Oltre di Wolf (/viewuser.php?uid=807)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo primo ***
Capitolo 3: *** Capitolo secondo ***
Capitolo 4: *** Capitolo Terzo ***
Capitolo 5: *** Capitolo quarto ***
Capitolo 6: *** Capitolo quinto ***
Capitolo 7: *** Capitolo sesto ***
Capitolo 8: *** Capitolo settimo ***
Capitolo 9: *** Capitolo ottavo ***
Capitolo 10: *** Capitolo nono ***
Capitolo 11: *** Capitolo decimo ***
Capitolo 12: *** Capitolo undicesimo ***
Capitolo 13: *** Capitolo dodicesimo ***
Capitolo 14: *** Capitolo tredicesimo ***
Capitolo 15: *** Capitolo quattordicesimo ***
Capitolo 16: *** Capitolo quindicesimo ***
Capitolo 17: *** Capitolo sedicesimo ***
Capitolo 18: *** Capitolo diciasettesimo ***
Capitolo 19: *** Capitolo diciottesimo ***
Capitolo 20: *** Capitolo diciannovesimo ***
Capitolo 21: *** Capitolo ventesimo ***
Capitolo 22: *** Capitolo ventunesimo ***
Capitolo 23: *** Capitolo ventiduesimo ***
Capitolo 24: *** Capitolo ventitreesimo ***
Capitolo 25: *** Capitolo ventiquattresimo ***
Capitolo 26: *** Capitolo venticinquesimo ***
Capitolo 27: *** Capitolo ventiseiesimo ***
Capitolo 28: *** Capitolo ventisettesimo ***
Capitolo 29: *** Capitolo ventottesimo ***
Capitolo 30: *** Capitolo ventinovesimo ***
Capitolo 31: *** Capitolo trentesimo ***
Capitolo 32: *** Capitolo trentunesimo ***
Capitolo 33: *** Capitolo trentaduesimo ***
Capitolo 34: *** Capitolo trentetreesimo ***
Capitolo 35: *** Epilogo ***
Capitolo 1 *** Prologo ***
Nuova pagina 1
Nota dell'Autore: Probabilmente questa
non è la scelta migliore, nè la più saggia. Ciò nonostante ho deciso di
pubblicare questo scritto, anche se non corretto. Ho deciso che gli errori
sono quelli stessi errori che ho commesso io nel valutare la mia storia con
Esmeralda e per questa ragione veri, intensi come lo sono sembrati allora.
Meglio raccontare allora. Per ciò che l'Amore ti fa trovare, nei giardini e nei
fondali inesplorati di questo sentimento, per tutti i ricordi che preserviamo,
con la forza e la consapevolezza di cercare di non perdere mai se stessi
anche quando si è persi tra siepi e scogli ed onde...
******************
Ad Esmeralda. La luna splende su di te e
se alzi lo sguardo la vedi.
******************
Oltre
Prologo
Mi
chiamo Leonardo.
Leonardo...
E
già solo dal mio nome s’intuisce bene quale tipo d’amore potrò narrare.
Un
amore banale, scarno, vuoto... forte, distruttivo, ossessivo, tormentante.
Un
semplice amore, come moltissimi altri ma che mi riguarda.
Non
voglio commettere l'errore, qui, di dire quanto il mio amore sia speciale per
l'unicità della donna che amo. Perchè so, so bene che cadrei nel banale.
Ma
mi chiedo se posso farne a meno; se da qui alla fine riuscirò a mantenere un
alto grado di sofisticatezza, d’originalità; se potrò evitare di fare il
banale, come ogni uomo innamorato.
Sicuramente
Dio solo sa quanto stupido sarei se avessi la pretesa di raccontare una storia
d'amore con le sfumature che essa effettivamente produce nel momento stesso in
cui la si vive, sulla pelle, nelle ossa. Ma comunque voglio raccontarla. Ed anzi
non è una storia che voglio raccontare ma soltanto l'intrecciarsi di vite, di
quelle coincidenze che hanno reso il mio amore così forte da resistere per 5
anni nonostante sia stato lontano da lei.
Lei.
Lei si chiama Noemi. E sentite già quanto diverso suoni il SUO nome... dolce,
travolgente, selvatico, curioso... in grado di farti innamorare solamente nel
sentirlo...
Ed
ecco che scendo nel banale. Ma non posso fare altro che questo. Raccontare di un
tempo, di un posto, di un destino scritto nel nostro codice genetico; un destino
che ci ha spinto a questo.
E
così racconto...
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Capitolo 2 *** Capitolo primo ***
Nuova pagina 2
Capitolo
primo
Era
il luglio del '98. Io abitavo in un piccolo paesino marittimo e frequentavo il
quarto anno di un piccolo liceo scientifico della zona con la convinzione di
aver sbagliato la mia scelta, quando in terza media avevo compilato il modulo
d'iscrizione; ma nonostante la mia poca passione per quell'indirizzo, non avevo
mai perso
l'anno anche se a volte l'avevo passato proprio per il rotto della
cuffia.
Frequentavo
un gruppo di ragazzi del liceo artistico, con cui avevo iniziato ad uscire
durante il secondo anno quando, il mio migliore amico, Diego Giacomazzi,
detto "Maratona", aveva cambiato scuola dopo esser stato
bocciato e si era iscritto all'artistico, conoscendo "I Bengala" ed
entrando a farne parte portando dietro anche me, come di norma. Il suo
soprannome, Maratona, era una storpiatura del suo precedente soprannome
"Maradona", che gli era stata affibbiata il giorno in cui in una
partita di pallone aveva fatto tutto il campo rincorrendo Pelletti, il capitano
dell'altra squadra, che l'aveva sfottuto perchè aveva insaccato la palla nella
propria porta.
Io
e Maratona eravamo amici fin dai 6 anni. I nostri padri suonavano entrambi, il
mio il sax e il suo il piano, in una jazz band del paese chiamata gli
Aristomatti. Ed entrambi concordavamo sul fatto che il nome Aristomatti facesse
davvero vomitare verde pomodoro rancido. E poi è stata un amicizia come altre,
passata a giocare a Batman e Robin al lago o al parco giochi (e io facevo Robin
se no m’incazzavo), a sfottere i turisti tedeschi che tanto non ci capivano, a
fare scherzi alle ragazzine, a giocare a calcio, a parlare lingue inesistenti in
mezzo al centro commerciale...
E
così eravamo amici, io e Maratona, anche se ora, all'età di diciassette anni,
tutti quei passatempi erano un ricordo lontano e di ciò ci rimanevano solo due
passioni davvero comuni: la musica e le ragazze. E queste passioni le
condividevamo con ‘I Bengala’; eravamo in cinque:
-
Maratona,
-
Davide "Riso" Merino, chiamato così perchè era fissato con la dieta
del riso,
-
Marco "Ottanta" Briskin, soprannome derivatogli dalla sua maglietta
preferita (che possedeva in diversi colori: nero, rosso, azzurro e beige), che
diceva "80 voglia disco party",
-
Ruben "Okay" Guglielmini, il taciturno del gruppo che rispondeva a
tutto Okay,
Ed
ultimo, io, Leonardo "Leo" Di Stefano.
Ora
voi vi chiederete: perchè in mezzo a soprannomi così strani il mio era l'unico
soprannome normale? Perchè io rifiutavo qualunque tipo di soprannome che non
fosse Leo o, al massimo, Leon. Ci avevano provato eh, oh se ci avevano
provato... mi avevano affibbiato i soprannomi più strani della terra, talmente
tanti e diversi da non ricordamene quasi nessuno, ma io non rispondevo a nessuno
che non mi chiamasse Leo, o Leon, o Leonardo. E su questo ero cocciuto come un
mulo. Anche se ne avevo di soprannomi, nella mia testa! Di simboli in cui mi
rispecchiavo ce n'erano un infinità anche se uno su tutti... qualcuno lo
sapeva, mio padre e una volta l'avevo accennato a Maratona anche se ero certo
che se lo fosse dimenticato. Io ero il Principe Della Luna. Lo ero, mia madre mi
chiamava così, quando ero un bambino. Ed allora era forse uno dei pochi ricordi
che mi rimanesse di lei. E me lo tenevo bello stretto al cuore. Io ero il
principe della luna e quando la guardavo, puoi giurarci, lei mi guardava. E
sorrideva.
Fatto
sta che noi Bengala eravamo piuttosto conosciuti nella zona. Non conosciuti come
i Jellicle Cats o i T- Birds, ma nell’unico pub del paese, lo Zero Gravità, e
nelle scuole dei dintorni molto prossimi
sapevano chi eravamo. Lo sapevano soprattutto "I Lucci", un
gruppo di ragazzotti figli di papà che non aveva nessun nome ma che noi,
fissati com’eravamo con i soprannomi, gli avevamo presto dato a nostra
personale discrezione. E ne avevamo discusso a lungo! Ottanta diceva che avremmo
dovuto chiamarli "Gli allegri ragazzi morti" come il gruppo, Riso
sosteneva il nome "Budini fritti" consono alla sua fissa per il cibo
ed io e Maratona sparavamo nomi a caso senza sostenerli più di tanto. Poi,
mentre ne discutevamo seduti al nostro tavolo dello Zero, Ruben aveva parlato: "Assomigliano
a dei lucci..." aveva detto. E tutti avevamo all'improvviso smesso di parlare e
l'avevamo fissato. Lui ci guardò, serio come la pietra da sotto il basco. Uno
di noi, credo fu Ottanta, disse "Okay!" e la risata generale ci mise tutti
d'accordo.
I
Lucci facevano quello che potevano per infamarci andando in giro a raccontare le
loro stronzate a cui tanto nessuno o pochi, cioè quelli con la puzza sotto il
naso come loro, credeva. Ma loro ci provavano eh... una volta pagarono una
ragazza con cui Maratona era uscito un paio di volte per dire che era incinta a
causa sua. Successe il finimondo. Il padre di Diego gli tirò due sberloni tanto
forti da gonfiargli gli zigomi e lui, il giorno dopo, ne tirò quattro al Capo
dei Lucci, Ringo "Il Pollo" Pelletti, lo stesso che aveva inseguito
alla partita. La rissa che si scatenò dopo è storia.
Fatto
sta che di scherzi del genere ai lucci passò la voglia di farne.
Fu
un sabato sera come tanti che Ottanta se ne venne fuori con la sua trovata
"Sai
cosa pensavo?" mi disse dopo la seconda birra che mi pagava.
"No..."
risposi io, guardandolo di sottecchi.
"Mi
sembra giusto visto che ancora non te l'ho detto..." ripose, poi continuò "Mia
sorella... la maggiore intendo... sai, L' Ale... stava cercando un attore... sai
che lei fa teatro no?"
Io
lo guardai, sapendo benissimo dove voleva arrivare "Si..."
"Beh
tu saresti perfetto nel ruolo, non sarebbe perfetto ragazzi? Insomma lo sai come
sono quelli di questo paese... o intelligenti o belli... invece tu mischi
perfettamente le due componenti nella tua persona e inoltre studi teatro e..."
"No..."
"Ma..."
"No..."
"Per
favore..."
"Guarda
che lo so che volete che mi metta con l'Ale ma non si può..."
"Ma
perchè no?"
"Il
nome Emma non ti dice niente? Perchè non provi a chiederlo alla mia ragazza
cosa ne pensa?"
"Ooooh...
devi mollarla quella... è una stronza..."
"Oh!
Allora? Cos'è sta storia? Non insultare Emma va bene?"
"Madonna
ti ho solo chiesto di recitare in uno spettacolo! Mica di farti l'Ale! Ma si
vede che non sei buono..."
"Ma
vai a cagare va..."
"Va
beh... come ti pare..."
Gli
altri ci guardavano con i tipici sguardi di chi non sa quanto brutta è la piega
che sta prendendo la situazione. Io rimasi a guardare Ottanta seduto sulla
sedia.
"Oh
va bene! Se è così importante lo farò... cosa devo fare? L'albero?"
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Capitolo 3 *** Capitolo secondo ***
Nuova pagina 1
Capitolo
secondo
E
fu così che mi ritrovai a fare Amleto. Non che la cosa mi spiacesse. Io amavo
recitare e Shakespeare, e Alessandra (la sorella di Ottanta che ovviamente
faceva Ofelia) non era quella che definirei una brutta ragazza. Il mio unico
problema era la maledetta timidezza che mi portavo spesso dietro. Il primo
giorno di prove stavo quasi male. Era un martedì ed il cielo era plumbeo e
triste. Entrai a passo lesto nell'edificio di arte “Garibaldi” che conteneva
una scuola di ballo, di recitazione e di musica. Non vi ero mai entrato, a parte
una volta due anni prima con mio padre per portare degli amplificatori ad un suo
amico. Ed in quell’occasione l'unica cosa che avevo visto era il pianoforte a
coda che luccicava nel centro della sala musica. Quanto avrei dato per possedere
un pianoforte del genere...
Comunque
entrai, salii i tre gradini ed entrai. C'era un corridoio, tre porte ed una
scala ed io non avevo la minima idea sul dove dovessi dirigermi. Si sentiva una
debole musica provenire dalla porta più lontana. Una qualche forma di vita
comunque che poteva aiutarmi, pensai, a trovare la strada. Feci qualche passo,
debole, incerto, verso la porta ed alla fine appoggiai la mano alla maniglia,
poi la tolsi, bussai molto debolmente e aprii. La musica era molto più alta
all'interno della sala insonorizzata. Vi era il pianoforte al centro della
stanza ed una ragazza stava cantando il pezzo, swing, a microfono. La sua
insegnante la guardava facendogli qualche cenno di tanto in tanto. L'avevo già
vista, quella ragazza. Scavai per un secondo nella mia mente fino a ricordare di
averla vista in un musical un anno prima in cui interpretava Esmeralda ne “Il
Gobbo di Nôtre Dame”.
Dio,
sembra successo appena ieri. Io me ne stetti lì immobile, incantato dalla voce
della ragazza, neanche chiusi la porta. Lei mi vide solo verso la fine e mi
diede un paio di occhiate con gli occhi grandi, senza smettere di cantare. Che
professionista!, Pensai. Io avrei smesso di certo... Ma intanto, in questo
flusso di pensieri, non mi mossi. La guardavo, conquistato dalla voce, ammirato.
