la perfezione? Lui è perfetto… unico… inimitabile… bono… cavolo, quest’ultimo termine mi sembra alquanto riduttivo… in pratica ogni volta che lo vedevo… che guardavo dritto nei suoi occhi…

Stump.

-Ahia!-.

-Ahi! Ma che…?-, esclamai.

Mi girai di scatto e vidi un ragazzo che si teneva il piede con una mano. Capii di aver travolto un povero innocente a passo di moonwalk.

-Oddio! Scusami!-, esclamai portandomi le mani sulla bocca. Il ragazzo alzò gli occhi, e incontrai delle splendide iridi di un tenero castano. Ne rimasi incantata per qualche secondo prima di accorgermi che mi guardava furioso… infine, tutta la mia ammirazione che provavo per quello sconosciuto solo guardandolo negli occhi svanì quando aprì bocca.

-E sta’ un po’ attenta a dove metti i piedi!-, esclamò acido.

Io non potei fare a meno di sentirmi offesa, ma tentai di fare la gentile.

-Mi dispiace, davvero, non ti avevo proprio visto!-.

-Me ne sono accorto... cavolo...-, mormorò lui, abbassandosi per massaggiarsi il piede destro.

-Ti ho fatto male?-, chiesi, preoccupata, avvicinandomi a lui.

Si scostò alzando il volto. Abbassò la testa, ma poi la rialzò. Mi osservò attentamente... anzi, osservava come mi ero vestita.

Inarcò un sopracciglio.

-Che oca...-, mormorò, per poi passare oltre e andarsene.

Quella volta mi offesi davvero.

-Ehi! Questo è perché ti ho chiesto scusa!-, gli esclamai dietro.

Lui non si girò. E io divenni ancora più furiosa.

-Ma vaffanculo, stronzo! Ucciditi!-, gli urlai, per poi girare i tacchi e incamminarmi verso la casa di mia zia.

Chiamarmi oca... ma come si permetteva?

Io che devo sorbire le calunnie, le prepotenze e le prese in giro dei miei conoscenti... io che devo camminare con questa consapevolezza che – nonostante Michael fosse un cantante affermato e famoso in tutto il mondo – chiunque poteva offendermi e farmi sentir male... no, quel bastardo non l’avrebbe vinta!

Mi girai di scatto.

E me lo trovai a pochi centimetri dal mio viso.

Rimasi per un momento bloccata, stupita dell’improvvisa vicinanza.

Mi guardava strano, come se tentasse di analizzarmi solo con lo sguardo.

Provai vergogna, fastidio e ribrezzo per quel ragazzo che non sapeva nulla di me e che mi guardava in quel modo.

Mi accigliai e gli mormorai sadica: -Io non sono oca. Sono solo una grande fan del meraviglioso Michael Jackson, costretta ogni giorno a sopportare maldicenze e commenti velenosi. Ma io vado avanti pensando che lui ha passato cose peggiori delle mie, che lui ha dovuto sopportare le botte del padre e i soprusi della gente e dei giornalisti, lui soffre di vitiligine, lui ha sofferto decisamente più di me e ha sempre sorriso, non si è mai lamentato, mai! Ma non mi va che mi si dia dell’oca, cosa che non sono mai stata, chiaro? Smettila di parlare così, e prova a conoscere le persone prima di giudicarle, bastardo-.

Lui non staccava gli occhi dai miei. Era assolutamente irritante essere fissata in quel modo, ma non staccai lo sguardo. Chi abbassa lo sguardo o cammina con la testa china è un vigliacco. E io non lo ero. Se quella era una sfida, allora l’avrei vinta.

Rimanemmo qualche minuto solo a fissarci; era fastidioso, iniziavo a stancarmi e gli occhi mi bruciavano, ma non demorsi.

Improvvisamente, si mosse. Si fece indietro e sospirò. Mi guardò ancora per due secondi e disse:

-Sei diversa-. Girò i tacchi e se ne andò.

Io rimasi impalata pensando ancora a quella frase misteriosa, e guardandolo allontanarsi. Ma che diavolo significava quella frase? Cosa voleva dire? Ma soprattutto, chi diavolo era quello?

Scossi la testa e, decisa a non pensarci, mi voltai nuovamente e presi per l’ennesima volta la strada verso casa di mia zia.

 

Il disco di “Thriller” girava per la milionesima se non la miliardesima volta e riempiva come al solito la mia stanza di note magiche.

Mi buttai di peso sul letto e mi portai il braccio davanti il viso.

Cavolo. Ma che diavolo mi era successo?

Non ero padrone delle mie azioni, ho offeso una tizia che non conoscevo e per giunta l’ho pure fissata come un demente dopo averla giudicata per il suo modo di vestire... uguale al mio, anche se lei non se n’era accorta... no, non si era accorta che condividevamo le stesse passioni, non si era accorta che i miei occhi esprimevano gratitudine e consapevolezza di ciò che stava dicendo, perché io provavo i suoi stessi sentimenti quando offendevano Michael Jackson, il mio mito. Non ne avevano il diritto, e dovevano smetterla di farlo.

Credevo che lei fosse un’altra delle solite, che si fermavano solo all’apparenza e non conoscevano la vera storia di Michael... ma mi sbagliavo. Lei non era come le altre. Lei non era una ragazza qualunque. L’avevo visto dalla sincerità, dall’affetto e dal dolore che trasparivano da quegli splendidi occhi verdi quando parlava di Michael... era come se provasse la stessa sofferenza che provava lui, e che con quei sentimenti gli desse man forte per fargli capire che lui non era solo...

Non ho mai visto nessuno come lei. Lei era diversa dalle altre, ne ero sicuro. E mi era bastato solo guardarla negli occhi... impressionante, certo... ma forse non dovevo fidarmi subito... forse non dovevo azzardare conclusioni affrettate...

Mi sedetti di scatto e guardai quel pezzo di carta sul comodino, l’unica ragione per cui ero ancora in vita: i biglietti per il Dangerous Tour Live a Bucharest. I miei genitori... unici.

Finalmente potevo dire che di Michael non ascoltavo solo le canzoni a tal punto da fondere i 48 giri di tutti i suoi album. Anch’io sarei stato testimone di uno dei più grandi spettacoli del mondo di cui si sentirà parlare negli anni avvenire.

Finalmente potevo vedere dal vivo l’uomo che per me era un amico oltre che un’icona. L’uomo sensazionale con cui condividevo lo stesso destino crudele.

-Christian? La cena è pronta!-, urlò mia madre.

-Arrivo!-, risposi, e mi alzai.

Mi guardai attorno e aprii l’armadio. Fissai il mio riflesso nello specchio. I capelli mori ribelli schizzati in tutte le direzioni e gli occhi castani, quella pelle così chiara... c’era un motivo. Abbassai lo sguardo e guardai le mie mani. Tolsi i cerottini, e anche i guanti.

Le fissai a lungo.

-Lo stesso destino...-, mormorai. -...l’unica differenza è che tu sei un angelo... io un mostro dalla pelle screziata-.

Mi rimisi i guanti e i cerottini, per poi chiudere l’anta e togliere il disco di “Thriller”.

 

-...e se n’è andato, senza dire nient’altro. Non lo trovi strano?-.

Finii di raccontare la mia storia e guardai zia Karol. I suoi occhi azzurri mi fissavano attenti e un po’ ironici mentre parlavo continuando a sistemare una ciocca ribelle dei miei capelli dietro l’orecchio destro e a gesticolare come ero sempre abituata a fare durante i miei discorsi.

Avrà pensato che solo una pazza poteva preoccuparsi così tanto per una cosa talmente idiota.

Già, e se succedeva a lei non si sarebbe comportata allo stesso modo?

-Bah. Ma sei sicura di non averlo mai visto prima?-, mi chiese.

-Sicurissima-.

-E quindi non hai idea di cosa lo avrà spinto a comportarsi così...-.

-No-, risposi, esasperata.

Si portò le mani sul mento.

-E se fosse anche lui un fan?-, propose come se fosse la cosa più ovvia del mondo.

Io la guardai scettica, e scoppiai a ridere.

Era talmente sciocco quello che diceva che non potei farne a meno.

Gli occhi mi lacrimavano e dovetti mantenermi la pancia.

-Perché stai ridendo?-.

La guardai con gli occhi ancora gocciolanti.

La sua espressione non accennava al minimo scherzo: era assolutamente seria.

Smisi di ridere e la fissai ancora più stupita di prima.

-Stai scherzando, spero!-, esclamai. –Mi ha chiamata oca! Capisci, zia? Oca. E lo sai perché? Perché ha visto come mi ero vestita. Mi ha offesa perché ho i pantaloni a sigaretta, il cappello, i cerottini, la fascia al braccio e le Ray-Ban. Un sacco di fans si vestono come Michael, e quelli che condividono la stessa loro passione non li offendono, ma li appoggiano. Chi lo offende sono solo le persone che odiano Mike e non possono proprio sopportarlo-.

-Beh, può darsi che abbia pensato sbagliato...-.

-In che senso?-, chiesi.

Scrollò le spalle.

-Forse credeva che la tua fosse una passione temporanea, che ti piace solo perché va di moda...-.

-Di moda?! Michael non è mai stato di moda! La moda passa, lui resterà per sempre-, filosofai assumendo un’aria saggia.

Zia Karol sbatté più volte le palpebre.

-Ooooh...-, esclamò fingendosi ammirata, -e da quando in qua ti dai anche alla filosofia?-.

Io risi.

-Hai mai sentito parlare di Effetto-Michael?-, risposi, ammiccando.

-Mmh... l’ho sentito nominare qualche volta...-, disse, per poi ridere insieme a me.

Era così bello parlare con lei... era la mia zia preferita, forse per il suo essere bambina nonostante avesse superato i trenta, forse perché era l’unica a capirmi, forse perché era talmente pazza che si era tinta i capelli biondo platino in rosa shocking... ricordai ancora la faccia di sua sorella – ovvero mia madre –  quando la vide... mi viene a ridere tuttora solo al ricordo. O forse perché era così esuberante, ma dietro i suoi modi vispi c’era nascosta una ragazza dal cuore d’oro e dall’animo dolce che sapeva ascoltarmi e consolarmi come mai nessuno aveva mai fatto... o forse perché era stata lei, un anno prima, a farmi innamorare di Michael...

 

Il rumore di una macchina cattura la mia attenzione e mi affaccio alla finestra. Vedo solo che l’auto minuscola parcheggiata sotto casa mia è di un forte e spiccante giallo canarino, per poi precipitarmi fuori dalla mia stanza.

-È arrivata zia Karol!-, urlo, aprendo subito la porta.

Mi ritrovo davanti una donna con una camicia bianca aperta e una maglietta di cotone sotto sempre bianca, un paio di pantaloni a sigaretta neri con una cintura dello stesso colore, due mocassini neri con dei calzettoni bianchi di pailettes e una specie di guanto sul braccio destro.

Non so cosa mi piace di quel suo modo di vestire così strambo... fatto sta che rimango incantata dai suoi abiti.

-Salve, bella gente! Come va?-, chiede, guardando radiosa me e mia madre.

-Alla grande, ora che ci sei tu!-, esclamo, saltandole al collo.

Corriamo di gran carriera nella mia stanza e lei mi mostra un CD.

-Di chi è?-, le domando, guardando l’oggetto curiosa.

-Del cantante più bravo e meraviglioso del mondo... anzi, no, dell’universo intero!-, esclama con gli occhi che le luccicavano.

-Wow... non ti vedevo così contenta da quando hai scoperto che ti piaceva lo yoga...-.

Lei non perde quel suo luccichio negli occhi.

-Adesso è assolutamente diverso... questo rimarrà nel mio cuore per sempre...-.

-Cavolo, ma allora ti ho persa davvero!-, esclamo, ironica.

Lei sorride.

-È da quando sono piccola che lo conosco... ho vissuto con le sue canzoni nelle orecchie... e ora che è tornato un mese fa con questo nuovo disco... mi sono innamorata di nuovo-, dice estasiata.

Io la guardo a bocca aperta. Poi inizio a fare 2+2...

-Ed è per questo che ti sei vestita così oggi?-, chiedo, e il suo rossore confermò le mie supposizioni.

-In un video... dovessi vederlo!-, esclama, gli occhi che le luccicano. - farebbe fondere perfino i ghiacciai dell’Antartide!-.

-Se è per questo, ci sta già pensando il riscaldamento globale...-, ironizzo, e lei mi da un pizzicotto.

-Ahi! Guarda che mi hai fatta male!-, esclamo.

-Ma va’...-, risponde, e mette il CD nel lettore.

- Com’ è che si chiama, tanto per sapere?-.

Lei schiaccia sul pulsante “Play” e mi risponde con un luccichio negli occhi: -Michael Jackson-.

La prima cosa che sento di quella canzone è un rumore di vetri infranti.

Ed è subito amore.

 

Accendiamo la radio nella macchina sgargiante di zia Karol mentre facciamo un giro per le strade di Bucharest. Poco dopo l’abitacolo viene riempito delle note di “Bad”.

“Your butt is mine, gonna tell you right! Just show your face in broad daylight…!”

Urliamo a squarciagola le parole della canzone che avevo imparato a memoria durante quei due mesi, e molte persone si girano a guardarci.

-È fantastico! Mi sento viva!-, grido.

Mia zia ride.

-Ecco cosa provo io tutti i giorni!-, mi rispose.

-Ah, è per questo che ti vedo sempre così esuberante e solare-, esclamo, e lei annuisce.

-Michael mi ha proprio cambiato la vita…-.

Io sorrido. Ricordo quanto era malinconica zia dopo che Adam l’aveva lasciata… non usciva di casa, non parlava con nessuno, neanche con mia madre. Era come caduta in stato catatonico. Invece, da qualche tempo… beh, forse davvero Michael aveva davvero contribuito a renderla più felice…

Fu in quel momento che iniziò “Man in the mirror”. Non credevo che stessimo a girovagare per tutto quel tempo, e invece è proprio così.

Le note di quella canzone come al solito mi riempiono l’anima, e mi assale la malinconia… di nuovo.

 -Spero che la cambi anche a me-, mi faccio sfuggire.

Mia zia non risponde, ma si gira verso di me.

Io non la guardo, ma so già quello che vuole dire il suo sguardo: -Solo perché non sono i tuoi veri genitori non significa che non ti vogliano bene-.

Infatti, sono proprio le parole che pronuncia.

Me lo aspetto, ma non posso fare a meno di non pensarci.

-Perché mi hanno abbandonata? Ero un peso per loro?-, domando, e le lacrime prendono a scorrere da sole.

Lei ferma la macchina e porta la mano alla radio.

-No, non chiudere!-, esclamo.

Lei mi guarda comprensiva e abbassa solo il volume in modo che si possa parlare senza urlare.

-Non eri un peso, e non lo sei mai stata. Forse non ce la facevano con i soldi… forse si aspettavano che tu vivessi una vita migliore…-, mi risponde.

Io continuo a piangere. Non m’importa di quello che dice mia zia, anche se ha ragione. Non avrei mai incontrato i miei genitori, e non avrei mai saputo perché mi avevano abbandonata…

-Non piangere, piccola… adesso hai una mamma e un papà… e poi ci sono anch’io… non sarai mai sola…-, mi consola, e io annuisco.

-Grazie-, mormoro, e lei mi abbraccia forte.

Riuscivo a sentire il suo cuore battere all’unisono con il mio. Non ci saremo mai separate.

 

-Diane! Mi è venuta un’idea grandiosa!-, esclamò improvvisamente mia zia facendomi sussultare e quasi volare via la forchetta che avevo in mano.

Fingo di guardarla stupita.

-Ah, e tu pensi pure?-, la prendo in giro.

Lei mi fulminò con lo sguardo e mi fece una boccaccia.

Io scoppiai a ridere.

-Ti adoro quando ti arrabbi! Vabbè che ti adoro sempre… comunque, sì, dì pure-, aggiungo vedendo che brandiva pericolosamente un coltello in mano, che – fortunatamente – posò sul tavolo.

Guardai i suoi occhi farsi maliziosi, troppo maliziosi, e iniziai seriamente a preoccuparmi.

-Vuoi venire a casa di certi miei amici? Hanno un figlio fan che conosco da quando è piccolo, ha la tua stessa età… anzi, no, ha due anni in più a te, 19. Potresti conoscerlo… sono sicura che vi divertirete un mondo insieme!-, ammiccò.

-Oh Dio…-, mormorai, portandomi la mano sugli occhi. –Vabbè, dai, andiamo. Sono sicura che non mi farà male conoscere qualcuno-.

Lei annuì.

-Fatti bella… stasera farai conquiste!-, esclamò lei alzandosi e uscendo dalla stanza.

-Sì, certo…-, mormorai. –Proprio una bella conquista…-.

 

La casa era molto carina.

Aveva due piani e una mansarda, ed era colorata di un tenue bianco perlato. Il giardino di fronte era ben curato e dal portone all’ingresso vi era un piccolo e breve sentiero; dalle finestre s’intravedevano delle tende, anch’esse bianche, tranne una di un rosso scarlatto che spiccava in mezzo a tutto quel chiaro.

Mi guardai attorno. Quella casa mi metteva soggezione, ma non sapevo perché.

-Sei pronta?-, mi chiese zia Karol.

Io la guardai ironica.

-Guarda che non devo mica andare nell’arena dei leoni!-, esclamai.

Lei fece una strana smorfia e spense la macchina. Scendemmo e bussammo.

-Chi è?-, chiese una voce femminile.

-Iosefina, sono Karol-.

-Karol! Sei arrivata! Un attimo, scendo subito!-, rispose la voce.

-Okay, ti aspettiamo-.

 Poco dopo una sagoma nera avanzava verso di noi nel crepuscolo e aprì il portone.

La guardai sbigottita.

Era la più bella donna che avessi mai visto.

