The Sun Eclipsed Near the Glacier

di Frances
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologue; Memories of Autumn • [ μ ] - εуλ 1992 (xxx) ***
Capitolo 2: *** One; Watching the evening pass by • [ μ ] - εуλ 1994 (xxx) ***
Capitolo 3: *** Two; The church that became his hideout • [ μ ] - εуλ 1997 (xxx) ***
Capitolo 4: *** Three; The other man who saw her vision • [ ν ] - εуλ 2001 (xxx) ***
Capitolo 5: *** Four; The pink-dressed and her letters • [ ν ] - εуλ 2002/2003 (xxx) ***
Capitolo 6: *** Five; Facing himself in front of the fireplace • [ ν ] - εуλ 2007 (xxx) ***



Capitolo 1
*** Prologue; Memories of Autumn • [ μ ] - εуλ 1992 (xxx) ***


Prologue; Memories of Autumn • [ μ ] - εуλ 1992 (xxx)

The day he met his curse and salvation

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La verità si era rivelata una sera in maniera del tutto inaspettata, inattesa, scivolando via dalle labbra umide di alcol di Reno in un bar fumoso e poco frequentato di Junon. Era passata inosservata come una qualsiasi sciocchezza inserita a caso in un discorso sconclusionato di fine giornata, si era dissolta e si era annidata in un angolo recondito della mente di Tseng senza riemergere per molti anni. Aveva continuato semplicemente a sorseggiare distrattamente il proprio drink, leggendo dei fascicoli che elencavano banali rapporti quotidiani.

Fu forse grazie al liquore e alla disperazione che riuscì a far riemergere quel ricordo poco importante, quasi venti anni dopo, quando si ritrovò costretto ad affrontare sé stesso, seduto davanti al fuoco, solo con le fiamme ed i suoi fantasmi.

Era una notte qualsiasi, o forse la più terribile che avesse mai trascorso in solitudine. Ingoiava amari sorsi di un liquore forte quasi quanto quello che era solito bere assieme a Reno, tentando di sopprimere un’irrefrenabile bisogno di rompere il bicchiere sulla moquette rossa. Mentre osservava la carta ripiegarsi su sé stessa, fissando gli angoli delle buste immacolate annerirsi e accartocciarsi in una rapida e malinconica danza di morte tra le fiamme del caminetto, rivide la scena come sulla pellicola sbiadita di un vecchio film.

« Le bugie sono come la droga. Racconti la prima ripromettendoti di non compiere mai più lo stesso errore, ma poi finisci inevitabilmente vittima di un’assuefazione completa.» le lunghe dita sottili di Reno avevano iniziato rapidamente a chiudersi a pugno, ad una ad una, in una fatale ed inesorabile conta « La prima bugia è un tentativo, la seconda è ingenua, la terza necessaria. L’inconveniente è che,» le ultime due dita seguirono le prime tre all’unisono, interrompendo il ritmo, mentre le labbra di Reno assumevano una curva fatalista ed ironica al tempo stesso « dalla quarta in poi diventa impossibile tenere il conto.»

La sua voce era stata soffocata dal tintinnio del ghiaccio nel bicchiere, dal frusciare dei fogli tra le dita di Tseng, da un rintronante cupo blues che rimbombava da un vecchio jukebox in un angolo del locale, dal sommesso brusio che proveniva dai pochi tavoli occupati, nella penombra.

Anche se il tono con cui furono pronunciate aveva in qualche modo reso quell’argomento poco serio, - quel suo continuo e particolare modo di flettere la voce trasformava ogni discorso in una cupa presa in giro –, le sue erano state parole fondamentalmente tristi. Tuttavia, il giorno in cui vennero proferite subirono il destino che di solito Tseng riservava agli sproloqui di Reno: furono ascoltate di sfuggita e deliberatamente ignorate.

La ceralacca rossa iniziò a colare tra i tizzoni ardenti, scivolando sulla carta e nella cenere come un inquietante serpente di sangue.

L’uomo che li osservava morire in quel fuoco che piano divorava quattro anni di speranze e preghiere, vide i sigilli sciogliersi, mescolarsi alla carta annerita.

E fissando quasi rapito il lento sgretolarsi di quelle lettere mai spedite, quell’uomo comprese lentamente.

Reno era sempre stato un individuo singolare. La maggior parte delle volte che apriva la bocca si trattava solo di un modo rapido di far sfoggio delle proprie illimitate e spesso eccessive abilità oratorie, aprendo discorsi irritanti e privi di senso che non valeva la pena neppure di prendere in considerazione.

Quando tuttavia ricordava di come il dono della parola non servisse solo a lamentarsi, a imprecare o ad urlare, Reno sapeva essere un uomo saggio. Si trattava di una saggezza grezza e priva di morale, plasmata dall’esperienza e dalle sofferenze di una vita sregolata trascorsa senza agi nei bassifondi di Midgar. Lui era l’unico nel loro mondo di assassini che fosse in grado di vedere la realtà per quello che era, che riuscisse a comprenderne ogni sfaccettatura, ad accettarla senza tentare in alcun modo di sfuggirle. Aveva la capacità di assimilarla, di respirarla, di farla sua, adattandosi al marcio ed alla corruzione come se fossero piccole imperfezioni senza valore, gli elementi naturali dell’aria che respirava. Continuava a immettere aria nei polmoni come se niente fosse, accettava quel cancro senza farsene un problema e non se ne lamentava. Era l’unico in grado di capire quanto ribellarsi fosse inutile, quanto fosse privo di senso illudersi che prima o poi le cose sarebbero andate diversamente, per loro e per il Pianeta. In quel mondo insanguinato di truffe, ingiustizie e putridume dove tutti non facevano altro che fingere, lui era uno dei pochi che riuscisse a rappresentare il mondo con estremo e impietoso realismo – in quei casi, le sue parole diventavano preziose come diamanti rari.

Tseng ripensò a quel suo stupido discorso sulle bugie, mentre nel fuoco vedeva bruciare anche gli strascichi di inutili promesse mai mantenute. Era stato così cieco da non accorgersi che quella sera Reno gli aveva offerto uno dei diamanti più preziosi mai visti. Come aveva potuto gettarlo via come un qualsiasi quarzo senza valore?

Abbandonò mollemente le spalle contro lo schienale morbido di quella poltrona costosa di pelle nera, il bicchiere ormai mezzo vuoto tra le dita aperte a ragno. Il vetro rifletteva i riverberi del fuoco, mescolandoli ai brevi lampi che percorrevano il ghiaccio e le onde liquide dell’alcol. Si passò la mano libera sul volto, poi afferrò i capelli all’attaccatura, in un moto di silenziosa e mesta frustrazione.

C’era una risata che faceva di tutto per sgorgargli dalla gola, ma la trattenne. Si limitò a digrignare i denti, silenziosamente, e poi a tornare inespressivo, la mano che scivolava composta sul bracciolo lucido.

Cieco e illuso.

C’era stato un tempo lontano in cui un ragazzo come gli altri aveva indossato morbidi abiti di lino con le maniche ricamate di fili d’oro e decorate di gru dipinte a mano. Aveva sentito l’odore dell’incenso per le strade, il rumore dell’acqua sulle rocce e sotto i ponti di legno laccato, aveva sentito la consistenza morbida delle stuoie sotto i piedi nudi.

Una notte di inverno si era seduto accanto al letto di morte di suo padre, mentre la neve cadeva sul Da-Chao, le montagne e gli alberi.

Forse fu quello il giorno del suo primo tentativo, del primo passo verso l’assuefazione, mentre il suo piccolo mondo di pace si tingeva di bianco e la vita di suo padre si spegneva.

« Andrai via da qui, figlio mio.» aveva detto suo padre, gli occhi gonfi e arrossati, la voce ridotta ad un sibilo mentre i suoi polmoni cercavano in tutti i modi di raccogliere l’aria necessaria « La mia amata patria è ormai troppo piccola e povera perché tu possa condurvi la vita che meriti.» gli aveva sfiorato faticosamente il braccio, le dita bianche e gelide « Queste sono le mie ultime volontà, figlio. Sarò l’ultimo di questa stirpe a depositare qui le proprie ceneri.»

Il giovane lo aveva fissato intensamente per lunghi istanti; c’erano tante cose che avrebbe voluto dirgli, ma le occhiate febbrili piene di aspettativa di suo padre erano state in grado di imporgli il silenzio. Aveva abbassato appena gli occhi scuri, in un moto di mesta, rispettosa ed impassibile ubbidienza.

« Andrò, padre.» aveva risposto, annuendo piano.

Aveva visto uno stanco sorriso apparire sulle labbra esangui del suo amato padre.

« Ti ringrazio. Sono fiero di te, figlio.»

Il giorno dopo aveva sentito il pianto sommesso di sua madre riecheggiare per tutta la casa ed aveva aperto il pannello scorrevole della sua stanza; seduto sui talloni sul legno del porticato, davanti al giardino di pietre ghiacciate di cui suo padre era sempre stato geloso, aveva osservato i fiocchi di neve cadere dal cielo per tutta la notte.

La ShinRa aveva raggiunto il suo universo incontaminato qualche mese prima, cercando affari e accordi commerciali con la Pagoda. Gli ambasciatori provenienti da sud promettevano benessere, lavoro e denaro per chiunque desiderasse cominciare una vita nuova.

Si recò a incontrarli al termine dei riti funebri tramite i quali le ceneri di suo padre avevano trovato riposo tra quelle dei suoi predecessori. Quando si era presentato alla Pagoda indossando gli abiti che portavano il sigillo della sua casata, il nome della sua stirpe era bastato a convincere gli inviati da Midgar. La sua famiglia era una delle più celebri di Wutai, e lui ne era l’ultimo erede maschio.

« La tua presenza porterà onore ed enormi vantaggi all’azienda.»

Gli avevano promesso un posto tra gli enti esecutivi della ShinRa, gli chiesero di presentarsi alla pagoda entro una settimana per ripartire verso Midgar, gli avevano offerto la mano aperta per suggellare il patto.

Il ragazzo li aveva esaminati lentamente, rispondendo ai loro sorrisi solo con silenziosi e freddi sguardi.

« Vi ringrazio.» si inchinò appena, senza degnare i loro palmi spalancati neppure di un’occhiata.

E poco prima di partire con la ShinRa, verso un mondo che conosceva solo grazie ai racconti cupi degli esploratori, dopo aver reso onore alla tomba degli antenati con incensi di ciliegio, aveva ultimato i preparativi chiudendo i lucchetti dei suoi pesanti bauli antichi.

« Non sei costretto ad andare, figlio.» sua madre lo aveva implorato di rimanere con lei fino all’ultimo. La notte prima della partenza si era poggiata affranta allo stipite della porta scorrevole, la sua sagoma un po’ curva che si proiettava allungata sulle pareti della stanza ormai vuota.

« Questo è ciò che voleva mio padre. Gli ho dato la mia parola.» il giovane aveva risposto senza guardarla. Lei era rimasta a lungo in silenzio.

« Non ti fermerò se questa è anche la tua volontà.» si era infine arresa, la voce incrinata e tremante « Ma se in realtà non vuoi partire ed ami ancora la tua casa, rimani qui con me. Tuo padre capirebbe, ne sono certa. E’ giusto che tu sia libero di fare ciò che preferisci.»

Lui aveva chiuso gli occhi, dischiudendo appena le labbra.

Ho dato la mia parola, madre.

Come potrei sopportare il disonore di mancare ad una tale promessa?

E’ il mio dovere.

Sebbene il fiato gli si mozzasse in gola aveva trovato la forza di pronunciare le uniche parole che avrebbero costretto sua madre a lasciarlo andare. Le uniche che gli avrebbero permesso di continuare ad avanzare lungo il sentiero di devozione che aveva imboccato.

« E’ ciò che voglio.»

Sua madre aveva trattenuto il respiro, soffocando un breve rantolo di dolore.

Il giorno della partenza, quando lo aveva baciato su entrambe le guance e lo aveva osservato mentre lasciava la casa che non avrebbe mai più rivisto, gli aveva rivolto uno strano sguardo di accusa. Lui lo aveva sentito su di sé anche dopo, quando non fu più in grado di distinguere i tetti di Wutai tra gli alberi.

Un addio amaro che gli suggeriva un biasimo malinconico.

Pensi che tuo padre sarebbe fiero delle tue menzogne?

C’era stato un giorno in cui il giovane di Wutai aveva varcato la soglia di un mondo che non conosceva affatto. La prima cosa che notò, scendendo dall’auto che lo aveva accompagnato davanti ai cancelli di Midgar, fu che il cielo era uno specchio nero privo di stelle. Rimase immobile a fissarlo per lunghi istanti, stringendo tra le mani i manici duri dei suoi bauli da viaggio, in sottofondo i tonfi metallici provocati dagli sportelli della macchina che venivano aperti e richiusi. Cercò di riconoscere le costellazioni, tentò in tutti i modi di scorgere anche il minimo bagliore in quella distesa di pece – ma l’unica cosa che colse fu il vuoto, ed un istante dopo si sentì avvolto da un assoluto senso di disorientamento.

Il primo giorno lo accolsero tra le mura di un gigantesco palazzo di ferro e luci: il neon gli ferì gli occhi, fu assordato e confuso dalle voci di uomini di cui comprendeva a stento l’accento. In molti gli strinsero la mano senza che lui la offrisse, presentandosi spontaneamente. Sembravano tutti soddisfatti del suo arrivo, ma il giovane non si illuse. Il nome di suo padre correva su quelle bocche con troppa rapidità perché quel loro entusiasmo fosse disinteressato. Cercando di adattarsi alla situazione, mostrava a tutti un cortese e silenzioso distacco.

La sera stessa gli consegnarono la chiave di un appartamento, informandolo che quella sarebbe stata la sua sistemazione temporanea. Gli dissero che finché non fosse stato possibile farlo alloggiare direttamente al Quartier Generale, avrebbe dovuto cambiare alloggio ogni quattro giorni per questioni di sicurezza.

La prima casa era situata al quinto piano di un condominio a meno di due isolati dal Palazzo ShinRa. Era piccola e poco accogliente, ma il giovane non ebbe nulla di cui lamentarsi: sapeva che non sarebbe servito a nulla. Si sedette sul bordo del materasso duro e fissò il vuoto a lungo, senza curarsi dei bauli ancora intatti. Le pareti erano grigie e anonime – non c’erano decorazioni di carta di riso, né qualsiasi altra cosa.

Il secondo giorno degli uomini in giacca e cravatta bussarono alla sua porta: erano le cinque del mattino ma lo trovarono sveglio – non era riuscito a chiudere occhio. Gli consegnarono formalmente degli abiti avvolti in un sottile e leggero foglio bianco di carta velina, dicendogli di presentarsi al Quartier Generale alle sette in punto. Aprendo l’involto, distese sul suo letto intatto un completo blu scuro: sul taschino della giacca era ricamato il simbolo della ShinRa, un piccolo rombo perfettamente simmetrico che incorniciava il logo della compagnia.

