Tu che mi hai cambiato la vita

di ShopaHolic
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo - Fulmine a ciel sereno ***
Capitolo 2: *** Imprevisto ***
Capitolo 3: *** Gente seria ***
Capitolo 4: *** Acquamarina ***
Capitolo 5: *** Gloria, tra destino e coincidenza ***
Capitolo 6: *** Sorelle ***
Capitolo 7: *** Nessuna importanza ***
Capitolo 8: *** Quando le luci si spengono ***
Capitolo 9: *** Inutile spiegazione ***
Capitolo 10: *** Adrenalina che non esplode e stanchezza che rimane ***
Capitolo 11: *** Ragazza saggia ***
Capitolo 12: *** Non è più una bambina ***
Capitolo 13: *** Lingue di fuoco ***
Capitolo 14: *** Oceani di parole e pensieri che sanno di sale ***
Capitolo 15: *** Il coraggio di rialzarsi da sola ***
Capitolo 16: *** Pioggia fresca di baci ***
Capitolo 17: *** Amici che sospettano troppo ***
Capitolo 18: *** Batticuore ***
Capitolo 19: *** Sotto la pelle ***
Capitolo 20: *** La scelta di Gloria ***



Capitolo 1
*** Prologo - Fulmine a ciel sereno ***


Fulmine a ciel sereno

Progetti, desideri, aspirazioni, sogni.

E se non bastasse la semplice nostra volontà per realizzare tutto questo?
Se improvvisamente il destino prendesse possesso della vostra vita
e mescolasse con le sue mani tutte le vostre carte,
dimostrandovi che,inconsapevolmente, e certo non di rado,
siamo noi stessi ad allontanarci dai nostri progetti,
e che basta una decisione diversa nella quotidianità di tutti i giorni,
una piccola distrazione, una scelta sbagliata,
per smontare ogni cosa,
voi che cosa fareste?

Accettereste ciò che il destino ha in serbo per voi,
confidando magari in un futuro migliore,
oppure continuereste a lottare con il rischio,poi, di ritrovarvi
con un pugno di mosche in mano?


Una lieve brezza mattutina rinfrescava l'aria mentre Mike Dirnt parcheggiava la sua auto in doppia fila e si affrettava a raggiungere Billie Joe Armstrong nel cortile dell’ospedale. Percorse correndo l'enorme parcheggio all'aperto e quando arrivò di fronte all'entrata lo notò immediatamente, stravaccato su una panchina mentre, con gli occhi chiusi, si massaggiava le tempie con le dita.
«Billie Joe?»
Questo sollevò la testa, e i suoi occhi incontrarono lo sguardo agitato dell'amico.
«Eccoti, finalmente.» mormorò alzandosi e andandogli incontro.
Mike si fermò di fronte a lui, riprendendo fiato e asciugandosi con il dorso della mano il sudore che gli aveva imperlato la fronte.
«Ho fatto prima che ho potuto.» annunciò boccheggiando a causa della corsa.«L’hanno già visitato?»
La fronte era corrugata dall'apprensione.
Se Billie Joe non l'avesse conosciuto meglio di se stesso, avrebbe giurato che in quel momento il suo amico non era semplicemente preoccupato, ma aveva addirittura paura.
Paura di ricevere una conferma alle sue preoccupazioni, e di scoprire che tutto il lavoro svolto in quegli ultimi mesi stesse per andare a monte così, in un batter d'occhio.
«Hanno appena avuto i risultati della radiografia.»Si strinse nelle spalle cacciando un sospiro carico di rassegnazione. «A quanto pare, abbiamo fatto bene a preoccuparci.»
Lo sapeva, sapeva che sarebbe finita così, eppure dentro di sé ancora non riusciva a crederci.
Sollevò lo sguardo verso l’alto, il sole si rifletteva nel vetro delle finestre della struttura, ferendogli gli occhi. Di nuovo abbassò lo sguardo, rivolgendolo questa volta verso il suo amico, senza accennare a parlare. Sembrava quasi che non avesse sentito -o non avesse capito- quello che gli era appena stato detto ma, osservandolo, Billie Joe capì di avere di fronte a sé una bomba a orologeria, e infatti, pochi istanti dopo, Mike Dirnt esplose improvvisamente in una serie incessante di maledizioni e bestemmie rivolte a chissà quali santi in cielo.
Quella notizia era piombata loro addosso come un fulmine a ciel sereno, uno di quelli che arrivano così, quando meno te lo aspetti, e con una furia incontenibile illuminano e squarciano la notte.
Dopo tutto l'impegno, la fatica, l’organizzazione, il loro progetto sarebbe saltato, non c’erano alternative possibili.
E tutto questo, pensava, per colpa di quell'idiota.
«Come cazzo ha fatto, vorrei sapere.» sbraitò completamente fuori di senno sotto lo sguardo interdetto di quelle persone che, incuriosite dal grande trambusto, si erano affacciate dalle porte del pronto soccorso. «Te l’ha detto? Come cazzo ha fatto?» ripeté quella domanda con una rabbia tale da innervosire Billie Joe, e mentre continuava a imprecare e bestemmiare Dio, diede un forte calcio a un secchione di plastica, che cadde a terra con un rumore secco, riversando sull'asfalto tutto il suo contenuto. Ecco che fine stavano facendo i loro progetti, quella di un misero secchio che rotolava a terra.
Billie Joe Armstrong afferrò l'amico per le spalle e fece per allontanarlo dall'entrata, che si stava pian piano riempiendo di sempre più persone.
«Adesso basta, Mike. Cerca di calmarti.» Lo ammonì il frontman dei Green Day.
«Ma tu lo hai capito o no che, se le cose stanno così, dobbiamo annullare tutto quanto?» si rivolse a lui come se veramente pensasse che ancora non avesse capito a cosa avrebbe portato quello che era appena successo al loro amico. «O abbiamo altre alternative?»
Billie Joe Armstrong fece un respiro profondo prima di trovare la calma necessaria a rispondere al suo amico.
«Non ce le abbiamo, altre alternative, lo sai. Il danno ormai è fatto, non possiamo farci niente, e mettersi a urlare non riaggiusterà le cose.»
La sua risposta fu secca, e Mike capì che non avrebbe ammesso alcun tipo di replica da parte sua.
Grugnì contrariato allontanandosi dall’edificio senza aggiungere altro, e mentre camminava a passo spedito verso la sua auto già si vedeva con il collo di Trè Cool stretto tra le sue mani.

[Continua]


Capitolo revisionato il 26-12-11

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Capitolo 2
*** Imprevisto ***


Imprevisto

Adrienne aveva il volto accaldato dalla fatica quando aprì la porta di casa, e teneva in mano una valanga di buste e sacchetti, risultato di un intero pomeriggio di spese.
Entrò seguita dai figli e tirò un sospiro di liberazione. Finalmente a casa.
«Che fatica.» commentò tra sé spostandosi con una mano le ciocche di capelli che le erano finite davanti al viso.
«Che brutta, la vecchiaia, eh?» la punzecchiò Joey ironicamente richiudendosi la porta alle spalle e fissando la madre con espressione divertita, gli angoli della bocca piegati in un sorriso vagamente sfacciato, lo stesso di suo padre.
«Stammi bene a sentire: quando arriverai alla mia età lo vedremo, chi sarà più in forma tra i due.» rispose prontamente lei quasi come avesse preparato quella battuta da tempo e non avesse aspettato altro che l'occasione più adatta per sfoggiarla.
Uno a zero.
«Fossi in te, mi accontenterei di esserci ancora, quando io avrò la tua età!» ribatté il figlio con la stessa prontezza dimostrata poco prima da sua madre, che ora teneva la bocca socchiusa, totalmente spiazzata da quella risposta.
Quel ragazzo aveva veramente una gran bella faccia tosta. Difficile dire se l'avesse ereditata dal padre o dalla madre, ma una cosa era certa: nessun altro in famiglia sapeva rispondere per le rime come faceva lui.
«Ok, uno pari.» concesse la donna arricciando il naso, iniziando a salire svogliatamente le scale che portavano al piano di sopra.
Con le guance ancora arrossate entrò nella sua camera da letto e lì, sdraiato a pancia in su con ancora addosso i vestiti che aveva messo quando era uscito quella mattina, Billie Joe dormiva profondamente con un braccio piegato sotto la testa. Aveva la bocca semiaperta, e il petto si sollevava e riabbassava ritmicamente ad ogni respiro. La finestra aperta per metà dall'altro lato della stanza lasciava intravedere i colori fiammanti del tramonto di inizio estate.
Adrienne guardò con apprensione il marito riposare sul letto e non poté fare a meno di pensare tra sé a quanto dovesse sentirsi stanco e spossato.
Negli ultimi mesi aveva passato più tempo negli studi di registrazione che a casa, impegnato com'era, assieme alla sua band, nella preparazione del nuovo album e nell’organizzazione della tournée, e anche se la fatica era stata tanta, si era sempre mostrato entusiasta all'idea che di lì a poco tempo sarebbe dovuto partire per il tour. Un tour che lo avrebbe tenuto, sì, mesi e mesi lontano da casa, ma nel quale aveva anche investito molte delle sue aspettative, così come avevano fatto anche Mike, Trè Cool e tutti gli altri musicisti coinvolti.
Si sporse sul letto fino a sfiorare in un casto bacio le sue labbra nell'intento di svegliarlo nel modo più delicato possibile.
«Billie, amore?» lo chiamò con un sussurro dolce accarezzandogli i capelli corvini, che scorrevano soffici tra le sue dita come ovatta sulla pelle, e sorrise quando vide che lentamente apriva gli occhi guardandosi intorno spaesato, quasi come avesse dimenticato di essere a casa sua, nel suo letto, accanto a sua moglie.
Billie Joe Armstrong mugugnò insonnolito, portandosi le mani davanti alla faccia per cercare di nascondere uno sbadiglio.
«Che ore sono?» domandò con voce stanca, ancora impastata di sonno.
«Le sette e mezza.»
Le sette e mezza di sera, ripeté lui nella sua mente: aveva dormito per più di tre ore.
Quando, nel primo pomeriggio, era tornato dall'ospedale non aveva avuto voglia di pranzare, un po' perché la brutta notizia gli aveva completamente serrato la bocca dello stomaco, e un po' perché in quel momento la sola cosa che aveva desiderato era staccare il cervello, svuotare la testa, pensare ad altro.
Anzi, smettere di pensare del tutto, magari.
L'ultima volta che si era concesso un riposino pomeridiano non la ricordava neanche più.
Adrienne aveva un’espressione corrucciata.
«Avevo provato a chiamarti al cellulare, ma era sempre staccato.» cominciò puntando lo sguardo in basso, sulle lenzuola, e tracciando con la punta di due dita una serie di cerchi su di esse. «Volevo sapere cosa hanno detto i dottori...»
Billie Joe Armstrong rimase in silenzio per una manciata di secondi, prima di sbuffare rumorosamente e buttarsi di nuovo a pancia in su sul materasso.
«Purtroppo niente di buono.» ammise piegando le braccia sotto la testa e tenendo lo sguardo fisso sul soffitto. «Ha una piccola frattura al polso, per cui dovremo annullare la tournèe o, per lo meno, posticiparla di qualche mese: i dottori hanno detto che anche se l’osso non impiegherà molto a rimarginarsi, ci sarà comunque un bel po’ di esercizio e di fisioterapia da fare, prima che Frank possa tornare a muovere il polso abbastanza velocemente da riuscire a suonare.»
Adrienne non si stupì affatto della nota di dispiacere e rassegnazione che colse nella sua voce: dopo tutto l'impegno che avevano messo per organizzare il tutto, una notizia del genere non ci voleva proprio. Organizzare una tournèe non era una passeggiata, ogni cosa aveva bisogno di essere predisposta e pianificata con largo anticipo, specialmente se si trattava di una band dal successo così grande come quello dei Green Day. Annullare tutto così, all’ultimo minuto, proprio pochissimi giorni prima della partenza avrebbe comportato costi non indifferenti: l’affitto degli stadi era già stato pagato, e ovviamente c’era la spesa dei biglietti da rimborsare, per non parlare dei fan che stavano aspettando quel momento carichi di aspettative e con l’ansia e l’emozione di chi sa di essere sul punto di realizzare un sogno.
Non c’era dubbio, il manager dei Green Day sarebbe impazzito. E Trè Cool non ne sarebbe uscito vivo.
«Cavolo, è un bel problema.» osservò con voce mesta prendendo la mano di suo marito e stringendola affettuosamente tra le sue. «Mi dispiace.»
Sapeva quanto Billie tenesse a esibirsi dal vivo dopo così tanto tempo, erano settimane che non parlava d'altro.
«Anche a me... » mormorò abbattuto quest'ultimo, intrecciando le dita con quelle della moglie.
Rimasero alcuni istanti così, mano nella mano senza dire nulla, il silenzio rotto soltanto dal frinire incessante delle cicale sugli alberi del giardino.
«Povero Frank, però, chissà come si sentirà, lui, adesso...» commentò Adrienne, pensierosa. «Al di là del polso rotto, intendo, deve sentirsi proprio in colpa, immagino...»
Il suo sguardo si fece vigile mentre guardava attentamente suo marito negli occhi.
«Tu non gli hai fatto una sfuriata, ovviamente. Vero, Billie?»
E senza dare lui il tempo di rispondere alla sua domanda continuò imperterrita: «Poteva succedere a te, e anche a Mike. Sono cose che capitano, e possono capitare a chiunque, no?»
Era tipico di lei, questo. Quando cominciava un discorso non dava mai a nessuno il tempo di interromperla, neanche per rispondere a una domanda che lei stessa aveva posto. Ormai Billie ci aveva fatto l'abitudine, e aveva imparato ad amare anche quel lato del suo carattere.
«Beh, no,  non capiterebbero se lui cominciasse a salire le scale come Cristo comanda.» Si tirò su a sedere con uno scatto, commentando, irritato, le parole della moglie. «Non mi sembra una cosa così complicata, o forse sono io l'unico idiota che sale le scale di casa un gradino alla volta.»
Poi, con la stessa rapidità con cui aveva cambiato tono tornò nuovamente calmo, cercando di rilassare i muscoli che gli si erano contratti in quell’istante di nervosismo.
«E comunque non gli ho fatto nessuna piazzata: credo che gli sia bastata e avanzata quella di Mike.»
Adrienne contrasse le labbra in una smorfia.
«Lo sapevo...»
«E immagino che anche Pat gliene abbia dette quattro.» aggiunse poi assumendo inconsciamente la stessa espressione della moglie. «Ma Mike... credo di non averlo mai visto così arrabbiato in vita mia, gliene ha dette di tutti i colori. Frank era mortificato, poveretto: non sapeva più che dire, e tu sai bene che ce ne vuole, per lasciare lui senza parole.»
Lei scosse la testa, contrariata. Poteva capire la rabbia di Mike, ma i Green Day erano un gruppo, una squadra, e come tale avrebbero dovuto cercare di venirsi incontro, di risolvere insieme i problemi, di starsi vicini, piuttosto che puntarsi contro il dito e prendersela con l’altro.
«Beh, oramai è fatta, no?» La voce di Adrienne era calma e confortante. «A questo punto litigare non serve a nulla. Tu, però, intanto, cerca di stare tranquillo e non ti buttare troppo giù: il tour è stato solo rimandato. Approfitta di questi giorni per riposarti a dovere e vedrai che le cose si sistemeranno presto.»
Billie Joe sorrise, rincuorato da quelle parole. Tirò sua moglie a sé e le stampò un bacio sulle labbra, sinceramente felice di avere una donna come lei al suo fianco.
«Speriamo che sia davvero così, allora.»

[Continua]

Capitolo revisionato il 22-01-12

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Capitolo 3
*** Gente seria ***


Gente seria

«Ti prego, Frank, raccontami di nuovo come hai fatto.»
Una risata improvvisa fuoriuscì dalla bocca di Brittney nel momento esatto in cui pronunciò quelle parole.
Era seduta a gambe incrociate sul tappeto di fronte al divano, intenta a dare il biberon al piccolo Brixton, e da quando si era alzata da tavola -cinque minuti prima, circa- non aveva fatto altro che muovere le labbra in strane espressioni che suo marito e gli altri avevano osservato in silenzio con un certo interesse. Le veniva da ridere, non riusciva a impedirselo. Aveva cercato il più possibile di tenere nascosti i sorrisi divertiti che le nascevano spontaneamente sulle labbra, e di tanto in tanto aveva schiarito la voce nel tentativo di ricacciare indietro la risata imminente che sentiva pizzicarle la gola, ma non ce l’aveva fatta, era stato più forte di lei.  Ogni volta che ripensava a quello che aveva appena raccontato Frank, se lo immaginava con indosso un improponibile pigiama a pois rossi e un paio di babbucce pelose imbarazzanti -di tre o quattro numeri più grandi della sua taglia- mentre, affrettandosi su per le scale per raggiungere il telefonino che trillava insistentemente dalla sua camera da letto, un piede gli fuoriusciva dalla ciabatta e sbatteva al gradino, facendolo cadere malamente. Non avrebbe saputo dire cosa c’entrassero le pantofole pelose o il pigiama a pois, ma era la prima immagine che le era passata per la testa durante il racconto del suo amico, e il sol pensarci le provocava altre risate.
«Te l’ho raccontata tre volte, perché ti fa tanto ridere?» Trè Cool non poté fare a meno di unirsi a lei nella sua risata contagiosa.
Dal canto suo, Brittney non avrebbe mai confessato che quel suo improvviso attacco di ridarella era dovuto non tanto all’immagine di Frank che cadeva per le scale, quando all’immagine di Frank che cadeva per le scale conciato in quel modo, così si limitò a scrollare le spalle mentre con un bavaglino colorato asciugava premurosamente il latte che stava colando lungo il mento del bambino.
«Perché non riesco a figurarmi la scena.» dichiarò con semplicità, chiaramente mentendo. «Solitamente, la gente che cade dalle scale, che ne so, si rompe una gamba, o magari sbatte la testa contro un gradino e si fa un bernoccolo.»  smise di parlare per un istante per sorridere teneramente al piccolo, che la stava fissando con gli occhioni azzurri spalancati e le labbra leggermente dischiuse. Poi riprese: «Eppure, tu sei riuscito a cadere nell’unico modo in cui ci si può rompere un polso!»
Billie Joe e Adrienne, ospiti a cena in casa Pritchard, così come Trè Cool, ridacchiarono divertiti, mentre Mike dovette portarsi una mano davanti alla bocca e fingere di schiarirsi la voce per nascondere agli altri il lieve sorriso che, pian piano, si stava impadronendo delle sue labbra.
Contrariamente a sua moglie, che aveva insistito davvero tanto per averli tutti lì a cena, Mike avrebbe di gran lunga preferito evitare una serata del genere, visto e considerato che ancora non aveva avuto modo di scusarsi con Frank per il modo in cui l’aveva aggredito pochi giorni prima.
«Non è incredibile?» continuò Brittney rivolgendosi al marito con l'intenzione di renderlo partecipe della conversazione, dal momento che aveva passato l'intera serata in silenzio, e ogni volta che qualcuno aveva azzardato a rivolgergli delle domande si era limitato a rispondere a monosillabi.
«Esilarante.» Fu il semplice e palesemente sarcastico commento del bassista, al che la donna rispose con un ampio gesto delle mani in direzione dei suoi ospiti come a voler dire loro: «Ignoratelo, prima o poi gli passerà».
«Beh, però Brit ha ragione.» esordì allora Adrienne spostando lo sguardo dalla sua amica a Trè Cool. «Solo tu potevi riuscire a fare una cosa del genere.»
«Adie, non sarebbe Trè Cool, se non riuscisse a fare cose del genere.» asserì Billie Joe prima ancora di dare al diretto interessato il tempo di parlare. «Non è vero, Frank?»
E così dicendo lanciò un’occhiata divertita in direzione del suo amico batterista.
Frank si grattò il capo, un po' in imbarazzo.
«Tu ci scherzi, BJ, ma avere una mano fuori uso mi fa sentire piuttosto impedito, sai? » fece notare agitandogli davanti agli occhi la mano ingessata, sulla cui superficie bianca era ben visibile il fallo gigante che lo stesso Billie Joe gli aveva disegnato poco prima con un pennarello, tanto per farsi due risate.
«Beh, per quello che fai solitamente tu -eccetto suonare la batteria, s'intende- una mano ti è più che sufficiente, no? » commentò ironicamente il vocalist dei Green Day, accompagnando la sua battuta ad un’occhiata palesemente maliziosa che gli costò una botta sulla spalla da parte di sua moglie e che fece letteralmente scoppiare Brittney in un’incontenibile risata. Mike sghignazzò sottovoce, mentre Trè Cool rimase per qualche istante spiazzato dall'inaspettato commento dell'amico, anche se poco dopo, ridacchiando allegramente, ribatté: «beh, sì, da quel punto di vista non ho di che lamentarmi!»

Dopo circa un paio d’ore, Brittney aveva messo il piccolo a letto, e si era chiusa in cucina a sciacquare i piatti insieme ad Adrienne, mentre i tre uomini erano rimasti nella sala da pranzo a bere qualcosa.
«Hai qualche programma per l’estate, ora che il tour è stato rimandato?» domandò una Brittney intenta a sciacquare piatti e bicchieri.
Adrienne si strinse nelle spalle, asciugando con un panno i piatti che le passava l’altra dopo averli sciacquati.
«Niente di diverso da quelli che avevo prima: tra qualche giorno parto per il Minnesota assieme ai ragazzi, staremo dalle mie cugine. Era in programma che poi raggiungessi Billie, in tour, nella fine di luglio ma, visto che è stato rimandato tutto, rimarrò lì fino alla fine di agosto.» Le spiegò riponendo nella credenza i piatti che aveva appena finito di asciugare, poi si voltò con il viso illuminato.
«Hey, mi è venuta un’idea: perché tu e Mike non vi unite a noi?»  propose entusiasta all’amica.  «La casa è grandissima, staremmo comodi.» Dunque abbassò lievemente il tono della voce e aggiunse confidenzialmente: «C’è Billie Joe che si è impuntato a voler rimanere in città. Io e i ragazzi le abbiamo provate tutte, ma a quanto pare ha deciso così... però, se ci fosse anche Mike, magari cambierebbe idea...»
Poi notò lo sguardo dubbioso della sua amica e si affrettò a chiarire dicendole: «E comunque a me farebbe davvero piacere avervi lì.»
Adrienne aveva sempre amato l’idea di passare le vacanze estive con gli amici, e sapeva che se Brittney e Mike si fossero uniti a loro sarebbe stato un vero spasso, e non solo perché Billie Joe sarebbe sempre stato appiccicato all’amico dando così a loro due la possibilità di uscire da sole, in santa pace, magari per un po’ di sano di shopping.
«A dire il vero, avevo già in programma di fermarmi a casa dei miei, in questi mesi.» Brittney declinò gentilmente l’offerta della sua amica, sorridendo imbarazzata. «Mia madre non è stata molto bene, negli ultimi tempi, e le avevo promesso che sarei andata a trovarli insieme al piccolo, visto che non lo vedono mai.»
Le piaceva, quella proposta, ma ormai non poteva dare buca ai suoi genitori, che già si figuravano con il nipotino in braccio.
«Ti ringrazio per il pensiero, comunque... non ci sei rimasta male, vero?»
Adrienne si strinse nelle spalle, comprensiva.
«No, no, figurati, sarà per un’altra volta.»
«Certo.» ribatté lei, dopodiché assunse lo stesso tono confidenziale che Adrienne le aveva rivolto prima per parlarle di suo marito.
«E comunque, anche Mike ha detto di voler rimanere a casa.»
«Ah, anche lui?»
Brittney annuì.
«E ora che mi hai detto che nemmeno Billie vuole partire, capisco anche il perché... »
Adrienne fece una smorfia, riflettendo dubbiosa.
«Forse non vogliono lasciare Frank da solo con il polso ingessato... »
L’altra arricciò le labbra, scuotendo la testa.
«Forse vogliono solo riposarsi... magari dopo qualche settimana ci raggiungono... »
«Magari... » concesse Brittney facendo spallucce, per poi aggiungere con il medesimo tono: «e comunque, sono davvero tremendi.»
Questa volta fu il turno di Adrienne di fare spallucce: durante i primi anni di matrimonio aveva provato sempre una punta d'invidia nei confronti del rapporto che suo marito aveva con Mike, ma con il tempo aveva imparato ad accettare il fatto di non essere l'unica figura indispensabile nella sua vita.
«Beh, uno sta dove sta l’altro. Qual è la novità?» e così dicendo sorrise, ormai abituata a quel loro legame così inscindibile.
«Io mi chiedo perché non si fidanzino loro due, piuttosto che continuare a stare con noi!»
Adrienne soffocò una risata.
«Farebbero la felicità della maggior parte dei loro fan.» disse alludendo chiaramente alle chiacchiere sulla presunta relazione tra Billie Joe e Mike.
Una volta finito di mettere a posto le stoviglie, le due donne tornarono in sala da pranzo, dove ad aspettarle c'erano i rispettivi mariti e l'amico Frank.
«E così non te ne resterai solo soletto, qui in città. Eh, Mike?» esordì una sorridente Brittney entrando nella stanza, appoggiandosi con le braccia sulle ampie spalle del marito, che per qualche istante la guardò corrucciato senza capire dove volesse arrivare.
«Mah, secondo te dobbiamo fidarci a lasciare questi due qui da soli?» domandò allora Adrienne all'amica, prendendo il suo posto accanto a Billie Joe che, confuso anch'egli, aveva iniziato a scambiarsi strane occhiate con Mike.
«Non saprei, non ne sono così convinta... »
«Sì, forse sarebbe meglio annullare tutto... »
Le due donne continuarono a scherzare tra loro sotto lo sguardo sempre più confuso dei mariti e dell'amico finché quest'ultimo non propose, fingendosi serio: «Quanti problemi vi fate... partite pure tranquille: ci penso io, a controllarli. Siete in buone mani.»
Nella stanza calò il silenzio più assoluto, e Trè Cool si ritrovò gli sguardi dei suoi amici puntati su di lui come luminosi occhi di bue.
Dopo alcuni secondi di totale quiete, Brittney aggrottò la fronte assumendo un’espressione che sarebbe un eufemismo definire semplicemente turbata.  I suoi occhi si soffermarono sul polso ingessato dell’amico.
«Sai... » pigolò con voce da bambina. «non è molto credibile, detto da uno che ha un fallo gigante disegnato sulla mano.»
Billie Joe, Adrienne e Mike scoppiarono in una risata sincera.
 
 [Continua]

 Capitolo revisionato il 22-01-12

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Capitolo 4
*** Acquamarina ***


Acquamarina

Il mese di Luglio era iniziato da poco, e la città si andava svuotando pian piano, giorno dopo giorno, dei numerosi abitanti bisognosi di una più che meritata vacanza. Anche Brittney e Adrienne erano ormai partite da diversi giorni, lasciando Trè Cool e i rispettivi mariti senza il minimo controllo.
I tiepidi raggi del sole riscaldavano e rischiaravano la mattina mentre Billie Joe Armstrong guidava verso l'ospedale con Frank seduto al suo fianco. Durante la domenica il batterista aveva accusato un forte dolore al polso, e si era fatto promettere dal suo amico che l’indomani mattina l’avrebbe accompagnato in ospedale per un controllo, data la sua impossibilità a guidare in quelle condizioni. Billie Joe, dal canto suo, avrebbe di gran lunga preferito restarsene a casa a dormire, ma quando Frank lo aveva supplicato, la sera prima, con una vocina infantile così insopportabile da far perdere la pazienza persino a un santo, non aveva saputo dirgli di no. In fondo, anche lui l’avrebbe fatto se le situazioni fossero state invertite: ne era sicuro.
Quasi sicuro.
«Frank, io non voglio dir nulla, eh...» iniziò fissando la strada. «ma era proprio necessario che ti portassi a quest’ora?»
L'amico se ne stava stravaccato sul sedile accanto al suo, teneva i piedi sul cruscotto e una sigaretta tra le labbra. Anch'egli, proprio come il cantante, aveva gli occhi ancora iniettati di sangue, e sotto di essi delle occhiaie talmente profonde che avrebbero fatto concorrenza a quelle di un vampiro.
«Sta zitto, BJ.» borbottò passandosi una mano tra i capelli. «Che mi sono dovuto svegliare all'ora in cui di solito vado a dormire.»
«Lo dici a me...»
Billie Joe voleva davvero bene a Trè Cool, ma a volte sapeva essere veramente un gran rompipalle, specialmente con lui, che sapeva essere il più accondiscendente del gruppo. Infatti, se quella mattina avesse chiesto a Mike di accompagnarlo così di buon ora, nonostante si fossero ormai chiariti, questi lo avrebbe sicuramente mandato a cagare senza pensarci due volte.
«Però sbrigati, sennò poi inizia ad arrivare troppa gente.»
Decisamente, Trè Cool stava mettendo a dura prova la sua pazienza.
In pochi minuti si trovarono di fronte all'imponente facciata dell'ospedale. Billie Joe parcheggiò la sua automobile e appena uscito dall'abitacolo una lieve brezza mattutina cozzò contro il suo corpo accaldato, facendolo rabbrividire. Si strinse nella giacca nera di pelle che indossava sopra una leggerissima camicia bianca e si avviò assieme a Frank verso l'entrata dell'edificio. Nonostante non fossero ancora le nove di mattina, il cortile d’ingresso pullulava già di anziani col bastone e madri troppo impegnate a correre appresso ai propri figli per accorgersi della presenza di due famosissime rock star tra di loro.
Una volta giunti di fronte all'ingresso Billie Joe si fermò, esitante.
«Quando hai finito, fammi uno squillo e passo a riprenderti.»
«E tu dove vai?»
«A cercare un cazzo di bar dove prendere un caffè, Frank, altrimenti ti converrà chiamare un taxi piuttosto che stare in macchina con me, al ritorno.» rispose Billie Joe ribadendo il disperato bisogno che aveva di un qualcosa che lo facesse restare sveglio.
«Guarda che dentro c'è, il bar.» fece presente il batterista, ma i profondi occhi verdi di Billie Joe percorsero in un attimo il profilo della facciata dell'edificio, poi si strinse nelle spalle, arricciando il naso.
«Lo sai che non entro negli ospedali.»
E così dicendo si congedò dall'amico, che rimase qualche istante ad osservarlo mentre si allontanava prima di decidersi ad entrare. Nel frattempo, Billie Joe era uscito dal cortile dell'ospedale, e osservava le vie a lui poco conosciute che si diramavano da esso. Era tutto molto diverso dall’ultima volta che era passato lì, c’erano molti più edifici, le strade erano più trafficate.
Tirò fuori dalla tasca della giacca un pacchetto di sigarette e se ne accese una, imboccando una strada a caso sulla sua sinistra. Era un vicolo, quello, poco trafficato, con palazzi piuttosto alti su entrambi i lati, che non lasciavano trapassare che pochi spiragli di sole. Percorse la viuzza in assoluto silenzio, gettando di tanto in tanto un'occhiata ai balconi delle abitazioni che lo circondavano, e mentre lo faceva si divertiva a immaginare come potessero essere le persone che vi abitavano, proprio come se i panni stesi o le piante addossate alle ringhiere potessero rivelare lui la personalità dei loro proprietari, il loro modo di vivere. Quando arrivò in fondo alla strada si ritrovò in una piccola piazzetta circolare, ancora non particolarmente affollata, dato l'orario. Un piccolo gruppo di ragazzini sui dieci anni correva ridendo dietro i piccioni che beccavano qua e là, mentre due anziane signore parlavano amichevolmente, sedute su una panchina dall'altro lato della piazza, proprio accanto a un locale che, a giudicare dai due o tre tavolini corredati di sedie che vi stavano di fronte, aveva tutta l'aria di essere un bar.
Alzò lo sguardo sull'insegna: Pit’s Cafè, lesse.  
Diede un ultimo tiro alla sigaretta e ne gettò a terra la cicca, calpestandola, dopodiché infilò le mani nelle tasche dei pantaloni e attraversò la piazzola. Si fermò proprio sotto l'insegna, guardando all'interno.
Era un locale luminoso, piuttosto raccolto, con un lungo bancone di granito sulla parete sinistra e un enorme specchio sulla destra, al di sotto del quale stavano alcuni tavolini, anch’essi corredati di sedie; un delizioso e invitante aroma di caffè aleggiava nell'aria, e arrivava dritto dritto nelle narici di Billie Joe, che inspirò a fondo quel profumo e, quasi istantaneamente, si sentì subito tirato su.
All'interno del locale non c’era nessuno, fatta eccezione per una ragazza dai capelli corvini che, girata di spalle, sistemava delle bottiglie di alcolici su una mensola dietro al bancone.
Il vocalist dei Green Day si schiarì la voce per attirare l'attenzione della barista che sembrava non essersi affatto accorta della sua presenza.
«Scusa?» domandò restando sulla porta. «Siete aperti?»
La ragazza si voltò verso l'entrata, e nel preciso momento in cui questa gli sorrise cortesemente, rispondendo alla sua domanda con un altrettanto cortese «certo.», il corpo di Billie Joe fu come scosso da un brivido improvviso, che percorse per intero la sua spina dorsale, facendolo quasi trasalire. Il battito cardiaco era accelerato vertiginosamente, aveva le gambe di sabbia, un grande senso di vuoto stava dilagando nel suo stomaco, provocandogli una vertigine. Era una sensazione strana, che aveva un qualcosa di vagamente familiare, e mentre si affrettava a raggiungere il bancone tentò di ricordare in quale occasione, prima di allora, avesse provato un simile sconvolgimento. Si sedette su uno sgabello, si tolse la giacca e la poggiò sullo sgabello accanto al suo, per poi puntare lo sguardo sulla porzione di braccio che la manica della camicia, ripiegata fino al gomito, lasciava scoperta: aveva la pelle d’oca, e ciò nonostante si sentiva incredibilmente accaldato.
La ragazza dietro il bancone era vagamente confusa: quell’uomo che le si era appena seduto di fronte aveva un’aria davvero strana. Sembrava avesse faticato a raggiungere il suo posto davanti al bancone, e una volta seduto era rimasto in silenzio con il capo chino senza fare la sua ordinazione. Per di più, quell’uomo aveva un viso familiare. Quegli occhi verdi, quei capelli scuri, ma soprattutto quella voce, avevano un che di conosciuto. Era certa di averli notati da qualche parte negli ultimi tempi, ma chi fosse esattamente, quello proprio le sfuggiva.
Dopo diversi istanti di interminabile silenzio, con discrezione, la ragazza si schiarì la voce nel tentativo di catturare l’attenzione di quell’uomo che sembrava aver dimenticato dove si trovasse. Aveva l’aria di uno che non dormiva da giorni, o che era appena stato mollato dalla sua donna, e a guardarlo bene, la ragazza ipotizzò che si dovesse trattare dell’una e dell’altra cosa.
«Cosa ti do?» domandò cauta non appena gli occhi del cantante si sollevarono e incrociarono i suoi. La sua voce era gentile e delicata.
Billie Joe Armstrong si ricordò solo allora del motivo per cui si trovava lì.
«Ah, un caffè» bofonchiò con voce stanca, passandosi una mano tra i capelli. Poi aggiunse: «per favore.»
«Arriva.»
Il frontman dei Green Day la squadrò attentamente in tutta la sua figura mentre era intenta a preparare il caffè. A occhio e croce non dimostrava più di vent'anni, e sembrava essere alta pressappoco quanto lui. Aveva un bel fisico: asciutto e snello, anche troppo, per i suoi gusti, ma osservandola bene, era una caratteristica che non stonava affatto con la sua persona. I lineamenti del viso erano delicati e leggermente spigolosi, in parte ancora infantili. La carnagione chiara era in netto contrasto con i capelli corvini che, lunghissimi e legati in un’alta coda, le ricadevano morbidi lungo la schiena, arrivandole a pochi centimetri dal sedere. Aveva un naso piccolo e delicato e le labbra sottili. Ciò che però lo aveva colpito più di tutte le altre cose, erano stati i suoi occhi: azzurri e limpidi come il mare in estate, talmente profondi che avrebbe desiderato perdervisi dentro.
La ragazza gli poggiò davanti un piattino di coccio e un cucchiaino, che vennero seguiti, pochi secondi dopo, dalla tazzina di caffè.
«Ecco a te.» disse poi, facendo per avvicinargli il contenitore dello zucchero.
«Lascia, lascia» la fermò. «lo prendo amaro.»
Billie Joe prese un sorso del suo caffè. Era proprio come piaceva a lui: forte e bollente. Mentre ingollava il liquido caldo che quasi gli faceva bruciare la gola, rianimandolo, continuava a osservare meticolosamente la ragazza, che anch'essa non accennava a staccare gli occhi da lui, come se l'avesse riconosciuto ma fosse indecisa sul chiedergli conferma o meno.
«Posso chiederti quanti anni hai?» domandò improvvisamente lui, incapace di resistere alla curiosità.
La ragazza sbatté le palpebre in un istante di confusione, dopodiché rispose:
«Diciannove, tra qualche mese.»
Non gli domandò il perché di quella domanda; era altro, ciò che le interessava sapere di lui, per esempio dove l’avesse visto prima di allora.
«Senti, magari mi sbaglio, eh.» cominciò lei dopo diversi secondi di esitazione. «Tu hai un viso un sacco familiare, solo che non riesco proprio a ricordare dov’è che ti ho già visto.»
Inclinò la testa da un lato e incrociò le braccia al petto, poi proseguì domandandogli se per caso non fosse già stato altre volte in quel bar.
Il vocalist dei Green Day la osservò per un istante con occhio critico, cercando di capire se effettivamente la ragazza non avesse ben realizzato chi fosse. Sin da quando aveva messo piede lì dentro aveva avuto il vago sospetto che lei lo avesse riconosciuto. Dopo tutto, lei non era tanto più grande di quelle ragazzine -e non erano poche- pseudofans dei Green Day, interessate solo all’aspetto fisico suo e dei suoi compagni, che urlavano loro quanto fossero -testuali parole- fighi, e che avevano come desiderio comune quello di sposarli, eppure lei non aveva fatto alcun commento su di lui e la sua band.
Forse non aveva capito veramente chi fosse, o forse, più semplicemente, non era sicura del fatto che lui fosse davvero Billie Joe Armstrong. Ad ogni modo -pensò lui- il solo fatto che non gli fosse saltata addosso gridando «O mio Dio, è il cantante dei Green Day!» era già un buon segno.
«Veramente, è la prima volta che vengo qui.» rispose lui, stringendosi nelle spalle. Dopodiché azzardò: «Sicuramente è in tv, che mi hai visto. Magari su MTV, o su qualche altro canale di musica.»
Se ne rendeva conto: avrebbe potuto benissimo far finta di nulla e far credere alla ragazza di essersi confusa, ma voleva fare una piccola prova, voleva verificare quale sarebbe stata la sua reazione non appena si fosse resa che l’uomo seduto di fronte a lei era il leader dei Green Day. Sembrava carina, aveva modi gentili, e Billie Joe voleva vedere se si stesse sbagliando a immaginare che, una volta capito tutto, lei non lo avrebbe affatto trattato come una specie di divinità scesa in terra.
La ragazza strinse tra i denti la parete interna di una guancia, assumendo un’espressione pensosa.
«Quindi sei un musicista... »  bofonchiò torturandosi il labbro inferiore con due dita.
Sì, era un musicista, ricordava di averlo visto in tv recentemente, forse per il lancio di un nuovo disco, eppure non riusciva a farsi venire in mente quale fosse il suo nome, e neppure quale fosse la band della quale faceva parte.
«Aiutino?» domandò improvvisamente Billie dopo aver notato che la ragazza era in difficoltà.
Questa rispose annuendo.
«Hai presente i Green Day?» le chiese quindi, quasi aspettandosi da lei una risposta del tipo: «No, mi spiace. Mai sentiti.»
Gli occhi della ragazza però si illuminarono immediatamente di quella consapevolezza.
«È vero, accidenti.» esclamò battendosi una mano sulla fronte. «Sei il cantante dei Green Day.»
Gli sorrise con naturalezza per poi aggiungere a mezza voce: «Forte!»
Billie Joe Armstrong ricambiò il sorriso.
Per diversi secondi nessuno dei due aggiunse altro, e la giovane ragazza avvertì dentro di sé un grande imbarazzo, forse perché in situazioni del genere è carino dire cose del tipo: «O mio Dio, è incredibile che tu sia proprio qui. Le tue canzoni sono fantastiche!», e lei delle canzoni dei Green Day non ne conosceva che un misero paio.
Si accorse solo in quell’istante che, a seguito di quella spiacevole conclusione, il suo sorriso si era fatto più tirato e, dallo sguardo di Armstrong, dedusse che lui non stesse aspettando altro che un suo commento.
«Senti...» cominciò dunque lei, sentendosi a disagio per quella strana situazione. «non rimanerci male, ti prego...»
Il cantante dei Green Day aggrottò la fronte.
«Ma io non conosco quasi nessuna delle vostre canzoni.» ammise finalmente con un sorriso carico di imbarazzo dipinto sulle labbra.
Immediatamente Billie Joe Armstrong scoppiò a ridere divertito dall’espressione così imbarazzata di quella ragazza, ma piacevolmente sorpreso dalla sua onestà, che l’aveva portata a confessargli apertamente di non seguire il suo gruppo, piuttosto che mentirgli e fingere di essere una sua fan semplicemente per compiacerlo.
«Mi dispiace...» continuò lei con un sorriso talmente spontaneo che Billie Joe trovò a dir poco stupendo.
«Però conosco Wake me up when September ends.» dichiarò improvvisamente, illuminandosi. «E quella è davvero bellissima.»
Nel pronunciare quelle parole, il tono di voce della ragazza si abbassò notevolmente, divenendo incredibilmente dolce e carezzevole.
«Ricordo che la prima volta che la ascoltai, rimasi senza parole. L’hai scritto tu, il testo?»
«Sì.»
«Complimenti, allora. È fantastica.»
E sorridendo con dolcezza gli tolse la tazzina ormai vuota da davanti, continuando dentro di sé a canticchiare quella splendida canzone che, ogni volta che le tornava in mente, le trasmetteva emozioni talmente forti da farla cadere preda della malinconia.
Billie Joe Armstrong comprese la sincerità di quelle parole, e le sorrise con semplicità, giocherellando distrattamente con la fede che aveva al dito.
Finalmente aveva iniziato a riprendere controllo dei suoi pensieri, e si rese conto di non provare più né il sonno né la stanchezza che aveva prima di entrare. Solo una sensazione continuava a turbarlo, uno strano formicolio alla bocca dello stomaco, che però preferì attribuire al non aver mangiato nulla in tutta la mattinata.
«Tu ti chiami Billie... Joe, vero?» domandò lei improvvisamente, pronunciando il suo secondo nome con l’incertezza di chi ha paura di sbagliare e fare una brutta figura. Il suo sguardo era fisso al lavandino, nel quale stava sciacquando la tazzina e un paio di bicchieri.
«Vero.»
Pochi istanti di silenzio.
«Tu, invece, come ti chiami?»
Billie Joe la vide finalmente alzare lo sguardo, i suoi occhi gli parvero ancora più luminosi e azzurri di quando si era voltata verso di lui per la prima volta, solo pochi minuti prima, e immediatamente ebbe l’impressione che i suoi occhi stessero navigando dentro i suoi.
Smeraldo contro Acquamarina.
Lei sorrise e pronunciò quel nome:
«Gloria

[Continua]

Capitolo revisionato il 02-02-12

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Capitolo 5
*** Gloria, tra destino e coincidenza ***


Gloria, tra destino e coincidenza

A Billie Joe Armstrong parve che quelle sei lettere riecheggiassero nell'aria.
Sembrava che ogni cosa -il vociare dei bambini che giocavano nella piazzola, lo squisito aroma di caffè che circolava nel locale, il sangue che fino a un momento prima pompava nelle vene del cantante- si fosse improvvisamente fermato, lasciandoli soli in un mondo senza tempo.
Gloria.
G-L-O-R-I-A
Cos'era? Uno scherzo o una pura e semplice casualità?
Nel silenzio quasi irreale che aveva riempito il Pit’s Cafè, Billie Joe ripeteva quel nome nella sua testa, cercando in qualche modo di associarlo a lei.
Gloria.
G-L-O-R-I-A
Approssimativamente -ragionò- al mondo dovevano essere migliaia, le donne che portavano quel nome. Era un nome come tanti altri, in fondo. Niente di particolarmente insolito o poco comune. Eppure, per lui, quel fatto era davvero singolare. Era curioso, infatti, che dopo così poco tempo dall’uscita del suo nuovo album, la cui protagonista aveva nome Gloria, lui avesse incontrato una ragazza che si chiamava esattamente in quel modo.
Coincidenza?
Poteva darsi, in fondo quella ragazza avrebbe potuto chiamarsi in milioni di altri modi diversi, e Billie Joe Armstrong avrebbe creduto a tutto ciò senza il minimo indugio, se non fosse stato per il fatto che a portare quel nome non era una donna qualsiasi, ma una ragazza di fronte alla quale aveva avuto una reazione così insolita e particolare, che era totalmente sfuggita al suo controllo e alla quale ancora non riusciva a trovare una spiegazione.
Destino?

«Cos'è, mi stai prendendo in giro?» Le parole gli uscirono fuori di bocca prima ancora di riuscire a formularle nella sua testa. Aveva l’aria accigliata, e il suo tono di voce era basso e inflessibile.
Gloria lo guardò con occhi confusi, cercando di capire cosa avesse voluto intendere Billie Joe Armstrong con quella strana domanda.
Cavolo -si domandava-, perché accidenti pensava che lo stesse prendendo in giro?
«Non capisco.» rispose sforzandosi di sorridere, prima di domandare a sua volta: «Perché dovrei, scusa?»
Lo trovava forse divertente?
«Mah.» faceva eco una vocina nella sua testa: Gloria proprio non riusciva a capire.
Ma in fondo -proseguì nel suo monologo mentale-, cosa c'era da capire? Quell'uomo aveva l'aria di un disperato, era evidente che in quel momento non ci stesse molto con la testa.
«Tu ci trovi qualcosa di spiritoso?»
Il cantante la osservò a lungo, come per accertarsi che non stesse fingendo di non sapere quello di cui stava parlando. No, non stava facendo la finta tonta, ne era sicuro. Per lo più gli aveva confessato lei stessa di non essere una fan del suo gruppo, e lui non aveva assolutamente alcun motivo di non credere che quella fosse la verità; ne conseguiva il fatto che Gloria non poteva sapere perché lui fosse rimasto così sorpreso dall’aver appreso il suo nome.
«No, niente affatto. Scusami.» le disse sorridendo con naturalezza, per poi spiegarle il perché di quella sua strana domanda, ovvero che la protagonista del suo ultimo album portava il suo stesso nome e che, per questo, senza neppure riflettere sull’impossibilità della cosa, aveva pensato che lei avesse voluto dirgli di chiamarsi in quel modo semplicemente per scherzare e prenderlo in giro.
Lei continuava a fissarlo in silenzio, sostenendo il suo sguardo finché, dopo pochi secondi, sorrise con dolcezza, facendo perdere a Billie quel briciolo di lucidità che sembrava aver riacquistato.
«Davvero la protagonista del tuo nuovo album si chiama come me?»
Il vocalist annuì con il capo, sorridendo come intenerito dalla dolce espressione della giovane. Sembrava così naturale, così spontanea anche dopo essersi resa conto di chi avesse davanti, che Billie Joe faticava a credere che esistessero ancora ragazze così.
«Forte. Che coincidenza!» esclamò questa allegramente, infilando entrambe le mani nella tasca che aveva sul davanti del grembiule rosso scarlatto.
Ecco, l'aveva detto anche lei.
Coincidenza.
Eppure quella ventata di entusiasmo investì in pieno il cantante al punto da fargli pensare che forse, in fondo, l'aver incontrato una persona così vitale e allegra proprio in quel momento della sua vita in cui sembrava che alcune cose avessero deciso di non funzionare, non fosse stato un fatto del tutto casuale. E anche ammettendo che lo fosse stato veramente, concluse che quella era stata la coincidenza più strana e curiosa che gli fosse mai capitata.
Sorrise fissando in silenzio le sue braccia poggiate sul bancone, ma nello stesso istante in cui le sue labbra accoglievano docilmente quel sorriso, la sua mente aveva già ricominciato a vagliare freneticamente ogni singola spiegazione che avesse potuto, in qualche modo, fargli comprendere cosa avesse significato esattamente quanto era accaduto in quel locale non appena vi aveva messo piede.
«Già, l’hai detto... » mormorò rivolto più a se stesso che a lei, oramai completamente immerso nell'oceano burrascoso dei suoi pensieri. Lo sguardo vacuo e il volto privo di espressione che aveva assunto fecero preoccupare la ragazza, ma non appena questa aprì bocca per chiedergli se andasse tutto bene, Billie Joe Armstrong si alzò di scatto dallo sgabello sul quale era seduto, pronunciando un distratto «devo andare.».
I suoi occhi erano completamente assenti, il suo respiro irregolare. Infilò una mano nella tasca dei pantaloni e tirò fuori una banconota che poggiò sul bancone per poi afferrare la giacca, il tutto senza mai guardare in faccia la ragazza che, sempre più confusa per quello strano e improvviso atteggiamento, lo guardava con apprensione, incapace di spicciare parola.
No -pensò-, quell'uomo non stava affatto bene.
A grandi passi raggiunse la porta, e solo allora si voltò verso di lei, rivolgendole uno sguardo che questa non riuscì a decifrare e che le lasciò addosso un profondo senso di inquietudine.
«A presto, Gloria.» disse risoluto, e senza altro aggiungere sparì dal locale, lasciando la ragazza impalata dietro il bancone a fissare sempre più confusa il vuoto attorno a lei.


Non appena uscì dal locale, una ventata d'aria fresca riempì i polmoni del cantante, portando un po' d'ordine tra quei pensieri aggrovigliati che gli avevano fatto sembrare quella mezz'ora passata nel bar la più lunga della sua vita. Ripercorse a ritroso il vicoletto che aveva imboccato appena uscito dal cortile dell'ospedale con una sigaretta accesa che gli penzolava dalle labbra. La stessa strada, le stesse persone, la stessa aria fresca di prima, ma avvertiva dentro di sé una leggerezza che non ricordava di aver mai provato negli ultimi tempi. La preoccupazione e la rabbia di quei giorni erano completamente svanite, lasciando posto nella sua mente ad un solo e unico pensiero.
Gloria.