Alta e formosa, poteva avere una quarantina d’anni, ma ne dimostrava venti. I capelli ricci e neri le arrivavano alla vita; i grandi occhi di un profondo marrone scuro e le labbra carnose spiccavano sulla sua carnagione chiara. Le mani, affusolate e aggraziate, sembravano quelle di una pianista.

-Karol! Da quanto tempo!-, esclamò gettandosi come una bambina al collo di mia zia.

-Iona! Visto, finalmente sono venuta a trovarti! E ho portato anche un’altra ospite...-.

Si staccò dall’abbraccio e mi spinse delicatamente avanti in modo tale che la donna potesse vedermi.

-Iosefina, ti presento mia nipote Diane Alecsandri, quella di cui ti ho tanto parlato. Diane, lei è Iosefina Horia in Petrescu, una mia cara amica d’infanzia con cui ho mantenuto i contatti durante tutto questo tempo, ed è stata la stessa persona che mi ha fatto conoscere Michael, tanti anni fa-.

Io la guardai ammirata, incapace di spiccicare parola.

Fu lei a rompere il ghiaccio.

-Ah, tu sei la famosa Diane! Finalmente ti conosco, tua zia non ha fatto altro che parlare di te!-, esclamò raggiante. Io sorrisi timida maledicendo mia zia dentro di me.

-Molto piacere, Iosefina-, disse porgendomi la mano.

Gliela strinsi – stranamente – forte e le risposi: -Il piacere è tutto mio, signora Petrescu!-.

-Oh, non chiamarmi signora, ti prego! Mi fai sentire vecchia! Puoi chiamarmi Iona-.

Annuii, sorridente.

-Vada per Iona, allora!-.

Lei mi diede un pizzicotto sulla guancia.

-Brava. Adesso però entrate!-, e ci fece strada.

Se da lontano l’abitazione mi sembrava bella, l’interno era sconvolgente. Assolutamente meraviglioso.

Era tutto molto luminoso e pulito. A destra si apriva il salone stile etnico e a sinistra una cucina moderna. Di fronte una scala dello stesso legno scuro del portone conduceva al piano superiore, da cui proveniva una musica... davvero molto familiare...

Il cuore iniziò a battere velocemente.

-Ma questa... è “Baby be mine”!-, esclamai.

Iona e mia zia si girarono a guardarmi sorridenti.

-Esatto-, rispose Iona. –Vuoi perdonare mio figlio, ma quando ascolta Michael Jackson alza sempre il volume al massimo... dice che così si sente meglio...-, un’ombra di tristezza attraversò gli occhi di Iona. Zia non se ne accorse, ma io sì. Eccome.

-Vabbè, vado a chiamarlo, non sente alcun rumore quando mette i CD di Mike...-, si riprese Iona.

Io sorrisi e mia zia rise.

-Sì, possiamo immaginare-, disse lei.

Iona sorrise e si avviò sopra.

Dopo qualche secondo “Baby be mine” venne stoppata a metà del secondo ritornello e un rumore di passi ci annunciò che Iona e suo figlio scendevano le scale.

Io ero stranamente agitata, e mi tentai di distrarmi fissando le ciocche rosa scuro dei capelli di mia zia.

-Diane, ti presento mio figlio-, disse Iona.

Mi voltai lentamente.

-Christian, lei è Diane-.

Incrociai gli occhi marroni del ragazzo e...

Sgranai gli occhi e feci un passo indietro.

Lui mi imitò.

-Tu!-, esclamammo all’unisono, con l’unica differenza che il mio tono era arrabbiato, mentre il suo... semplicemente stupito.

Di fronte a me c’era lo stesso ragazzo che quel pomeriggio si era permesso di chiamarmi oca.

-Tu!- ripetei, irata. –Tu sei un fan di Michael Jackson! E mi hai offesa perché mi vesto come... come...-. Mi bloccai. Ora che lo guardavo bene... che guardavo i suoi vestiti... maglietta di cotone bianca... camicia nera... fascia sul braccio bianca... cerottini sulle dita... guanto lungo e bianco... pantaloni a sigaretta neri... mocassini neri... calzini bianchi...

Aprii e rinchiusi bocca.

-Tu... tu ti vesti come lui! Tu ti vesti come... come me! E... e ti permetti di dirmi che sono un’oca?!-, esclamai allibita e furiosa.

Lui non fiatava. Si limitava solo a guardarmi come un ebete. L’aria della stanza si era congelata.

-Perché non parli? Eh? Non ne hai il coraggio?-.

Continuava a stare zitto, e m’incazzai ancora di più.

-Scusa tanto, Iona, ma non posso stare qui. Zia, se vuoi accompagnarmi bene, altrimenti me ne vado a piedi. Arrivederci e scusate il disturbo-.

Girai i tacchi e mi diressi all’uscita.

-Sei diversa dalle altre-.

La sua voce mi giunse nelle orecchie e mi bloccò.

Mi voltai lentamente, tentando di frenare la mia rabbia.

-Continui a ripeterlo, ma non ho capito un cazzo di quello che dici. Addio-.

Aprii la porta e uscii fuori.

Bastardo.

 

 

 

Note dell’autrice

Wellà, bella gente!!! Scusate l’enorme ritardo, ma già dal primo giorno di scuola ci hanno assegnato i compiti... quella strega della prof di filosofia già ha dato delle pagine da imparare, e stiamo a solo due settimane... quanto mi manca l’estate!

Vabbè, pensiamo al chappy.

Come molti di voi avranno notato (Ehm... Alchimista, Kla, Tanya... non mi riferisco certo a voi” XD!) i protagonisti assomigliano molto a James Potter e Lily Evans, i genitori di Harry Potter, non solo fisicamente ma anche per il fatto che prima si odiavano e poi si sono sposati... beh, veramente Lily odiava James, però vabbè...

Siccome questo capitolo è abbastanza lungo e non me la sentivo di farvi aspettare così a lungo ho deciso di dividerlo in due parti... spero che non vi siate annoiate e che la trama vi abbia incuriosite un po’!

Ora non ho tempo di rispondere alle vostre recensioni, ma ringrazio comunque tutti per il vostro sostegno! Mi dispiace avervi fatto piangere, ma il mio intento è quello di farvi capire che Michael non ci ha mai abbandonati e non lo farà mai, e che adesso ci protegge come solo un angelo sa fare!

Un bacione a tutte voi, che con le vostre recensioni e i vostri complimenti mi riempite il cuore di gioia!

X mcj: ciao! Scusa, ma la prossima volta puoi scrivere la recensione nell’ultimo capitolo che posto? Così ti ricorderò nei ringraziamenti per le tue recensioni! Un bacio!

Ancora grazie! Alla prossima con “Baby be mine (parte seconda)!

Bad_Mikey!

 

 

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Capitolo 6
*** Baby be mine (parte seconda) ***


BABY BE MINE (Parte seconda)

BABY BE MINE (Parte seconda)

 

Ciò che amore può fare, amore osa tentarlo.

William Shakespeare

 “Romeo e Giulietta” Atto II Scena 2

 

 

Me la vidi apparire davanti come se fosse un miraggio.

La pelle chiara… il viso ovale… le labbra sottili… i lunghi capelli lisci di un tenero rosso scuro… il naso piccolo e grazioso… quei suoi splendidi occhi verdi che mi guardavano confusi tentando di capire dove avessero già visto quel volto così familiare…

Tornai improvvisamente alla realtà, e fu quantomeno traumatico: ricordai le offese, il dolore che ha dovuto provare quando l’avevo chiamata oca, la rabbia e l’ira che bruciavano mentre difendeva Michael, e che ora vedevo materializzarsi nelle sue iridi smeraldo…

Trattenei il respiro e sgranai gli occhi.

Che ci faceva lei qui con Karol?!

-Tu!-, esalammo entrambi, ma – come immaginavo – il suo tono era di gran lunga più arrabbiato del mio.

-Tu! Tu sei un fan di Michael Jackson! E mi hai offesa perché mi vesto come… come…-, balbettò infine, scrutandomi dall’alto in basso con sguardo shockato.

“Come me?”, pensai.

-Tu… tu ti vesti come lui!-, esclamò.

Sì, Diane, è l’unico modo per farmi sentire a mio agio.

-Tu ti vesti come… come me!-.

Avrai finalmente capito che anch’io, come te, non vivo senza di lui?

-E… e ti permetti di dirmi che sono un’oca?!-.

Non sai quanto mi dispiace, piccola, non era mia intenzione offenderti…

Ma non parlo, non apro bocca per scusarmi e dirle quelle parole, rimango a fissarla mentre aspetta – invano – una mia reazione.

Forse credeva che le avessi chiesto scusa, che le avrei fornito delle spiegazioni, o che l’avrei cacciata di casa a calci nel sedere.

Qualunque fossero state le sue supposizioni, erano tutte sbagliate.

Non dissi nulla, rimasi a fissarla credendo che con il mio silenzio avrebbe capito che le davo ragione.

-Perché non parli? Eh? Non ne hai il coraggio?-.

Continuavo a guardarla, dicendole con gli occhi quello che con la bocca non riuscivo a cacciare fuori: “Hai ragione, perdonami”.

I suoi occhi divennero due fessure e disse con un tono che rasentava la furia: -Scusami tanto, Iona, ma non posso stare qui. Zia, se vuoi accompagnarmi bene, altrimenti me ne vado a piedi. Arrivederci e scusate il disturbo-.

Si voltò e si avviò verso la porta.

Rimasi basito: mi aspettavo che avrebbe continuato a sfogarsi, che sarebbe rimasta a casa mia tenendomi il broncio o ignorandomi fingendo che non esistessi per dimostrarmi che non le importava nulla di me…

Possibile che non chiedesse nemmeno una spiegazione?

“Forse tu le devi dare questa spiegazione”.

Saggia, la vocina nella mia testa.

Appariva quando meno me l’aspettavo, e mi era sempre tornata utile nei momenti in cui necessitavo di un consiglio ma nessuno era in grado di farlo. Ricordo quando una volta un mio amico…

Smettila di blaterare, idiota, la pollastrella se ne sta filando!”.

“Non chiamarla pollastrella, il suo nome è Diane”.

Diane… Diane… che bel no…

“Insomma, ti sbrighi, bradipo intontito senza cervello?!”.

“Scusa”.

E, nella fretta di darle una spiegazione e nello stupore di parlare con una voce immaginaria nel mio cervello, pronunciai la prima frase che mi venne in mente: -Sei diversa… dalle altre-.

Lei si bloccò mentre stava per abbassare la maniglia, e si girò lentamente.

Per un attimo ho creduto di vedere stupore e gratitudine nei suoi occhi, ma mi sbagliavo ancora una volta.

Stupore sì, ma la sua espressione era più confusa e arrabbiata di prima.

-Continui a ripeterlo, ma non capisco un cazzo di quello che dici. Addio-.

E senza troppe cerimonie uscì fuori.

Rimasi impalato sulle scale per qualche secondo: la sua uscita teatrale mi aveva colto alla sprovvista.

“Davvero credevi che si sarebbe gettata al tuo collo ringraziandoti con le lacrime agli occhi?”.

Ancora una volta la vocina.

“Beh… forse un po’ ci speravo…”, pensai, incredulo delle mie stesse parole.

Ma in fondo era la verità, no?

“Allora non hai capito manco ‘na canna di quella ragazza, rimbecillito”.

Annuii, sempre mentalmente.

“Sì, lo so. Ma non chiamarmi rimbecillito, per piacere”.

Sbuffò, o forse era solo immaginazione.

D’altronde non è molto normale parlare con una voce immaginaria nel proprio cervello. Avrei dovuto farmi visitare da un buon psichiatra…

Perché? È quello che sei”, replicò la voce.

“No”, risposi. “Non sono un rimbecillito. Sono solo un bastardo”, ammisi infine.

La vocina nella mia testa applaudì.

 

***

 

Non lo vidi più da quella sera.

In effetti non sarebbe stato difficile incrociarsi per la strada; Bucarest era una città grande, ma i punti d’incontro erano sempre gli stessi. A dirla tutta ero io che tentavo in ogni modo di non vederlo: evitavo per esempio i luoghi di raduno dei Jacksoniani – anche se non l’avevo mai visto da quelle parti, ma era meglio non rischiare –, i bar o i locali affollati, e di passare davanti casa sua, che non distava poi così tanto dalla mia, quindi da quella di mia zia.

Già, zia…

Non mi parlava mai di quello che era accaduto, ma notavo il suo dispiacere e la sua tristezza. Dapprima pensavo che queste sue emozioni fossero dovute alla brutta figura che aveva fatto davanti a Iona, oltre alla malinconia ormai diventata mia compagna, malinconia che non capivo da cosa fosse scaturita… ma dovetti ricredermi: lei sapeva tutto.

Quando le descrissi l’aspetto fisico del bastardo lei già aveva capito chi fosse. Ecco perché pronunciò quella frase: “E se fosse anche lui un fan?”.

Quando me lo disse – due giorni dopo quel venerdì sera – non potevo crederci.

-Avevo intuito che fosse Christian, e per confermare le mie supposizioni ti ho portata da Iona… la tua reazione ha spazzato via tutti i miei dubbi: ero sicura che fosse lui il misterioso ragazzo che ti aveva offesa-.

Io la guardai stupita e incredula.

Non diedi una risposta al suo sguardo addolorato: semplicemente mi alzai e me ne andai. Non seppi spiegare il perché, ma mi sentivo tradita.

Le tenni il broncio per cinque giorni, e ogni volta che il telefono squillava facevo rispondere i miei genitori; se era zia Karol le dicevano che ero uscita, o che riposavo, o che mi trovavo da una mia amica. Zia chiamava spesso – diciamo ogni cinque minuti –, ma io non intendevo risponderle comunque.

Capitò che alla ventesima chiamata del quinto giorno mia madre, scocciante, urlò: -Diane sta ascoltando a tutto volume Michael Jackson in camera sua e non vuole essere disturbata per alcun motivo!-. Attaccò e da allora zia non richiamò più.

 

Logorata dai sensi di colpa, decisi di smetterla di comportarmi da bambina viziata e andai a casa sua. Bussai col cuore in gola.

Nessuno si affacciò né rispose al citofono.

Bussai di nuovo.

Nessuna risposta.

Riprovai ancora, e per farmi sentire rimasi premuto l’indice sul bottone per un minuto intero.

Nulla.

Persi completamente la pazienza e iniziai a prendere a calci il portone.

-Apri!-, urlai. –Ho detto apri! Cazzo, zia, vuoi aprire?-. Ero in preda di una crisi isterica, cosa che negli ultimi tempi mi accadeva alquanto facilmente.

Fortunatamente non c’era nessuno in strada, altrimenti mi avrebbero trascinato di corsa e senza troppe cerimonie nel più vicino manicomio.

-Apri! Maledizione!-.

Nervosa e avvilita, scoppiai a piangere, appoggiando le spalle al portone e scivolando lentamente a terra, sull’asfalto. Affondai il volto fra le ginocchia, che strinsi fra le braccia.

Mi ero comportata malissimo con lei, e adesso non voleva più vedermi.

Aveva tutte le ragioni del mondo per farlo: l’avevo ignorata per un futile e infantile motivo, ovvio che adesso fosse adirata con me.

Per colpa del mio comportamento immaturo avevo perso l’unica persona che era in grado di capirmi e consolarmi, l’unica che condividesse le mie stesse emozioni e passioni, l’unica che davvero mi era stata vicina nei momenti di bisogno, l’unica che avesse mai saputo far allargare la mia bocca in un sorriso quando ero triste e giù di morale…

E nel mare di quelle sensazioni negative, sentii un leggero tocco sulla spalla.

-Diane?-.

Alzai gli occhi.

Mi asciugai frettolosamente le lacrime.

-Che vuoi?-, sputai, acida.

-Mi hai fatto preoccupare, ti ho vista seduta a terra e mi sono avvicinato per vedere cosa ti fosse successo-, rispose calmo Christian, senza fare una piega al mio tono.

Stavo per rispondergli per le rime, ma poi ricordai che era colpa del mio orgoglio se ora Karol non mi parlava più.

Aprii la bocca, poi la rinchiusi.

Lo guardai sconfitta e sospirai.

-Mia zia è arrabbiata con me. Fingevo di non trovarmi a casa quando lei chiamava, e adesso non mi apre neanche-, mormorai, mentre un’altra piccola lacrima ribelle solcava il mio volto.

Lui rimase qualche secondo in silenzio.

-Sei sicura che non sia uscita?-, propose, tentando (credo) di consolarmi.

Io indicai la vecchia Ford Anglia del 1967 (da lei ristrutturata e ricolorata) giallo canarino nel cortile di casa.

Lui seguì il mio dito, per poi sospirare.

Lo guardai.

-Le passerà, fidati. Fa sempre così-, mi disse.

Strano che, nonostante non lo potessi sopportare, quelle due semplici frasi furono in grado – anche se minimamente – di farmi calmare. C’era qualcosa nel suo tono che mi convinse dell’onestà delle sue parole.

Annuii, e sorrisi.

-Brava, così si fa. Sorridi perfino quando il tuo cuore prova dolore-, mi disse, poggiando delicatamente la mano destra sulla mia spalla.

Quel tocco non mi dava fastidio, anzi: sentivo che era ciò di cui avevo bisogno.

-Charlie Chaplin?-, domandai.

Lui annuì.

-Il mio mito, con Michael-, rispose.

Voltai il capo e feci una smorfia, al che lui sospirò.

-Mi dispiace-.

Trattenei il respiro, ma forse lui non se ne accorse.

-Non avevo alcun diritto di offenderti, sono stato un arrogante, un presuntuoso e…-.

-Un bastardo?-, gli suggerii alzando gli occhi verso di lui.

Il suo sguardo era davvero pentito.

-Sì… -, mormorò.