Alle sette e mezzo del secondo giorno, il giovane incontrò il Presidente ShinRa. Si presentò nel suo grande ufficio dell’ultimo piano con addosso la sua nuova scomoda divisa, salutandolo con un profondo inchino formale. Il Presidente gli diede il benvenuto nell’organizzazione di intelligence della sua agenzia – un organismo che, a detta sua, era composto solo di persone da lui stesso ritenute meritevoli di enorme fiducia. Sembrava che quelle parole di circostanza volessero in qualche modo rendergli noto quanto fosse importante il servizio che il figlio di un grande feudatario di Wutai avrebbe svolto per la società. Ma per qualche motivo, il giovane le udì distorte e gli parve che si trattasse solo di un metodo velato per tenere a bada un potenziale pericolo.

« Sono molto onorato.» fu la risposta a quelle vuote lusinghe. Una bugia ingenua di tre parole.

E tuttavia sentiva ancora la voce di sua madre sussurrargli fredde accuse all’orecchio.

Chi pensi di ingannare con queste tue menzogne?

Il terzo giorno gli diedero le chiavi del suo secondo alloggio e gli mostrarono il cartellino che lo identificava come dipendente della ShinRa – sulla carta plastificata si leggeva chiaramente Sezione investigazioni del dipartimento degli Affari Interni.

Il quarto giorno lo accompagnarono nelle prigioni del palazzo e gli mostrarono un prigioniero bendato, legato ad una sedia nel bel mezzo di una cella umida. Gli diedero una pistola e gli dissero “spara”.

Il Turk tese il braccio e fissò in silenzio l’uomo imprigionato; il dito tremava sul grilletto e il calcio bollente dell’arma gli si conficcava nel palmo provocandogli un dolore lancinante. E prima di obbedire, poggiando la canna sulla fronte del prigioniero, vide le lacrime rigare le sue guance, mentre una bassa preghiera sommessa e singhiozzante gli sfuggiva dalle labbra secche. Quando il frastuono dello sparo gli inibì l’udito, estraniandolo da qualsiasi cosa su quel Pianeta, il Turk riuscì a non pensare a quanto quella nenia gli fosse sembrata simile ad uno dei sutra di Wutai.

Si abituò difficilmente all’odore dello smog per strada, al frastuono che la inondava da mattina a sera, alle luci abbaglianti, al pavimento ruvido degli uffici e dell’asfalto. All’inizio non riuscì a chiudere occhio, ma alla fine le sue abitudini cedettero e si modificarono – il letto duro della sua stanza diventò una necessità, così come il caffè amaro dei distributori in ufficio, o il colletto stretto e asfissiante di quella giacca blu inamidata. Le notti insonni terminarono, complici le intense giornate di lavoro.

L’unica cosa a cui non riuscì mai ad assuefarsi, per quanto si sforzasse, fu premere il grilletto. Quando al mattino gli bastava una leggera pressione dell’indice sul metallo freddo per spezzare la vita di un uomo, gli incubi che gli impedivano il sonno tornavano sempre, ogni notte, a volte per mesi.

E poi venne la guerra.

Se ne accorse una mattina qualsiasi, sfogliando dei mandati di arresto e di perquisizione. Uno dei fascicoli fissava il primo bombardamento su Wutai alle ore otto del mattino, in data otto agosto. Sembrava uno scherzo o un errore che uno dei Turk lo venisse a sapere a quel modo – il giovane rilesse quella dichiarazione di guerra più di dieci volte, stringendo forte tra le dita il foglio bianco che portava la firma del Presidente ShinRa.

Quella sera stessa chiese udienza al Presidente. Si presentò davanti alla sua scrivania contando i passi lungo le scale, i pugni stretti in una morsa nel tentativo estremo di mantenere il controllo.

Si presentò di fronte a quell’uomo per conoscere il perché di quella guerra e ottenne in risposta solo uno sguardo di irritata sufficienza.

« Per quale motivo un semplice Turk dovrebbe contestare le decisioni dei suoi superiori?» il Presidente si era alzato in piedi, sbattendo le mani contro la scrivania.

« Wutai è la mia terra.» fu la giustificazione semplice e sincera che giunse in risposta

« Wutai è un’isola maledetta popolata di sciocchi ipocriti. Abbiamo tentato di trovare un accordo con loro, ma la loro ostinazione e i loro dogmi obsoleti di orgoglio e dovere ce lo hanno impedito.» le parole del Presidente lo ferirono come pugnali affilati « Ora è tempo che Wutai riceva ciò che si merita.»

Il giovane deglutì, i principi in cui aveva sempre creduto che si sgretolavano improvvisamente ad ogni parola, frantumandosi in mille pezzi ai suoi pedi come gingilli di vetro privi di valore. Il presidente li aveva scherniti e denigrati fino a disintegrarli nel nulla.

« Posso aiutarvi. Lasciatemi il comando delle contrattazioni e datemi la possibilità di provare.» fu l’ultimo tentativo disperato « Ritirate la dichiarazione di guerra.»

Gli occhi del presidente si erano immediatamente accesi di rabbia:

« I Turk obbediscono. L’obbedienza è l’unica cosa che viene chiesta loro in cambio di uno stipendio che chiunque sul Pianeta invidierebbe, e tu – chi credi di essere tu, per osare anche solo venire qui al mio cospetto per rivolgermi una domanda del genere?» il Presidente si era riseduto lentamente, rivolgendogli un gesto stizzito della mano, quasi dimenticandosi della sua presenza « Sei congedato.»

La notte del sette agosto, il fracasso degli elicotteri e dei bombardieri che si alzavano in volo dall’aeroporto della ShinRa non gli fece chiudere occhio. Il suo decimo appartamento era più spazioso dei precedenti, si trovava molto più vicino al Quartier Generale di qualsiasi altro avesse occupato. Affacciandosi alla finestra della sua stanza avrebbe facilmente potuto assistere alla processione militare che si alzava in volo in una cupa promessa di morte e rovina.

Abbassò le persiane e si chiuse a chiave nel bagno; si accasciò sul lavandino, rimettendo bile e acido dallo stomaco vuoto. Il rombare dei motori che si allontanavano giungeva attutito attraverso le sottili pareti di prefabbricato, ma lo assordarono e lo tormentarono fino a fargli quasi esplodere la testa dal dolore.

Quando alzò gli occhi e si guardò allo specchio, l’immagine riflessa gli mostrò un uomo in lacrime.

A cosa servivano la giustizia e l’orgoglio, ormai? Avrebbero fermato quella follia? Avrebbero lavato le sue mani imbrattate dal sangue degli uomini che aveva ucciso?

A cosa serve l’onore, se sono costretto a insozzarlo perseguendo dei valori in cui non credo?

I polpastrelli premuti contro il vetro, il giovane di Wutai poggiò la fronte contro la superficie fredda, digrignando i denti, le lacrime che colavano senza tregua fino al mento appuntito.

E battendo i pugni contro la sua immagine riflessa, il Turk si sentì un traditore. Non era forse lontano dalla sua gente che sarebbe morta? Non si rendeva conto di quanto quelle sue lacrime fossero inutili?

Che valore ha il mio giuramento, padre?

Quante persone sono già morte a causa mia? Quante ne moriranno ancora?

Continuando a fissare l’uomo nello specchio, studiando le sue guance salate ed incavate, il suo sguardo vacuo ed il sudore che gli imperlava la fronte e gli inumidiva i capelli, il Turk impugnò la pistola. Aveva abbandonato la terra di suo padre, offrendosi ingenuamente come prigioniero politico. Si era votato ad una vita fantasma, spingendo il proprio ego fino all’annullamento. E non poteva scappare: poteva solo rimpiangere e urlare, mentre iniziava la distruzione di ogni cosa avesse amato. Ora che il suo onore era andato in frantumi, a cosa serviva vivere?

Poggiò la canna sulla propria tempia, il dito che per la prima volta non fremeva nel toccare il grilletto.

Quante vite ho strappato in nome dell’onore?

Secondo quale diritto ho ucciso?

Solo chi è pronto a morire possiede quel diritto.

Chiuse gli occhi, il ronzio degli aerei che spariva lentamente.

La molla scattò a vuoto. Non c’erano più proiettili.

Neppure la morte gli era più concessa.

Quando il giorno dopo si guardò allo specchio, la luce dei suoi occhi era diversa. Quando sorse l’alba dell’otto agosto, il ragazzo di Wutai non esisteva più. Non esistevano più legami di sangue, né abiti ricamati di seta, né la nostalgia di un mondo che probabilmente in quello stesso istante stava già bruciando.

Ora c’era un uomo che avrebbe condotto la vita che aveva scelto in silenzio, come in un eterno cammino di espiazione.

Si legò la cravatta come ogni mattina, pettinando all’indietro i capelli che iniziavano a diventare troppo lunghi. Infilò il caricatore nella pistola, ignorando la fitta ragnatela di crepe che deturpava lo specchio.

E firmando il primo rapporto con il suo nuovo nome fittizio – il nome di quell’uomo nato dalle lacrime – impugnando un’elegante stilografica nera, si fece silenziosamente una promessa ingenua.

Ho abbandonato tutto per questa vita. Non è forse giusto che vi dedichi tutto me stesso?

Pose il sigillo della ShinRa sulle ultime due lettere della sua firma ancora acerba.

E’ ciò che merito.

Era l’otto agosto quando iniziò la lenta disfatta di Wutai.

Era l’otto agosto quando nacque Tseng.

 

Quando gli furono consegnate le chiavi del sedicesimo o forse diciottesimo  appartamento, Tseng iniziò ad occuparsi dei sondaggi per la SOLDIER. Era incredibile la quantità di candidati che si presentavano ogni giorno alle porte del Quartier Generale, chiedendo di essere ammessi tra le schiere dell’esercito d’elite.

Il ruolo dei Turk, in quel caso – uno dei compiti ufficiali della Sezione Investigazioni – era sottoporre i candidati a sondaggi e prove sia fisiche che psicologiche in modo da verificare che fossero idonei o meno alla procedura di trasformazione in SOLDIER. Tseng aveva svolto il suo dovere con estrema professionalità fin dal primo colloquio, prendendo appunti in silenzio, ascoltando e registrando ogni parola. La maggior parte dei volontari erano ingenui precari che speravano di cambiare vita – incantati dalle promesse elargite dagli sponsor ShinRa o dal sogno di gloria proposto dagli eroi SOLDIER come Sephiroth – ma erano pochi quelli ad avere i requisiti adatti. Ogni volta che si sedevano davanti a lui, tesi ed impazienti come se da quell’incontro dipendesse la loro vita, Tseng non riusciva a fermare quel muto flusso di coscienza che gli scorreva nella testa, in sottofondo – Poveri sciocchi avventati, non hanno idea di che inferno li attenda. E nonostante ciò continuava a lavorare, ponendo i sigilli e la propria firma quando i test risultavano positivi. Quando doveva congedare i volontari non adatti, li osservava andarsene senza mostrare loro alcuna espressione, anche se spesso era costretto ad assistere impassibile anche alla loro delusione disperata.

A Midgar non era facile distinguere le stagioni, ma il calendario segnava l’inizio dell’autunno. Non c’erano alberi spogli né foglie secche per le strade e la cappa di smog ed inquinamento manteneva la temperatura costante – un caldo umido spesso soffocante che si attenuava solo durante le rare nevicate invernali.

In quel periodo il suo lavoro si limitava semplicemente nell’incontrare la gente, nel raccogliere informazioni utili, nel timbrare e contrassegnare biglietti di non ritorno verso il mondo SOLDIER.

Ed era una sera autunnale quando Tseng vide il nome di un uomo non idoneo stampato su uno di quei biglietti.

Se ne accorse all’istante, sfogliando le cartelle degli arruolamenti. Esaminò il fascicolo leggendo ogni paragrafo con attenzione: a giudicare dai risultati del sondaggio, si trattava di un uomo molto forte fisicamente, che tuttavia presentava delle debolezze minime      e dei trascurabili disturbi di natura psichiatrica. Per quale motivo vi era stato apposto il sigillo? Una svista? Un errore di un collega?

Abbandonò la cartella sul tavolo della stanza degli archivi, dirigendosi a grandi passi verso l’ascensore. Svista o errore che fosse, solo una cosa era certa: quell’uomo non avrebbe probabilmente sopportato il trattamento.

Aspettò di arrivare al cinquantesimo piano fissando i numeri che crescevano rapidamente sul monitor a cristalli liquidi – 44, 45, 46 – mentre oltre i vetri dell’ascensore i palazzi squallidi di Midgar si rimpicciolivano e diventavano in fretta insignificanti sotto i suoi piedi, a mano a mano che saliva. Quando le porte scorrevoli si aprirono, accelerò il passo, dirigendosi verso il laboratorio dove si svolgevano le esposizioni Mako degli agenti SOLDIER.

Probabilmente, in quegli attimi che erano intercorsi tra la scoperta di quell’errore di valutazione e la rapida salita verso il laboratorio, Tseng era riuscito in qualche modo ad illudersi di poter salvare una vita – dopo che per molto tempo non aveva fatto altro che distruggerne.

Ma quando gli infermieri lo portarono davanti al letto del paziente 34, ogni sua speranza si dissolse all’istante.

Si avvicinò lentamente, ogni passo che diventava più pesante e difficoltoso come in una corsa disperata nel fango; e quando si fermò, accartocciando tra le dita il fascicolo che lo aveva condotto fin lì, incontrò lo sguardo vitreo di un uomo morto.

Aveva il fisico imponente di un minatore, ma il volto incavato raccontava un’altra storia. Sembrava essere dimagrito improvvisamente, all’istante, quasi che la sostanza gli fosse stata aspirata via dalle carni in un colpo solo. I bulbi oculari sprofondavano nelle orbite scure come in due profondi crateri vuoti, i capelli erano radi, bianchi come quelli di un vecchio. Giaceva lì, respirando a fatica, muovendo gli occhi ciechi che sembravano posarsi su ogni cosa senza tuttavia vedere nulla.

Tseng studiò quegli occhi a lungo, prima che l’uomo si accorgesse di lui; e fu osservando i pigmenti castani delle iridi che si rimescolavano disordinatamente al liquido verde del Mako – una macchia densa che si irradiava dalla pupilla come l’olio su di uno specchio d’acqua – che comprese di non poter fare nulla.

E’ troppo tardi.

Dopo qualche istante, quando quegli occhi innaturalmente bicromi si fissarono su di lui e riuscirono a metterlo a fuoco, l’espressione dell’uomo sembrò rianimarsi; la voce sibilò tra le sue labbra violacee in un basso rantolo:

« Lei è uno dei Turk, non è vero? Riconosco la divisa.» il silenzioso annuire di Tseng fece in modo che su quel volto tirato apparisse un grande sorriso « E’ grazie a voi che sono qui, vi sono molto grato.» si era fermato un attimo a riprendere fiato « Quando sarò SOLDIER la mia vita cambierà! Potrò permettermi un casa più grande e potrò prendermi cura dei miei figli e di mia moglie…mi stanno aspettando a Corel…» tossì forte «…non sapevo cos’altro fare. Quando sarò SOLDIER ci trasferiremo qui e loro vivranno la vita che meritano…»

Tseng corrugò appena la fronte, annuendo in risposta. Non riusciva a dire nient’altro e sapeva bene che qualsiasi cosa sarebbe comunque stata inutile. Di colpo l’uomo si irrigidì, gli occhi che si offuscavano nuovamente; proseguì a bassa voce, balbettando, lo sguardo che si perdeva ancora in universi che non poteva vedere.