[Continua]

Capitolo revisionato il 06-02-12

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Capitolo 6
*** Sorelle ***


Sorelle

Un invitantissimo profumo invase le narici di Gloria non appena ebbe aperto la porta di casa. Era tornata in quel momento dal lavoro e, stanca e affamata com’era, non avrebbe potuto sperare in un'accoglienza migliore di quella.
«Cosa stai cucinando?» trillò allegramente facendo capolino dalla porta della cucina. «Si sente un profumino...» e così dicendo si avvicinò ai fornelli, di fronte ai quali una giovane donna bionda in tenuta casalinga stava armeggiando con destrezza con alcune pentole sul fuoco.
«Assaggia, assaggia!» esclamò questa intingendo un pezzo di pane nel sugo ai funghi che stava cuocendo in un pentolino per poi infilarlo direttamente nella bocca della sorella, che assaporò quel boccone con la stessa foga di chi non tocca cibo da una vita.
«O mio Dio.» commentò Gloria come in preda all’estasi più totale, con gli occhi chiusi  e la lingua che ripassava più volte il profilo del labbro inferiore. «Che ci hai messo dentro, Eva? È fenomenale.»
«Vero, eh?»
La sorella più grande sorrise con estrema soddisfazione, girando con l’aiuto di una pinza le scaloppine che stavano rosolando nel vino bianco in un’altra padella.
«Finalmente sono riuscita a correggere la ricetta.»
«Vedo, vedo.»
Gloria aveva preparato da sé un altro pezzo di pane da intingere nella salsa.
«Uhm, mamma mia...» mugugnò con la bocca piena. «Vorrei affogarci, dentro questo sugo. Sarebbe una morte perfetta.»
Eva ridacchiò, agitando la padella sul fuoco con fare da vero cuoco professionista.
«Vedi di non finirtelo.»
La più piccola alzò le mani in segno di resa e si offrì di apparecchiare la tavola nel frattempo che sua sorella finisse di preparare la cena.
«Brava.» ribatté Eva sorridendo e puntando scherzosamente verso di lei il cucchiaio di legno che aveva in mano, agitandolo. «Renditi utile, una volta tanto.»
Per lei, quello era un modo per ringraziare sua sorella di tutte le volte che le dava una mano in casa. Le ragazze giovani come Gloria, sapeva per esperienza, passavano le giornate a gozzovigliare in giro con le amiche e i ragazzi, specialmente durante l’estate, e a maggior ragione se avevano appena concluso l’ultimo anno di liceo e rivendicavano, quindi, il sacrosanto diritto di rilassarsi a dovere e di pensare esclusivamente al divertimento. Gloria però non era così: lei divideva il suo tempo tra il lavoro al bar e la cura della casa, costantemente impegnata a cercare un modo per dimostrare a sua sorella tutta la sua gratitudine per essersi presa cura di lei in quegli anni.
«La mamma ha telefonato?» domandò Gloria mentre stendeva la tovaglia sulla superficie del tavolo.
«Sì, questo pomeriggio. Verrà a cena qui da noi venerdì.»
Gloria sorrise, felicemente sorpresa: era da più di un mese che non vedeva la madre, e aveva davvero una gran voglia di vederla e riabbracciarla.
«Fantastico, sei riuscita a convincerla a farla venire a casa.»
Dopo aver posizionato sulla tovaglia sia i bicchieri che le posate, si avvicinò al piano di cottura dove stava lavorando sua sorella e, arricciandosi una ciocca di capelli intorno all’indice fingendo indifferenza le domandò: «E... verrà da sola?»
Eva guardò la sorella con la coda dell’occhio, storcendo la bocca in un’espressione di diffidenza.
«Gloria, che domanda è, questa?»
«Volevo solo sapere se sarebbe venuto anche papà.» ammise Gloria capendo che sua sorella era arrivata  già da sé a quella conclusione.
L’espressione di Eva si fece tirata mentre continuava ad armeggiare tra i fornelli senza mai rivolgerle lo sguardo.

«Richard non viene a trovarci, lo sai.» disse con voce dura, asciugandosi con il braccio una goccia di sudore che le stava colando dalla fronte.
«Lui non telefona, e non viene a trovarci. Non capisco perché continui a interessarti a lui.» ribadì con tono quasi di rimprovero.
Gloria sospirò delusa. Ci aveva provato; per l’ennesima volta ci aveva provato, e per l’ennesima volta non era servito a nulla  se non a fare arrabbiare Eva.
«Scusa.» mormorò con voce mesta. «Non volevo farti innervosire.»
Sapeva quanto sua sorella fosse suscettibile riguardo la faccenda di suo padre, e non gliene faceva una colpa. Semplicemente, però, non sopportava di essere tenuta all’oscuro di tutto, e così di tanto in tanto cercava di mandare a Eva dei segnali non troppo eloquenti che potessero spingerla a parlare del loro padre, anche se ogni volta che ci provava finiva inevitabilmente per essere scoperta, con Eva che si infastidiva e con lei che si rimproverava di essere stata -forse- un po’ troppo diretta.
«Scusa tu.» rispose Eva, aggiungendo la frase che pronunciava ogni volta dopo una conversazione del genere, e che Gloria sapeva essere vera solo in parte. «Sono un po’ stanca per via del lavoro.»
La più piccola finì di apparecchiare la tavola e tornò al suo posto vicino a sua sorella, circondandole la vita con le braccia e mettendosi in punta di piedi per poggiare il mento sulla sua spalla, osservando da quella postazione il modo in cui Eva stava facendo saltare la carne nel sugo ai funghi che vi aveva appena aggiunto.
«Ma perché non molli il lavoro in hotel?» le propose senza accennare a spostarsi da quella posizione.
«Secondo me sei sprecata, lì dentro. Dovresti aprire un ristorante tutto tuo. Sarebbe un successone.» annunciò poi con estrema convinzione.
Eva lavorava come cuoca nel ristorante di un hotel a quattro stelle dove la sua creatività non aveva assolutamente modo di rivelarsi. Dorotha, la capocuoca, era una donnona alta e robusta, nevrotica per via della menopausa e della totale mancanza di attività sessuale nella sua vita ma abilissima in cucina, ed era sempre e solo lei ad occuparsi di inventare nuove ricette per i suoi menù. Ai cuochi che la affiancavano spettavano compiti quali pelare e tagliare le verdure, controllare la cottura della carne e del pesce e sbattere le uova. A loro non era permesso di mettere mano nelle nuove ricette se non sotto il suo attento controllo, cosa che accadeva assai di rado, e ogni volta che accadeva, era comunque così esigente e perfezionista che, da quando Eva lavorava per lei, l’aveva vista licenziare ben quattro persone per non aver indovinato al primo tentativo quale fosse la giusta quantità di sale, zucchero, farina o lievito da utilizzare in una determinata ricetta. Gli orari erano molto pesanti e la paga non particolarmente alta, ed Eva aveva davvero bisogno di quel lavoro, ecco perché dopo tanto tempo ancora si ostinava a lavorare lì, ma Gloria la vedeva, a casa, davanti ai fornelli: non solo era dotata di grande talento e creatività, ma di passione, soprattutto. Avrebbe avuto soltanto da guadagnare, aprendo un ristorante tutto suo.
«Allora potrò assumerti come cameriera, che ne dici?» sorrise strusciando la punta del naso contro la guancia della sorella, guardando dolcemente quella bambina che le era cresciuta sotto gli occhi e che era diventata giorno dopo giorno sempre più donna, sempre più matura.
Spense il fuoco e dispose le fettine in entrambi i piatti. Gloria aprì il frigorifero e prese un’insalata già condita, posizionando l’insalatiera al centro del tavolo prima di prendere posto di fronte alla sorella, che già aveva iniziato a tagliare la carne.
«Ci sono novità al lavoro?»
Gloria aveva appena infilato in bocca una forchettata di insalata.
«Altroché.»
rispose ancora con la bocca piena, rianimandosi all’idea del curioso incontro di quella mattina. Per la fretta di raccontare tutto a sua sorella le andò di traverso il boccone. Tossì un paio di volte dandosi delle bottarelle sul petto, e una volta ripreso a respirare regolarmente esordì dicendo: «non indovinerai mai chi è venuto al bar, questa mattina.»
Eva arricciò le labbra e tirò a indovinare.
«Il presidente?»
Gloria scosse la testa con il sorriso sulle labbra.
«Billie Joe Armstrong.» rivelò con voce carica di suspense.
La sorella maggiore rimase con il bicchiere in mano attaccato alle labbra e l’aria corrucciata.
«Ma chi, quello dei Green Day?»
«Sì, esatto. Proprio lui.»
Gli occhi grigi di Eva erano spalancati in direzione della sorella.
«No, non ti credo. Stai scherzando... »  disse con assai poca convinzione.
«No, no. Ti assicuro di no.»
«Cavolo, non ci posso credere!» esclamò entusiasta poggiando il bicchiere e battendo i palmi delle mani uno contro l'altro. «Te lo sei fatto fare un autografo? Ti ci sei fatta una foto insieme?»
«Ma no, che autografo. Conosco a mala pena due delle chissà quante canzoni che ha fatto.» Scosse la testa ridacchiando, prendendo un altro boccone.
Se l'appetito della bionda era ormai andato a farsi friggere, lo stesso non si poteva certo dire per Gloria.
«E allora? È comunque una cosa che non capita tutti i giorni.»
«Lo so; è che non mi sembrava il caso, visto che all’inizio non l’avevo neanche riconosciuto. »
«E quando te ne sei accorta, scusa, quando il bar ha cominciato a riempirsi di fan assatanati?»
«Ma quali fan assatanati; è venuto alle nove di mattina: eravamo praticamente soli.»
Puro sbigottimento.
«Eva.»
Gloria le agitò una mano davanti agli occhi nel tentativo di farla rinsavire.
«Ok, forse non ho capito bene.» sorrise inebetita. «Tu eri al bar, faccia a faccia, da sola con Billie Joe Armstrong...» ripeté sicura di aver capito male. «E non gli hai chiesto neanche un autografo?»
La più piccola mandò gli occhi al cielo. Cos'era ora quell'improvvisa ossessione per quell’uomo?
«Ma dai, Eva, i Green Day a casa nostra non si sono mai sentiti, che ti importa di avere o no l'autografo?»
Era tipico di lei, questo: c'era gente che avrebbe pagato oro per avere cantanti del calibro di Billie Joe Armstrong nel proprio locale, che avrebbe fatto carte false pur di potergli anche solo stringere la mano. Per lei, invece, Billie Joe Armstrong non era altro che una persona come tutte le altre. Una celebrità, tutt’al più, ma certamente non un dio.
Eva ammutolì e riprese a mangiare a piccoli bocconi.
«Va beh, io lo dicevo perché... è parecchio famoso.» pigolò fissando il piatto che aveva davanti a sé.
«Però è stato carino, sai?» proseguì Gloria dopo pochi istanti di silenzio, durante i quali era riuscita a mangiarsi quasi tutta la sua porzione di carne. «Non ha per niente la faccia della celebrità.»
«Ah, no?»
«Mi ha anche chiesto quanti anni ho.»
«Ma dai!» Eva si rianimò improvvisamente, lasciando Gloria letteralmente senza parole, a domandarsi cosa accidenti le fosse preso quella sera. «Che gli hai risposto?»
«Eva, tesoro... » cominciò cautamente come se stesse parlando a un bambino un po' troppo duro di comprendonio. «Tu solitamente cosa rispondi a chi ti chiede quanti anni hai?»
Questa tentennò.
«La mia età...»
Gloria inarcò un sopracciglio, guardandola come per dirle: «e quindi?»
«... Oh.» fece Eva, rendendosi conto solo in quel momento della stupidità di quanto le aveva appena chiesto. «Scusa: domanda idiota.»
«Cos'altro vi siete detti?»
«Mah, lui mi ha chiesto come mi chiamo.» raccontò portandosi alla bocca l’ultimo boccone della scaloppina.  «E poi mi ha raccontato che la protagonista del suo ultimo album -sai, quello che è appena uscito- si chiama Gloria come me.»
«Forte.» esclamò sorridendo.
«È quello che gli ho detto anch’io.»
Mentre masticava un pezzo di pane intinto nel sugo ai funghi che le era rimasto nel piatto, però, il volto di Gloria assunse pian piano una strana espressione di perplessità.
«Qualcosa non va?»
Gloria si riscosse e inghiottì il boccone, prendendo un sorso d’acqua.
«No, no. Stavo solo pensando che, però, era un po’ strano... »
«Strano... in che senso?»
«Non so neanche come spiegartelo; aveva un’aria molto strana, e in alcuni momenti sembrava quasi... assente
Eva corrugò la fronte, non proprio certa di aver capito bene cosa intendesse sua sorella.
«Appena è entrato, per esempio, mi ha chiesto se il bar fosse aperto e si è messo seduto su uno sgabello... poi più niente. È rimasto per un minuto intero a fissare il bancone senza dare alcun segno di vita. Per un attimo ho pensato che fosse pazzo, ho avuto quasi paura a rivolgergli la parola. Poi però quando abbiamo iniziato a parlare è stato carino, te l’ho detto. Solo che l’attimo dopo -subito prima che andasse via- sembrava che si fosse di nuovo riaddormentato con gli occhi aperti.» le rivelò ancora evidentemente confusa. «Non mi ha dato neppure il tempo di chiedergli se stesse bene che si è alzato così, all’improvviso, e se ne è andato via.»
Eva si sporse in avanti sul tavolo.
«Senza pagare?»
Gloria mandò gli occhi al cielo con un sospiro di esasperazione.
«Ma sì, ha pagato. Prima di andarsene ha lasciato una banconota sul bancone: cinquanta dollari, il che la dice lunga, se pensi che ha preso soltanto un caffè.»
«Cavolo...» mormorò Eva, stupita.
«Già, ma non è solo questo che mi ha spiazzata.»
Si umettò le labbra cercando di non pensare a quello sguardo, ma più si imponeva di non pensarci, più le tornavano in mente quei due occhi verdi che, a due passi dall’uscita, l’avevano fissata immobili, quasi trafiggendola in quello che era stato il secondo più lungo della sua vita.
«Appena ha poggiato i soldi sul tavolo se ne è andato verso la porta con una certa fretta, ma un attimo prima di uscire si è voltato e mi ha salutata... e allora, non so, mi ha guardato in un modo stranissimo. Con quegli occhi così verdi e quell’espressione così strana... sembrava un alieno. Ti giuro, mi è venuta la pelle d’oca.»
Eva la ascoltò con attenzione, riflettendo su quanto le era appena stato raccontato; sua sorella sembrava davvero turbata.
«Beh, anche se non ne ha l’aria, è comunque una celebrità, no?» tentò di sdrammatizzare sorridendole.
Gloria annuì.
«È normale che sia fatto così: le celebrità sono tutte un po’ inquietanti, a volte.»
Lei sorrise rasserenata.
«Mah, non saprei, è la prima volta che mi capita di averne una così vicina, però forse hai ragione.»
Ridacchiò lasciandosi alle spalle quella sottile inquietudine che l'aveva accompagnata per l'intera giornata.

[Continua]

Capitolo revisionato il 10-02-12

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Capitolo 7
*** Nessuna importanza ***


Nessuna importanza

A Berkeley il sole era tramontato da un pezzo, lasciando la città sotto un cielo scuro puntinato qua e là da qualche stella.
Billie Joe Armstrong, sdraiato a pancia in su sul suo letto, aveva la testa rivolta verso la finestra aperta, e  fissava in silenzio quei puntini luminosi che bucavano il velo scuro della notte.
Sapeva che i suoi amici erano entrambi a casa Dirnt. Trè Cool, infatti, dopo aver finalmente chiarito con Mike quella spiacevole situazione, aveva accettato il suo invito a trasferirsi da lui fino a che non avesse avuto nuovamente il polso libero dal gesso, e per inaugurare quella nuova convivenza aveva naturalmente invitato anche Billie Joe ad unirsi a loro almeno per quella serata, ma il frontman dei Green Day non ne aveva avuto voglia, e il suo rifiuto aveva decisamente sorpreso il batterista, che cominciava a pensare seriamente che la posticipazione del tour stesse avendo, per il suo amico, conseguenze piuttosto preoccupanti. In tanti anni che lo conosceva non l'aveva mai visto così strano come in quei giorni: era silenzioso, sfuggente, completamente diverso dal Billie Joe Armstrong ilare e cazzone di sempre. Quella stessa mattina, poi, il suo comportamento l’aveva letteralmente spiazzato: quando lo aveva lasciato lì davanti all’ospedale, Billie Joe era seccato e apatico, ma quando era tornato a riprenderlo non era più né arrabbiato, né nervoso. Anzi, gli era sembrato persino interessato al suo racconto riguardo all’affascinante dottoressa che lo aveva visitato e -aveva aggiunto maliziosamente- non solo. Eppure nel pomeriggio, quando gli aveva telefonato per proporgli l'idea di stare tutti insieme a casa di Mike, la sua voce era tornata monotona e annoiata, come se avesse avuto troppi pensieri per la testa per pensare di trascorrere la serata in compagnia dei suoi amici, e questo -aveva pensato Trè Cool- era veramente strano.
Gli occhi verdi di Billie navigavano in mezzo al vortice di pensieri, contraddittori l’uno con l’altro, che avevano allagato la sua mente dal primo istante in cui, quella mattina, aveva messo piede in quel bar. In quella condizione aveva passato l’intera giornata­: un attimo si sentiva leggero, allegro. L'attimo dopo confuso e turbato. Quei sentimenti incostanti lo stavano divorando con la stessa ferocia con cui una bestia affamata azzanna la sua preda. Tutto quello che voleva era starsene in pace a pensare. Non chiedeva altro, solo appallottolarsi come un riccio e fingere che non esistesse null'altro attorno a lui, ma sembrava che quel pomeriggio il mondo intero si fosse messo d'accordo per impedirglielo. Il telefono di casa sua  aveva infatti squillato, in poche ore, più volte di quanto fosse mai accaduto in ricorrenze particolari come il suo compleanno, l'anniversario di matrimonio o il giorno di Natale.
Primo fra tutti, Jason Freese, che dopo essere partito, vista la situazione, verso Dio solo sa quale luogo da sogno con la compagna, aveva pensato bene di chiamarlo e chiedergli come se la stessero passando lì in città, lui e i suoi amici. Poi era stato il turno di Frank, che lo chiamava per invitarlo da Mike a fare festa per la loro decisione di coabitare, chiamata seguita subito dopo da quella di Mike stesso che, incapace di credere al suo rifiuto per bocca del suo amico batterista, aveva voluto verificare di persona che Billie Joe avesse sul serio declinato l’invito. Aveva persino avuto la faccia tosta di arrabbiarsi per il suo comportamento da immaturo -dato che quando si erano resi conto che avrebbero dovuto rimandare la tournée, Billie era stato il primo a dire lui che non sarebbe servito a nulla né arrabbiarsi né sconfortarsi- e di minacciarlo di -sue testuali parole- venire lì e cacciarlo fuori di casa a suon di calci nel culo, senza rendersi minimamente conto che in quel momento la posticipazione del tour fosse, per lui, veramente l’ultimo dei suoi pensieri.
All'imbrunire, poi, il telefono aveva squillato nuovamente: erano Joey e Adrienne che cercavano di convincerlo a raggiungerli nel Minnesota elencandogli tutte le belle cose che si stava perdendo per fare il topo di città. La voce calda e affettuosa di sua moglie l'aveva rabbuiato molto più di quanto già non fosse, perché per la prima volta si era reso conto che da quando era partita non aveva quasi mai pensato a lei, e non si era mai fermato a guardare la loro foto sul comodino per poi sussurrare a sé stesso: «Mi manchi, Adie.»
Forse era colpa dello stress di quei giorni che gli aveva intasato la mente, mandandola definitivamente in tilt, eppure si sentì una vera merda al pensiero che in tutto quel tempo non l'aveva sfiorato nemmeno lontanamente l'idea di preparare uno zaino e raggiungere lei e i ragazzi. E dopo l'incontro di quella mattina, poi, si sentiva doppiamente in colpa, perché non solo stava trascurando la sua famiglia, ma anche perché aveva passato l'intera giornata con l'immagine precisa, nella sua mente, di due occhi che non erano affatto quelli di sua moglie.
Ed eccoli nuovamente, quegli occhi: azzurri come il cielo e il mare, come la libertà. Se chiudeva i suoi riusciva quasi a vederli davanti a sé, e lo fissavano limpidi e sinceri proprio come lei, come Gloria. Il pensiero di quella ragazza l'aveva accompagnato per tutto il giorno, eppure non riusciva ancora, per quanto si sforzasse, a trovare una risposta a quelle domande che da ore rimbombavano nella sua testa come un'eco.
Come doveva spiegarsi quello strano tremito che l'aveva assalito così all'improvviso quando i loro sguardi si erano incontrati? E quando, prima di allora, aveva già provato una sensazione simile?
Iniziava a credere che non esistesse, una risposta a quei quesiti. E la cosa lo infastidiva. Oh, eccome se lo infastidiva. Perché il semplice fatto di non riuscire a capire quel che gli stava succedendo -pensava lui- voleva dire una cosa sola: che non aveva più padronanza di se stesso, delle sue emozioni, dei suoi sentimenti. Ok, la stanchezza lo stava mettendo a dura prova, ma rifiutava di credere che fosse quella la causa ultima di tutte quelle sensazioni che nel giro di pochi secondi l'avevano sconvolto al punto tale da fargli dubitare persino dei suoi sentimenti per Adrienne. O magari avrebbe anche potuto crederlo, ma non dopo aver saputo che quella ragazza si chiamava in quel modo.
Billie Joe Armstrong non aveva mai creduto nel destino. Preferiva credere nelle coincidenze, piuttosto. Eppure quella volta era lui stesso il primo ad ammettere che ciò che era successo quella mattina aveva davvero dell'incredibile.
«E' solo un nome. Un fottuto, maledettissimo nome.» Continuava a ripetersi, ma più lo ripeteva più sentiva che l'attribuire tutto alla tensione di quei giorni non era altro che un pretesto, un capro espiatorio per tentare di giustificare una situazione di cui non riusciva a venire a capo.
Un venticello fresco e asciutto gli smuoveva delicatamente le ciocche corvine, rianimando i suoi pensieri. Si sentiva stanco, esausto. I suoi occhi diventavano delle fessure via via sempre più strette sotto il peso delle palpebre. Doveva riposare, non poteva continuare a tormentarsi. Non per quella sera, per lo meno.
E mentre il sonno lo stordiva, offuscando pian piano la sua mente, Billie Joe iniziava a vedere le cose da un punto di vista diverso, più ottimista, più fiducioso. Forse non c'era motivo di tanta agitazione. Forse stava davvero creando una tempesta in un bicchier d'acqua. Perché tormentarsi, in fondo? Era solo una ragazza, tutto sommato. Una ragazzina, anzi. Una come tante altre. Probabilmente non l’avrebbe incontrata mai più e di lì a pochi giorni si sarebbe definitivamente dimenticato di lei, si diceva.
Per quel che riguardava sua moglie, invece, decise che l'avrebbe chiamata l'indomani mattina e per farsi perdonare l'avrebbe tenuta al telefono per tutto il giorno. Tutto si sarebbe messo a posto e il pensiero di quanto era accaduto quella mattina non lo avrebbe più toccato.
Ne era sicuro, ora.
E così, soddisfatto di quella felice conclusione, si addormentò finalmente con espressione serena sul volto. Questa volta, però, gli occhi che gli parve di sognare non erano più quelli di Gloria, erano quelli allegri e pieni d'amore di Adrienne.
Dolce, cara Adie.
 
[Continua]

Capitolo revisionato il 24-02-12

 

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Capitolo 8
*** Quando le luci si spengono ***


Quando le luci si spengono

 
«È proprio il ritratto della coerenza, quell’uomo, non c’è che dire: prima mi dice che arrabbiarsi non serve -che abbattersi non serve-, e poi non lascia passare nemmeno una decina di giorni che si chiude in casa, depresso e pure incazzato.» Le labbra di Mike Dirnt si arricciarono all’infuori in una strana smorfia di delusione.
Seduto scompostamente al tavolo, proprio di fronte al padrone di casa, Trè Cool aveva già capito che quella nottata sarebbe passata molto più lentamente di quanto si sarebbe mai aspettato. Erano ore ormai che assisteva, impotente, al colorito repertorio di insulti che l'amico rivolgeva all'ignaro collega cantante, e a niente era servito tentare di addolcirlo con la bottiglia di rum che aveva stappato proprio in occasione di quel festino che aveva programmato e che alla fine si era rivelato essere tutt'altro che divertente. A pensarci bene, poi, quello non si era rivelato neppure essere un vero e proprio festino, rifletté con amarezza.
«Nano da giardino.» riprese il bassista dopo un istante di apparente quiete, gettando l'amico batterista nello sconforto più totale.
E pensare che quella notte avrebbero dovuto passarla tra fiumi di alcol e donne a volontà, proprio come Trè Cool aveva pianificato -anche se aveva immaginato sin da subito che per quel che riguardava le donne avrebbe dovuto dare prova di tutte le sue migliori capacità persuasive per convincere l’amico- e invece era costretto a starsene lì ad ascoltare Mike imprecare per il mancato appuntamento di Billie Joe.
Sospirò rassegnato stendendo le braccia sul tavolo e poggiandovi sopra la testa come un bambino annoiato stanco di ascoltare la maestra che spiega. Il suo sguardo mogio e le labbra impercettibilmente ricurve verso il basso tradivano una certa noia mista a frustrazione, scoraggiamento e una gran voglia di trovarsi in qualsiasi altro posto al mondo fuorché lì.
«Tieni...» mugolò sconsolato il batterista, riempendo l'ennesimo bicchiere di rum all'amico.
«Frank, quanti cavolo me ne stai facendo bere?» domandò l'altro osservando dubbioso quello che a occhio e croce doveva essere il settimo o l'ottavo bicchiere. Già dopo il quarto bicchiere aveva iniziato a perdere il conto di quanti se ne fosse fatti rifilare.
«Zitto e bevi, Mike.» tagliò corto con voce piatta e monotona, allungando il bicchiere verso di lui. Dentro di sé, Frank era ancora convinto che se fosse riuscito a far ubriacare l'amico, questo l'avrebbe piantata una volta per tutte di parlare di Billie Joe e avrebbe cominciato finalmente a rallegrare a dovere la serata.
Il bassista non se lo fece ripetere due volte e con un sorso secco fece fuori il liquido trasparente, godendo del piacevole calore che, al suo passaggio, irradiava nella sua gola. Ci sarebbe voluto ben altro per far ubriacare uno che, come Mike, sarebbe potuto andare avanti tutta la serata a bere e uscirne fuori solamente un po' brillo, eppure sembrava che l'alcol fosse riuscito, almeno in parte, a calmare i suoi nervi tesi. Soffocò infatti una risatina sorniona, poggiando il bicchiere vuoto sul tavolo per poi riempirlo nuovamente da sé.
«Ma sì, chi se ne frega.» parlò come se avesse dimenticato che fino a pochi secondi prima stesse tirando giù tutti i santi in cielo per quella che, in fin dei conti, era una vera cretinata.
Trè Cool era letteralmente scioccato, ma iniziava a farsi strada, dentro di lui, la speranza di essere riuscito finalmente a fare centro.
«È lui che si sta perdendo tutto il divertimento.»
Svuotò il bicchiere e guardò l'amico in cerca di assenso.
«Vero, Frank?»
«Davvero...» lo assecondò sarcastico arricciando il naso in una buffa espressione. Per lo meno Mike aveva smesso di sbraitare come un ossesso, e questa, pensò, era già una conquista.
«Allora»  esordì dunque il bassista poggiando i piedi sul tavolo e incrociando le braccia dietro la testa. «che programmi avevi per la nottata?»
Le labbra dell'altro si piegarono in un sorriso soddisfatto e malizioso.
«Beh, visto che me lo chiedi...» infilò la mano libera dal gesso nella tasca dei jeans e ne estrasse un sacchetto di plastica trasparente che conteneva al suo interno un qualcosa che aveva tutta l'aria di essere erba. «tanto per cominciare, abbiamo questa. »
Gli sventolò la bustina davanti alla faccia per poi lanciargliela.
«Cazzo.» esclamò questo afferrandola al volo e rigirandosela tra le mani. «Potevi dirlo subito, perché hai aspettato così tanto per tirarla fuori? »
«Sai com'è, mi sembravi un tantino preso da quel che stavi dicendo...» gli fece notare  Trè Cool inarcando le sopracciglia.
«Però...» si sporse in avanti sul tavolo e proseguì con voce confidenziale: «non ti ho ancora fatto vedere la parte migliore.»
«Sarebbe?»
Il batterista sorrise maliziosamente estraendo dall'altra tasca un cartoncino colorato che porse poi all'amico.
«Guarda cosa ci aspetta e dimmi quanto sei contento di avere un amico come me che ti organizza queste seratine!»
Mike prese in mano il cartoncino e lo studiò attentamente. Aveva all'incirca le dimensioni di una cartolina, e presentava sul davanti l'immagine di due donne seminude che, sedute in ginocchio tra decine di palloncini color pastello, si guardavano sensualmente tra loro con espressione di complicità. Quella sulla destra aveva lunghi capelli biondi ossigenati legati in una coda di cavallo, e indossava un semplice negligé rosso a rete decorato con minuscoli strass che lasciava intravedere la curva del seno. Le mani poggiate morbidamente sulle ginocchia, teneva il capo ruotato verso l'altra ragazza che, seducentemente, ricambiava il suo sguardo. Questa aveva una fluente chioma di ricci rossi, tenuti indietro da un sottile cerchietto da cui spuntava, su un lato, un fiore azzurro dalle dimensioni poco inferiori a quelle di un pugno chiuso. Il corsetto ricamato che indossava, azzurro anch'esso e con dei lacci di raso rosso che si intrecciavano sul davanti, le fasciava i fianchi magri e metteva in mostra un décolleté piuttosto generoso; una sottile giarrettiera ricamata era in bella mostra sulla coscia sinistra. Teneva una mano direttamente poggiata a terra, mentre l'altra aveva l'incide sollevato sulle labbra piene e dipinte di rosso in un tacito invito al segreto che probabilmente stava rivolgendo alla compagna. Nella parte bassa dell'immagine, una discreta scritta color crema recitava "Servizi ed intrattenimenti per adulti".
Mike non poteva crederci. Con una lentezza esasperante alzò gli occhi dal volantino. Il suo sguardo era corrucciato, ed esprimeva chiaramente tutta la compassione che provava all’idea di avere un amico così idiota e imbecille come il suo.
«Ma tu ci fai, o ci sei?»
Il sorriso di Trè Cool si incrinò.
«Perché? Che problema hai, accidenti Mike, si può sapere?»
«Eccolo, il mio problema.» fece notare l'altro sollevando la mano sinistra e mostrando all'amico l'anello dorato che aveva all'anulare, simbolo di un legame indissolubile con una donna che mai e poi mai avrebbe rimpiazzato - e questa volta ne era davvero sicuro - con un'altra.
«Lo vedi? Questo anello che vedi qui, caro il mio batterista, si chiama fede, e significa che io sono felicemente sposato e non ho alcuna intenzione di tradire mia moglie. Chiaro il concetto?»
«Ma nessuno ha parlato di tradire tua moglie. Sono solo delle spogliarelliste, Mike, e mi sembra di ricordare che fino a qualche anno fa, anche quando eri sposato con Anastasia, non ti facevi  tanti problemi per uno strip-tease, o sbaglio?»
Mike rimase quasi di sasso nel sentire il suo amico tirare in ballo la sua ex moglie.
«Beh, se è per questo, a me sembra che ci sia una bella differenza tra andare in un locale di strip e farsi venire le spogliarelliste direttamente a casa, tu non trovi?» asserì freddo, gli occhi ridotti a due fessure. «E a ogni modo evita di fare paragoni con Anastasia, perché con Brittney è diverso, molto diverso.»
In un certo senso, però, Frank non aveva tutti i torti, pensò il bassista. Con la sua prima moglie non era affatto andata come avrebbe voluto, ed era ben consapevole che questo era accaduto anche per colpa sua, ma erano passati diversi anni, ormai, e aveva giurato a se stesso che la sua storia con Brittney, almeno quella, avrebbe funzionato. Per sempre.
«E sono diverso anch’io.»
«Certo: tu sei cresciuto.» commentò allora Trè Cool con un po’ troppa enfasi. «Invece io sono sempre il solito coglione che si fa venire in mente le idee più idiote pur di ravvivare le nostre serate, è questo che volevi dire?»
Il bassista si morse la lingua, rendendosi conto che forse, pur non avendone l'intenzione, era riuscito a offenderlo.
«Frank, non è questo...» sbuffò ammorbidendosi un po'. «è che tu ora vuoi riempirmi la casa di puttane!»
Trè Cool si morse il labbro inferiore, osservando dubbioso l'amico per qualche secondo. Stava cercando di rimediare, capì. Suo malgrado riuscì a sorridere.
«Ma ti ho detto che non sono puttane. Sono spogliarelliste.» precisò riprendendosi il cartoncino e osservandolo con assoluta devozione.
«Ah certo, allora sì che cambiano le cose.»
Si espresse Mike, sarcastico.
«Frank, qualsiasi cosa siano, se Brittney lo viene a sapere mi strappa le palle a morsi. Capisco che tu non corri questo rischio per ovvi motivi che conosciamo entrambi, però-»
Il suo amico sbuffò, interrompendolo prima che potesse dire altro.
«Sempre su quella storia vai a ricamare, stai diventando monotono.»
«Sarò anche diventato monotono, ma tu non me la riempi casa di puttane.»
«Spogliarelliste!»
Mike sorrise sornione, divertito dalla forte testardaggine che dimostrava l'amico. Sapeva bene che non si sarebbe arreso tanto facilmente, e sapeva anche che, probabilmente, se avesse continuato di quel passo, lui stesso, pur di farlo stare zitto, avrebbe presto ceduto, permettendogli di chiamare quelle ragazze.
«E dai, Mike. Ti giuro che Brit non ne saprà assolutamente nulla. Lo giuro!»
Il bassista sbuffò esasperato, ruotando le pupille azzurre verso l'alto.
«Daiiiiiiii!» insistette come un bambino che fa i capricci per farsi comprare l'ennesimo giocattolo dalla mamma.
«Abbiamo l'alcol, e abbiamo l'erba. Ci manca solo una buona compagnia, no? Dai, che lo vuoi anche tu!»
Mike tentò in tutti i modi di mantenere la calma e di trattenersi dallo sbattergli in testa l'ormai vuota bottiglia di rum, ma i suoi nervi non ressero oltre quando il batterista cominciò a battere come un pazzo le mani sul tavolo.
«Ok, Frank. Ok, ok, ok, ok, ok.» Concesse alla fine, giunto al limite della sopportazione, concludendo con una colorita espressione.
«Ti adoro, Mike!» proferì il batterista mentre un enorme sorriso si allargava sul suo volto.
«Vaffanculo, Frank. »

La notte porta consiglio, si dice. Quando le luci si spengono e il mondo intero si perde tra le lenzuola, tutto è scuro abbastanza da permetterci di mettere a nudo le nostre emozioni, i nostri sentimenti, le preoccupazioni. È di notte che le nostre sicurezze, anche quelle più grandi, sembrano crollare improvvisamente. Perché il buio ci avvolge, ci protegge, eppure ci spaventa. Ci fa sentire soli, indifesi, inermi. È quello che aveva sempre creduto Adrienne, ed è quello che aveva sempre creduto anche Eva.
Faceva troppo caldo, quella notte, per riuscire a dormire. Una gocciolina di sudore scendeva dalla fronte di Adrienne, sfiorandole la tempia e la guancia morbida, lievemente arrossata dal calore, per poi terminare il suo percorso sulla mascella. L'orologio sul comodino accanto al letto segnava le tre di notte. Di questo passo, pensò la donna, sarebbe diventato giorno prima che lei fosse riuscita ad addormentarsi. Sdraiati supini accanto a lei, i suoi figli riposavano beatamente dal primo istante in cui avevano poggiato la testa sul cuscino. Uno sbuffo silenzioso fuoriuscì dalle sue labbra. Forse non era solo il caldo che le impediva di dormire. Non avrebbe saputo dire cosa fosse con esattezza, ma avvertiva dentro di sé una strana sensazione di irrequietezza, una sottile inquietudine che, da quando aveva parlato al telefono con suo marito, quel pomeriggio, non le aveva dato pace. Quella voce piatta e vuota le aveva attaccato un'apprensione troppo grande per fare finta che lì a Berkeley stesse andando tutto nella normalità.
Forse aveva sbagliato a lasciare suo marito a casa da solo.
Forse aveva bisogno di lei e lei non c'era.
Troppi forse, aveva nella mente. Troppi forse e nessuna certezza, se non quella che se anche stesse succedendo davvero qualcosa, Billie Joe non l'avrebbe mai chiamata per pregarla di raggiungerlo.
Svogliatamente si girò su un fianco, sperando di non svegliare i ragazzi. Starsene lì a rimuginare sulla faccenda non avrebbe aiutato né lei né suo marito, questo lo sapeva bene, eppure non riusciva a calmarsi, era più forte di lei. I suoi figli la prendevano in giro: «Ma cosa vuoi che ci sia da preoccuparsi. Si starà divertendo come un matto, da solo con i suoi amici.» le ripetevano sempre, e lei avrebbe tanto voluto credere a quelle parole, e l'avrebbe sicuramente fatto se non fosse stato per lo strano presentimento che qualcosa, lì in città, stesse succedendo veramente, chissà poi con quali conseguenze. Avvolta nel chiarore pallido di quella luna che illuminava un cielo senza stelle, Adrienne desiderò di non essere partita così in fretta e furia, e stropicciandosi gli occhi arrossati dal sonno si preparò ad affrontare quella notte che sembrava non voler finire mai.

Dall'altra parte degli Stati Uniti, Gloria si era addormentata sul divano, proprio di fronte alla televisione ancora accesa. La finestra aperta per metà permetteva il diffondersi nella stanza di un venticello fresco e asciutto che le solleticava la pelle nuda dei fianchi, facendola rabbrividire. L'espressione serena sul volto dalla bocca semiaperta, scandita da un respiro lento e regolare, la rendeva, in un certo senso, ancora bambina, troppo piccola per capire come vanno veramente le cose nella vita.
Era questo che aveva pensato Eva quando, scesa al piano di sotto per prendere un bicchiere d'acqua, aveva trovato la sorella lì, raggomitolata sul sofà come un gattino spaventato dal temporale. Era questo che aveva pensato, ed era questo che l'aveva fatta rattristare. Perché la verità era che lei, forse, pur non avendolo ancora compreso pienamente, si era fatta già un’idea di cosa aspettarsi dalla vita, ed Eva sapeva bene che era questo ciò che pensava tutte le sere che rientrava a casa e trovava, ad aspettarla, sempre e solo lei, e mai i suoi genitori. Sapeva che lo pensava, che le faceva male, anche se faceva di tutto per non darlo a vedere. Mentre si toglieva la vestaglia di lino per stenderla sul corpo infreddolito di Gloria, una lacrima scese dai suoi occhi di perla. Si inginocchiò poi di fronte al divano, spostando una ciocca di capelli che era finita davanti al viso della sorella e le diede un bacio delicato sulla fronte, avendo premura di non svegliarla. Dopo aver chiuso la finestra e fatto un salto in cucina a bere un sorso d’acqua tornò al piano di sopra, certa che comunque non sarebbe più riuscita a prendere sonno.
Dormi, Gloria, che il futuro può essere migliore del passato.
 
[Continua]

Capitolo revisionato il 25-02-12

 

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Capitolo 9
*** Inutile spiegazione ***


Inutile spiegazione

Un sole pallido tingeva di rosa il cielo del crepuscolo mentre un venticello frizzantino spumeggiava nell'aria. Erano appena le sette del mattino, ma Billie Joe Armstrong era già sveglio da un pezzo, nonostante quello fosse un orario che, in altre circostanze, avrebbe senza dubbio definito improponibile.
L'acqua tiepida della doccia scivolava rapidamente lungo il suo corpo esile, liberandogli la pelle dalla fatica e dallo stress degli ultimi giorni. Non aveva dormito molte ore, quella notte, eppure si sentiva calmo e riposato come non mai. Forse aveva ragione chi diceva che un paio d'ore di sonno erano mille volte meglio di un intero pomeriggio passato a poltrire.
Una volta che si fu concesso quella mezz’ora di relax sotto il getto rinvigorente della doccia si asciugò rapidamente e dopo aver constatato che era il caso di fare un paio di lavatrici, indossò le prime cose pulite che trovò: una semplice maglietta a mezze maniche grigia e un paio di jeans scuri.Non perse nemmeno tempo ad asciugarsi i capelli, piuttosto filò dritto in cucina per cercare qualcosa da mettere sotto i denti, visto e considerato che l'ultimo pasto che aveva avuto era stato il pranzo del giorno prima, ma nella desolazione più totale del suo frigorifero, ormai quasi completamente vuoto, l'unica cosa commestibile che trovò fu una merendina al cioccolato, sicuramente di uno dei suoi figli, che comunque gettò via dopo appena un paio di morsi, trovandola davvero disgustosa. Quando capì che non aveva altro da fare lì in casa afferrò la giacca e le chiavi della macchina e uscì in giardino, dove era parcheggiata la sua automobile nera. Il rombo cupo del motore ricordò a Billie Joe che, se avesse voluto arrivare a destinazione, gli sarebbe convenuto passare al distributore più vicino e fermarsi a fare a benzina. Decise che era proprio quello che avrebbe fatto, visto che un distributore era proprio di strada per raggiungere la villa di Mike. Era curioso di vedere in che condizioni si sarebbero fatti trovare, lui e Frank. Avrebbe scommesso tutto quello che aveva che se l'erano spassata alla grande: Cool non era proprio il tipo da passare una serata intera senza combinare qualcosa di idiota. Era totalmente contrario alla sua indole, a maggior ragione se era in compagnia di Mike o di qualunque altro suo amico.
Si fermò al primo distributore che trovò sulla sua strada, e dopo aver rifornito di diesel la sua automobile e aver firmato un autografo a una cliente che l'aveva riconosciuto, partì in terza sulla lunga strada semideserta. Distrattamente afferrò un cd a caso tra i cinque o sei che stavano impilati sul sedile del passeggero -tutti rigorosamente senza custodia- e con gesto quasi automatico lo inserì nello stereo. Si trattava di una serie di dischi che aveva masterizzato dal pc -o meglio, che si era fatto masterizzare da suo figlio- e che contenevano una serie di canzoni miste dei suoi artisti preferiti, tra i quali i Ramones, i Beatles, Joe Cocker, gli Who e, naturalmente, gli U2. Di tutti questi, ovviamente, possedeva, originali, le copie dei loro album, e spesso e volentieri ne ascoltava uno a tutto volume, approfittando del suo meraviglioso nonché costosissimo impianto stereo, che gli dava l’impressione vera e propria non solo di sentire la musica pulsare nelle sue vene, ma di entrare letteralmente all’interno di quelle canzoni, di venire catapultato dritto nel bel mezzo di quel vortice di suoni creato dalla musica stessa. Quando era al volante, però, preferiva di gran lunga spaziare tra gli artisti e le canzoni che più gli piacevano. Preferiva ascoltare canzoni diverse, una dopo l’altra, senza che nessuna di esse avesse alcun tipo di legame con le altre. Gli piaceva il contrasto che si creava da questa discontinuità di toni, e proprio questa perenne tensione lo aiutava a tenersi concentrato durante la guida, gli impediva di immergersi totalmente in una determinata lunghezza d’onda che avrebbe potuto facilmente distrarlo e fargli perdere di vista la strada.
Il suo stomaco si attorcigliò quando partirono le note di !Viva la Gloria!, e il suo sguardo saettò verso lo stereo. Non che fosse sua abitudine inserire le canzoni dei Green Day nei dischi che si faceva masterizzare, ma quella, insieme ad altri cinque o sei brani, era una delle preferite di sue moglie, ed era stata proprio lei ad insistere affinché fosse nel cd. Nuovamente Billie Joe tornò con la mente a quella riflessione sulle coincidenze e il destino che il sonno aveva interrotto la notte precedente. Svogliatamente premette il piede sul freno fermandosi di fronte a un incrocio, dove un semaforo rosso concedeva il passo a un'anziana signora con un cane al guinzaglio che, se possibile, sembrava essere ancora più vecchio di lei. Il sui sguardo era rivolto, nell'attesa, alla sua destra, dove si snodava, lunga e circondata da una fitta schiera di villette, la strada che l’avrebbe condotto in pochi minuti alla via della casa di Mike. Il ritornello energico e coinvolgente di !Viva la Gloria! vibrava intanto nell'aria dell'abitacolo, e a ritmo di quella musica così familiare da sentirla parte di sé, vibravano anche i pensieri di Billie Joe Armstrong. Era un movimento così rapido, quello dei suoi pensieri, che la sua mente non riusciva ad afferrarli, non riusciva a districare la sottile rete disegnata dalle loro orbite.
Tre secondi.
Due secondi.
Uno.
Il semaforo diventò verde nello stesso istante in cui la sua testa riuscì a catturare finalmente una di quelle piccole particelle che ronzavano fulminee al suo interno seguendo il ritmo della canzone. L'impulso del colore verde gli raggiunse il cervello un istante prima che questo riuscisse a decifrare quel piccolo, folle e allo stesso tempo ingenuo pensiero, e quando davvero afferrò ciò che gli era passato per la mente, aveva già premuto il piede sull'acceleratore, e stava proseguendo il suo percorso sulla strada dritta dinanzi a sé.