Mi morsi il labbro.

-Perdonami, ti prego. Pensavo che tu fossi come le altre, invece…-.

Una luce si accese nella mia mente spazzando via i dubbi.

-Per questo mi hai detto che sono diversa…-, mormorai, e la mia, più che una domanda, era una certezza.

-Perspicace…-, mormorò, e sorrisi. –Comunque sì. Intendevo diversa da coloro che lo fanno solo perché va di moda…-.

-Michael non è mai stato di moda: la moda passa, lui resterà per sempre-. Ripetei quella frase che già una volta avevo recitato solennemente davanti mia zia, e in quel contesto non ce n’era un’altra più azzeccata.

-Hai completamente ragione-, disse lui.

-Lo so-.

-Senza complimenti, eh…-.

-Oh sì, di modeste come me ce ne sono poche-.

Poi accadde ciò che speravo non accadesse mai.

Christian sorrise.

E rimasi folgorata.

I suoi denti erano bianchi e perfetti, e mi parve che il mio cuore fosse trafitto dalla luce che irradiavano.

Conoscevo solo una persona capace di far scatenare quella reazione in me: Michael.

Avvampai ai pensieri che mi riempirono la mente in quei pochi secondi di pazzia, e mi alzai di scatto.

-Sarà meglio che vada a casa ora, tanto zia non mi aprirà nemmeno se mi accampo qua-, dissi velocemente, utilizzando l’escamotage della pulizia del pantalone per nascondere il mio rossore.

Anche Christian si alzò.

-Vuoi un po’ di compagnia?-, chiese.

Lo fissai scettica.

-In che senso?-, domandai, e la mia mente malata già iniziava a fare strane congetture… Diane, ma che cavolo pensi??

Scrollò le spalle.

-Devo andare a comprare la videocassetta di “Capitan EO”… vuoi venire con me?-.

Tutte le mie supposizioni crollarono come castelli di carta al vento.

Non potevo credere alle sue parole. Possibile che lui…

-Non hai la videocassetta di “Capitan EO”?! E che razza di fan sei?-, esclamai.

Lui rimase spiazzato, e io scoppiai a ridere alla sua espressione.

-Scherzo!-, dissi in fretta, e lui si rilassò.

-Però mi sono vendicata-, aggiunsi maliziosa; lui si strinse nelle spalle e mi guardò di sottecchi.

Scoppiai a ridere: assomigliava proprio ad un bambino.

-Allora?-, chiese infine dopo che mi fui ricomposta con un tono che non ammetteva repliche. –Vuoi venire con me?-.

Io rimasi qualche secondo in religioso silenzio. Non che non volessi… ma mi sembrava tutto strano… troppo strano.

Oh, smettila di farti mille complessi mentali!, pensai.

In fondo non c’era nulla di male, no?

Annuii.

-D’accordo. Una passeggiata non mi farà certo del male-, risposi infine.

Lui mi abbagliò nuovamente con un suo sorriso.

Cazzo, Diane, smettila!, esclamai mentalmente, stupita di me stessa.

-Mi fa piacere che tu abbia accettato. Ah, la scorsa sera non ci siamo presentati…-.

-È vero!-, esclamai battendomi la fronte con la mano. –E siccome la colpa è stata solo mia… piacere, Diane-, dissi sorridente porgendogli la mano.

Lui la prese delicatamente guardandomi malizioso. Non so perché, ma quel piccolo contatto mi fece uno strano effetto.

-Christian. Incantato dalla vostra bellezza, madamigella-, e mi baciò la mano.

Sentii il cuore sciogliersi come un gelato al sole e le guance fondersi.

-Il piacere è tutto mio-, continuò languido, mentre però il suo sguardo malizioso si posava impertinente sul rossore del mio volto.

Io tentai di ricompormi alla bell’e meglio, ma fui capace solo di sorridere timidamente.

 

Sentii il citofono bussare. Controllai da dietro la tenda. Era Diane. Sorrisi, vittoriosa.

“Finalmente…”.

Sapevo che sarebbe stata questione di poco tempo prima che perdesse la pazienza, quindi corsi al telefono.

Dopo tre squilli rispose una voce maschile.

-Christian? chiesi. –Vieni qui da me, devo dirti una cosa. Ah, non dire a Diane che ti ho chiamato, è abbastanza nervosa-.

-D’accordo, Karol…-, rispose lui. –Ma sicura che va tutto bene?-.

-Sì, sì, però sbrigati. Ciao-.

-A dopo-, e attaccò.

Corsi nella stanza da letto e presi le cuffie. Tornai in cucina e le collegai allo stereo. Qualsiasi cosa dicesse Diane, non avrei potuto sentirla: le mie orecchie erano totalmente occupate dalla voce di Michael. Vidi Diane accasciarsi sull’asfalto; sembrava sfinita. Chissà cosa aveva combinato

Poco dopo arrivò Christian. Parlarono, e alla fine Diane si decise ad alzarsi da terra. Vidi solo che mia nipote gli tende la mano, e il ragazzo gliela bacia.

Sghignazzai. “Proprio come immaginavo… Christian non si smentisce mai…”.

Dopo qualche minuto, la vidi andare via con lui.

“Sono un genio”, pensai, e in preda ad un’euforia che sembrava non mia, iniziai a saltellare per la stanza dalla gioia.

 

Trovammo la cassetta velocemente e ci concedemmo un lungo giro turistico per il centro commerciale – come se non lo conoscessimo già a memoria…

Quello fu uno dei pomeriggi più belli della mia vita.

Mi divertii come non mai, e grazie a Christian riuscii a dimenticare tutti i problemi che mi affliggevano. Quel ragazzo era capace di farmi sorridere ogni due minuti e cominciai seriamente a ricredermi su di lui. Insomma, mi aveva offesa, però mi ha chiesto scusa, no? E poi era così gentile, dolce, simpatico, divertente… e… beh, sì, e poi era anche carino con quegli occhi profondi e i capelli ribelli che non avevano né capo né coda…

Vabbè, a parte questo, c’era qualcosa che mi attraeva in lui, ma non sapevo cosa.

Forse quei suoi modi di fare così schietti e sinceri; o il suo sguardo puro e innocente, che celavano la saggezza che solo gli uomini maturi hanno. O forse quella misteriosa aura di malinconia che sembrava avvolgerlo completamente… ci avevo fatto caso dall’inizio: nonostante si fosse prodigato tutto il tempo per farmi sorridere, ogni tanto sembrava isolarsi dal mondo, e sul suo viso leggevo una profonda tristezza; i suoi occhi diventavano un baratro di silenziosi rimpianti, cupa inquietudine e… sì, quella che notavo – sebbene fosse nascosta per bene – era proprio autocommiserazione.

Ma per cosa?

-Qualcosa non va?-, chiesi all’ennesimo dei suoi black-out mentali che l’avevano costretto a lasciare il gelato che stava mangiando ad un tavolo del bar dove ci eravamo fermati.

Lui trattenne il respiro e si girò di scatto verso di me. Non avevo previsto la vicinanza dei nostri volti e dovetti fare i conti con la mia sbadataggine, perché le sue iridi sembravano volessero risucchiarmi. Sentii un brivido che dal collo attraversava tutta la mia schiena, per poi fermarsi dispettoso al basso ventre.

Lui si avvicinò di un millimetro – o forse fu solo frutto della mia immaginazione – e, d’istinto, mi ritrassi.

Sensazioni ingovernabili falciavano la mia mente e il mio petto, confondendomi e mozzandomi il respiro.

Che diavolo mi sta succedendo?”, mi chiesi. “Perché tutte queste reazioni improvvise?”.

Evidentemente lui non si accorse di nulla, perché sorrise e rispose: -No, no, sto bene-.

Annuii, e mi sforzai di curvare le labbra all’insù, ma molto probabilmente fui capace solo di una smorfia indistinta. Mi voltai verso il frappé ancora intatto davanti a me. Ne presi un po’ e lo portai alla bocca, ma dopo averlo inghiottito mi venne la nausea: lo stomaco mi si era completamente chiuso.

Emisi un gemito e posai il cucchiaino sul fazzoletto.

-Non hai fame?-.

La voce di Christian era musica per le mie orecchie: sentivo di non poterne fare a meno.

Sgranai gli occhi.

Ma che cazzo dici?”, esclamai mentalmente, ancora una volta in quel giorno anormale.

Scossi la testa e mi alzai.

Lui mi fissò meravigliato.

-Scusami, ho ricordato di avere un impegno importante, devo proprio andare! Grazie per la giornata stupenda, saprò ripagare. A presto, ciao!-, dissi tutto d’un fiato, e uscii di corsa dal bar.

Non riuscii a sentire cosa rispose: in meno di due minuti ero già nel parcheggio, ansimante e col cuore in gola. Ma non dalla corsa, no: bensì dalla potenza e dal fascino magnetico delle iridi di Christian.

 

Il giorno dopo mi ero ripresa, seppur leggermente. Mi diedi della stupida per il mio atteggiamento inspiegabile, e decisi di chiedergli scusa. Quindi lo chiamai. Scoprii che mia madre aveva il suo numero: gliel’aveva dato zia Karol quando andai per la prima volta a casa di Iona, nel caso in cui avesse voluto contattarci. Quando mi mostrò il biglietto non potei crederci e lo afferrai come una furia, nascondendolo in camera mia, in attesa del momento più propenso per effettuare la telefonata lontana da occhi indiscreti. La fortuna volle che i miei genitori proprio quel giorno dovessero uscire per un affare urgente, lasciandomi la casa libera. Di solito, quando accadevano questi inconvenienti (anche se io li chiamavo botte di cu… di vita! Le chiamavo botte di vita! XD ) me la davo alla pazza gioia, schizzando il volume dello stereo al massimo stile Macaulay Culkin nel video “Black or White”, e saltando sul divano nella cucina, tentando di imitare Michael.

Ma quel giorno fu diverso: appena l’auto sparì dietro il vialetto, presi il biglietto nascosto nella tasca del pantalone e composi il numero scritto sopra.

Uno squillo.

Due squilli.

Tre squilli.

Cavolo…

-Pronto, qui casa Petrescu. Chi parla?-.

La sua voce mi colse di sorpresa: mi aspettavo Iona, o il padre… ma non lui… e mi bloccai.

-Pronto?-, ripeté.

Rispondi, stupida, rispondi!, mi ordinai.

-C…ciao, Christian… sono Diane…-, balbettai.

Attimo di silenzio.

-Ciao, Diane-, rispose semplicemente.

Rimasi di stucco. Mi aspettavo un “Ehi, ciao, come va?”, oppure un “Ma che ti è preso l’altra volta?”, o anche “Finalmente, non vedevo l’ora di ascoltare nuovamente la tua voce angelica, capace di farmi venire i brividi e farmi volare fino al Paradiso, e…”.

Merda, non di nuovo! Smettila!

-Oh, ehm…-, mi portai una mano alla fronte. –Ciao, senti… volevo scusarmi per ieri, è che a casa avevano bisogno di me e l’avevo completamente dimenticato… scusami tanto, davvero, prometto che non succederà più…-. Le mie scuse suonavano patetiche, ma non me ne venivano in mente altre.

-Ma no, Diane, non preoccuparti, non mi sono offeso-, disse, rassicurante.

Sospirai di sollievo.

-Menomale… cavolo, per un attimo ho pensato che non mi avresti mai perdonata…-.

-Addirittura perdonata! Esagerata, dai!-.

-Uhm… forse hai ragione…-.

-Ma no, scherzo. Comunque sei carina a preoccuparti tanto per me… non so se lo merito, però…-. Ecco che ritorna quella tristezza smisurata nella sua voce.

No, no, no!

.Ovvio che te lo meriti! Diamine, senza di te non so proprio come sarei sopravvissuta a quella giornata!-.

-Grazie...-, mormorò.

-Guarda che non ho finito-, replicai.

Immaginai la sua faccia perplessa e sghignazzai.

-Ricordi quando ti dissi che ti avrei ripagato? Bene, è giunto il momento di farlo-.

Pausa di silenzio da entrambi.

-Vuoi venire a casa mia?-, chiesi. –Vediamo “Moonwalker” e ascoltiamo buona musica?-, chiesi.

Per qualche secondo non proferì parola.

Ma fu questione di un attimo.

-Mi farebbe molto piacere, soprattutto se la “buona musica” è ciò che penso io-, rispose.

Io sorrisi raggiante.

-Allora siamo telepatici, perché io intendo proprio lui-.

Christian rise, e io lo imitai.

-Tra un’ora?-, chiese.

-Anche adesso-, risposi.

 

Era la scena finale, la mia preferita.

Ogni volta che la vedevo cominciavo a piangere. Primo, perché il film stava per finire; secondo perché vedere Michael scomparire per poi tornare e dire che era vivo… beh, non sapevo bene il motivo, ma nella mia gola si formava un groppo troppo difficile da far svanire.

E anche il quel frangente le lacrime non mi risparmiarono.

-Che fai, piangi?-, chiese Christian, asciugandomi una guancia. Il suo tocco era vellutato e leggero, assomigliava al battito d’ali di una farfalla.

Io sorrisi mesta.

-Mi capita sempre quando vedo questo film, è più forte di me-, risposi, asciugando l’altra guancia.

-Su, dai, piccolina. Non c’è alcun bisogno di arrossire quei tuoi splendidi occhi verdi-.

Io sorrisi e lui mi carezzò una guancia.

-Grazie per il complimento-, risposi.

-E di che? Dico semplicemente la verità-, replicò lui.

Io arrossii.

Mi sentivo bene. Ero appagata, serena… felice.

Piangevo, ma qualcuno era vicino a me per consolarmi. Ridevo, e nessuno mi prendeva in giro per questo.

Ero Jacksoniana, e lo era anche lui.

Il film terminò, e tolsi la videocassetta.

-Cosa vuoi ascoltare?-, gli chiesi, prendendo dallo scaffale accanto la TV tutti gli album che avevo, da “Got to be there” a “Dangerous”. Quelli dei “Jackson 5” e dei “The Jacksons” non li comprai perché tutte le volte che ascoltavo determinate canzoni mi veniva in mente la brutta faccia di Joseph “Mostro” Jackson.

Christian sostenne il mento fra le mani.

-Scelta ardua… beh, siccome sono del parere che dopo aver pianto bisogna scatenarsi…-.

Prese uno dei CD centrali.

-Che ne dici di questo?-, chiese, mostrandomi la copertina.

-Un classico-, risposi.

-Il mio preferito-.

-Immaginavo. Da’ qua-.

Presi il CD e lo misi nello stereo.

Dopo qualche secondo partì “Wanna be startin’ something”.

Eccolo, il brivido.

L’adrenalina che scorreva nelle vene.

La voglia di far totalmente parte della musica e di fondermi con essa.

Non ebbi più il controllo dei miei arti, e iniziai a muovermi a ritmo. Non ballavo come Michael, anche se a volte improvvisavo un moonwalk, ma mi parve lo stesso di volare.

Christian si alzò e partecipò a quell’alchimia fra corpi e note con me.

Io lo fissai allibita.

-Cavolo, ma tu balli come lui! come fai?!-, esclamai, guardandolo ammirata.

-Lo faccio da sempre, sono cresciuto con lui e la sua musica. Ormai mi esce spontaneo. Oddio, non sarò uguale a lui, questo è ovvio: la perfezione non si eguaglia. Però devi ammettere che mi avvicino molto al suo modo di ballare-, mi disse ammiccando.

-Alla faccia dell’essere simile! Tu sei un grande!-, esclamai.

Lui rise.

-Grazie!-.

-Ma figurati!-, sbuffai, e ricominciai a volteggiare.

Tra una coreografia e un’altra parlavamo del più e del meno, e spesso di noi. Beh, più che altro parlavo io. Mi bombardò di domande, facendomi sentire come un criminale che confessa un delitto.

Quanti anni avevo, che scuola frequentavo, colore, fiore, materia preferiti… non mi dava il tempo di porne una anch’io, che già la sua mente elaborava i dieci quesiti successivi. Era frustrante, ma mi stavo divertendo: sentivo di aver bisogno di attenzioni, ed era quello che lui stava facendo; sembrava che Christian fosse in grado di leggermi dentro e scovare fra gli angoli più reconditi del mio animo tutti i segreti che portavo dentro.

O almeno, così credevo.

-Sei figlia unica?-, fu la sua centesima domanda.

Il sorriso sul mio volto si spense e un senso di oppressione mi pervase il cuore. Abbassai il capo e strinsi forte le braccia al petto.

-Sì…-, risposi.

I miei genitori adottivi non potevano permettersi un’altra adozione: sebbene il loro stipendio poteva far sì che questo sogno diventasse realtà, avevano preferito non rischiare, anche se immaginavano il mio dolore sapendo che non avrei potuto avere qualcuno con cui giocare e parlare che non fosse zia Karol.

-Qualcosa non va?-, mi chiese.

Io scossi la testa: -No, no, tutto bene…-.

-Sicura?-.

-Sì, grazie-.

Respirò profondamente.

-Perché non ti credo?-, replicò.

Mi morsi il labbro inferiore e mi passai una mano tra i capelli.

-Non lo so…-, risposi, scrollando le spalle.

Lui non disse nulla.

E io mi sentii in colpa per avergli raccontato una frottola.

-E va bene. Ti ho detto una bugia-.

Alza lo sguardo, e mi tuffai nella profondità dei suoi occhi neri. Non vidi rabbia, né rancore, né pena, né offesa. Solo comprensione. E capii che potevo fidarmi.

-Octav e Floarea non sono i miei veri genitori-, dissi.

Lui rimase in silenzio, ma nei suoi occhi passò una piccola scintilla.