« Però è dura, signore. Mi hanno detto che è normale che abbia così freddo, dopotutto sono solo alla prima esposizione…» tossì ancora, più forte di prima, il tono di voce che sfumava dalla lucidità febbrile al delirio «…ma io ho davvero troppo freddo, signore. E non sento le gambe, e fa male, e gli occhi bruciano.» si voltò nuovamente a guardarlo « Ma è normale, non è così? Alla prossima esposizione si sistemerà tutto, mi abituerò, e sarò un SOLDIER, si?»

Tseng restituì lo sguardo, osservandolo mentre farneticava su quelle lenzuola bianche e accecanti che sarebbero probabilmente state il suo letto di morte. E respirando piano, dischiuse le labbra:

« Si.» annuì ancora, lentamente « Non si preoccupi. Andrà tutto bene.»

Dopo un istante di silenzio, l’uomo abbandonò la testa quasi calva sul cuscino, gli occhi che si riducevano in fessure:

« Grazie di tutto, signore.» la sua espressione si fece di colpo serena « Grazie di cuore.»

Tseng si allontanò in silenzio, l’eco delle proprie parole che lo tormentava fino quasi a portarlo alla follia, come una maledizione.

 

Alcuni giorni dopo, tenendo in mano il manico della sua ventiquattro ore nera, Tseng si fermò davanti alle porte chiuse dell’ascensore al cinquantanovesimo piano. Abbassò lo sguardo, sentendosi strattonare debolmente i pantaloni – una bambina stringeva nel pugno bianco e piccolo le pieghe blu della sua divisa. La studiò in silenzio, ricambiando il suo sguardo luminoso con brevi e pacate occhiate interrogative.

La bambina indossava un camice bianco da laboratorio, aveva i capelli raccolti in una corta treccia castana e due grandi occhi espressivi che brillavano di un verde acceso.

Se ne stava lì, immobile, a piedi nudi sul pavimento lucido, lo guardava con tanta intensità che Tseng pensò per un istante che con quegli occhi lei potesse leggere qualsiasi suo segreto.

E poi le labbra rosa e carnose della bambina si mossero:

« Non essere triste, signore.»

Alcune ore dopo, Tseng si recò nuovamente al cinquantesimo piano, le parole della bambina non gli davano tregua. E quando lo fecero entrare nell’infermeria, vide che il letto numero 34 era vuoto, intatto come se nessuno lo avesse occupato per anni.

Gli infermieri gli si accostarono scuotendo il capo e gli sussurrarono “Intossicazione da Mako. Stadio terminale.”

L’uomo di Corel era morto.

Fissando le lenzuola pulite, Tseng sentì distintamente la voce di una donna sussurrargli fredde accuse all’orecchio.

A cosa pensi siano servite le tue menzogne?

 

(xxx)

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Capitolo 2
*** One; Watching the evening pass by • [ μ ] - εуλ 1994 (xxx) ***


One; • Watching the evening pass by [ μ ] - εуλ 1994 (xxx)

The day he found the little girl on the swing

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Era una mattina nuvolosa di metà inverno quando i vetri delle finestre si ricoprirono di brina e la neve iniziò a cadere.

Stringendo tra le dita una cartella rigida su cui erano appuntati alcuni fogli, Tseng sollevò appena lo sguardo verso Rude.

« Di cosa si tratta?»

L’uomo che si ergeva davanti a lui, superandolo in altezza di un paio di spanne, aveva la pelle scura e indossava degli eleganti occhiali da sole: non parlava mai molto, ma sapeva essere molto efficiente in qualsiasi incarico gli affidassero. Tseng lo apprezzava perché sembrava affrontare il lavoro con il suo stesso spirito: non faceva mai domande scomode, né tendeva ad impicciarsi nei fatti altrui – una virtù che si era rivelata molto rara tra gli impiegati della ShinRa. Anche i silenzi che spesso cadevano tra loro due quando si ritrovavano a condividere un incarico non si rivelavano essere né pesanti né fastidiosi: Tseng li interpretava come una sorta di pacato e reciproco rispetto, un disinteresse discreto che poteva trasformarsi in un etere benefico nei momenti di maggior difficoltà.

« Un lavoro per conto della Sezione Scientifica.» Rude diede le necessarie spiegazioni mantenendo il suo solito cipiglio severo « Ci lasciano autonomia organizzativa, ma vogliono che sia portato a termine entro la fine del mese.»

Tseng annuì dopo un attimo, incrinando un lugubre silenzio carico di significato:

« Capisco.» quando gli altri organismi operativi della ShinRa cercavano in tutti i modi di liberarsi di qualsiasi responsabilità poteva significare due sole cose: o si trattava di operazioni ben oltre la soglia del top secret, o si trattava di un assassinio. E nell’ultimo caso, per gli esecutivi non esistevano mercenari più affidabili dei Turks.

Iniziò ad esaminare il caso sotto gli occhi del collega, senza farsi distrarre dal ronzio del neon in sottofondo, o dai passi lontani delle impiegate che avanzavano lungo i corridoi con i tacchi alti. Sfogliò le pagine dandovi rapide occhiate, registrando le informazioni fondamentali. Aveva sempre avuto delle doti mnemoniche molto sviluppate: la chiamavano memoria fotografica – il suo cervello immagazzinava ogni piccola informazione, impressionandola nella sua memoria come un’ istantanea a colori. Una capacità che poteva rivelarsi estremamente utile in certi frangenti, ma che a volte lo aveva costretto a sporcarsi ulteriormente le mani.

Cetra --- Flusso Vitale --- Ifalna --- Tseng lesse il mandato di quella nuova missione focalizzando l’attenzione sulle parole chiave, individuando un nome, Aerith Gainsborough. E infine voltò l’ultima pagina, fissando a lungo la piccola foto quadrata che immortalava il volto inespressivo e rotondo dell’obbiettivo.

Una bambina.

Raggelò, mentre le dita si serravano sul bordo della cartella con tanta forza che un minimo movimento avrebbe potuto spaccarla. Alzò ancora la testa, cercando lo sguardo del suo collega, come alla ricerca di qualche conferma: l’uomo gli restituì l’occhiata, corrugando profondamente le sopracciglia.

« Non è come pensi.» Rude scosse il capo « Dobbiamo trovarla e consegnarla al laboratorio.»

La presa di Tseng sulla cartella si allentò:

« Capisco.» non tirò alcun respiro di sollievo, ma sentì il petto rilassarsi gradualmente. Percepì il peso di quell’incarico piombargli sulle spalle, come sempre succedeva quando arrivavano nuovi ordini – si chiese brevemente quale fosse la differenza tra uccidere una persona e consegnarla al laboratorio e dopo qualche istante, socchiudendo tristemente le palpebre, concluse che, a lungo andare, le due cose avrebbero probabilmente coinciso.

Tornò con gli occhi alla piccola foto, fissandola brevemente prima di consegnare il fascicolo nuovamente tra le mani di Rude. La sua memoria fotografica lo accecava con rapidi lampi di luce e frammenti di vetro colorato, componendo un mosaico pieno di sfaccettature e brevi sprazzi di passato. Aveva la certezza matematica ed inspiegabile di aver già incontrato quella bambina.

L’uomo con gli occhiali sfilò la foto dalla cartella, studiandola:

« Saresti in grado di riconoscerla?»

Tseng gli rivolse un’occhiata bieca, mentre spostava appena la manica della giacca per scoprire l’orologio:

« Con chi pensi di avere a che fare?»

Rude grugnì con tono grave in risposta.

« Bene.»

Le dieci e quarantuno. Le lancette nere ed appuntite si erano appena spostate sul quadrante dorato nel cogliere lo scoccare dell’ennesimo minuto della giornata; Tseng seguì con poco interesse i primi due scatti che scandivano l’inizio di un nuovo giro. Nascondendo il polso sotto la stoffa della camicia, esaminò mentalmente le informazioni che aveva appena raccolto: lesse di un quartiere diroccato nel Settore 5, poco lontano dalle mura di confine che lo dividevano da Wall Market. Avrebbe facilmente portato a termine i preparativi per scendere nei bassifondi nel giro di tre quarti d’ora – e con un po’ di fortuna, avrebbe concluso la missione con largo anticipo.

« Mi occuperò io di prelevarla, tu limitati a stendere il rapporto.» concluse, sistemando svogliatamente i gemelli nelle maniche « Puoi informare Heidegger che mi recherò nei bassifondi del Settore 5 questa sera stessa.»

Rude annuì:

« Hai bisogno di una scorta?»

Tseng scosse il capo, voltandogli le spalle:

« Non credo sia opportuno, ma due unità basteranno.» sospirò silenziosamente nel fermarsi davanti alle porte chiuse dell’ascensore. D’altronde con chi aveva a che fare? Si trattava solo di una bambina.

« Riferirò.» Rude annuì ancora e si allontanò lungo i corridoi senza aggiungere altro. Non sprecava fiato, non faceva domande, non diceva mai niente che non fosse necessario.

Era tutto ciò di cui Tseng avesse bisogno.

Dentro l’ascensore, poggiò le dita sul vetro freddo ed incrostato di ghiaccio, la neve che cadeva lentamente, irraggiungibile e leggera, davanti ai suoi occhi.

 

Il panorama che lo accolse nei bassifondi era lo stesso di sempre: una città triste e in decadenza che continuava a trascinarsi nella povertà e a sopravvivere come meglio poteva, arrancando tra i rifiuti e le rovine, all’ombra di un cielo opprimente foriero solo di cattivi auspici. Ogni volta che metteva piede in quella cupa prigione di lamiera e pietra – osservando l’elicottero che atterrava sollevando turbinii di polvere e detriti – Tseng si sentiva sempre in qualche modo afferrare dall’ansia. L’aria era densa, una melma maleodorante che gli si insinuava nei polmoni ad ogni respiro. Ma probabilmente l’inquinamento era solo uno dei motivi del suo disagio.

Quando un Turk appariva nei bassifondi, l’atmosfera nelle baraccopoli subiva un mutamento repentino ed inquietante. Le strade diventavano di colpo deserte, ogni rumore si annullava in un silenzio innaturale e assoluto, come in una sorta di terrorizzata attesa. Lì nei bassifondi la divisa blu sapeva solo preannunciare disgrazie.

Tseng avanzò, sentendo gli sguardi invisibili della gente trafiggerlo da ogni parte, spiandolo da nascondigli che non era interessato a scovare. Il freddo invernale dei bassifondi era umido e odorava di muffa, ma in quella situazione riuscì ad insinuarsi dentro di lui fino in fondo alle ossa – si strinse maggiormente nel soprabito di pelle, sentendo il colletto di pelliccia bianca che gli sfiorava il collo. La maggior parte degli omicidi che aveva compiuto per lavoro si erano consumati in quelle strade sterrate, in silenzio, nei vicoli ciechi, nell’unico luogo in cui la morte di un uomo si sarebbe semplicemente aggiunta alle tante che l’avevano preceduta, senza sconvolgere nessuno.

Quante vittime della ShinRa sono seppellite tra questi rifiuti? Era la domanda che lo tormentava ogni volta che era costretto a percorrere quei sentieri polverosi, il volto inespressivo che tentava in tutti i modi di ostentare sicurezza. Sembrava quasi che i bassifondi raccogliessero gli scarti della ShinRa come una discarica, un cimitero in cui ogni cosa veniva seppellita e cessava semplicemente di esistere.

Gli uomini della sua sparuta scorta lo seguivano in silenzio, del tutto ignari, quasi godendo del timore che la loro presenza sembrava incutere negli abitanti. I fanti erano sempre ignoranti pieni di boria – avevano sempre l’ingenua convinzione che ogni loro gesto fosse giustificato, che potessero contravvenire alle leggi senza doverne pagare le conseguenze.

Era semplice, per chi doveva semplicemente assistere mentre erano gli altri a sporcarsi le mani e a caricarsi delle responsabilità.

Tseng li ignorò, continuando ad avanzare come se non esistessero.

Quando raggiunse la casa, la riconobbe all’istante: gli era stata mostrata una foto durante il breve viaggio in elicottero. Era una delle poche abitazioni sopravvissute alla demolizione totale che la ShinRa aveva imposto prima di iniziare il progetto di costruzione del sistema sopraelevato a piastre. Era di legno, il tetto a punta di tegole, sorgeva nel mezzo di uno spiazzo sterrato e vuoto nel quale crescevano incolti ciuffi di gramigna. Tseng rimase qualche istante a fissarla prima di avvicinarsi all’ingresso e bussare. Osservando le finestre ancora trasparenti e senza crepe, gli infissi senza sbrecciature e il tappetino consunto che nella polvere ancora annunciava ostinatamente “benvenuti” all’entrata, pareva quasi di assistere ad un miracolo; sembrava un’oasi, un ritaglio di serenità nel caos di una città in disfacimento, una terra di nessuno che passava inosservata e che non era ancora stata inghiottita da quel cimitero di macchine e uomini.

E quando prese in mano il batacchio e lo premette tre volte contro il portone, ad intervalli brevi e regolari, gli parve quasi di violare un santuario.

Sei mai riuscito a toccare qualcosa senza rovinarla?

Le mani di Tseng non erano mai state in grado di fare altro.

Sapevano solo profanare tesori inestimabili.

Non degnò di un’occhiata i fanti bisbiglianti alle proprie spalle, mentre attendeva compostamente che la porta si aprisse. Aveva già raccomandato loro di tenersi a debita distanza.

La donna che apparve oltre la porta dischiusa aveva i capelli castani e gli angoli degli occhi segnati da lievi rughe d’espressione. Lo studiò con discrete occhiate perplesse, sistemandosi uno scialle sfrangiato di lana intrecciata sulle spalle con movimenti lenti. Tseng attese qualche istante prima di aprire bocca: il modo in cui lo sguardo gentile della donna si era illuminato di sospetto gli aveva in qualche modo fatto sentire più freddo.

« Buonasera.» esordì alla fine, mostrandole il proprio badge « Sono Tseng, della Sezione Investigazioni.» nascose la tessera sotto il soprabito, in una tasca della giacca – non era mai molto fiero di mostrarla, ma era necessario per fare in modo che la gente lo ascoltasse « Spero che la mia presenza qui non le arrechi disagio.» che osservazione stupida. Come se esistesse un luogo in cui uno come lui potesse essere benaccetto. Si sentì ridicolo, ma non c’era altro modo.

La donna si accostò lentamente allo stipite della porta, indietreggiando piano. Come previsto, il tesserino di riconoscimento faceva il suo effetto.