La canzone finì prima di quanto avrei voluto e la ragazza fece un cenno alla
maestra per indicare la mia presenza.
Ella
mi guardò "Salve..." mi disse, guardandomi incuriosita come un gatto guarda una
mosca che cammina sul pavimento.
"Ehm...
Buongiorno..." fu la cosa più stupida che potessi dire, visto che era sera.
"Posso
aiutarti?" chiese come se avesse di fronte un bambino delle elementari.
Esmeralda,
che oramai avevo soprannominato in quel modo non sapendo il suo nome, mi guardò
un secondo e poi si voltò e bevve un sorso d'acqua da una bottiglietta che
aveva appoggiato sul pavimento.
"Sto
cercando... il posto dove si recita..." mi venne fuori "Il posto dove si
recita" al posto di teatro, scuola di recitazione o qualunque altra cosa
intelligente che avrei potuto dire.
Esmeralda
tornò a guardarmi con gli occhi, non capivo se sbarrati o grandi di natura, che
indagavano sulla mia persona.
"Devi
salire..." mi disse l'insegnante.
"A-ah..."
risposi, poi uscii di fretta e dopo aver fatto due metri tornai dentro e chiesi "Salire
dove?"
Entrambe,
che erano ritornate alla lezione, mi guardarono perplesse "Salire le scale..."
disse la donna.
"Terzo
piano." disse invece Esmeralda.
"Terzo
piano." ripetei "Grazie."
"Prego..."
mi disse l'insegnante mentre uscivo.
Salii
le scale. Ed ogni gradino che facevo mi sentivo più strano. Le parole terzo
piano mi rimbombavano in testa.
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Capitolo 4 *** Capitolo Terzo ***
Nuova pagina 2
Capitolo
terzo
E
ci pensai sempre più spesso. Durante le prove successive, la settimana, il mese
dopo. Ogni volta che passavo per quel corridoio, guardavo quella porta
evidentemente credendo fosse di cellophane perchè tutte le volte la squadravo e
risquadravo, mi giravo perfino a vedere se per caso si fosse aperta. A volte
perfino mi fermavo ad ascoltare il pezzo che Esmeralda stava cantando. E non
avevo idea del perchè potessi essere così incuriosito dalla cosa, quale
importante tasto avesse toccato in me non ne avevo idea. Ero affascinato,
richiamato come se fosse quello che da sempre avrei dovuto fare, entrare in
quella stanza. Ma non ci entrai mai.
Fino
al mese di settembre. All'interno le stanze erano silenziose, buie. E dalla
stanza, da quella stanza non proveniva né la voce di Esmeralda né quella di
nessun altro. Nessun suono. Ed allora non resistetti alla tentazione. Schiusi
gentilmente timoroso la porta e vi infilai dentro la testa. Tutto era vuoto e
solo una debolissima luce filtrava dalle finestrelle. Mi chiusi la porta alle
spalle ed andai al piano. Ricordo quella sera, quel momento come fosse ora, anzi
posso perfino ricordare la consistenza dei tasti, il calore che mi percorse le
mani, come se adesso io stia premendo quegli stessi tasti. Le note erano dolci,
stonate quando non prendevo la giusta nota. Passarono cinque o dieci minuti,
forse cento. E poi tu ti sedetti di fianco a me. Posso ancora sentire, come
allora, il tuo odore di pesca, un pò alcolico, come fosse vodka. Il tuo
sorriso. A distanza di anni ti giuro che l'unica cosa che i miei occhi vedono,
ovunque guardi, sono i tuoi occhi. Chiari, gentili, grandi. Appoggiasti
delicatamente un dito ad un tasto ed improvvisamente tutto ebbe un intonazione.
Io
tolsi le mani e ti guardai.
Esmeralda.
E
suonasti, non so ancora per quanto tempo ma sembrò un attimo. Un flash, veloce
come il vento che soffia la mattina, quando nessuno può vederlo o sentirlo
allora si scatena e soffia fuori tutto quello che ha dentro. E' una grande
nuvola, grande quanto l'Alaska, puoi giurarci, che produce il vento. Io la
chiamo Frankie, ma ovviamente scherzo perchè nessuno sa come realmente si
chiami. Forse Ghandi o Gesù... forse è l'anima reincarnata di Buddha. E
soffia. Forte quando nessuno può sentirlo. E quel vento che mi attraversò la
schiena, le dita, gli occhi, fino alle punte dei capelli, quel vento era di
certo merito (o colpa) di Frankie.
Finì
in fretta, non in modo indolore, ti alzasti e io, non so ancora perchè, mi
alzai con te, guardandoti ammaliato. Alzasti la panca del pianoforte e prendesti
degli spartiti. E io, sempre fisso su di te, la bocca spalancata. Non sono certo
che sia io o meno a non ricordarmelo, ma non avevi alcuna espressione. Non eri
imbarazzata, o divertita, non felice o triste. Eri tutto questo e quando uscisti
dalla porta il mio cuore venne via con te.
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Capitolo 5 *** Capitolo quarto ***
Nuova pagina 3
Capitolo
quarto
Ma
perchè, mi chiedo ancora oggi senza avere una riposta, le cose succedono?
Com'è
che ad un certo punto ti trovi sommerso, e vieni trascinato, scosso, portato
avanti, e poi di nuovo indietro?
Com'è
che un giorno sei in un posto e il giorno dopo al capo opposto del mondo?
Com'è
che in un momento sei una persona colma di felicità fin sotto le suole delle
scarpe e il momento dopo, d'improvviso, ti ritrovi sommerso dal più grande
vuoto, che ti strazia e ti sciupa?
Com'è
che si ama, si soffre, si odia, si è liberi, incatenati, vivi, spenti,
luccicanti, opachi?
Com'è
che si vive?
Com'è
che ad un dato minuto di un dato mese di un dato anno una persona arriva e
stravolge la tua vita?
E
tu, ti guardi indietro, dentro, e ti chiedi se nelle tue esperienze passate
qualcosa che ti possa dare una riposta c'è stato. Ci sarà pur stato! Ma dove
l'avevo messo? Aspetta... la risposta... dov'è? Dov'è? Eppure ero certo di
averla lasciati lì! In quello scatolone, guarda, sull'etichetta c'è scritto
RISPOSTE! E allora, dove è finita?
E
la risposta non c'è, non si trova. E allora ci si ritrova seduti al solito pub,
con i soliti amici, la solita luce a chiedersi: “Qual'è il senso della
vita?”
Tu
sei sempre lì, seduto alla solita sedia e non li stai guardando dall'alto o
robe simili, ma li guardi, i tuoi amici, Maratona, Ottanta, Okay, Riso... e ti
chiedi come cazzo è successo che io sia qui? E, soprattutto, cosa sto facendo?
Dove sto andando? Che senso ha tutto questo?
Li
guardi e ti dici, sono uomini, così piccoli piccolini piccolissimi... sono un
uomo anch'io, cazzo! E cerchi di ribellarti, tutto nella tua testa, e di dire NO
porca vacca... io non sono uno qualunque e ti dico, mio caro, che cambierò
qualcosa, la storia! Si proprio la storia, non dire cazzate, ma è quello che
farò! Vuoi contraddirmi, io ci credo. Non sono come loro! Sono peggiore perchè
credo di non esserlo...?
Poi
ti calmi ed arriva un gran mal di testa. E tutto ti sembra offuscato, lontano,
piccolo. Inutile.
Sarà
successo a tutti prima o poi, no?
E
quel mal di testa che pulsa e ti fa scoppiare il cervello. E' tutta colpa
dell'amore dico io... E' l'amore che ti fa sentire piccolo, inutile,
insufficiente a contenerlo. E allora cosa fai? Vai a casa, lungo il vialetto e
già canti, sperando che la cosa ti possa già un po’ scaricare. Aspetti di
scrivere, di pensare, hai bisogno di pensare quando capita, ovunque sei, pensi.
Ma non come tutti gli altri, non come si fa di solito. Tu pensi in versi, pensi
in musica, in dipinti. Le parole ti escono come componimenti strafighi che se
solo riuscissi a buttarli su carta scriveresti un best-seller. Ma lo sai che non
puoi e allora neanche inizi. Te ne stai lì, con il foglio in una mano ed una
penna nell'altra, perché se buttassi giù i tuoi pensieri, anche se fossero
proprio come li hai pensati, ecco che perdono tutto il senso. Non hanno più
senso su quel foglio e nemmeno nella tua testa. Allora li tieni nel cuore, c'è
una grande raccolta e non importa che non li pubblicherai mai... arriverà
qualcuno in grado di leggerli.
Com'è
che, tornando a casa dalla solita strada, sul muro c'è una scritta 25/07/1981
ESMERALDA TI AMO By Il Principe Della Luna?
Com'è
che era lì da quando sei nato e non l'hai mai vista prima?
Com'è che quando torni a
casa, completamente assuefatto, la tua matrigna, che ha sempre odiato i Musical,
ti dice di aver comprato il dvd del Notre-Dame de Paris?
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Capitolo 6 *** Capitolo quinto ***
Nuova pagina 4
Capitolo
quinto
Io
volevo fare l'attore.
Io
volevo, volevo e volevo. Volevo fare tutto e non facevo mai niente e questo
tutti lo sapevano. Volevo scrivere, suonare, cantare, fare il regista ed ora
l'ultima delle mie passioni che risaliva a soli 2 anni prima, l'attore. Ma non
l'attore di cinema, alla Brad Pitt... no, l'attore di teatro.
Niente
fraintendimenti, io amavo fare anche tutte le cose che avevo sognato fino a quel
momento, suonare la chitarra, quando dicevo che l'amavo e di volerlo fare sul
serio, era vero! E così per tutto il resto.
Ma
quando entrai in un teatro per la prima volta, quel giorno mi chiesi davvero
cosa aveva senso nella vita, come facevo ogni volta che incrociavo qualcosa che
mi riempisse di gioia, di tristezza, di emozioni così pienamente da non
riuscire a trattenerle. Affogò il mio cuore. Mi sentii tutto svuotato e non fui
mai così pieno come quel giorno, vale la pena di parlarne ora che ho incontrato
qualcosa che mi ha inspiegabilmente travolto ancor più del teatro.
E
solo un attore sa cosa voglia dire. Non la felicità o la soddisfazione, quella
no, può averla un ragioniere, come un cantante, un calciatore. Ma ognuno di
loro proverà cose diverse, una felicità che produce note diverse, che ti
riempie lo spirito in modo diverso, diversi gli odori, i colori. È quella cosa
che riempie un attore, quando è al centro della scena, con le luci in faccia,
non sente più niente, un torpore, e c'è solo lui. Niente riusciva (anche se
per la verità dovrei dire riesce) a colmarmi più del teatro. Quando stai lì,
sei davvero libero. Quelle luci che ti picchiano sulla pelle sono come il
liquido amniotico, che ti scalda e ti contiene. E non è la gente che ti riempie
(anche se certamente gli applausi o le risate ti fanno sentire le vibrazioni di
tutti i tuoi tendini per la felicità) è qualcosa oltre il tempo e il luogo.
Utopistico sarebbe descriverlo a qualcuno che non c'è mai stato su quel palco,
qualcuno che per diversi codici genetici, non prova quello che provi tu quando
sei lì. E per ogni attore è diverso, ma uguale.
Il
teatro è una macchina del tempo che ti porta nel passato, presente e futuro
tutto compresso, che ti scuote dai tuoi contrasti, dai tuoi pregiudizi, dalle
tue perversioni, dai tuoi stereotipi. Ti lascia libero e nudo, leggero come se
stessi correndo sotto la pioggia, cantando, in un prato, senza doverti
preoccupare di niente, niente che sia sopra o sotto la pelle. Comprime ogni
momento del tuo passato, e ti permette di vedere il futuro, quello che
ovviamente noi tutti abbiamo già sotto la pelle da prima di nascere.
La
recitazione era la massima espressione del vivere per me.
Fino
a che non incontrai te. E il suono, che ancora sento, di quelle note che
suonasti quel giorno, me lo dimostrano. Mi fanno sentire come se dovessi nascere
ancora. Le sento dentro le orecchie, tutto il giorno, come se fossi ancora
seduto lì al tuo fianco.
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Capitolo 7 *** Capitolo sesto ***
Nuova pagina 1
Capitolo
sesto
E
come conferma di ciò che vi ho appena accennato, avevo vari, moltissimi sogni.
La maggior parte rimanevano nella mia testa come cose lontane che erano belle da
immaginare ed anzi già nel momento in cui le pensavo sapevo benissimo che
sarebbero rimaste sempre irrealizzate. Come quelle cose che si dicono, quando si
incontrano per strada i vecchi amici, quando ci si lascia. "Ci si
vede" o "Dai un giorno ci vediamo, facciamo una cena, qualcosa, poi ci
sentiamo." Sai già dall'inizio che non succederà, ma non perché non lo
si voglia entrambi, solo perché tornato a casa già te lo sei scordato. La
mente umana ha un principio fondamentale che agisce di riflesso; è una cosa
immediata "Lontano dagli occhi, lontano dal cuore." Cavolo se è vero.