Mi persi sulla forma perfetta delle sue ciglia, così incredibilmente lunghe…

-Loro non potevano avere figli, per cui decisero di adottare un bambino. Io ero nata in Francia, Tolosa, e quando arrivai per la prima volta in casa Alecsandri avevo appena quindici giorni di vita. Ho saputo che non ero la loro figlia biologica all’età di undici anni, e da allora cerco incessantemente i miei veri genitori-.

Il suo sguardo divenne curioso.

-Come mai?-, mi chiese.

Ripensai alla conversazione con zia Karol quella lontana sera d’estate di circa un anno prima, e tornò l’ormai familiare magone alla gola.

Io mi morsi un labbro, e sospirai, ricacciando indietro le lacrime.

-Voglio sapere perché mi hanno abbandonata, se l’hanno fatto perché erano poveri, oppure perché per loro ero un peso… se mi vogliono bene, o se me l’hanno voluto…-.

Abbassai il capo.

Non ce la facevo a continuare, e tutti i tentativi di lasciarmi quella storia alle spalle fallirono miseramente.

Lacrime silenziose caddero sulla coperta, lasciandovi dei piccoli aloni; lacrime che portavano con sé la storia di tutta una vita.

Diane, smettila. Non serve a nulla.

Ma come facevo? Dove trovavo la forza di non piangere?

Sentii una stretta che mi avvolse completamente, e una soffice carezza fra i capelli. Sgranai gli occhi quando capii che Christian mi stava abbracciando, ma non mi staccai.

Avvolsi il suo collo fra le mie braccia e scoppiai a piangere.

Rimanemmo così per mezz’ora minimo, durante la quale non feci altro che cacciare fuori tutto il dolore e la rabbia che avevo covato per 17 lunghi anni.

Quando finii, Christian staccò l’abbraccio e iniziò ad accarezzarmi la guancia.

-Non avrebbero mai potuto abbandonare una bambina dallo sguardo così significativo… e se l’hanno fatto avranno avuto di sicuro un motivo valido. Non pensare agli altri, lascia scorrere su di te tutto il resto, nessuno merita le tue lacrime-, mi sussurrò.

Io sorrisi.

-Grazie…-, mormorai, e lui mi abbracciò di nuovo.

Non opposi resistenza: il suo contatto mi faceva stare bene, non mi dava alcun fastidio.

-Di niente, piccola. E ricorda: se avrai bisogno di qualcuno con cui sfogarti potrai venire da me, saprò essere un ottimo ascoltatore e consolatore… se tu vorrai e me lo permetterai, ovviamente-.

Io lo guardai dapprima stupita, poi commossa, e infine grata.

-Certo-, risposi, annuendo.

Lui sorrise, e fu lo spettacolo più bello del mondo.

-Amici?-, chiese, porgendomi la mano.

Io la guardai come se fosse un insetto. Con un rapido gesto del braccio la scostai e strinsi forte Christian a me.

-Amici-, sussurrai.

 

Trascorsero all’incirca due settimane da quella “promessa”, e il nostro rapporto si consolidò sempre di più. Diventammo grandi amici, condividevamo tutto, e se avevamo bisogno di sfogarci trovavamo ognuno un punto di riferimento nell’altro. Con zia m’incontrai il giorno dopo, e confessò tutto.

-Di…dici sul serio?-, chiesi quando terminò di raccontarmi il suo piano per farmi incontrare con Christian.

Lei annuì.

Io non sapevo cosa dire: la guardavo stranita e basta.

Poi mi alzai.

Chiuse gli occhi, come se si aspettasse una mia sfuriata.

Una sfuriata che non arrivò mai.

Gridai di felicità e le saltai addosso; il mio fervore fu talmente grande che per poco non cadevamo dalla sedia.

-Grazie, zia, grazie!!-, esclamai, abbracciandola.

Lei rimase qualche secondo imbambolata, per poi iniziare a ridere come una matta e stringermi ancora più forte.

-Prego, piccolina-, rispose tra una risata e l’altra.

Mi staccai da lei e le porsi il mignolo.

Lei sorrise e lo strinse forte.

-Unite per sempre-, recitammo insieme, per poi scoppiare a ridere e saltare come due bambine sul letto di zia.

 

-Diane? È Christian!-, esclamò mia madre fuori la porta della mia stanza.

-Chi?-, chiesi, credendo di non aver sentito bene. Io e Christian non avevamo un appuntamento… o ricordavo male?

Mi alzai, ma prima che potessi toccare la maniglia, la porta si aprì.

Christian era davanti a me, e mamma lo guardava stupita da dietro.

Entrò senza tante cerimonie e si sedette sulla sedia di fronte la scrivania, per poi passarsi una mano fra i capelli.

-Non preoccuparti, mamma, va tutto bene, scendiamo tra un po’-, le dissi per rincuorarla e chiusi la porta.

Quando mi voltai, Christian ancora non aveva abbandonato la sua posizione.

-Cosa succede?-, gli chiesi.

Non c’era bisogno delle parole: quando c’era qualcosa che non andava lo intuivamo semplicemente dai nostri sguardi.

Lui alzò la testa e mi guardò a metà fra lo sconfitto e il timoroso.

-Io… io devo dirti una cosa, Diane…-, mormorò. –Una cosa… un po’ difficile da confessare… ma sento di potermi fidare di te, e… e ho deciso di dirtelo…-.

Mi avvicinai a lui e mi abbassai alla sua altezza.

-Dirmi cosa?-, chiesi.

Il suo sguardo divenne triste e sperduto. Assomigliava proprio ad un bambino… un bambino senza amore.

-Non so da dove cominciare…-, sospirò, afflitto.

Io sorrisi.

-L’inizio di tutto ti sembra troppo distante?-, chiesi e, presa una sedia, mi accomodai accanto a lui.

Lui abbassò il capo e sospirò.

 

Mi sentivo oppresso, per questo ero andato da lei. Lei doveva sapere la verità, lo meritava: mi era stata accanto nei momenti difficili, e ora mi toccava essere onesto in tutto e per tutto.

I suoi occhi vagavano preoccupati sul mio volto mentre tentavo di trovare le parole giuste. Le sue iridi mi risucchiavano in un vortice di emozioni che, per la prima volta nella mia maledetta vita, sentivo totalmente mie. Dovevo avere un aspetto orribile, perché la sua espressione era davvero preoccupata. Non potevo lasciarla in quello stato penoso, era arrivato il momento allo stesso tempo tanto temuto e tanto agognato. Ma il mio cervello era confuso, i miei nervi non riuscivano a collegarlo con la bocca per farle pronunciare quelle parole che premevano sul cuore da troppo tempo… e se mi avesse giudicato? Se la nostra amicizia sarebbe terminata?

Oh, ti prego, smettila di fare il melodrammatico e parla, idiota!

“Non ci riesco, merda, non ci riesco!”,.

Mi lasciai sfuggire un gemito, e lei mi carezzò un braccio.

-Calmati, non preoccuparti. Ci sono io qui…-, mormorò.

Rabbrividii, ma non seppi mai il perché:

Il contatto con la sua pelle era un toccasana per la mia agitazione: rasserenava i miei nervi e infondeva una pace in me mai provata prima.

“Forza, Christian…”, mi dissi. “Fidati di lei”.

Annuii mentalmente e presi un bel respiro.

-Quando ti vidi per la prima volta…-, cominciai, pensando che se proprio dovevo partire dall’inizio, allora il nostro incontro quel lontano pomeriggio di settembre era il momento ideale. –Beh, a parte il tuo look così simile al mio, ci fu qualcos’altro di te a colpirmi, e a farmi capire che non eri come le altre che avevo conosciuto fino ad allora-.

Alzai il capo e incontrai il suo sguardo curioso.

-I tuoi occhi-, continuai. –Così puri e cristallini da far vedere tutto ciò che hai dentro, con quel colore che li fa assomigliare a smeraldi incastonati nel tuo volto…-.

Lei arrossì, ma non disse nulla. Interpretai quel silenzio come un incoraggiamento, e continuai:

-Ogni tua parola, ogni tuo gesto erano testimoni della tua gentilezza e della bontà d’animo… non credo di aver mai visto una ragazza buona come te prima d’ora… a parte Karol… ma questo non c’entra…-.

Sospirai per l’ennesima volta e ripresi il racconto.

-È stato tutto questo a farmi capire che di te posso fidarmi… ed eccomi qui. Pronto a smascherarmi di fronte a te, Diane: l’unica che ha capito fin da subito quello che provavo. Ecco perché sono qui-.

Terminai quella prefazione tanto sofferta, e controllai se nelle sue iridi meravigliose c’era un minimo di turbamento o paura, o comunque qualche altra emozione che avrebbe potuto farmi cambiare idea all’istante e uscire da quella stanza. Solo pazienza e affetto. E dolcezza. Solo lei poteva avere uno sguardo così…

-Anch’io sono diverso, Diane. Ma in senso negativo… diverso dagli altri, eppure così simile al mio modello di vita… è difficile da spiegare… siamo accomunati dallo stesso destino, eppure c’è un baratro incolmabile che ci divide, e che mi fa sentire totalmente differente da lui…-.

Lei parve riflettere un attimo.

-Parli di Michael?-, chiese.

Io annuii, e la sua espressione divenne seriamente preoccupata. Forse dovevo smetterla di farla stare sulle spine.

-Dopo questa conversazione sarai libera di scegliere se continuare ad essere o meno mia amica, io non ti costringerò in nessun caso…-, le annunciai.

I suoi occhi divennero un mare di tristezza.

-Io non ti lascerò mai solo…-, mormorò, accorata e leggermente triste.

Io strinsi i denti. Sentirla dire quelle cose mi faceva male: non avevo alcun diritto di farla soffrire, non l’avrei mai avuto.

Mi alzai improvvisamente, stupendo ancor di più Diane.

-È arrivato il momento della verità. Ho deciso di aprirmi a te in tutto e per tutto, perché sei stata l’unica amica a non avermi giudicato… spero che tu continuerai a non farlo anche ora-, dissi.

Mi avvicinai a lei. La guardavo come per verificare il suo tasso di affabilità, ma lei non faceva una piega al mio sguardo: era pronta.

Alzai un braccio e mi tolsi i guanti e i cerottini alle dita. Alzai le maniche della camicia mostrandole la mia pelle.

La vidi ritrarsi e sgranare gli occhi.

-Capisci ora perché dico di avere il suo stesso destino?-, le chiesi, mentre inspirava profondamente alla vista delle macchie bianche sulla mia cute.

Quando aprì bocca, ne uscì solo una parola:

 

-Vitiligine-.

 

Io annuii.

-Esatto. Soffro della stessa malattia di Michael Jackson. Solo che lui si è potuto fare bianco per nasconderla… io non posso. Lui è amato da milioni di persone in tutto il mondo… io no. Lui è un angelo sceso dal cielo… io invece solo un mostro orribile. E i mostri sono continuamente tagliati fuori dagli altri. Scusami tanto per averti trascinata nel mare dei miei guai, Diane, ma d’ora in poi sarà diverso. Non ti darò più fastidio, né ti costringerò a fingere con me: ti provoco solo ribrezzo, e ne sono cosciente. Perdona il mio egoismo: ho sempre desiderato che tu mi vedessi in un’altra ottica, ma ora che sai la verità nulla sarà più come prima. Non voglio essere guardato ogni maledetto giorno della mia esistenza con pena e compassione. Io non ho bisogno di questo, né tanto meno voglio che tu mi guardi in tal modo. Quindi è meglio se me ne vado… per sempre. Addio, Diane-.

Ecco, l’avevo detto. Mi stavo lasciando alle spalle l’unica persona con cui non serviva mentire. Mi sentivo una merda, ma era la cosa più giusta da fare. Non avevo alcun diritto su di lei, non potevo costringerla a far parte di una vita dolorosa che non le apparteneva. E il distacco era l’unico modo per non farla soffrire. Un’occasione sprecata? Forse. La cosa più giusta? Ovviamente.

Ne sei sicuro?

La voce mi prese alla sprovvista, e inizialmente non feci caso a quello che mi accadeva intorno.

Fu solo dopo pochi secondi che mi accorsi di una figura di fronte a me.

E, prima che potessi metterla a fuoco, prima che avessi il tempo di reagire, sentii un dolore allucinante alla guancia sinistra. Mi ritrassi di colpo e mi portai una mano al viso dolorante.

Un misto di emozioni mi pervasero tutta una volta: tristezza, rabbia, rancore, malinconia, dispiacere… emozioni negative, come sempre. Emozioni che vennero annullate subito dopo, quando sentii una stretta calda che copriva tutto il mio corpo.

-Come puoi dire una cosa del genere, eh?-, esclamò Diane, e mi accorsi con rimpianto che piangeva. -Come puoi minimamente pensare che io non ti voglia accanto a me? Quando ho saputo della malattia di Michael non ho smesso di amarlo, eppure non l’ho mai conosciuto in vita mia. E adesso, solo perché tu, il mio migliore amico, hai lo stesso suo problema… io devo denigrarti? Ma stiamo scherzando! Per chi mi hai presa? Io non ho mai lasciato solo nessuno, neanche quelli che non meritavano la mia amicizia, e dovrei abbandonarti al tuo destino come i cani si abbandonano lungi i cigli delle strade? Mai, Christian, mai. E non m’importa se tu non mi vuoi accanto, io per te ci sarò sempre, perché…-.

Alzò la testa e mi guardò.

I suoi occhi gridavano muti una richiesta che non potevo rifiutare in alcun modo.

E fu allora che capii cosa fare.

Asciugai tutte le sue lacrime, per poi spostare la mia mano di lato, accarezzandole la parte sinistra del collo. Lei capì cosa stavo per attuare, ma non si ritrasse. Anzi, vedevo i suoi occhi indugiare sul mio volto e, per ultimo, sulla mia bocca. Abbassai leggermente il capo, annullando definitivamente la distanza fra noi.

Fu così che le nostre labbra s’incontrarono per la prima volta.

Non ci furono dubbi, né tentennamenti: entrambi sapevamo come comportarci, anche se non ci era mai capitato nulla di simile prima. Sentivo le sue braccia attorno al collo e la sua stretta che ogni secondo si faceva più intensa. Con una mano le sostenevo la nuca e con l’altra percorrevo il profilo della sua schiena.

Quando ci staccammo avevamo entrambi il fiatone.

Sorridemmo, felici di aver trovato quella cosa che cercavamo da una vita intera.

-Perché?-, chiesi io, ansioso di scoprire il continuo del suo discorso.

 

Non potevo negare la verità.

Dopo tutto quel tempo trascorso a nasconderla e a mentire a me stessa, era ormai arrivato il momento. Lui era stato onesto con me, ora dovevo ripagare.

Desideravo solo stare con lui, nient’altro. Desideravo vedere il suo sorriso che irradiava le mie giornate e mi metteva allegria, desideravo…

-Perché ti amo-, risposi.

Lui sorrise dolce e raggiante al tempo stesso.

-Anch’io-, disse, e poggiò di nuovo le sue labbra morbide e delicate sulle mie.

Desideravo amarlo, e l’avrei fatto.

Ora sapevo che non potevo più tornare indietro.

Oramai quel piccolo frammento di vita vissuto fino ad allora stava per cambiare. Ed era tutto merito di un bacio.

 

 

 

 

Note dell’autrice

Salve a tutti!!!! Ed eccoci alla fine di un altro capitolo (Finalmente! Ci voleva tanto a postare??? N.d.Tutti)

Avete ragione, sono stata davvero cattiva, ho proprio la cazzimma! (Vero, Ambra?? XD!) Cazzimma è un termine prettamente napoletano… cosa significa? Non ve lo voglio dire! Questa è la cazzimma!!!! XDDDDDDDDD!!!!

Vabbè, a parte questo… spero che il continuo del chappy vi sia piaciuto e che non vi abbia deluse… ho cercato di farlo quanto più realistico possibile… ma alla fine la romanticona che è in me ha avuto il sopravvento… ^^

Un grazie speciale a tutte voi che continuate a seguirmi e a darmi sostegno in questa ff… non sapete quanto mi faccia piacere leggere tutti i commenti positivi sulla mia storia... davvero, mi danno la carica per scrivere ancora di più e sempre meglio… spero che il mio intento di non annoiarvi sia riuscito…^^

Ora non ho tempo di rispondere a tutte voi, ma sappiate che vi voglio un bene nell’anima e che vi ringrazio ad una ad una, tutte… ah, se qualcuno di voi ha notato che non recensisco più storie… non temete, non ho abbandonato le vostre ff spettacolari (sì, mi riferisco a voi, eclipsenow e Angel_Silver J): semplicemente non ho avuto proprio tempo di farvi sapere la mia opinione… ah, comunque ritengo fantastiche entrambe le vostre storie, ma credo che voi già lo sappiate^^

Inoltre ringrazio infinitamente il grande, fantastico, unico e meraviglioso William Shakespeare, con la cui meravigliosa opera “Romeo e Giulietta” mi ha fornito la giusta ispirazione per questi due chappythank you!!!!

Solo un’ultima cosa prima di lasciarvi: beh… non ammazzatemi, ma… la ff sta per giungere al termine.

Eh, sì, mi dispiace… ma purtroppo… comunque non temete, ci saranno altri due capitoli denominati “Beat It” (in cui descrivo la splendida giornata del Falsh Mob a Napoli il 4 ottobre, al quale io ho avuto l’onore dio partecipare e ballare per Michael… ç.ç) e “When everything ch’ange” (di cui, purtroppo, non posso anticiparvi nulla…); seguirà una breve traccia bonus ancora senza titolo e infine l’epilogo, in cui vedremo il gran finale così come l’abbiamo sempre immaginato… poi capirete… cavolo, quanto sono sibillina stasera!!!!

Ancora un grazie a tutti, a chi mi ha aggiunto fra i preferiti, chi fra le seguite, chi ha recensito e chi ha letto e basta… grazie ancora a tutte per il vostro supporto, non so proprio come ringraziarvi!!! ç.ç

Che Michael sia con voi!!!! ^^

Un beso, Bad_Mikey!!!!!