« Siete della ShinRa?» chiese infine, la mano che tremava appena sulla maniglia, anche se il volto ostentava un contegno signorile.

« Corretto.» Tseng le rivolse un breve cenno del capo, senza distogliere gli occhi per un solo istante; aveva imparato che spesso volgere lo sguardo altrove poteva essere interpretato come un segno di incertezza, e l’esitazione era ciò che rendeva un Turk debole. « Lei è la signora Elmyra?»

« Sono io.» lei annuì, intrecciando le mani sul ventre « Cosa posso fare per voi?»

« Abbiamo avuto notizia che lei si sta prendendo cura di una bambina di nome Aerith.» le mostrò uno sguardo perentorio « Vorremmo che ce la riconsegnaste.»     

La donna batté le palpebre con aria confusa:

« Temo di non capire.» ammise, le dita che correvano alla fronte corrugata, là dove una ciocca di capelli mossi era sfuggita dalla crocchia castana « Cosa c’entra Aerith con la ShinRa

« Se avrà la pazienza di ascoltarmi, le spiegherò tutto.» distolse appena lo sguardo, osservando gli scorci dell’interno della casa oltre le spalle curve di Elmyra – intravide il corrimano di ciliegio di una corta scalinata, il profilo smussato di un tavolo ed i ricami di un tovaglia azzurra che pendeva mollemente dai bordi. Passato qualche istante, dopo essersi soffermato su di un vaso panciuto che conteneva dei rari boccioli di orchidee bianche, chiese ancora « Dov’è la bambina?»

La donna scosse il capo:

« E’ uscita dopo pranzo dicendo che sarebbe andata a giocare nel Settore 6 insieme ad altri bambini.» la linea della sua bocca divenne di colpo tesa « Vorrei prima capire il motivo per cui la cercate.» si fece da parte, muovendo qualche passo verso l’interno della casa « Posso offrirle un thè?»

Tseng si limitò ad osservare in silenzio la mano aperta di Elmyra che gli indicava cortesemente l’interno della casa, come ad invitarlo ad entrare. Si chiese quale accoglienza gli sarebbe stata riservata se la donna avesse saputo esattamente quali fossero le intenzioni della ShinRa riguardo la bambina. Annuendo piano, non riuscì a declinare: probabilmente era un gesto di gentilezza incondizionata o di semplice ingenuità, ma era certo che non avrebbe mai più ricevuto una proposta simile. Come se lui fosse un uomo di cui ci si poteva fidare.

« La ringrazio molto.» oltrepassò la soglia, sfilandosi poco dopo il cappotto che gocciolava di condensa. 

 

Quando decise di andare nel Settore 6 a cercare la bambina, Tseng si volse brevemente alla propria scorta, fulminando i due uomini con fredde occhiate bieche.

« Aspettatemi qui.» ordinò, sistemandosi il colletto del soprabito; mosse un passo nella polvere, voltando loro le spalle. Gli parve di sentire qualche loro commento sommesso, poi una domanda dubbiosa e stizzita riguardo le sue intenzioni, ma finse di non sentirle, lasciandoseli alle spalle. Era stata una decisione improvvisa e non voleva che nessuno interferisse – si sentiva mosso da una strana ed inspiegabile impazienza. Aveva preventivato di concludere la missione entro la fine della serata e sapeva che un fallimento o un ritardo avrebbe deluso i suoi superiori, ma mentre avanzava gli parve che il desiderio di trovare Aerith non fosse del tutto legato al suo spiccato senso del dovere. Controllò l’orologio, riconoscendo in un attimo la posizione delle lancette. Era abbondantemente in ritardo sulla tabella di marcia. E subito dopo, abbassando lo sguardo sui propri passi che avanzavano nel pulviscolo, si chiese  Chi sei, Aerith Gainsborough?

Affondò le mani nelle tasche del giaccone, ricostruendo mentalmente il volto della bambina della foto. La memoria continuava a bisbigliargli parole inquiete e confuse, mostrandogli brevi flash di una scena che lui stesso aveva vissuto ma che trovava difficile inquadrare. La cosa lo metteva estremamente a disagio – era abituato ad avere sempre pieno controllo dei propri ricordi, erano sempre così particolareggiati e vividi che gli bastava ripensarci per cogliere tutto ciò di cui aveva bisogno. Perché il bagliore verde degli occhi di quella bambina lo confondeva?

Aerith ha un cuore gentile, le parole di Elmyra lo avevano colpito tanto che non era riuscito a pensare ad altro sin da quando la donna lo aveva congedato pregandolo di non tornare mai più; la prego, lasciatela stare. E’ giusto che possa vivere spensieratamente la sua vita, con tutta sé stessa. La fronte della donna si era corrugata profondamente, mentre con la mano si accingeva a chiudergli la porta in faccia, So che tornare nelle vostre prigioni non è ciò che lei vorrebbe, e sono sicura che la cosa porterebbe giovamento solo a voi. La vita nei bassifondi è dura per i bambini. Tseng era rimasto fermo davanti al portone serrato per alcuni istanti, fissando il vuoto, le suole che affondavano sul tappetino di benvenuto. L’oasi di pace nel Settore 5 lo aveva bandito.

Superò il quartiere senza che gli sguardi terrorizzati della gente lo turbassero, concentrandosi sul suo obbiettivo e nient’altro.

Quando si ritrovò davanti allo squarcio che deturpava le mura di confine tra i due Settori e li metteva abusivamente in comunicazione, esitò qualche istante. Un enorme graffito di vernice rossa incombeva su di lui come una inquietante provocazione scritta con il sangue. Attraversò il passaggio, tentando di non pensarci.

Il parco giochi era piccolo e squallido, circondato da un basso recinto di metallo. Contava cinque o sei sgangherate ed usurate strutture di plastica impolverata o di metallo deformato: alcune di esse sembravano curiose sculture d’arte moderna, basse e strette gabbie di ferro arrugginito e ossidato. Tseng si guardò intorno, immagazzinando informazioni nell’eventualità si fosse rivelato necessario tornare in quel posto: nelle vicinanze dell’unico basso scivolo sbilenco, vide una stretta aiuola nella quale i bambini avevano ovviato alla mancanza dei fiori assemblandovi con delle grosse pietre rotonde una figura che ricordava vagamente un pupazzo di neve.

Trovò la bambina poco dopo, avanzando a passi lenti verso il centro del piazzale. Si dondolava piano sull’altalena, provocando un basso e continuo cigolare. E fu in quello stesso istante che la mente di Tseng riuscì a mettere ogni frammento al proprio posto, ricostruendo istantaneamente quel ricordo confuso che fino ad allora gli era sfuggito. Ogni pezzo trovò la giusta collocazione, mille schegge di uno specchio infranto che si accostavano e lo ricomponevano con precisione infinitesimale. La piccola Aerith se ne stava lì, si stringeva in una spessa sciarpa rosa che le copriva il naso e la bocca. Seguiva con intensità l’oscillare dei  propri piedi sospesi, apparentemente senza curarsi dell’altra altalena vuota immobile vicino a lei, o del silenzio che gravava sull’ambiente circostante.

E Tseng la riconobbe, rivide i suoi occhi verdi e grandi che lo fissavano, il bianco abbagliante del camicie da laboratorio che le copriva appena le ginocchia, sentì in sottofondo la sua voce squillante da bambina che pronunciava quella frase misteriosa – Non essere triste.

Le uniche parole di consolazione che gli fossero mai state rivolte da quando era diventato un Turk.

Sembrava essere passata un’eternità.

Impossibile. Se lo disse a bassa voce, sgranando appena gli occhi mentre si fermava a pochi passi da lei. Di colpo, il bisogno di parlarle divenne impellente, una necessità tanto forte che somigliava quasi alla sete. Si accostò all’impalcatura dell’altalena, studiando i suoi movimenti lenti e pensierosi, e quando aprì bocca per attirare la sua attenzione, la voce fuoriuscì leggermente roca:

« Aerith? »

Lei si voltò di scatto nella sua direzione, gli occhi spalancati che esprimevano una sorpresa curiosa più che la paura che Tseng aveva immaginato. Interruppe il moto dell’altalena immobilizzando le gambe, le punte impolverate delle sue scarpette nere che sfioravano il terreno senza riuscire a toccarlo. Lo guardò battendo le palpebre un paio di volte, inclinando la testa di lato mentre si soffermava interessata sulla pelliccia bianca del suo soprabito e sulla sua fronte alta e scoperta.

« Ciao.» rispose dopo un po’, le sopracciglia che si aggrottavano lievemente; non ebbe la minima esitazione quando poi gli chiese, l’espressione che si incupiva appena « Sei della ShinRa, vero?»

Tseng non poté fare a meno di annuire; l’urgenza di portare a termine l’incarico tornò con tale violenza da mozzargli il respiro, riportandolo con irruenza con i piedi per terra. Come al solito era caduto nella trappola che tendeva a sé stesso in ogni occasione: si era per un istante illuso che quella bambina che una volta gli aveva teso inspiegabilmente un mano d’aiuto, potesse trattarlo diversamente. Ma dopotutto lui era l’uomo crudele che l’avrebbe riportata alla ShinRa.

« Mi chiamo Tseng.» disse infine, la voce nuovamente decisa e limpida « La ShinRa ti ha cercata a lungo, Aerith, sin da quando hai lasciato i laboratori con tua madre.» le porse una mano aperta, un invito perentorio « Vorrei che mi seguissi.»

Aerith scosse forte il capo, senza neanche permettergli di finire la frase:

« Non voglio tornare alla ShinRa.» distolse gli occhi dalla mano di Tseng, tornando a fissare i propri piedi « Cosa vogliono ancora da me? Sono solo una bambina come le altre.»

« Sai che non è così.» le parole di Tseng le fecero premere le labbra le une contro le altre « Hai ereditato il sangue di tua madre e con esso la conoscenza dei Cetra.»

« E con questo?» la bocca di Aerith assunse una piega ostinata « Non è niente di speciale!»

Tseng ritirò lentamente la mano. Non riusciva a capire se la bambina fosse convinta di ciò che diceva o se fosse solo un tentativo per sviarlo; ad ogni modo, non sarebbe mai riuscita a fargli dubitare della sua memoria. Congiunse compostamente le mani dietro la schiena:

« L’unica cosa che ti è richiesta è la tua cooperazione. Niente di più.»

Da lei giunse l’ennesimo deciso rifiuto:

« Non ci credo. » annunciò, categorica « Non vi aiuterò e basta. Ciò che la ShinRa intende con “cooperazione” si trasforma sempre in un brutale sfruttamento incondizionato!»

Spiazzato da quella proprietà di linguaggio così insolita nei bambini della sua età, Tseng riuscì solo a rifugiarsi in un convenzionale:

« Non vogliamo farti del male.» una bugia come le altre, a volte l’unica che riuscisse davvero a tranquillizzare le vittime della ShinRa. Ma Aerith non era una bimba ingenua.

« E’ a causa della ShinRa che i miei genitori sono tornati al Pianeta. Hanno ucciso mio padre e hanno lasciato che mamma morisse senza fare nulla.» la semplicità con cui pronunciò quelle parole fu quasi disarmante « So che mi faranno del male.» scosse il capo « Non tornerò mai in quel posto.»

Probabilmente un altro uomo avrebbe reagito a quella resistenza con ferocia: l’avrebbe afferrata per le braccia, l’avrebbe zittita in qualche modo, non facendosi alcuno scrupolo nel maltrattare una bambina finché si fosse trattato di portare a termine un incarico e guadagnarsi lo stipendio. Tseng non ne fu in grado. Forse si sentiva in qualche modo in debito con lei, forse era solo stanchezza, forse non voleva sporcarsi le mani inutilmente.

Attese qualche istante, osservando il capo chino di Aerith che sembrava in qualche modo imporgli di andare via e lasciarla in pace; la sorpassò facendo scivolare la suola consumata sulla sabbia, raggiungendo poco dopo l’altalena vuota che pendeva dall’impalcatura cigolando appena. Ci si sedette provocando uno scricchiolio inquietante, curvandosi in avanti, le mani intrecciate ed i gomiti sulle ginocchia.

« La morte di tua madre è stata una perdita immensa.» le parole vennero fuori da sole, attingendo informazioni da vecchi rapporti della Sezione Scientifica « La ShinRa non voleva che accadesse. Se non foste scappate, l’avrebbero aiutata e probabilmente sarebbe ancora viva.» sembravano premure vuote, ma era il massimo che riuscisse a fare.

« La mamma voleva scappare perché odiava stare in quel posto. Sapeva che le intenzioni della ShinRa non erano benevole come volevano farci credere.» Aerith rispose dopo qualche istante, senza guardarlo, facendo dondolare un piede nel vuoto « Sono sicura che ora lei stia meglio, anche se non è più qui con me.»

Tseng abbassò lo sguardo sulle proprie mani unite, osservando l’ordine casuale con cui le dita si incrociavano. Pensò a quella bambina che aveva assistito alla morte di suo padre, aveva dovuto subire chissà quali esperimenti, e infine si era sottoposta ad una fuga disperata durante la quale anche sua madre aveva finito per abbandonarla. Dubitava che esternarle il proprio cordoglio potesse servirle a qualcosa.

Mi dispiace. Rimase in silenzio per qualche istante, mentre anche Aerith faceva lo stesso. Sentiva il soffiare innaturale di un vento freddo che veniva da ogni parte. E sopra di loro continuava a nevicare, senza che i bassifondi potessero vedere di che colore fosse la neve.

« Perché non hai lasciato Midgar?» domandò dopo un po’, la voce che ancora una volta perdeva decisione – quel genere di debolezza non gli era concessa perché poteva rendere poco credibile la sua immagine di Turk imbattibile, ma non riuscì in alcun modo a controllarsi « Era ovviamente il primo posto in cui la ShinRa ti avrebbe cercata…se ti fossi allontanata da qui probabilmente non ti avrebbero mai più ritrovata.»

Aerith scosse brevemente il capo:

« Mamma voleva tornare a casa, tra le montagne. Sapeva che scendendo sotto la piastra sarebbe stato più semplice far perdere le proprie tracce.» fece una pausa breve prima di aggiungere, alzando gli occhi per guardarlo « Però poi lei è morta e mamma Elmyra si è presa cura di me. Io le voglio bene, non posso chiederle di venire con me e abbandonare casa sua.» scosse il capo « Sono ancora troppo piccola per viaggiare da sola, mi ha detto. Non voglio farla preoccupare.»

Tseng annuì piano, il mento e le guance lambite dal morbido pellicciotto bianco:

« Capisco.» si sentiva stupido. Perché semplicemente non chiamava i due incapaci della scorta e lasciava che fossero loro a portarla via? Perché perdeva tempo con lei, tentando di mettere in piedi una conversazione che potesse in qualche modo farla sentire a proprio agio?