Anche per la persona più importante della tua vita questo succede. Puoi
metterci minuti, giorni, anni interi. Ma prima o poi, quel giorno arriva. Quel
giorno in cui quella persona diventa un pezzo di ricordo, il passato, s'incarna
nel tuo stesso cuore come parte di te stesso e tu, vai avanti. Non c'è altro
modo di per vivere la vita se non vivere. Continuare, andare avanti. Non esiste
altro. Quel giorno arriva, per tutti. Ma, ehi, con questo non voglio mica dire
che in un secondo tutto non può rinascere! E poi anche se quel giorno arriva e
tu poni quella persona (o quella cosa, perché il procedimento può succedere
con tutto quanto) dietro le tue spalle, ciò non vuol dire che non sia
importante per te. Magari è ancora la più importante. Ti prende tutto il
cuore, tutti i ricordi. Mia madre per me era stato questo. Lei, era rimasta
dentro di me, era proprio parte di me. Ma anche per quello che la riguardava era
arrivato quel giorno. Anche se ogni giorno la pensavo. Non è che la pensassi,
non mi sedevo e la pensavo, semplicemente la ritrovavo nel mio stesso sguardo o
sorriso, nelle parole, nei gesti, nelle cose, nei luoghi. Tutto viveva di lei,
dentro e fuori me. Ma il giorno era arrivato. Ed era arrivato esattamente due
anni prima. Il 16 settembre del 1996 era stata l'ultima volta. Me l'ero
ripromesso. Mi sentivo un bastardo anche se non lo davo a vedere, cercavo di non
pensarci, di pensarci il meno possibile per lo meno. Non volevo sentirmi in
dovere di andarla a trovare, non volevo andarci, neanche mi riconosceva e... ma
cristo lei era viva ed io l'avevo abbandonata! No, no... non l’avevo mica
abbandonata andiamo... No? Sicuro? Eppure il fatto che la clinica per l'igiene
mentale in cui era ricoverata era a cinque, solo CINQUE, minuti da casa mia non
voleva forse dire averla abbandonata ed anzi ignorata, da bravo cristiano. Che
cazzo dico, io non ero neanche cristiano... Ma ero come tutti gli altri milioni
di uomini. Mi sentivo tale in questo. E la mia, presuntuosa, ricerca della
superiorità nei confronti della massa ne risentiva. Perché, come tutti gli
altri, se vedevo un bambino che non aveva niente non ero disposto a dargli più
del minimo possibile. Se mi sentivo buono. Ma quei morsi allo stomaco li sentivo
anch'io e mi facevano star male. Ed erano quelli che sentivo ignorando così la
persona più importante della mia vita intera, passando davanti alla sua
finestra ogni giorno. Ma avevo deciso. E non tornavo indietro, no, no... credevo
che non avrei mai cambiato idea. Anche in questo arrivasti a smentirmi.
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Capitolo 8 *** Capitolo settimo ***
Nuova pagina 2
Capitolo
settimo
Te
lo ricordi che giorno è oggi? Sono 5 anni precisi che non ti vedo. E non ti
sento. Cinque anni, cinque cazzo di anni. Non una lettera, una cartolina, una
telefonata, un SMS... niente. Sono venuto a Torino un casino di volte in questi
anni ed ogni volta mi giravo intorno guardando la città come se fosse di
cellophane, proprio come quella porta, avevo solo te in testa, nel cuore. Per
quel che ti riguarda il giorno per lasciarti alle spalle, per fare il passo che
oltrepassi quella linea, la tua linea.. Il Giorno, con la G maiuscola, ancora
non è arrivato. Non sono ancora disposto a fare quel passo Noemi. No, per
niente. E vengo da te.
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Capitolo 9 *** Capitolo ottavo ***
Nuova pagina 3
Capitolo
ottavo
Ti
rividi un giorno d’ottobre. Senza che per tutte quelle settimane il mio
pensiero mancasse l'appuntamento con te. Ogni giorno eri nella mia testa. Ed era
inspiegabile per me, come era possibile, tutti quei segni... avevo sempre
creduto nel destino ma in questo modo, così mai. Era come se tutto il mondo,
ogni foglia e raggio di sole, cercasse di indicarmi te. E non sapevo neppure il
tuo nome... era una cosa così stupidamente, completamente irrazionale! E Bum...
Ecco che eri di fronte a me quando alzai lo sguardo. Una mattina di sole e
stavo andando a scuola, niente di più. Andavo a scuola, come ogni giorno. E Bum.
Tu eri lì. Il mio cuore crollò e con lui tutte le fondamenta su cui era posto.
E tu eri lì. La borsa a tracolla, lo sguardo perso, i capelli castano chiaro
che saltellavano con il vento. Mi fermai, proprio in mezzo alla strada.
Immobile. Forse tu non te lo ricordi perché guardavi nella borsa, alla ricerca
di un romanzo, ma io me lo ricordo. Mi ricordo te più di tutto il resto. E
quando alzasti lo sguardo e sembravano passate ore. Quando mi guardasti,
perplessa. I tuoi occhi... che mi mancano da impazzire.
Passammo
una decina di secondi a guardarci, poi tu ti alzasti e mi venni incontro,
proprio lì, al centro della strada.
"Ciao."
dissi tu.
"Ciao."
risposi io.
"Mi
chiamo Noemi." e mi porsi la mano. Una bellissima mano.
Io
te la strinsi con forza ma poi diminuì la presa sentendo la tua appena più
morbida "Leonardo."
Ancora
qualche secondo di silenzio. "Dobbiamo proprio stare qui in mezzo alla strada
per parlare?" chiesi senza guardarmi. I tuoi occhi luccicavano come assenzio
sotto la luce del sole.
"Dipende...
"
"Da
cosa?"
"Qual
è l'alternativa?"
Tu
risi. E colorasti l'aria d'oro, di profumi dolci, orientali, di suoni dolci come
le note che suonasti.
"Che
ne dici di un gelato?"
Credo
che mi illuminai, in quell'esatto momento. Ti guardai negl'occhi e sorrisi con i
brividi che mi attraversavano anche i denti. "Ti seguo."
E
poi è un momento, mi prendi per mano e siamo già in gelateria, siamo già una
cosa sola.
E'
inspiegabile vero? Ci hai provato in questi anni a raccontarlo a qualcuno?
Quello che c'è stato tra me e te... quella magia. O sei riuscita anche solo a
spiegarla a te stessa? Io ci ho provato in questi anni, a raccontarlo. E non ci
sono mai riuscito. Non l'ho mai capito neanche io fino in fondo. L'ho vissuto
però, fino all'ultimo briciolo, fino all'ultima goccia. Mentre tu sei andata
via.
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Capitolo 10 *** Capitolo nono ***
Nuova pagina 4
Capitolo
nono
Ti
aspettavo, in quella sala con i muri gialli e la ferma tovaglie a forma di topo.
Quel bar che rappresentava l'atmosfera dell'interno di una gigantesca gruviera.
Miglia e Miglia di distanza da casa. E sai cosa pensavo allora? Me lo ricordo
bene perché avevo appena incontrato un mio vecchio amico, uno che era pure
stato l'ex di una mia ex. Si chiamava Stefano, il cognome non lo sapevo e quando
lo rividi il nome non me lo ricordavo neanche. Lo chiamai Simone e da allora
sai, una cosa tira l'altra, finimmo a parlare del perché mi trovassi così
lontano da casa. Finimmo a parlare di te. Gli dissi, ho conosciuto una tipa...
la sto aspettando. E così tra il suo stupore per il fatto che avessi fatto
tutti quei chilometri solo per vedere una, lui mi chiese chi fossi ed io gli
risposi. Così... sai quando si dice un nome e ci si aspetta che l'altro dica
"Boh..."? Lui invece sgranò gli occhi e si sedette, ti descrissi
meglio e cavolo sai cosa scoprii? Eri stata la sua ex. Per ben 6 mesi quando lui
viveva ancora dalle nostre parti.
Ed
anche se il mio iniziale pensiero fu: "Ma guarda se devo continuare a
scambiarmi le morose con questo..." , dopo mi trovai a riflettere sulle
circostanze della vita.
Pensai
ancora più forte, quando lui se ne andò.
Tu
mi eri passata davanti chissà quanto volte prima di quel fatidico giorno al
Garibaldi. Eppure prima di allora nulla, nero, vuoto, zero. Non sapevo nemmeno
che esistesse qualcuno come te. Nemmeno che esistesse un tipo d'amore come
questo. Che dura per sempre.
E
allora dimmi, non è forse vero che in alcuni momenti della nostra vita siamo
destinati a fare certe cose, andare in certi posti ma soprattutto ad incontrare
certe persone?
Non
è vero che era quello il nostro momento?
Quel
giorno in cui improvvisamente tu sei diventata il centro della mia rotazione ed
io il tuo quando fino al giorno prima eravamo due perfetti estranei.
Non
è forse vero che le persone arrivano per un motivo a sbatacchiare la tua vita
come fosse un calzino sporco nel cesto dei panni?
Io
so che un motivo c'è, eccome. Non mi è dato sapere quale anche se lo cerco.
Ma
so che c'è.
Come
quando senti qualcuno che ti osserva, sai che c'è, è lì. Ne senti la
presenza.
Io
sento la presenza del nostro motivo. L'ho sempre sentita, quel giorno al
Garibaldi, il giorno in cui hai suonato al mio fianco, quando ti ho portato a
teatro, ora in questo treno.
E'
tutto intorno a me ed anche intorno a te. E' assordante.
Lo
sentivi anche quel giorno, ci scommetto. Quando sei entrata e mi hai fatto quel
sorrisone grande come il Titanic e i tuoi occhi si sono illuminati della luce
che emanavi. Hai sventolato la mano con il tuo solito fare, la tua postura, i
ritmi dei tuoi movimenti. Le tue movenze, erano sempre, tutte, scandite da un
ritmo, unico nel suo genere, che mi faceva battere il cuore nel petto come se
fosse un orologio a cucù; avevano tutto uno schema particolare, seguivano dei
tempi precisi, erano armoniosi, musicali, eppure a scatti; come se dondolassi ma
ad un certo punto dovessi bloccarti improvvisamente, senza preavvisi, con uno
scatto, e poi ricominciare dolcemente come prima, senza che niente fosse
successo.
Anche
tu eri un po’ così. Certi giorni eri la donna più dolce del mondo, più
affettuosa (mai troppo per me comunque), altri non salutavi neppure e poi
ritornavi dolce come sempre.
Eri
un completo mistero per me, eppure era come se ti capissi meglio di quanto non
avessi mai capito me stesso.
Ti
suona? Conosci queste cose che ho provato? Le hai provate anche tu? Oppure le
hai capite immediatamente guardandomi negl'occhi?
Fu
quel giorno, credo si possa dire, che tutto ha cominciato ad assumere una forma
razionale. Almeno credo che gli storici porrebbero l'inizio qui o no? Tu che ne
dici? Tu che con la tua cultura ed intelligenza ed arte bestiale mi facevi
sentire un perfetto imbecille, io che facevo sentire così tutti gli altri e mi
ero oramai abituato a lasciare tutti basiti dalla mia profondità o da un mio
discorso ben articolato (in quelli poi ero un mago), ero abituato ad insegnare
io agl'altri. E tu, tu sapevi già tutto ciò che volevo insegnarti e forse
anche di più. Non eri superiore ma mi davi del filo da torcere, eri troppo
intelligente. Forse per questo mi affascinavi così tanto?
Comunque
sia io l'inizio voglio porlo qui. La prima cosa che ti ho mostrato, dopo averne
viste alcune da te, come quel giorno al pianoforte.
Ti
ho aperto il mio cuore, per cercare di farmi aprire il tuo. A dire il vero forse
era già spalancato ma io non lo vedevo, angosciato com'ero da tutte quelle cose
che angosciano un uomo innamorato. Ti ho mostrato una delle parti più
importante di me, volevo che entrassi a farne parte. Ti volevo con me, sempre.
Volevo
vivere con te ogni cosa.
Volevo
darti la chiave di tutto me stesso.
Volevo
avere lo stesso da te.
Volevo
te, ma non nel senso puramente fisico della frase. Ti volevo mentalmente prima
di ogni altra cosa.
Volevo
una persona speciale, a cui mostrare tutti i pensieri che avevo nel cuore, che
potesse leggerli.
Fu
questo che mi uccise sai? L'aspettarmi qualcosa e non il prendere semplicemente
quello che veniva. E' stato come pretendere di costruire un grattacielo sulle
fondamenta di un capannone. Un gran casino.
Comunque,
siamo ancora nella gigantesca gruviera. Tu davanti a me, non mi abbracci né mi
dai i soliti bacini di rito sulla guancia, che io odio e tu con me. Ma non
importa perché niente di tutto ciò avrebbe potuto darmi quanto il contatto che
li avrebbe seguiti. Quando ti presi la mano per portarti con me, dentro di me.
Non so dirti l'esatta motivazione ma stringerti la mano mi emozionava più di
ogni altra cosa al mondo. Attraverso le tue dita sentivo davvero il tuo affetto.
Quello che magari non hai mai dimostrato a parole, me lo passavi attraverso le
mani. Il mio cuore sgusciava come un pesce tra le mani quando ti sfioravo la
mano, si dibatteva, picchiava contro lo sterno. E poi si fermava
improvvisamente, si calmava e trovava lo stato di pace più assoluto del mondo.
E fu così che ti portai con me, attraverso le strade della città, fino al
teatro, dove studiavo da tre anni. Dove trovavano sede almeno la metà dei
ricordi più importanti della mia vita. Erano le nove di sera, all'incirca.
Aprii la porta e ti guidai all'interno. E stavo così bene che non puoi neanche
immaginarlo. Ti portai dietro, dove c'erano le quinte, in mezzo agli attori,
frenetici per lo spettacolo che stava per andare in scena. Mi fermai, in mezzo a
due file di costumi e ti guardai, tenendoti sempre la mano. Non la lasciai mai.
Mi guardavi, mi sorridevi, avevi una luce negl'occhi, la solita luce che ci
avevo sempre visto. La luce che amavo con ogni parte di me stesso. E risi. Non
una vera e propria risata, non di gusto, né isterica. Era più che altro un
sogghigno, lo facevo spesso- in particolare quando ogni cosa che avrei potuto
dire mi sembrava molto stupida- in particolare con te.
"Leo!
Cazzo ci sei allora! E' mezz'ora che Ghiliotti ti telefona! Tra cinque minuti
sei in scena con il monologo... Emy è già pronta è di là..."
"No
grazie Edo, stasera non lo faccio con lei il pezzo d'introduzione..."
"Ah...Ma
Ghiliotti lo sa?"
"Che
importa?"
"Sai
che si arrabbia..."
"Dici?si...okay...ehm,
chi se né frega."
"Beh okay, preparati..."
E
tu mi guardasti. "Devi recitare? Ora?" mi chiesi.
Io
ti sorrisi e afferrai una bandana di scena.
Tu
seguisti con lo sguardo la mia mano "Che fai?"
"Non
chiedere. Fidati." e ti lasciai la mano, solo per un attimo per allacciarti la
bandana dietro la nuca, così da coprirti gli occhi. I tuoi capelli erano
soffici ed emanavano un odore di shampoo alle mandorle aromatico come le spezie.
Ti ripresi immediatamente la mano.
"Leo..."
mormorasti tu, dubbiosa.