 

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Capitolo 7
*** When everything change ***


A dimostrazione del fatto che non posso permettermi di anticipare capitoli ancora non iniziati … beh, mi dispiace moltissimo, ma non sono riuscita a scrivere “Beat It” T_T

A dimostrazione del fatto che non posso permettermi di anticipare capitoli ancora non iniziati … beh, mi dispiace moltissimo, ma non sono riuscita a scrivere “Beat It” T_T

Quindi, vi lascio con il terz’ultimo capitolo di questa raccolta… sperando che sia di vostro gradimento… e che non offenderò nessuno né tanto meno infangherò i ricordi di Michael ^_^’

PS: la prima parte dell’avviso messo all’inizio di questa ff (quello scritto in rosso che diceva: “Ogni riferimento a fatti, cose e persone è puramente casuale”)… beh, non vale più. In questo racconto mi accingerò a scrivere un evento che – per l’immensa felicità di Michael – è accaduto realmente… la seconda parte però vale ancora:

QUESTA FF NON È A SCOPI DI LUCRO!!!!

PS2: Vi consiglio, mentre leggete, di ascoltare “I’ll be there” dei Jackson 5 o “You are my life”, o “Speechless”… sono queste le canzoni che mi hanno ispirata maggiormente… ma potete scegliere

comunque una canzone che abbia lo stesso ritmo calmo e morbido, anche non di Michael^^

Bene, detto questo… enjoy the chapter!!! J

 

 

7. WHEN EVERYTHING CHANGE

 

 

 

13 Febbraio 1997, Beverly Hills, California

 

 

 

Le pareti bianche dell’ospedale correvano veloci mentre sfrecciavo alacre nel corridoio, con il cuore in gola. Alle narici mi arrivava il classico tanfo di medicinali e strumenti antisettici; per via delle mie numerose visite mediche conoscevo ormai ogni minima sfaccettatura di quei lezzi… eppure ogni volta ne ero disgustato a tal punto da provocarmi – a volte – dei conati di vomito. Quel giorno, per mia fortuna, ero troppo preoccupato per farmi venire qualcosa. Non ero più io il protagonista: ne era un altro. Anzi, un’altra. La protagonista della mia vita.

-Signor Jackson!-.

Una voce maschile mi fece miracolosamente fermare e voltare. Davanti a me c’era il volto del dottor Evan Miller: era lui che mi aveva chiamato.

-Dov’è?-, chiesi.

-Di là-, rispose, indicando il corridoio alla mia sinistra.

Io annuii e imboccai quella strada correndo.

Non sentivo nulla dall’esterno: l’unico rumore che mi arrivava nelle orecchie era il battito accelerato del mio cuore e del respiro affannoso.

Cavolo, cavolo, cavolo, cavolo… fa’ che sia arrivato in tempo, fa’ che non sia successo nulla di brutto… cavolo, cavolo…

Poi davanti a me comparve una porta.

E da dove era sbucata?

Ma che te ne? Va’, entra!

Quella preziosa vocina nella mia testa… quanto la adoravo…

Gli occhi mi luccicarono quando mi ritrovai ad un passo dalla maniglia…

-Fermo!-, esclamò una voce riportandomi brutalmente nella realtà dal fantastico mondo dei sogni in cui mi ero rintanato… come al solito.

Mi voltai stralunato con la mano a mezz’aria che non attendeva altro che sentire il contatto del ferro freddo su di essa.

-Cosa c’è?-, chiesi al dottor Miller con un tono che rasentava la maleducazione.

-Deve indossare i guanti, la mascherina e il camice per poter entrare, signor Jackson-, mi ricordò con tono paziente.

Impiegai qualche secondo prima di registrare la frase.

Accidenti!

-Ha ragione, mi scusi…-, mormorai, ad un passo dal prendermi a schiaffi se non l’avesse fatto lui.

-Non importa-, mi rassicurò lui con un sorriso, che ricambiai dopo qualche secondo.

Mi disinfettai le mani e indossai tutto il necessario per entrare in sala operatoria.

-Pronto?-, mi chiese quando ebbi finito.

Mi si chiuse lo stomaco.

-Non lo so… lo spero-, ammisi, affranto.

Lui sorrise comprensivo.

-È la prima volta, vero?-, mi chiese.

Io annuii mordendomi il labbro inferiore.

Lui mi carezzò il braccio con la mano.

-Non si preoccupi: andrà tutto bene-.

Il contatto della sua mano e la frase che seguì servirono – anche se minimamente – a farmi rilassare.

-Speriamo…-.

Lui mi sorrise ancora una volta e mi fece un cenno con la mano: potevo entrare.

Io spostai lo sguardo da lui alla porta.

Sospirai.

Poi annuii.

Ci siamo, Michael. Fatti valere.

Abbassai la maniglia ed entrai.

La visuale che mi si presentò davanti agli occhi mi tolse il fiato.

Al centro della stanza c’era un letto… o almeno, mi sembrava tale da quel poco che s’intravedeva: era circondato da luci e da macchinari. Intorno ad esso, inoltre, vi erano alcuni infermieri e una dottoressa, affannati attorno ad una strana ed alta figura coperta da un telo, anch’esso bianco come tutto il resto. Mi guardai attorno, stordito. Che diavolo ci facevo lì?

-Signor Jackson!-.

Per la terza volta durante quella giornata cascai dalle nuvole udendo il mio nome.

Mi voltai con lo sguardo sperduto e intravidi tra la confusione della mia mente un’infermiera che mi veniva incontro.

-Finalmente è arrivato! Non faceva altro che chiedere di lei-, esclamò, trascinandomi di peso verso il letto.

Su di esso era distesa una donna dai capelli biondi, sudata e ansimante, coi capelli appiccicati sulla fronte e il volto contratto in una smorfia di dolore. La guardai per qualche secondo, prima che si accorgesse di me.

-Michael…-, sussurrò Debbie, mia moglie e fra poco futura madre del mio primo figlio.

 

-Ci siamo quasi, forza!-.

Le stringevo la mano convulsamente, tentando di infonderle coraggio. Avevo paura, ma ero anche eccitato: finalmente diventavo padre, il mio sogno stava per avverarsi.

Debbie era stremata, urlava e si contorceva come se la stessero crocifiggendo. Il suo dolore fu una fitta al petto: la vedevo patire e mi chiesi che cosa avesse fatto di male per meritarsi tutta quella sofferenza. E, per giunta, era colpa mia.

Maledizione, Michael, non farti venire questi assurdi pensieri in mente! Ne avete parlato molto, ne avete discusso, entrambi sapevate a cosa andavate incontro con questa scelta, soprattutto lei: non rovinare questo attimo.

Annuii mentalmente. “Voce, quanto ti adoro!”, pensai.

Mi feci coraggio e provai a destarlo anche in mia moglie.

-Dai, Debbie, non mollare, forza! Ci sono io qui con te, te lo giuro, sarò sempre accanto a te, non ti lascerò mai... tu non sarai mai da sola…-.

Debbie emise un gemito.

-Sì, lo so… ma dovevi proprio parlare di quella canzone?!-, esclamò fra un affanno e un altro.

La fissai allibito.

-Perché? Non ti piace “You are not alone”?-, chiesi, triste e spaesato.

Lei emise un altro urlo ed io le strinsi la mano ancora più forte.

-No, per niente!-, esclamò.

-E perché?-, replicai, offeso.

La stretta era così forte che per poco le sue unghie non mi facevano sanguinare. Inspirai profondamente per il dolore, ma non fiatai

-Perché nel video stavi con la tua ex-moglie!-, sbottò, per poi lasciarsi scappare un altro urlo.

Anche quella volta mi trattenei dal non prendermi a schiaffi.

Che idiota…

Mi abbassai all’altezza del suo volto e dissi: -Ma ora ci sei tu, non pensare a Lisa, stai per fare una cosa che lei non ha mai fatto: darmi un figlio… il regalo più bello che una donna possa dare all’uomo che ama. Adesso concentrati e impiega tutte le tue forze per far nascere il nostro piccolo, ok? Sei una super-mamma, lo sarai sempre ed oggi è venuto il momento di dimostrarlo. Forza, Debbie, continua così, ti amo!-.

Lei annuì, rossa in viso.

-Anch’io ti amo-, rispose.

-Spingi, Debbie, spingi!-, ripeteva Honey, un’infermiera sua amica.

Lei obbedì.

-No… non ci siamo, Debbie, non ci siamo! Dai, più forte! Il bimbo vuole nascere!-, la incitava Honey.

-Ci sto provando!-, replicò lei con voce stremata.

Io entrai nel panico.

Perché ci metteva così tanto, eh? Perché?

Oh, Signore”, pensai, “ti prego, fa’ che nasca, ti prego, fa’ che se la cavi… che se la cavino entrambi… farò qualunque cosa… qualsiasi… ma, ti scongiuro: fallo nascere!”.

Pregavo, pregavo per trovare un aiuto, pregavo guardando il crocifisso appeso al muro di fronte a me. Sapevo che mi stava ascoltando, me lo sentivo…

Ti prego!”.

Il problema era se avesse risposto…

Ti prego…

Guardavo mia moglie soffrire e urlare…

Farò qualsiasi cosa…”.

-Debbie, non mollare… ce la farai, basta che spingi più forte… ti prego, Debbie…-, le mormorai.

Lei reclinò la testa all’indietro digrignando i denti.

-Ci sto provando…-, ripeté.

-Brava, ma non è abbastanza. Più forte, tesoro, più forte-.

Lei strinse le labbra come se trattenesse qualcosa che voleva ma non poteva dire. Evidentemente la sua forza di volontà vacillò all’ultimo.

-Merda, lo sto facendo!-, urlò, e spinse.

Quella frase fu cruciale.

-Lo vedo! Lo vedo! Vedo i capelli!-, esclamò l’infermiera.

Io mi bloccai.

E sorrisi.

Oh, Dio, grazie! Grazie!”.

-Hai sentito, amore?-, le chiesi, -Hai sentito? Sta per uscire! Capisci? Sta per nascere! Però non ce la può fare senza il tuo aiuto: continua a spingere, ti prego, continua!-.

Lei annuì seguitando a gridare.

-Bravissima Debbie, così!-, esclamò Honey. –Eccolo!-.

Il mio cuore si fermò.

Per un attimo dimenticai che stavo vicino a mia moglie e feci un passo avanti, alla mia destra, verso l’infermiera. La mano di Debbie scivolò facilmente dalla mia presa. Mi resi conto della stranezza della situazione e mi voltai, guardandola interrogativo.

-Non preoccuparti per me-, rispose decifrando subito la mia espressione e cancellando via tutti i dubbi.

Un passo.

Due passi.

Tre passi.

Ed eccomi, accanto ad Honey.

Per un attimo rimasi sconvolto da quella vista.

L’apertura era ingrossata a dismisura e ricoperta di sangue scarlatto. Tutta quella quantità di rosso mi provocò delle leggere vertigini, seppure per un attimo.

No, Michael, non farti venire niente, ti prego.

Chiusi gli occhi e inspirai profondamente. Quando ebbi acquistato coraggio li aprii.

Guardai nuovamente.

Vidi della paglia.

Feci una smorfia.

Paglia?!

Guardai meglio.

Non era paglia.

Sussultai.

Erano capelli.

I capelli di mio figlio.

La prima cosa che vidi.

-Vai, Debbie, un’ultima spinta!-.

Fuoriuscì la fronte.

Forza, Debbie.

Ed eccola la testa.

Era enorme, come quella di mio nonno e di mio fratello Randy.

-Oh mio Dio…-, mormorai, vedendola.

-Bravissima, Debbie!-, esclamò Honey. -Michael? È il tuo turno-, mi chiamò.

-Eh?-, domandai, cascando dalle nuvole.

-È il tuo turno-, ripeté.

La guardai stranito per qualche secondo prima di capire le sue parole.

Sorrisi e mi avvicinai al bambino.

Piano, con delicatezza, lo afferrai nei punti indicatimi da Honey.

-Qui. Bravo, così. Piano… lascialo scivolare…-, diceva lei, guidandomi.

Io ero ansiosissimo, ma tentavo di mostrare quanto più coraggio e sangue freddo possibile.

Lentamente lo feci sgusciare fuori e, con un ultimo sforzo, lo strappai definitivamente dall’interiorità della madre per portarlo in vita.

Guardai quella sagomina che avevo appena estratto.

Era sporco e pieno di sangue, uno spettacolo che metteva i brividi.

Ma a me parve la cosa più bella del mondo.

Furono emozioni indescrivibili quelle che provai in quel momento. Neanche esibirsi in concerto può essere paragonabile alle mille emozioni che pervadevano il mio cuore.

Fu un rumore a farmi capire che ce l’avevo fatta.

Quell’unico, strano rumore.

O meglio, strana fu la mia reazione ad esso.

Mi era familiare, eppure mai come quella volta il pianto di un neonato mi scosse così profondamente e mi allargò il cuore come nessun altro bambino avesse mai fatto prima.

-Eccolo-, disse Honey. -Michael, vuoi tagliare il cordone ombelicale?-.

Guardai l’infermiera.

Sorrisi.

-Sì-, risposi. –Grazie-, continuai, con tono riconoscente.

Prese il piccolo e mi porse una forbice dalla foggia ambigua.

La guardai meglio, e scoppiai a ridere.

Era a forma di cicogna.

Misi il pollice e l’indice nei due buchi e mi avvicinai al piccolino.

Il cordone era di un rosso scuro, e c’erano anche alcune linee bianche e nere. Appoggiai l’utensile su di esso e lo chiusi con un gesto secco.

-Fatto-, annunciai, commosso.

L’infermiera avvolse il piccolo in un panno, per poi venire verso di me.

Credevo che stesse per darmelo in braccio, ma passò oltre, dirigendosi verso Debbie.

Glielo mostrò e fece per passarglielo.

-No-, disse lei.

La guardai allibito, e Honey mi imitò.

-Dallo a Michael-, continuò.

Trattenei il respiro e guardai dapprima Debbie, che aveva uno sguardo sicuro, poi Honey, nelle cui iridi c’erano dipinti solo stupore e smarrimento.

Allungai le braccia verso quel fagotto e Honey capì.

I’ll reach out my hand to you…

Venne verso di me, e pochi secondi dopo mi porgeva il piccolo.

I’ll have faith in all you do…

Era un batuffolo di seta sporco e piangente quello che stringevo forte al mio petto, incurante del fatto che potesse sporcarmi i vestiti.

Lo guardai negli occhi.

Erano impiastricciati, ma potevo vedere il loro colore: un azzurro chiaro e intenso.

Gli occhi di mio figlio, il mio piccolo fagottino morbidone.

-Come lo chiamate?-, chiese Honey mentre stringevo la mano del piccolo nella mia.

-Per me è uguale, decide Michael-, rispose Debbie,

Io la guardai allibito, felice e riconoscente.

-Davvero?-, mormorai, con la voce incrinata.

Lei annuì sorridendo, le occhiaie in bella mostra.

Tornai a guardare il fagottino.

-Il figlio del Re del Pop deve avere un nome degno di un principe-, iniziai io.

Gli accarezzai dolcemente quell’ammasso di sangue, acqua e paglia che erano i suoi capelli.

-Prince-, dissi. -Prince Michael Jackson-, aggiunsi.

Le due donne sorrisero.

-Un po’ troppo da principe, ma… sì, direi che va bene-, giudicò Honey.

-Il nome di tuo nonno materno…-, sussurrò Debbie.

Io la guardai sorridente e annuii.

-Aspetta, vediamo se gli piace-.

Guardai quel fagottino che piangeva ancora e lo chiamai: -Prince? Prince Michael Jackson, ti piace? Little Prince, Piccolo Principe, Piccolo Prince. Come ti sembra?-.

Mi guardò per un attimo e smise di piangere.

Just call my name and I’ll be there…

Sorrisi e una lacrima di gioia solcò la mia guancia.

Lo alzai e lo mostrai all’infermiera e a mia moglie, attento a non fargli del male.

-Prince Michael Jackson. Mio figlio-, decretai, raggiante.

 

Eravamo soli io e Debbie, nella sala.

Gli infermieri erano andati tutti a lavare Prince e il dottore invece doveva fare alcuni accertamenti.

Le asciugavo il sudore sulla fronte e la sistemavo.

-Grazie…-.

Mi guardò.

Le sorrisi, e lei fece lo stesso.

-Grazie per avermi dato un figlio… grazie per aver esaudito il mio più grande desiderio… grazie, Debbie-, mormorai.

Lei si alzò un po’ e mi carezzò la guancia sinistra.

Le presi la mano tra la mia e le baciai le dita; lei mi carezzò le labbra.

-Sapevo che lo desideravi da tempo, per questo l’ho fatto. Non ringraziarmi: il mio è un segno d’affetto-.

Io annuii.

-Posso portarlo a casa?-, domandai.

-Se è quello che desideri…-, rispose, scrollando le spalle.

Le sorrisi.

-Ti ringrazio-.

Honey entrò disparata bloccando quel momento di puro idillio. Si fermò accanto al letto guardandoci in modo grave.

-Che succede?-, le domandai.

Lei mi guardò tentando di mascherare – inutilmente – la sua preoccupazione.

-Beh… ecco… c’è… c’è un problema-, balbettò.

-Che tipo di problema?-, domandai, ansioso.

-Si tratta di Prince… non respira bene-, disse infine.

Io e Debbie ci guardammo angosciati.

-Dobbiamo portarlo urgentemente in terapia intensiva, oppure…-.

-Oppure?-, la spronai, nervoso.

Lei mi guardò afflitta.

-Oppure potrebbe non farcela-.

Quella frase mi colpì il cuore come una freccia.

No… no, ti prego, no…

-N… no… no… NO! Lui… lui… è appena nato… non può, non può… no…-, balbettavo, confuso e incredulo.