Gloria aveva aperto il locale da poco più di mezz'ora, e se ne stava tutta sola a passare lo straccio sul pavimento di granito. Il sole era spuntato da tempo dall'orizzonte, e intiepidiva con i suoi raggi una mattinata già abbastanza calda.
In piedi dietro il muro di una palazzina che dava sulla piazzola, Billie Joe Armstrong osservava di nascosto i movimenti di quella giovane donna che, durante quelle ventiquattro ore, era stata la sua più grande ossessione.
Non indossava il grembiule scarlatto che aveva il giorno prima, e teneva sciolti i lunghi capelli corvini, che fluivano docili fino al fondoschiena, fasciato da un aderentissimo paio di blue-jeans che le mettevano in evidenza le gambe magre e non particolarmente lunghe. La maglietta, una semplicissima canotta color rosa pallido, lasciava in bella mostra le braccia sode.
Billie Joe Armstrong sentì l’impulso di ridere, al pensiero di trovarsi lì a spiare una ragazzina di vent'anni più giovane di lui, soprattutto se pensava che cose del genere non le aveva mai fatte neppure quando era un adolescente. L'idea di osservare di nascosto una ragazza non gli era mai passata nemmeno per l'anticamera del cervello, in fondo non era mai stato quel tipo di ragazzo che indugia di fronte al gentil sesso e, anzi, non aveva mai avuto alcun problema ad ostentare i suoi interessi, neanche di fronte alle dirette interessate.
Con discrezione sporse leggermente la testa oltre il muro, e poté vedere chiaramente Gloria poggiare lo spazzolone addosso alla parete e uscire dal locale per poi sdraiarsi sulla panchina di marmo bianco che era proprio accanto all’entrata. Vide vagare il suo sguardo lungo il cielo vuoto di nuvole, per poi chiudere gli occhi e godersi la piacevole sensazione della propria pelle inondata dai raggi del sole.
Billie Joe sorrise placidamente sotto i suoi occhiali da sole neri. Sembrava così calma, così senza fretta, in pace con il mondo.
Improvvisamente, però, una voce secca gracchiò alle spalle del cantante, facendolo quasi saltare dallo spavento.
«Giochi a nascondino o stai spiando le ragazzine?»
Affacciato alla finestra del secondo piano della palazzina sull'altro lato della strada deserta, un anziano signore rinsecchito osservava Billie Joe Armstrong con lo stesso sguardo di un padre che ha appena beccato un maniaco a importunare sua figlia.
«Svergognato, potresti esserle padre.» continuò il vecchio con voce aspra sotto lo sguardo interdetto del frontman dei Green Day.
«Vai a fare il maniaco da un'altra parte.»
Billie Joe fissò ancora per qualche istante quel mucchiettino di ossa parlanti per poi voltarsi come se niente fosse successo e dirigersi verso il locale mormorando tra i denti: «I pazzi capitano tutti a me...»
A passi lenti raggiunse la ragazza che sembrava non essersi accorta minimamente della presenza di qualcuno poco lontano da lei.
«Ciao, Gloria.»disse con voce calda una volta che l’ebbe raggiunta, osservandola dall'alto.
Lei aprì lentamente gli occhi, sbattendo le palpebre per proteggerli dalla luce del sole, e la sua bocca si socchiuse dallo stupore quando mise a fuoco il volto della persona che l'aveva appena salutata. Velocemente si tirò su e si alzò in piedi mormorando un timido «ciao.»
«Ti ho disturbata?» domandò Billie Joe notando che lei non accennava a dire altro.
Gloria scosse la testa con vigore.
«No. No, non mi hai disturbata.» Accennò un sorriso gentile.
«Sono sorpresa di rivederti qui. Non è esattamente il posto dove si riuniscono le celebrità, o no?» 
Il frontman soffiò una risata divertita.
«Wow, ieri non sapevi neppure chi fossi, e oggi sono diventato una celebrità?»
«Guarda che sapevo benissimo chi fossi, ci ho solo messo un po’ per rendermene conto.» rispose prontamente e senza indugio, sorridendo sorniona, per poi aggiungere, stringendosi nelle spalle: «E comunque, se tu esci di casa e vieni accerchiato da una schiera di fans che ti chiedono foto e autografi, sei una celebrità indipendentemente dal fatto che io lo sappia o no, non credi?»
Billie Joe Armstrong sorrise di rimando, rendendosi conto che il suo ragionamento non faceva una grinza.
«Come mai sei venuto?» domandò Gloria facendogli cenno con la testa di seguirla all'interno del locale.
Il cantante fece spallucce, seguendola.
«Ero nei paraggi.» dichiarò, ma appena mise piede nel locale si trovò faccia a faccia con lei, che lo guardava negli occhi con finta aria di rimprovero, costringendolo a fermarsi all'improvviso per evitare di andarle addosso.
«E anche oggi hai intenzione di scappare via all'improvviso?» Si voltò, poi, afferrando il grembiule rosso appeso all'appendiabiti alla sua destra e allacciandoselo dietro la schiena.
«Hai ragione.»rispose lui prendendo posto di fronte al bancone. «Mi dispiace per ieri, ma ero davvero a pezzi.»
Lei inarcò le sopracciglia senza mai rivolgere lo sguardo verso di lui.
«Sì, lo so. Si vedeva.»
«Ma oggi sto già molto meglio, non me ne andrò via... così.»
Gloria sorrise bonariamente, dicendo: «Guarda che stavo scherzando, non devi darmi spiegazioni.»
Una volta arrivata dietro il bancone si strinse nelle spalle.
«Comunque, mi fa piacere sapere che stai meglio.»
Billie Joe Armstrong si sentiva bene davvero, e si sentiva bene anche nonostante sapesse che l'essere lì in quel momento fosse sbagliato. Quegli ultimi giorni erano stati un inferno, per non parlare della giornata precedente, ma sembrava aver messo finalmente chiarezza tra i suoi pensieri. Sapeva che se si trovava lì in quel bar, in compagnia di quella ragazza, era perché era stato lui stesso a volerlo: voleva rivedere Gloria e quindi era andato da lei. Niente dubbi, niente attimi di confusione, niente perché. Solo la voglia di passare qualche istante con lei, parlarle, conoscerla un po’.
«Ho una cosa per te.» annunciò all'improvviso sollevando il sacchetto di cellophane che teneva nella mano destra.
«Ah, sì?» Gloria guardò confusa la busta che le stava porgendo: era di media grandezza e aveva stampata sul fronte l'immagine di un compact disc colorato.
«Sono capitato per caso in un negozio di musica, e visto che ti chiami Gloria...» le spiegò stringendosi nelle spalle,sorridendo per l'ennesima volta di quella singolare coincidenza. «Ho pensato di regalarti il cd.»
Era capitato per caso, mentre passeggiava in direzione del locale dopo aver parcheggiato l’auto in un box a pagamento. Stava percorrendo la via ampia e trafficata che si snodava parallelamente di fronte all’ospedale quando aveva visto un giovane ragazzo sollevare la saracinesca di un negozio che recava sull’insegna la scritta “Tutta un’altra musica”. Nella piccola vetrina che dava sull’esterno erano disposti una serie di biografie degli artisti più famosi, da John Lennon a Kurt Cobain, e diversi album appena usciti, tra i quali aveva individuato immediatamente 21st century breakdown. Era stato così che aveva avuto l’impulso di entrare e comprarle il disco, ed è inutile tentare di spiegare l’espressione che aveva assunto il giovane commesso nel notare che, nel suo negozio, Billie Joe Armstrong stava acquistando una copia del suo album.
«Avanti, prendilo. È tuo.» La sollecitò poi con un sorriso amichevole, vedendola esitante.
Dal canto suo, Gloria era completamente spiazzata.
«Ehm... grazie, non dovevi... » mormorò timidamente prendendo il sacchetto dalle sue mani senza mai alzare lo sguardo, troppo imbarazzata per riuscire a guardarlo negli occhi. Con dita incerte liberò il cd dal cellophane, osservando la copertina di 21st century breakdown.
«Immagino che questa sia Gloria...» azzardò indicando al cantante la ragazza disegnata sul davanti a mo' di graffito.
Questi annuì.
«E quest'altro invece...»
Il suo sguardo si spostò sull'altro ragazzo in copertina.
«È Christian.»
«Christian e Gloria.» ripeté lei continuando a fissare la custodia. «Mi piace come suonano insieme.»
Dopo alcuni istanti di silenzio alzò finalmente lo sguardo.
«Grazie mille.» ripeté sorridendo per quella piacevole sorpresa inaspettata. «Appena torno a casa lo ascolto.»
Nell'ora e mezza in cui Billie Joe Amrstrong si trattenne al Pit’s Cafè, lui e Gloria ebbero modo di parlare dei più svariati argomenti. Erano partiti discorrendo del caldo bestiale che stava inondando la città, e nel giro di pochi minuti lui era venuto a sapere che Gloria viveva da sola con la sorella maggiore da quando aveva sette anni, che lavorava al bar da quando ne aveva sedici, e che si era diplomata al liceo da poco meno di un mese, mentre a lei aveva raccontato degli ultimi mesi in sala di registrazione, di quanto fosse stato stressante il tour di American Idiot, ma anche delle emozioni indescrivibili che aveva provato ogni volta che era salito sul palco. Lei gli aveva parlato della sua decisione di non frequentare il college; lui le aveva esposto tutte le sue idee in riguardo alla politica americana, e si era accorto con una certa sorpresa che spesso lei era d'accordo con quanto diceva. L'abisso di differenze che c'era tra di loro sembrava essere svanito. Non erano più una comunissima barista diciannovenne che lavora per non pesare in casa e un cantante trentasettenne di fama mondiale, ricco sfondato. Erano solo Gloria e Billie Joe. Due persone qualsiasi che discorrevano e si scambiavano opinioni. Non c'era più il minimo imbarazzo, tra loro, e persino Gloria era riuscita a mettere da parte quella sottile soggezione che aveva provato inizialmente.
Nel lasso di tempo in cui avevano avuto modo di conoscersi erano stati interrotti soltanto un paio di volte, e precisamente da due simpatiche anziane che dopo aver preso caffè e brioches per la colazione se ne erano andate senza riconoscere il cantante.
Billie Joe le raccontò della brutta piega che stavano prendendo quelle vacanze e, mentre lei gli offriva il caffè, le parlò di tutto quello che era riuscito ad accadere nel giro di un paio di settimane, a partire dal polso ingessato del suo batterista, per poi arrivare alla posticipazione del tour e, ciliegina sulla torta, alla litigata con Mike per il mancato appuntamento della sera prima.
La ragazza rise di gusto, ascoltando interessata il discorso del suo, ormai, quasi amico.
«E così alla fine gli hai dato buca.» concluse al suo posto, sorridendogli da dietro il bancone.
«Te l'ho detto: stavo poco bene.» fu la giustificazione di lui, che le sorrise di rimando portandosi una mano al cuore come a volerle giurare di aver detto la verità.
«Però rimane il fatto che hai qualcosa da farti perdonare, adesso.»
«Naaa.» Si strinse nelle spalle. «Ho avuto cose ben peggiori da farmi perdonare, in tutti questi anni. Non può essersi veramente arrabbiato, Gloria, dai retta a me.» proferì sicuro di quelle parole.
«Beh, ovviamente: è un po’ difficile che qualcuno si incazzi sul serio per una stronzata del genere, però l'hai detto tu stesso che, dopo tutto quel che è successo ultimamente, anche solo uno starnuto basterebbe a fargli perdere la pazienza. Non so quanto ti conviene tirare troppo la corda...»
«Gli passerà.»  
Lei incrociò le braccia al petto, arricciando le labbra in un’espressione pensierosa. 
«Sai, se fossi al tuo posto cercherei di prenderlo per la gola.» annunciò pochi secondi di silenzio, e sorrise.
«Prova a portagli la colazione.»
Billie Joe aggrottò la fronte, non proprio sicuro di aver capito bene.
«La colazione?»
«Sì, a lui e al vostro amico. Hai detto che si chiama Trè, se non sbaglio, giusto?»
Lui fece segno di sì con la testa, esortandola ad andare avanti.
«Ecco, da quel che mi hai raccontato, quei due devono aver fatto le ore piccole, stanotte, ed è probabile che a quest’ora stiano ancora dormendo, perciò se ti presenti da loro con qualcosa di buono da mettere sotto i denti... dubito che continueranno a tenerti il muso.»gli spiegò stringendosi nelle spalle.
«Che ne pensi, ti piace come idea? E’ una cosa che ho imparato da mia sorella: quello di prepararmi la colazione è il suo modo per farsi perdonare quando litighiamo.» Sorvolò sul fatto che sua sorella fosse una cuoca di professione e che le colazioni preparate da lei comprendessero ben altro che ciambelle e cornetti.
Billie Joe Armstrong poggiò il gomito sinistro sul bancone e si prese il mento tra due dita, valutando la proposta della ragazza.
«Non è affatto una cattiva idea, ora che mi ci fai pensare.» concluse dopo aver brevemente valutato quella proposta. «E c’è una cosa importante che tu non sai: basta mettere una ciambella sotto il naso di Mike, che subito si dimentica di ogni altra cosa.» le rivelò poi agitando enfaticamente il polso, con la mano chiusa a pugno e il solo dito indice steso.
Lei ricambiò amichevole il sorriso.
«Un po’ come Homer Simpson
«Sì, una specie.» rispose lui, e nel dirlo soffocò una risata divertita.
Incredibile come quella ragazza riuscisse a farlo ridere anche delle piccole cose. Aveva qualcosa, dentro di sé, che lo attirava allo stesso modo in cui il miele attira le api. Il modo in cui strizzava gli occhi quando rideva, il modo in cui di tanto in tanto serrava involontariamente le labbra in un'espressione tenera ma allo stesso tempo sbarazzina, la sua stessa risata coinvolgente rendevano evidente, agli occhi di Billie Joe Armstrong, la semplicità unica di quella ragazza. Rimase a guardarla con la testa poggiata sulla mano mentre metteva in un sacchetto delle ciambelle zuccherate con tanto di tovagliolini e riempiva di cappuccino i bicchieri di carta. Anche il modo in cui si muoveva era semplice, senza fretta. Si vedeva che quel lavoro le piaceva.
Poco prima gli aveva raccontato di quanto fosse stanca quando tornava la sera a casa, ma anche di quanto le piacesse essere così a contatto con la gente. Gli aveva parlato di Rita e Peter, i simpatici proprietari del locale, amici di vecchia data di sua sorella, che le avevano offerto il posto di lavoro pur non avendo davvero bisogno di aiuto in più, semplicemente per fare un favore alla loro amica, dacché avevano saputo che la ragazza stava cercando un lavoretto per poter mettere da parte qualcosa e avere un po’ d’autonomia, qualcosa di semplice, che non la tenesse occupata troppo tempo e che non le sottraesse il tempo necessario allo studio.  Aveva iniziato lavorando solo un paio di pomeriggi a settimana e nei week-end, per poi passare a turni completi durante le vacanze natalizie e i periodi estivi quando, libera dagli impegni scolastici, poteva permettersi di trascorrere interamente le sue giornate al caffè. Durante l’ultimo anno, poi, Rita e Peter le avevano concesso più volte di occuparsi del locale autonomamente, senza che ci fosse necessariamente almeno uno dei due a controllare la situazione. Sapevano di potersi fidare di lei; le avevano dato una copia delle chiavi e il permesso di aprire e presiedere da sola il locale alla mattina, e anche se questo voleva dire doversi svegliare presto, Gloria non si lasciava scappare nemmeno un’occasione. Rimanere al locale da sola significava ricevere degli extra sul suo stipendio, e aveva capito ormai che, se i suoi datori di lavoro le affidavano il locale così spesso, non era più solo per fare un favore a lei o a sua sorella, ma anche perché in questo modo avrebbero avuto più tempo da dedicare a loro stessi e ad altri progetti, senza la frenesia di dover essere di turno al caffè in qualsiasi momento della giornata.
Gloria poggiò sul bancone la busta di plastica che conteneva i cappuccini e le ciambelle.
«Ecco qui...»
Lui afferrò il sacchetto e si alzò dallo sgabello sul quale era seduto, infilando una mano nella tasca dei jeans per tirare fuori il portafoglio.
«Stai fermo con quella mano.» lo ammonì scherzosamente.
Il cantante aggrottò la fronte senza capire ed estrasse il portafoglio, facendo per aprirlo.
«Billie, non pensarci nemmeno. Oggi offro io.» proseguì con voce decisa per poi aggiungere sorridendo: «Anche perché non immagini quanto tu mi abbia lasciato ieri nella fretta di andartene.»
Lui le sorrise di rimando.
«Grazie di tutto.»
«Grazie a te, anche per il cd. Sei stato gentilissimo. E, ovviamente, grazie per la chiacchierata.»
Già, la chiacchierata. Billie Joe sarebbe rimasto in quel bar a parlare con lei per tutto il giorno. Erano tantissime le cose che avrebbe ancora voluto conoscere di quella ragazza, ma sapeva adesso che ogni volta che avesse avuto voglia di vederla, avrebbe potuto trovarla lì, dietro il granito lucido di quel bancone che faceva da barriera tra i loro universi opposti, quello brillante e frenetico di una rockstar ricca e famosa, e quello più semplice e tranquillo di una ragazzina che passava gran parte delle sue giornate sul posto di lavoro.
«Mi ha fatto piacere parlare con te. Sei carina, tu.»
Anche Gloria sorrise, un sorriso sincero, senza malizia.
«È ora che vada, altrimenti andrà a finire che li trovo tutti e due già a tavola a pranzare. Semmai ci sentiamo, ok?»
Lei annuì silenziosamente, i numeri di telefono se li erano scambiati pochi minuti prima su suggerimento del cantante. Nonostante la confidenza che avevano assunto ognuno nei confronti dell’altro durante quella conversazione, lei non avrebbe mai osato domandare il numero di telefono a Billie Joe Armstrong.
«Ciao, Gloria.» Si sporse sul bancone e si salutarono da amici, con un bacio sulla guancia. La pelle della ragazza era morbida e liscia, e aveva un delicato profumo di vaniglia.
Lei lo guardò negli occhi e sorrise.
«A presto.»
Billie Joe Armstrong si voltò allora verso l'uscita, e nello stesso momento in cui stava per mettere piede fuori dal locale, una donna altissima sui quarantacinque, con lunghi capelli ramati e un paio di occhiali da sole sul naso, si fermò sulla porta del locale, rischiando di andargli a sbattere addosso.
«Salve.» disse lui sorridendo con nonchalance, facendosi di lato per lasciarla entrare per poi allontanarsi da quei momenti di magica semplicità che avevano riempito così piacevolmente le prime ore di quella mattina. La donna dai capelli ramati rimase per qualche istante ferma sulla porta a fissare con aria perplessa quell'uomo che l'aveva appena salutata.
«Rita... qualcosa non va?»
Questa si voltò verso la ragazza, sollevando gli occhiali da sole e fermandoli sulla nuca.
«Hai notato anche tu che quel signore che è appena uscito assomigliava in maniera pazzesca al cantante dei Green Day?»
Gloria si strinse nelle spalle e sporse all'infuori il labbro inferiore in una tipica espressione di finta innocenza.
«Ma dai...» e così dicendo si voltò appena in tempo per nascondere all'amica il sorriso divertito che le stava nascendo sulle labbra.

[Continua]

Capitolo revisionato il 26-02-12

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Capitolo 10
*** Adrenalina che non esplode e stanchezza che rimane ***


 Adrenalina che non esplode e stanchezza che rimane

 
Quando Mike andò ad aprire la porta aveva ancora gli occhi lucidi e iniettati di sangue, i capelli erano tutti arruffati e sulla canottiera bianca che indossava era ben evidente una macchia rossastra all’altezza del petto, probabilmente la traccia di qualche alcolico che si era rovesciato addosso.
«Hai un aspetto orribile.» proferì Billie Joe Armstrong notando immediatamente le condizioni in cui si trovava il suo amico.
«Poco male. Tu è una vita che hai un aspetto orribile.»
«Spero almeno che ne sia valsa la pena. Passato una bella serata?»
«Ottima. Avresti dovuto esserci.»
Billie Joe alzò gli occhi al cielo. Ci sarebbe voluto ben altro che un paio di ciambelle e un cappuccino per fargli passare l’arrabbiatura. Certo, Mike era il suo migliore amico, eppure non aveva mai incontrato in vita sua qualcuno che fosse più permaloso di lui, mai.
«La vuoi piantare di tenermi il muso?»
«Io ti starei tenendo il muso?»
«Oh no, hai ragione, scusa: non avevo notato quel sorriso enorme che hai fatto appena mi hai visto.»
Il tono del frontman dei Green Day si era fatto sarcastico, e Mike non esitò a farglielo notare.
«Piantala tu, sei ridicolo.»
«Tu sei ridicolo.» ringhiò Billie Joe contro il suo migliore amico. «Lo so che pensi che sono incoerente, ma se è vero che arrabbiarsi e abbattersi non serve a niente, è pur vero che niente e nessuno ci impedisce di farlo, se questo ci fa sentire meglio. L’hai fatto tu e l’ho fatto anch’io. Quando è successo a te, però, ti ho fatto la paternale perché tu, l’altra mattina, stavi dando spettacolo davanti a tutti, cosa non molto carina se pensi che chiunque sa chi siamo, io invece mi sono chiuso in casa a farmi i cazzi miei e non ho rotto le palle a nessuno. Ti sta bene, come spiegazione?»
Il bassista rimase in silenzio, cacciando fuori un sospiro. Non aveva minimamente pensato a tutto questo, aveva dato per scontato che le parole di Billie, quella mattina, fossero state di semplice ammonimento, una sorta di terapia d’urto per far sì che non si gettasse nella rabbia e nello sconforto, senza fermarsi a riflettere che se il suo amico lo aveva rimproverato in quel modo, lo aveva fatto nel solo tentativo di calmarlo, di evitargli di dare di matto in quella maniera davanti a così tanta gente, senza pensare che quella stessa rabbia, quello stesso smarrimento, Billie Joe Armstrong lo stava provando anch’egli, proprio come lui.
«Vuoi entrare?» domandò Mike dopo alcuni secondi, alzando lo sguardo verso il suo amico in segno di resa.
«Magari.» rispose questo accennando un sorriso mentre l’altro si faceva da parte per farlo passare.
«Cos’è quel sacchetto?»
«Questo?» Billie Joe sollevò il braccio. «E’ solo... la colazione.»
Mike corrugò la fronte.
«Cappuccino, cornetti e, soprattutto, ciambelle.» gli spiegò. «Per iniziare bene la giornata, no?» e così dicendo sorrise, alludendo alla vera e propria passione del suo amico per le ciambelle che, sapeva, erano gli unici dolci a cui non riusciva proprio a resistere.
Il bassista soffocò una risata.
«Stai diventando pericoloso, amico, conosci troppe cose di me.» ammise poi, arrendendosi davanti all’evidenza: non poteva tenere il muso a quel nano.
«Cavolo, quanta gente avete chiamato ieri sera?» domandò improvvisamente il vocalist mentre tirava fuori i cappuccini e le ciambelle dalla busta, avendo notato solo in quel momento il numero spropositato di bottiglie di alcolici ammassate sul tavolo e, in parte, sul pavimento e sul divano del soggiorno.
«Mah, solo un paio di amiche...» rispose Mike con tono vago, portandosi una mano tra i capelli. «che hanno chiamato altre amiche...»
«Vedo... » mormorò Billie Joe con una lieve nota di divertimento nella voce e un sorriso malizioso stampato sulle labbra mentre tirava via un reggiseno di pizzo nero rimasto impigliato allo schienale della sedia accanto a quella dove era seduto. «Scommetto anche che Frank abbia insistito per riaccompagnarle a casa.»
Le pupille di Mike si mossero rapidamente, disegnando un cerchio. 
«Veramente no, non proprio.» rispose mentre si mordicchiava la parete interna di una guancia, e così dicendo invitò il suo amico, con un cenno del capo, a seguirlo fin in fondo al corridoio, dove si fermò davanti a una porta che Billie Joe sapeva essere quella del bagno.
«Il bagno di casa Pritchard è lieto di presentarle l’episodio più umiliante della vita di Trè Cool.» annunciò platealmente un attimo prima di abbassare la maniglia, ricevendo come risposta uno sguardo interrogativo da parte del suo amico. Entrando nella stanza, le narici del chitarrista furono immediatamente colpite dal pungente odore che saturava l’aria: un’accozzaglia di fumo, alcol e feromoni. Billie Joe Armstrong arricciò il naso.
«Ma che diavolo...»
Sussultò notando diverse bottiglie di alcolici sul pavimento, alcune delle quali, non completamente vuote, avevano riversato a terra il loro contenuto. Tutto ciò, però, fu niente in confronto a quello che notò immediatamente dopo. Alla sua destra, infatti, semiseduto all’interno della gigantesca vasca da bagno bianca, con la testa reclinata all’indietro e una striscia di saliva che gli colava dalla bocca spalancata, Frank Edwin Wright III dormiva beatamente, russando come un maiale. La camicia rossa era aperta e stropicciata, e lasciava una visuale completa del petto e della pancia, decisamente lievitata negli ultimi anni. Non indossava i pantaloni, ma semplicemente un paio di boxer talmente colorati che avrebbero fatto inorridire persino Arlecchino.
«Incredibile: quest’uomo non ha più un briciolo di dignità.»
«E quando mai ne ha avuta?»
Il vocalist sorrise divertito, mentre automaticamente si facevano largo nei suoi pensieri tutta una serie di ricordi. Quando era giovane era capitato anche a lui, e diverse volte, di ritrovarsi completamente fatto, ubriaco come una spugna e praticamente nudo all’interno di una vasca da bagno, eppure erano anni che non assisteva più a una scena del genere, più o meno da quando aveva incontrato Adrienne, l’aveva sposata ed era diventato padre di Joey e Jakob. Da quando aveva messo la testa a posto, in sostanza.
Si avvicinò ulteriormente alla vasca e vi si piegò davanti, sulle ginocchia.
«Da quant’è che sta qui dentro?»
Mike si prese il mento tra due dita.
«Beh, considerando che quando, verso le sei e mezza, le ragazze se ne sono andate lui era già lì che dormiva, direi parecchio.»
«Così tanto?» Billie Joe sgranò gli occhi.
Com’era possibile -si chiese- che riuscisse a stare così tanto tempo a dormire dentro una vasca da bagno? Ricordava una delle volte in cui era successo a lui: si era svegliato dopo nemmeno due ore con un terribile torcicollo e un gran mal di schiena.
Mike si strinse nelle spalle, alzando il mento in direzione dell’amico dormiglione.
Il messaggio era chiaro: «È Trè Cool, amico, riuscirebbe a dormire anche in piedi e con qualcuno che gli suona la batteria nelle orecchie.»
Ricordandosi poi del cappuccino e delle ciambelle che lo attendevano ancora sul tavolo del soggiorno, propose a Billie Joe di tornare nel salotto.
«E Frank?»
Mike lanciò un’occhiata distratta in direzione del batterista.
«Lasciamolo lì, prima o poi si sveglierà.»
I cappuccini non si erano ancora freddati, notò Billie Joe mentre inghiottiva il liquido cremoso e amarognolo. Diede un morso a un cornetto e afferrò una delle bottiglie ammassate a un angolo del tavolo, rigirandosela tra le mani.
«E insomma, a quanto pare vi siete dati alla pazza gioia.»
Mike si strinse nelle spalle e scosse la testa, mandando giù un boccone della sua ciambella.
«Forse Frank.» minimizzò. «Io ho solo bevuto un goccetto e fumato un paio di canne.»
Billie Joe corrugò la fronte. I termini “un goccetto” e “un paio” non facevano parte del vocabolario dei Green Day.
«Mike, c’è un numero spropositato di bottiglie vuote, c’è un reggiseno di pizzo e c’è Frank, di là, che sta dormendo mezzo nudo nella vasca da bagno.» gli fece presente tenendo il conto con le dita, per poi aggiungere sorridendo: «In tutto questo tu hai il coraggio dirmi che hai soltanto bevuto un goccetto e fumato un paio di canne? Dimmela tutta.»
Il bassista alzò gli occhi al cielo, sbuffando.
«Forse non ho bevuto solo un goccetto.» ammise. «Però se stai alludendo a qualcos’altro, sappi che non ho messo le corna a Brittney.»
Si sentì incredibilmente orgoglioso di sé stesso, mentre pronunciò quelle parole, ripensando al modo in cui aveva trascorso la serata nel momento in cui il suo amico si era chiuso in bagno con le ragazze. Ce ne era una, tra quelle,che non aveva seguito Frank e le altre, ed era rimasta tutto il tempo lì con lui sul divano, a bere e chiacchierare come due vecchi amici. Aveva venticinque anni e la pelle scura, i suoi genitori erano emigrati dall’America Latina più di trent’anni prima. Era una ragazza sveglia, Mike se ne era accorto subito. Lavorava part-time come commessa in un supermercato e nei finesettimana arrotondava con gli strip-tease per potersi permettere la retta del college, ma nonostante questo non aveva mai permesso a nessuno dei suoi clienti di allungare troppo le mani o di portarsela a letto. Rimaneva in bilico sul sottile filo che divide la necessità di denaro dallo squallore vero e proprio, senza mai arrivare a oltrepassarlo. Quella che aveva avuto con quella ragazza era stata forse la conversazione più interessante che avesse avuto da una decina di anni a quella parte.
Billie Joe sollevò le mani in segno di resa e accennò un sorriso prendendo un altro sorso del suo cappuccino. Era contento di constatare che anche il suo amico aveva messo la testa a posto, che non commetteva stronzate che avrebbero potuto compromettere anche la storia con Brittney.
«Sai che è proprio buona?» domandò improvvisamente Mike dopo diversi secondi di silenzio in cui era riuscito a farsi fuori l’intera ciambella. «Dove le hai prese?»
«In un bar che ho scoperto per caso.» rispose l’altro senza aggiungere ulteriori particolari. «Mi sono svegliato presto e visto che non riuscivo più a prendere sonno, sono andato a fare un giro, poi ho visto le ciambelle...»
«Stai diventando uno di quegli sfigati che si svegliano alle sei di mattina anche d’estate?»
Billie Joe soffocò una risata.
«No, no. Non c’è pericolo. È stato solo un caso.»
Mike prese un ultimo sorso del suo cappuccino e approfittò di quell’attimo di confidenza per porgere al suo amico una domanda che gli premeva sulla bocca dello stomaco da quando gli aveva fatto quel discorso pochi minuti prima, non appena lui aveva aperto la porta di casa.
«Billie, tu stai bene?»
Il frontman dei Green Day rimase con il bicchiere attaccato alle labbra, torturandone il bordo con i denti.
«Perché me lo chiedi?»
«Perché dal modo in cui hai reagito a tutta questa storia sembrava che tu l’avessi presa bene, sicuramente meglio di noi.» spiegò tenendo fisso lo sguardo su di lui. «Poi all’improvviso ti chiudi in casa e ti rifiuti di uscire, vieni qui a farmi l’ennesima paternale, e io scopro che in realtà tu non l’hai presa bene affatto.»
Billie Joe staccò il bicchiere ormai vuoto dalle labbra, rigirandoselo tra le mani senza mai distogliere lo sguardo dalle sue dita.
«È stato strano.» ammise con voce mesta, corrugando la fronte. «Era tutto pronto, dovevamo solo partire.»
«Questo lo so.»
Il chitarrista alzò lo sguardo dal bicchiere e lo rivolse al suo amico, accennando un sorriso lieve.
«Se è per questo, tu sai anche quanto io abbia bisogno dei nostri fan, del nostro pubblico.»
L’altro annuì senza interromperlo.
«Sono la mia valvola di sfogo, lo sai: la stanchezza diventa adrenalina prima di ogni concerto, e poi cresce, cresce, cresce, fino a che non ti trovi catapultato sul palco, di fronte a loro. Quella è la vera apoteosi: in quei momenti mi sembra di non capire più niente, è come se non ragionassi più, mi sento come sul punto di esplodere. È una sensazione così grande che credo che nessun tipo di droga, per quanto potente, possa riuscire minimamente a equipararla. Forse è il caso di dire che è proprio questa, la droga più potente, capisci? Proprio come una droga, l’effetto che ti dà e fantastico finché sei lì a goderti il momento,  e anche quando finisce, nei momenti immediatamente successivi. Poi però la stanchezza torna, e anche tanto forte. Te ne accorgi quando ti infili a letto e poggi la testa sul cuscino.»
Mike incurvò gli angoli delle labbra verso l’alto.
«È  vero.»
«È vero...» ripeté Billie Joe. «Però quando poi ti alzi, il giorno dopo, e devi preparare la scaletta per un nuovo concerto, la stanchezza diventa adrenalina un’altra volta.»
«È un circolo vizioso.»
L’altro annuì.
«Proprio quello.» abbassò lo sguardo cacciando fuori un sospiro silenzioso. «Penso che la mia reazione sia stata dovuta al fatto che io ero già carico di adrenalina da mesi, per questo tour, e vedermelo annullare così all’improvviso è stata una gran bella botta.»
Il suo sguardo tornò a Mike.
«Il meccanismo si è inceppato di colpo: l’adrenalina mi è rimasta tutta dentro e, anzi, piuttosto che esplodere come nei concerti, è diventata di nuovo stanchezza... e a questo punto credo che sia stata questa, ad esplodermi dentro. Mi ha buttato giù.»
«Capisco.» annunciò il bassista accennando un sorriso comprensivo.
Ora che gli aveva chiarito ogni cosa, poteva capire davvero la reazione che aveva avuto il suo amico. Lui stesso non aveva preso bene quello che era successo, ma era contento di notare che tutto ciò non aveva compromesso quanto di più importante ci fosse in gioco, la loro amicizia. Il tour era stato annullato, ma loro, i Green Day, erano ancora lì, ancora insieme, ancora con la voglia di affrontare i problemi, di sopportarsi, di aiutarsi. E se anche avessero dovuto aspettare l’eternità prima di tornare ad esibirsi dal vivo, l’avrebbero sicuramente fatto, ma una cosa era certa: niente e nessuno avrebbe mai potuto rompere l’amicizia che li legava.
«Certo, avere la casa vuota, poi, non è che aiuti molto a distrarsi...» confidò Billie Joe dopo alcuni istanti di silenzio.
«Perché non ti trasferisci qui anche tu? Mi sembra inutile dirtelo, dovresti saperlo da te che non ci sarebbe nessun problema, anzi.»
Billie Joe scosse la testa.
«Lo so che non ci sarebbero problemi -e infatti puoi stare certo che verrò molto spesso a trovarvi- però preferisco restare a casa mia.»
L’espressione di Mike si fece vagamente perplessa.
«Sto bene, adesso.» mise in chiaro l’altro in risposta a ciò che il suo amico aveva solo pensato. «Sto bene davvero, non preoccuparti. La stanchezza che avevo... l’ho sfogata tutta ieri sera. Puoi stare tranquillo.»
Mike annuì un po’ più convinto.
Billie Joe gli sorrise amichevolmente, abbassando lo sguardo sull’orologio che aveva al polso. Gli tornò in mente solo in quel momento che il loro amico era ancora nella vasca da bagno a dormire.
«Che dici, andiamo a svegliare Frank?»
Mike storse la bocca in un espressine pensierosa, fissando il soffitto bianco. Ripensò all’immagine del suo amico nella vasca da bagno con quei tremendi boxer colorati e la saliva che gli colava lungo il mento.
«Mah, naaa
Entrambi scoppiarono a ridere di cuore.
 
[Continua

Capitolo revisionato il 04-03-12

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Capitolo 11
*** Ragazza saggia ***


Ragazza saggia


Alle otto e mezza di sera, quando Gloria arrivò finalmente davanti alla porta di casa aveva il viso arrossato e i capelli fermati alla bell’e meglio sulla nuca da un fermaglio decisamente troppo piccolo per raccoglierli tutti.
Mentre frugava nella borsa alla ricerca delle chiavi si appoggiò di peso contro la porta. Scansò occhiali da sole, portafogli, cellulare, il cd che le aveva regalato Billie Joe Armstrong quella mattina e un lucidalabbra, e mentre imprecava a bassa voce continuando a rovistare al suo interno, convinta di averle veramente infilate lì dentro quando era uscita di casa, la porta le si aprì improvvisamente dietro le spalle, facendola quasi cadere all’indietro.
«Cercavi queste?»
Un ragazzo alto e dai capelli scuri, con un sorriso divertito stampato sulle labbra, le sventolava davanti al naso un mazzo di chiavi da cui pendeva un orsacchiotto di peluche che aveva indosso una magliettina da cui si leggeva il nome di Gloria.
«Ma sei idiota? Stavo per finire a terra.» ringhiò lei strappando il portachiavi dalle mani dell’altro per poi infilarselo in borsa con gesto rapido.
«Qualcuno è di cattivo umore, stasera, o sbaglio?»
Gloria sollevò lo sguardo dalla borsa, fulminandolo con un’occhiataccia. La sua risposta fu un grugnito che risultò totalmente incomprensibile alle orecchie del giovane uomo.
«Ok, non dire altro. Sei stata anche troppo eloquente.» parlò lui richiudendo la porta di casa, non proprio sicuro che Gloria l’avesse ascoltato. E infatti, nel frattempo aveva gettato a terra la borsa e si era sdraiata scompostamente sul divano, a pancia in sotto, con un braccio lasciato penzoloni per poter sfiorare le mattonelle fresche del pavimento con la mano.
«Josh, sono distrutta.» mugugnò Gloria con la voce resa ovattata dal cuscino sul quale teneva premuta la faccia.
Lui sorrise, questa volta senza malizia, accomodandosi sulla poltrona di fronte al divano.
«Giornata pesante?»
«No. Giornata massacrante.» lo corresse voltando la testa di lato, verso di lui. «Ho temuto di entrare in menopausa da stress... a diciannove anni!» lagnò tirandosi su, ma rimanendo seduta tra i cuscini.
Josh soffocò una risata.
«E che sarà mai successo per ridurti così?»
Gloria scattò in piedi come se fosse appena stata morsa da una vipera.
«Ah, mi chiedi cos’è successo?» ribatté alzando il tono di voce, mentre iniziava a gesticolare animatamente. «Vuoi sapere che è successo?»
Il ragazzo si mise più comodo sulla poltrona senza dire nulla, sapeva benissimo che Gloria, da lui, non stava aspettando alcuna risposta.
«Te lo dico, se proprio lo vuoi sapere.»
Josh non riuscì a trattenere un sorriso. Aveva imparato bene, ormai, che Gloria, quando era nervosa, si comportava sempre così: prima partiva con una serie di domande retoriche a cui non ci si doveva nemmeno azzardare a rispondere, la voce le si alzava di venti decibel rispetto al solito, e poi via, il racconto dettagliato di ciò che le aveva causato quella nevrosi in piena regola.
«Peter non si sentiva bene, oggi, quindi non ho avuto un attimo di pace, perché per tutto il giorno siamo state al locale solo io e Rita.» iniziò a raccontare segnando uno con il pollice.
«All’ora di pranzo il condizionatore ci ha abbandonate. Abbiamo chiamato la società che fa le riparazioni, ma non potranno mandarci un tecnico prima di lunedì. Un signore anziano che abita vicino al bar  ci ha prestato un ventilatore.»
Arricciò le labbra fissando intensamente Josh.
«Sei mai stato nel deserto del Sahara?»
Questo corrugò la fronte e rispose negativamente, con voce incerta.
«Ecco, se mai ti verrà la curiosità di andarci puoi risparmiare sul viaggio: mettiti davanti a quel coso e ti assicuro che vedrai i cammelli pascolarti davanti.»
Josh dovette usare tutto il suo autocontrollo per non ridere. Si schiarì la voce e puntellò un gomito sul bracciolo della poltrona per poi poggiare le labbra sulla mano, nel tentativo di nasconderle almeno il sorriso divertito che aveva sulle labbra.
«Nel pomeriggio è arrivata una coppia di fidanzati. Tu mi dirai: “cosa c’è di strano?” Assolutamente nulla, se non fosse stato per il fatto che i due non erano fidanzati: erano amanti. La moglie di lui è entrata nel locale come una furia, gli ha dato una sberla micidiale e ha iniziato a urlargli contro una miriade di insulti. Poi, ovviamente, ha preso l’altra per i capelli.»
Questa volta Josh non riuscì a trattenere la risata, che fuoriuscì spontaneamente dalle sue labbra un po’ per il modo in cui stava immaginando la scena, e un po’ perché vedeva Gloria decisamente infervorata per ciò che stava raccontando.
«È stata una scena memorabile. Me la sarei sicuramente goduta come al cinema, se fosse successo in un momento diverso, ma ero stanca morta e avevo caldo. Ce ne è voluto di tempo, prima di riuscire a dividerle. Rita stava per chiamare la polizia.»
Il viso le era diventato tutto rosso, e Josh non poté fare a meno di pensare a quanto fosse buffa in quelle condizioni.
«Per farla breve, comunque, alle sette e mezza ho finito il turno e sono andata in fermata. Vuoi sapere che è successo?»
Lui si strinse nelle spalle incurvando le sopracciglia.
«Troppo facile.»
«Appunto: non passava l’autobus!»
Si buttò di nuovo sul divano, esausta.
«Che giornataccia.» concluse sconsolata, riportando la voce alla sua solita tonalità.
«Capita...» commentò Josh con voce comprensiva.
Lei si strinse nelle spalle e gettò la testa all’indietro, continuando a fissare il ragazzo con la coda dell’occhio.
«Perché sei vestito così?» gli domandò improvvisamente notando solo allora che il suo abbigliamento non era esattamente del genere che era solito indossare. Egli infatti aveva dei pantaloni neri gessati e una camicia color lavanda. Appoggiata al bracciolo della poltrona, poi, vi era una giacca, gessata anch’essa, che sembrava far parte di un completo assieme ai pantaloni.
«Vai a un matrimonio?»
Lui inarcò le sopracciglia, facendo segno di no con la testa.
«Sei appena tornato da un matrimonio.» tirò a indovinare nuovamente.
Ancora una volta lui scosse la testa in segno di diniego, al che Gloria si sporse immediatamente in avanti, osservandolo con gli occhi ridotti a due fessure.
«Non starai mica cercando di sposare mia sorella in gran segreto?»
Josh resse il suo sguardo in silenzio per una manciata di secondi, dopodiché scoppio a ridere di gusto.
«Scema.»
Soffocò una risata anch’ella, tornando a mettersi comoda.
«Sul serio, come mai sei così elegante?»
«Perché mi stai facendo il terzo grado?» le chiese fingendosi seccato, ma con un sorriso divertito sulle labbra. «Dove vuoi che vada? Porto tua sorella a cena fuori.» rispose poi, con ovvietà.
Gloria dischiuse le labbra in una “O” quasi perfetta, ricordandosi solo in quel momento di che giornata importante fosse quella.
Josh era il ragazzo di Eva da quattro anni. Si erano conosciuti per caso alla festa dei quarant’anni di Rita, e ognuno dei due era rimasto immediatamente colpito dall’altro: lui girava per la sala scattando fotografie agli invitati, lei sedeva in un angolo con un bicchiere di champagne in mano e chiacchierava sorridendo con una giovanissima ragazza dai capelli biondi. Aveva scattato loro una foto da lontano, e aveva approfittato -pochi istanti dopo- di un momento in cui era rimasta sola per avvicinarsi a lei e chiederle il permesso di scattarle una foto da vicino, con la scusa - totalmente vera, per giunta- di dover fotografare tutti gli invitati presenti  alla festa, come esplicitamente richiesto da Rita. Lei si era messa in posa con il bicchiere di champagne poggiato alle labbra e lo sguardo sorridente, lui aveva sorriso involontariamente mentre sistemava l’inquadratura e si apprestava a scattare. Fu in quell’esatto istante che Eva rimase colpita da lui, e per tutta la durata della festa non accennò mai a staccargli gli occhi di dosso, continuando a cercarlo con lo sguardo tra gli invitati. Dopo la torta lo aveva trovato in terrazza che  ricontrollava alcune fotografie scattate in precedenza. Gli si era avvicinata per domandargli come fossero venute, e fu allora che iniziarono a parlare. Lui le raccontò della sua passione per la fotografia, lei si fece promettere che le avrebbe mostrato alcuni suoi scatti, e in quel modo era riuscita a strappargli un appuntamento per il fine settimana successivo. Da  quando si erano trovati, quella sera di ormai quattro lunghi anni prima, Eva e Josh non si erano più separati.
«Me ne ero dimenticata.» disse tramutando la sua espressione in un sorriso raggiante. «Oggi è il vostro anniversario. Auguri.»
Josh le sorrise di rimando, ringraziandola con un cenno del capo.
«Vuoi venire con noi?»
Gloria scosse la testa in segno di diniego.
«No, non ho voglia di uscire.» rispose con voce stanca. «E poi questa è la vostra serata.»
Apprezzava sinceramente il suo tentativo di coinvolgerla, ma quella sera l’unica cosa di cui aveva voglia era una bella doccia fredda e un po’ di meritato riposo.
Josh si strinse nelle spalle arricciando le labbra in un’espressione piuttosto perplessa.
«Sarà anche la nostra serata, ma se tua sorella non si sbriga va a finire che diventa di nuovo giorno.»
«Come?»
«Aveva detto che doveva solamente vestirsi, ma è da un’ora che è chiusa in camera e non accenna a scendere. Mi ha anche vietato tassativamente di salire da lei.»
«Scenderà presto.» commentò distrattamente Gloria, sbadigliando.
Josh annuì poco convinto, ma dopo alcuni istanti di silenzio le domandò: «mi fai un favore?»
Lei, che aveva chiuso gli occhi per una manciata di secondi, li riaprì invitandolo a parlare con il semplice sguardo.
«Vai a vedere che accidenti sta combinando?»
Lei si voltò verso le scale che l’avrebbero portata al piano di sopra, in camera di sua sorella.
«Dovrei salire le scale?» domandò annoiata, indicandole.
«Puoi arrampicarti sul corrimano, se preferisci.»
Lei alzò gli occhi al cielo mormorando un «che palle» a cui Josh rispose con un sorrisetto sardonico e svogliatamente si tirò su da quel nido di cuscini, morbido e accogliente.

Quando Gloria arrivò al piano superiore udì immediatamente la voce di sua sorella pronunciare una manciata di parole che giunsero alle sue orecchie come una serie di farfuglii insensati e poco comprensibili. Il perché di quel brontolare lo comprese solo quando si affacciò sulla soglia della camera e la vide saettare da una parte all’altra della stanza.
«Non sei un po’ in ritardo per il cambio di stagione?» domandò Gloria con tono divertito, facendo capolino dalla porta.
Eva sbuffò sfilandosi un abitino azzurro cielo decisamente troppo aderente per poi lanciarlo tra gli altri vestiti che erano sparsi alla rinfusa sul letto. Si portò le mani sui fianchi e si voltò verso la sorella con indosso solo la biancheria intima, poi pronunciò quella frase, quelle quattro parole che, almeno una volta nella vita, sono state pronunciate da qualsiasi individuo si sesso femminile che abbia messo piede su questa Terra: «non so cosa mettere.»
Gloria soffocò una risata.
«Hai trent’anni e ancora non riesci a decidere cosa indossare per andare a cena con il tuo uomo?»
Eva sollevò l’indice con aria di scherno.
«Senti, mia cara, avrò anche trent’anni, ma non li dimostro affatto. Quindi ho tutto il diritto di essere indecisa su cosa mettere.» e così dicendo tornò a frugare tra le ante del suo armadio, per poi aggiungere con voce fintamente seria: «e non dire trent’anni con quel tono, come se fossi già vecchia e con i capelli bianchi.»
Lei ridacchiò a bassa voce e si mise a sedere sul letto di sua sorella, scansando un paio di pantaloni scuri, eleganti.
«Volevo solo dire che Josh ti ha vista in tutte le condizioni possibili e immaginabili. Ti ha vista in pigiama, con la febbre, appena svegliata, con quella tuta verde orribile... per non parlare della tua divisa da cuoca. Non penso che farà molto caso a quello che porti, no?»
Con quel po’ d’ironia cercò di tranquillizzare Eva, che minacciava di avere una crisi isterica se non avesse trovato qualcosa di decente da indossare nel giro di un paio di secondi.
«Lo so, però hai visto com’è è elegante, stasera, no? Sicuramente ha organizzato qualcosa in un posto fantastico, e io non posso presentarmi in jeans.»
«E poi voglio essere carina...» pigolò con voce da bambina sedendosi sul letto. Adesso sembrava un’adolescente alle prese con il suo primo appuntamento.
«Solo carina?»
Gloria sorrise e si accomodò accanto a lei, poggiandole affettuosamente una mano sulla spalla.
«Cos’è, hai intenzione di regredire? Tu sei bellissima
L’altra storse le labbra poco convinta.
«Hey, guarda che è la verità. Tu sei stupenda, e Josh è pazzo di te indipendentemente da quello che indossi, è chiaro?»
Eva sorrise scuotendo la testa.
«Come sei saggia, stasera.»
Adorava il rapporto che aveva con Gloria. Era qualcosa di unico, di ancora più intimo di quello che può esserci tra madre e figlia. Quando se ne era andata dalla casa dei suoi, Eva non aveva ancora neanche vent’anni, Gloria ne aveva appena compiuti sette. Era stato difficile, all’inizio, abituarsi a dover crescere da sola una bambina così piccola, ma poi pian piano era riuscita a trovare un equilibrio, a non sentirsi troppo sola in quella casa troppo grande per una ragazza ancora troppo giovane e inesperta per poter crescere una bambina. Aveva trovato un lavoro part-time come commessa in un supermercato, non era certo il lavoro che aveva sempre sognato - aveva vent’anni e il solo titolo di studi delle superiori, sapeva benissimo di non poter aspirare a nulla di migliore - ma le consentiva comunque di pagare le spese, oltre che di arrivare in tempo a scuola per prendere sua sorella all’uscita. Nel nuovo quartiere erano tutti molto affezionati a Eva e Gloria, e nonostante nessuno conoscesse il motivo che poteva aver spinto una ragazza non ancora ventenne a sacrificare tutto -il futuro, i sogni, i progetti-  per ricominciare da capo con una bambina da crescere a suo carico, tutti cercavano di dare loro una mano. Almeno una volta alla settimana, infatti, i vicini, a rotazione, invitavano la piccola a pranzare da loro e si offrivano di darle una mano con i compiti scolastici, lasciando così Eva libera di sistemare la casa o di riposarsi un po’. Era come se, nel giro di poco tempo, Eva e Gloria fossero diventate le figlie adottive dell’intero vicinato. Poi Eva aveva trovato lavoro come cuoca nel ristorante dell’hotel: la paga non era certo un granché migliore di quella che riceveva lavorando al supermercato, e gli stessi orari erano decisamente pesanti, di conseguenza passava a casa molto meno tempo di quanto fosse abituata, ma anche Gloria era cresciuta, e aveva acquisito quel po’ di coscienza di sé che le consentiva di rimanere da sola in casa mentre sua sorella era a lavoro. Da quando poi anche Gloria aveva iniziato a lavorare al bar, lei ed Eva trascorrevano sempre meno tempo insieme, l’una impegnata per ore nella cucina dell’hotel, l’altra divisa tra scuola e lavoro, anche se spesso Gloria rimaneva sveglia fino a tardi aspettando il ritorno della sorella per scambiare quattro chiacchiere con lei. Gloria le raccontava tutto proprio come a un’amica. Le parlava delle prime cotte, di quello che succedeva a scuola, delle bisticciate con i compagni. Non aveva segreti con lei. Il loro legame si era rafforzato negli anni, man mano che l’aveva vista crescere davanti ai suoi occhi.
Gloria soffocò una risata iniziando a frugare a sua volta tra la montagna di panni che aveva affianco.
«Beh, per forza. Siamo solo noi due in questa casa, e se tu hai la parte della sorella scema, qualcuno che abbia un minimo di sale in zucca deve pur esserci, no?»
Tra il mucchio di indumenti sparpagliati sul copriletto individuò una gonna di raso nera a vita alta e una camicetta grigio perla decorata con dei volant che lanciò a sua sorella, la quale osservò dubbiosa i due capi per una manciata di secondi prima di decidersi a provarli.
Mentre tirava su la lampo della gonna e procedeva ad abbottonarsi la camicetta domandò a sua sorella quali fossero i suoi piani per la serata.
«Beh, innanzi tutto credo proprio che mi farò una doccia perché sono in uno stato veramente pietoso...» rispose distrattamente mentre cercava un paio di scarpe adatte alla mise. «Poi... boh... mi cucinerò qualcosa e mi riposerò. Tutto qui, non ho in mente grandi cose.»
La più grande si bloccò con la camicetta ancora aperta sul petto.
«Hey... buona, buona, buona. Ti cucinerai qualcosa?!» chiese retoricamente facendo il segno delle virgolette con le dita.
Gloria la guardò confusa.
«Perché?»
«Perché, sai, vorrei trovare casa integra quando tornerò.» e così dicendo soffocò una risatina tornando ad allacciare i bottoni della camicia.
Lo sguardo della più piccola si fece truce.
«Ah ah ah, molto divertente. Ti ricordo che non è colpa mia se tu sei una cuoca professionista e io non riesco a cucinare neanche una frittata.» si giustificò puntandole contro le scarpe che aveva appena scelto per lei. Si trattava di un paio di sandali neri dal tacco alto e il cinturino decorato da minuscole perline iridescenti.
L’altra finì di vestirsi e infilò ai piedi le calzature per poi osservarsi con occhio critico di fronte allo specchio.
«Che ne dici?»
Gloria arricciò le labbra squadrandola dalla testa ai piedi. La camicetta le metteva in risalto il seno, e la gonna le fasciava morbidamente i fianchi senza accentuarne eccessivamente la rotondità. Il colore, poi, faceva pendant con quello dei suoi occhi.
«No, non va.» concluse scuotendo la testa. «Sei troppo bella.»
Eva sorrise dandosi una passata di rossetto sulle labbra per poi infilarlo nella borsetta. Una volta pronta tornò al piano di sotto seguita dalla sorella.
«Allora sei sicura di voler rimanere a casa da sola?» domandò la bionda un’ultima volta mentre scendeva di corsa le scale.
«Sì, Eva, sì! Vai tranquilla, e io ti prometto che non darò fuoco a nulla e che non tenterò di infilare le dita nella presa della corrente.» rispose Gloria con una punta di ironia nella voce, facendole capire chiaramente di aver nulla di cui preoccuparsi.
«Spiritosa.» Eva sorrise entrando nel salotto e scusandosi con il suo ragazzo per la lunga attesa.
«Finalmente.» fu il primo pensiero di Gloria dopo che sua sorella e Josh furono usciti.
La doccia fredda fece il suo effetto immediatamente, e lei si sentì subito più fresca e rilassata. L’acqua le era scivolata sulla pelle come cubetti di ghiaccio, portando via con sé le scorie di quella giornata così tanto pesante. Indossò un paio di calzoncini e un reggiseno, e lasciò che i capelli ancora umidi le solleticassero la schiena nuda come tante dita sottili. In cucina non perse nemmeno tempo a prepararsi qualcosa: nel frigorifero aveva trovato una teglia di tiramisù che probabilmente aveva preparato Eva quello stesso pomeriggio; due fette di quella torta morbida e dolciastra furono la sua cena. Lo stereo, intanto, liberava nell’aria le parole lente di Song of the Century.
Mentre si accomodava sul divano con il booklet di 21st Century Breakdown tra le mani, a Gloria parve di essere tornata indietro negli anni, quando sua mamma la metteva a letto e le sussurrava dolci ninne nanne per farla addormentare. Non ricordava molto di quel periodo, eppure le canzoncine di sua madre si erano aggrappate con forza nei meandri della sua memoria. Le sue dita scorrevano lente tra le pagine, sopra quelle parole stampate di grigio come i graffiti su una parete, sopra la storia che Billie Joe Amstrong aveva creato attorno a quei giovani personaggi che rispondevano al nome di Christian e Gloria. Rimase in silenzio ad ascoltare a occhi chiusi quell’intrico di note, parole e fatti narrati a ritmo di chitarra, basso e colpi di batteria. Si lasciò trasportare dal carisma di Know your enemy, sorrise con ¡Viva la Gloria!, immaginando che ci fosse Billie Joe Armstrong, seduto sulla poltrona accanto al divano, a cantarla per lei, le sfuggirono un paio di lacrime ascoltando Before the Lobotomy e Last Night on Earth, si trovò d’accordo con le parole di East Jesus Nowhere, si identificò nel personaggio di Last of the American Girls, e identificò la città in cui viveva con Murder City. La musica le scorreva nelle vene, riusciva a sentirla dentro di sé. Riusciva a sentirla parte di sé. Il sonno la colse subito dopo, cullandola tra le primissime note di ¿Viva la Gloria? (Little Girl).