Aerith si diede una debole spinta con i piedi, ricominciando lentamente a dondolare; la guardò in silenzio, chiedendosi ancora il motivo per cui stesse lì vicino a lei, arrampicandosi sugli specchi ogni volta che doveva aprire bocca e dirle qualcosa, le parole che venivano fuori con difficoltà. Qualsiasi cosa gli venisse in mente gli sembrava inadatta, fuori luogo, inutile e preferiva tenerla per sé. Aveva avuto a che fare solo con uomini per i quali le parole erano un mezzo agile per guadagnare quantità immense di denaro, per trovare accordi, per comandare, per implorare pietà. Bastavano poche frasi concise e impersonali, era sempre stato facile come ripetere le battute di una sceneggiatura immutabile, tentando di recitare la propria parte nel migliore dei modi. Ma la semplice presenza di Aerith gli impediva in qualche modo di attenersi a quel copione, lasciandolo in preda delle onde, alla deriva, in silenzio.

« A me piacerebbe davvero tornare a casa.» ammise lei in un sibilo sommesso, qualche istante dopo, gli occhi di Tseng che volavano nuovamente nella sua direzione « Mamma mi raccontava che d’inverno la neve ricopriva tutto come un manto bianco luminoso e sembrava che tutto brillasse nel raggio di mille miglia.» fece un gesto ampio con le piccole braccia, abbracciando un paesaggio immaginario « Io ero troppo piccola per ricordamene, ma quando mamma me ne parlava pensavo sempre che mi sarebbe piaciuto vederlo un giorno o l’altro.» poco dopo, la bocca della bimba assunse una piega intristita mentre le sue mani tornavano a stringere le funi metalliche dell’altalena « Aspetto l’inverno sempre con ansia nella speranza che nevichi anche qui a Midgar. Ma ogni volta l’inverno nei bassifondi è solamente più freddo dell’autunno e più triste dell’inverno precedente.»

« Magari un giorno,» le parole giunsero in risposta senza che Tseng facesse in tempo a valutarle « quando sarai più grande, potrai andare ad Icicle e vederla con i tuoi occhi.» fece una pausa « Non vale la pena salire sulla piastra per vedere le nevicate rare e grigie di Midgar.»

Aerith gli rivolse un’occhiata incerta, smettendo di dondolarsi: lo studiò attentamente, quasi senza sbattere le palpebre, i suoi occhi grandissimi e ingenui che brillavano come se avessero appena scoperto un tesoro nascosto. Tseng si limitò a ricambiare il suo sguardo, l’espressione che non tradiva alcun turbamento.

E poi Aerith Gainsborough, quella bambina che avrebbe dovuto odiarlo, gli mostrò un sorriso luminoso:

« Un giorno.» confermò, stringendosi nelle spalle in una movenza vezzosa ed infantile « Un giorno ci tornerò di sicuro.»

Il Turk dischiuse le labbra:

« Perché non scappi?» le chiese, mentre lei continuava a ricambiare il suo sguardo senza distoglierlo un solo istante, come se il fatto di averlo al suo fianco non la intimorisse affatto « Perché continui a stare qui con me sapendo che sono venuto solo per riportarti alla ShinRa?»

La risposta della bambina arrivò subito, fulminante, senza esitazione:

« Non credo che tu voglia farmi del male.»

C’era una risata di puro sarcasmo che lottava per risalirgli la gola, ma Tseng riuscì a combatterla; gli sfuggì un sorriso effimero, una piega delle labbra che sapeva di tristezza e di un divertimento malinconico.

« Come puoi esserne così certa?»

« Se i tuoi ordini erano di portarmi alla ShinRa, allora perché non lo fai e basta? Che motivo avevi di fermarti qui a parlarmi?» le parole risolute di Aerith fecero sparire il sorriso dalle labbra del Turk, facendole tornare immote, tese « Non mi sembra che tu muoia dalla voglia di portare a termine il tuo incarico, signore.»

Tseng rimase immobile, gli occhi neri leggermente sgranati, senza trovare il modo di rispondere. Con poche occhiate Aerith lo aveva spogliato di ogni sua copertura, gli aveva sfilato il suo involucro di sicurezza, aveva visto oltre la sua maschera impassibile. Rimase fermo, sentendosi di colpo insicuro, nudo, vulnerabile come nessun Turk avrebbe mai dovuto essere.  

Non è possibile.

Passarono alcuni istanti prima che Tseng riuscisse a fare leva sulle gambe per alzarsi, facendo ondeggiare l’altalena in mille scricchiolii. Mosse il primo passo nella sabbia sentendosi osservato come capitava sempre nei bassifondi, ma il peso di quello sguardo era completamente diverso da quelli a cui era abituato: era sereno, incuriosito e tentava inspiegabilmente di capirlo.

« Dove vai?» Aerith balzò a sua volta giù dall’altalena, muovendo rapidi passi alle sue spalle per seguirlo. Ma Tseng le volse un rapido sguardo di sottecchi e la cosa bastò a fermarla.

« Non seguirmi.» fu l’ultima cosa che le disse prima di allontanarsi dal Settore 6, i lembi dell’impermeabile nero che ondeggiavano nella brezza fredda.

La lasciò lì, da sola nel parco giochi deserto, le scarpette nere che si impolveravano, le frange della sciarpa rosa che danzavano al vento assieme alle pieghe spesse della sua gonna a quadretti.

Quando raggiunse i due fanti che lo avevano pigramente atteso davanti alla casa di Elmyra, li trovò seduti in pose indecorose sui resti usurati di due sedili d’auto. Li fece balzare sull’attenti con la sola forza di un’occhiata.

« Torniamo al Quartier Generale.» annunciò, tirando fuori il PHS, dimenticandosi immediatamente della loro esistenza. E mentre attendeva di ricevere risposta, il telefono nero e sottile premuto contro l’orecchio, si rese conto di aver fallito la prima missione della sua vita.

Nella casa del Settore 5 non c’era traccia della bambina, si disse, il rimbombare ritmico e senza tono della chiamata in attesa che gli riempiva le orecchie. Nessuno avrebbe potuto ribattere al riguardo.

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Capitolo 3
*** Two; The church that became his hideout • [ μ ] - εуλ 1997 (xxx) ***


Two; The church that became his hideout • [ μ ] - εуλ 1997 (xxx)

The day he gave his devotion to the flowergirl

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« Complimenti, Tseng.» il sorriso complice di Cissnei divenne incerto prima di aggiungere «…o forse ora dovrei chiamarti “capo”?»

Il nuovo comandante della Sezione Investigazioni si voltò appena a guardarla, seguendo i suoi passi a mano a mano che gli si avvicinava. Si fermò al suo fianco, davanti all’enorme parete vetrata che dall’ufficio apriva un’ampia visuale sul versante ovest della città di Midgar. I palazzi si ergevano sotto di loro come tristi naufraghi derelitti in balia di un’irrefrenabile tempesta di metallo grigio: le montagne erano bassi monumenti mutilati che scomparivano in un cupo banco di nubi, sfiorando un orizzonte invisibile.

« Un panorama invidiabile.» concesse la giovane Turk, poggiando una mano sul vetro, la voce che sembrava celare una velata ironia « Certo, a Midgar è il meglio a cui si possa ambire.»

Tseng rispose con un mugolio che poteva significare mille cose e al tempo stesso non voleva dire nulla. Rimase ancora qualche istante a guardare oltre la finestra, mentre si rigirava tra le mani la tessera che attivava l’accesso al sessantunesimo piano, ed apriva la porta scorrevole del suo nuovo ufficio. Era una stanza ampia e semivuota, arredata in maniera spartana seguendo alla lettera lo stile della ShinRa. La scrivania era un lungo ripiano di legno nero e lucido, le poltrone di pelle erano sistemate negli angoli adiacenti all’ingresso, vicino a delle piante in vaso che aprivano le loro grandi foglie verdi sfiorando i muri. Sul pavimento di mattonelle recentemente incerate era steso un lungo tappeto di fattura pregiata, i cui intrecci mescolavano i colori dell’alba in un’immagine astratta. Cissnei perse interesse per la vetrata e ruotò su sé stessa:

« Di certo alla ShinRa si vede quando diventi un pezzo grosso.» commentò, i passi che rintoccavano sul pavimento « Ti tirano via dagli uffici comuni e ti danno la chiave di stanze grandi come appartamenti.»

« E’ solo una promozione di un grado.» ribatté Tseng, di colpo infastidito, la mano che si serrava contro la tessera magnetica con tanta forza da curvarla appena, i bordi affilati che penetravano nelle pieghe della pelle.

La ragazza non sembrò cogliere il malessere di Tseng:

« Ecco qui, di nuovo a sminuirti.» si lamentò, studiando i tratti futuristici di un dipinto di un metro e mezzo assicurato ad una delle pareti laterali « Sai, a volte non capisco quale sia il vero te stesso. Qual è quello vero?» si abbracciò i fianchi in una movenza che la caratterizzava, alzando gli occhi verso il soffitto « Tseng che sa sempre come fare e si compiace della propria infallibilità? Oppure Tseng che non ama ricevere complimenti e sguazza in un bagno di modestia assoluta?» la giovane donna sospirò, toccandosi una guancia con le dita « Sai, capo, a volte ti trovo contraddittorio. Non ti confronti mai apertamente con nessuno di noi.»

Tseng ascoltò in silenzio, avvicinandosi a passi lenti alla propria scrivania.

Cissnei aveva il volto puerile di una ragazzina di quindici anni ma si rifiutava di dichiarare la propria vera età; aveva gli occhi grandi ed espressivi che sembravano sorridere in ogni occasione, e dei lunghi capelli castani che continuava a ripetere di voler accorciare, ma che continuava a tenere ostinatamente legati in una coda di cavallo. Era una ragazza particolare di cui non era semplice interpretare i comportamenti: a volte parlava ad enigmi, apparentemente fiera e divertita dal disorientamento che le proprie parole provocavano nei colleghi. In altre occasioni invece sapeva parlare con una immediatezza e efficacia invidiabili – una dote che la rendeva una compagna valida e affidabile durante le missioni. Tuttavia aveva anche l’incredibile capacità di trasformare il proprio lavoro in un’occasione per sondare gli animi della gente, in un tentativo continuo di trovare un’intesa che andasse aldilà del semplice e freddo cameratismo. Alcuni la interpretavano positivamente, la vedevano come una amichevole e spesso divertente giovane donna a cui piaceva studiare i caratteri e i difetti delle persone che la circondavano. Tseng la apprezzava come donna e come compagna, ma trovava che a volte la sua disponibilità e spensieratezza occasionale si trasformasse in un interesse invadente e inadatto.  Forse si trattava solo di un modo ingenuo di esprimere la speranza di trovare degli amici anche in quel mondo in cui ognuno si curava solo e soltanto di sé stesso, ma l’indiscrezione di Cissnei non era d’aiuto quando si tentava in tutti i modi di nascondere qualcosa – e la figura di Tseng era costruita su di un’impalcatura di segreti e silenzi che imponevano divieti severi. Se la ragazza avesse insistito, la riservatezza non sarebbe bastata a fermarla.

« Cissnei,» Tseng si curò di richiamarla all’ordine prima che il discorso degenerasse « Qual è il tuo prossimo incarico?»

La ragazza sbuffò, battendo spazientita un tacco sul pavimento: probabilmente si rendeva conto di come il suo tentativo di comprendere Tseng fosse stato nuovamente ed abilmente sventato.

« Sono libera fino alla fine della settimana.» annunciò, avvicinandosi a lui ed alla scrivania, le braccia ferme ed intrecciate al disotto del seno « Mi avevano assegnata al tuo stesso incarico, ma il tuo intervento ha fatto in modo che si concludesse prima del previsto.» fece un gesto secco della mano « Sto parlando dei contrabbandieri al mercato nero.»

« Capisco.» il Turk annuì, socchiudendo le palpebre. Era stato l’incarico grazie al quale era riuscito ad ottenere la promozione, ma ripensarci non sortiva altro effetto se non quello di farlo infuriare, e di riempirlo di sgomento.

« Hai intenzione di affidarmi qualche incarico estemporaneo per inaugurare la tua nuova carica di comandante supremo?» lo provocò, ridacchiando, fermandosi davanti a lui, le mani aperte premute sulla sua scrivania.

« Non ancora.» tagliò corto l’altro, rivolgendole uno sguardo severo « Ma tieniti pronta perché non ho intenzione di lasciarti nullafacente fino al fine settimana.»

Lei rise ancora:

« Che paura, Tseng.» scherzò « Vedo tempi duri all’orizzonte. Più lavoro del solito! Non so quanti di noi ne saranno entusiasti, sai?»

Le sue parole riuscirono a provocargli un silenzioso e discreto sorriso amaro.

« Dovranno adattarsi.» in tutta la sua semplicità, c’era qualcosa in quella ragazza che Tseng invidiava. Cissnei non era frivola né spensierata quanto sembrava, ma aveva la capacità di moderarsi. Sapeva dedicare al lavoro la giusta quantità di energie e di sé stessa, senza esagerare né lesinare. Era equilibrata.

« Deve essere dura non sentirsi schiacciati dalla solitudine quando si è costretti a lavorare in un ufficio del genere.» l’osservazione di Cissnei suonava divertita, mentre riprendeva allegramente a guardarsi attorno « Dimmi una cosa, ti hanno anche trasferito al quarantesimo piano, vero? Com’è l’appartamento? Grande?»

Tseng rispose senza guardarla, aprendo distrattamente i cassetti della scrivania – vi trovò fogli ed una penna stilografica, qualche cartella, vari articoli di cancelleria:

« Fin troppo grande per una persona sola.» aveva cambiato forse una cinquantina di appartamenti prima che gli concedessero un alloggio al Quartier Generale, ma con la promozione gli era stata consegnata anche la chiave di una suite al quarantesimo piano, dove alloggiavano gli esecutivi della ShinRa. Era fantastica e calda, il pavimento ricoperto di morbida moquette rossa, dotata di qualsiasi comfort immaginabile, l’idromassaggio nel bagno rivestitodi mattonelle, le tende pesanti drappeggiate ai lati delle ampie finestre oscurabili, un grande camino di granito incastrato tra due librerie nel salone. E nonostante tutto quello sfarzo, era bastato entrarvi e chiudersi la porta alle spalle perché Tseng si sentisse a disagio.

Sentì l’improvvisa necessità di fuggire da quella stanza così vuota da soffocarlo: richiuse un cassetto con un movimento rapido e violento della mano, provocando uno scatto secco che fece sobbalzare Cissnei. Tirò via il soprabito poggiato sullo schienale della poltrona, sistemandoselo sull’avambraccio, muovendo i primi passi per aggirare la scrivania.  

« E ora dove vai?» la donna lo seguì contrariata con lo sguardo, decidendo che era meglio andargli dietro solo quando lo vide accostarsi alle porte d’ingresso. Ormai nel corridoio vuoto, Tseng aspettò che lei lo raggiungesse prima di digitare la password per attivare la serratura blindata.

« Ho un compito da svolgere nei bassifondi.» annunciò, mentre camminavano assieme lungo l’andito in direzione dell’ascensore più vicino.