"Fidati."
e ti portai tra la folla di scenografi e costumisti fino al sipario. Ti presi le
spalle- ancora tenendoti la mano- e mi piantai dritto davanti a te, bellissima
con le labbra socchiuse e la fronte inarcata in preoccupazione.
"Ci
siamo solo noi. Io e te. Capito?"
Eri
ancora più preoccupata, le tue labbra s'erano contratte in una smorfia. "Che
stai facendo?"
"Noe.
Ascolta. Senti il rumore, quello delle onde? S'infrangono sugli scogli. E il
vento, che ti accarezza la pelle, il grano che ti solletica le braccia. Ci siamo
solo io e te qui, ora, in questo esatto momento. Io e Te." sussurravo appena.
E
il sipario si apre. Tu non puoi dire nient'altro, la mia voce, il mio timbro
improntato sulla recitazione e sulla dizione, ti sovrasta.
"Selene,
gentile Selene dea di quella luna lassù nel cielo! Perché non mi aiuti? Non
vedi che son morto? La luce di tuo fratello sole non vuole la mia bella
conquistare, lei preferisce la gentil notte di cui tu sei sovrana ma tu, sua
signoria, non vuoi dar me una mano? Oh, seducente luna, guardala. Il di lei
sguardo è fermato da sudice bende che non la competono, ma assistimi, mia dea.
Se ben la guardi, li puoi veder di già i suoi occhi, perché la loro luce
splende oltre i muri e la terra e il cielo! Due smeraldi che ben s'apprestano ad
esser scambiati per pietre preziose se non fosse che essi ben più preziosi son!
Tu vedi quanto bella pare Esmeralda, bella a me sembra più d'ogni altra cosa
che in cielo e in terra abbia mai respirato."
E
le mie mani che ti sfiorano i capelli e le orecchie, ti slego la benda e la
faccio scivolare per terra, lentamente.
"Libera!
Libera ti faccio! Poiché non uno può incatenare cotanta bellezza nelle sue
sole mani ed io, più umile tra gli uomini, potrei tanto meno degl'altri
cavalieri che t'aman mia dolce Esmeralda Libera, ma non dal mio amore liberata! Senza voler nulla da
te, m'appresso a dare qui ogni cosa per il resto della mia immortalità."
M'inginocchio e ti prendo la mano "Perché mi par vero quanto bella può esser
donna, i suoi capelli e le sue dolci labbra, ma quanto bella vostra anima sia io
non posso credere ma solo prestar servigio senza esiger nulla più di ciò
ch'amor dà."
E
il sipario si chiude e i rumori e gli applausi, tutto mi sembra lontano.
Solo
i tuoi occhi nei miei.
Io
e Te.
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Capitolo 11 *** Capitolo decimo ***
Nuova pagina 5
Capitolo
decimo
Non
immagini nemmeno cosa volesse dire per me, quanta sofferenza, nei momenti in cui
tu ti isolavi dal resto del mondo, me compreso. E lo facevi proprio quando tutto
andava per il meglio. Ed io non riuscivo proprio a lasciar correre ed aspettare
con pazienza che il tuo periodo "scazzo" passasse. Mi arrabbiavo, mi
arrabbiavo da morire. E mi arrabbiavo perché non mi cagavi, e mi arrabbiavo
perché dovevo sempre essere io quello a cercarti, e mi arrabbiavo perché mi
sentivo inferiore, e mi arrabbiavo perché non volevo e non potevo pretendere da
te che provassi qualcosa che non provavi, e mi arrabbiavo perché mi accorgevo
di essere stupido e pazzo, e mi arrabbiavo per come tutto mi toccava, e mi
arrabbiavo perché non riuscivo a farmi scorrere addosso le cose, e mi
arrabbiavo perché ero come ero e perché tu eri come eri, e perché le cose
erano come erano, e mi arrabbiavo con il destino, e mi arrabbiavo perché non
volevo essere arrabbiato, e mi arrabbiavo perché tu non vedevi la mia rabbia e
perché non volevo scaricartela addosso, e mi arrabbiavo perché la mia rabbia
mi portava ad allontanarmi da te e a perderti, quando il tempo a disposizione
era poco. Pochissimo.
Odiavo
i tuoi periodi scazzo. Mettevano in discussione tutto, tutto ciò che di buono
c'era stato, tutto ciò che di bello mi avevi mai detto, tutte le dimostrazioni
d'affetto che mi avevi dato, ogni mia sicurezza a proposito di me e te. Tutto a
puttane.
Mi
facevano sentire completamente incapace
di raggiungere l'obiettivo che mi stavo segretamente prefissando, che stavo
cercando di raggiungere a piccoli passi; scuotendo la tua anima, stordendo i
tuoi sensi, portarti ad una rinascita, darti tutto ciò che era mio, ricevere
tutto ciò che era tuo; farti rinascere dalla pioggia attraverso il mio sole,
accennarti i tuoi desideri per farli diventare reali in me, riscoprire terre di
palloncini e colori. Volevo rinascere con te, grazie a me.
Ma
era davvero difficile con te; era impossibile con te. Più mi avvicinavo e più
ti allontanavi, più mi allontanavo e più ti allontanavi. Ma ogni tanto ti
avvicinavi, in un botto rappezzavi tutta la distanza, ed io non capivo qual era
stato il segreto di questa riappacificazione, il sussurro del mio cuore al tuo,
il sussurro del tuo cuore al mio. Non capivo l'ingrediente ed allora durante i
tuoi periodi scazzo, mi ritrovavo tutte le volte, punto e a capo, a stare male.
E
stavo malissimo, non puoi neanche immaginartelo. Stavo male, male, male, male. E
mi dicevo, bene, ora basta, vuole fare la super donna? Non mi caga? Cazzi suoi,
solo peggio per lei. Sai quante ne posso trovare meglio di lei, io?
Vaffanculo... fanculo, fanculo lei, fanculo il destino, fanculo tutto.
Il
tempo si fermava intorno a quella decisione di non cercarti, per quanto sentissi
l'errore che stavo commettendo. Eppure una volta che decidevo il mio orgoglio
non mi permetteva più di tornare indietro. E chissà quanto tempo buttato nel
cesso per questo... non l'ho contato ma dev'essere stato davvero tanto. Per cosa
poi? Non mi sentivo affatto soddisfatto. Ed anzi, stavo male come un cane, mi
mancavi da morire e volevo crocifiggermi perché mi stavo facendo male da solo.
Dopo
le prime due crisi in-scazzo adottai un metodo più consono alla mia proverbiale
testarda sensibilità. Pazienza e Perseveranza. Queste erano le due parole
chiavi. E me le ripetevo nella testa durante i tuoi periodi scazzo, anche mille
volte al giorno. Pazienza e Perseveranza.
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Capitolo 12 *** Capitolo undicesimo ***
Nuova pagina 6
Capitolo
undicesimo
Avevo
un sogno nella testa. Da anni almeno, anche se io ero convinto che avesse sempre
fatto parte di me. Il desiderio di prendere la mia maglietta migliore, tutti i
soldi che avevo, le persone più importanti al mondo per me, e partire. Non per
sempre, non definitivamente. Anche se doveva essere una cosa eccezionale per chi
vi avrebbe partecipato. Non doveva rimanere nella storia ma nei cuori di tutti
coloro che c'erano stati ed avevano visto, con i loro occhi. Doveva rimanergli
nel cuore quella luce, la luce della Spagna, della Francia e poi in Germania,
tappa a Lugano, Basilea e poi giù fino a Firenze, Roma, Pompei, Napoli,
Venezia, Pisa; poi passata l'Italia di nuovo su, Slovenia, Repubblica ceca,
Danimarca, Grecia, Croazia, Olanda, Portogallo, di nuovo Spagna e Francia,
Inghilterra, Galles, Scozia e, ultima e più desiderata, Irlanda.
La splendida terra smeraldo. Quella che consideravo la mia seconda terra, se non
la prima. Non c'ero mai stato ma lo sapevo, lo sentivo, senza un motivo logico.
E lì volevo andare a finire il mio sogno.
L'Inter-rail, il sogno di una vita. Un biglietto del treno che
valeva per sempre. Sei mesi di pausa dalla routine. Sei mesi di VITA pura,
caricata nel corpo, una spina attaccata direttamente al cuore. Te ne parlai il
giorno stesso, o forse quello appena prima, in cui mi accorsi che eri diventata
la persona più importante di tutta la mia vita.
Te
lo promisi.
Ti
dissi che ti sarei venuto a prendere. Che ti avrei caricato sulle spalle se
fosse stato necessario.
Vengo
a mantenere la promessa dal momento in cui, tu sei ancora la persona più
importante della mia vita. Anche senza farne parte.
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Capitolo 13 *** Capitolo dodicesimo ***
Nuova pagina 7
Capitolo
dodicesimo
Ottanta
aveva sempre idee nuove. E su questo nessuno potevo dire nulla. Peccato che
erano tutte gigantescamente stupide. Come quando venne a dirci che dovevamo
provare a pattinare su una pista da bowling, o come quando ci chiese cosa
sarebbe secondo voi l'acqua se fosse asciutta. O perché il Galak avesse come
simbolo un delfino. Voglio dire, il delfino mica fa il latte. O come si
riempiono i tubetti del dentifricio, e soprattutto di cosa è fatto il
dentifricio? Perché, voglio dire, lo shampoo fa niente se non so di cosa è
fatto, ma il dentifricio me lo metto in bocca tutti i giorni! Se fosse fatto di
lardo di maiale spremuto più foglie di aloe vera?
L'ultima
trovata fu grandiosa. Ci disse che dovevamo assolutamente
inventarci un chip che registrasse tutta la nostra vita, sogni compresi. Questo
chip, il magazzicordi, doveva essere
installato alla nascita in un area del cervello in cui avrebbe potuto
immagazzinare tutte le memorie di un uomo. Il fatto è che Ottanta non sapeva
neanche lontanamente quali fossero le aree del cervello, né se fosse
lontanamente fattibile, né se esistesse una tecnologia simile. Ottanta era
l'uomo più utopico che noi tutti avessimo mai conosciuto. Solo che lui non si
accorgeva molto di esserlo ed, anzi, si sorprendeva che gli altri non gli
dessero corda. Tutti noi ci scherzavamo sopra su questo suo estro, quasi tutti
non consideravano la persona che si nascondeva sotto quelle magliette
"Ottanta Voglia Disco Party". Lo vedevamo come un buffone, uno così,
un Peter Pan eterno perso dietro alla barzelletta del pomodoro che non riesce a
dormire perché l'insalata russa, un sognatore con in testa una visione del
mondo alla Dawson's Creek. Un immaturo, a volte anche un insensibile.
La
verità era che Marco era il ragazzo più sensibile che fosse mai esistito sulla
faccia di questo mondo del cazzo. Lui era davvero un cazzo di genio. Era un
grande. Uno che aveva capito tutto un attimo prima del resto del mondo ma che
era stato zitto, senza prendersi la gloria aveva aspettato pazientemente che
qualcun'altro ci arrivasse con la sua testa e si prendesse tutto il merito. Era
un mediano, uno che si faceva il culo per tutti i novanta minuti più di tutti
quanti, colui che faceva davvero vincere le partite mentre i giornali, i tifosi,
tutti, idolatravano l'attaccante di turno. Lui era il migliore. Migliore di gran
lunga di tutti quanti noi. E aveva accettato che altri, pur peggiori di lui, si
prendessero la fama di migliori.
Ma
tutti lo videro, tutti videro l'uomo che era. Improvvisamente a tutti fu chiaro.
Io lo sapevo già che uomo fosse, lo ammiravo già da tempo. Ma quando si
presentò, un giorno di pioggia, bagnato di fronte a casa mia, dicendomi che ora
sapeva quali fossero le parti del cervello e che me le avrebbe svelate così
potevo costruire il chip, dicendomi che ora le sapeva tutte benissimo perché
aveva un tumore proprio lì, singhiozzando come chi ha paura di non poter più
aiutare le persone che ama e non come chi ha paura per se stesso, piangendo
sotto la pioggia mi abbracciò, la maglietta nera con un grande 80 stampato
sopra appiccicata al petto, come se volesse sorreggere me più che farsi
sorreggere. Tutti seppero che lui era il
migliore.
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Capitolo 14 *** Capitolo tredicesimo ***
Capitolo tredicesimo
Capitolo
tredicesimo
Capitolo
tredici. Credo di doverlo trattare con le pinze questo numero, poiché mi
ricorda te. Il tuo numero preferito,
quello che indossavi su quella maglietta bianca e rossa di pallavolo, in quella
foto in cui il tuo sorriso da bambina è grande come ora, in cui i tuoi occhi
verdi brillano anche lontani cento metri. La maglia che indossavi in quei
ricordi, quando ancora tu non conoscevi me ed io non conoscevo te. Eppure ti
giuro che ogni volta che vedevo qualcosa di tuo, una foto, un luogo che per te
era un ricordo, era come se l'avessi già visto, come se ci fossi già stato.
Lo
sentivo sotto la pelle.
Lo
sentii per la prima volta quando lessi "Ricordi
di Cose Presenti". Tu amavi
scrivere e questa nuova scoperta mi percosse come un tamburo. Perché anch'io
amavo scrivere, da sempre.
Me
lo chiedesti così, d'improvviso, di leggere quello che avevi scritto, quello in
cui tu avevi messo tutta te stessa. Nemmeno mi conoscevi molto quando me lo
chiedesti. Mi dissi che te lo sentivi, che ero la persona giusta. E non
sbagliavi.
Proprio
allora sentii quella sensazione. Fu stranissimo, la prima volta come la seconda,
diverso, ma in entrambi i casi strano. Come se tutto quello che stavo leggendo
l'avessi già visto, ma senza farne parte. Mi prendeva una certa malinconia
mentre leggevo, come se facessi parte di qualcosa essendo invisibile e quindi
non facendone parte per nessun altro. Parlavi di te, di altri, di sentimenti e
pensieri, con naturalezza e forza, descrivevi i miei sentimenti, i miei pensieri
pur senza averli mai ascoltati, perché erano forse anche i tuoi. Ma parlavi
anche d'amore, di un amore vero, un amore come quello che da una vita anch'io
cercavo. Tu questo amore, dio, l'avevi già trovato. Mentre io pensavo di averlo
trovato in te, che stupido...