Mi alzai improvvisamente e raggiunsi correndo Honey.

-Voglio vederlo!-, esclamai.

-Non puoi, Michael, lo sai-.

-Non m’importa, voglio vederlo. Adesso!-.

-Michael, smettila di fare il bambino! Ora sei padre, tu devi accudire tuo figlio, non il contrario, chiaro?-.

Rimasi imbambolato a fissarla.

Quella frase mi aveva trafitto il petto come un dardo facendomi mancare il respiro. Iniziai a ricredermi seriamente sulle mie capacità di essere un genitore responsabile.

Il fatto che fosse stata Honey a pronunciare quelle parole mi stupì più del loro reale significato: eravamo amici, ci conoscevamo da tempo… per aver detto quelle cose avevo proprio esagerato. Aveva ragione, aveva completamente ragione.

Abbassai lo sguardo e mi morsi il labbro inferiore.

-Scusa…-, mormorai. -È che…-,

-No, Michael, scusami tu. Non avevo il diritto di dirti quelle cose. Siamo tutti nervosi, è normale. L’unica cosa da fare è aspettare e sperare in un miracolo-, disse lei.

Io annuii.

-Ora però non puoi restare qui: Debbie deve essere lavata-.

Mi voltai verso mia moglie, e mi accorsi che aveva gli occhi lucidi.

Le andai vicino e le carezzai i capelli, mentre asciugavo una lacrima sul suo volto.

-Andrà tutto bene, non temere-, la rassicurai.

Uscii fuori guardandola per un’ultima volta e mandandole un piccolo bacio con la mano. Mi diressi verso l’ufficio del dottor Miller, l’unico posto in cui non potevo essere disturbato: quei maledetti paparazzi erano riusciti quasi ad arrivare nella sala d’attesa. Fortunatamente, c’erano le forze dell’ordine e le guardie del corpo che erano riusciti a frenare la loro corsa prima che raggiungessero la saletta dove era ricoverata Debbie… ma per cautela gli addetti alla sicurezza mi avevano evitato di poter scorrazzare libero per l’ospedale, scusandosi ripetutamente per l’inconveniente e promettendomi che in futuro non ci saranno di questi problemi. Io potevo solo obbedire.

Alla faccia del Re del Pop…

Entrai nella stanza del dottore col cuore in gola come se stessi penetrando in un appartamento per derubare. Mi guardai attorno per accertarmi che non ci fosse nessuno; la stanza era gremita di libri di medicina: ce n’erano sugli scaffali, sulla scrivania di fronte a me, su una specie di mobiletto grigio chiaro e uno perfino sul davanzale della finestra che dava sul giardino nel retro.

Mi avvicinai ad essa e mi affacciai.

Il vento sottile scuoteva le fronde del salice.

Il salice…

Associato al mito lunare perché prediligono l’acqua, nel calendario celtico il Salice era il quinto mese, corrispondente a quello della grande madre… il salice è il simbolo della terra… dei fiori… della nascita…

Chiusi gli occhi.

Di fronte a me vedevo l’ombra delle foglie dell’albero che si muovevano a ritmo del vento…

Ascoltami…

…il loro fruscio…

Ascoltami…

Non so quanto tempo trascorsi in quella posizione. Ero così sereno…

Aprii di scatto gli occhi e mi precipitai fuori dalla stanza.

Sul mio tragitto non incontrai nessuno, e quei pochi che c’erano erano tutti impegnati nei loro affari per badare a me.

Raggiunsi l’uscita secondaria in poco tempo e mi trovai nel giardino.

Di fronte a me si ergeva in tutta la sua maestosità quel salice meraviglioso. Era forte e imponente, sebbene la sua chioma si abbassasse verso il suolo a mo’ di lacrime che scendono dagli occhi.

Mi ricordava molto il Colosseo, che vidi per la prima volta quasi dieci anni prima.

Lo guardai per non so quanto tempo, rapito dalla sua bellezza.

Lo contemplai rapito, incurante dello scrosciare di ogni minuto, di ogni secondo… ricordo solo che mi avvicinai lentamente ad esso con fare timoroso e posai delicatamente una mano sulla sua dura corteccia. Chinai il capo in segno di rispetto e sottomissione e toccai il tronco ruvido con la mia fronte.

Rimasi in quella posizione per un periodo di tempo indeterminato, per poi alzare lo sguardo.

Fa’ che viva…

Il vento mi carezzava il volto e mi faceva giungere alle orecchie lo splendido suono della voce del salice…

era calda…

serena…

rassicurante…

-Signor Jackson!-.

Può una semplice frase portarti via da uno stato di pura estasi quale quello che avevo vissuto fino a quel momento?

Sì, può.

Lo aveva appena fatto.

Mi voltai lentamente e mi ritrovai naso a naso con il dottor Miller.

-Le avevamo detto di non uscire!-, esclamò.

Sorrisi mesto.

-Lo so… ma ho visto questo splendido albero e non ho potuto fare a meno di recarmi qui… è un salice stupendo…-, mormorai con aria sognante girandomi a guardare l’oggetto dei miei miraggi.

Lui mi guardò attonito.

-Beh, ehm… sì, lo è… oh, ma che sto dicendo?!-, balbettò confuso. –Signor Jackson-, ripeté con tono perentorio, costringendomi – mio malgrado – a far incrociare le nostre iridi.

-Devo darle una notizia…-, continuò.

In un attimo ricordai perché mi ero recato nel giardino, il motivo alla mia preghiera silenziosa a quella maestosità che si ergeva alle mie spalle, il mio affanno e le mie preoccupazioni.

Il mio cuore fu di nuovo oppresso dall’ansia, crudele assassina della mia serenità.

-Suo figlio Prince…-.

Dimmi che è vivo… dimmi che ce l’ha fatta… ti prego…

-…può respirare. Sta bene. Ora si trova con la madre-, disse lui con un sorriso.

Senza parole, senza parole: ecco come mi fai sentire…

Ecco come mi sono sentito.

Senza parole.

Sorrisi e mi voltai verso il salice.

“Grazie…”, pensai.

Abbassai il capo e lasciai che una piccola lacrima solcasse la mia guancia.

-Wooo!-, urlai, per poi iniziare a correre per il giardino verso l’ospedale.

Mia moglie mi stava aspettando.

E con lei c’era mio figlio.

 

Il piccolo piangeva.

-No, Prince, per favore, non piangere…-, lo pregavo.

Ma non mi sentiva.

Eppure era strano: gli avevo dato da mangiare, l’avevo cambiato, avevo tentato di farlo addormentare, ma non voleva… che diavolo dovevo fare di più?

-Prince? Dai, smettila, principino… non piangere… dai, poi fai piangere anche me… e non vuoi che il tuo bel paparino pianga, vero?-.

Ma secondo te ti capisce? E poi “bel paparino”… mio Dio…

-Vedi? Mi hai fatto piangere, visto? Buaa!!-, esclamai, fingendo di piangere.

Ecco, ora stai dando i numeri.

Sbuffai.

“Colui che sa incantare milioni di persone nel mondo non riesce a far smettere di piangere suo figlio di tre mesi… il colmo…”, pensai.

Poi mi balenò un’idea in mente.

Era una follia, e avrei potuto passare per ridicolo, ma… insomma, ma chi mi vedeva? Stavo a casa mia, giusto? No paparazzi a Neverland. Assolutamente.

-Prince! Mio principe! Guarda papà che ti fa!-, esclamai.

Poggiai il piccolo nel sediolone e misi un CD nello stereo.

Mi piazzai di fronte a lui.

Dopo qualche secondo mostravo i miei famosissimi passi di danza a mio figlio sulle note di “Thriller”.

Fu questione di poco tempo.

Prince smise di piangere.

“Ci sono riuscito!”, esultai.

Dalla gioia feci una piroetta velocissima, mi gettai a terra e alzai le braccia verso il cielo gridando: “Aaow!”.

Un rumore caldo e rassicurante arrivò alle mie orecchie.

La risata di Prince.

Prince rideva.

Il mio piccolino rideva.

Rideva perché mi aveva visto ballare.

Rideva perché aveva visto il suo bel paparino ballare.

Rideva per me.

Lo guardai stralunato.

Mi alzai e andai verso di lui.

Aveva smesso di ridere e mi guardava sognante, aspettando la prossima coreografia.

Non poteva aver riso…

No, aspetta, adesso devo controllare…

Feci una mossa strana con le spalle e la testa.

Sentii ancora quel rumore.

Guardai Prince e vidi le sue gengive.

Rideva.

Stava ridendo.

Avevo fatto ridere tanti bambini nella mia vita, ma… no, quello che provai in quel momento fu indescrivibile. Impossibile da spiegare.

Insomma, mio figlio rideva! Rideva!

Il mio principino rideva… e lo faceva solo per me.

Solo per suo padre.

 

Ricordava quando il padre gli raccontò di quel giorno… i suoi occhi brillavano e la bocca era spesso propensa a tendersi in un dolce sorriso che riscaldava i cuori… un sorriso che non avrebbe mai più rivisto…

-Addio, papà-, mormorò Prince guardando per l’ultima volta quella bara dorata.

 

 

 

 

 

 

3 Aprile 1998, Los Angeles, California

 

 

 

Un cielo terso e un sole splendente, prati verdi e fiori dai mille colori, ruscelli e fiumi con tanti piccoli pesci, laghi profondi in cui potersi specchiare.

Correvo in quella bellezza, guardando le farfalle che danzavano sulla mia testa. Ogni tanto saltavo per prenderle, e talvolta una di loro si posava delicatamente sulla mia mano o sul mio naso.

Mi fermai e mi sdraiai sull’erba fresca, beato.

Una brezza morbida mi carezzava il viso e penetrava nella camicia; ero così rilassato…

Michael…”.

…così sereno…

Michael…”.

…così…

Michael…?”.

…così…

“MICHAEL!”.

Mi svegliai di botto, col cuore che stava per fuoriuscire dal petto e i polmoni in fiamme.

Mi guardai attorno.

Niente verde, niente fiori, niente ruscelli, niente brezza.

Ero nella buia stanza da letto, e gli unici rumori che sentivo era quello del mio respiro affannoso… e… acqua che gocciola?!

-Michael…-. Di nuovo quella voce.

Mi alzai e raggiunsi l’ombra di fronte il mio letto.

-Cosa succede?-, chiesi.

Debbie guardò prima me, poi il pavimento bagnato sotto i suoi piedi.

Sgranai gli occhi.

-Si sono rotte le acque-, mormorammo all’unisono.

 

-Pronto?-, rispose una voce femminile assonnata.

-LaToya!-, esclamai. –Debbie ha rotto le acque, stiamo arrivando all’ospedale, avvisa tutti!-.

-Quale acqua?-, domandò lei.

-L’acqua, l’acqua! L’acqua di Debbie!-, esalai, non ricordando il nome del liquido nell’utero. –Si è allagata!-.

-Vi siete allagati?! Ah, si sono rotti i tubi! E perché chiami me? Meglio un idraulico, no?-.

E attaccò.

Io rimasi a bocca aperta.

-Ma che…-, sbottai, bloccandomi all’ultimo, mentre componevo il numero di Janet.

Vai, Michael, dillo!

Uno squillo.

Forza, Michael, dillo!

Tre squilli.

“Ma che…”.

E dai, dillo!

Cinque squilli.

Serrai le labbra picchiettando insistentemente le dita sul comodino.

“…che…”.

Ma che ti costa? Dillo!

Sei squilli.

“…che…”.

La mia volontà si distrusse quando aprii bocca.

-Pronto?-, mormorò Janet.

-Che puttana!-, esclamai.

Attimo di silenzio.

-Michael?-, domandò sconcertata lei.

Mi sentii gelare.

-Janet! Cavolo, scusa, io… no, no, scusa, non ce l’avevo con te, sorellina! Scusa, scusa, scusa, scusa…!-, dissi d’un fiato, maledicendomi.

-Michael?-, ripeté. –Ti rendi conto del fatto che hai appena detto una parolaccia? Ciò che in quasi 40 anni non hai mai fatto?-.

Sospirai.

-Sì, lo so…-, mormorai. Poi scossi violentemente la testa. –Non è di questo che voglio parlare! Ascolta, Janet: Debbie ha rotto le acque. Sì, esatto, quelle acque-, dissi dopo una breve pausa. -Stiamo andando all’ospedale, vieni qui, okay? Sai Prince dorme… sì, lo so che c’è la tata, però con te mi sento più sicuro…-.

-Oh! Okay, io… vengo subito…-, balbettò.

-D’accordo, sorellina. A dopo, avvisa anche gli altri, okay? Ah, fammi un piacere: va’ da LaToya, dalle una martellata in testa e dille che gli unici tubi rotti sono quelli del suo cervello-.

-O…okay…-, rispose, basita.

-Grazie mille, a dopo-, e attaccai.

Mi voltai verso Debbie, che intanto aveva preso delle asciugamani e mi guardava.

-Andiamo-, dissi.

 

Stessa scena, stesso affanno, stesso corridoio albino. Solo la città cambiava, il resto era uguale.

Trasportavano Debbie su un lettino con le rotelle, e io le correvo dietro.

-Signor Jackson, si disinfetti, poi potrà entrare-, mi informò un infermiere mentre trasportavano mia moglie nella sala e la porta si chiudeva davanti a me.

Rimasi per qualche secondo immobile, prima di scuotere la testa nel tentativo di risvegliarmi dal momentaneo stato di torpore. Mi diressi a sinistra, dove il dottor Thompson mi aspettava; mi porse tutto il necessario. Lo indossai con velocità, preoccupato e idealmente già presente nella stanza.

-Pronto?-, mi chiese, quando ebbi finito di prepararmi.

-Spero di sì…-, risposi con un sorriso.

-È il primo figlio?-.

-Ehm… no, veramente è il secondo. Anzi, la seconda-, risposi.

-Oh. La facevo più giovane…-, disse lui.

-Ah. Ehm… grazie…-, mormorai, imbarazzato.

Mi voltai. Di fronte a me c’era la porta della sala di ricovero.

Il cuore mi batteva all’impazzata e le gambe mi tremavano. Però ero pronto. Sì, ce la potevo fare, se ci sono riuscito con Prince perché non sarebbe dovuto accadere lo stesso ora?

Ci siamo, Michael. Fatti coraggio.

Presi un bel respiro e abbassai la maniglia.

Era un dejà-vu.

Al centro della stanza troneggiava una figura bianca e indistinta e numerosi infermieri si affannavano attorno ad essa. Per un attimo mi sentii mancare: e se fosse accaduta la stessa cosa di Prince? Se la bambina non avesse potuto respirare?

-Michael!-.

Fu quella voce così familiare a riportarmi sulla Terra, ancora una volta.

Veniva verso di me la donna sorridente dai lunghi capelli color miele e gli occhi blu.

-Honey!-, esclamai, abbracciandola.

-Non puoi proprio fare a meno di me, eh?-, mi rimbeccò con tono falsamente di rimprovero.

-Eh, già…-, dissi solamente.

Mi prese per mano e mi condusse accanto a mia moglie. Affannava, sudava, il viso era contratto.

Sì, proprio tutto uguale.

Ogni minima cosa.

La mia stretta nella sua mano, l’ansia, le grida, gli incoraggiamenti, i pensieri belli e meno belli…

Sgranai gli occhi.

No, non sarebbe andata come con Prince. Non avrei sentito Honey che diceva: “C’è un problema”, non sarei stato in pena per cinque ore, non avrei sentito brutte notizie.

Ma dovevo escogitare un piano.

Dovevo portar via la bambina da quell’ospedale prima che me la strappassero via dalle braccia.

E intanto mia moglie strillava…

-Vai, Debbie, spingi!-.

Gridava…

-Forza, ci siamo quasi!-.

Soffriva…

Ti prego…

Un ultimo urlo, enorme, lancinante, entrò prepotente nella mia mente scuotendomi. Mi vennero i brividi ad ascoltarlo: era come se la natura avesse gridato all’uomo tutto il male che le aveva provocato in quei millenni.

Le mie orecchie erano frastornate da quello strillo, per un attimo i miei timpani smisero di funzionare.

Poi capii, dal rumore che seguì, che potevo ancora sentire. Che la natura non si era ribellata, ma che si stava mostrando in tutta la sua magnificenza.

Quel suono… quella musica sublime… era un pianto… ma mi parve una delle risate più gioiose che potessero esistere…

-Eccola…-, mormorò Honey.

You suddently appeared… it was cloudy before, now it’s so clear…

L’aveva estratta lei quella volta. D’altronde non potevo farlo sempre, no?

-Oh mio Dio…-, mormorai vedendo la bambina.

You took  away the fear… and you brought me back to the light…

Era piccola, era sporca, era piena di sangue…

Era stupenda…

Era il mio sole…

You are the sun…

Era la mia luna…

You are the moon…

Era mia figlia.

You are my life…

 

Tagliai il cordone ombelicale anche quella volta (questo me lo potevo permettere!).

-La vuoi prendere in braccio?-, mi chiese Honey.

Annuii, le lacrime già pronte ad uscire.

-Come si chiama?-, mi chiese.

Guardai Debbie, che mi sorrise con coraggio.

Tornai a guardare la piccolina.

-Paris-Michael Katherine Jackson. Ti piace?-, le domandai.

Honey annuì.

-Bello… profondo. Sì, aggiudicato!-, esclamò.

Io la fissai ironico.

-Veramente dicevo alla bambina-, la informai, e lei arrossì.

-Ah… scusa-.

Risi.

-Macchè! Figurati…-. Il fagottino si guardava attorno con quei suoi occhi luccicanti impastati dal sangue e dal resto.

-Allora? Che ne dici? Paris e Katherine, come le tue nonne. E Michael come il tuo papà, così sarò sempre con te… ti piace?-.