[Continua]

Capitolo revisionato il 31-03-12

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Capitolo 12
*** Non è più una bambina ***


Non è più una bambina


«Te lo giuro, ha detto proprio così. L’hanno ritrovato addormentato seminudo nella vasca da bagno con una bottiglia di Vodka tra le braccia.»
Adrienne si passava lo smalto perlato sulle unghie della mano sinistra mentre con la spalla destra teneva il cellulare premuto all’orecchio.
Brittney sbuffò soffocando una risata. Dietro di lei, il piccolo Brixton giocava con le costruzioni assieme ad una bellissima bambina bionda, figlia dei vicini.
«Vedi che succede a lasciare quei tre da soli?»
«Tu cos’altro ti aspettavi?»
Alla bionda parve di avvertire una nota di rassegnazione nella voce della sua amica.
«Adie, va tutto bene? Non devi preoccuparti, lo sai come sono fatti loro, no? Non riescono a non combinare cose stupide, però l’importante è che nessuno si faccia male e che io e te non ci ritroviamo da un giorno all’altro con un bel paio di corna.» disse cercando di tirarla su di morale. «Tra l’altro, hai detto che Billie Joe è rimasto a casa per conto suo, no? Mi sembra che l’unica che dovrebbe preoccuparsi, qui, sia io.» soffocò una risatina nel tentativo di sdrammatizzare.
«Ma infatti non è questo che mi preoccupa. Il fatto è che non vorrei aver fatto una cavolata ad andarmene così presto, sono giorni che ci penso.»
«Che vuoi dire?»
«Che Billie Joe non mi convince.» Adrienne si morse un labbro mentre una piccola ruga le si faceva strada sulla fronte corrugata. «Non mi convince neanche un po’. In questi ultimi giorni giorni ha chiamato spesso, anche tre o quattro volte al giorno, e ci ha tenuti al telefono per delle ore. È strano, no? Ha sempre odiato stare molto tempo al telefono.»
Brittney rifletté per qualche istante prima di esprimerle il suo parere.
«Mah, non saprei... io non ci vedo niente di anomalo. È un uomo che è rimasto da solo a casa e che vuole sapere come se la stanno passando sua moglie e i suoi figli in vacanza.» Lanciò un’occhiata distratta ai due bambini che giocavano sul tappeto e sorrise osservando suo figlio. «Mi sembra anche piuttosto normale, come atteggiamento...»
«Ok, è vero, però qualche sera fa gli ho telefonato io, visto che non lo sentivo dal pomeriggio prima, e se dovessi raccontarti l’impressione che ho avuto quella volta, credo che non sarei nemmeno in grado di descrivertela.»
«Provaci...»
La donna sospirò profondamente.
«Era strano.» rispose facendo poi una breve pausa per riflettere. «E anche la sua voce era strana, per un attimo ho avuto l’impressione che avrebbe interrotto la chiamata pur di essere lasciato in pace.»
«Te l’ha detto lui che non aveva voglia di parlare?»
«No, ho provato a chiedergli se per caso ci fosse qualcosa che non andava, ma ha detto che non dovevo preoccuparmi, che era tutto ok e che lui era solamente un po’ stanco... ma come puoi notare le sue parole non sono certo servite a tranquillizzarmi.»
«Già...» commentò l’altra. «Lo sento.»
Brittney si morse un’unghia, pensierosa. Era amica di Adrienne da diversi anni, ormai, e almeno un poco aveva imparato a conoscerla. Sapeva benissimo di quanto fosse apprensiva nei confronti del marito e dei figli, ma mai l’aveva sentita così angosciata. L’istinto di infilarsi in macchina e correre da lei, nel Minnesota, per rassicurarla la colpì all’istante, ma  non poteva lasciare soli i suoi genitori, specialmente sua madre che, in quel periodo, non stava affatto bene. Gliel’aveva promesso: lei e il bambino avrebbero passato da loro tutta l’estate. E ad ogni modo, per raggiungere il Minnesota avrebbe dovuto attraversare gli Stati Uniti praticamente da parte e parte. Da sola, per di più. Ci sarebbe voluto troppo tempo.
«Adie, io capisco che sei preoccupata, è normale: Billie Joe è tuo marito, però pensa solo a tutto quello che ha passato negli ultimi mesi. Il nuovo album, le interviste, l’organizzazione del tour... era tutto pronto, le cose stavano andando alla perfezione... poi all’improvviso bam! Frank si è infortunato e tutto è andato a rotoli.»
«Lo so, ma-»
«Nessuno di loro l’ha presa bene, Adie, anche se ognuno ha  reagito in maniera diversa. Frank, ovviamente, era mortificato, Mike era incazzato nero e Billie Joe... lui si è semplicemente avvilito. Dopo tutto l’impegno che avevano messo nel progetto è del tutto normale avere una reazione del genere, non credi?»
Adrienne rifletté attentamente su quelle parole, era lo stesso e identico ragionamento che aveva fatto lei stessa non appena Billie Joe le aveva annunciato della posticipazione del tour.
«Ora che è passato un po’ di tempo, però, sono tutti più tranquilli. Insomma, hanno accettato la cosa e stanno andando avanti, ecco perché di punto in bianco tuo marito è tornato a interessarsi a quello che fate voi. Ha passato un periodo no, questo è vero, però adesso sembra passato, no? È questo, l’importante.»
La bruna lanciò un’occhiata verso la finestra. Immersi nella luce del tramonto, Joey e Jakob stavano giocando a pallone nel cortile assieme a un paio di cugini. Si stavano divertendo, pensò, «e forse è il caso che cominci anch’io a godermi queste vacanze.», si disse.
«Sì, forse hai ragione. Come al solito mi sono comportata da paranoica rombi palle
Scosse la testa reggendosi la fronte con una mano.
«Sono davvero un’idiota.»
A Brittney, dall’altro capo del telefono, parve di sentirla sorridere.
«Ma no... è normale.»
Sorrise a sua volta.
Adrienne sospirò sollevata, improvvisamente tutte quelle paure e quelle preoccupazioni le apparivo totalmente prive di senso. Si sentiva finalmente libera; quel peso che le aveva serrato la bocca dello stomaco si era del tutto volatilizzato, cedendo il posto a una leggerezza unica.
Billie Joe stava bene.
Billie Joe stava bene, e lei non aveva assolutamente nulla di cui preoccuparsi.
«Grazie. Hai sempre una parola amica per tutti, sei dolcissima.»
«Per così poco...»
Dopo alcuni istanti di silenzio Adrienne decise di spostare l’argomento di discussione sulla sua amica, domandandole come se la stesse passando a casa dei suoi.
Lei si accomodò sul divano tenendo gli occhi puntati su suo figlio e i suoi occhioni azzurri, incantati di fronte alla trecce bionde dell’altra bambina. Era bellissimo vederli giocare così. Lei gli passava i mattoncini di plastica e ogni tanto spicciava qualche parola scoordinata a cui il bimbo rispondeva con dei gorgoglii divertiti. Non avendo ancora neanche un anno, Brixton era ancora troppo piccolo per parlare, eppure sembrava già che facesse di tutto pur di sembrare grande agli occhi della bambina che di anni, invece, ne aveva quasi due.
Osservando i piccoli sorrise rilassata.
«Beh, Adie, dato che me lo chiedi... credo di aver appena fatto conoscenza con la mia futura nuora...»
 
Nel giardino sul retro la tavola era stata preparata con cura. Se ne era occupata Gloria stessa, approfittando del tempo libero che le concedeva il giorno di ferie dal lavoro. L’aria fresca della sera aveva un gradevole profumo di gelsomino, merito dell’esorbitante numero di candele che erano state posizionate attorno a ogni albero e ai lati della porta. La nuova tovaglia di lino color crema lasciava risaltare le decorazioni lilla del servizio di piatti in porcellana. Se qualcuno fosse capitato lì per caso e avesse visto la tavola apparecchiata con così tanta cura, avrebbe sicuramente pensato a qualche ricorrenza particolare, un compleanno o un anniversario di matrimonio. Semplicemente, però, la madre di Eva e Gloria, Renée, sarebbe stata ospite a cena a casa delle figlie, ed entrambe volevano che tutto fosse perfetto, dal momento che molto raramente le andava a trovare direttamente a casa. La più grande aveva passato l’intero pomeriggio in cucina, giocando ad abbinare cibi diversi alla ricerca della perfetta combinazione di sapori, mentre Gloria aveva chiesto l’aiuto di Josh per tagliare l’erba del giardino e aveva provveduto da sé ad apparecchiare la tavola mentre il suo quasi cognato era stato preso in ostaggio dalla fidanzata per fare da cavia con i suoi nuovi piatti. Un cielo limpido puntinato di stelle aveva fatto da scenario alla serata, che era trascorsa fin troppo velocemente, bevendo dell’ottimo vino bianco e assaggiando le squisite pietanze che aveva preparato Eva.
Gloria era felicissima di avere sua madre lì a cena con loro, capitava così raramente che potessero ritrovarsi tutti insieme come una famiglia normale, anche se, quando succedeva, aveva sempre l’impressione che la mancanza di suo padre fosse la causa prima che impediva loro di essere una famiglia nel vero senso del termine. Anche Eva sembrava molto allegra, lo si notava dallo scintillio dei suoi occhi e dall’espressione felice che aveva ogni volta che sua madre si complimentava con lei per la squisitezza di un piatto.
Circondata dalle sue figlie, Renèe si sentiva veramente a casa, e sorrideva serena nel notare che, nonostante tutto, le persone più importanti della sua vita avevano trovato una loro strada e che, tutto sommato, stavano bene così.
Lo stesso Josh si era divertito molto durante la cena, anche se non erano mancati attimi di imbarazzo. Per tutta la serata, infatti, non aveva fatto altro che sentirsi rivolgere da sua suocera allusioni al matrimonio e al suo rapporto con sua figlia, specialmente per quel che riguardava la sfera dell’intimità, e se quelle alle nozze erano comunque state piuttosto velate, i riferimenti al sesso non lo erano stati affatto e, anzi, lo avevano fatto arrossire sino alla radice dei capelli. Non che fosse un tipo vergognoso o di quelli che si imbarazzano facilmente, ma parlare di quelle cose con la madre della sua donna e davanti alla sorella più piccola di questa, in un certo senso sì, non lo faceva esattamente sentire a suo agio.
Un leggero venticello rinfrescava la serata, solleticando le braccia nude delle persone sedute attorno al tavolo e muovendosi sinuosamente tra i loro capelli. Gloria inspirò a fondo il profumo di gelsomino che c’era nell’aria e sorrise, poggiando i piedi sul bordo della sedia sulla quale era seduta, le braccia incrociate sopra le ginocchia e il capo leggermente inclinato fino a sfiorare la spalla. Era felice di quella serata; nonostante non la vedesse quasi mai, le capitava spesso di sentire un’improvvisa ondata di nostalgia nei confronti della madre, e di desiderare, anche solo per un attimo, di tornare quella bambina con le trecce e le guance paffute che era una volta, di tornare a essere piccola e indifesa, di avere bisogno dei suoi abbracci caldi e delle sue parole affettuose per sentirsi protetta.
«Tesoro mio, lasciatelo dire: sei davvero fantastica ai fornelli.»
Renée era una donna prossima ai cinquantacinque, non particolarmente alta e piuttosto sovrappeso. I capelli color biondo cenere -che teneva da sempre corti fino alle spalle- le incorniciavano morbidamente il viso rotondetto e tra di essi iniziavano a intravedersi alcuni fili argentati. Era sempre stata una donna piacente, ma da diversi anni a quella parte, Gloria le aveva notato delle sottilissime rughe sulla fronte e intorno agli occhi, grigi come quelli della figlia maggiore.
Eva sorrise, felice e soddisfatta. Aveva messo l’anima in tutto quello che aveva preparato, a partire dagli antipasti fino ad arrivare all’arrosto e alla mousse di melanzane che, nonostante le fosse sembrata un po’ troppo salata, si era dimostrata essere, invece, la pietanza più apprezzata.
«Sono piena come un uovo.»
Renée mandò giù un generoso sorso di vino bianco e si appoggiò allo schienale della sedia tenendosi una mano sullo stomaco.
Josh e Gloria si scambiarono una rapida occhiata e sorrisero. Era evidente che Renée non fosse abituata a mangiare spesso piatti preparati dalla figlia maggiore. Rispetto ai suoi standard abituali, Eva quella sera si era trattenuta sin troppo, abituata com’era a cucinare per un intero reggimento.
«Spero di no, visto che manca ancora il dolce.» commentò Eva sorridendo allegramente per poi sparire in cucina con i piatti ormai vuoti.
«Ha preparato anche il dolce?» domandò Renée piacevolmente sorpresa. Amava l’idea che sua figlia mettesse tanto amore e tanta allegria in quello che faceva.
«Ovviamente. Un pasto non è completo, se non c’è anche il dolce.» Le fece notare Josh utilizzando deliberatamente le stesse parole che avrebbe usato anche Eva se fosse stata presente in quel momento. Per come la vedeva lei, non valeva la pena di mettersi a mangiare quando poi non si aveva nulla di dolce con cui concludere il pasto. Gloria era fermamente convinta che prima o poi avrebbero sfondato il pavimento, ma nemmeno lei riusciva a dire di no ai dessert che preparava la sorella.
Gloria allungò un braccio sul tavolo, sentendoselo accarezzare da quel leggero venticello profumato.
«Sono contenta che tu sia qui.» mormorò con voce dolce osservando la madre mentre lasciava che le dita dell’altra mano le scorressero tra i capelli, godendosi la piacevole sensazione del vento che le sfiorava il collo.
Renée sorrise allungando il braccio a sua volta per stringere la mano della figlia.
«Anche io, tesoro.»
La sua voce era calda e affettuosa, ma conteneva una nota di dispiacere che non sfuggì a Josh, ed egli si trovò a domandarsi per l’ennesima volta come fosse possibile che quella donna, tanto dolce e amorevole, avesse potuto permettere a suo marito di spingere la sua figlia più grande ad andarsene via di casa portando con sé una bambina piccola da crescere da sola.
«Ti trovo in ottima forma, sai? Sei cresciuta tanto.»
«Me lo dici ogni volta che ci vediamo.»
«Lo dico perché ogni volta che ci vediamo sei sempre più grande.» si difese Renée osservando la figlia più piccola con un alone di amore materno negli occhi.
Josh non poté fare a meno di sorridere, intenerito da quella scena. Eva gli raccontava spesso di quanto si fosse sforzata di non far mai mancare nulla a Gloria, di farla crescere in un ambiente sereno come quello di ogni famiglia, e di quanto fosse bello poi vederla sorridere, vederla serena e allegra. Ma si rendeva conto ugualmente che, nonostante lei gli avesse fatto, allo stesso tempo, da sorella, da amica e da madre, Gloria sentiva la mancanza di una vera figura materna nella sua vita, e anche se, per Eva, ammetterlo faceva male come un pugno allo stomaco, sua sorella sentiva la mancanza anche della figura paterna.
«Mi sembra che anche tua sorella stia bene, non trovi?» domandò la donna senza mai lasciare la mano alla figlia minore, voltando un po’ la testa per guardare la sua primogenita, attraverso la porta che aveva lasciato aperta, piegarsi dinnanzi al forno per tirarne fuori il dolce.
«Sì, sta bene anche lei.»
Gloria si sporse un po’ in avanti per osservare la sorella a sua volta, sorridendo divertita. Sia lei che Josh avevano impiegato l’intero pomeriggio a cercare di convincerla che, forse, non era il caso di accendere il forno a luglio, e che avrebbe potuto benissimo preparare un dolce diverso e altrettanto squisito che, magari, non necessitasse l’uso di quel particolare elettrodomestico, ma non c’era stato nulla da fare: le loro parole erano finite al vento, come sempre.
«Non sta ferma un momento... però sta bene.»
«E come potrebbe essere diversamente, eh?»
Renée si voltò verso Josh con un sorrisetto orgoglioso sulle labbra e, affettuosamente, gli diede una pacca sulla spalla.
«Con questo bel giovanotto accanto...»
Josh abbassò lo sguardo e sorrise carico di imbarazzo.
Gloria strinse le labbra trattenendo una risata, e si sorprese a pensare a quanto carino fosse il ragazzo di sua sorella quando era così timido e impacciato.
Dal canto suo, Josh riteneva che sua suocera fosse una donna davvero molto simpatica: sapeva di piacerle e sapeva anche che lei faceva di tutto per dimostrarglielo. Era, infatti, sempre gentile e ben disposta nei suoi confronti, peccato solo che a volte fosse così diretta da riuscire inevitabilmente a metterlo in imbarazzo, e questo lato del suo carattere, si ritrovò a pensare, l’aveva trasmesso anche a Eva.
Renée sorrise e rivolse lo sguardo verso la sua figlia più grande, che armeggiava di fronte al forno con una siringa da pasticcere.
«Sbaglio o è un po’ ingrassata?»
«Chi?»
«Tua sorella.»
Gloria voltò la testa verso Eva, seguita a sua volta da Josh. Il vestitino a fiori che indossava le metteva in risalto i fianchi e le lasciava scoperte le gambe robuste.
«Mah, non mi sembra...»
«A me sembra sempre uguale...» confermò anche Josh.
Renée non si diede per vinta, e continuando a fissare insistentemente la figlia disse:
«Ma sì, guardatela: è decisamente più pienotta.»
Poggiò il gomito destro sul tavolo e con la mano si sorresse il mento.
«Anche il seno, non trovate che sia più grande?»
Gloria arricciò le labbra e alzò le mani in segno di resa.
«Cedo la parola a chi ne sa più di me.» disse rivolgendo un’occhiata maliziosa in direzione di Josh, che sentendosi gli occhi della suocera puntati addosso non poté fare altro che rispondere alla sua domanda, pur sentendosi non poco in imbarazzo.
«No, direi che anche quello è uguale...»
Eva arrivò a tavola prima che Renée potesse aggiungere altro.
«Scusate se vi ho fatto aspettare.» trillò con voce allegra, probabilmente dovuta all’orgoglio per aver preparato quei mini capolavori.
Immediatamente Renée si sporse sul tavolo con aria perplessa, tante piccole rughe disegnate attorno agli occhi meravigliati. Sul vassoio erano poggiati quattro piattini, e in ognuno di esso vi era un mini soufflé al cioccolato sul quale era stata fatta cadere una pioggia di sciroppo di ciliegie che ne copriva interamente la parte superiore e colava attorno ai lati in tante piccole scie rossastre. Affianco al dolcetto, una riccioluta montagnola di panna montata era tempestata di piccole scaglie di nocciola, mentre una piccolissima lettera di cioccolato, di quelle che si usano per fare le scritte sulle torte di compleanno, era stata sapientemente poggiata alla sua base.
Gloria e Josh scambiarono un’occhiata fugace, cercando di nascondere i sorrisi divertiti che entrambi avevano sulle labbra, ma non riuscirono a trattenersi quando Renée domandò retoricamente, meravigliata:
«Ma... dobbiamo mangiarli?»
Al che iniziarono entrambi a sghignazzare a bassa voce, cercando il più possibile di non farsi notare da Eva.
«Perché?» domandò quest’ultima, innocentemente. «Guarda che sono buoni...»
«Sicuramente, tesoro, ma-»
La giovane donna non diede nemmeno tempo alla madre di finire la frase, che già le aveva poggiato davanti il piatto, e così aveva fatto anche con il fidanzato e con la sorella.
«E allora mangia, no? Che aspetti?»
Fu solo in quel momento che tutti quanti si resero conto che le letterine poggiate accanto alla panna altro non erano se non le iniziali dei loro nomi: vi era infatti una “G” nel piatto di Gloria, una “J” in quello di Josh, la “M” di “mamma” nel piatto di Renée e, ovviamente, una “E” nel suo piatto.
Gloria e Josh scambiarono l’ennesimo sguardo complice della serata, sinceramente divertiti dalla scena che si presentava davanti ai loro occhi. Entrambi, infatti, avevano imparato, col tempo, a capire che quando Eva decideva di preparare un dessert non si sarebbe mai limitata a mescolare gli ingredienti tra loro, imburrare teglie e mettere in forno o lasciar riposare in frigo. Lei preparava ogni piatto con grande solerzia, si divertiva a mischiare odori e sapori diversi, e ad aggiungere tanti piccoli dettagli minuziosi che facevano apparire stuzzicanti e irresistibili anche le pietanze meno invitanti. L’unico problema era che, spesso e volentieri, i dolci che preparava erano talmente elaborati da sembrare finti come le illustrazioni nei libri di cucina, e quasi ci si dispiaceva di dover mangiare tutto quel paradiso di zuccheri colorati che era riuscita a creare.
Gloria, dal canto suo, non se lo fece ripetere due volte e affondò immediatamente la forchettina nel mini soufflé, lasciando che il cuore del dolcetto, caldo e denso, colasse lentamente sino alla montagnola di panna. Ne staccò un pezzettino, che intinse nello sciroppo di ciliegie e nella panna, e lo portò alla bocca. Doveva ammetterlo: adorava lasciarsi viziare così dalla sorella.
Quando anche Renée si decise a mangiare, Eva tornò a sedersi a capotavola, tra Josh e Gloria e di fronte a sua madre.
«Vi ho visti parlottare, prima. Che dicevate?» domandò allegramente portando alla bocca una forchettata di soufflé e complimentandosi mentalmente con se stessa per lo squisito sapore di ciò che aveva preparato.
«Umh...»
Per la fretta di rispondere prima degli altri, Renée ingoiò il boccone che aveva in bocca senza nemmeno masticarlo.
«Stavo dicendo a loro che ti trovo un po’ ingrassata.» rispose schietta, ma con innocenza.
«Davvero?» fece subito lei, un po’ allarmata, fissandosi la pancia e i fianchi.
«Ma no, Eva, sei come sempre...»
«Beh sì, sei un po’ più... abbondante.» rispose sua madre ignorando completamente la risposta dell’altra sua figlia.
«Beh, lo sai che non sono mai stata un grissino.», le fece notare stringendosi nelle spalle e giocherellando con il ciondolo che aveva al collo.
«E ok, ammetto di mangiare un po’ troppo... a volte.» tenne a precisare.
«Ma non mi sembra di aver messo su peso...»
Rivolse lo sguardo al suo ragazzo come per chiedere conferma.
«No?»
Lui scosse la testa, dandole ragione.
«E comunque non sto mai ferma, ci metto un attimo a smaltire quello che mangio.»
Renée sorrise comprensiva.
«Lo so, tesoro, ma può darsi che non dipenda solo da quello che mangi, no?»
«E da che altro?»
La madre roteò le pupille al cielo con aria pensierosa, stringendosi nelle spalle.
«Vedi Eva, hai un’età ormai...», iniziò cautamente.
Gloria aggrottò la fronte cercando di immaginare dove volesse arrivare a parare.
«… e hai anche un ragazzo fisso da diverso tempo, no?»
Eva scambiò un’occhiata con Josh, che proprio come lei sembrava non capire dove fosse il nesso tra le due cose.
«Sì...»
«Beh ecco, allora... è da quando sono arrivata che me lo chiedo...»
Sulle sue labbra iniziò a farsi strada un sorriso che a Josh non piacque per niente.
«… non è che, magari, sto per diventare nonna?!»
 
Per un istante piuttosto lungo la tavola fu immersa nel silenzio più totale, almeno finché Eva non scattò con il busto in avanti e la bocca spalancata, dalla quale fuoriuscì un «coooosa?!» che rese fin troppo bene l’idea dello sconcerto che aveva provocato in lei la domanda di sua madre.
«Hey, diventerò zia?!», trillò Gloria con voce scherzosa osservando divertita la faccia sconvolta di sua sorella, che sbuffò seccata ignorando lo scambio di battute tra lei e sua madre.
«Ma come ti salta in mente? Possibile che debba ripetertelo ogni volta? Quando penseremo che sarà il momento giusto per noi per avere un figlio, ne riparleremo.» dichiarò in maniera piuttosto brusca.
Gloria non si sorprese più di tanto, quello era un argomento che sua madre tirava fuori inevitabilmente ogni volta che aveva l’occasione di parlare con Eva, nonostante quest’ultima le avesse ripetuto in tutti i modi possibili e immaginabili che quello era un affare che riguardava solo lei e Josh.
«Lo so, tesoro, però...»
Sospirò con aria sognante, aggiungendo poi:
«… tu saresti una madre splendida.»
Josh si strinse nelle spalle sorridendo teneramente alla ragazza.
«E ovviamente...», continuò Renée, «anche Josh. Sarebbe un padre perfetto.»
Eva abbassò lo sguardo e si umettò le labbra per poi serrarle, facendo un profondo respiro dal naso. Gloria ebbe la sensazione che sua sorella stesse tentando in tutti i modi di mantenere la calma, anche se le sembrava, piuttosto, pericolosamente vicina ad esplodere. E infatti, quando sollevò nuovamente lo sguardo, puntandolo dritto in quello di sua madre, la bionda aveva gli occhi che sembravano fatti di ghiaccio.
«Da quant’è che hai imparato a riconoscere quando un uomo sarebbe un buon padre, tu?»
Eva pronunciò quelle parole con tanta cattiveria che arrivarono a sua madre con la stessa dirompenza di uno schiaffo in pieno volto.
«Vedo che hai fatto dei progressi, perché sì: Josh sarebbe veramente un buon padre.»
Il suo tono di voce era deciso e aspro.
«Niente a che vedere con il nostro.» concluse infine indicando sua sorella con un cenno del capo.
Lo sguardo di Gloria saettava da una parte all’altra del tavolo, e così anche quello di Josh, che mai avrebbe pensato di sentire la sua donna rivolgersi in quel modo alla madre. La ragazza, però, non era rimasta tanto sorpresa per il tono usato da sua sorella quanto per lo strano fatto di averla sentita tirare in ballo il loro padre così di punto in bianco, di sua sponte, come non le aveva mai sentito fare in più di dieci anni.
Renée  si sentiva ferita nel profondo da quell’affermazione, e tutto il suo dolore si manifestava inequivocabilmente nel suo sguardo e nel pallore che sembrava averle improvvisamente ingrigito il volto. Prese una generosa sorsata di vino nel tentativo di ridarsi un contegno; poteva comprendere le parole di sua figlia, ma non voleva in alcun modo che tutta quella faccenda  venisse fuori in quella maniera, non così all’improvviso e soprattutto non davanti a Gloria.
«Eva, per favore, non mi pare proprio il caso, adesso, di-»
«E a me sì, invece.» la interruppe bruscamente la figlia maggiore. «Posso accettare qualsiasi tipo di consiglio, da te, ma non puoi permetterti di parlare di padri perfetti; non tu, visto che-»
«Piantala, Eva.»
Questa volta fu Renée a tirare fuori la voce e, insieme a essa, tutta la sua autorità di madre.
L’una teneva gli occhi puntati in quelli dell’altra, un sottile filo invisibile collegava i loro sguardi e fendeva l’aria, facendola vibrare.
«Ha ragione la mamma: smettila.»
La voce di Gloria si alzò inaspettatamente, tranciando di netto quel filo di astio improvviso e attirando a sé tutti gli sguardi.
«Mi sembra sia vietato parlare di nostro padre in mia presenza, o sbaglio?»
Totalmente presa in contropiede, Renèe si concesse un altro sorso di vino.
«Tesoro, ma come ti viene in mente?» le domandò poi sua madre, chiaramente a disagio, dopo aver mandato giù la bevanda dolciastra.
«Perché, non funziona così?» rispose Gloria con un’altra domanda pungente, questa volta rivolgendosi alla sorella come per chiedere conferma. «Se ci sono io nei paraggi, Richard Morris non deve neanche essere nominato. Non è vero, Eva?»
Eva iniziava visibilmente ad agitarsi sul serio, tant’è che con grande sorpresa del suo uomo si rivolse a sua sorella in maniera decisamente brusca.
«Senti, se ti abbiamo sempre tenuta fuori da questa storia ci sarà un motivo, no? Piantala di metterti in mezzo.»
«No che non la pianto. Se è una cosa che riguarda anche me, allora tu devi dirmi cos’è.»
La sua voce era ferma e determinata.
«Avanti, si può sapere che cazzo ha fatto, visto che lo odi tanto?»
«Gloria...»
La voce di sua madre, invece, risultò quasi un lamento.
«Cerca di calmarti, per favore. Prova a metterti nei nostri panni... non è facile.»
Quelle parole furono la goccia che fece traboccare il vaso, il martello pneumatico sulle pareti di una diga, il mattone lanciato con troppa forza contro il vetro di un acquario.
«E non vi viene in mente che tutto questo possa non essere facile neanche per me?» domandò piena di rabbia ritrovandosi in piedi senza essersene accorta. «È da quando ho dieci anni, che cerco di rimettere insieme i pezzi di quello che è successo: da quando a scuola ci assegnavano il compito di descrivere il papà e io non sapevo più cosa scrivere dopo neanche tre righe, e da quando le madri dei miei compagni mi chiedevano come mai i miei genitori non venissero mai a prendermi, o a parlare con gli insegnanti.»
Con mani tremanti si fregò la faccia e fece un respiro profondo prima di ricominciare a parlare.
«Neanche per me è facile, però sto zitta e il più delle volte faccio finta di niente perché ci provo, a mettermi nei vostri panni, ma mi sembra che siate voi, qui, a non mettervi nei miei, perché se apriste bene gli occhi, magari vi accorgereste che non sono più una ragazzina, e che forse è il caso che la piantiate -tutti voi- di cercare di proteggermi da ogni cosa.»
Eva e Renée non furono in grado di controbattere, entrambe fissavano quella ragazza tanto dolce e gentile che in un batter d’occhio aveva sfogato tutta la sua rabbia repressa diventando improvvisamente grintosa e aggressiva. Anche Josh stentava a riconoscerla nei panni della ragazza forte e agguerrita, ma nonostante questo avrebbe voluto sorriderle e dimostrarle quanto si trovasse d’accordo con ciò che aveva appena detto, ma rifletté che tutta quella faccenda non era affar suo e che non doveva immischiarsi nella loro situazione familiare a meno che non fosse stato esplicitamente invitato a farlo.
«Adesso scusatemi, la bambina vi lascia soli, così potete continuare a parlare delle vostre cose da grandi senza troppi problemi.»
Senza aggiungere altro si allontanò dal tavolo e tornò in casa, rifugiandosi nel suo piccolo mondo colorato di rosa, tra i vecchi peluche e le fotografie sulle ante dell’armadio.
Rimasta al tavolo con gli altri, Eva abbassò lo sguardo e chiuse per un istante gli occhi, massaggiandosi la fronte con una mano. Aveva sbagliato tutto, con sua sorella, ecco quello che pensava. Aveva cercato in tutti i modi di proteggerla, l’aveva chiusa in una bolla di sapone nel tentativo di non farle conoscere sofferenze, ma non si era accorta che, man mano che lei cresceva, quella bolla di sapone si fosse fatta sempre più stretta, al punto da aderirle addosso come una seconda pelle che, seppur proteggendola, le impediva di spiegare le ali.
«Non te la prendere, tesoro. Sono sicura che non pensava veramente quello che ha detto...» mormorò Renée più per convincere se stessa che sua figlia.
«Sì che le pensava, invece... e ha ragione, anche...», ammise Eva aprendo gli occhi arrossati. «non è più una bambina.»
Solo in quel momento si rese conto che non avrebbe potuto proteggerla per sempre, che, per quanto difficile, avrebbe dovuto lasciarla libera di fare le sue scelte, di avere una risposta alle sue domande, avrebbe dovuto lasciarla libera anche di sbagliare, di soffrire e di chiudersi in una stanza a piangere, perché sarebbe stato l’unico modo per renderla più forte, per non farle abbassare la testa di fronte agli ostacoli, per far sì che affrontasse la vita con tutta la forza che aveva in corpo, che la difendesse con le unghie e con i denti. Quella sera Eva capì che per far vivere pienamente a Gloria il suo futuro, avrebbe dovuto lasciare che si tuffasse a capofitto nel suo passato.
 
Gloria era sdraiata sul letto a pancia in giù, con le gambe sollevate e le braccia incrociate sotto il mento, e fissava in silenzio la porzione di muro che aveva davanti agli occhi mentre due scie bagnaticce le solcavano le guance arrossate. Dopo il tonfo sordo della porta sbattuta con violenza, all’interno della stanza non si udiva più alcun suono, persino il suo respiro era così rarefatto che lei stessa riusciva a mala pena a percepirlo. Quella serata si era trasformata in un vero disastro, pensò. Eppure, se per una qualche strana ragione avesse avuto l’opportunità di tornare indietro nel tempo ad un’ora prima, Gloria avrebbe detto le stesse e identiche parole che, con rabbia, era riuscita a cavarsi fuori dalla bocca. Aveva dato voce, finalmente, al pensiero che più di ogni altro le stava a cuore da ormai da troppo tempo per essere ignorato e riposto via nella pattumiera dei ricordi, e nonostante la rabbia, nonostante la confusione, ora si sentiva meglio. Era come se, assieme a tutta la sua aggressività avesse gettato fuori da sé anche quella spessa coltre di silenzio e sentimenti repressi che aveva iniziato da tempo ad appesantirle i pensieri. Non poteva più permettere di essere tenuta all’oscuro di quel che riguardava la sua famiglia. Quando era stata portata via dalla casa del padre era ancora troppo piccola per rendersi conto di cosa stava accadendo, ma ora non era più una bambina, e aveva il diritto di sapere ciò che li aveva spinti a quella situazione, anche se avrebbe dovuto pagare con lacrime amare e un gran dispiacere. Una vocina insistente all’interno della sua testa le diceva di bendarsi gli occhi, tapparsi le orecchie, fingere che non fosse successo niente e così riprendersi la propria vita, ma Gloria non era più disposta ad accettare un simile compromesso.
Con gesto quasi meccanico allungò il braccio sinistro fino ad afferrare il cellulare poggiato sul comodino accanto al letto. Lo avvertiva fortissimo dentro di sé, il desiderio di condividere con qualcuno quello che era appena accaduto, e voleva farlo con una persona che, era sicura, l’avrebbe senz’altro ascoltata e, magari, consigliata sulla prossima mossa da fare. In preda a quell’impulso improvviso selezionò nella rubrica il nome che cercava e premette il pulsante verde di avvio chiamata. Mentre il suono della linea libera le rimbombava nell’orecchio, Gloria stringeva tra i denti la nocca dell’indice, quasi sperando che il telefono continuasse a squillare all’infinito. Quando quella litania si interruppe improvvisamente con un click, le pupille azzurre della ragazza si dilatarono. Tutto ciò che riusciva a sentire dall’altro capo era un gran baccano, un’accozzaglia di voci e musica alta, fino a che tra quel vociare confuso si distinse chiaramente una voce, calda e familiare.
«Pronto?»

[Continua]

Capitolo revisionato il 06-04-12

 

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Capitolo 13
*** Lingue di fuoco ***


Lingue di fuoco

Non appena udì la voce di Billie Joe Armstrong dall’altro capo del telefono, Gloria pigiò immediatamente il pulsante rosso di fine chiamata, lasciando poi il cellulare ricadere sul letto come se fosse diventato improvvisamente troppo caldo per essere tenuto tra le mani. Il forte rumore della musica si era interrotto, e la stanza era piombata nuovamente nel silenzio, ma le orecchie di Gloria martellavano, facendo da eco al cuore che le batteva all’impazzata nel petto.  
«Sei un’idiota. Sei un’idiota. Sei un’idiota.», si ripeteva battendosi ritmicamente una mano sulla fronte.
Cosa credeva, che Billie Joe Armstrong avesse tempo da perdere a sentire i problemi di una ragazzina come lei, distante anni luce dal suo mondo? Si conoscevano da così poco tempo, e nonostante si fossero scambiati i numeri di telefono, dopo l’incontro al bar non aveva più avuto sue notizie, e anche se aveva dimostrato di essere una persona molto gentile e spontanea, Gloria si rendeva perfettamente conto di avere a che fare con una celebrità. Forse non l’aveva riconosciuto immediatamente, ma lui, Billie Joe Armstrong, insieme alla sua band, aveva alle spalle ben vent’anni di carriera, le sue canzoni erano conosciute a livello mondiale, e nessun vero amante della musica avrebbe potuto dire di non conoscere i Green Day. Si era informata sul loro conto facendo delle ricerche sul web e aveva anche cercato alcune loro canzoni, accorgendosi con grande sorpresa di conoscerne diverse, alcune delle quali le piacevano particolarmente. In sostanza, anche se Billie Joe era stato davvero molto carino con lei, era probabile che il suo comportamento fosse stato dettato dalla semplice educazione. Il fatto che si fossero parlati di persona, e che lui le avesse regalato il suo nuovo album, si ritrovò a pensare, non faceva di loro due amici. Anzi, Gloria ebbe il sospetto che Billie Joe l’avesse già rimossa completamente dai suoi ricordi, e di certo lei non voleva essere invadente. In fondo, cosa avevano da dirsi due individui diametralmente opposti come loro oltre che le solite frasi di cortesia? Non aveva senso cercarlo.
Subito dopo, però, un’improvvisa vibrazione del materasso, immediatamente seguita da un motivetto allegro dal volume ascendente, la fece sobbalzare. Lo schermo illuminato del suo cellulare aveva diffuso nella stanza una luce fioca e giallognola. Con mani ancora tremanti dallo spavento afferrò l’apparecchio, e trovarvi scritto proprio quel nome, il nome di Billie, sotto il disegno di un telefono stilizzato che tremava e invitava a rispondere, la fece rimanere senza parole. Lei aveva interrotto la chiamata per paura di disturbarlo, e ora lui... la stava richiamando?
La ragazza rimase immobile per qualche istante, picchiettandosi il cellulare sul palmo di una mano, domandandosi quale fosse la cosa migliore da fare, se fingere che fosse partita inavvertitamente la chiamata oppure dire tutta la verità: che si era messa in una situazione dalla quale non sapeva come uscire e che lo aveva chiamato per chiedergli consiglio.
«Pronto?»
«Gloria, ciao.»
Ci fu un breve istante di silenzio prima che Gloria trovasse le parole adatte per cominciare.
«Mi spiace di averti fatto richiamare, credo che sia caduta la linea, poco fa.» Si morse la lingua sperando che lui non facesse domande a riguardo: rivelargli di aver riattaccato per paura di sembrare troppo invadente sarebbe stato decisamente imbarazzante.
«Non preoccuparti. La ricezione, qui, fa un po’ schifo.»
«Non vorrei averti disturbato. Si sentiva un gran caos, prima, e ho subito pensato che fossi a un party o... a qualche concerto.»
«Sono solo in un locale con Mike e Frank.»
Intorno a lui una dozzina di ragazze e ragazzi facevano gruppetto e, con le sigarette tra le labbra, chiacchieravano di fronte al Gilman.
«Ah, ecco perché quel baccano...»
«Appena ho visto che era caduta la linea sono uscito per richiamarti. Qui c’è un po’ meno confusione.»
Solo allora Gloria si accorse che, in sottofondo, il suono assordante della musica alta aveva lasciato il posto ad un lieve vociare confuso.
«Sei gentile...» mormorò la ragazza maledicendosi silenziosamente. Ancora una volta aveva attribuito lui un atteggiamento che non assomigliava affatto a quello che realmente aveva.
«Come mai hai chiamato?» domandò lui con voce affabile. «È successo qualcosa, o ti stavi semplicemente annoiando?»
«È successa una cosa...» ammise lei dopo pochi secondi. «ma, a dire il vero, non lo so nemmeno io perché ti ho chiamato. Io... avevo solo bisogno di parlarne con qualcuno, però non so perché mi sia venuto in mente proprio tu... che, tra l’altro, sei anche occupato, quindi non vorrei annoiarti.»
Strinse il labbro inferiore tra i denti mentre il cuore accelerava i battiti a causa del grande nervosismo che provava.
«Mi spiace di averti disturbato, passa una buona serata» farfugliò tutto d’un fiato, già con il pollice pronto a premere il pulsante di fine chiamata.
«No, aspetta. Gloria?» si affrettò a rispondere Billie Joe prima che lei riattaccasse.
«Non mi stai disturbando. Puoi dirmi tutto quello che vuoi, tanto lì dentro non sto perdendo un gran ché, a parte Frank che cerca di rimorchiare ogni cameriera che gli passi di fronte, ma questo succede ogni volta che usciamo.»
Cercò di sdrammatizzare soffocando una risatina. Dal tono di voce che aveva Gloria, Billie Joe  aveva intuito che, se lo stava chiamando a quell’ora, probabilmente doveva essere successo qualcosa di importante, e aveva davvero bisogno di parlarne. Per un istante se la immaginò rannicchiata in un angolo della sua stanza a mangiarsi le unghie con aria preoccupata, e immediatamente si domandò quanto ci fosse di vero in quella fantasia.
«Grazie.» bisbigliò Gloria.
«Forse tu riesci ad aiutarmi a capirci qualcosa perché, ora come ora, non so dove sbattere la testa.»
«Ti ascolto.»
Gloria prese un bel respiro, inumidendosi le labbra.
«È una cosa che riguarda la mia famiglia...» cominciò con voce tremante. «e credo sia la causa per la quale Eva si è presa cura di me in tutti questi anni, e per la quale non ha più voluto avere contatti con nostro padre...»
Abbassò lo sguardo sulla trapunta prima di aggiungere mormorando: «né tantomeno ha permesso a me di averne.»
«Hai scelto la persona giusta, allora. Sono un esperto di problemi familiari.»
Gloria non poté impedirsi di sorridere, sinceramente grata per quel tentativo di alleggerire la tensione che avvertiva nell’aria e che la faceva rabbrividire lungo la spina dorsale.
«Mi stanno nascondendo tutto.» sputò fuori all’improvviso. «Non vogliono dirmi quello che è successo e che ha fatto dividere così la mia famiglia.»
Billie Joe premette con forza il cellulare all’orecchio mentre si allontanava di qualche passo da un gruppo di ragazzi che aveva iniziato a fare chiasso.
«Perché pensi che vogliano nascondertelo?»
«Perché non parlano mai di mio padre in mia presenza.» gli rivelò. «È da qualche anno che ci faccio caso. I primi tempi dopo il trasferimento mi è capitato spesso di chiedere di lui, ma ero piccola, e le mie erano semplici curiosità, per cui non ho mai pensato che quando Eva cambiava argomento o si fingeva occupata per parlare, lo facesse per nascondermi quello che era effettivamente successo. Poi però, crescendo, ho iniziato seriamente a farmi qualche domanda sul suo conto. In fondo, la mamma è venuta a trovarci spesso, da quando ci siamo trasferite, mentre lui... non l’ho mai più sentito neppure per telefono.»
«E tu hai qualche idea di quello che può essere successo?.»
«No, assolutamente no. L’unica cosa che so è che è successo tutto prima che ci trasferissimo qui, e io ero piccola, sono passati più di dieci anni, non ricordo quasi niente di quel periodo...»
«Quindi, anche ammettendo che tu avessi notato qualcosa, dal momento che eri troppo piccola per capire cosa stesse succedendo, non gli hai dato importanza. Giusto?»
«Giusto.»
Gloria si sentì improvvisamente sollevata: Billie Joe aveva afferrato immediatamente ciò che intendeva. Ora che aveva avuto la prova della sua disponibilità, si sentiva pronta a parlargli di ciò che era successo durante la cena.
«Io ho provato tante volte a chiedere a mia sorella perché ce l’avesse tanto con nostro padre, ma lei ha sempre evitato di rispondere... però avevo notato che ogni volta che cercavo di tirare fuori l’argomento reagiva in malo modo: spesso diventava triste, a volte si arrabbiava, così a un certo punto ho smesso di domandarglielo e mi sono sforzata di convivere con i miei dubbi.»
«A volte fa male parlare del passato, Gloria. Ti sembra di rivivere quei momenti anche solo sfiorandoli con il pensiero. Evidentemente quello che è successo le ha fatto talmente male che la ferita non si è ancora rimarginata. Succede spesso quando ci sono di mezzo persone molto legate a te.»
«Lo so, è per questo che mi ero imposta di non chiederle più niente... però ero arrivata a un punto che il non sapere faceva male a me.»
La sua voce si incrinò.
«Billie, io non so perché lei provi tanto astio nei confronti di nostro padre, non ho idea di cosa può aver fatto per farsi odiare così... ma se le ha fatto davvero così tanto male, allora lo voglio anch’io un motivo per odiarlo.»
Gloria fece una breve pausa nella quale Billie Joe Armstong riuscì a cogliere un sospiro e un singhiozzo.
«Che palle.» riprese poi con grande sconforto. «Sarebbe stata una bella cosa da dire, questa... invece sono stata capace solo di urlarle contro.»
Il frontman dei Green Day la sentì piagnucolare e tirare su con il naso.
«Gloria, non starai mica piangendo?» domandò retoricamente prima di chiederle a chi avesse urlato contro.
«A Eva...» rispose lei con un mormorio, abbassando lo sguardo sulle lenzuola. «E anche a mia madre.»
Dall’altro capo del telefono ci fu un istante di silenzio, e Gloria poté facilmente immaginare che Billie Joe Armstrong si fosse di certo pentito di essersi dimostrato così gentile e disponibile con lei, e di aver accettato di ascoltarla e consigliarla come un amico di vecchia data. Aveva tanto bisogno di sfogarsi, di parlare, di raccontare tutto, ma per quanto si sforzasse non riusciva a trovare quel minimo di calma e lucidità che potevano permetterle di  arrivare dritta al dunque senza continuare a girarci e girarci intorno.
«Cavolo, Billie, ti disturbo mentre sei con i tuoi amici per raccontarti i miei problemi, e non ti ci faccio neanche capire niente.» imprecò lei all’improvviso contro se stessa mentre si fregava il viso asciugandosi furiosamente un’ennesima lacrima. «Scusami.»
Come poteva pensare di spiegarsi chiaramente quando lei stessa era la prima a non riuscire a mettere ordine nei propri pensieri?
«Gloria, stai calma...» le disse allora lui con voce calda. «e smettila di piangere. Io ti assicuro che non ho nessuna fretta, per cui puoi prenderti tutto il tempo che ti serve.»
Dentro di sé, Billie Joe moriva dalla voglia di sapere cosa stessero combinando i suoi amici nel locale, ma sapeva anche che per nulla al mondo avrebbe piantato in asso quella ragazza. Se lo ricordava benissimo, quanto importante potesse essere la presenza di qualcuno disposto ad ascoltarti e a sostenerti nei momenti difficili. Lui lo aveva provato sulla sua stessa pelle quando era ancora solo un bambino, e se non avesse avuto Mike accanto a lui, con le sue parole di conforto e i suoi sorrisi rassicuranti, probabilmente non sarebbe mai diventato l’uomo che era. La spalla del suo bassista era il posto più comodo che conoscesse per versare le sue lacrime, e desiderava solo che la sua spalla fosse altrettanto accogliente per raccogliere quelle di Gloria, quella giovane donna che conosceva da così poco tempo e che, nonostante questo e nonostante tutte le differenze che c’erano tra di loro, sentiva già così vicina a lui.
«Stasera la mamma era a cena da noi. È così raro che lei ci venga a trovare a casa che io e mia sorella avevamo preparato tutto come fosse stata una qualche specie di cerimonia. C’era anche il ragazzo di Eva, lo abbiamo invitato a restare a cena con noi perché sappiamo quanto nostra madre lo adori e lo trovi carino, e devo dire che con lui lì insieme a noi è stato tutto ancora più divertente perché la mamma gli faceva un sacco di battute e doppi sensi e lui si imbarazzava come un bambino...»
A Billie Joe parve di sentirla sorridere dall’altra parte della cornetta.
«Poi però all’improvviso lei ha fatto una pessima sceneggiata sul diventare nonna e su quanto lui sarebbe stato un buon padre... e a quel punto Eva non è riuscita a controllarsi: è diventata furiosa. Ha iniziato a dire che lei non poteva permettersi assolutamente di parlare di padri perfetti, ma mia madre l’ha subito interrotta dicendo che non era il caso di parlarne in quel momento. Tu mi dirai che probabilmente l’ha fatto perché non voleva mettersi a discutere e rovinare la serata, ma ti assicuro che in realtà l’ha fatto perché non voleva che si arrivasse a parlare chiaramente di mio padre di fronte a me, perché il sottotesto di ciò che voleva dire mia sorella è chiaro: “non puoi parlare di padri perfetti visto che hai pensato di fare due figli con un padre come il nostro.”»
Il tono della sua voce si era fatto grave, e ostentava una gran sicurezza in ciò che diceva.
«È sempre la solita storia: ogni volta che qualcuno si avvicina all’argomento, loro due cercano di evitarlo in ogni modo possibile... solo che stasera è successa una cosa che non mi sarei mai aspettata: Eva sembrava veramente sul punto di fregarsene e dire tutto, però poi la mamma ha mosso mari e monti pur di farla stare zitta, col risultato che Eva se l’è presa con me.»
«Una seratina tranquilla, insomma...» commentò il frontman dei Green Day con una sottile nota ironica della voce.
Gloria apprezzò quel tentativo di sdrammatizzare la situazione e rispose a tono: «Beh, vedi tu...»
Incrociò le gambe e poggiò il gomito su di esse, per poi nascondere il viso nel palmo della sua mano. Un sospiro profondo e silenzioso fuoriuscì dalle sue labbra.
«A quel punto gli ho urlato contro una marea di cattiverie: gli ho detto che non capiscono niente, che sono anni che io cerco di capire perché diavolo ci troviamo in questa situazione del cazzo, che loro non ci provano neanche, a mettersi nei miei panni, e che sono stufa di essere protetta da tutto e tutti.»
Deglutì a fatica, mandando giù il nodo che avvertiva in gola.
«Ti giuro che... non so che mi è preso. Non sono riuscita a stare zitta, e non mi sono resa conto di quello che stavo dicendo finché non me ne sono andata da tavola... so solo che non mi ero mai sentita così bene in vita mia. È stato... un senso di liberazione troppo grande, come aver tolto un peso dal cuore...» sospirò silenziosamente facendo una breve pausa per poi aggiungere, con voce mesta: «… almeno fino a poco fa.»
«E adesso no?»
Lei si torturò il labbro inferiore con i denti, scuotendo la testa anche se lui non poteva vederla.
«Adesso... penso alle facce che avevano mentre gli dicevo quelle cose... e penso che forse ho esagerato un po’ troppo...» il suo tono di voce si fece improvvisamente più basso, un lieve singhiozzo le sconvolse il respiro. «e mi sento un po’ una merda, ecco.»
«Pensi che ci siano rimaste male?»
Lei gli raccontò dell’espressione di sua madre, scioccata e sconvolta, e di quella di sua sorella, all’apparenza severa e impassibile, ma allo stesso tempo tradita dal suo sguardo trasparente che piangeva lacrime asciutte e invisibili.
«Con il senno di poi, forse avrei potuto trovare un modo un po’ meno... cattivo. In fondo lo so che tutta questa storia fa male anche a loro, specialmente a Eva. Non avevo il diritto di rivolgermi a loro in quel modo.»
«Però avevi il diritto di sapere...» si lasciò sfuggire Billie Joe Armstrong senza riflettere, maledicendosi mentalmente un attimo dopo aver pronunciato quelle parole.
Gloria sembrò improvvisamente risvegliarsi da quello stato di shock.
«Che vuoi dire?»
Il chitarrista si prese pochi secondi di silenzio per riflettere su quale fosse la risposta migliore da darle. Sapeva che aveva sbagliato a sbilanciarsi in quella maniera. Quella ragazza non gli aveva chiesto un suo parere, aveva semplicemente avuto bisogno di sfogarsi. Non avrebbe dovuto permettersi di commentare quella faccenda come se riguardasse da vicino anche lui.
«Io non voglio assolutamente mettermi in mezzo...» mise in chiaro immediatamente, prima di proseguire con la sua spiegazione. «ma... da come la vedo io, tua sorella ha tutto il diritto di non parlarti di ciò che è successo, se non se la sente. Allo stesso tempo, però, anche tu hai il diritto di sapere.»
Le spiegò che tutta quella storia assomigliava a una sorta di crudele e bizzarro gioco della torre, nel quale una delle due, per regolamento, era inevitabilmente destinata a cadere di sotto.
«Ognuna di voi ha il diritto di far valere le proprie ragioni ma, se mi permetti, per quanto tua sorella possa aver sofferto o possa continuare a soffrire, il tuo desiderio di avere una risposta alle tue domande mi sembra leggermente più giustificato di quello che ha lei di tenere tutto per sé. In fondo, quando lei se ne è andata di casa non l’ha fatto da sola, ma ti ha portata con sé, e questo mi sembra già un valido motivo per farsi delle domande e pretendere delle risposte.»
«Wow…» mormorò lei. A Billie Joe parve di sentire una lievissimo accenno di risata. «Non avrei mai saputo dirlo meglio di così.»  
Lui sorrise sollevato nel notare che lei aveva accettato quella sua opinione  senza rimproverargli di essersi messo in mezzo.
«E non sentirti troppo in colpa per essere stata così dura con loro. Sì, probabilmente  non se l’aspettavano, forse ci sono rimaste male, però sono convinto che capiranno.»
«Lo spero...» disse lei a bassa voce. «Grazie.»
Billie Joe Armstrong fu contento di sentirla più fiduciosa. Accettò il suo ringraziamento e le rivelò di essere felice di esserle stata di aiuto, confessandole anche che, secondo lui, l’aver deciso di non tenersi più tutto quanto dentro era stato un bene, per lei, perché era la prova che stesse reagendo, che non fosse più disposta ad essere tagliata fuori da quella storia e a starsene zitta in un angolo, ad aspettare passivamente di capire qualcosa da sola.
«Dici davvero?» domandò allora lei, non aspettandosi affatto un discorso simile.
«Certo.» rispose lui con ovvietà. «Lottare per qualcosa che ci sta a cuore è sempre un bene, e alla tua età lo è ancora di più.»
La ragazza rifletté in silenzio su quelle parole prima di sospirare e annunciare, con un briciolo di convinzione in più: «Va bene, mi fido.»
Lui accennò un sorriso soddisfatto.
«Che ne dici se uno di questi giorni passassi al bar a trovarti?» azzardò impulsivamente.
Gloria rimase spiazzata per una manciata di secondi, prima di rispondere con voce scherzosa:
«Ti piace proprio tanto quel bar, eh? Sei diventato un cliente affezionato, ormai.»
Il leader dei Green Day rise della battuta, ritrovandosi a pensare per l’ennesima volta a quanto piacevole fosse, nonostante la sua semplicità, parlare con quella ragazza. Era una boccata d’aria fresca, pulita e frizzante, una di quelle che fanno sentire immediatamente svegli e attivi anche al mattino presto.
«Sai, la barista fa un buon caffè.»
Lei non riuscì a trattenere un sorriso, e ben presto questo si trasformò in una lieve risata.
«Già, ne ho sentito parlare.» ribatté lei. «E, comunque, puoi tornare quando vuoi. Mi fa piacere se passi a trovarmi.»
Billie Joe sorrise rilassato, poggiando la schiena contro un muretto. Voltando la testa verso l’entrata del Gilman notò immediatamente Mike e Trè Cool farsi largo fuori dal locale. Cercò di immaginare da quanto tempo fosse lì fuori a parlare al telefono. Probabilmente da parecchio, concluse, visto che i suoi amici si erano presi la briga di uscire fuori a cercarlo.
«Gloria scusami, ma devo proprio lasciarti, ora…» pronunciò quelle parole con voce malferma, come un bambino che viene sorpreso dai genitori a fare qualcosa che gli era stato vietato.
«Sì, certo, capisco. Mi spiace di averti fatto perdere tempo ma... grazie davvero, per tutto. Sei un amico.» mormorò lei con voce dolce, profondamente grata per il suo aiuto e la sua disponibilità.
«Stammi bene, ok?»
«Ci proverò.»
«Ci vediamo presto, allora. Buona notte, Gloria.»
Gloria sorrise tranquilla.