Cissnei sospirò profondamente:

« Il solito uomo impegnato.» si diede una rapida sistemata al nodo della cravatta, approfittandone per lisciare anche il risvolto dell’attillata giacca blu « Sei troppo ligio al dovere, tu!» lo picchiettò su di una spalla con il dito teso.

Tseng ammorbidì appena l’espressione, soffocando una bassa risatina baritonale:

« Davvero.»

La cosa sembrò insospettire Cissnei, ma stranamente la ragazza ebbe la delicatezza di limitarsi ad uno sguardo in tralice, senza aggiungere nient’altro; avvicinò una mano ai ricci morbidi che le ricadevano armoniosamente su di una spalla, le dita che si insinuavano tra i sottili e definiti boccoli in un atteggiamento grazioso:

« Io magari andrò a tagliarmi i capelli.»

Tseng si fermò davanti ad una schiera di tre ascensori allineati, prenotando quello più vicino:

« E’ la ventesima volta che lo dici.» le fece notare « Approfittane ora.» le rivolse un’occhiata rapida « Sarai libera ancora per poco.»

Cissnei rabbrividì, le braccia che correvano nuovamente alla loro posizione composta sotto i seni:

« Lo so! Smettila di minacciarmi.» quando uno squillante tintinnio annunciò l’arrivo dell’ascensore, sgranò di colpo gli occhi e dischiuse le labbra, come colta da un’illuminazione improvvisa « Ah, capo! Quasi dimenticavo!» sulla sua bocca tornò quella divertita sicurezza che preannunciava domande scomode « Sto svolgendo un’indagine.»

Mentre le porte scorrevoli si spalancavano all’unisono con un forte risucchio metallico, Tseng si voltò a guardarla:

« Di che genere?»

« A volte un nome in codice può celare segreti incredibili.» spiegò lei, entusiasta, seguendolo con lo sguardo mentre oltrepassava il passaggio spalancato verso la cabina di vetro « Cissnei non è il mio vero nome, lo sanno tutti. Chiedendo in giro sto scoprendo piccole cose davvero interessanti. Non immagini che storia incredibile è nascosta dietro il nome di Rude.»

Tseng la studiò per qualche istante:

« Interessante.» mentì, sollevando una mano verso il pulsante che lo avrebbe portato al piano terra « Anche se a volte sarebbe meglio non indagare quando si tratta delle faccende altrui.» era una muta regola che lui stesso si era imposto e che sembrava la cosa più saggia da fare nell’ambito di quella microsocietà di agenti in giacca e cravatta. Ma Cissnei era in grado di sottrarsi a quella regola, facendo sembrare l’infrazione una cosa normalissima.

« Capo,» esordì, con voce mielosa « un giorno me lo rivelerai?» si sporse appena verso di lui, avvicinandosi all’entrata dell’ascensore « Il segreto del tuo nome.»

Tseng sorrise a labbra strette, distogliendo lo sguardo:

« Non perdere tempo con me.» tagliò corto, con voce atona « Il mio nome non ha senso. Sono semplicemente cinque lettere senza alcun significato particolare.» deglutì, assaporando sulla lingua quel sapore amaro a cui si era ormai abituato « Ciao, Cissnei.» la salutò, premendo il polpastrello sul bottone del piano terra. Le porte della cabina si chiusero rapide, congiungendosi alla perfezione, nascondendo la delusione che aveva di colpo reso più opaco lo sguardo castano della sua giovane collega.

 

Non sapeva esattamente da quando la semplice idea di recarsi nei bassifondi avesse iniziato a rilassarlo. Se n’era reso conto una mattina come le altre, in estate, mentre aspettava che il treno si fermasse sui binari che collegavano la piastra del Settore 7 con qualsiasi cosa si trovasse ai piedi del pilastro. Il caldo torrido estivo gli aveva fatto bagnare la fronte ed i palmi delle mani, ma era rimasto immobile ad attendere, composto nella sua divisa stretta e scura, sebbene il metallo arroventato della stazione rendesse l’aria irrespirabile. Era salito sull’ultimo vagone, quello che di solito la gente comune non aveva il coraggio di occupare perché veniva utilizzato spesso dai fanti in pattuglia, nelle ore di punta. Si era seduto in disparte, ignorando gli sguardi dei soldati di turno che lo scrutavano da sotto i caschi pensando di essere discreti. E durante quel viaggio, seguendo con gli occhi lo sfrecciare del paesaggio grigio davanti e dietro di lui, si era reso conto di come il semplice fatto di essere su quel treno lo avesse reso di colpo più sereno.

Era la prima volta che gli capitava: non si sentiva oppresso dal proprio incarico.

E da quel giorno in poi, il pensiero di raggiungere il cimitero della ShinRa del Settore 5 non gli provocava più ansia e fastidio. Anzi, c’erano certi momenti della giornata, quando sopportare in silenzio mille situazioni che detestava diventava davvero troppo anche per lui, in cui l’unica cosa che desiderava era abbandonare la superficie e trovare rifugio sotto la piastra.

Nella chiesa in cui sapeva di poter trovare Aerith, la ragazza che era diventata, da un anno a quella parte, la sua missione più importante e l’unica donna che fosse in grado di parlare con lui con naturalezza.

Il mandato della missione gli imponeva di osservarla, di tenerla d’occhio a tempo indeterminato, senza interferire nella sua vita più del necessario – gli esecutivi della ShinRa avevano il timore che fuggisse o si facesse del male, ma avevano in qualche modo compreso che perseguitarla mentre era ancora così giovane non avrebbe fatto altro che peggiorare le cose. E sebbene all’inizio Tseng avesse tentato di attenersi agli ordini, e di osservarla in silenzio senza farsi notare, Aerith era sempre stata in grado di accorgersi della sua presenza.

« So che sei lì.» aveva annunciato la prima volta, voltandosi verso il portale scardinato della chiesa, senza che lui avesse fatto il minimo rumore. Tseng non aveva avuto altra scelta se non quella di uscire allo scoperto, avanzando sulle toghe scricchiolanti del pavimento. Dopo essersi abituato alla sua compagnia, non era più stato in grado di nascondersi: bastava vederla di spalle per sentire ancora il bisogno incontrollabile di parlarle. Nel giro di qualche mese, non era più stato in grado di fare a meno di lei.

Il giorno in cui ricevette la promozione, fuggì dal suo lussuoso ufficio da comandante e si rifugiò tra le macerie della chiesa dei bassifondi, là dove sapeva che l’avrebbe trovata. Era primavera inoltrata e i raggi morenti del pomeriggio attraversavano le lunghe vetrate proiettando sull’unica navata affilate lame di luce multicolore. Aerith era lì come al solito, a pochi passi dall’altare, china su dei fiori che erano cresciuti spontaneamente tra le doghe danneggiate del pavimento. Se ne prendeva cura come se fossero un tesoro inestimabile, aiutandoli amorevolmente a sopravvivere là dove l’inquinamento aveva ucciso tutti gli alberi della città. Sembrava assurdo ma quei fiori continuavano a crescere, moltiplicandosi, invadendo e colorando la chiesa come una vivace spennellata di tonalità vive in un dipinto di natura morta.

Ignorando la luce rossa che filtrando tra i battenti socchiusi del portale proiettava la sua ombra nera e affusolata lungo il corridoio, Tseng si limitò a guardarla in silenzio per alcuni istanti. Anche da quella distanza fu in grado di riconoscere il vestito corto a fiori rossi e bianchi che aveva indossato il giorno del proprio compleanno, qualche anno prima. I capelli castani che iniziavano a diventare molto lunghi erano raccolti su di una spalla da un nastro sottile di stoffa rossa, lasciandole la nuca ed il collo scoperti. Era un abbinamento che non gli capitava di vedere spesso, ma era comunque in grado di darle un aspetto quasi più grazioso del solito. Si accostò ad una delle ultime file, in disparte, sedendosi su di una panca sbrecciata: poggiò le spalle contro lo schienale, abbandonando il soprabito al proprio fianco.

« Eccoti qui.» la voce cristallina di Aerith rimbombò in un’eco delicata fino a raggiungerlo in fondo alla navata « Iniziavo a pensare che non saresti più tornato.»

Tseng non rispose, chiudendo gli occhi, respirando a fondo. Abbandonò la testa all’indietro, incastrando i tacchi delle scarpe sugli inginocchiatoi, i capelli legati sulla nuca che sfioravano il legno usurato del banco.

« Sei mancato per un sacco di tempo.» lo apostrofò ancora lei, da lontano « Che fine avevi fatto?»

« Ho avuto da fare.» rispose infine il Turk, riempiendo e svuotando i polmoni ad un ritmo regolare, sollevando appena le palpebre per guardarla « Un incarico che mi ha tenuto impegnato per un po’.»

« Per un bel po’.» Aerith ci tenne a precisare, voltando la testa nella sua direzione « Quando non ci sei mandano sempre dei tizi loschi e armati a sostituirti. Li vedo sempre aggirarsi intorno alla chiesa e a casa di mamma, ed è una cosa che non sopporto.» lo fulminò con lo sguardo « Sei sempre impegnato, tu.» raccolse le braccia sul ventre, nascondendole tra le pieghe del suo vestito, senza tuttavia abbandonare la sua posizione accovacciata. Teneva sempre i piedi bene uniti e le gambe piegate premute contro il petto, in delle movenze che la rendevano estremamente aggraziata anche quando lavorava la terra. Era ancora una ragazzina.

Tseng sostenne il suo sguardo che gli lanciava scintillanti lampi di collera.

« E’ il mio lavoro.» la solita scusa arrendevole, la solita spiegazione diretta che aveva la capacità di mettere a tacere qualsiasi protesta. Il broncio bambinesco scomparve quasi del tutto dal volto di Aerith:

« Ah, già.» annuì piano, riportando la propria attenzione all’aiuola rigogliosa di cui tanto andava fiera « Se non fosse per gli ordini, non saresti qui.»

Tseng dischiuse le labbra ma non proferì parola. Abbassò piano gli occhi sulle pieghe scure dei propri pantaloni, cercando di non pensare a niente.

Dopo qualche istante di silenzio, Aerith emise un lungo sospiro di soddisfazione, rialzandosi agilmente in piedi; le pieghe del suo vestito bianco le scivolarono addosso come acqua corrente, stirando la stoffa sulle sue curve acerbe. Batté le mani un paio di volte, compiaciuta:

« E anche oggi i fiori sono felici!» fece qualche piccolo passo lungo i bordi ancora intatti del pavimento, saltellando fino a raggiungere l’estremità opposta dell’aiuola « Guarda Tseng. Ne sono germogliati altri.» indicò i fiori, presentandoglieli ad uno ad uno come se fossero persone in carne ed ossa « Sto facendo un bel lavoro, qui. Quando ho portato mamma a vederli lei ne è rimasta molto colpita.» si chinò ancora a carezzare i petali nuovi di qualche bocciolo, poi alzò di nuovo lo sguardo verso il fondo della chiesa « Stavo pensando di provare a piantarli anche vicino a casa. Pensi che funzionerà?»

Tseng le rispose distrattamente, lo sguardo che vagava sul soffitto: riusciva a vedere l’impalcatura di travi spesse che sosteneva il tetto di tegole.

« Potresti provare.»

« Mh-mh!» la risposta di Aerith fu un mugolio entusiasta « Sarebbe bello, non credi? Se riuscissi a colorare tutti i bassifondi con i petali di questi fiori.»

« Immagino di sì.» fu la risposta atona.

Aerith lo fissò per qualche istante, evidentemente delusa dalla sua scarsa partecipazione. Poi distolse gli occhi, iniziando a sfilare i piccoli guanti da lavoro ormai impregnati di terra e acqua. Tseng la sentì armeggiare con il suo annaffiatoio di rame, bagnando le foglie delle piantine prima di ritirare la paletta e tutti gli attrezzi che ogni volta portava diligentemente con sé da casa. La lasciò fare senza proferir parola, ascoltando, con gli occhi socchiusi, il gocciolare dell’acqua che sfuggiva dal becco bucherellato dell’annaffiatoio e i passi leggeri che rimbombavano tra le colonne. La consapevolezza che Aerith fosse lì bastava a trasformare quella chiesa abbandonata in un rifugio accogliente.

Dopo alcuni momenti di silenzio, i passi della bambina si fecero più svelti, le assi del pavimento che scricchiolavano. Quando Tseng dischiuse nuovamente le palpebre, la colse proprio nell’atto di frenare l’andatura accelerata e lanciarsi sulla panca di fronte a quella dove lui era seduto, provocando un frastuono notevole. La osservò mentre si inginocchiava sulla seduta e puntava i gomiti sul bordo dello schienale, in modo da poterlo guardare negli occhi. Passò un po’ di tempo prima che lei assumesse un broncio perplesso e si decidesse ad esprimere il proprio disappunto.  

« Tseng, qualcosa è andato storto.»

Il Turk tentò di assumere una posizione più composta:

« Cosa?»

« Sto parlando di te.» Aerith gesticolò appena con le mani « Di quello che fai quando non sei qui a tenermi d’occhio. Sei strano.»

Tseng la guardò, rimanendo immobile con le braccia incrociate mentre lei lo scrutava con il mento poggiato sulle mani, la testa inclinata leggermente di lato.

Quella bambina era incredibile. Sapeva mettere a nudo ogni piccolo particolare invisibile, sapeva interpretare ogni sua parola, ogni suo gesto, ogni sua minima mutazione di espressione. Sembrava in grado di scorgere tutto ciò che Tseng tentava in ogni modo di nascondere, con una naturalezza inaudita, come se un solo sguardo le bastasse a capire tutto di lui.

« E’ andato tutto alla perfezione invece.» il tono con cui disse quella frase la rese del tutto inattendibile, soprattutto quando, dopo un istante di silenzio, aggiunse con voce bassa e fioca « Mi hanno promosso.»

Aerith storse la bocca:

« Non ne sembri molto contento.»

Il Turk distolse lo sguardo, dando inizio ad un silenzio pesante che durò alcuni istanti. Gli bastava chiudere gli occhi perché i momenti che avevano messo fine alla missione ed erano stati il principale motivo della sua improvvisa promozione tornassero a ripetersi nella sua testa. Rivedeva lo scantinato buio ed umido, l’unica lampadina che dondolava dal soffitto spandendo una fioca luce gialla intermittente. Vi aveva trovato interi scaffali ricolmi di armi che portavano il marchio della ShinRa – un carico di artiglieria appena uscito di fabbrica che era stato sottratto alla compagnia senza che nessuno se ne accorgesse fino a quando lo Sviluppo Militare non aveva compilato il registro della produzione mensile. Aveva fatto scivolare le dita sulle casse di metallo ancora sigillate, ordinando agli uomini che lo accompagnavano di iniziare il trasporto del maltolto verso gli elicotteri; avevano trovato il magazzino di armi rubate in cui un gruppo di contrabbandieri svolgeva trattative di mercato nero.