E la piccolina, che fino a quel momento si guardava attorno spaesata e piangeva per l’aria che le bruciava i polmoni, si voltò verso di me e mi sorrise.

You are beautiful…

Bellissima.

You’re wonderful…

Meravigliosa.

Incredibile…

Incredibile.

E con un impeto di affetto improvviso la strinsi forte a me per non lasciarla sfuggire mai.

I love you so…

-Ti voglio bene, Paris-.

 

-La porto a casa-.

Honey si fermò sbigottita mentre stava per prendere la bambina che tenevo in braccio.

-Eh?!-, esclamò.

-Ho detto che la porto a casa. La bambina. La porto con me. Non c’è bisogno che la lavi, lo farò io. Anzi, vieni anche tu così mi darai una mano-, dissi, sicuro di me stesso.

Honey sbatté più volte le palpebre. Poi alzò il braccio destro e mise la sua mano sulla mia fronte.

-Mike, sei sicuro di stare bene?-, domandò.

Sbuffai e la tolsi con un gesto secco.

-Smettila di scherzare-.

-No, smettila tu. Ti rendi conto di quello che mi hai appena chiesto?-.

-Certo-, risposi, scrollando le spalle.

Lei mi fissò per qualche attimo allucinata prima di scuotere la testa.

-Sei impossibile… non capisco chi tra lei e te sia il bambino-, mormorò, esasperata.

-Oh, allora? Vuoi aiutarmi o no?-, chiesi infine impaziente mentre Paris aveva ricominciato a lamentarsi.

Lei alzò gli occhi al cielo.

-Me ne pentirò amaramente un giorno, ma… uffa, e va bene, portala da te!-.

Io sorrisi raggiante.

-Grazie mille, Honey!-.

Lei scosse la testa.

-Muoviti, o le verrà qualcosa!-, esclamò.

Io annuii.

-Debbie?-, chiamai mia moglie.

Lei mi guardò stanca.

-Sai quello che penso-, fu la sua unica risposta.

Capii subito.

-Grazie-.

 

Era Natale.

Paris aveva tre anni, e per l’occasione la tata le aveva fatto indossare un bellissimo vestito di velluto rosso scuro. Era una bambola di porcellana con quei suoi riccioli che cascavano tenui sul collo accarezzandole la pelle lattea.

Vagava felice, allegra e spensierata per la casa sul suo nuovo triciclo che un mio amico le aveva regalato.

-Papà, papà!-, esclamava.

Io correvo e lei mi inseguiva, ridendo.

-Aiuto!-, fingevo, mentre scappavo dappertutto tentando di non farmi acciuffare dalla mia bambolina.

-‘Cappa, ‘cappa!-, urlava, mentre mostrava in tutta la loro magnificenza i suoi piccoli dentini brillanti.

Prince poi, preoccupato per la sorella minore – come se fosse più grande di qualche decina d’anni… – le correva dietro dicendo: -Paris, non veloce!-.

Per un attimo mi parve che il più maturo fra i tre fosse proprio lui.

Continuammo così per circa una mezz’oretta, fin quando Janet ci chiamò.

-Bambini? I biscotti sono pronti!-, esclamò.

I due tesori si voltarono di scatto con gli occhi lucidi verso la zia.

-Sììì!!-, esclamarono, correndo veloci verso il vassoio sul tavolo lasciando stare i giochi.

Io rimasi impalato al centro del corridoio con un’espressione ebete dipinta in faccia.

-Ehi! Ma noi stiamo facendo una gara!-, esclamai.

Janet mi guardò esasperata.

-Michael, è da quasi un’ora che continuate a “cacciarvi”… ergo, vieni qui e mangia!-, ordinò con un tono che non ammetteva obiezioni.

Sbuffai, falsamente contrariato.

-E va bene…-, mi arresi, sedendomi accanto ai miei gioielli.

Presi un biscotto dalla forma ad albero di Natale e lo assaggiai.

Gli occhi mi luccicarono.

-Ma sono buonissimi!-, esclamai.

-Li ho fatti io!-, disse raggiante Jen.

Lo sguardo che le lanciai fu uno di quanti più scettici e ironici avessi nel mio repertorio.

-Davvero? Allora lo poso-, continuai schifato.

Lei mi guardò offesa e agguantò un cuscino dal divano alle sue spalle, lanciandomelo dispettosa. Prevedendo la sua mossa, riuscii a schivarlo e le feci una boccaccia.

-Cilecca!-, esultai.

-Scemo-.

Io risi e corsi da lei abbracciandola forte.

-La mia piccola Trilli… -, mormorai.

Lei rise.

Poi sentii un singhiozzo.

Ma non era Janet.

Mi guardai attorno preoccupato.

Fu allora che vidi Paris piangere.

No…

Corsi da lei e le misi le mani sulle spalle.

-Piccola? Tesoro, cos’hai?-, le domandai.

Lei scosse la testa.

-Dai, dimmelo. Sono il tuo papà, no? Dimmi cosa ti è successo-.

Lei alzò la testa e le lacrime in quei suoi occhi così profondi mi colpirono il cuore.

Mi fissava triste e arrabbiata, come se avessi fatto qualcosa di male.

Bravo, Michael. Hai fatto piangere tua figlia.

“Ma io non ho fatto nulla…”, pensai. “Non le ho detto niente!”.

Trattenei il respiro.

Ma certo.

Ecco spiegato tutto.

Non le avevo detto nulla.

-No, amore mio, non piangere…-, mormorai accarezzandole i capelli. -Scusami tanto non volevo… piangi perché non ti ho chiamata “piccola Trilli”, vero?-.

Lei abbassò gli occhi.

Sospirai afflitto.

-Ma no, non fare così… scusa, dolce stella, non volevo farti diventare triste… dai, ti prego, poi piango anch’io!-.

Lei alzò la testa di scatto ed esclamò spaventata: -No, papà, non piangere!-.

Il mio cuore iniziò a battere velocemente e mi ritrovai Paris stretta al mio petto.

Allungai un braccio verso il bambino biondo accanto alla piccolina, che ci guardava felice.

Prince venne vicino a me e ci abbracciò forte, nascondendo il viso nel mio collo.

-Smile, though your heart is aching… smile, even though it’s breaking… when there are clouds in the sky, you’ll get by… if you smile though your fear and sorrow… smile, and maybe tomorrow you’ll find your life is still worth while… if you just… SMILE!-, cantai la “Smile” di Charlie Chaplin, che da sei anni era diventata “mia”.

Paris e Prince capirono, e sorrisero.

-Bravi, così si fa. Non smettetela mai di sorridere, è forse uno dei dono più belli che il Signore ci ha regalato nella nostra vita. Anzi, lo è di sicuro-.

I miei gioielli annuirono.

-Il mio principe…-, mormorai arruffando i biondi capelli del primogenito, facendolo ridere. Poi mi voltai verso la bambolina alla mia sinistra dagli occhi ancora arrossati. -… e la mia Trilli-, dissi.

Lei sorrise.

La mia bambina sorrise.

Trilli sorrise per il suo Peter Pan.

 

 

Sarebbe sempre rimasto il suo Peter, l’uomo che avrebbe amato più di chiunque altro, per sempre.

Ma Peter Pan era immortale… lui, invece, se n’era andato…

-Proteggici, papà…-, mormorò Paris, guardando verso il cielo, mentre i suoi zii portavano via la bara dorata.

 

 

 

 

28 Febbraio 2002, San Diego, California

 

-Sappi che non smetterò mai di ringraziarti… non sai quanto tu mi abbia reso felice, oggi-.

La donna dinanzi a me mi guardò con i suoi occhi neri così profondi.

Quando la vidi la prima volta seppi che solo lei sarebbe stata in grado di offrirmi quello che la mia ex moglie Debbie non avrebbe più dato: un altro figlio. Per cui avevo chiesto aiuto… e lei me l’aveva concesso.

Un utero in affitto.

Una mamma solo per i nove mesi e per il parto.

Avrei cresciuto io il bambino, l’avrei mantenuto a mie spese e l’identità della donna sarebbe stata mantenuta segreta. Lei non avrebbe avuto alcuna influenza sulla vita del piccolo… in cambio di soldi.

Molti soldi.

Fa niente.

-Non ringraziarmi… consideralo un piacere-, mi rispose.

Io annuii e uscii fuori, in attesa che sistemassero tutto.

Mi preparai, fisicamente e psicologicamente, ad affrontare un altro cambiamento.

Un altro figlio.

Un’altra responsabilità.

Ma ce l’avrei fatta.

L’avrei cresciuto come avevo fatto con Prince e Paris, sarebbe diventato grande e… no, cosa pretendevo? Che non chiedesse mai di sua madre? L’avrebbe fatto, e io avrei risposto alle sue domande.

Dovevo farlo: aveva il diritto di sapere.

-Pronto?-, chiese il dottore alla mia destra.

Mi voltai verso di lui.

La stessa domanda ripetuta tre volte.

Destino, un po’ di fantasia mai, eh?

-Per queste cose non si è mai pronti, dottor Hughes-, risposi sorridente.

Mi voltai, quella volta deciso e sicuro – anche se l’ansia era sempre presente – verso la porta.

Presi un respiro e aprii.

 

Il concepimento non fu molto lungo o difficoltoso. Tutt’al più un po’ sofferto, come gli altri due, del resto… ad ogni modo, io le fui vicina per tutto il tempo, senza lasciarla mai. Non voleva il mio appoggio, ma poco m’interessava: non le avrei stretto la mano per infonderle coraggio, ma alla nascita del mio terzo figlio non potevo mancare.

-Sta per uscire!-, esclamò l’infermiere.

Il cuore mi batté fortemente e le mie gambe si mossero da sole.

In un attimo mi ritrovai a fissare la testa scura di mio figlio che usciva dall’interiorità della madre.

-Oh mio Dio…-, mormorai per l’ennesima volta incantato dalla magnificenza di quello spettacolo.

Il piccolino venne fuori piangendo tra l’emozione generale.

Era un fagottino… proprio come i suoi fratelli, che ora lo stavano aspettando…

Gli infermieri gli tagliarono il cordone ombelicale mentre io mi limitavo a guardarlo con aria sognante.

-Posso?-, chiesi, indicando con la testa il piccolo e le mie braccia.

L’infermiera che lo manteneva mi guardò un attimo perplessa, per poi sorridere e annuire.

Me lo porse senza indugi.

Era leggero come una piuma e tutto sporco.

Era una meraviglia, una forza della natura.

Una ragione di vita.

Il mio piccolo principe.

-Ciao…-, mormorai.

Lui continuava a guardarsi intorno stordito, ma non piangeva più.

Nel momento in cui l’avevo preso in braccio aveva smesso di lamentarsi.

E ciò mi rese felice.

-Ehi, piccolino? Sono il tuo papà. Sì, proprio il tuo papà. Però non posso chiamarti sempre “piccolino” o “bambino” o “zuccherino”… insomma, dovrai pur avere un nome, no?-.

Lui mi fissò per qualche momento. Per un attimo mi illusi che potesse capire quel che dicevo.

-Mmh… che ne dici di “Prince Michael Jackson”? Secondo, però. C’è già tuo fratello con questo nome. Eh, sì, hai un fratello. E anche una sorella. Tutti più grandi. E stanno aspettando te, lo sai? Non vedono l’ora di conoscerti… ah, e avrai un soprannome, altrimenti dovrò chiamarti “Secondo” e non mi va… mmh… che ne dici di “Blanket”? (à “Coperta”)-.

Il piccolo si voltò nuovamente verso di me e mi sorrise.

Ed  io mi sentii l’uomo più felice della Terra.

-Prince Michael Jackson II-.

Mio figlio.

Un nuovo figlio.

Ma ero pronto.

Io ero pronto.

L’avrei accolto nella mia famiglia e l’avrei protetto… costi quel che costi.

 

Eravamo a casa ed erano piazzate delle telecamere nella mia casa.

Il giornalista inglese Martin Bashir(*) mi aveva chiesto di intervistarmi sulla mia vita, ed io l’avevo accolto a Neverland. Sarebbe stata la mia occasione di rifarmi di fronte alla gente e smentire una volta per tutte le voci che circolavano sul mio conto.

Non ero un pedofilo, non lo ero mai stato e non lo sarò mai.

Prince II piangeva.

Gli avevo nascosto il volto con una coperta verde e tentavo di dargli la bottiglia di latte senza scoprirlo.

-Non riesce ad acchiappare il biberon-, osservò intelligentemente(**) Bashir.

Allungò le mani verso di lui per togliergli la coperta che lo avvolgeva. Io lo fermai giusto in tempo, alzandola solo sopra il naso. Non volevo che le telecamere lo vedessero. Era troppo piccolo, ci sarebbe stato tempo.

Gli diedi il biberon.

-Ecco qua, ce l’ha fatta!-.

Ma lui continuava a piangere.

No, piccolino, non versare lacrime …

Per calmarlo facevo degli strani versi con la bocca.

-Sì, Blanket! Blanket, Blanket!-, esclamavo, e smise di piangere. –Ti voglio bene, Blanket… sì, sì… ti voglio bene… ti voglio tanto bene…-.

 

Anche lui gli voleva tanto bene… ma tanto… non immaginava nemmeno… glielo diceva sempre…

-Papà, ti voglio bene…-.

Ma non gliel’avrebbe più ripetuto… quella bara sarebbe stata portata via per sempre…

-Mi mancherai, papà…-, sussurrò Blanket.

 

E quei pensieri volavano leggeri, fluttuavano dinanzi a me…

Tanti pensieri, pensieri di fans e parenti che mi arrivavano nelle orecchie…

Ma ce n’era uno…

pPiù forte…

Più sentito…

Più dolce…

Che mi dava la forza…

 

 

 

Ti vogliamo bene, papà…

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Note dell’autrice

Salve a tutte!!!!

*Una serie di sguardi assassini la inceneriscono all’istante*

*piange disperata*

Lo so che vi ho fatto aspettare molto… *sniff* ma la scuola, poi il computer che fa capricci, poi msn… uffi, scusate!!!!

*s’inginocchia ai piedi di tutti chiedendo perdono*

Va bene, adesso vi devo spiegare tutti quegli asterischi…

(*) “Serpe”: uno dei tanti nomignoli dati a quel giornalista di merda che voleva mettere in cattiva luce Michael, e che dopo il 25 giugno ha detto: “Ho mentito”… ma tu e Chandler vi siete messi d’accordo, per caso? O_O

(**) Chi, tu un intelligente? Ma fammi il piacere… *sgrunt*

Okay, finito!

Spero che vi sia piaciuto questo chappy, anche se i pezzi delle nascite di Paris e Blanket sono più corti… scusate davvero, scusate!!

Ora, non mi dilungherò molto nei ringraziamenti, ma giuro che nel prossimo chappy vi ringrazierò ad uno ad uno!!

Un bacione e un abbraccio ad Alchimista, TanyaCullen, Looney Queen, Eutherpe ed Eclipsenow, le mie stelle… grazie mille ragazze… per tutto…

Un grazie infinito anche agli altri, non sapete quanto vi voglia bene!! *.*

Che Michael sia con voi!!!

Bad_Mikey!^^

ra uno...chie...

 

 

 

 

 

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Capitolo 8
*** Solo, non sarai nessuno ***


Allora… prima di iniziare questo chappy, è giusto che io vi spieghi alcune cose:

Era luglio.

Orsola stava in spiaggia.

Era all’ombra, aveva appena terminato di prendere il sole, operazione che occupava all’incirca cinque minuti della sua giornata, visto che non amava molto la tintarella.

Pensava un po’, Orsola.

Pensava alla Calabria, dove alloggiava da tre giorni per le vacanze estive.

Pensava alle sue sorelle che stavano facendo il bagno.

Pensava al ragazzo scuro di pelle seduto cento metri più lontano da lei che assomigliava tanto a un personaggio di uno dei suoi libri preferiti.

E poi, pensava al suo mito.

Era poco meno di un mese che l’aveva lasciata, che aveva lasciato quel mondo e i suoi fans e lei ancora crogiolava nel dolore. Un dolore a volte sollevato dalle distrazioni, altre dal solo odore della salsedine, dal rumore delle onde e dalla calura dei raggi del sole.

Pensava alla ragazza con la maglia di MJ incontrata la sera prima…

There’s only one King of Pop” recitava la scritta bianca sulla stoffa blu scuro.

Le aveva fatto i complimenti per la scelta dell’abbigliamento, al che la ragazza alzò la testa e fissando gli abiti di Orsola le disse: “Beh, anche la tua non è niente male!”.

In effetti, quella sera Orsetta aveva indossato una maglia bianca con scritto I LOVE KING OF POP MJ a caratteri cubitali. Beh, decisamente non passava inosservata con le Ray Ban e le Converse nere tappezzate di scacchi (da lei disegnati) e con una frase che recitava: “Heal the World” (da lei scritta). No, decisamente inosservata.

Una voce la distolse da quel turbine di pensieri.

Era Lina.

-Tieni, Orsola, ho comprato questo giornale, ma non so che farmene… dallo a mamma, glielo regalo-, le disse.

-Ok, grazie-, rispose e fissò la rivista.

La foto di un’attrice faceva da sfondo alla copertina, completamente ricoperta da immagini di volti famosi e frasi.

-Elena Sofia Ricci… Silvio Berlusconi… la salute… intervista esclusiva con la moglie segreta di Michael Jackson…-.

Orsola sgranò gli occhi.

-Eh?!-.

Aprì il giornale e prese la pagina, sormontata da un’intervista a Grace Rwaramba, tata di Prince, Paris e Blanket.

La lesse senza indugi.

E se ne pentì.