Quando Billie Joe Armstrong terminò la chiamata, Mike e Trè Cool erano ormai a poco più di due passi da lui. 
«Ecco dov’eri.» trillò la voce del suo batterista. «Ti abbiamo aspettato per un’ora intera, ma visto che Jesus Christ non si decide ad andare alla montagna...»
Il fiato del suo amico puzzava di alcol, segno che durante la sua assenza si era concesso più di un paio di bicchierini.
«Veramente sono qui da mezz’ora...» precisò. «E comunque era Maometto
«Al telefono?»
Mike soffocò una risata.
«Certo, chi altri, sennò?» lo assecondò dando lui una pacca amichevole sulla spalla.
«Va tutto bene?» domandò poi al suo amico chitarrista indicando con lo sguardo il telefonino che teneva ancora in mano.
«Umh?» Billie Joe seguì lo sguardo del bassista. «Oh. Sì, tutto bene.»
«Con chi stavi parlando per tutto questo tempo?»
Per un istante a Mike parve di cogliere un lampo di esitazione negli occhi e sulle labbra dell’amico.
«Con Adrienne.»
«Con Adrienne?» ripeté l’altro aggrottando la fronte.
Il frontman dei Green Day annuì con il capo, con una strana espressione che non convinse il suo interlocutore, che rimase in silenzio per diversi istanti, mordendosi il labbro inferiore con aria pensierosa prima di puntare un dito verso il cellulare del suo amico e domandargli che ora fosse.
«È quasi l’una.» rispose Billie Joe distrattamente, non rendendosi ancora conto di aver dato inizio, senza volerlo, a un tunnel di pensieri e riflessioni e piccoli pezzi di puzzle che già avevano cominciato a disporsi ordinatamente, uno affianco all’altro, smascherando la sua menzogna. Mike Dirnt prese tra le mani quelle tesserine, girandole e rigirandole tra le dita, osservandole con grande cura e attenzione, facendo scorrere la punta dell’indice lungo i loro bordi in modo da conoscerne la forma alla perfezione per poi passare a incastrarle tra loro, e ogni tassello che riusciva ad unire agli altri contribuiva a portare avanti il disegno, a riempirlo dei particolari, di quei dettagli solo apparentemente insignificanti, che nascondevano al loro interno, in realtà, tutta la chiave di lettura dell’immagine.
Billie Joe odia stare al telefono.
Come mai, allora, c’è rimasto per tutto questo tempo, all’una di notte, tra l’altro?
Forse Adrienne aveva qualcosa di importante da dirgli.
Dopotutto sono passate quasi due settimane, da quando è partita.
Che male c’è?
Non ci riusciva: Mike Dirnt non riusciva a completare quel puzzle. Sentiva di essere vicino a qualcosa di importante, c’era una nota stonata, in tutta quella faccenda, un particolare talmente rilevante da poter scoprire le carte in tavola, ma allo stesso tempo così sottile che la sua mente, le sue dita, non riuscivano a catturarlo. Quell’ultima tesserina mancante era il codice di cui aveva bisogno per decifrare l’intero quadro, nascondeva dentro di sé tutta la verità che egli, da solo, stava cercando di trovare.
Poi improvvisamente l’ultima tesserina saltò fuori.
Senza minimamente rendersi conto di quanto importante fosse quella domanda, Trè Cool chiese a Billie Joe se, lì nel Minnesota, Adrienne e i suoi figli se la stessero passando bene, e fu allora che Mike la prese, la prese al volo. Strinse tra le dita il cartoncino colorato senza esitazioni, rapido subito dopo averlo visto uscire dalle labbra inconsapevoli del suo amico batterista.
Eccola, la chiave di volta. Ecco qual era la nota stonata.
Era il Minnesota, il particolare che non quadrava. Nient’altro che il Minnesota.  
Billie Joe Armstrong rispose con sicurezza che, sì, stavano tutti bene e mandavano i loro saluti.
Il bassista fece due rapidi calcoli mentali e nell’udire la risposta del suo amico non riuscì a trattenere un sorriso deluso, amaro, mentre scuoteva lentamente la testa.
«C’è qualcosa che non va?»
Mike assunse nuovamente un’espressione seria e si strinse nelle spalle arricciando le labbra.
«No.» rispose con semplicità. «Mi stavo soltanto domandando una cosa...»
«Che cosa?» domandò allora Billie Joe, accigliato.
L’altro ripeté il movimento delle spalle e rispose con voce solo apparentemente innocua: «Niente di importante. Mi chiedevo solo: se qui è quasi l’una...» si concesse un breve istante di pausa in cui scrutò a fondo lo sguardo del suo amico.
«Che ci faceva Adrienne ancora sveglia alle tre di notte?»

«Posso entrare?»
Una voce dolce, accompagnata da un leggero bussare contro la porta.
Dall’altra parte solo silenzio.
«Gloria, per favore, posso entrare?»
Un attimo di esitazione.
«Va bene.»
Eva aprì la porta della stanza di sua sorella, rimanendo ferma sullo stipite a osservare Gloria seduta a gambe incrociate sul suo letto con un cuscino premuto forte contro la pancia e il petto.
«Sono andati via?»
«Sì. La mamma avrebbe voluto salutarti, ma le ho detto che forse era meglio di no... e che le telefonerai poi tu quando te la sentirai.»
«Grazie» miagolò Gloria a bassa voce fregandosi il volto con la mano destra.
Eva si avvicinò al letto mettendosi seduta accanto alla sorella. Per un istante nessuna delle due ebbe il coraggio di parlare all’altra. Uno sciame di pensieri e parole ronzava di qua e di là tra i loro sguardi che sembravano aver paura di incontrarsi. Nel silenzio che si era creato, Gloria strinse più forte il cuscino contro il petto, e per un momento Eva desiderò di potercisi intrufolare  dentro, di farsi piccola e soffice e bianca come l’ovatta che lo riempiva ed essere stretta forte dalle braccia di sua sorella per lasciarsi abbracciare, coccolare, proteggere. Desiderò raccogliere tutte le sue lacrime e assorbirle dentro di sé come una grande spugna, così lei non ne avrebbe avuta più neanche una da versare.
«Mi dispiace per aver detto quelle cose.»
La voce di Gloria era quella di una bambina, i suoi occhi erano rossi e gonfi di lacrime, di quelle che aveva già pianto e di quelle che aveva represso.
«Davvero, non avrei dovuto dirle in quel modo
«Non importa» mormorò Eva alzando lo sguardo verso la sorella. «Avevi tutte le ragioni del mondo, sono io a doverti delle scuse.» Una sottile goccia salata sfuggì al controllo dei suoi occhi e venne rapidamente asciugata con un gesto secco della mano.
Un grosso senso di vertigine si impadronì di Gloria. In tanti anni che avevano vissuto fianco a fianco, come madre e figlia, non aveva mai visto sua sorella piangere per lei, e il pensiero di vederle versare quelle lacrime per causa sua le faceva venire voglia di librarsi nell’aria come per magia e volare e volare e fuggire via, sparire per sempre dalla sua vita e dal suo passato, e restituirle tutto ciò a cui aveva rinunciato per prendersi cura di lei.
«Eva...» tentò di dire Gloria, ma la sorella la interruppe prima che potesse terminare la frase.
«Io non ho il diritto di decidere per te, e non posso impedirti di capire cosa ha portato a tutto questo. Avevi ragione tu: non sei più una bambina.»
Lentamente sollevò una mano e lasciò che si modellasse sulla superficie liscia e umida della guancia di Gloria in una morbida carezza.
«Sei una donna.»
Le labbra le si curvarono impercettibilmente in un sorriso carico di emozione, ma i suoi occhi si sforzavano di trattenere altre lacrime.
«E come tutte le donne devi essere libera di scoprire il mondo, anche se fa male, a volte.»
Un singulto le strozzò il respiro per un istante.
«Ecco, da oggi non ci sarò più io a coprirti le spalle. L’unica cosa che potrò fare, se vorrai, sarà aiutarti a disinfettare le ferite quando ti scotterai, perché voglio che tu sappia che è nel fuoco, che stai per lanciarti.»
Quelle parole pesavano come piombo nella mente di Gloria, ma ancor di più pesavano nella gola di Eva, tra le corde vocali.
«Vuoi dire che mi dirai tutto? Tutto quello che tu e la mamma avete cercato di nascondermi in tutti questi anni e che ci ha portate a vivere qui, lontane da casa, e che ha portato te a odiare nostro padre?»
Gli occhi di Eva scavarono dentro quelli di Gloria in cerca di un appiglio, un sostegno, un gancio, un qualcosa che potesse aiutarla a tornare indietro, a far finta di niente come aveva sempre fatto fino ad allora, ma non trovò niente di tutto questo. Tutto quello che vide fu ghiaccio, pronto a sciogliersi da un momento all’altro.
«Sì.»
Un lungo respiro soffiò via dalle labbra di Gloria.
Erano anni che vagava tra le fibre di quel segreto che aveva diviso la sua famiglia, per anni vi aveva girato in tondo cercandone disperatamente il nucleo, il cuore, il nocciolo. A occhi chiusi, a tastoni, senza sosta, senza mai riuscire a trovarlo, senza mai arrivare a sbatterci contro così come la Terra fa il suo giro da miliardi di anni senza mai avvicinarsi, nemmeno di poco, al Sole. Aveva cercato per anni, avvolta nel buio, di intravederne la luce, di avvertire il suo calore sulla pelle. Ora quella luce le brillava davanti alla faccia, ed era così forte che quasi le feriva gli occhi: una fiamma accesa che poteva fortificarla o fare di lei un misero mucchietto di cenere, polvere di sé che Gloria immaginò di far volare via con un altro, ennesimo respiro, forse l’ultimo che quel fuoco spaventoso le avrebbe concesso.
«Farà male, vero?»
Gli occhi di Eva continuavano a studiarla attentamente.
Cosa avrebbe dovuto fare, adesso?
Mentirle ancora?
Rassicurarla?
No, l’aveva giurato a se stessa e a Gloria: niente più bugie.
Lasciare che cadesse era l’unico modo perché imparasse a volare.
«Sì» ammise dopo un istante di esitazione. «ma riuscirai a superare ogni cosa. Tu sei molto più forte di me.»
Gloria abbassò lo sguardo, sentendo mille morbide lingue di fuoco sfiorarle le guance.  Un tremito la scosse leggermente, e per la prima volta si chiese se fosse veramente quello, ciò che voleva. Sapeva che una volta saputo tutto ciò che riguardava il suo passato niente sarebbe più stato come prima, sapeva che avrebbe pianto, che avrebbe sofferto, che probabilmente avrebbe iniziato ad affrontare la vita con rabbia e cinismo, eppure il desiderio di sapere era più forte. Aveva già deciso, non sarebbe più rimasta relegata in un angolo a far finta di niente.
No, non aveva paura.
«Ok.» mormorò piano osservando le pieghe delle lenzuola.
Qualsiasi cosa avesse avuto sua sorella da raccontarle, l’avrebbe affrontata senza chinare la testa. Fu questo che promise a se stessa mentre, con una forza che non credeva di avere, alzò nuovamente lo sguardo, piantandolo dritto negli occhi di Eva.
«Sono pronta.»
 
[Continua]

Capitolo revisionato l’08-04-12

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Capitolo 14
*** Oceani di parole e pensieri che sanno di sale ***


Oceani di parole e pensieri che sanno di sale

 
Quando finalmente Gloria riuscì a prendere sonno, un’orgia di pensieri e ricordi e parole mai dette le ronzavano ancora nel cervello come centinaia di tarli messi lì a rosicchiare e scavare nella sua materia grigia, graffiando con forza quegli anfratti della sua mente in cui il pensiero di quella verità che le era stata nascosta le faceva stringere i denti dal dolore e desiderare di non essere mai nata.
Persa nell’incoscienza dell’essersi addormentata, un incubo terrificante la trascinò via dal suo letto per condurla in uno spazio spaventoso, immensamente grande, dove pieno e vuoto si mescolavano, dove i suoi occhi non vedevano altro che cielo e mare, e anch’essi parevano mescolarsi e unirsi in quella linea scura e sottile che lì divideva laggiù, lontana, troppo lontana, irraggiungibile.
L’oceano immenso era scuro e gelido, le inzuppava il vestito rendendolo improvvisamente stretto, e il suo peso le premeva forte sul petto rendendole difficile respirare. Le correnti marine le avvolgevano le gambe nude come un alito ghiacciato; il cielo grigio che gravava sopra di lei annunciava una tempesta imminente.
Il tempo di battere le ciglia e improvvisamente una, due, tre gocce le caddero sul viso, un ticchettio insistente si alzò intorno a lei; piccole gocce di pioggia sfidavano un oceano.
Gloria alzò lo sguardo, i suoi occhi erano quelli di un gattino spaurito mentre osservava caderle addosso quei minuscoli pezzi di cielo; i capelli erano diventati un lenzuolo scuro lungo il collo e la schiena, sudore e lacrime si confondevano, sul suo viso, con la pioggia. Non capiva né dove diavolo si trovasse né come vi fosse giunta, ma sentiva di non poter restare lì un secondo di più. C’era qualcosa, in quel posto, di tremendamente inquietante, spaventoso, come avere la consapevolezza di essere osservata, di essere studiata con attenzione in ogni sua singola mossa, di essere minuscola e indifesa come un insetto in un contenitore pieno d’acqua tra le mani di un ragazzino che si diverte a vedere affogare la creatura.
«C’è qualcuno che mi sente?» tentò di gridare con tutte le forze che aveva, ma un lamento soffocato fu l’unico suono che uscì dalle sue labbra. I suoi pensieri gridavano parole che non riusciva a pronunciare, un nodo alla gola impediva loro di uscire, le ricacciava dentro tutte quante, inesorabile, potente.
Si accorse con orrore che, allo stesso modo in cui le parole non riuscivano più a uscire fuori, anche l’aria iniziava ad arrivare ai suoi polmoni in quantità via via sempre minori, sempre più rarefatta, come se in quei pochi secondi che aveva trascorso in quel luogo avesse respirato e esaurito tutte le riserve d’aria disponibili. Come un pesce fuori dall’acqua boccheggiò disperatamente nel tentativo di ritrovare il respiro, di catturare ogni singola molecola di ossigeno che ancora fosse presente nell’atmosfera. Stava soffocando, ma quel sottilissimo filo d’aria che riuscì a respirare, apparentemente l’ultimo rimasto, sembrava non essere sufficiente a riempirle i polmoni.
Solo distrattamente avvertì un guizzo improvviso muoversi tra le gambe, e subito qualcosa di inconsistente, eppure dalla stretta così salda da risultare quasi dolorosa, la afferrò per le caviglie, trascinandola con forza sotto il pelo dell’acqua e poi via, sempre più giù.
Il grido che riuscì a cacciare fuori un istante prima di finire sott’acqua fu qualcosa di straziante, che risuonò nel vuoto con un’eco mostruosa, lacerante, terribile. Fu come essere trafitta da decine di lame gelate, i muscoli le si irrigidivano man mano mentre cercava con tutta se stessa di liberarsi da quelle mani invisibili che la tenevano stretta. Sentiva l’acqua arrivarle fin dentro i polmoni, il sale le ustionava la gola, gli occhi bruciavano di dolore. Attorno a sé non riusciva a vedere altro che macchie, macchie colorate dai contorni indistinti che si confondevano tra loro fino a sembrare di un solo, unico colore che Gloria non avrebbe saputo descrivere.
L’acqua era diventata densa e viscosa come olio, le sue braccia si muovevano appesantite dentro quel liquido appiccicoso e gelido, le gambe erano intrappolate in una morsa intangibile, immateriale, che  non accennava a lasciarla, che la faceva urlare e bere e tossire e poi bere ancora, in un circolo vizioso che sembrava non lasciarle scampo.
Un fischio indistinto le fece male alle orecchie, le penetrò la testa dritto fino al cervello, provocandole un improvviso e fortissimo dolore alle tempie.
Confusamente riuscì a cogliere una voce, due voci, tre voci, e poi ancora un’altra e un’altra e un’altra ancora, come se centinaia e centinaia di entità invisibili, disciolte nell’acqua come cristalli di sale, si fossero manifestate tutte allo stesso istante, contemporaneamente, emettendo suoni confusi, rumori farraginosi di parole incomprensibili. Le sentiva nelle orecchie, quelle voci, come se tutte quante provenissero dal suo interno, e gridavano, gridavano, gridavano forte. Era un bisbigliare continuo, assordante, un’accozzaglia di voci diverse, di parole sussurrate, gridate, singhiozzate. Avrebbe voluto essere in grado di ignorarle, Gloria, avrebbe voluto fingere che fossero solo frutto della sua immaginazione, un rimbombo cupo nel cervello dovuto all’acqua che le era entrata nelle orecchie, ma quelle voci gridavano troppo forte per far finta di niente, le sentiva, stavano parlando con lei, stavano cercando di dirle qualcosa. Non capiva cosa con esattezza, ma sapeva che, di qualsiasi cosa si trattasse, quel qualcosa avrebbe potuto farla tornare in superficie a respirare o farla annegare definitivamente.
«Cosa dite?» tentò di gridare riempiendosi la bocca d’acqua. Ingoiò e tossì e sentì la lingua pizzicarle come non mai, un bruciore che partiva dalla gola e le arrivava fin dentro il naso, facendole provare il desiderio di starnutire.
«Cosa diteeeee?» urlò di nuovo, con più forza. E urlò ancora e ancora, con le mani intorno alla gola che, se avessero potuto, avrebbero strappato via la pelle del collo per massaggiare e lenire la laringe, che sentiva ora come in fiamme, ogni istante più intensamente.
Poi una voce sommessa, una sola, singhiozzante, le riempì le orecchie.
E la chiamò per nome.
«Gloria.»
Lei dilatò le pupille, mille gocce acuminate le ferirono gli occhi.
«Gloria, aiutami, non riesco a capire.»
Era reale, la sentiva, era la voce di una bambina, ed era lì, era lì vicino.
«Che succede adesso? Ti prego, Gloria, ho paura...» un singhiozzo, poi un altro, un altro e un altro ancora. «Ho paura.»
Gloria cercò di dimenarsi, di guardarsi intorno: cercava quella ragazzina, forse anche lei era stata risucchiata fin laggiù, ma i suoi occhi non vedevano altro che ombre.
Ho paura anch’io... pensò mentre il pianto, il lamento di quella creatura strillava ancora così forte nelle sue orecchie.
«Taci, ragazzina!»
Un’altra voce si manifestò improvvisamente, potente, arrabbiata, aggressiva, severa, dura, facendola trasalire.
«Smettila di piangere, non serve a niente, adesso. Sei tu che l’hai voluto, sei tu che hai insistito, maledetta, tu! Cosa credevi, di essere grande abbastanza per sopportare tutto questo? Ti avevano avvertito: avresti dovuto farti gli affaracci tuoi. Sei solo una stupida ragazzina, ecco cosa sei. Perché devo portarlo io, adesso, questo fardello? Eh?»
La bambina riprese a singhiozzare, Gloria tremò di paura.
Quella voce non stava parlando alla piccola, si stava rivolgendo a lei, stava dando a lei la colpa, la stava accusando.
Ma perché le stava dicendo questo? Chi era quella donna? Perché era così dura con lei?
E chi era quella bambina? Cosa ci facevano lì sotto?
Cosa ci faceva lei, lì sotto?
«Non ti preoccupare, Gloria, non la ascoltare. Ce la farai.» parlò improvvisamente una terza entità. Quest’ultima aveva una voce solidale, amichevole. «Io lo so che ce la farai, ci sono io qui con te. La supereremo insieme
«La supereremo.» Un’esortazione, un aiuto, una mano tesa verso di lei.
«Piantala di dire stronzate» la rimproverò la voce di prima. «Non ce la farai mai. Hai voluto volare troppo in alto, piccola idiota, ma sei caduta. Game over, Gloria. Te la sei cercata: non riuscirai ad uscirne.»
La bambina ricominciò a disperarsi.
Gloria era esausta, aveva freddo, violenti spasmi le attraversavano il corpo, i polmoni cercavano aria, da troppo tempo aveva smesso di respirare. Inconsciamente si domandò perché ancora non fosse morta, perché continuasse ad essere ancora così terribilmente cosciente di quello che stava succedendo attorno e dentro di lei.
«Devi salvarti, Gloria, devi andare via da qui. Non ti arrendere, ti prego.»
«Non pensarci nemmeno, ragazzina, tu non ti muovi da qui. Sarà tutto finito, tra poco, e questo peso sparirà per sempre, una volta per tutte.»
Non riusciva a capire, era confusa, Gloria: quelle voci parlavano tra di loro ma, nello stesso tempo, sembrava che si stessero rivolgendo a lei, proprio a lei: una le chiedeva aiuto, un’altra cercava di farla cedere, un’altra ancora la esortava a resistere. Parlavano, parlavano, parlavano senza sosta, ognuna cercava di imporsi e di sovrastare l’altra, tranne la bambina, che continuava a singhiozzare e a piangere disperatamente.
«Dov’è la mia mamma? Gloria, ho paura. Dov’è Eva? Voglio Eva...»
«Gloria, smettila di frignare, accidenti: è tutta tua la colpa. Smettila!»
«Non le dare retta, Gloria, non aver paura. Ci sono io...»
«Eva...»
La ragazza avvertì una stretta al cuore, la sensazione di cadere nel vuoto, di sgretolarsi all’istante.
Non l’aveva capito.
Non l’aveva ancora capito.
Per un attimo, un attimo solo, aveva avuto la sensazione -la speranza- di avere qualcuno, lì sotto, a cui aggrapparsi per capire cosa fare, ma nell’udire quella bambina singhiozzare il nome di sua sorella, una triste consapevolezza l’aveva colpita improvvisamente: era sola, in quel posto infernale, non c’era nessuno lì con lei che potesse aiutarla. Nonostante tutte quelle voci che le urlavano nelle orecchie, non c’era nessun altro su cui potesse contare, non c’era nessuno che piangeva, nessuno che fosse arrabbiato con lei, nessuno che le desse aiuto. Doveva aggrapparsi all’unica cosa che avesse lì sotto, se stessa, affidarsi alle sue sole forze, perché quelle voci che sentiva facevano tutte parte di lei, quelle voce erano parte di lei, era da lei che provenivano, dalla sua più profonda interiorità. Le sentiva come tanti piccoli riflessi di se stessa, come essersi improvvisamente scissa in più parti, in tanti minuscoli pezzettini, ognuno dei quali possedeva un frammento di lei, della sua persona. Ecco cos’erano tutte quelle voci: erano uno specchio, lo specchio della sua anima, la manifestazione più grande e concreta di tutto ciò che aveva dentro.
La ragazzina che piangeva era la Gloria fragile, obbediente, remissiva. Era la Gloria bambina, la Gloria dei primi anni a Berkeley, la Gloria che doveva essere cresciuta, che non riusciva a capire, che sentiva la mancanza di casa, che si sentiva protetta solo accanto a Eva.
Ma Gloria aveva molto di più dentro di sé: andando avanti con gli anni, alla bambina piccola e indifesa era subentrata l’adolescente problematica e scontrosa, improvvisamente disorientata in un mondo che non riusciva a inquadrare più con gli occhi meravigliati di una bambina, né ancora con quelli maturi di un’adulta. Era una Gloria difficile da gestire, quella: taciturna, solitaria, introversa, spesso scontrosa, costantemente in bilico tra quiete e tempesta.
La parte più matura e adulta di Gloria, invece, si manifestava nella terza voce. Era una Gloria tutta nuova, la più giovane che fosse entrata a far parte della sua personalità, era la Gloria che, non più schiava degli sconvolgimenti adolescenziali, aveva imparato ad apprezzare anche le più piccole cose che la vita aveva da offrirle, e che non aveva più intenzione di perdere nemmeno un altro attimo della sua esistenza a litigare con il mondo. Quella era la Gloria che la gente apprezzava, la Gloria forte, coraggiosa, combattiva. Era quella parte di sé che non si sarebbe mai arresa di fronte agli ostacoli, che l’avrebbe sempre sostenuta nei momenti difficili. Era la Gloria che tante volte le aveva impedito di cadere.
A chi avrebbe dovuto dare retta, dunque?
Sarebbe stato facile alzare le mani e aspettare che qualcuno venisse a salvarla ancora, lasciarsi proteggere, fidarsi di qualcun altro e lasciare che questi scegliesse per lei, ma altrettanto facile sarebbe stato mollare definitivamente la presa, arrendersi, lasciarsi morire una volta per tutte, darla vinta al mondo intero senza fregarsene minimamente, tanto non importa sapere chi ha vinto quando il prezzo da pagare è la morte. Avrebbe potuto cercare di salvarsi, stringere i denti e impegnarsi per uscire da lì, ma per ogni ragione che trovava per sopravvivere, se ne aggiungeva irrimediabilmente un’altra per rimanere lì ed annegare.
Qual era la cosa migliore da fare? Salvarsi e affrontare a denti stretti tutte le sofferenze che la vita le avrebbe messo davanti, o cadere nel sonno eterno e non sentire più nulla, perdere tutto, le cose brutte come quelle belle?
E mentre era lì, sola, sfiancata, sospesa tra il desiderio di vivere e quello di morire, le tre parti di lei continuavano a litigare tra loro, gridavano così forte che Gloria stessa faticava a trovare un briciolo di lucidità, sconvolta com’era dalle parole che quelle entità si rivolgevano tra loro e, allo stesso tempo, rivolgevano a lei stessa.
«Dove sei, Eva?»
«Esci subito da qui.»
«Ti farai solo del male, è questo che vuoi?»
«Pensa a tutto ciò che ti perderai.»
«Pensa a tutto ciò che dovrai sopportare.»
«Voglio la mia mamma, dov’è la mia mamma?»
«Piantala, accidenti, sta zitta!»
«Mamma...»
«Reagisci, Gloria. Reagisci!»
«Vi prego, basta...» un rantolo soffocato, una supplica, una preghiera.
Questa volta era stata lei a parlare. Ma le voci sembravano non starla a sentire: la bambina continuava a piangere sempre più spaventata, le altre due continuavano a discutere in un estremo tentativo di salvarla o schiacciarla. Non capiva più nemmeno cosa si stessero dicendo, le tre voci iniziarono a confondersi in un fischio acutissimo che le trapassò il cervello da parte a parte. Disperatamente si tappò forte le orecchie -il dolore era così forte e pungente che ebbe l’impressione di sanguinare- e gridò, gridò, gridò con tutta la forza che le rimaneva per zittire le voci.

A milioni di universi di distanza anche Gloria, la vera Gloria, stava male.
Rannicchiata stretta tra le lenzuola, sentiva l’aria mancarle dai polmoni, muoveva le gambe in maniera frenetica come un uomo sott’acqua che tenta disperatamente di tornare in superficie, una patina di sudore le imperlava la fronte. Il petto si alzava e riabbassava spasmodicamente in un respiro affannato, irregolare.
Si svegliò di soprassalto con gli occhi che bruciavano e la gola secca, sentendo ancora il sapore del sale tra i denti, il cuore che le batteva fortissimo nel petto, una grande sete di aria. Un improvviso senso di vuoto dilagò nel suo stomaco mentre, rimanendo immobile, seduta tra le lenzuola sfatte, a fissare le ombre della sua stanza senza vederle realmente, e respirando finalmente tutta l’aria che riusciva a catturare, rifletteva su quello che le era appena accaduto. Era salva, era uscita da quell’incubo, ma era stato davvero un bene, per lei? Uscendo fuori da quell’oceano si era veramente salvata? Affondò la testa nel cuscino e pianse, pianse in silenzio fino a che non si fece giorno.

[Continua]

Capitolo revisionato il 09-04-12

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Capitolo 15
*** Il coraggio di rialzarsi da sola ***


Il coraggio di rialzarsi da sola

 
Dopo quella sera -la sera in cui aveva finalmente scoperto tutta la verità sul suo passato- il comportamento di Gloria mutò a vista d’occhio nel giro di pochissime ore, rapido e incontrollabile come la furia di un tornado.
I sentori di questo cambiamento avevano vibrato nella coscienza di Eva sin dall’inizio, quando  il volto di sua sorella era diventato scuro, spento, e aveva iniziato a emanare una coltre di malinconia che, in poco tempo, aveva ricoperto di grigio l’intera casa.
Non l’aveva vista piangere affatto nel mentre della sua rivelazione, quando era venuta a sapere ogni cosa riguardo quella triste faccenda: i suoi occhi erano diventati opachi, ma nessuna lacrima si era versata da essi. Non aveva parlato, neanche per porgere delle domande. Aveva lasciato che sua sorella le raccontasse la sua storia -la loro storia-,  senza mai interromperla, rimanendo semplicemente in silenzio ad ascoltare. Di tanto in tanto l’aveva vista abbassare lo sguardo e fissare silenziosamente le pieghe delle lenzuola, e ogni volta che l’aveva risollevato i suoi occhi tradivano una delusione profonda, dolorosa, inaspettata. Era uno sguardo glaciale, quello, un fascio di luce fredda, affilato come una lama, ed Eva non si era mai resa conto prima di allora né di quanti sentimenti, quante sensazioni si potessero comunicare senza mai aprir bocca, solo con la forza di uno sguardo, né di quanto potenti potessero essere.
Totalmente smarrita in mezzo alle onde burrascose del suo passato, tornato in superficie con una furia così grande, Gloria non aveva parlato neppure quando, dopo quasi un’ora di parole e voce e mani che tremavano, Eva era finalmente giunta all’epilogo di quella faccenda e, con il capo abbassato, aveva messo fine a quell’infelice storia. Le sue labbra erano inespressive, serrate, i suoi lineamenti severi, ma si era sporta verso sua sorella, e l’aveva abbracciata. Si era stretta a lei per un istante interminabile, aveva lasciato che affondasse il viso lì, tra la spalla e il collo, e le aveva accarezzato i capelli biondi. Erano rimaste così, aggrappate l’una all’altra in mezzo a tanti ricordi, fino a che Gloria non si era staccata, lentamente, e le aveva posato un bacio sulla guancia. Un bacio morbido, delicato e appena percettibile come il battito d’ali di una farfalla. I suoi occhi avevano un universo intero dentro di loro: Eva poté giurare di averci letto gratitudine, tristezza, delusione, rabbia, smarrimento e sensi di colpa in una volta sola.
«Grazie» le aveva sussurrato con una debolezza tale che Eva temette di vederla dissolversi davanti ai suoi occhi da un momento all’altro in una candida nuvola di nebbia. «Grazie di tutto.»
Non aveva detto altro, quella sera, né aveva dato a sua sorella la possibilità di farlo.
«Ora se non ti dispiace vorrei solo mettermi a dormire, per favore» aveva aggiunto come una supplica, una richiesta.
Non dirmi altro, ti prego, lasciami dormire e basta, e magari fa in modo che io non mi svegli, se puoi, né domattina, né mai più.
Eva avrebbe voluto che si sfogasse con lei, ma poteva comprendere il suo smarrimento e la sua confusione, così aveva rispettato la sua richiesta e l’aveva lasciata sola. La notte era trascorsa per lei lenta a tormentata come non mai, sveglia com’era rimasta a rimuginare su quanto successo, a domandarsi se avesse potuto, in qualche modo, preservare sua sorella da tutto quel dolore ancora per un po’, a chiedersi se avesse usato le parole giuste per raccontarle ogni cosa, se ne esistessero per caso di migliori che avrebbe potuto usare per rendere tutto più facile, per fare apparire tutto quanto, ai suoi occhi, meno doloroso e triste di quanto realmente fosse stato. Il sole si era affacciato alla finestra della sua stanza senza che fosse riuscita a chiudere occhio nemmeno per un istante; era scesa a fare colazione e aveva trovato Gloria già in piedi in cucina che beveva il caffè, vestita e pettinata. Non le aveva chiesto cosa ci facesse già sveglia di domenica mattina: le sue occhiaie scure e i suoi occhi arrossati non necessitavano di spiegazione alcuna. Semplicemente le aveva sorriso, piuttosto. Un sorriso amichevole, comprensivo, unito a una dolce carezza sulla guancia.
«Io sono qui.», questo era il messaggio.
Gloria aveva piegato impercettibilmente gli angoli della bocca in un sorriso, e a voce bassa e rauca le aveva mormorato che sarebbe uscita a fare quattro passi; l’attimo dopo era già fuori di casa che correva avvolta in un paio di calzoncini di nylon, immersa nell’aria fresca e pungente dell’alba estiva.
Da quella mattina Eva l’aveva vista in casa sempre meno: la sentiva sgusciare fuori dal letto alle prime luci del mattino per andare a correre, e la vedeva tornare mezz’ora più tardi, affaticata e madida di sudore. Rimaneva in casa giusto il tempo necessario per fare una doccia e vestirsi, dopodiché filava dritta al lavoro. All’ora di pranzo era impossibile vedersi: Eva era di turno alla cucina dell’hotel, e piuttosto che perdere tempo sull’autobus, nell’attesa che percorresse tutte e quindici le fermate che separavano il bar dal ristorante, Gloria preferiva non allontanarsi troppo dalla zona, per cui spesso e volentieri si fermava a pranzare al locale, o si metteva d’accordo con qualche sua ex compagna di liceo per un giro al centro commerciale vicino. Quando poi tornava a casa, all’ora di cena, era sfuggente e taciturna, si limitava a rispondere alle domande di cortesia che sua sorella tentava di porle senza mai dilungarsi troppo nei particolari.
«Come è andata oggi al lavoro?»
«Come sempre, tutto ok.»
«C’è qualche novità interessante?»
«No, niente di nuovo.»
«L’insalata è un po’ troppo condita, non trovi?»
«No, è a posto così.»
Non osava proferire parola a meno che non fosse interpellata da sua sorella, e in ogni caso liquidava ogni suo tentativo di intavolare una conversazione semplicemente rispondendo a monosillabi a tutte le sue domande. Divorava la cena in fretta e furia, tenendo lo sguardo fisso sul piatto. Mangiava avidamente, come se avesse aspettato un tempo estremamente lungo prima di potersi finalmente beare di quel pasto, e una volta svuotato il piatto non si fermava più accanto a sua sorella a parlare e sistemare la cucina: si chiudeva in camera sua e ne usciva un’ora dopo, quando una decappottabile rossa fiammante suonava il clacson davanti alla porta di casa sua.
Eva la vedeva per la prima volta così, improvvisamente bellissima nei suoi diciannove anni non ancora compiuti mentre, con indosso un vestitino che, sapeva per certo, avrebbe catturato non pochi sguardi, la osservava salire in macchina delle sue amiche e sfrecciare via nella notte.
Rimaneva sola in casa, quelle sere in cui nemmeno Josh era con lei, e allora si metteva ai fornelli e preparava una quantità spropositata di dolci: ricette nuove, ricette vecchie, strani esperimenti culinari, e mentre mescolava, amalgamava, decorava, nella sua testa iniziavano a formularsi pensieri, riflessioni, considerazioni. Non badava più al cibo che aveva davanti in quel momento, si lasciava guidare dall’istinto e dai sensi, mentre le sua mente ripercorreva a ritroso tutta la sua vita, le tappe della sua intera esistenza, soffermandosi in particolar modo sul suo rapporto con le persone che amava. Pensava a quando era ragazza, a tutti i sogni a cui aveva dovuto rinunciare e a tutti i sogni che possedeva ancora, a più di dieci anni di distanza. Pensava al tipo di futuro che avrebbe desiderato vivere, e al modo in cui, alla fine, era finita per viverlo. Soprattutto, però, pensava al futuro che doveva arrivare, quello che aveva ancora davanti, che non aspettava altro che essere vissuto, e riflettendo su tutto ciò si rendeva conto che, tutto sommato, quel pezzo di vita che stava consumando tra quelle mura, insieme a Gloria, a Josh, al suo lavoro, in fondo non era poi così male. Finché con la sua mente non tornava al passato, e a tutti i progetti che aveva fatto e che poi aveva dovuto lasciare da parte per forza di cose, sentiva di essere contenta di quello che aveva, pienamente soddisfatta di ciò che era riuscita a costruirsi intorno. Ovviamente le capitava spesso di pensare a come sarebbe stata la sua vita se nulla di quella triste faccenda fosse accaduto, se avesse avuto l’opportunità di realizzare tutti i sogni che aveva: si sarebbe allontanata da casa per frequentare il college, probabilmente, e lì avrebbe fatto nuove amicizie, conosciuto qualche ragazzo, persone completamente diverse da quelle che si era trovata, invece, a frequentare. Sarebbe tornata a far visita alla sua famiglia nei fine settimana, avrebbe aggiornato i suoi su come stesse andando la sua vita da universitaria e avrebbe lanciato un’occhiata sorridente e distratta alla bambina che guardava i cartoni animati alla televisione. I dodici anni di differenza tra lei e Gloria si sarebbero fatti sentire in quelle occasioni, e la più piccola sarebbe cresciuta considerando sua sorella poco più che un’estranea, ma anche quando sarebbe diventata anch’ella una giovane donna, le cose non sarebbero affatto cambiate. Sarebbe stato troppo tardi, ormai, per cercare di allacciare un rapporto vero.
Finché studiava la sua vita da quel punto di vista, Eva era sinceramente felice di come erano andate le cose: aveva instaurato con sua sorella un rapporto fantastico, e col tempo era diventata, per lei, amica e confidente, aveva un fidanzato meraviglioso che la amava e la faceva sentire speciale e un lavoro che, per sua fortuna, si identificava con la sua più grande passione, passione che, forse, non avrebbe mai coltivato se le cose fossero andate diversamente.
Di cosa avrebbe dovuto lamentarsi, ormai? La sua adolescenza non era trascorsa nel migliore dei modi, ma doveva ammettere che quel pezzo di esistenza che stava vivendo in qualche modo riusciva a compensare tutti quegli anni di dolore e smarrimento.

Quando si perdeva in valanghe di riflessioni simili, Eva, lottando contro la stanchezza pur di aspettare sveglia il ritorno di sua sorella, finiva spesso per addormentarsi sul divano, ed era lì che, puntualmente, la trovava Gloria quando, verso le due di notte, rimetteva piede dentro casa, brilla e sudata dopo aver bevuto e ballato in qualche discopub.
Eva la vedeva, in quei giorni, improvvisamente dinamica, iperattiva, piena di energia. La vedeva concentrarsi davanti alla toeletta mentre si passava l’ombretto sugli occhi e applicava il rossetto sulle labbra, mentre fonava i capelli dando loro la giusta piega, mentre studiava scrupolosamente la sua immagine allo specchio dopo aver scelto cosa indossare. Sembrava aver trovato il modo di non pensare a quello che aveva saputo di sé, di lei, di loro, pensava Eva.
Sembrava stare bene, sembrava stare bene davvero, eppure quel sorriso che Gloria rivolgeva a sua sorella la mattina, quando le augurava il buongiorno prima di fuggire al lavoro, aveva una nota stonata al suo interno: era diverso dal solito, non assomigliava più affatto a quel sorriso sincero e allegro che tanto amava di lei, e neanche i suoi occhi erano gli stessi di sempre, improvvisamente così trasparenti da costringerla a distogliere lo sguardo davanti a ogni tentativo di approccio ravvicinato mossole da Eva.
Aveva provato tante volte a domandarle se stesse bene, se avesse voglia di parlare, ma la risposta che si era sentita rivolgere era sempre la stessa, pronunciata sempre con lo stesso tono: «Non preoccuparti, Eva, sto bene.», e lo diceva con una voce talmente sincera che sarebbe stato difficile non crederle, ma Eva sapeva, capiva che c’era qualcosa che non andava, e se ne accorgeva quando, di notte, prima di andare a letto dopo averla vista rientrare, osservandola di nascosto dal buco della serratura -riusciva a vederla perché da quella sera Gloria non era più riuscita a rimanere al buio, e teneva l’abatjour accesa tutta la notte-, la vedeva sdraiata sul letto a pancia in su, col respiro irregolare di chi ha fatica a prender sonno e le cuffiette dell’mp3 infilate nelle orecchie per non essere costretta ad ascoltare il rumore dei pensieri. La vedeva muoversi di continuo, cercare una posizione più comoda, stropicciarsi gli occhi, sbuffare, la vedeva spesso piangere dal nervoso, asciugarsi furentemente le lacrime con il dorso della mano. Tutto d’un tratto le era apparso più chiaro anche quello strano comportamento: quella sua improvvisa tendenza a non fermarsi mai, quel suo continuo stare in movimento altro non era che un modo per scaricare la tensione, e stancarsi fisicamente con la speranza di riuscire, poi, una volta infilata a letto, a racimolare almeno un paio d’ore di sonno. 
Allora tutte le notti si fermava per qualche minuto lì fuori, dietro la porta a spiarla senza mai abbassare la maniglia e correre da lei ad abbracciarla. La faceva star male vederla in quelle condizioni, ma sapeva di non poter fare nulla per aiutarla. Poteva immaginare con fin troppa facilità quello che stesse provando nei suoi confronti: imbarazzo, dispiacere, senso di colpa. Avrebbe tanto voluto parlarle, avrebbe voluto dirle di non preoccuparsi, che era tutto a posto, che a lei andava bene così, che non rimpiangeva nulla di quello che non aveva avuto, ma sapeva che avrebbe rifiutato qualsiasi invito a parlarne, sapeva che avrebbe avuto l’impressione di essere compatita, ed era una cosa, quella, che Gloria non tollerava minimamente: la sua forza era nel riuscire a risollevarsi sempre e comunque senza mai chiedere l’aiuto di nessuno, era una qualità che Eva le aveva sempre invidiato. Lei una tale tenacia non la aveva: nella sua vita aveva sempre avuto bisogno di qualcuno a cui aggrappasi nei momenti difficili, anche se non era necessario che questo qualcuno le risolvesse i problemi. A lei bastava sapere di poter contare sul suo aiuto, le bastava avere la certezza che, qualora ne avesse avuto bisogno, avrebbe potuto contare su una parola di sostegno, su una mano che potesse aiutarla a rialzarsi.
Durante i primi mesi a Berkeley era stata proprio Gloria a tenderle quella mano. Era così piccola da non rendersene neanche conto, eppure era così che era andata. Il sorriso di quella bambina era stato il suo appiglio, era lei che le aveva dato la forza di andare avanti. Si convinceva di stare bene per non dare a sua sorella il dispiacere di vederla piangere, di vederla triste, e allora sorrideva, sorrideva con gli occhi prima ancora che con le labbra pur di non far andar via il sorriso a lei, in un circolo vizioso che, alla lunga, aveva finito per salvarle entrambe.
Era per questo che lo sapeva, ne era sicura: ce l’avrebbe fatta, si sarebbe rialzata.
A fatica, forse. Con le gambe tremanti, probabilmente, ma si sarebbe rialzata, prima o poi: sarebbe uscita dalla sua stanza con il sorriso allegro di sempre, l’avrebbe abbracciata e tutto sarebbe tornato come prima. Non aveva dubbi, a riguardo.
Quel suo sguardo non poteva rimanere vuoto per sempre.

[Continua]

Capitolo revisionato il 10-07-2012

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Capitolo 16
*** Pioggia fresca di baci ***


Pioggia fresca di baci


Faceva particolarmente caldo, quel pomeriggio, a Berkeley. Un venticello tiepido e umido appesantiva i respiri delle persone, costringendole a chiudersi in casa, davanti ai ventilatori. La città era completamente vuota, fatta eccezione per pochi gruppetti di ragazzini che gironzolavano per le strade piene di sole sfidando l’afa. Al Pit’s Cafè il condizionatore acceso, finalmente di nuovo funzionante, dava un piacevole sollievo ai clienti che, per nulla intenzionati a chiudersi in casa, avevano trovato riparo dal caldo nel locale, dove sedevano ai tavoli sorseggiando una bibita fresca.
Seduta dietro la cassa del bancone, intenta a restituire il resto a una cliente, Gloria si sentiva pericolosamente vicina allo svenimento. Sentiva la testa pesarle sul collo come se avesse avuto la scatola cranica piena di piombo, e una forte sensazione di debolezza le rendeva particolarmente pesanti le palpebre, che faticavano a rimanere sollevate. Salutò la cliente con voce debolissima, sforzandosi di sorridere, per poi passarsi una mano sulla faccia, esausta. Chiuse gli occhi per un istante, massaggiandosi le tempie con due dita mentre in cuor suo desiderava ardentemente potersi stendere e riposare.
«Ti senti bene?»
La voce di Peter le arrivò incredibilmente lontana, come se con la mente fosse già proiettata verso l’incoscienza del dormiveglia. Aprì gli occhi e lo vide fermo al suo fianco, con un vassoio pieno di bicchieri di birra vuoti tra le mani.
«Umh umh» mugugnò annuendo con la testa, immediatamente il movimento le diede l’impressione che tutto il locale girasse intorno a lei. «Sono solo un po’ stanca.»
«Voi giovani...» cominciò lui sciacquando i bicchieri nel lavandino «andate sempre in giro di notte, e poi il giorno dopo siete in coma.» e sorrise scherzoso lanciando un’occhiata divertita alla ragazza, che si limitò a curvare le labbra verso l’alto in un debole sorriso.
 «Ma è una ragazza così bella, scommetto che è il fidanzato, a tenerla sveglia la notte!» si intromise un’anziana signora, che le sorrise simpatica pagando due brioche. «Dico bene, signorina?»
“Già, magari fosse veramente questo a tenermi sveglia” pensò Gloria mentre, sorridendo imbarazzata, ringraziava la signora per il complimento.
«Gloria è una bellissima ragazza, però quando dorme poco e si fa venire le occhiaie diventa brutta.» sghignazzò ironicamente il proprietario del locale, ammiccando alla ragazza, che rispose con una smorfia sarcastica.
«Oh, non gli dia retta.» sorrise l’anziana donna, infilando il suo resto nel portamonete «Si goda a pieno questi anni e non si faccia sfuggire niente, mi raccomando, perché ci sono momenti, nella vita, che non ritorneranno in futuro.» e così dicendo si avviò verso l’uscita con andatura incerta. «Ci rifletta, e quando ha dei dubbi, dia retta a ciò che le suggerisce il cuore, lui saprà sempre cosa è giusto per lei. Arrivederci, occhi blu
Il volto di Gloria rimase immobile, inespressivo, solo le labbra appena socchiuse e lo sguardo fisso sull’anziana donna tradivano tutta la sua confusione. Quelle parole sapevano di premonizione, di presagio, come se nel giro di poco tempo avesse dovuto davvero guardarsi intorno e scegliere, scegliere la cosa giusta da fare, la via da seguire, valutare bene ogni alternativa e poi decidere, lanciarsi, affidarsi al cuore. Avrebbe ripensato a quelle parole pochi anni dopo quando, ormai adulta e forte e tenace, si sarebbe ritrovata nuovamente di fronte a un bivio spaventoso, e nuovamente avrebbe dovuto scegliere se pensare alla sua felicità distruggendo quella di altre persone o lasciare le cose intatte e sacrificare sé stessa e ciò che di più importante aveva in questa vita, e avrebbe fatto appello al suo inconscio, alla parte più profonda e nascosta di sé di condurla attraverso il suo futuro, nella scelta che avrebbe potuto farla volare dalla felicità o sprofondare nella disperazione. Un brivido le percorse per intero la spina dorsale mentre si costringeva a ridarsi un contegno, sorridendo lievemente alla signora e ringraziandola per il suo consiglio.
Non appena fu uscita dal locale, Peter scambiò un’occhiata divertita con la sua giovane dipendente.
«Occhi blu!» la canzonò lui, avvicinando il viso al suo con il naso arricciato e gli occhi strizzati.
La ragazza rise di gusto gettando indietro la testa;  subito la stanza ricominciò a girarle intorno vorticosamente. Si affrettò a chinare il capo, sorreggendolo con una mano, e fece due profondi respiri. Intento a servire due aranciate a un tavolo, Peter sembrò non accorgersi di nulla.
«Dio, mi sta scoppiando la testa.» sussurrò lei in un lievissimo sospiro.
Tenendo gli occhi socchiusi allungò la mano libera verso il contenitore di cioccolatini accanto al registratore di cassa, tirandone fuori uno al caffè, avvolto in una carta rossa scintillante. Forse l’avrebbe aiutata a tirarsi un po’ su, pensava, e magari l’avrebbe aiutata anche a evitare di cadere addormentata lì davanti a tutti. Mentre scartava il dolcetto un lieve ronzio attirò la sua attenzione verso il telefonino, poggiato sul bancone proprio accanto alla sua mano. Si affrettò a mettere in bocca il cioccolatino e afferrò il cellulare; subito il sapore dolciastro del fondente e quello più amaro del caffè si mescolarono sulla sua lingua. Sullo schermo del telefono il disegno stilizzato di una busta da lettere chiusa la invitava a leggere il messaggio.
 
Scommetto che hai proprio voglia di una passeggiata.
B.
 
Gloria aggrottò la fronte nel leggere il nome del mittente.
Rapidamente rispose:
 
Mi servirebbe proprio -mentì: in quel momento l’unica cosa di cui aveva davvero bisogno era il suo letto- ma purtroppo sto lavorando.
G.
 
La risposta di Billie arrivò dopo pochi secondi.
 
Sì, questo lo so, e sembri anche piuttosto annoiata.
 
La ragazza rimase qualche istante interdetta, fissando le parole del messaggio. Quando si riscosse controllò che Peter non avesse notato il suo smarrimento, dopodiché tornò a digitare:
 
In che senso? Mi leggi nel pensiero?
 
Il cellulare vibrò nella sua mano.
 
Non proprio... però ti vedo.
 
Ennesima risposta enigmatica. Gloria si guardò intorno circospetta, quel gioco stava iniziando a stancarla. Aveva sonno, e il gran mal di testa non contribuiva certo a renderla in vena di scherzi.
 
Ma dove diavolo sei?
 
Proprio qui fuori.
 
Gloria voltò la testa verso la finestra e solo allora si accorse della presenza di un uomo seduto sulla panchina poco distante dal locale, che la salutava allegramente con la mano.
 
Tutta questa sceneggiata per dirmi che sei qua fuori? Entra, no?
 
La risposta arrivò dopo quasi due minuti. Gloria premette il pulsante verde, piuttosto spazientita.
 
Hai per caso voglia di raccontare al tuo capo come e quando ci siamo conosciuti, perché siamo così in confidenza da parlare come due amici e soprattutto perché non gli hai mai detto di conoscere il leader dei Green Day?
 
La ragazza si morse le labbra, quella era una cosa a cui non aveva minimamente pensato. A conti fatti, si ritrovò a pensare, Billie Joe non aveva tutti i torti, non perché la loro amicizia dovesse rimanere un segreto, ma semplicemente perché, nelle condizioni in cui si trovava, non aveva la minima voglia di perdere tempo a raccontare a Peter il perché e il percome di quel loro rapporto.
 
E quindi aspetterai lì fuori fino alla fine del mio turno?
 
Dipende... tra quanto finisci?
 
Gloria lanciò un’occhiata all’orologio sopra la sua testa, immediatamente si pentì di quel movimento, che le costò l’impressione di avere una lama infilata nel cervello. Prese fiato un paio di secondi prima di riuscire a rispondere.
 
Tra un’ora e mezza.
 
Troppo. Chiedi al tuo capo dì lasciarti libero il resto del pomeriggio. Se rimani lì un minuto di più ti addormenti.
 
Gloria sospirò annoiata alzando gli occhi al cielo.
 
Non mi sembra il caso.
 
Prova almeno a chiederglielo, dai. Prendi un paio di birre e vieni a fare due passi. Se non ti vedo arrivare entro due minuti ti giuro che vengo dentro e ti porto via!
 