E solo qualche ora dopo, mentre ancora erano in corso le operazioni di recupero, aveva mobilitato la sua squadra ed era riuscito a individuare l’ID della spia che aveva tradito la compagnia e le sottraeva gli armamenti una volta al mese per sostenere un gruppo antiShinRa, fingendosi un dipendente qualsiasi nella Sezione di Sviluppo Militare. Era il vicedirettore del cantiere in cui le armi venivano assemblate.

Lo avevano trovato il giorno dopo, nella botola celata sotto l’abitazione dell’uomo, nel bel mezzo di una riunione d’affari. I suoi uomini avevano aperto il fuoco sul piccolo gruppo, le pallottole che sfrecciavano da ogni parte, una pioggia acida di morte che lo assordava e spostava violentemente l’aria che lo circondava.

Aveva alzato una mano aperta per ordinare il cessate il fuoco e si era avvicinato al traditore ferito e tuttavia ancora vivo, senza guardare se i piedi calpestavano il pavimento o scricchiolavano nel sangue che scorreva lentamente sul cemento.

Ricordava di aver letto il terrore nei suoi occhi arrossati, mentre si accasciava sul tavolo, ansimando, tenendosi stretta la spalla ferita. Vi aveva visto una tenue speranza di essere risparmiato, di ricevere un trattamento diverso per i tanti anni di devozione che aveva dedicato alla ShinRa, di essere chiamato a giudizio.

« Perché lo hai fatto?» gli aveva chiesto, fermandosi a pochi passi da lui. L’uomo aveva deglutito rumorosamente, annaspando, in preda ad un terrore puro:

« Pensavo che la ShinRa ci avrebbe aiutati e avrebbe mostrato al Pianeta una nuova epoca di prosperità e ricchezza.» era riuscito faticosamente e risollevarsi, muovendosi zoppicante verso di lui « Ma tutto è degenerato e mi sono reso conto che qualcuno doveva intervenire prima che il Pianeta morisse.» si era fermato, cadendo in ginocchio ai suoi piedi « Vi prego. L’ho fatto perché amo la mia terra. Volevo solo fare in modo che l’azienda non cedesse ai proprio difetti…vi prego. Ho sempre servito con diligenza. Ho sempre fatto il mio lavoro.»

Tseng lo aveva osservato per qualche istante, scrutando quegli occhi terrorizzati e tuttavia ancora speranzosi che tentavano in tutti i modi di trasmettergli un silenzioso messaggio, una richiesta disperata di grazia: e il Turk vi aveva letto anche un significato nascosto, un bisbiglio ronzante che tentava di sviarlo, Comprendi ciò che intendo, perché in fondo anche tu la pensi allo stesso modo.

« Alzati.» gli aveva intimato, gelido, la bocca tirata. L’uomo aveva obbedito, barcollante; Tseng lo aveva sorpassato, raggiungendo il tavolo imbrattato di sangue, la mano che esplorava dei fogli umidi e sporchi facendoli frusciare nel silenzio teso. Poi alzando gli occhi, si era rivolto nuovamente al traditore. Vedeva le sue spalle curve e la macchia scura sulla sua camicia sudata:

« Non ti verrà fatto del male. Il Presidente vuole parlarti.»

La tensione dei muscoli dell’uomo si era allentata:

« Vi ringrazio molto.»

E poi Tseng lo aveva raggiunto, poggiando la canna della propria pistola sulla sua nuca. Aveva premuto il grilletto sentendo il veleno della menzogna impastargli il palato e la gola.

Gli ordini non prevedevano dei superstiti.  

E ancora una volta, non c’era modo di ottenere meriti e complimenti se non facendo del male agli altri.

Un movimento brusco di Aerith riuscì in qualche modo a riportarlo alla realtà, distogliendolo da i suoi cupi pensieri.

« Tseng,» esordì improvvisamente la ragazzina, assumendo un cipiglio ostinato « Ti ricordi com’ero vestita l’ultima volta che sei venuto qui? Quando ci siamo visti prima che tu partissi.»

Tseng sollevò appena gli occhi a guardarla, affatto stupito dalla sua uscita inaspettata e fuori luogo:

« Una camicia bianca con la gonna corta a pieghe.» rispose, raccogliendo al volo la sua provocazione « Avevi delle vistose e piuttosto brutte calze a righe azzurre.»

Lei non accolse la palese critica e annuì, riducendo le palpebre a due piccole fessure:

« E che orecchini?» si mise due dita dietro le orecchie per mostrargli le due piccole sfere argentate che spiccavano sulla pelle morbida dei lobi.

Tseng aggrottò la fronte, accennando un sorriso: era un gioco che le piaceva fare di tanto in tanto, per passare il tempo quando lui veniva a trovarla. Lo metteva alla prova, sfidandolo: si divertiva a frugare nelle foto istantanee della sua memoria, ripescando a caso particolari spesso insignificanti. Capitava raramente che riuscisse a confonderlo, anche se a volte le sue domande sapevano rivelarsi ostiche.

« Non avevi i buchi alle orecchie, l’ultima volta.» le sfiorò un padiglione auricolare con la punta delle dita « Ti stanno bene. Sono piuttosto carini.»

Lei sospirò, consapevole di essere stata un’altra volta sconfitta – tuttavia la sua espressione rimase ferma:

« Tu sei sempre così.» raddrizzò la schiena, le mani poggiate sullo schienale della panca « Ti concentri sulle cose insignificanti. Fai caso ad ogni minimo dettaglio e riesci a rievocarlo con estrema precisione anche a distanza di mesi.» lo sguardo le si riempì inaspettatamente di tristezza « Però così facendo non puoi pretendere di ricordare sempre tutto.» fece una pausa, gonfiando le guance in un atteggiamento stizzito e infantile « Infatti finisci per dimenticare le cose più importanti.»

Tseng rimase in silenzio, in attesa che continuasse.

Aerith era solo una ragazzina, ma non era stupida. Sapeva essere acuta, amava parlare, sapeva sostenere senza difficoltà e con incredibile lungimiranza delle conversazioni che potevano risultare ardue a molti adulti. E nonostante fosse ormai abituato alla sua piacevole e spesso divertente eloquenza, il Turk sgranò appena gli occhi quando sentì le parole che seguirono.

« Tu non sorridi quasi mai.» gli disse, le sopracciglia contratte in una maschera di desolazione « Sembri sempre coinvolto in qualche misterioso dialogo interiore, come se dentro di te qualcosa ti perseguitasse senza darti tregua, come se…» cercò le parole giuste prima di aggiungere «…come se ti tormentassi in continuazione. Quando ti guardo sembri sempre così afflitto che mi sembra di provare la tua stessa sofferenza.»

« Non puoi capire.» azzardò il Turk, la voce soffocata che scivolava tra le labbra con incertezza malcelata « Ci sono certe cose che sarebbe meglio tu non sapessi.»

Aerith gli diede ragione con un breve cenno del capo ed un mugolio:

« Non ti sto dicendo di confidarti con me. Quella è una scelta che devi fare tu.» e poi allungò la mano verso di lui, poggiando piano il palmo sulla sua guancia fredda. Tseng accolse il suo tocco, sigillando le labbra. Le sue dita erano tiepide, sentì i polpastrelli carezzargli incerti la pelle, come in una silenziosa e timida ricerca. Il Turk chiuse e riaprì lentamente gli occhi, il tepore di quel contatto così insignificante che gli provocava uno strana sensazione. Sembrava di ricevere un abbraccio dopo tanti anni. Quando incontrò di nuovo lo sguardo di Aerith, vide che il verde smeraldo dei suoi occhi era liquido.

« Ecco, Tseng.» riprese, facendo risalire l’indice fino alla linea dritta del suo naso, ripercorrendola come in un gioco « Tu hai degli occhi davvero belli. Sono scuri e profondi e hanno una forma particolare che non avevo mai visto prima. Ma se non sorridi sono così tristi da farmi venire voglia di piangere.»

« Mi dispiace.» fu l’unico pensiero compiuto che gli riuscì di formulare.

Aerith interruppe un istante l’esplorazione del suo volto, immobilizzando la mano a mezz’aria; poi decise che le sue parole necessitavano una punizione e premette forte l’indice sulla sua fronte, costringendolo a piegare indietro il collo.

« Non ti viene in mente nulla di più intelligente da dire?» lo rimproverò, continuando a minacciarlo con il dito teso premuto sotto la sua attaccatura dei capelli « Potresti magari promettermi che d’ora in poi seguirai i miei consigli.»

« Per esempio?»

La ragazzina sospirò, esasperata; però poi sorrise, tentando in tutti i modi di spianare l’increspatura che era apparsa tra le sopracciglia di Tseng.

« Sorridi di più.» disse « E non essere triste.» ritirò la mano, poggiandosi con le braccia alla panchina da cui si era sporta per raggiungerlo « Sono cose importanti, queste. Cerca di non dimenticarle

Tseng batté rapidamente le palpebre, le immagini vivide nei suoi ricordi che si adattavano perfettamente al presente. C’erano i suoi occhi straordinari, il suo volto armonioso da bambina, le sue guance piene ed arrossate, l’eco della sua voce che gli impediva di sentire qualsiasi altro rumore.

C’era Aerith Gainsborough che nonostante tutto, nel suo interessamento altruista ed ingenuo, a distanza di tanti anni, continuava a pregarlo di essere felice.

Non essere triste, signore.

Hai dimenticato?

E nonostante quella situazione lo turbasse in una maniera che non riusciva bene a comprendere, non riuscì a fare a meno di obbedirle.

Le sorrise. Con lentezza, gradualmente, come nel raggiungimento sofferto di un  traguardo lontano. Un sorriso che apparve sulle sue labbra sincero e quasi timido.

E nonostante quell’incertezza sortì l’effetto di inquietarlo ulteriormente, fu la prima volta che si sentì apprezzato per il semplice fatto di essere sé stesso.

Non era di certo il raggiungimento di quella felicità estrema che Aerith intendeva, ma almeno fu qualcosa.

Ed era già tanto.

 

(xxx)

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Capitolo 4
*** Three; The other man who saw her vision • [ ν ] - εуλ 2001 (xxx) ***


Three; The other man who saw her vision • [ ν ] - εуλ 2001 (xxx)

The day he got enslaved by honour, altruism and jealousy

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« Ehi, capo.» Reno lo guardava con il mento poggiato su di un palmo ed una matita in bocca, un’espressione di pura frustrazione stampata in volto « Ti devo assolutamente rendere partecipe di una cosa.»

Tseng si fermò un istante, le mani sospese ed immobili sulla tastiera del proprio sottile portatile. Stava per concludere un rapporto, ma l’improvvisa uscita di Reno gli aveva fatto momentaneamente perdere il filo del discorso. Lo ritrovò senza troppe difficoltà, le dita che riprendevano rapide a battere sui tasti senza che gli fosse necessario guardarli. Per quanto spesso si sforzasse di ignorarlo, la voce di Reno aveva la strana capacità di attirare l’attenzione – era gracchiante e morbida al tempo stesso, un po’ strascicata. Sapeva farsi ascoltare anche quando non diceva altro che cose di importanza trascurabile; risultava molto fastidioso quando sovrastava altre voci meno acute che invece tentavano di comunicare messaggi importanti.

« Non puoi proprio rimandare a quando avremo finito?» lo apostrofò, senza degnarlo di una sola occhiata mentre concludeva di scrivere il testo. Dall’altra sponda del grande tavolo provenne un mugolio seccato:

« No, non posso.» il tono divenne lamentoso « Capo, lo devi sapere.» la matita tra le sue labbra si mosse appena, come una piccola gru « Ho fatto una scoperta.»

Tseng si fermò ancora, alzando lo sguardo oltre lo schermo piatto del terminale. Reno lo fissava battendo pigramente le palpebre, sedeva svogliato davanti ad un altro computer: il bagliore freddo dello schermo acceso gli si rifletteva sul volto, mettendo in risalto i suoi zigomi marcati ed il naso che si era rotto durante la missione di cui stavano in quel momento stendendo i rapporti. Aveva ancora un lungo cerotto bianco e stretto a nascondergli l’osso scoperto, ma per il resto appariva come il solito uomo annoiato di sempre.

Reno sembrava essere piombato nella Turk senza nessun motivo preciso, un individuo senza nome e senza passato a cui un giorno era stato detto “questa è la tua nuova vita”, e che vedendosi trascinare via dallo squallore dei bassifondi aveva risposto con un’alzata di spalle. Faceva quello che gli ordinavano senza troppe cerimonie, come se si trattasse di semplice e noiosa routine quotidiana, e in quel gruppo di giacche blu dava sempre l’impressione di essere la persona sbagliata arrivata al momento sbagliato. Quando metteva mano alle armi sembrava lo facesse solo per una curiosa coincidenza di eventi, partecipava ai colloqui con i superiori come se si trattasse di un modo come un altro per passare il tempo, indossava la divisa come se fossero i primi stracci che gli fossero capitati a tiro appena alzato dal letto. Ed era un carattere difficile da inquadrare. Era Reno. Non si capiva mai cosa pensasse, quando dicesse le cose per scherzare o con tono serio, non si capiva se gli importasse o meno di ciò che faceva. Si limitava a farlo, spesso e volentieri aprendo bocca solo per dire qualcosa di stupido, per annunciare che si stava annoiando a morte o che al contrario si stava divertendo da matti. L’unica cosa che non gli si poteva rimproverare era l’efficienza: certo, a volte se ne lamentava fino a missione compiuta, ma non era ancora capitato che un compito affidatogli non venisse portato a termine con estrema efficacia.

Tseng sospirò silenziosamente, richiudendo il portatile: lo schermo si congiunse alla tastiera con uno scatto delicato.

« E’ solo un modo per evitare di scrivere quel rapporto.» lo accusò, volgendogli una fredda occhiata in tralice. Reno sgranò gli occhi, buttando la testa indietro sullo schienale della sedia, le ciocche scarmigliate di capelli rossi e assurdi che si immobilizzavano in posizioni antigravitazionali:

« Aaaaah, capo.» si lamentò, la voce impastata e alterata dalla matita che continuava a tenere tra le labbra « Ti pare che abbia mai consegnato un rapporto incompleto? Forse scritto da cani si, ma non incompleto. Avanti…» il tono diventò seccato «…non puoi semplicemente farmi parlare? Il mio cervello ha lavorato industriosamente per mesi prima di giungere a questa conclusione. Non ti costa niente ascoltarmi.»

Tseng annuì distrattamente, pensando che forse valeva la pena assistere ad una delle poche occasioni in cui il cervello di Reno dimostrava di esistere e di non essere solo un pigro elaboratore di lamentele. Sfilò un foglio bianco da una cartella, impugnando un portamina che teneva nascosto nel taschino della giacca:

« Sono tutt’orecchi.» annunciò, premendo un paio di volte la molla per scoprire la  grafite e iniziando a scrivere con scarsa attenzione la bozza di un nuovo rapporto.

« Bene!» annunciò Reno, entusiasta, stabilizzando la propria postura sulla sedia « Ho notato delle cose sul tuo conto.»