Ma
lì, in quelle righe, tu parlavi di quello che io provavo per te, descrivendo
quello che tu provavi per lui. Lui,
che non ero io.
Tremavo,
piangevo quasi, mentre leggevo. Sentivo questa cosa che tu provavi per un altro,
che era la stessa cosa che io provavo per te.
Non
funzionava. Non potevo essere io la tua persona speciale se tu già ne avevi
una.
Perché allora, perché? Mi
chiedevo perché tutto mi portasse a te, se questo non significava niente. Ed
intanto, nel sedile anteriore della macchina di mio padre, andando verso teatro,
alzando gli occhi da quei fogli in cui tu avevi messo l'anima e io avevo
lasciato la mia, un cartello pubblicitario grande come una casa diceva "NOEMI
bomboniere".
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Capitolo 15 *** Capitolo quattordicesimo ***
Capitolo quattordicesimo
Capitolo
quattordicesimo
A
volte avrei voluto davvero essere stupido. Uno qualsiasi.
Il
18 gennaio 1999 Marco Ottanta morì. Lo sapevamo che sarebbe successo. Lo
sapevamo tutti che era grave, irreversibile. Ma mi scarnai le mani da quanto
strinsi i pugni. Mi rimase dentro come pianse Rebecca. Anche sua madre piangeva,
anche suo padre, Davide, Diego, Ruben, io. Tutti piangevamo, ma quando vidi
Rebecca mi sentii male in profondità, fino al fegato. Il pianto di una ragazza
innamorata quando gli tolgono l'uomo che ama. Non respirava, era accucciata in
un angolo del corridoio e singhiozzava, si agitava come una tartaruga a pancia
in su, tremava, rantolava, chiamava il nome Marco
sincopato dal respiro che mancava. Morii dentro e rinacqui vedendola, tra la
sofferenza che mi graffiava ogni parete del cuore, fui preso da una gioia
immensa, da una voglia di te che mi riempì di vita.
Respiravo
ancora. Morto respiravo.
Emma
mi abbracciava, mi accarezzava i capelli e io mi staccai da lei di colpo, con
gli occhi gonfi come due palle da bowling la guardai, le labbra che tremavano e
il viso che si contorceva tra la sofferenza. Guardandola, mi voltai e corsi via.
Giù per le scale, veloce come non lo ero mai stato, l'aria mi entrava nei
polmoni anche se avevo la bocca e il naso chiusi, di corsa per le strade, sotto
la pioggia e il sole che bucava le nuvole. Morto e pieno di vita, fino a casa
tua, e, la cosa mi stupì e mi colpì come una freccia nel cuore, tu eri lì
davanti alla porta, come se già lo sapessi, come se già mi aspettassi. Mi
guardasti da sopra i tre gradini del portico di casa tua e io guardai te,
bagnato tanto da sentirmi davvero libero, davvero vivo. Mentre piangevo, risi
guardandoti. Risi e piansi, fortissimo, mentre ti abbracciavo, forte come non
avevo mai abbracciato nessuno in vita mia. Tu eri ancora lì,
con me. Ed io, ero vivo.
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Capitolo 16 *** Capitolo quindicesimo ***
Capitolo quindicesimo
Capitolo
quindicesimo
A
volte avrei voluto davvero essere uno stupido. Uno qualsiasi.
Avrei
voluto non dover sentire tutto quell'amore, quelle emozioni che mi sommergevano
di tanto in tanto. Sempre. Avrei voluto non accorgermi delle piccole cose, avrei
voluto non sentire le emozioni degl'altri. Avrei voluto non rendermi conto di
nulla. Essere uno stupido.
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Capitolo 17 *** Capitolo sedicesimo ***
Capitolo sedicesimo
Capitolo
sedicesimo
C'erano
certi giorni Noe, che i tuoi occhi erano belli più dell'aurora boreale. Come
quando, quella sera di febbraio, ti sentii cantare, proprio seduta al mio
fianco, quella canzone. Natural Woman,
mi guardasti dritto negl'occhi. Fino in fondo all'anima. E i tuoi occhi erano
intensi come una pioggia d'estate e chiari come l'arcobaleno. Bellissimi. Io ti
amavo, ti amo, e i brividi che mi percorsero la schiena quella sera di fine
inverno furono veri, veri come un pugno nella bocca dello stomaco, mi lasciarono
senza respiro.
Quella canzone cantata, sul
filo tra la coscienza e l’incoscienza, per me, mi rimase dentro. Ancora oggi
la ascolto, almeno una volta al mese, e tutte le sere, ad un anno, due, tre,
quattro, cinque di distanza da quella sera. Ogni anno, come se fosse diventato
un appuntamento fisso. Ed ogni volta che l'ascolto, l'immagine di te che mi
guardi cantando, una mano che mi stringe con forza l'avambraccio, seduta al mio
fianco, la tua voce, favolosa da far venire i brividi, i tuoi occhi...
Ogni
volta quei ricordi ritornano prepotentemente nel mio presente, come fantasmi
che, riapparendo, mi tormentano così dolcemente da far sorgere lacrime sul
bordo dei miei occhi.
Lacrime
di rimpianto, di rabbia, di dolore, di mancanza. Lacrime di felicità, di una
felicità sgomentante da prendermi tutto il corpo, tutto il cuore, tutta
l'anima.
Quelle
immagini mi colpiscono come gocce di pioggia di un temporale estivo, mi
percorrono la pelle, mi impregnano i capelli fino a gocciolare dalle punte dei
ciuffi, sulle labbra, mischiandosi con le lacrime calde che racchiudono emozioni
forti come il sole su mercurio.
Quella
sera, era il 2 febbraio, era una di quelle sere... rare, splendide, in cui tu
spugnavi tutto di un interso argento vivo, spruzzavi le pareti d'arancio, il
cielo d'azzurro intenso, il sole splendeva di più, anche se era già
tramontato, la luna brillava come in un film di Baz Luhrman, e le stelle avevano
occhi e sorrisi.
Era
una di quelle sere in cui ci sembrava di poter cambiare il mondo.
Tu
mi guardavi e vedevi tutto ciò che c'era da vedere, tutto, fino in fondo al
cuore, e cantavi. Cantavi di sensazioni. Ed io, dal canto mio, che ti avevo
sempre in testa, rimanevo estasiato dalla potenza del tuo affetto, colpito dal
furore delle tue attenzioni come se fossi stato fulminato, folgorato dal tuo
modo di illuminare, di riempire le stanze, di riempire me.
Non
succedeva mai, davvero mai.
Tu,
in mezzo a tanta gente, guardavi me.
Era
una tavolata di almeno, almeno quindici persone. Perché poi, lo sai, per
diciassette anni la mia esistenza era andata avanti nella più assoluta
ignoranza di te, di chi fossi, di quali fossero i tuoi sogni e le tue
sofferenze, e poi, in un botto, scopro che la persona che mi ha fatto scoprire
la cosa per me più importante, il teatro, una persona che per me era come e più
di una sorella, era anche una tua grande amica; ovviamente doveva succedere.
Ed
allora, torniamo alla tavolata. Io da una parte del tavolo, tu dall'altra. Se
fosse stata una sera normale, tu sai meglio di me, non te ne saresti neppure
accorta.
Ed
invece, era una di quelle sere in cui ci sembrava di poter cambiare il mondo e
tu, tu te ne accorsi. E mi guardasti spesso, dicendomi, così dolcemente che
pensavo che tu non fossi tu, di cambiare posto e venire lì vicino a te. Non hai
idea di quanto il mio cuore si riempì, di te, di me, del luogo, dell'aria che
tirava; il momento si stampò dentro di me come un francobollo, come un marchio
a fuoco. Quella sera, la tua voce mi bucò i timpani e penetrò come un chiodo
fino all'interno. Il tuo viso, il tuo sorriso... i tuoi occhi mentre mi
chiamavi, senza motivo, per abbracciarmi alla vita, appoggiando il tuo viso sul
mio fianco. Non mi sembrava possibile, la luce che brillava nei tuoi occhi che
erano verdi più del prato dell'Irlanda. Erano belli più del sole che si
nasconde dietro al mare.
Quasi
non mi sembravi tu... Eppure, era come se fossi tu, più di ogni altra volta te
stessa. Tu, alla massima potenza.
Era
una di quelle sere in cui ci sembrava di poter cambiare il mondo.
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Capitolo 18 *** Capitolo diciasettesimo ***
Capitolo diciassettesimo
Capitolo
diciassettesimo
Una
volta, una delle tante, parlammo di Dio.
Fu
quando ti chiesi di venire con me al cimitero, a trovare Marco. Perché pensavo
che con te lì di fianco non avrei pianto come uno scemo. Pensavo che avresti
potuto riempire il vuoto che provavo.
E
poi, volevo che lui ti vedesse, dovunque fosse. Volevo che vedesse la persona più
importante della mia vita.
Alla
fine, piansi. Ma non come uno scemo. Piansi come uno che ha perso un suo amico,
piansi come un uomo e, porco cane, come uno che aveva il diritto di piangere.
E
tu eri lì, anche allora.
Eri
lì.
E
c'era il tuo abbraccio, le tue dita tra i miei capelli, il tuo profumo. Il tuo
silenzio, più confortante di centomiliardi di milioni di parole.
E
sì, mi sentivo uno scemo ma invece feci quello che sa che è più forte uno che
non ha paura di mostrare le lacrime che uno che le trattiene. Cioè, lo sapevo
teoricamente ma praticamente era tutta un'altra storia...
Ma
l'imbarazzo sparisce presto quando muore una persona che non puoi credere morta,
da un momento all'altro. Ti spezza in due.
Ed
una lacrima si trasforma in due, due lacrime in quattro, e quattro lacrime in
otto, e otto in sedici... E più piangi e più hai voglia di piangere, più ti
ricordi tutto quello che hai condiviso, le immagini ti percuotono, ti straziano
sapendo che non ce ne saranno altre. Vedi la pietra, lì al tuo fianco e sotto
quella terra c'è il corpo, quel corpo che hai abbracciato, che hai visto
vivere, sorridere.
E
ti rendi conto di quanto sia vicina la morte alla vita. Nessuno ci pensa, ci si
pensa raramente e penso sia giusto perché non si può vivere pensando di
morire.
Ma
ognuno dovrebbe realizzare quanto sia vicina la
morte.
La
linea tra la vita e la morte; sottilissima, invisibile, forse nemmeno esiste se
fai caso al fatto che molti uomini che respirano sono come già morti e molti
uomini che stanno sei piedi sotto terra sono vivi come mai lo sono stati nei
ricordi, nei cuori.
E'
proprio lì, la morte, affacciata all'angolo.
Ed
uno può vederla come un oscura figura con una falce, o come un angelo dal bel
sorriso, o come un sonno eterno... non ha importanza come, ciò che importa è
che c'è, è presente, tanto quanto la vita. Ed uno dovrebbe saperlo, rendersene
conto di quanto è facile morire, così come togliere la vita.
Ed
accettarla come un mistero, che nessuno sa se sia meglio o peggio della vita
stessa.
Che
ci sia un Dio, un paradiso o un inferno, un lungo buio, una fine completa, una
nuova vita.
Che
non ci sia, e basta.
E
così come a volte il non sapere mi angosciava a volte m'incuriosiva, a volte mi
lasciava indifferente. Ma abbracciandoti quel giorno sperai solo, vivo o morto,
di rimanere insieme a te perché, lontano da te, quella sarebbe stata l'unica
mia morte.
E
giurai che niente, nemmeno l'oscura figura con la falce, mi avrebbe tenuto
lontano da te.
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Capitolo 19 *** Capitolo diciottesimo ***
Capitolo diciottesimo
Capitolo
diciottesimo
La
prima serata, dopo un mese dalla morte di Marco, in cui ci sedemmo di nuovo al
nostro tavolo fu una freddissima sera di metà febbraio. Nessuno aveva voglia di
ridere, di parlare, di vivere o di andarsene. Per un mese nessuno di noi aveva
più messo piede in quel posto. Ma ora, tutti sapevamo di dover andare avanti. I
carezzevoli ricordi del nostro amico ci apparivano davanti agl'occhi, ognuno li
vedeva in modo diverso ma ognuno, al tempo stesso, fissava quella sedia vuota,
con il cuore come se fosse stato calpestato cento volte e poi buttato nella
tazza del cesso. C'era una foto, vicino al bancone, in bianco e nero, in cui lui
sorrideva di gusto con i ciuffi neri che gli coprivano appena le sopracciglia e
gli occhi, che a tutti noi sembrava di vedere azzurri nonostante la foto non
fosse a colori, così luminosi da rimbalzare fuori dal foglio come un colpo di
fucile. Ci sembrava di sentire la sua risata. Una corona di fiori era stata
posta sotto la foto, delle candele, delle dediche.
"Marco, nei cuori di tutti, batterà sempre una parte di Te", diceva
uno dei biglietti.
Davide
ad un certo punto prese la giacca e si alzò, così senza dire nulla, se ne andò.
Nessuno ebbe la forza, né il cuore di dirgli qualcosa. Tutti sapevamo che
andava a casa per piangere da solo.
Ma
non arrivò neanche all'uscita che entrò Pelletti, seguito a schiera dagl'altri
sei. Davide neanche li guardò, voleva solo uscire, andare via.
"Uno
in meno..." mormorò Cesare Grinasco, uno dei sei. Fu appena un sussurro. Ma
tutti, tutti quanti lo sentirono. Maratona scattò in piedi, così veloce che
quasi non ce ne rendemmo conto, veloce come un cobra in trappola che attacca la
preda al collo. Afferrò la sedia e la spaccò in testa a Cesare. Si frantumò
con un Crac così forte che a tutti parve il suono più forte che avessero
mai sentito. In cinque pezzi si spaccò. In cinque. E il ragazzo cadde per terra
improvvisamente. Con un suono orribile.
Tutti
rimasero immobili. Tutti quanti.
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Capitolo 20 *** Capitolo diciannovesimo ***
Capitolo diciannovesimo
Capitolo
diciannovesimo
Cesare
Grinasco fu ricoverato e rimase in ospedale per venticinque giorni pieni prima
di riprendersi dal coma e dal trauma cranico. Diego ricevette una lettera di
denuncia che lo invitava cortesemente a presentarsi in tribunale il 18 Marzo.