«Ma guarda questo...» sibilò la ragazza leggendo contrariata la risposta di Billie Joe Armstrong.
«Senti un po’, perché non te ne vai a casa?»
La voce di Peter la riportò improvvisamente alla realtà.
«Riesci a mala pena a tenere gli occhi aperti, e in queste condizioni non mi sei affatto d’aiuto.»
Gloria si passò una mano tra i capelli, esausta. Aveva immaginato che prima o poi Peter l’avrebbe ripresa.
«Hai ragione, scusami: non ti sto aiutando per niente.»
Fece per alzarsi.
«Adesso mi faccio un paio di caffè, così mi sveglio.» disse dimenticandosi del fatto che Billie fosse lì fuori ad aspettarla, seriamente intenzionata a continuare il suo pomeriggio di lavoro.
«Ma quale caffè. Tornatene a casa, fatti una bella dormita e ci vediamo domattina.»
Gloria scrutò nel volto di Peter per accertarsi che i suoi lineamenti non tradissero severità vera e propria nei suoi confronti.
«Sei davvero sicuro?» domandò incerta.
«Ancora sei qui? Vattene a casa.» rispose scherzosamente lui, sollevando l’avambraccio come nel gesto di cacciarla via.
La ragazza sorrise, un po’ per la riconoscenza e un po’ per la sorpresa: nessun altro datore di lavoro al mondo sarebbe mai stato così comprensivo da permettere a una sua dipendente di staccare prima del suo orario solo per riposarsi un po’, e questo le diede l’ennesima conferma dell’eccezionale disponibilità di quell’uomo.
Improvvisamente le tornò in mente Billie Joe Armstrong, seduto sulla panchina della piazzola ad aspettarla: senza nemmeno volerlo era riuscita a ottenere quello che lui le aveva chiesto.
«Grazie mille, Peter, davvero. Ti assicuro che domattina sarò fresca come un fiore.» assicurò riconoscente togliendosi il grembiule rosso e appendendolo al gancio accanto alla finestra, pensando dentro di sé che probabilmente non sarebbe riuscita a mantenere la promessa appena fatta. Lo salutò con un cenno della mano afferrando la borsa per poi uscire dal locale; subito il suo organismo risentì del forte sbalzo di temperatura, e per un istante Gloria vide tante macchie scure appannarle la vista. Il frontman dei Green Day si alzò dalla panchina per andarle incontro.
«Credevo di averti detto di portare un paio di birre.» la incalzò subito lui, ironicamente.
Gloria sollevò il mento con aria di sfida, inarcando le sopracciglia. «Io non ti basto?»
Il cantante arricciò le labbra, scrutandola pensieroso come a voler valutare davvero quale tra le due -la ragazza e una bella birra fresca- suscitasse maggiormente il suo interesse.
«Mah, potrei anche accontentarmi, sì...» ammise poi, con aria di sufficienza. «forse...»
«Che spiritoso, quasi quasi me ne torno dentro...» asserì Gloria inarcando le labbra in un sorriso esageratamente finto.
Billie Joe Armstrong soffiò una risata.
«Ma come, dopo che sei riuscita a convincere il tuo capo a farti uscire!»
La ragazza sorrise ignorando il mal di testa.
«Beh, riuscire a convincerlo è stato più semplice di quanto pensassi, forse perché non gli ho detto che era per tenere compagnia a un cantante pazzo che di giovedì pomeriggio non ha niente di meglio da fare che molestare telefonicamente le ragazzine.»
Billie Joe rise sonoramente.
«E perché non gli hai detto così? Quale altra scusa avrebbe potuto essere più convincente di questa?»
Gloria soffocò una risata divertita, aprendo la bocca per rispondere alla sua battuta, ma si fermò, spiazzata, quando sentì la mano di lui toccarle la schiena, come a voler invitarla a camminare.
«Vieni.» Le sorrise notando il suo sguardo interrogativo. «Facciamo quattro passi.»
«Emh...» cominciò lei, un po’ titubante. Sentiva le tempie pulsarle terribilmente, e l’aria umida e appiccicosa le opprimeva il respiro, ma non poteva dirgli di no, non sarebbe stato carino farlo andare via così dopo essere andato fin lì a trovarla. «Va bene.»
Seguì Billie Joe Armstrong nella stradina che tagliava trasversalmente la piazzola, sforzandosi di non pensare al mal di testa che la tormentava, convincendosi che sarebbe rimasta solo per pochi minuti, dopodiché se ne sarebbe tornata a casa a riposare.
Il frontman dei Green Day sembrò notare il suo silenzio.
«Cosa stavi dicendo poco fa, a proposito del tuo capo?»
Gloria rifletté un istante prima di riprendere il filo del discorso.
«Che non c’è stato bisogno che gli dicessi nulla per convincerlo: a quanto pare ha notato anche lui le condizioni in cui sono e, visto che non sarebbe stato bello per i clienti trovarsi davanti la cassiera addormentata sul bancone, mi ha detto di andarmene a casa a riposare.»
«Beh... effettivamente non hai un aspetto proprio magnifico...» commentò il cantante scrutandola in volto.
«Ah, ti ringrazio.»
«Non intendevo in quel senso.» Soffocò una risata. «Dicevo solo che hai un’aria molto stanca, e quelle occhiaie lo confermano.»
«Si notano così tanto?» domandò lei storcendo le labbra in segno di disapprovazione.
L’altro si strinse nelle spalle, aggrottando la fronte, incerto su cosa risponderle.
«Mah... n... beh, sì.» ammise poi con sincerità. «Sì, si notano parecchio.»
Gloria sospirò silenziosamente, passandosi una mano davanti alla faccia.
«È da una settimana che non dormo. Non ci riesco.» confidò. «Ci sono momenti in cui penso che riuscirei ad addormentarmi anche in piedi -come adesso, per farti un esempio-, però poi quando mi metto a letto non riesco a chiudere occhio e, se magari ci riesco, dormo pochissimo e, in ogni caso, così male che mi sveglio più stanca di prima.»
A Billie non sfuggì la sua espressione malinconica.
«Sei preoccupata.»
Lei capì che non era una domanda.
«Se devo essere sincera non lo so nemmeno io cosa sono, ma non credo si tratti di semplice preoccupazione...»
« È per la faccenda della tua famiglia, vero?»
«Hai parlato con tua sorella?» proseguì non avendo ricevuto risposta.
Gloria rimase in silenzio per qualche istante prima di lasciarsi sfuggire un sospiro.
«Billie, io apprezzo il tuo interessamento e apprezzo anche l’aiuto che mi hai dato l’altra sera: davvero, non smetterò mai di ringraziarti per la tua disponibilità...» cominciò intrecciando nervosamente le dita. «Però adesso non ho proprio né la voglia né la forza di parlarne, quindi, se potessimo evitare di tirare in ballo l’argomento, mi faresti davvero un enorme favore.» Si strinse nelle spalle osservandolo con la coda dell’occhio, sperando che non si fosse offeso per quel suo improvviso atteggiamento di chiusura: in fondo -le tornò in mente- era stata lei la prima a chiedergli aiuto.
«D’accordo.» rispose il frontman dei Green Day con un po’ troppa fretta. «Non volevo mettere il naso tra gli affari tuoi.»
«Lo so.» ribatté lei, spiccia. «Non è che sto pensando che vuoi farti gli affari miei, è solo che... è una cosa mia, e vorrei essere in grado di affrontarla da sola, per quanto possibile. È già stato fin troppo strano chiederti di starmi ad ascoltare, l’altra sera.»
«Davvero, non preoccuparti.» continuò lui, comprensivo. «Non devi raccontarmi nulla, se non ne hai voglia.»
 
Il parco in cui erano giunti si estendeva circolarmente per quasi un kilometro, ed era attraversato da una serie di stretti sentieri lastricati da pietre chiare che, radialmente, convergevano tutti verso il centro, dove due gigantesche sirene di marmo con gli avambracci uniti e i palmi rivolti al cielo spruzzavano dalle mani due parabole d’acqua che si riversavano nella fontana sottostante. Tra un sentiero e l’altro erano stati piantati decide e decine di alberi, che negli anni erano cresciuti, alti e imponenti, fino a formare, con le loro chiome, una copertura verde su tutta la superficie del parco, ad eccezione dell’area centrale, dove il sole picchiava sempre forte. Sorgeva come dal nulla in mezzo ai palazzi come un’oasi nel deserto, e proprio come un’oasi nel deserto era il punto più verde e tranquillo di tutta la città.
Gloria e Billie Joe Armstrong girarono intorno alla fontana; lei bagnò le mani sotto il getto d’acqua che le stava offrendo la sirena e si spruzzò la faccia, sperando che un po’ d’acqua fredda servisse a rimetterla in sesto. Billie Joe sentiva il sole caldo del primo pomeriggio picchiargli forte sulla testa, e imitò Gloria, rinfrescandosi il viso con l’acqua dell’altra sirena. Si sorrisero con i visi bagnati e imboccarono un sentiero a caso tra i tanti che si diramavano dal centro del parco. Ai lati di ognuno di essi erano state sistemate delle panchine di legno, sulle quali le vecchie signore sedevano nei pomeriggi più caldi per leggere o ricamare, o più semplicemente per chiacchierare con altre vecchie signore mentre aspettavano che i loro nipoti si stancassero di giocare e di correre in giro per il parco. Era il tipo di posto che ringiovaniva con l’avvicinarsi della sera, quando le vecchie signore lasciavano spazio agli adolescenti che si incontravano in comitiva, e riempivano l’aria di risate e spensieratezza. A quell’ora del pomeriggio, però, il parco era quasi completamente deserto, e Gloria e Billie Joe approfittarono di quella tranquillità per mettersi a sedere su una panchina e fare due chiacchiere in santa pace, senza il rischio di essere interrotti da qualche fan che aveva riconosciuto il leader dei Green Day. Le file di alberi che percorrevano il sentiero da entrambi i lati impedivano al sole, con le loro chiome, di picchiare forte sulle loro teste, e non lasciavano filtrare che qualche raggio caldo.
«Scusa per prima. Forse sono stato un po’ troppo invadente... anche per averti praticamente obbligata ad uscire prima dal lavoro.»
Gloria scosse la testa accennando un sorriso, tirando su le gambe di lato e poggiando il braccio sullo schienale della panchina, sorreggendo la testa mentre con lo sguardo fissava le aste di legno.
«Ma no, figurati. Anzi, mi fa piacere sapere che un po’ ti preoccupi per me.» tacque per alcuni secondi, poi sussurrò senza accennare a staccare gli occhi dal basso. «Anche se ancora non capisco perché lo fai…»
Billie si guardò intorno, quel parco emanava la stessa tranquillità che si respirava al Pit’sCafè, e sotto l’ombra degli alberi un leggero frescolino rianimava e risvegliava tutti i suoi pensieri.
«Cosa?»
Gloria si strinse nelle spalle, sentendosi chiaramente a disagio per quella conversazione.
«Non lo so… essere qui, cercarmi… parlarmi… come un amico.»
Billie stese le gambe avanti a sé, alzando lo sguardo al cielo per un istante, fissando le foglie degli alberi sopra le loro teste.
«Vuoi la verità?» cominciò tornando con lo sguardo su di lei. «A dire il vero non lo so nemmeno io... forse perché mi piace starti ad ascoltare.»
Gloria alzò gli occhi verso di lui, perdendosi in quelle schegge di vetro lucenti.
«Mi prendi in giro.»
«No, ti assicuro di no. Lo penso davvero.»
Rimasero a fissarsi per alcuni secondi, in totale silenzio, poi la ragazza sorrise, subito seguita dal frontman dei Green Day, e i loro sorrisi si trasformarono subito dopo in risate lievi, sincere.
«Non so se mi hai convito.»
Gloria si stese sulla panchina a pancia in su, poggiando la testa sulle gambe di Billie Joe, i suoi occhi scrutavano il tetto di foglie che li separava dal cielo, le mani intrecciate sulla pancia.
«Mi piace questo posto.»
Billie la osservò spiazzato per qualche istante, indeciso su dove poggiare le mani ora che sulle sue gambe c’era la testa della ragazza. Allo stesso tempo, però, era divertito da quel suo comportamento tipicamente adolescenziale. Tirò indietro le braccia, poggiando i gomiti sullo schienale per poi gettare indietro la testa, perdendosi a sua volta a fissare i rami degli alberi.
«L’hanno fatto diventare splendido. Fino a una decina di anni fa non era così. Qui intorno era tutto vuoto, c’erano solo l’ospedale e una manciata di case, questo posto era poco più che una piazzola. Quando mia moglie era incinta di Jakob ed era stata ricoverata qualche giorno prima che partorisse, ci portavo Joey a giocare, e anche dopo che nacque Jakob, prima che li facessero uscire dall’ospedale. Sai, ogni volta che andavamo a trovarla, lui non voleva mai andare via sapendo che la madre sarebbe rimasta lì, e, visto che iniziava a piangere come un disperato, io lo portavo qui per farlo tranquillizzare.» Sorrise al ricordo di suo figlio quando era bambino. «E’ incredibile quanto basti poco, ai bambini, per divertirsi. Qui non c’era praticamente nulla, se non  un paio di altalene e uno scivolo, eppure sarebbe rimasto qui a giocare per ore, non si stancava mai. Poi, quando mia moglie è uscita dall’ospedale, siamo tornati qui pochissime volte finché, quando hanno iniziato a fare i lavori per risistemarlo, abbiamo smesso del tutto di venirci. In fondo, di parco ce ne era uno anche vicino casa nostra, per cui non c’era più motivo di venire fin qui.» Billie spostò lo sguardo su Gloria, anche lei stava sorridendo. Si lasciò sfuggire un sospiro nostalgico, ripensando a quelle pesti minuscole che giravano per casa sulle gambette ancora malferme. «Poi, vabbè, sono cresciuti tutti e due, e allora ho smesso di portarli in qualsiasi parco... ora sono loro che ci portano le ragazzette.»
Gloria soffocò una risata.
«Ma pensa, la prima volta che ci sono stata io, invece, era già così. Credo sia stato subito prima di iniziare a lavorare al bar. Non so, avevo sedici anni... o giù di lì.» Fece una breve pausa, arricciando le labbra, dopodiché sghignazzò: «Mi ci aveva portato il fidanzatino!» 
Billie Joe Armstrong non capì se stesse scherzando o stesse parlando seriamente, ma quella battuta lo fece ridere di gusto.
Gloria si passò una mano sulla faccia. Il mal di testa non lo sentiva quasi più, stesa com’era sulle gambe di Billie, ma sentiva ugualmente una gran debolezza invaderle le membra fino in profondità.
«Dio, fa caldissimo.» Per fortuna il cantante non sembrò notarlo, tant’è che riprese la loro conversazione come se nulla fosse. «Sai cos’è che ci vorrebbe, adesso?»
«Cosa?»
«Una bella birra fresca.» incalzò sghignazzando. «Se solo qualcuno di mia conoscenza avesse fatto come le avevo detto...» lasciò la frase in sospeso mentre Gloria scuoteva la testa, con una mano sulla fronte.
«Eccolo che ricomincia...»
«Guarda che ci sono rimasto malissimo, ancora prima che uscissi mi stavo già pregustando una bella bionda fresca...»
«Beh, in questo caso, mi spiace davvero. Davanti ad un dramma come questo, Billie, cosa vuoi che ti dica… ti sono vicina.» ribattè lei, con sarcastica ironia, dandogli un buffetto sulla guancia.
«Grazie per la comprensione...» sospirò allora il cantante, stando al gioco.
Per qualche istante nessuno dei due parlò all’altro.
L’unico rumore che si sentiva era quello dell’acqua che ricadeva nella fontana.
«E comunque…» Gloria spostò lo sguardo di lato. «Io sono bionda.»
Solo dopo averlo detto si rese conto che quelle parole, pronunciate così nel bel mezzo di quel contesto, potevano apparire decisamente provocanti.
Ma certo -pensò lei- è come avergli detto che sì, la birra non gliel’ho portata, ma visto che sono bionda anch’io (anche se non si direbbe), se vuole può assaggiare me. Splendido. Brava Gloria, sei davvero un’idiota.
Si schiarì la voce intrecciando nervosamente le dita.
«Cioè, non che io volessi inten-» incespicò nel tentativo di aggiustare la situazione, ma si bloccò improvvisamente quando si accorse con sollievo che Billie Joe non aveva affatto colto l’allusione, e anzi, aveva preso tra le dita una ciocca dei suoi capelli, che stava osservando con un sorriso divertito.
«Ah, e così sei bionda naturale.» Fece una breve pausa. «Cavolo, potevi dirmelo prima!»
«E perché?»
«Mi sembra ovvio, se avessi saputo che eri bionda naturale... avrei parlato più lentamente, no?»
L’espressione di Gloria si fece truce, gli occhi ridotti a due fessure.
«Immagino che fatica sia stata per te, fino ad ora, seguirmi in tutto quello che ho detto. Se parlo così mi capisci bene?» scherzò pronunciando le ultime parole con una lentezza esasperante.
«Che uomo esilarante.»
Billie Joe Armstrong scoppiò a ridere.
«Come mai hai cambiato colore?»
«Perché, vedendomi bionda, la gente pensava che fossi stupida.» lo inchiodò con nemmeno l’ombra di un sorriso appena accennato in volto.
«Touchè.» rispose lui alzando le mani in segno di resa.
Solo allora lei soffocò una risata. «Non lo so con esattezza… diciamo che non mi ci sapevo vedere. E poi non amo molto il classico stereotipo della ragazza bionda con gli occhi azzurri, la pelle chiara... se avessi avuto gli occhi grigi come quelli di Eva, non mi sarei tinta i capelli. Sono bellissimi, non sai quanto glieli invidio. A dire il vero, a lei invidio un sacco di cose. »
Billie Joe sorrise osservandola. «Ti piace proprio tanto tua sorella, eh?»
Lei distolse lo sguardo, non riuscendo, suo malgrado, a trattenere un sorriso.
«La adoro.» ammise poi, tornando a rivolgere il suo sguardo verso Billie. «A volte è difficile capire cosa le passi per la testa e, per questo, spesso mi fa dannare... però, se non ci fosse, credo che impazzirei.»
«Non riesco a immaginare un legame così forte tra fratelli. Sarà che io con i miei non sono mai andato molto d’accordo...» Ripercorse mentalmente tutta la sua infanzia, i rapporti che aveva con i suoi fratelli. Non gli erano mai piaciuti, loro, sempre così impegnati nelle loro vite da dimenticarsi quasi della sua esistenza.
Certo, non era stato così con tutti: in Anna aveva trovato un’ottima confidente, ma se comunque pensava al rapporto che aveva con lei, non trovava neppure un briciolo di quello che intuiva ci fosse nel rapporto tra Gloria e sua sorella.
«Beh, forse siamo così legate perché è stata lei che mi ha cresciuta. Si è presa cura di me come fossi stata sua figlia. Mi ha vista crescere, e in un certo senso anche io ho visto crescere lei. Non saprei dare una spiegazione diversa al rapporto che abbiamo.»
Gloria sollevò il mento, reclinando di più la testa, sentendola sempre più pesante. Cacciò fuori un sospiro mite, mentre chiudeva gli occhi, con un braccio poggiato sulla fronte.
Billie si guardò intorno riflettendo sulle parole della ragazza. A lui sarebbe piaciuto molto avere un legame più forte con i suoi fratelli, gli sarebbe piaciuto davvero, eppure qualsiasi cosa che faceva per tentare di compiacerli sembrava essere sempre inadeguata, ogni volta che cercava di avvicinarsi a loro aveva sempre l’impressione di essere di troppo, ogni volta, in ogni situazione. Fino a che c’era suo padre, era lui che lo vezzeggiava, era lui che lo faceva sentire importante, ed era sempre lui che gli faceva percepire l’idea che ogni persona esistesse per un motivo preciso -che fosse cambiare il mondo o semplicemente portare la luce negli occhi di qualcuno-, che ogni persona avesse, nel mondo, qualcuno per la quale essa era totalmente, assolutamente e incondizionatamente indispensabile. Fino a che c’era suo padre, Billie sentiva di contare davvero qualcosa, sapeva che l’amore che riceveva da quell’uomo era molto più forte di quello che ricevevano i suoi fratelli, e saperlo lo riempiva di grande orgoglio e felicità, anche se non l’aveva mai detto a nessuno. Poi, però, suo padre era morto e lui, ancora troppo piccolo, si era ritrovato praticamente solo in una casa ancora troppo piena. Piena delle sue lacrime, piena dei suoi fratelli che lo ignoravano, piena del tempo che scorreva rapido tra le pareti, ricordandogli ogni giorno, con insistenza, la presenza di quella sedia vuota di fronte alla tavola.
Erano tanti, i fratelli che aveva intorno, eppure non percepiva neppure un briciolo della loro vicinanza, della solo presenza nella sua vita. Un segno d’affetto, di vero affetto, l’aveva ricevuto soltanto da Mike. Mike, con quei suoi occhi azzurri che sembravano riuscire a cogliere ogni cosa di lui, sembrava avere la capacità di leggergli dentro, di capire cosa pensasse, cosa desiderasse. Si era sempre domandato come fosse possibile, ma ogni volta che aveva bisogno di aiuto Mike lo sapeva sempre, e sempre si dimostrava presente nella sua vita. Solo Mike sapeva sempre trovare le parole giuste, che servissero, a seconda delle circostanze, a sollevargli il morale o a strappargli un pianto liberatorio. L’aveva sostenuto in ogni fase della sua vita, l’aveva visto in ogni condizione, gli aveva offerto la sua spalla, già così forte e accogliente, quando suo padre era morto, l’aveva ascoltato in silenzio quando aveva avuto bisogno di sfogarsi, l’aveva lasciato parlare, senza mai interromperlo, di tutto quello che pensava, di tutto quello che sentiva, di cosa odiava nel mondo e di cosa avrebbe voluto che il mondo gli desse. Non aveva mai avuto segreti, con lui. Non ne aveva bisogno. Le loro anime erano tenute insieme da un filo invisibile, una sorta di cordone ombelicale che impediva loro di separarsi. Era vero, con i suoi fratelli non aveva alcun legame che differisse da quello di sangue, non aveva con loro lo stesso rapporto che avevano Gloria ed Eva ma, forse, nel rapporto che aveva con Mike c’era qualcosa di molto simile e, proprio perché loro due non erano fratelli, Billie Joe considerava quel legame ancora più forte, ancora più speciale. Ne era sicuro, un’amicizia come la loro non aveva bisogno di legami di sangue.
 
Billie Joe Armstrong aprì gli occhi solo quando una folata di vento freddo gli colpì la faccia, e solo allora capì di essersi appisolato lì, su quella panchina. Un dolore diffuso gli rendeva difficile muovere il collo, e sentiva le gambe formicolare, addormentate. Abbassando lo sguardo verso di esse vide Gloria con ancora la testa sulle sue gambe e le braccia nude puntinate da una leggera pelle d’oca. Era passata poco più di mezz’ora, constatò dando una rapida occhiata all’orologio, eppure tutto intorno a lui era improvvisamente più scuro di quanto ricordasse, decisamente troppo per non essere nemmeno le cinque di pomeriggio. Strinse leggermente gli occhi infastiditi dal vento, iniziando a scuotere delicatamente il braccio della ragazza. Quando Gloria aprì gli occhi e si tirò su, la prima impressione che ebbe fu quella di avere la testa improvvisamente troppo pesante per riuscire a stare dritta. Il mondo intero sembrava girarle intorno vorticosamente.
«Oddio che mal di testa.» biascicò poggiando la testa sul braccio, sorretto dallo schienale della panchina. «Ma cos’è tutto questo freddo?» Un brivido le percorse la pelle. «Come mai è così  buio?».
«Credo che il cielo si sia annuvolato…»
La ragazza si tirò indietro i capelli, un fortissimo senso di debolezza le pervadeva il corpo intero, le intorpidiva i muscoli e scendeva giù, sempre più in profondità, sin dentro le ossa, che in quel momento sentiva come fatte di cartapesta.
Un boato improvviso, che solo dopo pochi secondi interpretarono come un tuono, li fece sobbalzare entrambi. Il vento si faceva sempre più forte, e smuoveva energicamente i rami degli alberi creando un fruscio di foglie. Gloria appoggiò la testa direttamente sul legno dello schienale, mentre si stringeva nelle spalle cingendosi il busto con le braccia, coperte di brividi. Subito si udì il rumore di alcune gocce atterrare sulle foglie degli alberi, e pochi istanti dopo, le gocce scavalcavano quella barriera di rami e arrivavano dritte fino a terra, puntinando ogni cosa intorno a loro. Gloria si raggomitolò ancor di più quando diverse gocce le atterrarono sulle braccia.
«Ma cazzo, sta piovendo!» inveì alzando gli occhi al cielo.
Billie Joe si alzò immediatamente dalla panchina, iniziando anch’egli a risentire del freddo della pioggia sulle braccia nude.
«Porca puttana.» si lasciò scappare. «Ho anche la macchina parcheggiata lontano.»
«E allora sbrighiamoci, prima che inizi a diluviare.» disse Gloria alzandosi dalla panchina.
Una vertigine improvvisa la colpì, dandole l’impressione di poter cadere a terra da un momento all’altro. Chiuse gli occhi per una manciata di secondi, facendo due lunghi e profondi respiri, e solo quando credette di riuscire a stare in piedi senza il rischio di svenire li riaprì.
Billie Joe aggrottò la fronte, poggiandole una mano sul braccio.
«Tutto bene?»
Gloria annuì debolmente, umettandosi le labbra.
«Sì, sì.» rispose con voce flebile. «Andiamo.»
Billie Joe capì immediatamente che non stava bene affatto: la vedeva troppo debole per correre, sembrava esausta. Le prese la mano conducendola a ritroso lungo la strada che avevano percorso all’andata, noncurante della pioggia che picchiettava sulle loro teste. La stretta di Gloria era debolissima e, mentre camminava, Billie avvertiva distintamente il suo respiro farsi sempre più pesante, sempre più affaticato. Di tanto in tanto le lanciava rapide occhiate con la coda dell’occhio per accertarsi che stesse bene, e l’espressione che aveva non riusciva a nascondere un malessere che, capì subito, non era dovuto solamente alla stanchezza. La pioggia, nel frattempo, aveva iniziato a cadere con forza maggiore, e se ne accorgevano man mano che si avvicinavano verso l’uscita del parco, dove gli alberi erano più radi e la barriera di rami e di foglie sopra le loro teste non riusciva a frenare le gocce che cadevano. I respiri di Gloria si erano fatti ancora più lenti e irregolari. Iniziò pian piano a rallentare, fino a che non si fermò del tutto. Billie Joe si voltò verso di lei e la vide vacillare sulle sue stesse gambe.
«Gloria, che succede?» domandò preoccupato.
Lei rimase immobile in silenzio per diversi istanti, fissando per terra con occhi spenti e respirando affannosamente. Sentiva un fischio indistinto rimbombarle nelle orecchie e fin dentro al cervello, il terreno appariva ai suoi occhi come una massa indistinta e sfocata, la voce di Billie era incredibilmente lontana, ovattata.
«Oddio, non riesco a stare in piedi.» La sua voce era un sussurro tremante.
Il cantante la vide traballare pericolosamente in avanti, e in un batter d’occhio le fu di fronte, cingendole i fianchi con forza per evitare che cadesse proprio quando le sue gambe avevano cominciato a piegarsi.
«Hey, che succede?»
Gloria rimase alcuni secondi appoggiata di peso contro il suo petto, prima di trovare la forza per stendere le gambe. Lentamente sollevò il volto, senza accennare a muoversi ulteriormente. Aveva gli occhi lucidi, una patina trasparente le offuscava le iridi azzurre, e un lieve rossore le tingeva le guance.
«Mi gira la testa...» sussurrò in un soffio.
Billie Joe la guardò dritto negli occhi. Erano sempre bellissimi, mantenevano quel velo di candore e di sincerità che vi aveva letto sin dall’inizio. E anche lei era bellissima, nonostante i capelli ormai bagnati attaccati alla faccia e l’aria stanca sul viso.
Sentiva il suo respiro solleticargli il mento, era caldo e delicato sulla sua pelle come la più morbida delle carezze.
«Va meglio ora?»
Lei annuì con un lievissimo cenno del capo.
La sentiva estremamente fragile, mentre tremava dal freddo tra le sue braccia come una piccola farfalla che, da sola, con le sue ali minuscole, si appresta a sfidare il temporale. Vedeva scivolare sul suo viso tante piccole gocce di pioggia, le rigavano dolcemente le guance arrossate per poi scivolare svelte lungo la linea della mandibola e poi ancora più giù, lungo il collo, fino a sparire nella scollatura della maglia.
Billie Joe seguì con lo sguardo il percorso di quella gocciolina d’acqua, invidiandole per un istante la capacità di accarezzare quella pelle chiara e liscia con così tanta delicatezza. Osservava la pioggia sfiorare morbidamente quel volto dai tratti ancora da bambina immaginando, in una dolce fantasia, che le sue dita si potessero sostituire a quelle goccioline trasparenti che tanto erano fortunate.
E’ un destino estremamente infausto, quello delle gocce di pioggia: si tuffano in caduta libera dalle nubi, così alte nel cielo, e precipitano giù rapidamente, senza la possibilità di tornare indietro. Cadono svelte, senza dare alla gente il tempo di sentirle arrivare, fino a che, a contatto col suolo o con il tetto appuntito di una casa, non si sfracellano in mille pezzetti più piccoli con un ultimo, delicato, grido, quasi un sussurro.
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Ce ne erano migliaia, intorno a loro, di gocce morenti. Eppure, tra quelle, un minuscolo gruppetto era riuscito a salvarsi, terminando la sua corsa proprio lì, sul viso di Gloria. La sensazione di essere tornate in cima ad una nuvola, un ultimo assaggio di paradiso prima di cadere definitivamente nel vuoto.
Billie Joe tolse una mano dai fianchi di Gloria e la avvicinò al suo viso, fermandosi a mezz’aria come colto da un lampo di esitazione. Poi si mosse lentamente, prendendo tra le dita una ciocca di quei capelli biondi colorati di nero che le si era attaccata sulla fronte. Con lentezza la spostò ad un lato del suo viso, fermandola dietro un orecchio. Rimase immobile, con la mano dietro la sua nuca, a guardarla negli occhi, attraversandoli con il suo stesso sguardo.
Gloria non aveva il coraggio di muoversi. Rimaneva immobile, in silenzio, senza accennare a distogliere lo sguardo da quegli occhi verdi.
Una gocciolina di pioggia, la più fortunata tra le fortunate, le percorse la linea del naso per poi morirle sulla bocca, tra le labbra socchiuse che a Billie Joe ricordavano distintamente due petali di rosa bagnati dalla rugiada. Non resistette. Non resistette alla tentazione di assaggiarle. Quelle labbra erano tanto belle come un bocciolo di rosa quanto invitanti come una mela matura, rossa e croccante. Chinò la testa fino a trovarsi a pochi centimetri dal viso di Gloria, che continuava a guardarlo negli occhi come un gattino spaventato, non riuscendo a leggere, al loro interno, alcuna risposta alle domande che si stava mentalmente ponendo in quel momento.
Si mosse quasi impercettibilmente, cancellando la distanza tra le loro labbra, che si sfioravano delicatamente senza veramente toccarsi. Billie Joe capì da quel leggerissimo contatto che lei non si sarebbe tirata indietro, così premette leggermente le labbra contro le sue, cingendole meglio la vita con un braccio, mentre la mano libera si intrufolava tra i suoi capelli ormai fradici.
Le labbra della ragazza si addolcirono a contatto con quelle di Billie Joe, modellandosi perfettamente attorno ad esse come i due pezzi combacianti di un puzzle. Le sue mani iniziarono lentamente a salire lungo il torace dell’uomo. Fu straordinariamente facile, per lei, in quel momento, riuscire ad ignorare qualsiasi cosa stesse agendo all’esterno di loro due: ignorava la pioggia, che ancora cadeva forte attorno a loro e su di loro, picchiettando le loro teste e i loro visi con le sue gocce fresche, ignorava il vento, che le colpiva la pelle bagnata causandole forti brividi di freddo, ignorava le tempie che ancora pulsavano forte dal mal di testa. Non sentiva più niente, come se il vento le avesse gelato la pelle fino ad anestetizzarla totalmente. Tutto quello che avvertiva era il tepore dolce e accogliente delle labbra di Billie che suggevano le sue e la trama ruvida e bagnata della sua maglietta mentre vi faceva scorrere sopra le dita. Aveva le labbra calde, Gloria, anche con il freddo e il vento che soffiava svelto contro di loro. A Billie Joe piaceva terribilmente sentire quei petali rosei così tiepidi tra le sue labbra fredde, e anche il loro sapore gli piaceva, aveva una vaga traccia di cioccolato e caffè. Tutt’intorno l’aria odorava di terra bagnata, di fango, quella fragranza acre e pungente, estremamente fresca. Billie mosse la mano che teneva dietro la sua nuca, lentamente, fino a sfiorarle il collo per poi risalire con le dita fino alla guancia. La sentiva bollente sotto i polpastrelli, troppo calda per essere così bagnata dalla pioggia. Con il pollice le seguiva languidamente la linea del mento. Lentamente si staccò da lei sollevando il mento per poi poggiarle le labbra sulla fronte. Rimase fermo per una manciata di secondi, finché non sentì Gloria mormorare con voce lieve: «Che fai?»
«Scotti tanto.» le rispose ancora con le labbra poggiate sulla sua fronte. «Credo che tu abbia la febbre.»
Davanti a quell’ennesima iella, Gloria non riuscì a trattenere una risata soffocata.
«Ma che giornata, ci mancava anche la febbre.» inveì sarcasticamente, poggiando la testa contro il petto di Billie per poi stringersi addosso a lui. «Sto morendo di freddo.»
Lui la strinse sfregandole un braccio con la mano come a volerla riscaldare.
«Appena ci infiliamo in macchina, accendiamo al massimo il riscaldamento. Ce la fai a ricominciare a camminare?»
Gloria si staccò da lui, annuendo con il capo.
Piccole goccioline di pioggia continuavano a solcarle il viso.
«Scusa se ti ho fatto stare tre ore qua sotto la pioggia...» sorrise imbarazzata asciugandosi il volto con una mano.
Billie Joe si strinse nelle spalle. «Ma figurati... quando vuoi.»
Gloria abbassò lo sguardo a terra, non riuscendo a trattenere un sorriso divertito.
Anche Billie sorrise.
Sorrise sollevato nel vederla reagire in quel modo a quello che era appena successo tra loro.
«Andiamo, dai.» e così dicendo le cinse la vita con un braccio, avviandosi con lei verso l’uscita del parco.
Dopo pochi passi sentì anche il braccio di Gloria abbracciarlo intorno ai fianchi. Camminarono così, lentamente, l’uno abbracciato all’altra, tra il suono della pioggia che scendeva e il fruscio del vento tra le foglie.


[Continua]

Capitolo revisionato il 30-09-2014

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Capitolo 17
*** Amici che sospettano troppo ***


Amici che sospettano troppo

«Sì, ti faccio richiamare da lei appena si sentirà meglio.»
Un istante di silenzio.
«Ciao, Peter. Buona serata.»
Eva premette il pulsante rosso di fine chiamata e si abbandonò sul divano gettando indietro la testa. Una porta si chiuse alle sue spalle e Josh entrò nel soggiorno tenendo tra le mani un bicchiere vuoto.
«Le ho dato un’aspirina.» disse raggiungendola sul divano. «Adesso sta misurando la febbre.»
Poggiò il braccio sullo schienale e rimase qualche istante in silenzio a osservare Eva.
«Hai chiamato Peter?»  
La giovane donna annuì.
«Dice che l’aveva immaginato, che avesse la febbre: era molto stanca al lavoro.»
«Allora è vero: non sta così solo per la pioggia che ha preso...»
«A quanto pare no.»
Dalla sua bocca fuoriuscì un sospiro di stanchezza.
«Io lo sapevo, figurati.»
«Che cosa?»
«Che sarebbe andata così.» rispose fregandosi il viso con entrambe le mani. «Sono giorni che non si ferma mai, è anche normale che prima o poi il suo fisico ne risenta e... esploda. Mi sembra strano che non sia successo prima.»
Josh le accarezzò il braccio con lentezza, cercando di infonderle tutta la sua calma. Erano giorni che la vedeva stanca e preoccupata, sapeva che era in pensiero per sua sorella, per il modo in cui stava reagendo a ciò che era venuta a sapere, e lui stesso poteva ammettere che, se si fosse trovato nella stessa situazione, si sarebbe comportato pressappoco alla stessa maniera: quello che era venuta a sapere Gloria avrebbe mandato in confusione chiunque fosse stato al suo posto.
«Vedrai che passerà.» le sussurrò con voce calda.
Ovviamente non si stava riferendo alla febbre. Non solo a quella, almeno.
La situazione familiare dei Morris non era un segreto, per Josh. Era stata Eva stessa a parlargliene, e l’aveva fatto impulsivamente, seguendo l’istinto e il bisogno ormai irrefrenabile di sfogarsi e piangere. Era successo due anni prima, il giorno del funerale del padre di Josh. Lei lo aveva visto stringersi alla madre e alle sorelle con gli occhi rossi di pianto e il viso pallido scavato dal dolore, lo aveva ascoltato mentre, con voce strozzata, aveva pronunciato davanti a tutti il discorso alla sua memoria, dimostrando tutto l’affetto che fino ad allora l’aveva legato a suo padre, ed era rimasta da sola assieme a lui anche dopo che l’ebbero tumulato, dopo che i suoi parenti furono pian piano sfumati via dal cimitero. Allora lui si era inginocchiato sui talloni e con una mano aveva sfiorato il terriccio umido e scuro all’interno del quale suo padre avrebbe riposato da lì all’eternità, aveva stretto il pugno trattenendone tra le dita alcuni granelli con così tanta forza da far diventare bianche le nocche, le sue spalle si erano irrigidite e strette, aveva digrignato i denti e strizzato forte gli occhi. Due lacrime gli erano colate lungo le guance. Prima di andarsene gli aveva sussurrato un saluto triste, volgendo lo sguardo al cielo e immaginando di vedervi riflesso un qualcosa di suo, un sorriso, uno sguardo affettuoso.
«Ti voglio bene.» aveva mormorato affidando quelle parole al vento, e Eva aveva avvertito una morsa serrarle lo stomaco mentre per un istante -e solo per quell’istante- aveva provato invidia nei confronti di Josh, nei confronti di quel “ti voglio bene” che, da bambina, aveva pronunciato così tante volte, innocentemente, a colui che allora appariva ai suoi occhi come l’eroe più grande di tutti, e che una volta diventata sufficientemente grande da capire com’è che stessero veramente le cose, era parso a lei completamente vuoto, falso, improvvisamente privo di senso.
Non era stata la prima volta, quella, che si era sorpresa a provare un simile sentimento: i cattivi rapporti che aveva avuto con suo padre avevano fatto sì che manifestasse spesso una certa invidia per tutti coloro che, al contrario suo e di sua sorella, avevano avuto la fortuna di crescere con una figura paterna attenta e affettuosa al loro fianco, ma sentirsi in quel modo, sentirsi invidiosa in una situazione del genere l’aveva fatta sentire una ragazzina e, ancor di più, l’aveva fatta sentire ridicola, l’aveva fatta vergognare. Aveva lottato contro se stessa, contro la sua parte più profonda, pur di mantenere celata agli occhi del suo uomo quella spiacevole sensazione. Con delicatezza gli aveva poggiato una mano sulla spalla, scusandosi mentalmente per aver anche solo osato pensare una cosa del genere, e lo aveva riaccompagnato a casa, offrendosi di guidare. Una volta che ebbero fatto ritorno a casa, però, lui aveva iniziato a parlarle di suo padre, le aveva raccontato di quanto importante fosse stato per lui, di come l’avesse sempre sostenuto e aiutato nella crescita e nelle sue scelte, ed era stato proprio in quel momento che lei, pur provandoci in tutti i modi possibili, non era più stata in grado di resistere; le sue barriere erano crollate tutte all’improvviso, lasciandola libera di sfogarsi, di liberare i frammenti del suo passato. Era sconvolta da un pianto disperato mentre senza controllo aveva parlato e pianto senza mai fermarsi se non per riprendere fiato tra un singulto e l’altro. Josh non ricordava di averla mai vista così fragile, così totalmente spogliata della sua scorza di ragazza intraprendente e sicura di sé, e mai come quella volta si era reso conto di quanto la amasse e di quanto importante fosse per lui, perché pur nel dolore immenso e lacerante della perdita prematura di suo padre, in quel momento Josh era riuscito a trovare la forza per consolare lei, la sua donna, per offrirle una spalla sulla quale svuotare gli occhi dalle lacrime quando anche i suoi erano rossi e gonfi di un pianto disperato.
Tutto ciò Eva non l’aveva mai raccontato a sua sorella: era stato un episodio, quello, di cui si vergognava ancora enormemente. Si era sentita egoista, in quel momento, scoppiare a piangere in quel modo era stato come mancare di rispetto al dolore che Josh stava provando e, anziché aiutarlo, anziché lasciarlo sfogare, aveva costretto lui a consolare lei, a mettere da parte il suo dispiacere per quel che era appena successo per preoccuparsi di lei, per calmare lei dalle sue angosce.
Nonostante tutto, però, Josh non le aveva mai rimproverato ciò che era successo quel pomeriggio; aveva capito che nonostante apparisse così straordinariamente solare, frizzante, maliziosa, sfacciata, la sua donna nascondeva in realtà una parte di sé che era estremamente fragile, e ciò faceva di lui il più forte dei due, quello a cui spettava sostenere l’altra. A lui andava bene così: sapeva che il suo comportamento non era stato dettato dall’egoismo ma dalla più genuina sensibilità, ed era per questo che aveva accettato volentieri quel ruolo all’interno della coppia, ed era per questo che l’amava così tanto.
«Magari con la febbre riesce a sfogare quello che si è tenuta dentro questi giorni. Vedrai che appena si rimetterà tornerà a essere quella di sempre.»
Eva incurvò le sopracciglia e in quel momento desiderò davvero di riuscire a credere alle sue parole.
«Spero che tu abbia ragione.»
Lui le sorrise rassicurante accarezzandole la nuca.
«Vado a vedere se ha finito di misurare la febbre.»
Lei scosse la testa e gli poggiò una mano sulla spalla prima che lui riuscisse ad alzarsi, sfruttando il suo braccio come leva per tirarsi su.
«Vado io.»

Nella stanza di Gloria la luce fioca e rossastra che emanava l’abatjour proiettava sul muro le ombre dei peluche che stavano poggiati sulle mensole, facendoli sembrare scuri fantasmi pronti ad attaccare alle spalle. Fu questa la prima impressione che ebbe Eva non appena vi mise piede: si sentiva fuori luogo, lì dentro, come se la persona nella quale si era trasformata sua sorella in quei giorni non avesse assolutamente più nulla a che fare con la vecchia Gloria, e lei non avesse improvvisamente più avuto il diritto di entrare nella sua stanza senza esservi stata invitata.
La ragazzina riposava rannicchiata sotto le lenzuola, dalle quali spuntavano solo alcune ciocche di capelli scuri.
«Hai finito di misurare la febbre?» le domandò Eva con voce dolce scostando leggermente le coperte fino a poterla guardare in viso.
Gloria aprì gli occhi, rossi e stanchi, mostrando il termometro a sua sorella.
«È parecchio alta.» sentenziò questa con voce preoccupata. «Come ti senti?» le chiese poi spostandole premurosamente una ciocca di capelli dalla fronte e sorprendendosi di quanto calda fosse.
«Una schifezza.» rispose Gloria in un mormorio, rannicchiandosi ancora di più.
«Vedrai che appena l’aspirina farà effetto ti sentirai meglio. Vuoi mangiare qualcosa?»
«No.» sussurrò la più piccola con gli occhi già chiusi e la voce stanca e impastata.
«Voglio solo dormire.»
Eva annuì con il capo, sospirando silenziosamente.

Gloria si sforzò di riaprire gli occhi non appena avvertì il rumore della porta che si richiudeva, li sentiva umidi e stanchi proprio come il suo stesso corpo. Il freddo e la pioggia le erano entrati nelle ossa, e a niente era servita la doccia calda e il phon puntato a massima potenza verso la faccia. Si sentiva intorpidita e molle, con uno strano peso tra i polmoni che le rendeva difficile la respirazione. A fatica riuscì ad allungare un braccio in direzione del comodino e ad afferrare il cellulare, praticamente certa di trovarvi una bustina chiusa lampeggiante. Diede una rapida occhiata allo schermo e rimase sorpresa nel notare che non vi erano né messaggi né chiamate perse: Billie Joe Armstrong non si era fatto sentire.
Per diversi secondi rimase immobile a rigirarsi il telefonino tra le mani, allo stesso tempo quasi delusa e confusa da quella scoperta. Era strano che non le avesse scritto niente: avrebbe giurato che si sarebbe fatto sentire presto, se non per chiarire immediatamente quello che era appena successo tra di loro, almeno per informarsi della sua salute, dal momento che era stato lui stesso a farle notare di avere la febbre. Sentì le tempie pulsare e dovette chiudere gli occhi per un istante in attesa che passasse il dolore. Le venne da chiedersi, allora, cosa avesse da rimproverare a quell’uomo. Perché le stava tanto a cuore che lui si interessasse a lei al punto da rimanerci male quando non si faceva sentire? D’altronde, per essere poco più di un estraneo, aveva già fatto anche troppo, per lei. L’aveva ascoltata, aiutata, consigliata. Quel pomeriggio l’aveva baciata, ma lei per prima poteva immaginare quanto quel gesto fosse stato privo di significato per lui. Il pensiero che quel bacio potesse significare qualcosa per lei non la sfiorò neppure lontanamente, fu come se non ci fosse mai stato.
Poggiò nuovamente il cellulare sul comodino accanto al letto e spense l’abatjour.

Billie Joe Armstrong aveva i capelli ancora umidi quando entrò nel soggiorno con un asciugamano avvolto intorno ai fianchi e il viso arrossato dai vapori della doccia. Come ogni temporale estivo che si rispetti, l’acquazzone che quel pomeriggio aveva bagnato Berkeley non era durato più di un quarto d’ora e, una volta cessato, le nuvole avevano lasciato immediatamente spazio al sole come se, nel bel mezzo di luglio, non avessero avuto alcun diritto di tenerlo nascosto un minuto di più, e infatti, fuori dalla finestra si intravedeva una porzione di cielo sereno che si stava progressivamente tingendo dei colori del tramonto. Era durato pochi minuti, quel temporale, ma erano stati più che sufficienti a dare una benefica rinfrescata all’aria della città, oltre che a bagnare dalla testa ai piedi Billie Joe e Gloria. Lui l’aveva riaccompagnata a casa con il riscaldamento della macchina acceso al massimo; a metà strada aveva smesso di piovere. Aveva fermato l’auto nel vialetto di casa della ragazza senza spegnere il motore e le aveva chiesto se le fosse dispiaciuto se non l’avesse accompagnata fino alla porta, lei aveva scosso la testa e si era sporta verso di lui per schioccargli un bacio sulla guancia. Aveva gli occhi sempre più lucidi e rossi, e non aveva smesso, neanche per  un secondo, di tremare. Le aveva augurato di rimettersi presto, lei l’aveva ringraziato e a quel punto si era avviata verso la porta proprio mentre lui faceva retromarcia e partiva verso la strada che l’avrebbe riportato a casa e, una volta giunto lì, pochi minuti dopo essere rientrato e prima ancora che avesse avuto il tempo di infilarsi sotto la doccia, Mike e Trè Cool avevano bussato alla porta e ora se ne stavano seduti scompostamente sul suo divano leopardato con in mano due birre quasi vuote.
«Non erano le ultime, vero?»
Trè Cool scambiò una rapida occhiata con Mike per poi stamparsi sulla faccia un sorrisetto idiota che non poteva assolutamente essere frainteso.
«Come non detto.»
Billie Joe si sedette tra di loro strappando la bottiglia di mano al suo amico batterista e bevendone un generoso sorso prima di restituirgliela completamente vuota; un istante dopo starnutì due volte.
«A quanto pare l’acquazzone ti ha regalato un bel raffreddore.»
Il chitarrista si asciugò il naso con il dorso della mano.
«Cavolo, spero di no. Mi roderebbe troppo il culo, per un fottutissimo quarto d’ora di pioggia.»
«Un fottutissimo quarto d’ora di pioggia che è finito tutto sulla tua fottutissima testa, però.» fece notare Trè Cool picchiettando le dita della mano sana sul gesso che, di lì a pochi giorni, avrebbe finalmente potuto togliere.
«Già. La prossima volta che decido di uscire di casa prendo la macchina...» sentenziò il frontman dei Green Day arricciando le labbra in una smorfia, fingendo di essere infastidito da ciò che era successo, o meglio, da ciò che aveva raccontato ai suoi amici riguardo cosa gli fosse successo. «anche se c’è un sole che spacca le pietre.»
Mike Dirnt lo osservò tacitamente per diversi istanti, aspettando forse un segno di cedimento nei suoi occhi, ma il suo amico sembrava non avere la minima intenzione di sottrarsi al suo sguardo. A lui e Frank, Billie Joe non aveva ancora raccontato nulla di Gloria. Forse pensava non fosse una cosa sufficientemente importante da poter interessare loro. O al contrario, forse, sentiva che stava diventando importante più di quanto non avesse voluto, e dentro di sé aveva paura che i suoi amici gli dessero la conferma che, , forse quella ragazza gli piaceva davvero, e non solo come amica, e che soprattutto gli ricordassero di essere sposato, di avere due figli e, cosa non di poco conto, quasi vent’anni più di lei. Era per questo che non aveva fatto parola con loro né degli incontri al bar, né della telefonata, e ancor meno di quel pomeriggio, con tutto quello che era successo. A loro aveva preferito raccontare di avere avuto un barlume di ispirazione per nuove canzoni, e di essere uscito di casa per passeggiare -come spesso faceva per chiarirsi le idee e capire da dove cominciare per trasformarle in musica- e di essersi allontanato così tanto da non riuscire a rientrare a casa in tempo per ripararsi dal temporale.
Non era ancora riuscito a spiegarsi perché, di punto in bianco, avesse deciso di baciare Gloria, così come non era riuscito a spiegarsi come mai lei avesse accettato -e ricambiato- quel gesto senza poi fargli domande. Non aveva avuto il tempo per rifletterci su a sufficienza, e aveva deciso che, per il momento, avrebbe tenuto per sé qualsiasi aneddoto che riguardasse quella ragazza, almeno finché non avesse trovato una risposta ai suoi dubbi, a quelli che aveva avuto sin dall’inizio, da quando l’aveva incontrata la prima volta, e a quelli più recenti riguardanti il bacio di quel pomeriggio. Sapeva che non sarebbe stato facile tenere la bocca chiusa con i suoi amici, ma si era davvero convinto di dover risolvere la questione da solo, autonomamente, senza che nessun altro interferisse nella faccenda, anche se faticava a credere che Mike e Frank non avessero già notato il suo atteggiamento di chiusura nei loro confronti. Sapeva di essere come un libro aperto, per loro che lo conoscevano così nel profondo, e Mike, più di tutti, era troppo sveglio e perspicace per non rendersi conto che qualcosa stesse effettivamente succedendo, e lo aveva già dimostrato inequivocabilmente con la storia della telefonata fuori dal Gilman, quando gli aveva fatto notare che a quell’ora di notte non poteva essere possibile che stesse parlando con Adrienne.
Anche in quel momento, infatti, il suo sguardo era vigile e indagatore, scrutava negli occhi del suo amico con estrema lucidità e attenzione.
«Magari ti basterà non allontanarti troppo da casa, la prossima volta. Così, se vedi il cielo annuvolarsi, avrai tutto il tempo per rientrare.»
Billie Joe comprese da quelle parole che il suo bassista non se l’era bevuta, ma preferì non compromettersi ulteriormente cercando di salvare la situazione con altre scuse poco convincenti e, semplicemente, si limitò ad accennare un sorriso stringendosi nelle spalle.
«Sì, credo proprio che farò così.»
Mike dovette usare tutto il suo autocontrollo per non scattare in piedi come una molla e dire lui: «no, non è vero. Hai detto un mucchio di stronzate.», ma annuì con un lento cenno del capo, lasciando chiaramente intendere al suo amico che per il momento non avrebbe chiesto spiegazioni sul suo comportamento, ma che l’avrebbe sicuramente messo sotto torchio la prossima volta che avrebbe cercato di propinargli una scusa così poco credibile.
Trè Cool scambiò con lui un’occhiata veloce, colse l’assenso nel suo sguardo e si alzò dal divano.
«Noi andiamo a casa, ti aspettiamo per cena?»
Il chitarrista indugiò un istante prima di rispondere affermativamente, cercando di caricare la voce di quanta più convinzione possibile.
Non aveva voglia di uscire, quella sera. Erano tante, le domande sulle quali avrebbe dovuto interrogarsi e alle quali avrebbe dovuto trovare risposta, ed era importante che riuscisse a farlo il prima possibile, prima di scombinare le cose irrimediabilmente, ma si rendeva conto di non avere altra scelta: i suoi monologhi interiori e le sue riflessioni avrebbero dovuto aspettare, o rischiava di anticipare drasticamente il confronto che, prima o poi, avrebbe inevitabilmente dovuto avere con i suoi amici, se avesse deciso di piantarli in asso anche quella sera e restare a casa per conto suo.
«Mi vesto e passo subito da voi.»
Mike e Frank salutarono e uscirono di casa richiudendosi la porta alle spalle.
«Tu che cosa ne pensi di questa storia?»
Il bassista sollevò lo sguardo al cielo e sospirò pensieroso.
«Che Billie Joe non sa raccontare bugie.»