 

 Michael è sempre stato un genitore molto severo.”, c’era scritto. “I figli tremavano solo a vederlo […] Ricordo che una volta Blanket stava ballando “Billie Jean” come regalo per il mio compleanno… è molto bravo, sciolto, proprio come il padre… poi arrivò Michael. Di solito le sue guardie del corpo ci avvisavano prima, ma quel giorno terminò in anticipo il suo impegno. Quando lo vide, Blanket smise di ballare. Tutti e quattro sbiancammo alla vista della sua espressione furiosa; lui prese il piccolo e lo portò con sé in una stanza. Restarono lì per due ore, e a volte sentivo le urla furiose di Michael […] Una volta usciti, Blanket tremava e aveva gli occhi rossi.

 

Il giornale mangiò la sabbia.

Orsola si alzò con gli occhi lucidi, si tolse le Ray Ban e con una corsa raggiunse la riva. Prese un bel respiro e si tuffò.

Le sue lacrime calde si dispersero nell’acqua salata del mare.

 

Era sera e Orsola non aveva toccato l’mp3 da quella mattina.

Ed era grave.

Aveva cercato per tutto il tempo in quelle parole un briciolo di falsità… non c’era riuscita.

E si sentiva in colpa.

E non aveva il coraggio di ascoltare la voce di Michael.

Temeva di trovare una conferma alle sue supposizioni.

E continuava a piangere…

 

Prese l’mp3.

“Chi me lo fa fare?”.

Lo prese e basta, senza chiedersi il perché.

Aveva il bisogno di stare meglio… e solo con quella voce ci riusciva…

Avanzò a casaccio tra le canzoni senza guardare il display.

Si fermò improvvisamente.

Non guardò il titolo.

Semplicemente schiacciò il pulsante PLAY.

“In the news today…”.

Orsola sgranò gli occhi.

Conosceva quella canzone.

Ne aveva letto la traduzione qualche giorno prima di partire e le era rimasta impressa nella mente.

-M… ma… non è possibile…-.

Solo perché lo leggete nei magazine o lo vedete su uno schermo televisivo non rendetelo vero…”.

Ecco cosa diceva il ritornello di “Tabloid Junkie”.

E lei arrivò a crederci.

Lei sorrise.

E una visione, un’immaginazione, un’altra trama iniziò a impossessarsi della sua mente e della sua penna…

 

 

8. SOLO, NON SARAI NESSUNO

 

 

Perché tu, mia musica, la musica ascolti triste?

Dolcezza brama dolcezza e gioia di gioia vive:

perché tu ami quel che non lieto accogli,

oppure accogli lieto quello che ti tedia?

Se la perfetta armonia di ben accordati suoni,

insieme uniti, l’orecchio tuo offende,

è perché dolcemente ti rimprovera di fondere

in un a-solo le parti che distinguere dovresti:

vedi come ogni corda a un’altra unita

vibra con quella in mutua rispondenza,

come padre e figlio e felice madre,

che tutti insieme cantano lo stesso dolce canto:

un canto senza parole, di molti che paion uno

e che a te dice: “Solo, non sarai nessuno”.

William Shakespeare, Sonetto VIII

 

 

 

Aveva sempre amato suo padre.

Lo considerava un modello, una guida, qualcosa da seguire costantemente, sia dal punto di vista umanitario che da quello artistico.

Sì, a lui piaceva quando cantava e ballava e desiderava ardentemente diventare come lui.

Ci aveva provato più volte ad imitarlo, a riflettere quei passi magici con cui sapeva incantare il mondo. Sapeva a memoria tutte le coreografie delle canzoni, e ogni volta che aveva qualche minuto di svago ed era libero da occhi indiscreti, si chiudeva nella sua stanza e improvvisava un moonwalk, o i passi di “Dangerous”, “Thriller”, “Smooth Criminal” o “Beat It”… spesso miscelava il tutto con una sporadica quanto fenomenale “mossa stringi-pacco” o il classico e immortale urletto “Aoow!”.

Si sentiva bene, si sentiva importante, si sentiva speciale: assomigliava al padre, al suo eroe, al suo modello di vita, alla sua ispirazione primaria quando muoveva i piedi o solleticava le corde vocali.

Dimostrava finalmente di essere degno di portare quel nome:

Prince Michael II.

Blanket.

-Secondo me dovresti farlo vedere a papà-.

La voce femminile proveniente dalla porta alle sue spalle lo bloccò facendolo trasalire.

Blanket si voltò di scatto, ma quando vide chi l’avesse interrotto tirò un sospiro di sollievo.

-Paris…-.

Lei sorrise e si sedette sul letto di fronte a lui.

Guardò per un istante la sua sorellina preferita, per poi chinare il capo.

-Io non sono bravo come lui…-, mormorò, sconfortato.

-Ma che dici?-, esclamò la sorella. –Balli “Billie Jean” benissimo, quasi meglio di papà! Dai, piccolino, non abbatterti!-.

Lui la guardò di sottecchi.

-Dici sul serio?-.

-Certo! Io non sbaglio mai!-, declamò, con aria da imperatrice.

-Sembri la Signorina Trinciabue nel film “Matilde sei mitica!”…-.

Un’altra voce, quella volta maschile, penetrò nella stanza facendo sussultare i due bambini.

Prince era appoggiato allo stipite della porta che aveva aperto poco prima, ascoltando l’intera conversazione dei suoi due fratelli minori.

-Ehi!-, esclamò Paris. –Ci stavi spiando!-.

Lui scrollò le spalle.

-E poi io non assomiglio a quella strega!-, continuò lei, tirandogli il cuscino alle sue spalle che lo colpì in piena faccia con un tonfo sordo.

Paris e Blanket portarono entrambi le proprie mani alla bocca.

-Ops… scusa…-, balbettò la ragazzina guardando preoccupata l’espressione del fratello maggiore dopo che la soffice arma cadde a terra, per poi essere agguantata e ri-lanciata verso Paris. Questa però riuscì a schivare il colpo per un pelo e con sguardo malizioso fece una boccaccia.

Prince alzò gli occhi al cielo e si sedette accanto la sorella.

-Io avrei un’idea migliore-, disse lui, incrociando le braccia.

Lo fissarono. –E qual è?-, chiese Blanket con un filo di voce.

-Domani è il compleanno di Grace, giusto? Perché non le fai vedere quello che sai fare? Così non solo avrai un regalo di compleanno bell’e pronto, ma le mostri anche come balli e sarai pronto per quando lo farai vedere a papà… che ne dici?-.

Blanket lo fissò per qualche secondo, incerto sul da farsi.

Voleva tanto vedere il padre orgoglioso di lui… però… però aveva paura…

-E se si arrabbia?-, chiese abbassando la testa.

Prince e Paris si guardarono per qualche istante allibiti; evidentemente avevano avuto lo stesso pensiero: “Papà non ci ha mai trattati male…”.

Poi, un’intuizione improvvisa colpì contemporaneamente le menti dei due fratelli, facendo sciogliere i loro cuori…

-Oh, Blanket…-, sussurrò accorata Paris. –ma non è la stessa cosa… papà non ci ha mai obbligati a ballare come nonno Joe faceva con lui…-.

-Infatti!-, esclamò Prince. –Lui ci ha sempre detto che siamo liberi di fare quello che vogliamo. Non si arrabbierà mica perché sai imitarlo!-.

Blanket si morse il labbro inferiore.

“Ha ragione”, pensò. “Però…”.

Però nulla: fallo.

Alzò la testa e sorrise.

-Okay-, disse infine. –Va bene. Domani ballerò per Grace!-.

I due fratelli sorrisero.

-E la prossima volta per papà!-, esclamarono.

Lui sorrise e annuì.

Per papà… solo per papà

 

“…That Billie Jean is not my lover…”

Moonwalk, piroetta, calcio, inginocchiarsi a terra, “grab of crotch(*)”… tutti movimenti che sapeva a memoria. Bastava ascoltare quella voce… sentire quelle note…assaggiare quel ritmo… un ritmo che veniva accompagnato da un battito di mani…

-Vai, Blanket! “But the kid is not my son…”!-, urlavano, in coro i suoi fratelli e Grace.

Il piccolo traeva forza da tali incoraggiamenti.

La voce di quel ragazzo che vent’anni dopo sarebbe diventato suo padre guidava i suoi passi.

Si estraniò completamente dal mondo circostante, senza curarsi di ciò che accadeva attorno a lui.

Non si accorse dei passi fuori la porta, del silenzio improvviso del suo pubblico, di quella sensazione di gelo che sembrò pervadere la stanza quando la porta si aprì con un leggero cigolio, dell’uomo che guardava stupito e confuso suo figlio che continuava ancora a ballare, ignaro di tutto.

Fu un nome a riportarlo brutalmente alla realtà, facendogli rizzare i peli sulla nuca.

-Signor Jackson…-, mormorò Grace, alzandosi.

Blanket si bloccò di scatto e con una mezza giravolta si ritrovò davanti una scena che sarebbe rimasta impressa nella mente durante gli anni a venire.

Il padre, suo padre, Michael Joseph Jackson, lo guardava impalato sull’ingresso da dietro le lenti scure degli occhiali da sole. Non sapeva cosa quegli occhi celati dicessero… vedeva solo la piega rigida della bocca.

Blanket abbassò il capo con gli occhi lucidi.

“Lo sapevo… sapevo che si sarebbe arrabbiato… lui non vuole che io diventi come lui…”, pensò.

Andò verso il giradischi alla sua destra per togliere il vinile di “Thriller”.

-Blanket!-, la voce di Michael lo bloccò con il braccio proteso e lo fece voltare di scatto, tremante.

Vide per un attimo il padre correre verso di lui, poi il buio e la sensazione di non poter respirare. Fu dopo qualche secondo che capì che Michael lo stava abbracciando. Una consapevolezza che gli sciolse il cuore e le lacrime.

-Papà… mi dispiace…-, mormorò tra i singhiozzi.

-Blanket…-, ripeté Michael accarezzandogli la testa, per poi staccare l’abbraccio a malincuore e togliersi gli occhiali.

Non era severo il suo sguardo, né arrabbiato, né furioso. Ma Blanket non sapeva come fosse in realtà. Sembrava triste, ma poi si accorgeva che invece era felice; esprimeva orgoglio, ma sotto c’era anche paura. Era uno sguardo un po’ strano…

-…sei bravissimo-, disse Michael, al che il piccolo sgranò gli occhi dall’emozione. –Balli meglio del mio fan numero 1… beh, sei mio figlio, come potrebbe essere altrimenti?-, sorrise.

Blanket non smetteva di piangere, ma i sentimenti che albergavano in lui erano ora più radiosi.

-Però…-, continuò lui rabbuiandosi.

Il piccolo restrinse la bocca e chiuse gli occhi per evitare di scoppiare in singhiozzi.

-…però devo insegnarti a fare meglio il moonwalk. Sei troppo rigido, devi rilassarti. Devi arrivare a non sentire il pavimento sotto i piedi, devi pensare di trovarti realmente sulla Luna. Capisci?-.

Blanket alzò lo sguardo ancora arrossato e annuì.

-Bene. Allora… che ne dici se proviamo insieme?-.

Il piccolo sgranò gli occhi.

Aveva sentito bene? Il padre gli aveva realmente chiesto quella cosa? Davvero aveva la possibilità di ballare con il suo mito? Non era uno scherzo? Era la verità?

Sì, Blanket. Credici.

Sorrise e con uno scatto felino abbracciò forte il padre, che ricambiò ridendo felicemente.

-Lo considero un sì-, disse, per poi staccare l’abbraccio e alzarsi di malavoglia.

-Aspettami, torno subito-, gli disse, e sparì da una porta.

Il piccolo era ancora incredulo quando si girò a guardare dapprima i fratelli e poi la tata, tutti sorridenti.

-Visto? Ti avevamo detto che non sarebbe successo nulla…-, disse Paris.

Blanket annuì, raggiante.

-Eccomi!-, esclamò Michael ritornando nella stanza con un cappello nero in mano. -Cominciamo?-, chiese al figlio, che annuì e si mise in posizione.

Grace riportò la canzone dall’inizio.

Le note riempirono la stanza.

E i due, padre e figlio, cominciarono a ballare.

Erano sincronizzati, l’uno lo specchio dell’altro.

Si correggevano a vicenda, senza aver bisogno delle parole: bastava guardare i movimenti dell’altro.

E intanto Billie Jean continuava a suonare…

People always told me be careful, what you do? Don’t go around breaking young girls’ hearts…

La canzone scorreva…

…e il Re e il suo Principe la rendevano vera…

…insieme…

perché soli non si è nessuno…

 

 

Insieme si può cambiare il mondo…

E anche la vita…

Grazie a quel ballo la mia esistenza è cambiata…

Per sempre…

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Note dell’autrice:

Salve miei gentili lettori e lettrici di tutte le età! *i suoi occhi diventano a forma di cuore*

Come state? Spero che non abbiate sentito la mia mancanza…

(-.-‘’)

Okay, okay, lo ammetto: ho manie di grandezza! XDD!

“Bando alle ciance, cocca!”.

Uffa, e va bene! -_-‘’’

Allora… come vi è sembrato questo super mini-miniaturizzato striminzito capitolo? Spero vivamente di non avervi annoiati!^^

Ce sei riuscita! Ma anvedi ‘n po’ questa…”.

*sgrunt*

Ma la vuoi finire di… di… O.o

Ma hai l’accento romano!! Claudiaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaa!!! *love love*

 

MihaChan: oh, ciao Daniela! *.*

Grazie mille per i tuoi complimenti! Oh, no, non piangere! Mi fa star male vedervi piangere, sul serio, eppure spesso è la cosa che mi riesce meglio… ^_^’’

Spero che con questo capitolo tu non abbia lacrimato come prima… un bacione!!

PS: ti ho mandato un’e-mail, la recensione al tuo ultimo capitolo si trova lì… spero che tu l’abbia ricevuta! J

 

Laban: O.o

È arrivata Billie Jean!! That Billie Jean is not my lover… aoow!

Okay, basta! ù_ù

Ma ciao, Fabiana! *.*

Che bei complimenti, cara! Mi fa davvero piacere che la mia storia ti piaccia, sul serio!

Un bacione e alla prossima!

But the kid is not my son… woo!

 

Alchimista: tesoro mio, finalmente ce l’hai fatta a recensire! *O*

Ma lo sai che anche se tu non avessi scritto nulla avrebbe fatto lo stesso! Mmh… no, in quel caso probabilmente ti avrei ammazzata con le mie mani… sì, decisamente. ù_ù

Ma dai, scherzo, amore! <3

Scusa tanto se te lo chiedo, eh… ma che fine hanno fatto tutti i motivi per cui avresti dovuto uccidermi? XD!

Sono davvero contentissima che questo capitolo ti sia piaciuto… eh, sì, le nascite più belle del mondo… la venuta al mondo delle 3 stelle più belle del firmamento… delle 3 ragioni di vita di Mike… ah, sì, e la nascita più bella insieme alla loro è stata anche quella di mia sorella Francesca! ù_ù

Tesoro, grazie mille! Anche il tuo silenzio per me è oro!

Ti amo infinitamente!!!

 

Looney Queen: Squillo di tromba per Claudia rimbomba!!! Ciaooooooooooo mon amour!!!!! *O*

La mia mogliettina… sì, esatto, popolo di EFP!! Io a la qui presente Looney ieri ci siamo unite nel sacro vincolo del matrimonio!! Ovviamente non sul serio, ma su Facebook siamo registrate come sposate, quindi…ù_ù

Vabbè tornando al capitolo… mi sa che è meglio…XDDD!

Ehm… sì, comunque dicevo…

La mia cara reginetta  ha avuto talmente tanta intelligenza da capire che l’”ergo” pronunciato da Janet era irrimediabilmente riferito a lei… weeeeeeeee quanto ti adoro quando dico ergo!! *.*

Tesoro mio, anche tu hai pianto? ç.ç Cavolo, ma chi sono, una macchina spargi-lacrime?!

Beh, comunque ti è piaciuto, e questo mi rende davvero orgogliosa! ^^ Sai, con te ho finalmente capito cosa provava Michael quando vedeva i suoi fans… beh, vabbè, a parte questo, mi hai fatto scoprire un mucchio di cose… conosco l’amicizia, ma con te è stato un po’ diverso… insomma, è normale che dopo nemmeno un mese che ci conosciamo già ci siamo sposate?? Io credo di no, ma comunque

Grazie, grazie mille. Di tutto. E non scherzo.

Ti voglio un bene nell’anima… ah, sì, e ti amo da impazzire!!

ò_ò

Ehi, che avete da guardare voi? Siamo sposate, avrò pure il diritto di dichiararle il mio amore no? XD!

 

 

 

Ehm… sì, direi che ho finito con i ringraziamenti.

Un bacione a tutti e scusate l’orario sconveniente, ma non ho potuto postare prima! ^_^’

Ciaoooo e buonanotte!! Che Dio vi benedica!!

Bad_Mikey

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Capitolo 9
*** Avviso... sorry... :( ***


Ciao, ragazzi

Ciao, ragazzi... so che vi aspettavate un capitolo, ma non è così. Vi tocca invece leggere questo insulso, sgradevole e irritante avviso del cavolo. No, non ho abbandonato la storia... solo che ho pochissimo tempo per scrivere e quando lo faccio mi ritrovo a portata di mano solo carta e penna, non il mio PC. Come se non bastasse, ci si mette anche l’ispirazione che spesso e volentieri se ne va a farsi benedire... -__-

Non so quindi quanto tempo dovrete ancora aspettare e mi scuso con voi per questo inconveniente... spero comunque che ritornerò quanto prima in scena con il mio ultimo capitolo... sì, esatto, il prossimo chappy è l’epilogo... ed è piuttosto lungo, per questo ci metto così tanto tempo. Scusate ancora, davvero, prometto che quando torno saprò sdebitarmi! Credetemi, sono più dispiaciuta di voi... T.T

A presto... si spera... _ _||

La vostra Bad_Mikey

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