Quando
si presentò a casa mia aveva uno zigomo nero come la pece e non dovetti neanche
chiedergli chi era stato perché mi parve chiaro. Aveva addosso una maglietta ed
un paio di jeans e stringeva in mano la denuncia.
Mi
aveva telefonato dieci minuti prima da una cabina, dicendomi che suo padre
l'aveva sbattuto fuori di casa.
Appena
lo vidi mi feci da parte e lasciai che entrasse, richiudendo la porta alle sue
spalle. Lui si gettò sul letto che aveva usato parecchie volte per stare da me
la notte e non si mosse più per ore. Una parte di lui era morta, insieme ad
Ottanta. Quella parte di lui che ancora non voleva crescere era morta. E stata
sepolta da un colpo di sedia.
E
quella parte di lui che era morta con Marco singhiozzò da dietro la porta della
stanza, per tutta la notte.
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Capitolo 21 *** Capitolo ventesimo ***
Capitolo
ventesimo
Il
giorno in cui mi dissi la data, quella terribile, impietosa data, mi sentii
morire dentro.
Lo
sapevo che dovevi andare via, lo sapevo.
Ma
quando mi dissi le parole "13
agosto", fu più forte di me, quel dolore che mi prese il fegato.
Te
ne saresti andata, via, via, via lontano. Per sempre. Via da questa vita, via da
questo posto, via da me.
Il
Portogallo... non era chissà dove, non c'era nemmeno l'oceano a separarlo
dall'Italia, ma sembrava così lontano... Lontanissimo.
13
agosto... era come se qualcuno avesse scritto nella sabbia la data della mia
morte.
Quel
giorno pioveva, a dirotto. Ed eravamo in un locale con i soffitti alti e i
tavoli quadrati, plastificati con dell'adesivo bordeaux. Era un tavolo vicino
alla finestra e tu eri di fronte a me, i tuoi occhi grandi erano scuri, verde
muschio, spenti. Ci misi un’ora a farti dire che cosa avevi. Cosa ti
tormentava offuscandoti gli occhi e i sorrisi.
E forse alla fine neanche avrei voluto saperlo.
Pensavi
a lui. Il tuo lui speciale.
Pensavi a lui.
Ed
i ricordi ti bombardavano e la malinconia t’invadeva.
Come
feci a consolarti, a parlarti dolcemente, non lo capisco ancora. Con quello
squarcio dentro, con il cuore che sanguinava, trovai il coraggio di asciugare le
tue lacrime senza amarezza, di guardarti negl'occhi senza dolore, di assaporarti
in tutta te stessa, di darti la forza per aprirti senza paura. Avevo il cuore
bucato ma ti sorrisi con determinazione. La trovai, quella sicurezza. Non so
dove, ancora oggi, non me lo spiego. Morivo dentro ma fui dolce come non lo ero
mai stato e mai, più di allora, ti amai davvero. Ti amai non per come ti vedevo
o per come ti avrei voluta.
Ti
amai, per quello che eri, per tutto,
tutto quello che eri.
Ed
i miei occhi non vedevano altro che questo, te, fino in fondo te.
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Capitolo 22 *** Capitolo ventunesimo ***
Capitolo ventunesimo
Capitolo
ventunesimo
Fu
quando ti chiesi di venire con me da mia madre, fu allora che la magia divenne
concretamente amore. Non l'avevo mai chiesto a nessuno. A Nessuno.
E non mi seppi mai spiegare perché sentii il bisogno di chiedertelo,
radicato dentro.
Continuava
a piovere. Le gocce cadevano e il rumore rimbombava tutt'intorno a noi. Potevamo
quasi sentire una canzone scritta solo per noi, rallentare il tempo ed ascoltare
il suono di ogni singola goccia che s'infrange, una sull'asfalto, una su un'alfa
color blu notte, una sulle tue labbra. Il suono del nostro respiro, lento, e
quello delle macchine, un frullato di suoni, un rallentamento di ogni movimento
e di ogni vita. Tutto al rallenty. Tu che camminavi al mio fianco, i tuoi passi
nelle pozzanghere. La senti, la canzone che la vita ha composto per me e te, per
quel momento?
I
gradini della clinica erano in marmo bianco, più ripidi e scivolosi di quanto
non me li ricordassi. Ogni secondo, aveva un preciso suono, accompagnato da quel
freddo odore di pioggia che ci riempiva l'anima.
Mi
sentivo strano. Come se non sapessi razionalmente cosa ci stessi facendo lì con
te. Eppure il mio cuore lo sapeva molto bene.
Mi
prendesti per mano, d'improvviso, una mano asciutta e calda, fine.
Le
porte, le facce, il bianco odore di alcool. Tutta quella gente che mi guardava
strano, sbarrando gli occhi, un uomo che mi bestemmiava contro. Odiavo gli
ospedali, li odiavo. Una sensazione di vomito mi percosse lo stomaco e la tua
mano si strinse di più nella mia, come se anche tu l'avessi sentito.
“Sono
qui per vedere Mia Muratti... si sono un (cazzo di) parente, sono suo figlio...
Va bene, dove devo firmare?... sì lei è con me... avete bisogno delle impronte
digitali o vi basta una scansione della retina?!... aspetto quanto è pronto
lei, non si scomodi signore...”
Uno
sbuffo seguito da un altro e il tuo sorriso. Il tuo sorriso che cancella tutta
quella merda. I tuoi occhi che oggi sono color verde bottiglia brillano come se
fossero trasparenti, come se fossero acqua colpita dal sole.
Mia
madre è poco più di uno scheletro, la tua mano si stringe nella mia questa
volta ancora prima che il disagio possa invadermi. “Mamma...?” chiamò in
una speranza vaga come la nebbia alla mattina. E lei, sorprendentemente, alza
gli occhi dalle sue mani scarne, i suoi occhi neri e li punta su di me. I suoi
occhi che sembrano voler piangere e ridere, mentre la faccia rimane una maschera
di nulla, i suoi occhi sembrano voler amare.
“Lei è Noemi, mamma”. Vorrei aggiungere che ti amo ma la voce mi muore
in gola mentre nasce la censura dei sentimenti che mi accorgo di non aver mai
pronunciato. Ma non c'è bisogno di parole perché tu hai saputo fin dall'inizio
quello che la mia bocca non ha mai detto, e gli occhi di mia madre sono vivi
come non li ho mai visti. Delle lacrime, non sono certo se di gioia o di rabbia
mi rigano il viso quasi senza che me ne accorga, tu le asciughi con il dorso
della mano e poi, improvvisamente, mia madre alza una mano, la tende con
lentezza assolutamente sicura verso di me. Ed io mi immobilizzo per attimi che
sembrano già finiti prima di iniziare, le afferro la mano e gliela stringo,
forte e ancora più forte, fino a che è la sua mano, senza apparente ragione
sensata visto che la stringevo così forte, scivola via, come fosse acqua. E il
suo sguardo scivola con lei nell'abisso. Per la prima volta nella mia vita,
ricordo mia madre. L'ho vista, seppur per un momento, ed, attraverso qualcosa di
assolutamente insensato, ho visto il suo amore.
Per me.
E
c'eri tu lì, con me.
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Capitolo 23 *** Capitolo ventiduesimo ***
Capitolo ventiduesimo
Capitolo
ventiduesimo
Diego
fu condannato a sei mesi nei servizi sociali. Un bellissimo spazzino con tanto
di divisa e targhetta. Ma il suo sorriso non brillava affatto insieme ai
catarifrangenti della sua tenuta. Era spento, con gli occhi neri che sembravano
un gigantesco pozzo di petrolio, così vuoti come quelli di uno scheletro da far
paura. E fu con quella faccia che mi disse che preferiva la galera, che
preferiva morire che vivere. Con il tono di uno che sta dicendo la cosa più
normale del mondo come "Scusa mi passi i cereali?". E mi sentii così
idiota appena uscii dalla stanza che condividevamo dopo avergli fatto un bel
discorso su quanto la vita fosse piena di belle cose da vivere, sul fatto che si
può guarire dalla sofferenza solamente continuando a vivere, su tutte quelle
stronzate che si dicono sempre. Stronzate, vere ma pur sempre stronzate. E non
c'era nulla che potessi fare, ogni parola mi sembrava così vuota da rimbombare.
Io
mi sentivo inutile ed egoista mentre pensavo che avrei dovuto soffrire anch'io.
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Capitolo 24 *** Capitolo ventitreesimo ***
Capitolo ventitreesimo
Capitolo
ventitreesimo
Lessi
Novecento. Di Baricco.
Lo
lessi perché me l'avevi chiesto tu e niente al mondo mi sembrava più
importante che quello che volevi, dicevi e facevi. E poi mi fidavo, te l'avevo
promesso ed inoltre volevo vedere te.
Novecento
era il tuo libro preferito, ti aveva plasmato, fatta crescere. Ne eri ancorata
ed innamorata. Mi guardasti e mi dissi: "Lo leggerai?" Sì, lo leggerò, lo
leggerò...
"No
promettimelo Leo..." Promesso, parola di boy scout.
"Sul
serio però eh..." Non ti preoccupare, fidati. E poi te l'ho promesso...
E
così feci. Un giorno, uno come un altro in cui mi trovai in tasca qualche soldo
entrai in libreria e, aspettando tra l'altro una quantità di tempo non
indifferente, chiesi se gentilmente avesse Novecento di Baricco...
"Certo,
è su quello scaffale lì, lo vedi? E' quello blu con una nave in copertina."
D'accordo grazie...
Andai
a prenderlo, me lo girai tra le mani. Era davvero microscopico, come avevi
detto. Grazie al cielo il tuo libro preferito non era i promessi sposi...
Lo
pagai, ringraziai, afferrai un segnalibro di quelli in offerta, in cui c’erano
tre scritti da una parte, a te toccava scegliere quello che preferivi e leggere
il profilo corrispondente sul retro. Mi cadde, così, senza senso, l'occhio sul
secondo scritto. Sulla parola. Su QUEL nome. Esmeralda, stampato sulla carta
rossa come se fosse un cartello enorme su una strada desertica nel mezzo della
Death Valley.
"Che
notte, quella notte! Esmeralda non era mai stata così dolce e, insieme, così
appassionata. L'immagine di lei (gli occhi socchiusi, le labbra dischiuse) torna
prepotente e vivida quando la luna si affaccia alla grata e il bugliolo,
nell'angolo opposto alla branda, diventa una pietra fosforica e spiritata."
Diceva
così e non me lo sono mai scordato. Quelle parole mi hanno marchiato a fuoco.
Il nome con cui ti avevo chiamato, su quel segnalibro, in quel momento, la
parola luna che brillava fuori dal foglio, illuminando proprio il tuo ricordo,
la luna... mi spaccò in due, mi sconvolse a tal punto da non permettermi di non
arrestarmi lì, di fronte alla porta.
Allora
dimmi, come si fa a non credere nel destino quando certe cose ti prendono per
mano per portarti proprio dove devi andare?
Come
hai fatto a sbagliare strada?
Come
hai fatto a non crederci?
Come
hai fatto se persino sulla strada che ogni giorno facevi per andare a casa c'è
un cartello pubblicitario con scritto a caratteri cubitali "DI STEFANO L.
& Co." ?
Come
hai fatto, cazzo, come hai fatto a non vedere?
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Capitolo 25 *** Capitolo ventiquattresimo ***
Capitolo ventiquattresimo
Capitolo
ventiquattresimo
Una
settimana dopo aver finito di leggere Novecento ti costruii una nave.
Una
barchetta di carta con una scritta, Virginian,
che sarebbe stata tua per sempre.
Era
una cosa piccola, stupida forse, ma era così importante, così figurativa per
me che ci misi tutto il cuore. Era un ricordo, qualcosa che ci legava e non solo
perchè, tu me lo ricordasti parlandone, il Virginian era la nave più solida
del mondo intero, avevano dovuto farla esplodere per farla affondare. E mi sembrò
una cosa alquanto metaforica che io te l'avessi regalata; pur senza pensarci ti
avevo regalato la cosa più solida che esistesse nel nostro mondo di idee.
Solida,
proprio quanto volevo fosse quello che ci legava, qualunque cosa esso fosse.
Quando
andasti via ne feci una uguale e la misi sulla mensola della mia stanza; ogni
tanto la guardavo, la tenevo tra le mani, ci piangevo un po’ su, ci riversavo
ogni pensiero o ricordo, mi ci buttavo dentro e ti vedevo lì, in abito da sera
tra tutti quei gentiluomini che ti circondavano.
Sul
ponte in legno della nave si rispecchiava la luna ed io ti guardavo, allibito
dalla tua bellezza, dall'altra parte del ponte. E poi, ogni volta era diverso; a
volte alzavi lo sguardo e tra la folla puntavi i tuoi occhi nei miei senza mai
smettere, a volte ero io che mi facevo strada, con la mia arguta dialettica, tra
tutti quegl'uomini in frac e ti portavo via.
Sembrava
un po’ più Titanic forse, ma la jazz band c'era.
E
c'era Novecento, c'eri tu ed io, di nuovo insieme.
E
solo questo mi importava, stare di nuovo con te.
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Capitolo 26 *** Capitolo venticinquesimo ***
Capitolo venticinquesimo
Capitolo
venticinquesimo
Tra
la vita di tutti i giorni e le cose che comunemente accadevano mi era successo
di incontrare te.
Così,
per caso dicevi tu. Per destino, dicevo io.
C'è
sempre stata una cosa, in cui non ho mai smesso di credere.
Credevo
nella reincarnazione, piuttosto fermamente. Credevo soprattutto che durante le
vite passate s'incontravano persone che diventavano le persone più importanti
della tua esistenza. Così importanti da diventare parti della tua stessa anima.
E così, continuavi a rincontrarle nell'arco di tutte le tue vite future.
Ci
credevo perché l'avevo provato, quel qualcosa
di inspiegabile che ti s'incrina dentro quando incontri una di queste persone.
Si possono avere affetti, amici nell'arco della vita che sono per te
importantissimi, ma quando li incontri, quando li guardi non lo senti quel qualcosa.
A
me era successo due sole volte e l'avevo riconosciuto entrambe, senza
esitazioni. Una volta era stato con Diego e l'altra, Noemi, proprio con te.