[Continua]
 

Salve, gente.
Non so veramente cosa dire.
O meglio, di cose da dire ne avrei tante, è che proprio non so da dove cominciare, per cui inizio col dire che, come al solito, mi dispiace. Mi dispiace davvero tanto, e questa volta in particolare, perché sei mesi sono davvero troppi, anche per i miei standard.
Sono pessima, lo so... però, in compenso, voi siete veramente meravigliosi. Davvero, non so come ringraziarvi per questa sorta di “atto di fedeltà” che mi state facendo, non dimenticandovi di questa storia. Spero che dopo tutto questo tempo di assenza da parte mia la situazione non sia cambiata, perché mi fa un piacere immenso ricevere i vostri commenti, ma ancora di più mi fa piacere sapere cosa pensate di questa storia, dei suoi personaggi, di quello che fanno e del modo in cui descrivo tutto questo.
Parlando del capitolo, devo dire che mi ha fatto veramente dannare: ci ho combattuto per mesi, l’avrò revisionato non meno di una decina di volte, ma ogni volta che cercavo di sistemarlo trovavo sempre qualcosa che non mi convinceva e ricominciavo daccapo. Ad ogni modo, quasi mi dispiace ricomparire dopo tutti questi mesi con questo capitolo in particolare. Forse per tutto il tempo che avete aspettato vi sareste meritati un capitolo un po’ più interessante, mentre questo è uno di quei capitoli di transizione, in cui non accade assolutamente nulla e, per questo, noiosi da morire. Vi prometto che mi farò perdonare con il prossimo, con il quale ci avviciniamo sempre di più al nocciolo della storia, perciò cercate di perdonarmi se anche questa volta impiegherò diversi mesi per aggiornare, ma trattandosi di un capitolo importante ho bisogno di tempo per gestirlo, e questo sarà ben difficile da racimolare, vista la maturità che si avvicina inesorabilmente, ma questo dubito che possa interessarvi :D
Un’ultima cosa che devo dirvi (poi giuro che sparisco... e ci si rivede quest’estate... sigh...): ho iniziato a revisionare i primi capitoli di questa storia. Il fatto è che non mi riconosco più nello stile che avevo (ormai è passata la bellezza di ben due anni, da quando ho iniziato a scriverla), perciò ho deciso di rimodernarla un po’, cercando di rendere lo stile un po’ più in linea con quello di adesso, quello degli ultimissimi capitoli. La trama non ha subito stravolgimenti, semplicemente però ho aggiunto qua e là alcuni piccoli pezzi per spiegare meglio determinate cose, come il modo in cui Trè Cool si è rotto il polso, o il fatto che, per il tempo in cui è costretto a tenere il gesso, si è trasferito a casa di Mike, o ancora una piccola riflessione di Billie su cos’è che veramente, a un certo punto della storia, l’ha buttato così giù. Piccole cose, insomma, per cui non c’è bisogno di ricominciare daccapo a leggere la storia... però, certo, se non avete niente da fare (cosa che dubito XD) magari vi aiuterebbe a rispolverare un po’ la memoria, visto che mi rendo conto che, aggiornando così lentamente, non è difficile perdere il filo della storia. Inoltre ho dato anche una piccola aggiustata ai pezzi in cui viene descritta Gloria. Il fatto è che, andando avanti con la storia, iniziava a risultarmi antipatico come personaggio, e mi sono resa conto che, forse, in alcuni punti l’avevo idealizzata un po’ troppo (complice, forse, il fatto che in quei punti fosse descritta attraverso gli occhi di Eva o Billie, persone che comunque hanno un giudizio molto positivo su di lei), così ho cercato di essere un po’ più obbiettiva nelle descrizioni e di umanizzarla un po’ di più. Ho già iniziato a pubblicarli, questi capitoli revisionati, e spero di riuscire presto a concluderli tutti, in modo da potermi dedicare solo e esclusivamente ai nuovi capitoli. Credo che per stavolta sia tutto. Spero che, tutto sommato, il capitolo vi piaccia e che mi farete sapere cosa ne pensate.
Alla prossima.

 

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Capitolo 18
*** Batticuore ***


Questa volta lo metto all’inizio, il commento, perché ci tengo davvero tanto a dirvi un paio di paroline prima che cominciate la lettura, sempre ammesso che sia rimasto, in questo sito, qualcuno che seguiva questa storia. Ricordo che l’ultima volta aggiornai a distanza di sei mesi, circa, e già allora mi sembrò inaccettabile. Questa volta ricompaio dopo oltre un anno, e veramente non so cosa altro fare se non scusarmi con tutti voi. Ho almeno una decina di motivi per non aver pubblicato prima –la maturità, l’inizio dell’università, la prima sessione di esami...-, ma la verità è che più passa il tempo e meno mi riconosco in questa storia che, mi rendo conto solo adesso, è nata la bellezza di tre anni fa, e immagino che non servano le mie parole per farvi capire quanto possa cambiare una persona in tutto questo tempo. Ebbene sono cambiata io, è cambiato il mio modo di rapportarmi con il mondo e, chiaramente, è cambiato il mio stile di scrittura. Già l’anno scorso mi ero messa a revisionare questa storia dall’inizio, non riconoscendomi più affatto nello stile che avevo, e se rileggo tutto quanto adesso già mi viene voglia di cambiare tutto di nuovo, ma mi rendo conto che non è possibile. Avevo promesso a me stessa e a tutti quelli con cui ho avuto modo di parlare di questa storia che non l’avrei mollata prima di arrivare alla fine. Ammetto senza troppi problemi che inizia a starmi stretta davvero: mi sta stretta la storia e mi stanno stretti i personaggi, dopo tutto questo tempo credo che sia normale, ma tenterò ugualmente di fare il possibile per portarla a termine. Non posso promettervi di aggiornare frequentemente, è una promessa che non sono in grado di mantenere, ma farò di tutto per non lasciarla morire incompiuta così com’è.
Ci tengo comunque a ringraziare chi ha seguito questa storia sin dall’inizio, commentando puntualmente e facendomi sentire sempre e comunque il proprio sostegno. Allo stesso modo ringrazio chiunque di voi si fermerà a leggere questo nuovo capitolo (o l’intera storia, magari, se siete nuovi lettori), e come sempre vi invito a lasciarmi un commento, giusto per farmi sapere che ne pensate, sia che la storia vi piaccia sia che non vi piaccia affatto. So che è dal confronto e dalle critiche che si ha la possibilità di migliorare, quindi mi rimetto alle vostre opinioni. Sentitevi pure liberi di crocifiggermi (e già solo in base ai miei tempi di aggiornamento, ammetto che me lo meriterei!).
Non ho nulla da dire riguardo al capitolo, se non che, in tutto il mio rammarico per questo mostruoso e indecente ritardo, sono per lo meno soddisfatta di ricomparire con questo, dal momento che è decisamente uno tra i più importanti capitoli dell’intera storia, ma questo avrete modo di constatarlo da soli.
Detto questo, spero di aver fatto un buon lavoro e, chiaramente, di tornare il prima possibile con un nuovo capitolo.
Un bacio grande a tutti voi.
 

Batticuore

 
Alle due in punto di pomeriggio, Billie Joe Armstrong vide Gloria uscire dal vialetto di casa accompagnando due ragazze che dovevano avere pressappoco la sua età; aveva l’aria allegra e ridacchiava per qualcosa che una delle sue amiche le aveva appena detto. Il frontman dei Green Day si issò sul sedile posteriore della sua automobile e rimase in silenzio a osservare la scena da dietro il muro della villetta che faceva angolo alla strada. Aspettava, al sole, seduto in macchina da quasi un’ora; aveva sete, e se non avesse avuto l’aria condizionata accesa al massimo, probabilmente sarebbe morto di caldo già da un pezzo. Erano trascorsi due giorni dall’ultima volta che aveva visto Gloria, e da quel pomeriggio -quello delle loro chiacchiere e del bacio sotto la pioggia- non le aveva più scritto nemmeno un sms. Quando, quella sera, si era recato a cena dai suoi amici, il suo comportamento era stato quello di sempre: aveva scherzato, riso, parlato con loro come se tutto fosse stato normale, ma quando, poi, aveva fatto ritorno a casa, aveva staccato il telefono, tirato le tende e si era buttato sul divano con una valanga di fogli bianchi, una penna, e un paio di birre a portata di mano sul tavolino. Aveva iniziato a scrivere, aveva iniziato a scrivere tutto ciò che gli fosse passato per la testa: frasi, pensieri, parole, nomi, linee di inchiostro nero sparse a caso lungo i fogli. Aveva tracciato disegni stilizzati, mordicchiato il tappino della penna, bevuto un sorso di birra ed era tornato di nuovo con la punta sui fogli, fumando una sigaretta. E ancora aveva scritto lettere, parole, frasi incompiute, schizzi disordinati, pensieri senza senso. Si era addormentato, ubriaco, alle prime ore del mattino, dopo aver disseminato il tappeto di bottiglie di birra vuote e riempito il posacenere di mozziconi fumati solo per metà. Aveva fatto un sonno tranquillo e senza sogni. Si era svegliato nel tardo pomeriggio, madido di sudore e con la familiare sensazione di cerchio alla testa. Allora si era preparato un caffè, aveva ingoiato un analgesico e fatto una telefonata a sua moglie e ai ragazzi; dalle tende filtrava, fioca, la luce aranciata del tramonto. Non si era fatto la doccia e non aveva aperto le finestre. Semplicemente si era di nuovo rintanato nel salotto, in quella stanza che ora puzzava di sudore e di chiuso, e fumando una sigaretta aveva riletto quello che aveva scritto la notte precedente. Si era messo a contare i fogli che aveva riempito: una dozzina, in tutto. Li aveva sfogliati con estrema attenzione, osservando gli schizzi mentre si sforzava di capire cosa rappresentassero alcuni di loro, leggeva le frasi ripetendole ad alta voce. Il nome di Gloria compariva, tra quelle pagine, centoquattordici volte, circondato ora da un cerchio ora dai nomi di tutte le persone che avevano avuto un ruolo importante nella sua vita: sua moglie, i suoi figli, Mike e Trè Cool, sua sorella Anna, suo padre. Aveva stracciato i fogli e afferrato una chitarra, una classica, e aveva iniziato a muovere le dita lungo la tastiera, ripetendo arpeggi già conosciuti o creandone di nuovi. Mentre suonava, però, la sua mente era altrove, si era persa indietro nelle ore, intrappolata tra i rami degli alberi del parco dove, il giorno prima, era stato con Gloria. Aveva ripensato al peso della sua testa addormentata sulle sue gambe, alle guance tinte di rosso per la febbre, alle sue labbra calde.  Così aveva iniziato a suonare sempre più velocemente, dagli arpeggi era passato a pennate più decise, cambiava accordi senza seguire un ritmo preciso. Continuava a pensare a Gloria e il suo sguardo era fisso sulla parete come se la sua mente si fosse improvvisamente staccata dal corpo e fosse tornata indietro di ventiquattro ore. Una corda si era rotta senza preavviso, e della nota stonata era rimasta un’eco tenebroso, simile al suono di una campana a morto. Billie Joe Armstrong era tornato alla realtà e si era accorto di essere senza fiato, il cuore gli martellava nel petto e goccioline di sudore gli colavano dalla fronte, aveva fame. Aveva ordinato abbondante cibo cinese e, nell’attesa che arrivasse, trangugiato una mela per fermare i morsi della fame. Di nuovo aveva telefonato a sua moglie, e nel sentire la sua voce si era reso conto di quanto le stessero mancando il suo sorriso e i suoi modi di fare gentili e allo stesso tempo decisi. Si erano salutati con un «ti amo» sincero, e quando aveva riagganciato si era sentito più confuso e abbattuto che mai. Nella sua vita non mancava nulla, aveva riflettuto: aveva una bella casa, degli amici fantastici, due figli splendidi e una moglie perfetta. Si era realizzato come musicista, certo, ma anche come marito, come padre, come uomo, insomma. Era soddisfatto della vita che era riuscito a costruirsi. Quelli erano i punti cardine della sua esistenza e per nulla al mondo avrebbe rinunciato anche solo a uno di essi. Eppure in quei momenti, chiuso in quella casa troppo grande e vuota per una persona sola, sentiva la mancanza di quegli occhi azzurri e di quel sorriso giovanile, e si era chiesto come fosse possibile non riuscire a impedirsi di desiderare quella ragazza e, allo stesso tempo, continuare ad amare sua moglie alla follia. Aveva riflettuto a lungo con lo sguardo fisso sul soffitto fino a che non si era addormentato di nuovo. Una volta sveglio si era sentito subito estremamente calmo e riposato. Aveva arieggiato la stanza dove era rimasto chiuso per un giorno e mezzo, aveva fatto una doccia e si era rasato. Si era vestito, aveva mangiato quello che era rimasto del cinese della sera prima ed era uscito di casa intorno a mezzogiorno.
 
Doveva parlare con Gloria, e doveva farlo nell’ora di pranzo, quando sapeva che sua sorella sarebbe stata occupata al ristorante e lei sarebbe stata sola a casa, allora era passato con la sua auto di fronte alla sua villetta, ma vi aveva visto parcheggiata nel vialetto una moto e, immaginando che avesse visite, si era appostato lì intorno in attesa che la motocicletta se ne andasse assieme al suo proprietario. A guardarle così, da una certa distanza, Gloria e le due amiche che erano con lei rispecchiavano pienamente quel prototipo di amicizia presente in qualsiasi telefilm americano, quella che si viene a creare in gruppetti di tre o quattro ragazze inseparabili, a detta loro, ognuna diversa dalle altre, sia caratterialmente che fisicamente,  e che basano la specialità del loro rapporto proprio su tutte le loro differenze, su ciò che le rende uniche nel loro gruppo, anche se sostanzialmente identiche alle altre centinaia di migliaia di ragazze che, come loro, avevano costruito un’amicizia del genere. Una di loro aveva i capelli rossi, indubbiamente tinti e tagliati cortissimi, e un anellino al naso. Era tozza e bassina, anche più di Gloria. L’altra aveva i capelli biondi e mossi, lunghi fino a pochi centimetri sotto le spalle. Era alta e snella, e il vestitino estivo che indossava lasciava intravedere morbidamente le curve giuste. Aveva il viso gentile e sorrideva con naturalezza, mentre l’espressione della sua amica rossa era più maliziosa e provocante.
Per passare il tempo provò a immaginare i loro ruoli all’interno del gruppo: la ragazza bionda doveva essere quella timida e riservata, quella che sorrideva sempre e che faceva girare tutti i ragazzi ai quali passava davanti, quasi senza rendersene conto. Quella dai capelli rossi, invece, sembrava essere la parodia di un punk; il frontman dei Green Day immaginò che dovesse essere la ribelle, l’anticonformista, quella perennemente in lotta con le convenzioni: il tipo di ragazza che, generalmente, non sta simpatica alle persone, tanto meno ai ragazzi.Poi c’era lei, Gloria: statura media, magra come un fuscello, curve praticamente inesistenti e sguardo della persona qualunque. Era anonima, Gloria. Era anonima in mezzo alle altre due ragazze. Era anonimo il suo modo di sorridere, il suo modo di vestire, di tenere i capelli, ma fu proprio quando capì chiaramente tutte queste cose, che Billie Joe Armstrong si rese conto del perché, quasi inconsapevolmente, avesse apprezzato sin da subito, e così tanto, quella ragazza: perché in un periodo in cui per i giovani contava avere un ruolo preciso e ben definito all’interno della società, contava identificarsi con un determinato gruppo di persone, Gloria sembrava volersi allontanare da tutti i luoghi comuni per rintanarsi in quello che i suoi coetanei avrebbero definito il più svantaggioso di tutti: l’anonimato. Non in maniera consapevole, certo, ma era così. Fu questo, che convinse Billie Joe: a un occhio poco attento Gloria non aveva nulla della ragazza speciale. Aveva una personalità particolare, contraddittoria come solo quella di un’adolescente poteva essere, non indossava abiti alla moda, o che comunque potessero rimandare a qualche stile particolare, e anche fisicamente non era né il tipo di ragazza davanti alla quale i ragazzi sbavano come lumache, né il tipo di ragazza che lascia totalmente indifferenti. Una ragazza qualunque, insomma, ma speciale proprio perché vera, totalmente priva di artifici. Quella ragazza non era la ribelle, la diva, la tosta. Era semplicemente se stessa, semplicemente Gloria, e questa era un’altra cosa che avrebbe voluto dirle non appena fossero rimasti soli.
Fortunatamente le due ragazze filarono via in motorino dopo pochi minuti, e Billie Joe Armstrong comprese che quello era il momento più adatto per uscire e andarle a parlare. Percorse a piedi, lentamente, i pochi metri che lo separavano dalla casa di Gloria e, una volta giunto lì di fronte, si fermò per un istante davanti all’accesso del vialetto sulla strada. Era una villetta bianca a due piani, non particolarmente grande, ma circondata da un bel giardino dalle siepi basse e curate. Un percorso lastricato collegava la strada alla porta di casa, e le girava tutto intorno mentre nello spazio restante vi era il prato inglese. Intravide la figura di Gloria sul retro, nell’angolo di giardino dove erano posizionati un gazebo e un tavolino di legno con delle sedie. Era voltata di spalle, e sembrava stesse facendo ordine sul tavolo. Mentre poggiava su un vassoio i bicchieri e la brocca di succo di frutta che aveva offerto alle sue amiche, sembrava non essersi accorta della figura che, silenziosa e risoluta, stava avanzando verso di lei. Si sentì chiamare per nome nel momento in cui si accinse a voltarsi per dirigersi verso la porta del retro. La voce che la chiamò si intromise nei suoi pensieri come il boato di un tuono, facendola trasalire. Il vassoio le scivolò via dalle mani e i bicchieri si frantumarono a contatto con il lastricato. Con uno scatto si voltò spaventata in direzione di quella voce con il cuore in tumulto e le pupille dilatate e solo quando si accorse di chi si trattava tirò un silenzioso sospiro di sollievo, mentre il suo viso rimase totalmente inespressivo. Lentamente spostò lo sguardo verso terra, dove i frammenti di vetro catturavano i raggi del sole, per poi tornare a rivolgerlo nuovamente verso il frontman dei Green Day mentre si piegava sulle ginocchia a recuperare il vassoio.
«Mi hai messo paura.» ammise Gloria con voce tremante sostenendo il suo sguardo. Aveva l’aria strana, Billie Joe. Il volto era rigido, il suo sguardo impenetrabile. Sotto gli occhi aveva disegnate due mezzelune scure e sulla linea della mascella aveva un sottile taglio che doveva essersi procurato facendosi la barba. Sembrava una sfinge. Anche il tono di voce con cui l’aveva chiamata aveva un che di strano. Gloria l’aveva notato immediatamente, ed era per questo che si era spaventata.
«Vedo che stai meglio.» annunciò lui con voce più calma chinandosi a sua volta proprio di fronte a lei, aiutandola a rimettere nel vassoio i pezzi di vetro più grandi mentre la guardava negli occhi, così vicini ai suoi, e sentiva di nuovo degli strani movimenti all’interno del suo stomaco che sembravano togliergli il respiro.
«La febbre è scesa quasi subito.» rispose lei, spiccia.
Lui annuì senza dire nulla.
Gloria continuò ad osservarlo circospetta. Sembrava di rivederlo come quella prima mattina al locale. Aveva gli occhi lucidi e il suo respiro aveva un vago odore di alcol.
«Sei strano, Billie. Perché sei venuto qui?» domandò lei dopo aver constatato che lui non avrebbe parlato. «Avresti potuto mandarmi un messaggio, se volevi sapere come stavo.»
Billie Joe scosse la testa.
«Dovevo parlarti.»
«E di che?»
Lui cacciò fuori un respiro pesante.
«Dello scorso pomeriggio.»
Gloria annuì con un movimento del capo pressappoco impercettibile, abbassando lo sguardo per qualche istante.
«Certo. È ovvio.» mormorò con uno strano sorriso sulle labbra.
Era da quello stesso pomeriggio, che Gloria stava aspettando il momento in cui lui le avrebbe detto di voler chiarire quanto era successo tra loro, e anzi le sembrava decisamente strano che avesse lasciato passare due interi giorni prima di farsi vivo, anziché contattarla telefonicamente e mettere in chiaro le cose in quella maniera, con il minor coinvolgimento possibile da parte di entrambi.
«Dovevo parlartene faccia a faccia.» spiegò lui quasi in risposta ai suoi pensieri.
Gloria annuì nuovamente e alzò lo sguardo su di lui, sul suo viso ancora così vicino e sui suoi occhi, fissi su di lei ma impossibili da penetrare.
«Ora siamo faccia a faccia. Parla.»
Billie Joe fece per aprire la bocca e parlare, ma si accorse solo in quel momento che in realtà non aveva la minima idea di cosa dire. Erano troppi, i pensieri che aveva nella testa e proprio non sapeva da che parte cominciare a spiegarsi: paradossalmente, proprio lui che aveva scritto testi per le sue canzoni che avevano fatto emozionare milioni e milioni di persone in tutto il mondo, non riusciva a trovare le parole per confessare a quella ragazza tutto quello che stava succedendo dentro di sé. Dopo un istante di silenzio lungo una vita si abbandonò ad un sospiro frustrato, nascondendosi la testa tra le mani.
Gloria osservò confusa quel suo strano atteggiamento.
«Billie, ma che-»
«Senti.» la interruppe lui con voce dura, alzandosi in piedi con uno scatto per poi passarsi una mano tra i capelli.
Gloria sentì che piegata in quel modo sulle ginocchia iniziava a sentire male alle caviglie, così si poggiò a terra a sedere, senza mai staccare lo sguardo dall’uomo che aveva di fronte e che la stava letteralmente mandando in confusione con quel suo insolito modo di fare.
«Non ti dirò che non amo più mia moglie.» precisò umettandosi le labbra. «E non ti dirò nemmeno che sono stufo di stare insieme a lei, o che non facciamo più sesso da una vita.»
Lei sgranò gli occhi e aggrottò la fronte in un’espressione perplessa.
«Perché non è così: sappi che io amo Adrienne e -tanto per mettere le cose in chiaro- noi facciamo sesso.»
Gloria sbatté le palpebre più e più volte.
«Facciamo tantissimo sesso.» ribadì guardando la ragazza dritta negli occhi come a voler essere certo che lei stesse capendo ciò che le stava raccontando. «Scopiamo come conigli.»
Lei non resistette oltre e con voce decisa ribatté: «Ok, l’ho capito che fai ancora sesso con tua moglie, ma perché lo stai raccontando a me?», e notando che lui esitava a rispondere proseguì:
«Tu pensi che io possa aver frainteso quello che è successo l’altro giorno, è vero? Beh, io ti assicuro che non è così.»
Poi con voce meno aggressiva e con sguardo sincero aggiunse: «Davvero.»
Contro ogni sua aspettativa, però, Billie Joe Armstrong si fiondò nuovamente in ginocchio davanti a lei e, senza darle nemmeno il tempo di capire, le prese il viso tra le mani. Gloria iniziò a tremare impercettibilmente, incapace di sottrarsi a quel contatto, e non solo a quello delle sue mani contro le guance, ma anche a quello dei suoi occhi, che sembravano comunicarle un qualcosa che lei non riusciva a decifrare.
Cosa stava succedendo?
Non conosceva Billie Joe, non abbastanza. Era un estraneo, era nel giardino di casa sua e la stava guardando con occhi che le facevano venire la tremarella.
«Gloria.» fece lui, accarezzandole le guance con i pollici. «Non sto capendo più niente.»
La sua voce era bassa ma risoluta.
«Io ci ho provato, te lo assicuro. Ci ho provato in tutti i modi, ma non riesco a starti lontano.»
Quelle parole fecero tremare Gloria più di quanto non stesse già facendo, il suo cuore sembrò fermarsi per un istante per poi ricominciare a battere più velocemente di quanto avesse fatto mai.  Con grande incertezza tirò indietro la testa e portò le mani su quelle di Billie, facendo in modo che si staccassero dal suo viso.
«Non guardarmi così. Quello che mi è successo da quando ti conosco -quello che ho fatto da quando ti conosco-... spiazza anche me, e tanto. È una cosa che non riesco neanche a descriverti, Gloria. Tu sei entrata nella mia vita in punta di piedi, ma lo hai fatto con una dirompenza pazzesca, e io non riesco più a pensare ad altro che a te.»
Parole del genere non se le era mai sentite dire da nessuno, e dentro di sé mai avrebbe immaginato che qualcuno avesse potute rivolgergliele, e ascoltarle così, provenire dalle sue labbra, dalle labbra di Billie Joe Armstrong, fu, in assoluto, la sorpresa più grande della sua vita. Sentiva la gola secca, aveva caldo e in più le sembrava di avere le guance in fiamme, forse le stava tornando la febbre, e non riusciva a trovare la forza di rimettersi in piedi.
Cosa le stava dicendo quell’uomo? Stava scherzando o faceva veramente sul serio?
Il dubbio la opprimeva, ma nonostante tutto si rifiutava di credere che fosse davvero così, anche se nei suoi occhi non c’era traccia né di ilarità né di qualsiasi altra cosa che avrebbe potuto far pensare a uno scherzo o a una presa in giro.
Si stava agitando, si accorse maledicendosi. Quelle parole la stavano spaventando, e tanto. Avrebbe voluto rispondergli di non dire cavolate simili, avrebbe voluto chiedergli spiegazioni, ma per qualche strana ragione che non seppe spiegarsi l’unica cosa che riuscì a dire fu:
«Non dare la colpa a me.»
Lui rimane di sasso per un istante.
«Non ti sto dando la colpa di niente.» rispose confuso.
«Sì, invece.» ribatté lei. «Tu stai dicendo che sono stata io a mettermi tra i tuoi passi e che sono stata io a sconvolgerti la vita, ma non è così. Io non sono entrata nella vita di nessuno, Billie. Eri tu quello fuori posto, l’altra mattina, al bar. Io ero esattamente dove dovevo essere, per cui non sono io che mi sono infilata nella tua esistenza. È tutto il contrario, semmai. Io non ho fatto assolutamente niente, hai fatto tutto tu. Sei tu che sei entrato al bar, sei tu che sei entrato nella mia vita, e quando sei tornato per regalarmi il cd, sei tornato lì perché tu volevi tornare. Non ti ho invitato io, ci sei venuto da solo.»
Di fronte a quelle parole lui sembrò fare qualche passo indietro.
«Lo so. Lo so, è vero, hai ragione, scusa. Non è colpa tua se sono arrivato a tutto questo. È colpa mia, ma ti assicuro che non avrei voluto. Non avrei voluto né metterti in mezzo, né tanto meno fare qualcosa di sbagliato nei confronti della mia famiglia, ma a questo punto non credo che serva a qualcosa cercare di capire di chi sia la colpa... perché non cambierebbe le cose. Io ormai ci sono dentro, e non posso ignorare quello che sento. Non posso più considerarti solo una semplice amica, non è quello che voglio.»
I suoi occhi esprimevano una sincerità spaventosa, e la cosa sconvolgeva ancora di più i pensieri già sufficientemente confusi della ragazza, che non riuscì a trovare altro modo di rispondere se non prendendo di petto la situazione.
«Ma ti senti? Che vuol dire che non è quello che vuoi? Che cosa vorresti, allora? Fammi capire, vorresti che stessimo insieme noi due? Che giocassimo a fare gli innamorati? A me non sembra una buona idea, sai?.»
«Perché?»
La sua voce era calda e onesta. Sembrava davvero che non riuscisse a vedere dove fosse il problema in tutto ciò, e Gloria tentennò per qualche istante prima di riuscire a darsi un contegno e rispondere alla sua domanda.
«Come perché? Perché... è folle. Sei sposato, hai dei figli, io ho vent’anni meno di te. Che futuro abbiamo?»
«Ma chi l’ha detto che per stare insieme bisogna avere per forza un futuro assicurato, Gloria? Non possiamo semplicemente vederci e stare insieme e vivere quello che c’è finché dura?»
Gloria sentì la testa vorticarle paurosamente mentre si massaggiava le tempie con due dita cercando, senza troppo successo, di fare chiarezza tra i suoi pensieri. Non ci riusciva, non era in grado di trovare la calma e la lucidità necessaria per rispondere pacatamente, così piuttosto che spiegare ragionevolmente le sue motivazioni si ritrovò ancora una volta ad attaccare lui, le sue idee.
«Tu devi essere pazzo.  Tutto ciò è una vera follia, Billie. Come puoi anche solo minimamente pensare che la cosa funzionerebbe? Credi davvero che valga la pena di mandare a puttane la tua vita per una cosa passeggera come questa? Sei folle, se lo pensi davvero.»
Fece una breve pausa per poi riprendere immediatamente senza neppure dare lui il tempo di replicare.
«Va’ a trovare tua moglie, fatti una bella chiacchierata con lei e vedrai che tutta questa confusione passerà in un battibaleno, fidati di me. E per quello che mi riguarda, forse è il caso che io te la smettiamo di sentirci e vederci. Sì, è molto meglio così.» e mentre pronunciava queste ultime parole, poggiò le mani a terra e tentò di fare leva sulle braccia per rimettersi in piedi, ma fu fermata da Billie Joe che le poggiò le mani sulle sue e le parlò a pochissimi centimetri dal suo viso. Il respiro di Gloria accelerò istantaneamente di fronte a quello sguardo che sembrava violentarla tanto riusciva a scavare in profondità nei suoi occhi spaventati.
«Lo sai benissimo anche tu che non funzionerebbe mai, Gloria. Non puoi farlo. Non puoi chiedermi di sparire dalla tua vita, perché ora come ora non mi è più possibile.»
La sua voce era, ancora una volta, dolce e carezzevole. Non c’era traccia di menzogna, né di opportunismo, e Gloria non trovò la forza, almeno per il momento, di ribattere.
 «Io ho vissuto per tutti questi anni senza di te, e ho sempre sentito che nella mia vita non mancava assolutamente nulla: io non desideravo niente di più di ciò che avevo, ma adesso, adesso che so che ci sei, ora che so che esisti e che sei vicina, io non posso far finta di non averti mai incontrata.»
Quelle parole le colpirono il cuore come la più affilata delle lame. Le sentiva, nello stesso istante, lacerarle le carni e poi rigenerarle e risanarle nuovamente. Comprendeva che quel contatto così intimo tra i loro sguardi avrebbe potuto farla cedere da un momento all’altro, e fu per questo che ancora una volta sottrasse le mani dal suo tocco e allontanò il viso dal suo, fissandolo questa volta con aria di rimprovero.
«Allora fai uno sforzo, Billie, perché tutto questo potrebbe creare seri danni, e io non voglio essere la causa di una famiglia distrutta. Mi dispiace che tu possa aver frainteso i miei atteggiamenti nei tuoi confronti, ma ti assicuro che si trattava di amicizia: nient’altro. Adesso, per cortesia, finiamola qui.»
La sua voce era diventata fredda e tagliente; Billie Joe Armstrong stentò a riconoscerla come la sua.
«Sembra quasi che tu sia scappando, sai?» commentò lui con uno strano sorriso sul viso.
Gloria aggrottò la fronte senza capire.
L’altro soffocò una risata scuotendo lievemente la testa.
«È così, stai scappando. Io sono sicuro che tu stia morendo di paura, in questo momento, perché se così non fosse ti renderesti conto che in realtà tu vuoi veramente stare insieme a me.»
Lei sbatté le palpebre più e più volte.
«Scusami?»
«Tu hai detto di no perché, secondo te, non ne varrebbe la pena. Ma non ne varrebbe la pena per chi? Per me, vero? Hai detto di no perché sono sposato, ho dei figli e vent’anni più di te. È solo questo, il problema, lo vedi? Tu hai rifiutato per paura, perché se non fossi stato sposato e non avessi avuto dei figli, tu non ti saresti fatta tanti problemi e saresti corsa tra le mie braccia senza farti pregare. Dimmi se sbaglio.»
Gloria abbassò lo sguardo a terra e scosse la testa, domandandosi tra sé e sé come accidenti fosse arrivata a quel punto, a quella discussione maledetta che la stava logorando dal più profondo di se stessa.
«Billie, tu hai una moglie e due figli. Ti sembra poco? Mi pare ovvio che non rinunceresti né a tua moglie né a loro ma, se è così, come accidenti ti passa per la testa l’idea che io possa anche solo pensare di diventare la tua... amante? E, soprattutto, come penseresti di nascondere tutto quanto alla tua famiglia, ai tuoi amici, o ai paparazzi? Non sei una persona comune, tu, te ne rendi conto o no? Non puoi permetterti certe libertà, lo sai benissimo.»
Tentò, con queste ultime parole, di mantenere saldi i nervi, di mantenere la calma, ma soprattutto cercò di essere lucida e di farlo ragionare, di metterlo davanti alla verità nuda cruda, all’impossibilità concreta di poter stare insieme, ma lo sguardo che Billie Joe continuava a puntare su di lei le dava da pensare che le sue parole fossero finite al vento.
«Lo so, infatti.» rispose lui, spiccio. «Tu hai perfettamente ragione, Gloria, ma io ancora non ti ho sentito smentire ciò che penso su di te.»
«Certo che l’ho fatto.»
«No, non è vero.»
Gloria sentì il sangue ribollirle nelle vene e fluire sulle sue guance. Non sopportava quella sue insinuazioni, non sopportava quella sua aggressività e, più di ogni altra cosa, non sopportava quella sua presunzione di sapere tutto quanto di lei.
«Ma si può sapere che diavolo vuoi, tu, da me?»
La voce di Billie Joe Armstrong, però, non risultò aggressiva come lei aveva immaginato. Piuttosto era una voce calda, sincera, che le fece tremare le gambe e, per questo, ringraziare di essere ancora seduta a terra.
«Io non voglio niente da te, te lo assicuro. Non volevo spaventarti, e non ti chiederei mai di diventare la mia amante, perché sarebbe troppo squallido ed è una cosa che non vorrei mai, per te. L’unica cosa che vorrei da te è... che tu riuscissi a gettare via questa maschera.»
Gloria sentiva il suo respiro farsi sempre più rarefatto, mentre per l’ennesima volta permetteva agli occhi di quell’uomo di violare l’intimità del suo sguardo.
«Io vedo qualcosa nei tuoi occhi, la stessa cosa che sono sicuro tu riesca a leggere nei miei. Io sono convinto che la mia presenza abbia su di te lo stesso effetto che la tua ha su di me, e che magari non te ne rendi conto fino in fondo perché non ti sei mai fatta domande a riguardo, perché hai preferito non farti domande a riguardo. Ma io sono sicuro di non essermi sbagliato, su di te.» disse scuotendo leggermente il capo, concludendo il suo discorso in un sussurro.
«Ne sono sicuro.»
«Che cosa pensi di fare, allora?» riuscì a domandare lei dopo diversi istanti di silenzio, senza riuscire controllare la tremarella, che si manifestò in tutta la sua evidenza mentre pronunciò quelle parole.
Billie Joe Armstrong prese tra le dita una ciocca dei suoi capelli, osservandola con sguardo indecifrabile per poi puntare nuovamente gli occhi dritti nei suoi.
«Niente. Solo una piccola prova.»
I sensi di Gloria scattarono all’istante, quasi in risposta a quelle strane parole, e la ragazza si ritrovò piegata sulle ginocchia, pronta a fare perno sulle punte dei piedi per tirarsi su e allontanarsi da lui, ma anche Billie Joe Armstrong si mosse repentinamente, posandole le mani sulle ginocchia per trattenerla a terra. Qualcosa dentro di sé le gridava convulsamente di allontanarsi, di fuggire, ma sentiva di non avere via di fuga, con le mani di lui poggiate così saldamente sulle sue. Incapace di muoversi, lo guardò questa volta con occhi spaventati.
«Che vuoi fare?»
Il leader dei Green Day non rispose, semplicemente si limitò ad avvicinare pericolosamente il viso a quello della ragazza.
«Billie?»
«Shh, non voglio farti niente.» rispose lui con voce carezzevole, proseguendo il suo avvicinamento. «Solo avere una prova di ciò che hai detto.»
Gloria avvertì distintamente il respiro di lui sulle sue labbra e con uno scatto si ritrovò a voltare la testa di lato, impedendo che avvenisse il fatidico contatto, ma si scoprì impossibilitata a controllare il fremito che le sconvolse per intero la spina dorsale, quando avvertì le labbra dell’uomo poggiarsi delicatamente sul suo collo in quello che le parve l’istante più lungo della sua vita. Sentiva il sangue scorrerle gelido nelle vene, ma quella porzione di pelle, quella a contatto con la bocca di Billie Joe Armstrong, scottava come il fuoco.
Poi le sue labbra si staccarono da quel punto e si andarono a posare più in avanti in un bacio leggero, per poi proseguire il proprio percorso ancora, ancora, ancora più avanti, ancora più su, sino a giungere alla mandibola in una scia di baci che le facevano venire la pelle d’oca e rizzare i peli delle braccia.
«Stai tremando.» sussurrò lui sorridendo lievemente senza mai perdere il contatto con la sua pelle.
Gloria non lo ascoltò nemmeno. Solo sentì le labbra di Billie Joe Armstrong risalire inesorabilmente: in una manciata di secondi avrebbero raggiunto le sue labbra, e allora -sapeva per certo- sarebbe stata davvero la fine, avrebbe perso qualsiasi appiglio dalla realtà, e non avrebbe più avuto alcuna via di fuga. Cosa diamine doveva fare, adesso, lei? Aveva la salivazione azzerata, il cervello totalmente annebbiato e sentiva il corpo gelato nonostante avesse la faccia rossa e bollente. Già da diverso tempo aveva chiuso gli occhi, e sentiva il proprio corpo iniziare a sciogliersi come un ghiacciolo lasciato al sole. Non poteva resistere un minuto oltre, tanto più che il suo cervello era completamente offuscato e non sarebbe stato minimamente in grado di controllarsi. Avrebbe voluto alzarsi e dire lui di smetterla, avrebbe voluto tranciare -e di netto, anche-  i fili di quella strana amicizia che, senza controllo, troppo velocemente, era diventata qualcosa di più, ma aveva diciotto anni e l’inesperienza e la voluttà degli adolescenti, e sentiva di dover lottare contro qualcosa di straordinariamente potente, per sottrarsi a quello che stava accadendo.
Improvvisamente, poi, la bocca di Billie Joe Armstrong pose fine al proprio percorso sfiorando un angolo delle sue labbra, mentre una mano era salita lungo il braccio, su per la spalla, e le era arrivata alla base del collo. Quelle dita le sfioravano la pelle con una lentezza che la ricopriva di brividi.
«Lasciati andare, Gloria.» mormorò lui con le labbra ormai poggiate su quelle della ragazza.
Gloria rilassò involontariamente la bocca, quasi come se il suo corpo avesse deciso di ribellarsi alla sua mente, sfidandola a fermarlo e accettando quel bacio che tanto le aveva fatto attendere.
Billie Joe interpretò quel gesto come un abbandono totale a lui, a quel sentimento strano e improbabile che li teneva uniti pur contro le regole e la morale, e sorrise mentre cercava di approfondire quel contatto, ma contro ogni sua aspettativa sentì le labbra di Gloria sfuggire via dalle sue con uno scatto.
«No!»  quasi gridò lei sottraendosi a quel bacio e scattando immediatamente in piedi, con tutto quanto che le roteava di fronte agli occhi. «Non possiamo.»
Deglutì a fatica, ingoiando quel nodo immenso che le aveva otturato la gola, e si portò le mani sulle tempie, che pulsavano furiosamente sotto le sue dita.
«Senti, mi dispiace. È sbagliato, tutto questo. Mi dispiace di averti fatto fraintendere qualcosa, ma non so proprio come aiutarti. Torna dalla tua famiglia e fa’ come se non ci fossimo mai incontrati. Vai via, per favore. » e così dicendo corse via dentro casa richiudendosi la porta alle spalle, senza aggiungere altro, lasciando quell’uomo fuori dalla sua porta e, assieme a lui, non soltanto i cocci di quella brocca che era andata in frantumi sul lastricato, ma anche tutti i frammenti del loro strano rapporto, e di quel bacio che sembrava essere sul punto di sbocciare e che, invece, era appassito prima che lui avesse avuto anche solo il tempo di accorgersene, di vederlo morire, polverizzato nell’aria.
Billie Joe Armstrong era ancora piegato sulle ginocchia, e fissava la porta chiusa dinanzi a sé quasi come non avesse capito quello che era appena successo. Gli aveva chiesto di sparire dalla sua vita, lo aveva pregato -anzi, obbligato- di andarsene. Lo aveva rifiutato proprio nel momento in cui si era convinto che avrebbe potuto veramente averla sua. Non poteva essere svanito tutto in così poco tempo. Avrebbe voluto che tutto ciò fosse semplicemente il frutto della sua immaginazione, avrebbe voluto aver sognato tutto, tutto quanto: quel pomeriggio troppo caldo, quelle parole che gli erano state dette, quella ragazza davvero troppo bella per lasciarsela scappare. Ma non era un sogno, si accorse. Lui era ancora lì, in ginocchio sul lastricato di quel giardino sconosciuto, con il sudore che gli imperlava la fronte, il fiato corto e, soprattutto, quella porta serrata davanti a sé. Non c’era davvero più alcun modo di aggiustare le cose.
 
Gloria aveva la schiena poggiata contro la porta. Aveva le guance in fiamme e le labbra che le pizzicavano per quel contatto a cui si era sottratta così repentinamente, vincendo una volta per tutte le pulsioni del suo corpo. Un rivolo di sudore le colava dalla fronte, aveva le braccia coperte di brividi e nelle orecchie il rumore martellante del suo cuore. La testa le girava vorticosamente dandole l’impressione di poter svenire da un momento all’altro, ma non era in grado di muoversi da lì: se avesse tentato di staccare la schiena dal muro sarebbe caduta a terra in quattro e quattr’otto, tanto sentiva le gambe fatte di sabbia. Guardava fisso davanti a sé con le pupille dilatate e il respiro affannato come se avesse avuto ancora le mani di Billie addosso e queste la stessero conducendo inesorabilmente verso il piacere più intenso che avesse provato in vita sua. Facendo scorrere la schiena lungo la superficie della porta si ritrovò seduta a terra mentre cercava di stabilizzare il ritmo del proprio respiro, e di recuperare quel po’ di lucidità sufficiente a ripensare a quello che era appena successo, e mentre cercava di tenere a bada quella vera e propria sindrome da batticuore tentò di convincere sé stessa che quello che aveva appena fatto fosse la cosa giusta o, quanto meno, l’unica cosa che avesse potuto fare.
 
[Continua]

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Capitolo 19
*** Sotto la pelle ***


Sotto la pelle

 
Le quasi cinque ore di volo per Minneapolis, nel Minnesota, erano trascorse tranquillamente. Si trattava di un volo diretto, senza scali, così Billie Joe Armstrong aveva avuto modo di riposarsi e concentrarsi a dovere su quanto stesse per fare. Si era convinto che andare a trovare Adrienne e i ragazzi fosse la cosa giusta e lo aveva deciso d’impulso, senza starci a riflettere troppo, soltanto poche ore dopo il suo incontro con Gloria, quando la sua mente era ancora annebbiata e la delusione ancora cocente e pulsante sotto la pelle. I germi di quella decisione glieli aveva piantati nel cervello Gloria stessa con tutte le sue parole, parole che si erano incise nella sua materia grigia a forza, con graffi tanto profondi da non consentirgli di scacciarle via dalla testa, per quanto lui si sforzasse di farlo. Era perfettamente consapevole del fatto che non sarebbe stato per niente facile, ma aveva deciso che si sarebbe dimenticato di quella storia per sempre, che avrebbe riabbracciato sua moglie e ricominciato a vivere come aveva sempre fatto e ad essere quello che era sempre stato: un marito, un padre di famiglia, un uomo schietto e sincero, con le idee chiare e pronto a tutto pur di proteggere le persone a lui più care. E, decisamente, Adrienne e i suoi figli erano in assoluto le persone più importanti per lui.
Si era imposto di rimuovere quella ragazza dalla sua mente in maniera definitiva come quando si dà l’ok a un computer per l’eliminazione di un file. Gli bruciava dentro, quella loro conversazione, e ancor di più gli bruciava la consapevolezza di essere stato rifiutato a malincuore perché lui lo sapeva -lo aveva capito- di avere ragione: gli era stato dimostrato in maniera involontaria, quasi inconsciamente, da lei stessa, dai suoi brividi, dalla voce che le tremava, ma ormai non c’era veramente nient’altro che potesse fare. Gli era stato chiesto esplicitamente di uscire per sempre dalla sua vita e così aveva deciso che avrebbe fatto. Non valeva la pena rischiare di perdere la sua famiglia per inseguire una mera illusione, ora lo aveva capito sul serio.
In fondo, che cosa si era aspettato veramente, da lei? -si domandò- Che accettasse quelle sue parole e si gettasse tra le sue braccia senza remore, felice e pronta ad essere sua? E se anche fosse stato realmente così, che cosa avrebbero fatto dopo? Cosa sarebbe diventata, lei? La sua amante? E come avrebbe potuto, lui, tenere nascosta la loro storia -ai suoi amici, alla sua famiglia, al resto del mondo-? Più ci pensava, più sentiva che quello che gli aveva detto Gloria era vero, e visto che quella ragazza aveva ragione da vendere e l’aveva definitivamente allontanato dalla sua vita, capì che non c’era necessità di trattenere a forza, nella sua mente, il suo ricordo.
La cartella contenente i file relativi a Gloria stavano per essere eliminati dal suo hard disk cerebrale, perché non riusciva più a sopportare quel sapore amaro e rintronante che sentiva pizzicargli la lingua ogni volta che ripensava a quelle parole. Si era lavato i denti decine e decine di volte, ma quel gusto spiacevole continuava a ripresentarsi nella sua bocca, forte e intenso come un veleno, frastornante come uno strano antibiotico dai pericolosi effetti collaterali. Si sentiva teso e agitato, quando quel sapore si presentava, il suo corpo era un fascio di nervi, la fonte perennemente corrugata, il suo sguardo affilato.
Mike e Frank dovevano essersene accorti perché quello strano sapore non gli aveva lasciato tregua neppure per un istante, neanche mentre era con loro, e difficilmente riusciva a nascondere il disagio e il fastidio che gli procurava sentirselo sulla lingua e in fondo alla gola. Si era sforzato veramente tanto, con tutto se stesso, di reprimere quella spiacevole sensazione, ma si ripresentava ancora e ancora, distraendolo, tormentandolo, riportandolo con la mente a quella ragazza, alle sue parole, allo sguardo che aveva e che la tradiva, e poi di nuovo alle sue parole, alla forza che aveva avuto di sottrarsi al suo bacio, al suo invito a finirla lì, e gli veniva voglia di alzarsi in piedi come una furia e tornare da lei, a dirle che come potevano finirla lì se tra loro non era mai cominciato nulla, se lui si era reso conto solo allora di tutta la forza con la quale la desiderava, la sognava, la voleva? Pensò a sua moglie dall’altra parte degli Stati Uniti, calma e rilassata a godersi l’estate, totalmente ignara di ciò che stava accadendo a Berkeley. Immaginò quale potesse essere la sua reazione nell’apprendere ciò che era accaduto, e la vide scherzare come sempre e prenderlo in giro, evidentemente considerando quella sua infatuazione una cosa da poco, e mentre aveva quell’immagine di lei si sentiva in colpa ancora di più, perché sarebbe stato facile dirsi che si trattava di una cosa banale, una faccenda di poco conto, una sbandata passeggera che sarebbe passata presto e senza portare ulteriori problemi, ma sapeva che non poteva mentire, non poteva attaccarsi a quella effimera, mezza verità. Non poteva fare questo a sua moglie, né ai suoi figli, né ai suoi amici, e meno che mai a sé stesso, perché la verità -la vera verità- era che il desiderio, lui, lo sentiva bruciare sotto la pelle, e sapeva di non amare quella ragazza, ma sapeva anche che per stare lontano da lei avrebbe dovuto lottare contro sé stesso: la sua mente, la sua anima, le uniche sulle quali aveva ancora un briciolo di controllo, avrebbero dovuto sfidare il suo istinto e il suo stesso corpo, avrebbero dovuto tentare di lenire il dolore, di spegnere quel fuoco che gli bruciava dentro, che lo logorava, che lo divorava dall’interno di sé, che lo rintontiva, lo drogava, lo asfissiava. Una qualche specie di reazione chimica si era attivata, da sola, nel suo organismo, e i prodotti che ne erano derivati erano più forti della morfina, avevano l’effetto di un ansiolitico, lo spogliavano totalmente di ogni sua capacità di intendere e di volere. Quella ragazza era la scintilla necessaria ad attivare la reazione corretta, ma senza di lei reagenti e prodotti si mescolavano in parti sbagliate e in maniera sbagliata, e lo scuotevano, lo risvegliavano dal tepore, e lui era lì, e non poteva fare altro che continuare a cercarla, cercarla, cercarla, ma l’aveva persa, ormai. Non ci sarebbe più stata né ebbrezza né stordimento, sarebbe rimasto solo il dolore, il fuoco, la rinuncia, la sconfitta, quel sapore nauseante tra quelle labbra che, solo poco tempo prima, avevano sfiorato il paradiso. E così, mentre i suoi amici bisticciavano animatamente per qualcosa a cui Billie Joe, perso nelle sue elucubrazioni, non aveva dato nessuna importanza, aveva fatto schioccare la lingua e riportando la loro attenzione su di sé aveva detto, come fossero stati gli altri a interpellarlo:
«Sapete che vi dico? Io me ne vado a trovare Adrienne.»
Mike e Trè Cool avevano smesso di litigare e si erano scambiati un’occhiata perplessa, per poi spostare i loro sguardi in direzione del loro amico chitarrista.
«Vai a trovare Adrienne?» aveva ripetuto Mike come se non avesse capito bene.
«Sì.» aveva risposto Billie Joe con espressione seria. «Me ne vado da lei e dai ragazzi.»
Gli altri due si erano scambiati l’ennesima occhiata enigmatica.
«Così, su due piedi?» aveva domandato il batterista sforzandosi di capire il perché di quella sua improvvisa decisione.
«Sì.» aveva risposto nuovamente Billie con la stessa convinzione dimostrata poco prima. «Preparo uno zaino e prendo il primo volo disponibile.»
«E come mai questo improvviso cambio di idea?»
L’altro si era stretto nelle spalle.
«Perché mi manca averli intorno.» aveva risposto con semplicità, e solo nel momento in cui aveva pronunciato quelle parole si era reso conto che corrispondevano davvero alla verità. Gli mancava sua moglie, e ancora di più gli mancavano i ragazzi. Aveva bisogno di abbracciarli tutti, di sentirli di nuovo affianco a sé. In quel momento più che mai, aveva bisogno dei loro sorrisi e del loro affetto per ricordarsi che quella -quella- era la perfezione, che se c’erano loro allora andava bene così e non serviva veramente  nient’altro, nessun altro, che tutto ciò che desiderava dalla vita lo aveva giusto accanto a sé, e non c’era bisogno né di ebbrezza né di emozioni forti, e tanto meno di belle ragazzine di vent’anni più giovani di lui. Così era tornato subito a casa, lasciando i suoi amici a domandarsi per l’ennesima volta che cosa gli stesse succedendo in quel periodo. Billie Joe non sapeva se, con quell’improvvisa decisione di partire, Mike e Frank si fossero insospettiti ancora di più o, al contrario, avessero tirato un sospiro di sollievo e pensato che fosse finalmente tornato tutto alla normalità, ma mentre infilava quattro o cinque cambi in un borsone, quello appariva lui come l’ultimo dei suoi pensieri. Si era concentrato, in quel momento, solo ed esclusivamente alla tela di nylon che aveva tra le mani, immaginando che fosse una riproduzione ordinata della sua mente, e ogni capo che vi infilava dentro, come impegno nei confronti della sua famiglia, scacciava via un particolare della persona di Gloria. Pantaloni del pigiama dentro. Capelli neri fuori. T-shirt dentro. Risata allegra fuori. Camicia dentro. Guance arrossate fuori. Slip dentro. Occhi azzurri fuori. Accappatoio dentro. Labbra morbide fuori. Aveva tirato la zip e richiuso il borsone. Ogni cosa era dentro. E Gloria era fuori. Fuori, fuori, fuori per sempre, fino all’ultimo piccolo ricordo di lei, in modo da non avere più posto, dentro di sé, per nient’altro che non fossero sua moglie e i suoi ragazzi e la sua vita prima di lei.
Aveva deciso che, almeno per il momento, non avrebbe informato Adrienne del suo imminente arrivo. Non voleva caricarla di attese e aspettative. Non che avesse intenzione di tirarsi indietro all’ultimo minuto e non presentarsi da lei, ma doveva parlarle di una cosa veramente molto delicata, e aveva tenuto in considerazione il fatto che avrebbe potuto aver bisogno di ulteriore tempo per riflettere -poco tempo, ancora poco tempo- prima di affrontare il suo sguardo confidente. Si era convinto, dentro di sé, che raccontarle ogni cosa fosse la cosa più giusta da fare, perché solo in quel modo si sarebbe spogliato definitivamente della sua colpa, e il pensiero di quella ragazza non l’avrebbe più toccato, sarebbe rimasto fermo lì, acquattato sotto forma di ricordo insieme a mille e mille altri, così nascosto da rimanere invisibile, quasi completamente celato alla sua mente.
Con grande fortuna aveva trovato un volo disponibile per le nove e trenta della mattina successiva, così aveva avuto modo di rilassarsi durante la serata: si era preparato qualcosa di rapido da mangiare e si era buttato sul divano a guardare la tv. Sembrava che stesse meglio davvero. Il solo intento di confidare tutto quanto a sua moglie e dimenticarsi per sempre di quella storia appariva già come una vittoria. Il semplice fatto di aver preso una posizione lo ripagava di tutte le incertezze e i tentennamenti delle due settimane appena passate, di quei giorni in cui aveva avuto l’impressione di non saper più controllare le sue decisioni, di non essere più in grado di intendere e di volere, di essere regredito allo stato animalesco e di agire seguendo l’istinto, affidandosi agli impulsi di un momento, senza pensare ai se, ai perché, senza riuscire più a prevedere gli effetti delle sue azioni, e a capire se potessero essere dannosi oppure no. Si era addormentato in poco tempo davanti alla televisione accesa e si era risvegliato un paio d’ore dopo. Aveva spento la tv e se ne era andato a letto, immaginando di non riuscire più a prendere sonno, e invece era crollato nuovamente non appena aveva poggiato la testa sul guanciale, un attimo dopo aver messo la sveglia per l’indomani mattina. La sua mente si era fatta più leggera, i suoi pensieri -ora che non erano più intasati dall’immagine di quella ragazza- rarefatti. Il suo essere aveva trovato la strada del sonno e il suo corpo, anche, l’aveva seguito in quella dimensione misteriosa e affascinante, la dimensione onirica, una sorta di Paradiso Terrestre in cui la sua mente potesse finalmente gioire e le sue membra riposare.
La sveglia era suonata poco prima delle sette del mattino, e Billie Joe Armstrong si era svegliato già carico di aspettative. Si era rasato e aveva fatto una doccia rapida, dopodiché si era vestito di corsa ed era sceso in salotto ad aspettare l’arrivo di Mike e Frank, che avevano bussato alla porta pochi istanti dopo, pronti ad accompagnare il loro amico all’aeroporto come avevano promesso la sera prima. Il viaggio in auto era trascorso serenamente, ascoltando buona musica e discorrendo del più e del meno come una qualsiasi altra normalissima giornata. I tre amici si erano lasciati davanti all’ingresso dell’imponente edificio. Billie Joe aveva lasciato a Mike la sua copia delle chiavi di casa per qualsiasi evenienza; dei gatti e dei pesci si sarebbe presa cura Johana, la colombiana che, settimanalmente, faceva le pulizie e casa sua e si occupava di curare il giardino e di mantenere pulita l’acqua della piscina. Aveva salutato i suoi compagni con un abbraccio, come se avesse dovuto star via molto più di quei pochi giorni che aveva preventivato, e quel gesto era servito lui per farsi forza, per darsi coraggio, per riuscire in ciò che si era programmato di fare: dire tutto a sua moglie senza riserve, senza alcuna esitazione.
Mike gli aveva dato una pacca affettuosa sulla spalla.
«Sono sicuro che ti farà bene la vicinanza dei ragazzi.» gli aveva mormorato in un orecchio con voce calda e amichevole, e quello era valso come il più grande e incoraggiante degli in bocca al lupo di cui aveva bisogno, così lo aveva ringraziato con un sorriso e, un attimo prima di staccarsi da lui, aveva risposto:
«Sì, lo credo anch’io.»
L’aeroporto era pieno della tipica folla di metà luglio, per cui Billie Joe Armstrong aveva dovuto aspettare in fila una buona mezz’ora prima di arrivare al desk del check-in. Aveva risolto in poco tempo la questione del controllo bagagli e acquistato una bottiglietta d’acqua in attesa del suo imbarco. Nell’attesa che chiamassero il suo volo aveva telefonato a sua moglie e le aveva domandato che programmi avesse per la giornata -il tutto senza fare il minimo riferimento al fatto che, di lì a poche ore, si sarebbe presentato a sorpresa alla porta di casa sua- ed era stato soddisfatto nell’apprendere che, quel giorno, lei e i ragazzi non avevano intenzione di fare alcun giro, il che significava che li avrebbe trovati sicuramente in casa quando lui sarebbe arrivato.
Il volo era stato piuttosto piacevole, senza turbolenze. I suoi vicini di poltrona erano due anziani signori che si erano appisolati dopo una mezz’ora di viaggio e per tutta la durata del volo c’erano stati silenzio e tranquillità, tutto ciò di cui Billie Joe Armstrong aveva bisogno per rilassarsi a dovere e riflettere. Aveva mangiucchiato un panino al prosciutto e, nel frattempo, iniziato a pensare a come e quando raccontare tutto ad Adrienne. Aveva scartato sin dall’inizio l’idea di parlagliene immediatamente appena arrivato: sarebbe risultato spiacevole più del necessario e sua moglie, ne era sicuro, avrebbe immaginato -e a ragione, forse- che il solo motivo che lo aveva spinto a raggiungerla fosse stato il desiderio di liberarsi di quel peso dalla coscienza, di togliersi di dosso quel fardello scomodo per passarlo a lei. Mentre pensava a tutto questo, però, uno strano senso di agitazione lo aveva pervaso per intero e lo aveva costretto a lasciare il panino a metà, tanto il suo stomaco si era serrato all’improvviso, e aveva deciso di non pensare più al modo in cui avrebbe messo sua moglie al corrente di tutto. L’avrebbe guardata negli occhi e avrebbe seguito l’istinto, le avrebbe raccontato tutto non appena, guardandola, si sarebbe reso conto che era arrivato il momento giusto. Aveva trascorso ciò che rimaneva del volo a sonnecchiare beatamente, e solo quando l’aereo aveva toccato terra, circa un paio di ore dopo, aveva aperto gli occhi.

Di fuori il sole era ancora caldo e alto nel cielo, l’aria rovente e umida, e Billie Joe Armstrong ne risentì immediatamente non appena ebbe messo piede fuori dall’aeroporto, lasciandosi alle spalle la piacevole aria condizionata che vi era al suo interno. Diede una rapida occhiata all’orologio che aveva al polso e facendo due rapidi calcoli mentali concluse che lì nel Minnesota dovessero essere quasi le cinque del pomeriggio. Non dovette attendere troppo tempo prima di riuscire a trovare un taxi libero. Sapeva per esperienza, dopo esservi stato già altre cinque o sei volte da quando aveva sposato Adrienne, che l’abitazione alla quale era diretto distava non più di una cinquantina di kilometri dall’aeroporto: se non avesse trovato troppo traffico, sarebbe giunto a destinazione in poco più di mezz’ora. Il paesaggio che vedeva scorrere oltre i finestrini era cambiato soltanto in parte rispetto all’ultima volta -circa tre anni prima- che aveva trascorso un’estate lì. Il tassista -un omone di colore calvo e robusto, sulla cinquantina- aveva messo su un cd di musica jazz, a volume piuttosto basso, come a creare un discreto sottofondo che Billie Joe trovò veramente piacevole e rilassante. Era esattamente ciò di cui aveva bisogno prima di incontrare sua moglie.
Proprio come aveva previsto, meno di quaranta minuti dopo essere partito, il taxi si fermò nell’ampio vialetto di terra battuta davanti alla residenza estiva di Marion e Gabrielle Nesser. Pagò la corsa con una banconota da cinquanta dollari, lasciando il resto come mancia, e scese dalla vettura, muovendo i primi passi verso la porta principale. Si trattava di una villetta dallo stile semplice, tinteggiata di un delicato rosa antico e decorata da un mosaico di pietre grezze nella parte inferiore, lungo tutto il suo perimetro. Era stata costruita negli anni quaranta dal nonno materno delle due sorelle, che vi era andato ad abitare stabilmente insieme alla moglie e all’unica figlia, Lily, che diversi anni dopo, già sposa di Charles Nesser -suo amico d’infanzia nonché fratello del padre di Adrienne- e madre di Marion e Gabrielle, aveva ereditato la casa, dove era solita trasferirsi durante le vacanze estive assieme alla sua famiglia. Dopo la morte di Lily e la malattia di Charles, che ormai si spostava da casa molto raramente, erano rimaste solo le due sorelle -insieme ai rispettivi mariti e figli- ad usufruire della villetta, talvolta nel periodo estivo, talvolta per le festività natalizie, ed avendo la casa stanze a sufficienza per ospitare più persone, molto spesso invitavano presso di loro, a turno, i propri cugini o amici, con le relative famiglie al seguito.
Dal giardino sul retro si udiva il rumore di un pallone calciato e di voci giovanili che riconobbe subito come quelle dei suoi figli. Le sue labbra si curvarono istantaneamente in un sorriso mentre deviava il suo percorso con l’intenzione di salutare i ragazzi prima del fatidico incontro con Adrienne. Proprio mentre era sul punto di girare l’angolo, il pallone rimbalzò davanti ai suoi piedi, e con uno scatto riuscì ad afferrarlo al volo prima che proseguisse la sua strada lungo il cortile. Immediatamente udì dei passi correre verso di lui -verso il pallone, anzi- e pochi istanti dopo suo figlio Jakob apparve voltando l’angolo in fretta e furia e subito si fermò, sobbalzando di fronte all’inaspettata figura che si era trovato davanti e che lo guardava con occhi sorridenti tenendo tra le mani il pallone che era andato a recuperare.
«E tu dove te ne vai, così di corsa?» domandò ridacchiando per poi lasciar cadere il pallone e il suo borsone da viaggio ai suoi piedi e sollevare suo figlio nel più tenero degli abbracci.
«Papà!» gridò Jakob stringendosi forte a suo padre.
Billie Joe Armstrong lo tenne abbracciato a sé per un istante lunghissimo, non curandosi minimamente del fatto che avesse i vestiti sporchi di terra, e accarezzandogli dolcemente la nuca gli sussurrò in un orecchio: «Il mio piccolo», e così dicendo gli stampò un bacio su una guancia per poi continuare: «mi sei mancato tanto.»
Gli era mancato davvero. Gli erano mancati tutti quanti: lui, Joey, Adrienne. Il solo pensiero di sua moglie fece accelerare la frequenza dei battiti del suo cuore al punto tale da fargli mancare il respiro per pochi istanti.
«Ma quanto ci metti a riprendere quella palla?» gridò la voce del suo figlio più grande mentre un rumore deciso di passi in avvicinamento annunciava il suo imminente arrivo e infatti, una manciata di secondi dopo, anche Joey girò l’angolo della villetta e si ritrovò faccia a faccia con suo padre, intento a rimettere a terra Jakob.
«Li fai sempre fare a tuo fratello i lavori più noiosi, eh Joey?»  ridacchiò Billie Joe mentre si avvicinava a lui per abbracciarlo, contento di vedere l’espressione di piacevole sorpresa che aveva in volto.
«La mamma non ci aveva detto niente!» esclamò il ragazzino ancora stretto al petto del padre.
Billie Joe fece per schiarirsi la gola e lentamente si staccò da suo figlio con il sorriso che si era fatto improvvisamente tirato.
«Non lo sa nemmeno lei. Volevo farvi una sorpresa.» spiegò loro con un tono di voce che risultò effettivamente calmo solo in parte, osservandoli affettuosamente e studiando con attenzione le loro pelli decisamente più abbronzate di quando li aveva visti l’ultima volta, prima che partissero.
«Scommetto che sarà contentissima!»  commentò Jakob tutto felice, con un sorriso gigantesco stampato in volto, mentre prendeva il padre per la mano e faceva per trascinarlo -letteralmente- dietro l’angolo, verso la porta che si affacciava sul giardino del retro. «Sta in cucina a lavare i piatti.»
Si fece trascinare dal suo figlio più piccolo senza opporre resistenza, anche se dentro di sé sentiva come se fosse appena scoppiata una guerra con tanto di nucleare. Il cuore aveva ripreso a battere furiosamente, talmente tanto che quasi gli mancava il respiro; delle goccioline di sudore gli imperlavano la fronte e sentiva un calore particolare alle mani, da cui dedusse che dovevano essere sudate anche quelle. Si accorse con estremo disappunto che il loro tragitto era ormai giunto alla fine quando suo figlio gli lasciò la mano e trotterellando allegramente cominciò a gridare e a battere forte i palmi delle mani contro il vetro della porta:
«MAMMA! CORRI A VEDERE! CORRI A VEDERE!»
Da fuori si udì distintamente la voce di Adrienne gridare a sua volta, con un tono di voce che non nascondeva una certa preoccupazione, «Che succede?».
Certo è che Billie Joe Armstrong non l’aveva esattamente immaginato in quel modo, quell’imminente e inevitabile incontro con sua moglie.  Avrebbe desiderato, piuttosto, prendersi il suo tempo e bussare alla porta in maniera decisamente più discreta di quella usata da suo figlio, per poi salutare Adrienne con la calma e il calore necessari. In verità se la stava facendo addosso: aveva paura che lei sarebbe riuscita a comprendere tutti i suoi turbamenti, tutte le ragioni che lo avevano spinto a raggiungerla così all’improvviso semplicemente guardandolo dritto negli occhi.
La porta a vetri si spalancò dopo quei pochissimi istanti che a Billie Joe parvero durare un’eternità, e Adrienne uscì nel giardino con due falcate rapide prima di bloccarsi alla vista del marito. Indossava un vecchio vestitino estivo che le lasciava scoperte buona parte delle gambe abbronzate e, sopra di esso, un grembiule da cucina schizzato qua e là da acqua e sapone; le guance arrossate e la fronte lucida di sudore. A Billie Joe Armstrong non era mai sembrata così bella, e lui non si era mai sentito così impacciato come in quel momento. Per una frazione di secondo avvertì dentro di sé la sensazione di essere improvvisamente ritornato adolescente. Era incapace di parlare, sapeva che se solo avesse provato a farlo, avrebbe sicuramente cominciato a balbettare indegnamente, così si limitò a sorriderle calorosamente e a volarle incontro con le braccia tese in un abbraccio mentre lei, ancora sorpresa, era rimasta a bocca aperta, incapace di credere a ciò che le si era appena presentato davanti agli occhi.
Si riscosse solamente quando sentì le braccia di suo marito stringerla forte contro il petto e poté avvertire chiaramente il suo profumo fresco e muschiato.
«Ma che ci fai tu qui?» mormorò lei emozionatissima stringendogli forte le braccia attorno ai fianchi magri e affondandogli la testa tra la spalla e il collo.
«Mi siete mancati così tanto...»
Lei allentò leggermente la presa su di lui per tirarsi indietro con il busto quanto bastasse per poterlo guardare negli occhi e allora gli rivolse il sorriso più bello che lui avesse mai visto prima di poggiargli un bacio delicato sulle labbra, e senza smettere di sorridere mosse la mano sinistra per poi poggiarla contro il torace di lui, in corrispondenza del cuore, che ancora non accennava a rallentare il suo ritmo forsennato.
«Come batte forte...» commentò lei a voce bassissima, con una luce che le brillava negli occhi.
«Ma stai bene?» proseguì poi spostando la mano che gli teneva sul petto per carezzargli dolcemente una guancia. «Mi hai fatto preoccupare tantissimo nelle ultime settimane...»
La sua voce era quella di una ragazzina, e il suo sorriso e i suoi occhi erano quelli di una persona che davvero ritrovava il respiro dopo giorni e giorni di ansie e preoccupazioni.
Billie Joe Armstrong si sentì un vero idiota. Veramente aveva pensato di raggiungere sua moglie, che già era stata in ansia per lui quanto bastava a rovinarsi il suo soggiorno lì, per sfogarsi e confidarsi con lei di quello che gli era successo? Veramente aveva pensato di guardarla in quegli occhi e dirle in tutta franchezza che, se non fosse stato per il rifiuto di quella ragazzina, l’avrebbe sicuramente tradita senza nemmeno pensarci troppo? Veramente era stato così incosciente ed egoista da pensare a una soluzione del genere?
Non poteva scaricare tutto quel fardello addosso a sua moglie. L’unica cosa che poteva fare era dimostrarle tutto il suo amore per lei e far finta che non fosse successo assolutamente nulla durante la sua assenza. Mai avrebbe voluto far soffrire Adrienne per colpa sua; per niente al mondo lo avrebbe permesso.
«Io sto benissimo,» le rispose dunque cercando di risultare convincente, «e adesso che sono insieme a voi mi sento ancora meglio.», e mentre pronunciava quelle parole si rese conto che nonostante tutto erano vere. Gloria aveva ragione: rivedere sua moglie e i suoi figli gli aveva veramente fatto rimettere a posto la lista delle sue priorità. Era veramente felice, adesso, di stare di nuovo insieme alla sua famiglia.


L’aria all’interno della camera cominciava ad essere veramente troppo calda; il corpo di Billie Joe Armstrong era sudato mentre si muoveva sopra quello di sua moglie. Aveva sentito spesso la mancanza, in quelle ultime settimane di incertezze e titubanze, di quel genere di contatto con lei. Aveva passato il pomeriggio a farsi raccontare da Adrienne e dai suoi figli ogni cosa che avessero fatto da quando erano arrivati lì nei minimi dettagli, ed era stato  un vero sollievo il rientro per cena delle cugine di lei con i nipoti, cosa che gli aveva permesso di liquidare in poco tempo la questione di ciò che avesse fatto lui in quei giorni, durante la loro assenza. La cena era stata ottima e una volta alzatisi da tavola avevano passato il resto della serata in giardino a mangiare del gelato e raccontarsi pettegolezzi sugli altri membri della famiglia Nesser. Al momento di mettersi a letto, poi, era stato deciso che i bambini avrebbero dormito nella stessa stanza assieme ai cuginetti Cody e George, visto che la camera in cui si era sistemata Adrienne aveva soltanto un letto matrimoniale che, se era riuscito a ospitare piuttosto comodamente sia lei che i suoi figli, non sarebbe stato abbastanza grande per ospitare anche Billie Joe, ora che li aveva raggiunti e si era persino convinto a fermarsi qualche giorno in più di quanto avesse annunciato inizialmente.
Lui e sua moglie si erano chiusi la porta della loro stanza alle spalle quando ormai era già quasi l’una e allora non c’era stato più tempo per le chiacchiere. C’erano state solamente mani che accarezzavano, che strattonavano via i vestiti e bocche che si cercavano, respiri che si mischiavano.
L’aria era calda, rovente, ma non ci si poteva né ci si voleva fermare. Billie Joe Armstrong stringeva sua moglie senza mai accennare a lasciala, la prendeva con tanta forza da farle quasi male, quasi fosse stato preda dell’idea che, se solo avesse allentato di poco la presa, avrebbe potuto vederla e sentirla svanire da sotto di sé da un momento all’altro, e lui si sarebbe ritrovato a stringere le mani attorno al vuoto, e tutto quel calore umano sarebbe sparito lasciandolo solo tra le lenzuola che si raffreddavano.
Non voleva che accadesse, non voleva che si rivelasse tutto un sogno alla fine del quale si sarebbe ritrovato nuovamente solo e rifiutato proprio come era successo con Gloria soltanto un giorno prima. No, non la voleva, la solitudine. Voleva averlo tutto per sé, quel corpo che si muoveva sotto di lui assecondandolo nei movimenti, voleva tenerla stretta a sé, quella pelle sudata, tenerla a stretto contatto con la sua. Voleva sentire quelle dita aggrapparsi forte ai suoi capelli e quel respiro infrangersi contro il suo collo, quei denti spingersi contro la pelle della sua spalla. Voleva prendersi tutto quanto,voleva che le sue mani sentissero la concretezza, la consistenza di quella carne che aveva sotto di sé. Voleva riprendersi tutto, perché tutto quello che aveva stretto contro di sé era già suo, e non avrebbe permesso a niente e nessuno di farselo portare via.
Aveva ancora tanta rabbia repressa dentro di sé, e fare sesso con sua moglie in quella maniera quasi selvaggia era un modo per sentirsi un po’ meno perso, perché la verità è che lui, dopo quel rifiuto, aveva perso ben poco: aveva ancora i suoi amici, la sua carriera, i suoi fan, che lo avrebbero apprezzato e sostenuto, la sua famiglia. E aveva ancora Adrienne, soprattutto. Nessun cardine della sua esistenza era stato minacciato nella sua stabilità dal rifiuto di quella ragazzina. Probabilmente, anzi, tutto ciò aveva sortito l’effetto contrario: aveva rafforzato quei legami, aveva evitato che cedessero, che fossero a rischio. L’aveva detto anche lei:  non sarebbe stato possibile vivere una storia senza minare alla sua carriera e alla sua immagine pubblica, e meno che mai alla sua unità familiare e a quella con i suoi amici. Aveva ancora tutto sotto controllo. Aveva ancora tutto quanto tra le mani, poteva ricominciare da lì dove l’aveva lasciato sua moglie prima di partire o, ancora meglio, poteva ricominciare da dove si era dovuto fermare a causa dell’incidente di Frank. Poteva ignorare quell’amaro che gli era rimasto in bocca. Poteva veramente dimenticare quella ragazzina. Sotto la sua pelle, in profondità, dentro al petto, e anche fuori, contro la sua pelle, nelle sue mani, aveva veramente tutto ciò di cui aveva bisogno.
 
[Continua]
 
 
Eccoci qui. Questa volta ci ho messo un po’ meno ad aggiornare, rispetto all’ultima volta. Tuttavia, per la primissima volta da quando ho iniziato a scrivere questa storia, pubblico un capitolo senza avere pronta nemmeno una bozza di quello successivo, per cui non so davvero quanto potrebbe volerci prima di tornare ad aggiornare... forse dovrei approfittare di quest’ultimo mesetto di ferie prima che ricominci l’università, anche perché il prossimo capitolo sarà veramente molto importante, è il capitolo a partire dal quale si entra veramente nel fulcro della storia. Come sempre spero che ci sia ancora qualcuno disposto a seguire questa storia nonostante la mia lentezza nel portarla avanti e soprattutto a farmi sapere le proprie idee e impressioni a riguardo.
NB. Ho cambiato il Raiting da giallo ad arancione, e se avete letto per intero questo capitolo avrete sicuramente capito il perché. Ad ogni modo, credo che il Raiting si manterrà arancione fino alla fine di questa storia, non sarà necessario farlo diventare rosso.
Credo sia tutto.
Alla prossima! ;)

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Capitolo 20
*** La scelta di Gloria ***


La scelta di Gloria
 
 
Seduta sui gradini del giardino di villa Armstrong, con la schiena poggiata alla porta di casa, Gloria si sorprese a pensare che quella era probabilmente la prima volta che, in vita sua, si era ritrovata a dover fare una scelta. Sapeva che, una volta lasciate alle spalle l’infanzia e l’adolescenza, erano proprio le scelte il vero motore della vita di un uomo. Glielo aveva dimostrato Eva, che a nemmeno vent’anni l’aveva presa e portata via da casa con sé, aveva preso la sofferta decisione di sacrificare parte del suo futuro per assicurarne uno più felice e roseo a lei, e glielo aveva dimostrato anche sua madre, anche se, ancora sconvolta e arrabbiata per tutto quello che finalmente era riuscita a sapere sul suo passato, Gloria ancora non riusciva a comprendere a pieno le motivazioni di un simile atteggiamento, le ragioni che avevano spinto Renée a restare dov’era, a non muovere un passo verso di loro -le sue figlie- per occuparsi di Richard, lui, uomo così inaffidabile e pessimo padre. Poi forse capì che fare una scelta non necessariamente significa fare quella giusta, e per quella che fu forse la decima volta da quando, con passo incerto, era avanzata in quel cortile e si era messa a sedere su quei gradini, circa una mezz’ora prima, Gloria provò l’impulso di alzarsi da lì e andarsene, tornare a casa e far finta di non essersi mai nemmeno avvicinata a quella casa. Sapeva che probabilmente la sua era una scelta sbagliata, e sapeva che altrettanto probabilmente avrebbe avuto conseguenze terribili, che né sua sorella né Josh né nessun altro avrebbero mai approvato quello che stava per fare, ma c’era una forza particolare, dentro di lei e fuori di lei, che l’aveva spinta verso quella casa e che la spingeva a restare su quei gradini, come se si fosse trasformata in ferro e un potentissimo campo magnetico la costringesse a rimanere seduta lì e aspettare, aspettare, aspettare, fino a che Billie Joe Armstrong non fosse tornato dall’aeroporto e l’avesse trovata lì ad attenderlo. C’era solo un altro tipo di forza, che avrebbe potuto farle staccare il sedere dal marmo pregiato di quei gradini e farla orbitare lontano -molto lontano- da lì: era la forza di volontà, ma persino quella, in quella fresca sera di metà luglio, era proiettata verso l’intento che lei stessa si era predisposta, e continuava a spingerla verso il basso, a farla rimanere seduta lì, davanti alla porta d’ingresso.
Era sbagliato essere lì. Era già stato sbagliato andare a cercare Billie Joe Armstrong un paio di giorni prima -quando in seguito a diverse notti insonni e agitate aveva ceduto all’impulso di uscire di casa e andare da lui a parlagli, e si era trovata faccia a faccia con quella che aveva ipotizzato essere la donna delle pulizie, ed era stata costretta ad inventare una scusa per giustificare la sua presenza lì, come quella di essere una fan alla ricerca del suo idolo. La donna l’aveva osservata con occhio critico prima di crederle, e dopo essersi finta una straniera in viaggio, era riuscita persino a farsi dire quando il leader dei Green Day sarebbe tornato a casa- ed era ancora più sbagliato esservi ritornata quella sera, ma il desiderio di essere lì aveva bruciato dentro di lei sin dal primo istante in cui si era separata da Billie Joe l’ultima volta in cui si erano visti, sin da quando lei era scappata dalle sue braccia e dalle sue labbra e si era confinata nel suo mondo sbattendogli la porta in faccia, e continuava a bruciare ancora mentre era seduta su quei gradini in attesa del suo arrivo. Sapeva che quella era la sera giusta, quella in cui lui sarebbe tornato a casa. La donna con cui aveva parlato le aveva detto che era partito per stare vicino alla famiglia, e con i suoi modi gentili ma persuasivi, Gloria era riuscita a farsi dire dove di preciso fosse stato, e una volta appurato che era nei pressi di Minneapolis, si era congedata da lei ed era corsa di filato a casa. Aveva ricercato su internet i voli da Minneapolis di quel giorno ed era riuscita, così, ad avere un orario approssimativo del suo atterraggio e, conseguentemente, del suo rientro a casa.
Aveva cenato rapidamente e facendosi prestare il motorino da un’amica si era recata a villa Armstrong una buona mezz’ora prima delle dieci. Voleva essere lì in anticipo in modo tale da poter riflettere ancora un po’, da potersi interrogare ancora una volta per avere la certezza che quello che stava facendo corrispondesse veramente alla sua volontà, che tutto quello che sentiva di provare era autentico e non semplicemente frutto della suggestione per ciò che Billie Joe le aveva detto, ma mentre era seduta lì su quei gradini, con una leggerissima brezza che le solleticava le braccia nude puntinandole di brividi, non vedeva l’ora di vedere avanzare verso quel cortile i fanali della sua automobile nera.
Erano passate le dieci da quasi un quarto d’ora, e dentro di sé sperava ardentemente che Billie Joe non si fosse fermato altrove prima di rientrare a casa, magari da uno dei suoi amici o dai suoi stessi compagni di band -Mike e Trè Cool, le sembrava di ricordare che si chiamassero- o addirittura, magari, sarebbe tornato  proprio insieme a loro. A quel pensiero il suo corpo fu scosso da un forte brivido. Il suo cuore accelerò la frequenza dei suoi battiti mentre lei si sforzò di controllare il respiro, con la testa che per un istante cominciò a girarle vorticosamente. Il nervosismo era tangibile. Sarebbe stato un gran bel problema se i suoi amici l’avessero trovata là ad aspettare Billie Joe. Entrambi avrebbero dovuto dare una spiegazione, e non sapeva nemmeno se lui avesse mai fatto parola di lei con gli altri. Quando la sua testa smise di girare, riuscì a trovare lucidità sufficiente per decidere che, nel caso in cui Billie Joe non fosse stato solo, avrebbe potuto far finta, come con la donna delle pulizie, di essere una sua ammiratrice e di volere un suo autografo. Sapeva che probabilmente, tra l’ansia, il nervosismo e il suo essere così dannatamente emotiva, non sarebbe risultata molto convincente agli occhi di nessuno, ma era la sola e unica possibilità che aveva, e doveva rischiare. Si sentiva estremamente nervoda, aveva i brividi, un po’ per l’agitazione e un po’ perché l’aria era decisamente fresca per essere la fine di luglio. Si strinse nelle spalle incrociando le braccia e cercando di riscaldarsi sfregandosi le mani su di esse.
Dalla finestra aperta di una delle ville del vicinato proveniva il suono lieve di un motivetto jazz che le risultò familiare. Impiegò alcuni istanti prima di ricordare dove l’avesse sentita prima, e poi improvvisamente uno sprazzo di luce si presentò nella sua memoria: era una canzone che sua madre canticchiava spesso mentre sistemava la casa, quando lei era ancora una bambina e abitava ancora insieme ai suoi genitori. Ricordò di Renée che mentre spolverava le mensole del soggiorno canticchiava a bocca chiusa quel motivetto lento e malinconico, poi la guardava e le sorrideva.
Sua madre. Avrebbe voluto parlarle, farle sapere che anche lei era a conoscenza di tutto e che nonostante questo continuava a non capire, a non accettare, che nonostante qualsiasi altra spiegazione, il suo gesto appariva ai suoi occhi come un vero tradimento nei loro confronti. Non ci riusciva, faceva troppo male anche solo il pensiero di risentire quella voce affettuosa, perché qualsiasi cosa fosse successa nel passato, qualsiasi cosa sarebbe potuta succedere nel futuro, sarebbe stata quella, la prima cosa a cui avrebbe pensato di sua madre: la sua gentilezza, il suo calore, il suo affetto verso di lei, quei suoi abbracci e quei suoi sorrisi pieni di amore e allo stesso tempo carichi di tristezza perché non c’era mai, non poteva esserci e tutto quell’affetto che le dimostrava le sembrava non bastare mai, le sembrava non avere alcun valore, dopo tutti quegli anni in cui erano state separate.
Una lacrima sfuggì via dagli occhi di Gloria prima che lei riuscisse a rendersene conto. Non si prese nemmeno la briga di asciugarla, la lasciò stare lì sulla sua guancia fredda. Annusò l’aria asciutta e fresca di quella sera di fine luglio, inspirò profondamente il profumo dei fiori che erano piantati nel giardino degli Armstrong e improvvisamente sentì di non essere più arrabbiata. Chiuse gli occhi e cominciò a dondolare la testa a destra e a sinistra, lentamente, canticchiando a bocca chiusa quel motivetto triste e lento. Il cuore continuava a martellarle furiosamente contro il petto, ma si sentiva bene. Se fosse riuscita a superare per il meglio quella notte veramente troppo insolita -decise tra sé e sé- si sarebbe scusata con sua madre e con Eva, avrebbe detto loro quanto le amasse.
 
Mentre era ancora con gli occhi chiusi, una luce più intensa e potente di quella tenue e giallastra dei lampioni che illuminavano la via le inondò il viso. Gloria riaprì gli occhi e quasi rimase accecata  dai due fanali di automobile che puntavano verso di lei mentre avanzavano all’interno del cortile. Era arrivato il momento. La ragazza avvertì ogni forza scivolare via dal suo corpo mentre dentro di sé pregava con tutto il cuore che da quella macchina uscisse lui e lui soltanto, Billie Joe Armstrong. Furono i dieci secondi più lunghi della sua giovane vita. I fanali si spensero improvvisamente, e subito dopo la porta del guidatore si aprì, rilevando l’espressione stupita del suo proprietario. Gloria non seppe mai dire dov’è che riuscì a recuperare quel briciolo di forza che le consentì di mettersi in piedi -staccando il sedere da quel gradino di marmo dal quale fino a quel momento non c’era stato verso di alzarsi-, fatto sta che lo fece e riuscì a parlare, persino.
«Ciao.»
Billie Joe Armstrong dovette appoggiarsi contro lo sportello della sua macchina per non rischiare di cadere in terra dalla confusione. Se lo stava semplicemente immaginando o c’era veramente Gloria lì, in piedi di fronte alla porta di casa sua? Com’era possibile tutto questo? Non se l’era sognato: era successo davvero, poco più di una decina di giorni prima. Lui da lei. Aveva cercato di baciarla. Lei lo aveva allontanato e lo aveva pregato -anzi, gli aveva ordinato- di sparire per sempre dalla sua vita. E lui lo aveva fatto. Perché diamine, allora, se la stava ritrovando lì, bella come non mai, con un’aria spaurita ma allo stesso tempo determinata, che lo fissava insistentemente in attesa di una sua risposta?
Cosa avrebbe dovuto dirle lui, allora? Avrebbe dovuto mandarla via, trattarla male esattamente come aveva fatto lei con lui quell’ultima volta che si erano visti.
“Brutta stronza,” avrebbe voluto dirle, “lo vedi che anche tu vieni a cercarmi quando ti fa comodo?”, ma la sua mente era troppo stanca, troppo confusa e allucinata per compiere una frase così elaborata come quella, e tutto quello che si sentì chiederle, e per di più balbettando, fu: «Che cosa ci fai tu qui?»
Lei cacciò fuori un sospiro silenzioso e stringendosi nelle spalle con aria incerta rispose: «Ti stavo aspettando.»
Quella sua semplicità, quella sua onestà era disarmante, ma la rabbia era ancora cocente e pulsante dentro di lui. Gli era risalita al cervello non appena, da lontano, aveva intravisto sui gradini del suo giardino una figura che assomigliava alla sua. Il suo intento di non pensare più a lei era andato a monte in così poco tempo, ma non era stata colpa sua, quella volta. Lui ci aveva provato, aveva fatto il possibile e -diamine- ci era riuscito. In quei giorni che aveva passato con la sua famiglia, mai era passata nella sua mente l’immagine di quella ragazza. Era stato bene davvero, aveva scelto la sua famiglia. E ora eccola di nuovo lì, nella sua vita. Si ripresentava da lui dopo tutti quei giorni e tornava a fare cosa?
«Come sapevi che sarei tornato proprio stasera?»
«Lo sapevo e basta. Ho più risorse di quanto potresti immaginare.» disse lei compiaciuta, con l’ombra di un sorriso sulle labbra.
Quel suo modo di ridere e prenderla così alla leggera lo stava infastidendo. Con forza sbatté lo sportello della sua automobile, richiudendola, e scrutandola con sguardo glaciale ripeté: «Perché sei venuta qui?»
Gloria avvertì chiaramente che Billie Joe Armstrong non aveva la minima intenzione di lasciarla parlare più dello stretto necessario, che non aveva la minima voglia di stare a fare dell’ironia, e poteva capirlo. Ripensando a cos’era successo l’ultima volta che si erano visti, si era resa conto di essere stata estremamente dura con lui, gli aveva urlato contro di andarsene via, e se pure lo aveva fatto in preda all’agitazione, questa non giustificava poi tanto il suo tono, la durezza con la quale lo aveva aggredito. Lo aveva praticamente costretto ad andarsene, e sapeva anche che con molta probabilità era stata lei la causa della sua partenza improvvisa per Minneapolis. Gli aveva detto di confrontarsi con la sua famiglia ed era esattamente ciò che lui aveva fatto, anche se non riuscì a immaginare come fossero andate le cose, né se lui avesse confessato tutto quanto a sua moglie, né come avesse potuto reagire lei di fronte a un discorso simile, né se si fosse accontentato, invece, di stare semplicemente accanto a lei e ai loro figli, dimenticandosi definitivamente di quella storia e riscoprendo il valore immenso che quelle persone avevano per lui. Decise allora che avrebbe messo da parte ogni tentativo di alleggerire la tensione e semplicemente gli parlò a cuore aperto, guardandolo intensamente negli occhi.
«Perché sono stata stupida.»
Lui sollevò il mento senza accennare a muoversi verso di lei ma continuando a fissarla con aria di sfida, quasi a volerla invitare a parlare ancora. Fu lei, allora, ad accennare due passi incerti in sua direzione.
«Ho parlato senza riflettere. Ti ho detto cose molto spiacevoli, mi dispiace.»
Avanzando verso di lui ancora di un altro passo, Gloria si ritrovò  a pochissimo spazio di distanza da lui. Billie Joe Armstrong dovette avvertire questa vicinanza, perché in quel momento distolse lo sguardo per la prima volta, dirigendolo, in basso, di lato. Aveva avvertito la sincerità che stava dietro a quelle parole, e per certi versi la apprezzava davvero, ma non poteva impedirsi di pensare a quanto fosse stata inutile e pessima la sua scelta di tornare da lui per scusarsi dopo tutti quei giorni. Storse le labbra in una smorfia che a Gloria non piacque neanche un po’, e dal naso cacciò un sospiro di rassegnazione prima di rivolgere nuovamente lo sguardo verso di lei.
«Va bene.» rispose semplicemente, spiccio, con tono neutro, quasi come avesse fretta di liberarsi di lei e tornare a vivere la sua vita. «Accetto le tue scuse.» Dopodiché le passò accanto e fece per dirigersi verso la porta, congedandola con un addio sbrigativo mentre già faceva per tirar fuori le chiavi di casa dalla tasca dei jeans.
Il cuore di Gloria prese a batterle in petto con così tanta forza che per un istante ebbe la  mente completamente annebbiata, le orecchie le fischiavano e sentì di essere sul punto di svenire da un momento all’altro. Non poteva andare a finire così. Facendo appello a tutte le sue forze si costrinse a respirare a pieni polmoni e a mantenere un briciolo di controllo di sé. Come una furia si precipitò verso di lui in preda alla disperazione.
«Aspetta!» quasi gridò afferrandolo per un braccio e costringendolo a voltarsi verso di lei.
Billie Joe Armtrong si ritrovò il suo viso a pochissimi centimetri da quello di lei.
«Non volevo solamente chiederti scusa.» continuò tutto d’un fiato, come se si fosse fermata solo allora dopo una corsa estenuante.
Lui non riuscì a parlare, ogni parola che aveva intenzione di dire gli moriva in gola prima ancora che lui avesse il tempo di dischiudere le labbra, così si limitò a osservarla, inviandole con gli occhi un tacito invito ad andare avanti. Lo sguardo di lei si era addolcito, il ghiaccio che aveva intravisto nei suoi occhi il giorno in cui era andato a parlarle si era liquefatto del tutto.
«Volevo dirti che ho cambiato idea.»
Il frontman dei Green Day aggrottò la fronte, ancora incerto su dove volesse arrivare. Lei chiuse gli occhi per una manciata di secondi, sospirando lentamente. Billie Joe riusciva a sentire distintamente il calore del suo respiro solleticargli la guancia, ma decise di aspettare in silenzio che fosse lei a parlare ancora.
«O meglio, non ho cambiato idea.» ammise Gloria riaprendo gli occhi, parlando con voce soffice e in tono basso, talmente basso che se solo fossero stati più distanti di pochi centimetri, lui non sarebbe riuscito a sentirla. «Mi sono semplicemente accorta che avevi ragione. Su tutto quanto.»
Si accorse solo in quel momento di avere ancora una mano stretta intorno al suo braccio, e mentre fece per allentare la presa sentì invece la mano di lui afferrarla saldamente per trattenerla lì dov’era. Il suo sguardo era ancora sospettoso ma aveva una scintilla al suo interno.
«Che significa questo?»
Gloria aprì la bocca per replicare ma per diversi istanti rimase in silenzio, indugiando quasi come fosse indecisa su cosa rispondere, poi lentamente avvicinò il viso a quello di Billie e con le labbra sfiorò le sue in un bacio soffice per poi staccarsi immediatamente.
«Significa che hai tutte le ragioni di questo mondo per mandarmi a cagare, ma se tu vuoi ancora, io voglio provarci.»
Billie Joe Armstrong corrugò la fronte, spalancando gli occhi. Lo aveva detto davvero? Dopo essere stata così severa e dura con lui tanto da averlo praticamente costretto a farsi da parte e spinto a fuggire da casa per trovare conforto dalla sua famiglia, ora lei era lì e davvero gli stava dicendo di aver cambiato idea, di aver deciso di stare insieme?
La ragazza non riusciva a sopportare il suo silenzio. I suoi nervi erano tesi come corde di violino. Mai era successo prima di allora, in vita sua, che si fosse messa così tanto in gioco. E mai e poi mai avrebbe pensato che lo avrebbe fatto per un uomo come lui, un uomo di vent’anni più grande di lei, sposato, con due figli e un conto in banca pieno di zeri, famoso in tutto il mondo e lontano anni luce dalla vita di una ragazza semplice e, tutto sommato, banale come lei.
«C’è sintonia tra noi.» Si costrinse a parlare non senza difficoltà. «C’è… attrazione, credo. Non so bene come definire questa cosa che abbiamo, perché è la prima volta che mi trovo in una situazione del genere…» ammise. «Non è semplice neanche per me.»
Lui rilassò la fronte e la ascoltò attentamente, questa volta con meno sospetto.
«Mi rendo perfettamente conto che è sbagliato, e che è un errore essere qui adesso. Ed è anche rischioso, considerando l’accanimento mediatico che c’è su di te ultimamente, ma ci sono persone che si sono sacrificate tanto, per me, affinchè io fossi felice, e pur sapendo che queste persone non approverebbero mai quello che sto facendo, io sento che è quello che voglio. Io voglio sentirmi viva e felice. E non so per quanto durerà tutto questo, ma io mi sento così, adesso, e se anche dovesse finire tutto nel giro di cinque minuti, io sarò lo stesso contenta di averlo vissuto.»
Billie Joe Armstrong accennò, per la prima volta da quando era sceso dall’auto, un piccolo sorriso. Era così grande la forza di ciò che aveva appena detto Gloria, era così traboccante di vita che non potè fare a meno di sentirsi vivo, di riflesso, anche lui. Era una promessa, quella ragazza. Aveva il fuoco dentro di sé, quel fuoco che forse solo le persone della sua età possono avere, quello di chi ha ancora davanti tutto il proprio futuro e naviga il fiume della propria esistenza a vele spiegate, consapevole di essere così forte da poter sbaragliare ogni ostacolo, di poter avere il mondo intero stretto nelle proprie mani.
Ma è davvero così sbagliato -si domandò- sentirsi così vivi anche a quarant’anni? Pensare di poter cambiare ancora le regole del gioco? Sì, lo era. La responsabilità delle sue azioni –concluse- non sarebbe ricaduta su di lui solo, ma anche su tutte quelle persone, e non erano poche, strettamente collegate a lui. La sua famiglia, innanzi tutto. I suoi amici, gli altri membri dei Green Day. Persino i fans sarebbero stati delusi da lui.
Ma perché avrebbe dovuto sottrarsi a tutta quell’energia? Ora che ne era entrato in contatto, e l’aveva vista, l’aveva provata lui stesso, sopra e sotto la pelle, come poteva lasciarla andare via in quel modo, senza poi pentirsene per il resto della sua vita?
Dopo tanto silenzio, Billie Joe riuscì finalmente a parlare.
«Quello che dici è molto bello. Davvero, Gloria, hai una forza d’animo immensa.» Tutta la vita che lei aveva da offrirgli era invitante come la mela che, ai primordi dell’umanità, Eva colse dall’albero. «Ammetto di sentirmi molto in colpa per la mia famiglia.»
Gloria abbassò lo sguardo torturandosi con i denti l’interno di una guancia. Poteva capire le sue remore. Né lui né tanto meno lei venivano da situazioni familiari semplici e serene, e per chi vive un’infanzia difficile viene spontaneo cercare di difendere in ogni modo la propria famiglia, di evitare ai propri figli di soffrire così tanto.
«Lo so. Davvero, posso immaginarlo. Anche se ti conosco così poco, sono sicura che sei un  buon marito e un buon padre, non il tipo di persona che abbandonerebbe la famiglia senza tanti problemi.»
Lui annuì.
«Il punto è... che non devi.» gli rivelò con tutta la sincerità possibile. «Io non voglio niente da te, non ti chiedo niente, davvero. È la tua famiglia, e io non  voglio -e non devo- avanzare pretese di nessun tipo. Sul serio. E non voglio neanche influire sulla vostra serenità. Starò lontana da loro, e anche dai tuoi amici. Nessuno saprà mai di me. Io terrò la bocca chiusa: non sei un trofeo che devo ostentare in giro. E soprattutto, io non ho bisogno di te. Sono qui perché, semplicemente, lo voglio. Non c’è niente di folle o angosciante. Può essere una cosa solamente nostra. E possiamo metterci un punto ogni volta che vogliamo, se ci accorgiamo che la cosa inizia a starci stretta. Non voglio scombinarti la vita. E se tu non sei convinto, io posso levarmi dai piedi e sparire per sempre in questo preciso istante.»
Gloria pronunciò queste parole a cuore aperto, ben consapevole del fatto che le sarebbe dispiaciuto molto se lui avesse deciso di troncare definitivamente i rapporti con lei, ma certa che sarebbe stata disposta ad accettare e rispettare la sua scelta, qualsiasi essa fosse stata.
«Quindi la tua proposta è quella di prendere solo e soltanto il meglio che l’uno ha da offrire all’altro e mollare la presa non appena ciò dovesse diventare incompatibile con le nostre vite di sempre?»
«Sì, qualcosa del genere.» rispose lei con convinzione.
Billie Joe riflettè per qualche istante. Se pensava alla sua famiglia, l’idea di intraprendere quella strana relazione alle loro spalle gli appariva la cosa più sbagliata e insensata del mondo. Se però pensava all’abbattimento di cui era stato vittima in quegli ultimi mesi, e al fatto che quella ragazza fosse stata l’unica che era stata in grado di tenerlo in piedi e farlo sentire vivo, e che in quel preciso istante gli stesse offrendo se stessa e il fuoco che animava la sua stessa vita, l’idea di quella relazione non gli appariva sbagliata nemmeno un po’.
Scosse la testa lentamente, puntando lo sguardo verso il basso, il labbro inferiore stretto tra i denti.
Gloria non si era mai sentita così in bilico e così tanto vulnerabile come allora. In quel preciso istante, si rese conto, Billie Joe Armstrong stava facendo la sua scelta. Era sacro, quel momento, aveva una potenza quasi religiosa. Dalla decisione che aveva preso lei, e da quella che stava per prendere lui, sarebbe dipeso tutto quanto. Se ne sarebbe ricordata diversi anni dopo, e più di una volta, anche, quando la vita le sarebbe sembrata estremamente dura e ingiusta con lei, e lei avrebbe pensato che quella non era altro che la giusta punizione per aver dato inizio, a causa della sua scelta sbagliata, a quel precipitare degli eventi che da un momento all’altro, inesorabilmente, li aveva travolti tutti quanti, nessuno escluso.
Dopo diversi istanti che a Gloria parvero durare un’eternità, Billie Joe Armstrong cacciò fuori un sospiro come rassegnato, l’angolo della bocca sollevato in una smorfia simile a un sorriso. Prese il viso della ragazza tra le mani e si avvicinò a lei fino a che le loro fronti si toccarono, le punte dei loro nasi appoggiate l’una contro l’altra.
«Brucerò all’inferno per questa decisione.»
«Io non lo so se ci sarà un inferno, dopo.» annunciò lei con semplicità, stringendosi nelle spalle. «Per ora so che c’è questo…» disse indicando con il braccio ciò che li circondava «ed è questo, che voglio vivere.»
E così Billie Joe le sfiorò le labbra con le sue, fino a che il contatto non si fece più profondo. C’era energia, in quel bacio, una strana forza che attraverso le loro mani, attraverso le loro bocche e i loro respiri, passava da Gloria a Billie Joe e poi di nuovo a Gloria, fino a che si staccarono, ubriachi ognuno della vita dell’altro.
«Promettimelo.» disse poi Billie Joe con un filo di voce, quasi una minaccia.
«Cosa?»
«Che ci godremo davvero solo e soltanto il meglio.»
«Te lo prometto. Solo io, te e tutto ciò che di bello potrà esserci tra noi.»
«E il divieto assoluto di parlare del futuro.» concluse lui, risoluto.
«E il divieto assoluto di parlare del futuro.» confermò lei annuendo.
 
[Continua]
 

 

Sarò breve. Volevo solo scusarmi con chi seguiva questa storia (sempre ammesso che sia rimasto qualcuno, ormai sono totalmente disorientata nel fandom, vuoi per i nickname che cambiano, vuoi per il fatto che si è davvero riempito come un panzerotto) per la mia lentezza veramente scandalosa. Più di una volta ho avuto il serio impulso di mollare la presa e dichiarare questa storia incompiuta. Poi, a sorpresa, dopo oltre sei mesi di pura aridità, oggi mi si è riacceso un barlume di ispirazione. E l’ho colto al volo. E rieccomi qui. Vorrei promettere che da ora in avanti sarò più rapida ma non sono sicura di esserne in grado. Per il momento ringrazio chi legge o leggerà, e come sempre spero che mi facciate sapere cosa ne pensate, nel bene e nel male.
A presto (spero).

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