E'
una cosa che senti dentro, che non può derivare dal momento, è una forza
grande come l'universo, qualcosa che non ti puoi tenere dentro, è proprio come
riunirsi con una parte di te stesso. Tu eri quella parte di me stesso, quella
mancante che andavo cercando da una vita intera. Eri tu e non avevo neanche
mezzo dubbio in proposito.
Chissà
cosa avevamo condiviso in passato... forse io ero un cavaliere medievale e tu la
figlia ribelle di un Re francese che, scappata di casa, si era travestita da
uomo per dimostrare al mondo che le donne possono combattere le guerre degli
uomini meglio di quanto essi possano fare. O magari io ero un Irlandese ribelle,
quando ancora l'Eire non era una repubblica, e tu la figlia di un ricco politico
inglese che io, durante una cena con i massimi esponenti politici inglesi, avevo
rapito come ostaggio. O forse c'eravamo incontrati proprio su una nave, io
corsaro spietato e tu principessa persiana dalla sconvolgente bellezza che
sapeva il fatto suo, che io avevo rapito per puro divertimento prima di scoprire
che era la figlia del Re persiano che, intanto, m'aveva scatenato contro
l'inferno.
Mi
divertivo ad immaginare come avrebbe potuto essere il nostro passato, perché
ero, sono, sicuro che qualcosa di forte noi l'avevamo già vissuto, qualcosa di
travolgente che c'aveva uniti per la vita.
Qualcosa che, il tuo cuore sapeva quanto il mio, non si poteva
ignorare a lungo.
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Capitolo 27 *** Capitolo ventiseiesimo ***
Capitolo ventiseiesimo
Capitolo
ventiseiesimo
Se
allora era vero che le cose non avvengono per caso, mai o quasi, se era vero che
tutto quello che avevo fatto e detto, tutto quanto, mi aveva (ri)portato a te
come se fossi stata fin dall'inizio la tappa fondamentale di tutto il mio
viaggio, se era vero che tutto era stato, era e sarebbe stato in funzione tua,
se era vero che nella mia vita ogni cosa mi trascinava con una forza
irrefrenabile verso di te, allora era vero quello che mi venne detto. Le cose
non succedono per caso, le persone non s'incontrano per coincidenza, le cose che
ti vengono dette e le cose che vivi sono sempre al momento giusto, perfetto,
e c'è sempre un senso in tutto se sei capace di vederlo.
Un
pomeriggio di primavera, in cui ero con te ed altri due amici in comune,
incontrai dopo una vita che non lo vedevo Ermes.
Ermes
era un amico, non uno di quegli amici con cui hai passato pomeriggi o serate
insieme, uno di quelli che, per quelle due ore complessive passate insieme da
quando vi conoscete, sapete già un sacco di cose l'uno dell'altro. Uno di
quelli che sa diventare tuo amico dopo un minuto d'orologio. Cominciammo a
parlare, senza un vero e proprio motivo, del più o del meno, tu che ci
ascoltavi e ridevi delle sue battute, dei suoi modi di fare, dei suoi racconti.
E andammo avanti così, per metà del pomeriggio, decideste di andare a fare
shopping ed io vi seguii; anche Ermes ci seguii; l'unico pomeriggio della mia
vita passato con lui che non poteva tornare a casa per uno sciopero dei mezzi
pubblici fino alle sette di sera.
Proprio
quel pomeriggio, in quel
particolare momento, mi cambiò la vita. Mi aprii un mondo immenso di
prospettive che conoscevo già ma di fronte alle quali avevo chiuso gli occhi.
Voi
entravate nei negozi, noi vi seguivamo poi uscivamo ad aspettarvi fuori per non
soffrire troppo e, in quel vialetto ad aspettare che sceglieste cosa comprare,
parlammo a lungo, io e Ermes.
Parlammo
di te, del fatto che ero innamorato di te. E lui mi disse tutto ciò che avevo
bisogno di sentire, ciò che già sapevo ma che avevo bisogno di sentire da
qualcun'altro per aprire gli occhi, quella
particolare frase, in quel particolare
momento.
Mi
disse: "Ehi, lei è troppo importante, troppo speciale per lasciartela scappare.
Non penso che tu voglia stare lì mentre ti presenta il suo fidanzato e se lo fa
al tuo fianco. Buttati, a testa in giù, a capofitto, lotta
per quello che provi."
E
io lo guardai e non feci altro che annuire, perfettamente consapevole di quanto
tutto ciò fosse vero e difficile.
E
tornando a casa sembravo una matrioska vuota, con gli occhi persi nel nulla, così
perso in quel vasto, immenso, universo che mi si era aperto di un botto davanti.
Non avevo mai pensato, non so per quale oscuro motivo, di poter davvero lottare. Non l'avevo mai considerato, nemmeno lontanamente. Ero
stordito, angosciato, perso. Ero incapace di distinguere le cose vere da quelle
nella mia testa, non capivo più nulla, quello che stavo facendo, quello che
stavo provando, quello che era successo, era successo veramente? Tutto ciò era
vero e lo stavo vivendo sul serio. Non
solo nel mio mondo platonico, chiuso nella mia testa, ma anche nella realtà.
Nella verità in cui mi svegliavo tutti i giorni. La forza reale del mio amore
mi investì di tutto quanto in un solo istante. L'istante in cui ti risvegli da
un lunghissimo sogno e ti rendi conto che tutto quanto è successo davvero.
E
Ermes aveva ragione, pienamente. Era arrivato il momento di lottare, di vivere
il sentimento che provavo con dignità che meritava, a testa alta. Anche perché
era troppo grande per tenermelo tutto dentro, ero egoista a volerlo tenere per
me quando era talmente bello, ed intenso, e grande da doverlo urlare a tutto il
mondo. Ed io non lo potevo più ignorare. In quel
particolare momento.
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Capitolo 28 *** Capitolo ventisettesimo ***
Capitolo ventisettesimo
Capitolo
ventisettesimo
La
prima cosa che feci, la mattina dopo, fu parlare con Emma.
L'avevo
tenuta lì troppo a lungo, inutilmente, non sapevo bene per quale motivo.
Ed
anche lei se ne era accorta, che c'era qualcosa di più grande di me che mi
prendeva e mi travolgeva e non mi faceva guardare ad altro, ne vedere altro.
"Se
vuoi puoi lasciarmi tu." le dissi "In fondo sarebbe più corretto."
Lei
aveva gli occhi color caffè abbassati sulla tovaglia del bar in cui eravamo
seduti.
"Non
me ne frega un cazzo, Leo... Non soffrirò di meno. Soltanto, non usarmi, non
prenderti gioco di quello che provo..."
Mi
colpirono, quelle parole. Perché in fondo le volevo davvero bene. Sette mesi di
relazione non si dimenticano solamente passandoci su la spugna. Ma io, non
vedevo altro che te, non volevo altro che te e non potevo stare con nessun altro
al mondo.
"Mi
dispiace Emma... ti voglio un bene dell'anima e tutto quello che c'è stato io
non me lo dimenticherò, l'ho vissuto con forza, sulla mia pelle; questi sette
mesi sono stati veri, quello che ti ho detto di provare non è mai stato uno
scherzo... ma ora, non posso continuare a stare con te, pensando a
qualcun'altro. Ti voglio troppo bene per lasciare che succeda."
Lei
annuisce; sapeva già quello che ti avrei detto, mi conosceva troppo per non
saperlo.
"Buona
fortuna." disse solo. Poi si alzò, con le lacrime agl'occhi che non riusciva a
trattenere, le labbra e le mani che tremavano in una disperata richiesta di
dignità. Andò via.
Io
pagai il suo caffè e tornai a casa.
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Capitolo 29 *** Capitolo ventottesimo ***
Capitolo ventottesimo
Capitolo
ventottesimo
Mancavano
sette giorni al tredici agosto.
Sette
giorni.
Avrei
voluto fermare il tempo, ma non ne ero proprio capace.
Sette
giorni quando mi sedetti al tavolo rotondo dei Bengala, oramai un nome sepolto
insieme ad Ottanta.
Ero
solo, quando arrivai. Mi sedetti lì, al mio posto e guardai le altre quattro
sedie vuote. Sul tavolo in legno, di fronte alle sedie di ognuno, c'era inciso
un nome.
Leo,
Okay, Riso, Maratona ed Ottanta.
Incisi
dalle nostre stesse mani, con un unico Opinel, quello di Okay, che c'eravamo
passati di uno in uno, quella sera di due o forse tre anni prima.
Accarezzai
con le dita quella scritta, Leo, mentre mi lasciavo pervadere dai ricordi del
grande castello che c'eravamo costruiti, del grande castello che era distrutto.
Tutto
finisce prima o poi, il sole come la pioggia. Ma il sole c'è sempre, anche
dietro le nuvole cosa che di certo non si può dire della pioggia. E che caso
mai arrivi l'arcobaleno?
Diego
entrò dopo circa venti minuti, con lo sguardo distrutto che oramai gli si era
appiccicato in faccia, e si sedette, proprio alla sua sedia. Nessuno di noi due
disse niente, nemmeno quando arrivò Ruben e neanche quando, molto titubante,
Davide si sedette alla sua sedia.
Nessuno
disse nulla e quel silenzio fu più eloquente di miliardi di parole asciugate al
sole.
E,
così come eravamo entrati in ordine sparso, uscimmo tutti e quattro insieme.
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Capitolo 30 *** Capitolo ventinovesimo ***
Capitolo ventinovesimo
Capitolo
ventinovesimo
La
sera del 10 agosto fu durissima.
Ancora
non ero riuscito a scrollarmi di dosso la paura di parlarti.
Ancora
non ero riuscito a scrollarmi di dosso la voglia di dirti tutto, tutto quanto.
Dal
momento in cui volevo aprirti tutto me stesso, senza riserve, non avrei potuto
fare altro se non dirti quello che provavo per te. Perché mi assorbiva
completamente.
Non
avrei mai voluto che andassi via senza dirti tutto, fino all'ultima goccia di
parola.
Ma
ero frenato, immobilizzato.
A
volte, erano le peggiori, desideravo che tutto questo non fosse mai successo,
desideravo non aver incontrato Ermes, non aver incontrato te. Perché faceva
troppo male e io non volevo stare male, non ne potevo più di soffrire.
Ma
mi facevo solo il doppio del male con quei pensieri che mi bucavano il cervello,
bucavano i miei ideali. Mi tagliavano in due.
E
lo sai perché?
Perché
nella mia vita non c'era nulla di migliore di te.
Nulla
di più bello, più profumato, più melodioso.
Tu.
E
per questo, non volevo perderti, ad ogni costo, ma non sapevo cosa dire, cosa
fare.
Essere
o non essere? mi chiedevo... Vivere o non vivere? Agire o non agire?
Mio
padre lo vide, il mio dissidio interiore, come lo vedono i padri che sono un
po’ come delle madri.
Mio
padre era la figura più ferma, più grande, il mio unico vero punto di
riferimento, il migliore che avessi potuto scegliere.
Si
sedette di fianco a me e mi disse solo: "Non chiudere in un carcere quello che
provi."
E
nient'altro, senza che io gli dicessi niente di niente. E poi si alzò ed andò
fuori a comprarsi i jeans nuovi.
Ed
io, stravolto nella stanchezza del dolore che provavo, rimasi bloccato lì.
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Capitolo 31 *** Capitolo trentesimo ***
Capitolo trentesimo
Capitolo
trentesimo
Il
giorno dopo ti chiesi di passare il pomeriggio insieme. Ti dissi che dovevo
parlarti.
Non
so cosa tu ti aspettassi, e i tuoi pensieri erano l'insidia peggiore nella mia
testa.
Non
ero certo di desiderare una risposta, non volevo farti cadere tra le mie
braccia, anche se mentirei dicendo che una piccolissima speranza non mi animava
il cuore.
Ma
no, io volevo dirtelo, semplicemente, buttarlo fuori, farti vedere me stesso.
Non
c'era prezzo che non avrei pagato per guardarti negl'occhi e dirti: "Sei la
persona più importante di tutta la mia vita."
Ovviamente
mi ero già preparato un discorso che, anche se era mutevole, toccava
all'incirca sempre gli stessi punti.
Ma
ero terrorizzato, paralizzato dall'arrivare al momento in cui la mia vita
sarebbe cambiata per sempre. Lo sapevo che quando avrei pronunciato quelle
quattro parole "Sono innamorato di te" tutto quanto sarebbe cambiato.
Ero
terrorizzato da quello che mi aspettava, o forse dal non riuscire a fare il
passo decisivo.
Non
dovevo tirarmi indietro, non potevo, non volevo.
Fino
a quel momento avevo guardato la mia vita piuttosto che viverla ed ora mi
rendevo conto che era arrivato il momento di iniziare a viverla. Ed ero
paralizzato.
Cosa
sarebbe successo se la voce non mi fosse uscita?
Fino
a quel momento, tutto quello che avevo vissuto fino ad allora, mi aveva
ricondotto a te. Ogni cosa nella mia vita, fin da quando ero nato, mi aveva
fatto prendere una strada che presto o tardi, tra milioni di altre porte, mi
avrebbe portato davanti alla tua. Avevo provato ad ignorare i cartelli, a
cambiare strada, ma ero stato preso per mano, trascinato, mille volte di nuovo,
davanti alla tua porta. Una porta chiusa.
Fino
a quel momento avevo forse cercato la chiave, e poi avevo cercato un altra porta
che fosse più semplice attraversare, ma non avevo potuto ignorare il fatto che,
qualunque porta attraversassi, qualunque strada prendessi, anche la più
distante da te, mi ritrovavo di nuovo di fronte alla tua porta. Chiusa.
Non
potevo più continuare a cambiare strada. Era arrivato il momento di buttarla giù,
quella porta.
Cosa
sarebbe successo se non ci fossi riuscito?
Era
uno di quei giorni in cui i tuoi occhi erano circondati da un verde intenso per
schiarirsi in un botto e diventare quasi invisibili. Il mio cuore batteva così
forte da non riuscire nemmeno a contare i battiti. Cercai in tutti i modi di
sentirmi al tuo livello ma la tua bellezza mi sommergeva.
"Quello
che devo dire non è affatto facile... e probabilmente non ti piacerà. -
iniziai - Ma fammelo dire, fino in fondo, perché mi sono già scordato tutto il
discorso che mi ero preparato e se tu dici qualcosa sono sicuro che non riuscirò
più a dire mezza parola."
Non
ti guardavo perché sarei morto. Ero già morto, ero un pazzo, cosa cavolo stavo
facendo???
"Sono
innamorato di te. Per non azzardarmi a dire che ti amo. Di sicuro sei la persona
più importante di tutta la mia vita. Ci ho pensato bene prima di decidere di
dirtelo ma sono arrivato al punto in cui non potevo più trattenerlo, né
ignorarlo. Quello che provo per te è così forte che non riesco proprio a
tenermelo tutto dentro, ho bisogno di dirlo, di urlarlo perché è... è troppo.
E non è una cosa che dipende da me, o da te, ma solo dall'amore stesso. Ogni
cosa che ho fatto, detto o pensato mi ha portato a te, ed ogni cosa che farò,
dirò o penserò continuerà per sempre a riportarmi a te. Non voglio essere
presuntuoso ma c'è qualcosa tra me è te, di diverso, qualcosa che non c'è tra
le altre persone. Lo si può vivere in modo diverso, io posso sentirlo come
amore, tu come amicizia, ma quello è solo un modo di provare la cosa. Rimane il
fatto che c'è qualcosa di troppo speciale, di troppo importante per seppellirlo
o per ignorarlo. E anche tu lo sai. Io non troverò mai più nessuno come te ma
nemmeno tu troverai mai più nessuno come me. Non ti sto dicendo di sposarmi,
Noe... ti sto dicendo che non esisterà posto al mondo abbastanza lontano da
separarti da me. Perché tu sarai con me, per sempre. Perché tu sei dentro di
me, sei la parte che mancava al mio cuore per essere completo, sei ciò che sono
sempre destinato a trovare, ciò che ho sempre cercato. Tant'è che se mi
guardavi negl'occhi prima che ti conoscessi avresti visto già te, così come
chi l'America ce l'ha già negl'occhi, io avevo già te. E non ci sarà momento
nella mia vita in cui non ti avrò nel cuore, non ci sarà pensiero non rivolto
a te, non ci sarà ricordo in cui mancherai; in tutto quello che dirò, in tutto
quello che penserò, ci sarà un pezzettino di te. Dovunque guarderò vedrò
sempre e solo i tuoi occhi, ogni sorriso sarà il tuo, ogni lacrima sarà per
te. Non smetterò mai di amarti."
Respiravo,
credo, ancora. Ero ancora vivo anche se le mani mi tremavano come s'avessi avuto
il Parkinson. Dalla prima parola in avanti tutte quelle cose mi erano uscite
dalla bocca senza controllo, travolgendoti -travolgendomi- come un fiume in
piena. Mi ero svuotato di tutto me stesso. Mi sentivo così libero da non
potermi muovere.
Ti
guardai negl'occhi e non seppi decifrarli, per la prima volta in vita mia.
Ti
alzasti e te ne andasti senza dire nulla, lasciandomi solo.
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Capitolo 32 *** Capitolo trentunesimo ***
Capitolo trentunesimo
Capitolo
trentunesimo
La
sera di quel fatidico 11 agosto andai in scena con la prima di Amleto.
E
non recitai mai così bene probabilmente, con tutte quelle emozioni che mi
esplodevano dentro, quella rabbia, quel dolore, quel pugnale che avevo ancora
nel cuore.
E
tu eri lì, a vedermi. E io e il mio orgoglio non volevamo più vedere te.
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Capitolo 33 *** Capitolo trentaduesimo ***
Capitolo trentaduesimo
Capitolo
trentaduesimo
Quando
la mattina del 12 agosto mi svegliai, ero morto.
Aprii
gli occhi e vidi la parete di casa mia, vidi i tuoi occhi che non riuscivo a
cancellare dai miei.
Occhi
verdi.
In
qualche modo rotolai, dopo due ore da quando aprii gli occhi, in bagno e poi in
cucina, riuscii addirittura a vestirmi per qualche forza che, nonostante fossi
già morto, mi trascinava.
Erano
le quattro di pomeriggio quando decisi di uscire. Dopo esattamente 20 ore e 14
minuti te ne saresti andata via per sempre. Per sempre.
Scesi
fino al molo, le gambe che si muovevano per qualche oscuro processo a me
sconosciuto, e mi sedetti lì, con il mio lettore cd e Aretha Franklin che mi
cantava nelle cuffie. Ogni tanto il mio sguardo scivolava verso il punto, appena
venti metri alla mia destra, in cui ti avevo detto tutto quello che provavo, in
cui ti avevo aperto tutto quanto me stesso. Non mi sembrava più di provare
dolore, solo un uniforme senso di torpore che mi scuoteva.
C'era
un cappellino, che galleggiava al fianco del molo, era mezzo capovolto e non
riuscivo a leggere la scritta che portava sull'ala.
Avevo
sonno, volevo solo dormire e dimenticare tutto quanto. Entrare in un letargo e
svegliarmi dopo dieci anni quando sarebbe stato tutto finito. Morire, dormire,
nulla di più.
Mi
alzai e feci per andare via, lontano. A casa. Ma un ondata improvvisa si alzò
fin sopra il cemento arrivando a bagnarmi le suole delle scarpe. Richiamò la
mia attenzione.
Mi
voltai e vidi che il cappellino era stato portato a riva, lo guardai bene e
lessi.
Lessi
Esmeralda Princess of the Moon.
Il
mio corpo tremò come una piccola foglia secca in balia del vento, che la
trascina di nuovo al punto di partenza.
Se
avessi avuto qualcosa in mano probabilmente mi sarebbe caduto.
Se
fossi stato una statua, non avrei pianto.
Mi
voltai e corsi a casa.
Via,
in fretta, con il vento che ti percuote la pelle, le lacrime che ti rigano il
viso.
A
casa...
...presi
la chitarra, la mia chitarra e, senza
neanche metterla nella custodia, io che c'ero così gelosamente affezionato,
tornai a correre, fino alla spiaggia, proprio vicino a casa tua.
E
mi fermai lì, con gambe incrociate e lo sguardo verso il mare infinito, le
nuvole grigie e bianche che si scontravano e si sfumavano l'una con l'altra.
E
suonai, non so per quanto tempo, ancora. Il posto era diverso, lo strumento
pure.
Eppure,
ancora una volta, passarono cinque o dieci minuti, forse cento. E tu ti sedetti
di fianco a me. Cantasti, mentre io suonavo, cantasti per ore. A volte io
cantavo con te, a volte stavo in silenzio e ti guardavo, ascoltavo la tua voce
che era dolce come un arcobaleno, calda come l'oro fuso.
Restammo
fino a che non fece buio a suonare e cantare, io e te, fino a che le nuvole si
diradarono, guardammo il tramonto insieme mentre suonavo Green Eyes dei
Coldplay, fino a che non rimase solo una grande e luminosa luna piena e un
mucchio di puntini luminosi che disegnavano immagini, storie, vite.
Poi
io ti guardai, tu guardasti me e, non ricordo chi lo disse per primo, ma
entrambi lo pensavamo, "Una pausa, solo un attimino...".
Appoggiai
la chitarra al mio fianco, sulla sabbia e mi distesi, guardando le stelle. Tu
appoggiasti la testa sul mio ventre e respirasti al mio stesso identico ritmo.
Il tuo cuore batteva insieme al mio mentre, senza parole, la luna e le stelle ci
guardavano sorridere, chiudere gli occhi, addormentarci.
Risvegliarci,
sotto timide gocce di pioggia che ci picchiettarono il viso, ridestandoci da
quel meraviglioso sogno che avevamo vissuto.
Era
la mattina del 13 agosto.
Tu
mi guardasti, con gli occhi ancora socchiusi e stanchi, io ti sorrisi.
"Merda..."
mugugnasti guardando il cielo e la pioggia, che odiavi. Risposi al sorriso e poi
diventasti seria "Ci siamo addormentati..."
"Ottimo
spirito d'osservazione." ti dissi sogghignando.
"Devo
andare via... merda tra due ore devo partire!"
Guardavi
l'orologio, io guardavo te. Per l'ultima volta.
Ti
alzasti, sospirando e presi la tua tracolla da terra.
"Beh...
allora ciao." dissi.
"Allora...ciao."
ripetei io.
"Ci
sentiamo magari."
"Certo..."
"Ciao."
"Ciao."
Te
ne andasti, un passo dopo l'altro come una tortura eterna che non volevo finisse
mai.
La
pioggia era diventata battente, si confuse con le mie amarissime lacrime.
E
poi tu ti voltasti, lentamente e mi guardasti. Ero in ginocchio, con i pugni
stretti e gli occhi rossi. Ero un uomo che va alla forca. E tornasti indietro,
ti inginocchiasti di fronte a me e mi abbracciasti, fortissimo.
"Senti
le onde del mare che si infrangono sugli scogli? L'odore della rugiada di prima
mattina sull'erba fresca, l'odore dell'aria, l'odore del cielo, l'odore del
mare. Ci siamo solo io e te qui, e una parte di noi, rimarrà qui per sempre."
te lo sussurrai con tutta la mia forza e il mio dolore, con tutto il mio amore.
Tu
mi guardasti negl'occhi e poi mi baciasti, così delicatamente e brevemente che
sembrò durare per sempre. Poi tornasti a guardarmi, occhi verdi puntati
direttamente dentro occhi azzurri, occhi che si guardano l'anima, un ultima,
dolcissima, amarissima volta.
Andasti
via in quella mattina d'agosto.
Ma
io e te, siamo ancora lì.
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Capitolo 34 *** Capitolo trentetreesimo ***
Capitolo trentatreesimo
Capitolo
trentatreesimo
E siamo all'epilogo, alla
fine della storia.
Sono
passati cinque anni e ventuno giorni da quel giorno.
Ed
io sto scendendo da un treno nella stazione di Torino.
Te
l'ho detto, non sono ancora riuscito ad oltrepassare quella linea. Non ho ancora
lasciato alle mie spalle quella porta. Non ho ancora smesso di stringere il
Virginian tra le mani, ne di ascoltare Natural Woman. Non posso farlo finché
non mantengo la mia promessa.
In
cinque anni tutto è cambiato, siamo due persone diverse, lontane, ancora unite
indissolubilmente. Ma cinque anni non mi hanno fatto dimenticare la mia
promessa. Non l'avrei dimenticata nemmeno se fossero stati cento.
E
per questo tengo in mano un biglietto per un Inter-rail con il tuo nome sopra.
Noemi Lieac.
E'
strano sai? Essere qui davanti a questa porta. Busso, a tempo di musica, come
facevi tu.
E
sei tu ad aprirmi. I tuoi occhi grandi sono ancora più belli, verdi come
sempre.
Sei
tu, e non ho dubbi, mi guardi con l'aria di chi ha visto un fantasma.
"Ciao."
dico.
"Ciao."
rispondi.
Non
riusciamo a toglierci l'uno di dosso all'altro Noemi. Lo sai è così, non
possiamo stare lontani, non possiamo vivere separati, non è per questo che
tutto il mondo ci indica l'uno all'altro, c'è qualcosa tra di noi e direi che
se dopo cinque anni sono qui, questa ne è la conferma. Ti amo, ancora, sei la
persona più importante della mia vita. Lo so, ti chiedo molto ma vieni via con
me. Il tuo lavoro, tutto questo... sono importanti ma non ci puoi costruire
sopra una vita. La vita va costruita insieme alle persone che, senza
spiegazione, sono destinate a te. La tua vita va costruita con me, la mia con
te.
Vorrei
dire tutto questo, vorrei averlo detto o sono felice di essere stato zitto.
"Noe,
amore, vieni solo un secondo, ho bisogno di te." la voce dall'interno della casa
arriva alle mie orecchie più forte di qualunque altra al mondo.
"Arrivo
subito, non scappare." mi dici.
Chissà
perché l'hai detto. Forse sapevi che sarei scappato, sapevi perché ero lì,
sapevi tutte quelle cose che non ti avevo detto. Ti lascio il biglietto
dell'Inter-rail sul gradino di casa tua, insieme a questa cosa che ho scritto.
Che ho scritto per te.
E
vado via.
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Capitolo 35 *** Epilogo ***
Epilogo
Epilogo
Sogno;
sogno piacevole e lontano di una speciale mattina d'autunno in cui tu eri il
sole che girava intorno a me. Sarei stato un bugiardo se avessi detto che non è
stato il momento migliore della mia vita, se ti avessi detto che non ti amavo già
profondamente, nonostante te; Avrei voluto poterti avere completamente
conquistato come tu avevi fatto con me. Avrei voluto sciogliere ogni mio dubbio
nel tuo sorriso, avrei voluto poter vedere nei tuoi occhi quando era bello o
cattivo tempo, quando pioveva o era tempesta avrei voluto poter...
...
avrei voluto poterti amare più di quanto avrei mai potuto fare.
Ora
chiudo tutto questo in una valigia, ogni ricordo è ripiegato con cura materna,
e appoggio questa valigia proprio in quell'angolo.
Nessuno
mai ha detto che sarebbe stato facile.
Non
sto abbandonando quella porta, ne oltrepassando quella linea.
Sto
tenendo quello che provo.
Per
la prima volta nella mia vita provo qualcosa che va oltre l'amore.
Non
ha a che fare con me o te, è qualcosa che non si può spiegare.
E'
semplicemente che tu non hai mai smesso né iniziato, ad essere parte di me.
Lo
sei sempre stata e, nel bene o nel male, non potrò mai cancellarti da me
stesso.
Oltre
l'amore c'è proprio questo.
Ci
sei tu, ci sono io.
Nessun
pensiero, nessuna parola, nessun ricordo, solo colori, profumi e sentimenti, una
coltre di emozioni che non si scioglierà mai.
Oltre
la nebbia ti vedo.
Oltre
l'amore non vedo altro che te.
Domenica,
22 Maggio 2005.
Fine.
****
Pensando
a te, ovunque tu sia.
Preghiamo
perché questa sofferenza abbia fine, nella speranza che i nostri cuori si
riuniscano.
Ora
io realizzerò questo desiderio.
E
chissà: ricominciare a viaggiare non è poi così difficile.
O
forse il mio viaggio è già iniziato.
Ci
sono tanti mondi ma tutti condividono lo stesso cielo.
Un
solo Cielo. Un solo Destino.
****
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