« Ah, si?»

« Già.» continuò Reno, la foga improvvisa che già iniziava a scemare « Cerchi sempre di nascondere i tuoi sentimenti e ciò che pensi, ma con un po’ di allenamento basta guardarti in faccia per capire cosa provi.» si tolse la matita di bocca con due dita « Io ci ho fatto caso, capo, mi sono scervellato in una maniera che non hai idea nel tentativo di capire cosa diavolo macchini il tuo cervello straordinario quando stai zitto e lo sguardo ti si perde nel vuoto.»

Tseng inarcò un sopracciglio. C’era qualcosa nel discorso di Reno che iniziava in qualche modo a infastidirlo:

« Non trovi altro modo di sprecare il tuo tempo?»

L’altro si affrettò a mettere le mani avanti, sbilanciandosi appena sulla sedia. Sembrava incredibilmente serio e convinto della sua tesi:

« Ascoltami fino alla fine, capo.» prese a gesticolare pigramente con una mano « Alla fine, dopo lunghi studi, sono riuscito a trovare il tuo punto debole.» fece una pausa teatrale tenendo l’indice sollevato, sospeso, poi aggiunse « Ti si legge tutto negli occhi con chiarezza incredibile.»

Tseng si fermò per un istante, la mano poggiata sul foglio; l’espressione di Reno era imperturbabile mentre sollevava una mano ed iniziava ad elencare, contando sulle dita:

« Quando sei preoccupato abbassi stancamente le palpebre, quando odi occuparti di un determinato affare ti si scurisce il volto in maniera incredibile. E poi la bocca prende una piega che insinua la depressione in chiunque ti guardi, e ti si corrugano le sopracciglia.»

« Mi sembrano solo tue supposizioni senza alcun fondamento.» commentò l’altro, riprendendo a scrivere, ostentando completo disinteresse. Reno non sembrò scoraggiarsi; anzi, fece un respiro profondo, prendendo ad esaminare le pareti bianche della stanza mentre proseguiva con il suo discorso:

« Ma ho notato un’altra cosa fantastica e ancora più incredibile. Ovvero.» fece una pausa per deglutire ed umettarsi le labbra « E’ da un po’ che non ti vedo fare quella faccia orribile da morto che cammina. Anzi quando risali al Quartier Generale dalla tua missione quotidiana nei bassifondi mi sembra sempre che la tua espressione sia più rilassata. E anche Cissnei dice che sorridi un po’ più spesso, anche se la cosa sciocca parecchio tutti quanti.» i suoi occhi affilati e semichiusi tornarono a fissare la testa china del suo capo « E a questo punto mi sono posto una domanda cruciale, e concorderai che l’ipotesi che avanzo non sia del tutto assurda, stupida o campata per aria.» ci fu un attimo di silenzio prima che concludesse, la voce che diventava più acuta e cantilenante, come nel completare in bellezza uno scherzo di cattivo gusto:

« Non ti sarai mica infatuato dell’Antica?»

Crack.

Tseng interruppe di colpo il moto automatico della mano, lasciando incompleta una parola: bastò una pressione minima e mal calibrata a far spezzare la mina. Il piccolo mozzicone di grafite rotolò sul foglio, mentre la polverina nera macchiava la carta.

« Oooh?» biascicò Reno, un sorrisetto soddisfatto che gli appariva gradualmente sulle labbra « Non ci avrò mica azzeccato?»

Tseng tentò di controllare il tremore che improvvisamente si era impossessato della mano destra: poggiò compostamente il portamina sulla carta, facendolo aderire perfettamente al bordo superiore del foglio.

« Mi spiace deluderti, ma sono solo tue fantasie astruse.» era riuscito a dire, mantenendo immobili i muscoli del viso con maggiore difficoltà del solito « Aerith Gainsborough fa solo parte di un incarico a cui io cerco di adempiere con la maggiore efficienza possibile.» poggiò entrambe le mani sul tavolo, facendo leva per alzarsi in piedi « Faccio solo il mio dovere.»

Il sorriso di Reno divenne ancora più ampio e sornione: scrutò i lineamenti del suo capo con una luce astuta e appagata negli occhi, poi ridacchiò appena. Sembrava quasi divertito dalle cose che sentiva e vedeva, come se avesse previsto tutto fin dall’inizio.

« Ecco qui.» disse « Hai lo sguardo corrucciato che ti vedo assumere più spesso.» batté una volta le mani, abbassando la voce « Stai mentendo, non è vero?»

Tseng lo fissò dall’alto, premendo forte i polpastrelli contro il ripiano della scrivania, osservandolo in silenzio mentre batteva le palpebre, di nuovo annoiato e assente come se quella discussione non fosse mai iniziata.

Poi prese fiato e si diresse verso l’uscita della stanza, le articolazioni delle dita che gli facevano male:

« Voglio quel rapporto entro la fine del pomeriggio.»

Sentì alle proprie spalle uno sbadiglio e dei fruscii, il cigolio di una sedia girevole che veniva mossa sul pavimento:

« Certamente.»

Tseng oltrepassò la porta scorrevole, avanzando in silenzio lungo il corridoio, le mani che gli formicolavano. Cercò di ignorare la bile che gli inacidiva la saliva, o il sapore tanto familiare che gli riempieva la bocca quando faceva ciò che gli riusciva meglio.

Stai mentendo, non è vero?

Deglutì, accelerando il passo verso il proprio appartamento. Sentiva il bisogno di ingoiare alcol.

Reno sembrava stupido, ma sapeva dimostrare il contrario.

 

« Ehi, Tseng! Tu credi nel destino? »

Il Turk si immobilizzò nell’atto di rimboccarsi nuovamente le maniche della camicia, le dita che affondavano nelle pieghe bianche del risvolto scivolato fino all’avambraccio. Aerith aveva interrotto il suo lavoro e lo guardava battendo le palpebre, poggiando le mani aperte sul bordo dell’aiuola, un’aria stranamente più vivace del solito a dare colorito alle sue guance.

« Come mai questa domanda?» l’uomo sistemò i polsini in modo che non scendessero più, portandoli fino all’incavo del gomito; inginocchiato vicino a lei, afferrò nuovamente il martello, incastrando la coda di rondine metallica sotto la testa di un chiodo lungo ed arrugginito che spuntava da una trave. Fece leva sul manico dell’attrezzo, la vite che scricchiolava nel legno e a poco a poco se ne sfilava.

« Nulla di che.» continuò lei, sporgendosi per studiare il suo operato « Volevo sapere cosa ne pensi tu. Ti ho dato fastidio?»

Tseng scosse il capo, alcune ciocche nere che gli ricadevano sugli occhi, sfuggendo dal laccio che le assicurava strettamente alla nuca. Aerith sembrava più cauta con lui; era cresciuta di pochi anni ma il suo atteggiamento era leggermente cambiato. Non si sbilanciava mai troppo nel parlargli, sembrava più attenta a non disturbarlo con le sue parole piuttosto che tentare in ogni modo di destabilizzare il suo precario equilibrio. Tseng lo aveva notato quasi subito, ma era ancora incerto: non capiva se quel mutamento dipendesse da Aerith o dal modo in cui lui la percepiva. La maggiore riservatezza della ragazza tuttavia non lo infastidiva: era una sorta di evoluzione, un nuovo stadio del loro modo di farsi compagnia. Qualcosa che sapeva quasi di una silenziosa e adulta complicità. Forse erano semplicemente cresciuti, entrambi.

« No.» fece una pausa, interrotto dallo schiocco del chiodo che, finalmente libero, aveva ridotto in schegge un frammento di legno « Però non…» poggiò il martello «…non saprei cosa risponderti.»

« Avanti.» Aerith insistette, sedendosi di fronte a lui «Tutti ci pensano almeno una volta nella vita.» alzò gli occhi al cielo, dondolandosi appena sul posto « Perché sono qui? Perché è successo questo e non il contrario? Sono domande che tutti si pongono.» si sporse di nuovo verso di lui « Dai, per favore. Vorrei sapere!»

Troppo vicino.

Tseng si schiarì piano la gola, costringendosi ad allontanare gli occhi dalla scollatura che lei aveva involontariamente esposto.

Non mi è permesso.

Infilò le dita negli anfratti dell’asse sconnessa, facendo forza per staccarla da terra.

A volte capitava che Aerith si dimenticasse di essere ormai una donna fatta.

Indossava un vestito estivo azzurro con i bordi di merletto che le lasciava scoperte le spalle bianche – una visione che da qualche tempo aveva l’effetto di mettere Tseng inspiegabilmente a disagio. A partire dalla primavera appena trascorsa, la ragazza aveva iniziato a legare tra i capelli un fiocco di seta rosa – le donava un aspetto più grazioso, ricadendo dolcemente dalla cima della spessa treccia che le fermava le ciocche lunghissime. Le arrivavano alla vita ormai.

Il Turk riuscì a tirare via la trave, provocando un rumore secco. Aerith si ritrasse appena, sobbalzando.

« Hai scelto la persona sbagliata a cui chiedere.» le disse, mentre impugnava nuovamente il martello e si preparava a togliere un altro chiodo « Anche se spesso è il caso a mettere gli uomini in determinate situazioni, ogni individuo è artefice del proprio destino.» impresse fin troppa forza nel gesto di strappare via il bullone « Chi si lascia semplicemente trascinare dagli eventi è solo uno sciocco.» si sentì avvolgere da una consapevolezza violenta e da una malinconica autocommiserazione, ma tentò di non farvi caso.

« Mmmh.» fu il commento pensoso di Aerith, mentre si toccava il mento in un atteggiamento concentrato « Tipico del tuo pragmatismo. Ognuno sceglie la propria strada, eh? » ci fu un istante di silenzio prima che aggiungesse, sommessamente « Sai…» lo sguardo le si addolcì mentre chinava la testa « Un po’ di tempo fa è successa una cosa che mi ha fatto pensare che il destino esista veramente.»

Un altro frammento di trave fu strappato via, le schegge che si disperdevano sulla terra scoperta. Tseng rimase in ascolto, proseguendo con il suo lavoro, sistemandosi di tanto in tanto la camicia bianca e ormai un po’ sgualcita; la cravatta blu scuro pendeva nel vuoto, ancora impeccabile ed al suo posto. Ormai Aerith sapeva che il silenzio del Turk non significava mai disinteresse.

« Una persona è caduta dal cielo.» ridacchiò appena, socchiudendo gli occhi « Sembra assurdo, ma è successo davvero!» sollevò l’indice verso il tetto, indicando un enorme squarcio da cui era possibile scorgere il supporto della piastra « E’ precipitato quaggiù senza farsi niente. Mi ha spaventata.» abbassò la mano lentamente, portandola a congiungersi con l’altra adagiata sulle pieghe morbide del suo vestito « Ma dopo un po’ ho capito che non c’era niente di cui avere paura.» alzò di nuovo gli occhi, entusiasta « Tseng, non credi che sia stato il destino? Com’è possibile che sia caduto proprio qui, mentre io mi occupavo dei fiori?»

Tseng poggiò il martello e l’ultima vite appena divelta:

« Probabilmente una coincidenza.» commentò, senza farci troppo caso « Ma suppongo che chiamarla destino faccia un effetto diverso.» un lampo di pacata preoccupazione gli attraversò gli occhi, la priorità assoluta della sua missione che gli tornava alla mente in una fitta improvvisa, richiamandolo all’ordine, soffocando qualsiasi altro pensiero « Quando è successo?»

Lei ci pensò qualche istante:

« La primavera scorsa.» disse, tranquilla « Non ti ho visto molto in quel periodo. Probabilmente non eri a Midgar.»

Tseng si fermò un attimo per guardarla, accovacciato, poggiando un gomito sul ginocchio destro. I rapporti di quel periodo non accennavano nulla riguardo l’incidente, ed era certo di non averne mai sentito parlare prima che Aerith glielo confidasse. Annotò mentalmente di proporre una diminuzione allo stipendio degli incapaci soldati che lo avevano sostituito in primavera.

« Ti è stato fatto del male?» indagò ancora, perentorio. Sentì un brivido gelido di apprensione sincera insinuarsi nella sua determinazione professionale, facendola cedere appena. Di colpo le sue domande non erano più semplicemente mirate a riempire le lacune di qualche vecchio registro.

Aerith scosse il capo, accompagnando il diniego con brevi mugolii:

« No, affatto. E’ stato molto gentile con me. Mi ha detto di essere un SOLDIER.» e prima che Tseng potesse aggiungere altro, Aerith gli sorrise. Bastò quel semplice gesto a zittirlo completamente.

« Ti preoccupi sempre troppo.» si portò i pugni ai fianchi in un atteggiamento severo « Sai benissimo che non sono una sprovveduta!»

I lineamenti contratti di Tseng si rilassarono appena, gli angoli della bocca che si piegavano lievemente verso l’alto; il sorriso di Aerith era irresistibile e aveva la strana capacità di coinvolgerlo, come una magia bianca sconosciuta.

« Certo.» tornò al proprio lavoro, afferrando i bordi scheggiati dell’ultima trave da rimuovere.

Lei colse immediatamente la velata presa in giro:

« Insomma!» tentò di colpirlo con il pungo serrato, mancandogli la spalla destra di un soffio; si arrese quasi subito, incrociando le braccia sul petto con fare offeso, lasciando che l’altro ridacchiasse piano a labbra strette.

« …E in ogni caso,» riprese dopo qualche istante, il tono che diventava quasi incerto « I SOLDIER dovrebbero essere persone di cui puoi fidarti, no?» indugiò, lo sguardo basso sulle proprie mani che giocavano nervosamente con il pizzo della gonna « Voglio dire,» sembrò soppesare le parole prima di concludere « Il fatto che un SOLDIER mi stia vicino dovrebbe tranquillizzarti, no? I guerrieri scelti della ShinRa non mi farebbero mai del male…» si toccò i capelli, inquieta, sistemandosi senza motivo il fiocco rosa « Non credo mi accadrebbe nulla.»

Tseng socchiuse appena le palpebre, senza guardarla:

« Suppongo di sì.» disse, il tono di voce che perdeva di colpo colore « L’importante è che tu sia al sicuro.» deglutì piano. Le menzogne che le diceva erano sempre quelle più dolorose. Sembravano violare quel suo rifugio che odorava di fiori facendovi penetrare i miasmi cancerogeni che era costretto a respirare quando non poteva sfuggire al proprio dovere. Bastava una sola bugia pronunciata per ingannare Aerith ad avvilirlo come mille menzogne dette per necessità. Eppure era lei. Perché non riusciva a dirle la verità?

Odi non poterle stare accanto.

Odi che siano altri a sorvegliarla.

Vuoi essere l’unico.

« Ehi, Tseng.» la voce della ragazza interruppe il suo flusso di coscienza, facendogli alzare lo sguardo; lei sorrideva appena, gli occhi che brillavano in modo strano. Sembrava sollevata:

« Sarebbe bello pensare la stessa cosa di te e me.»

Le dita premute sull’asse che ancora giaceva al suo posto, il Turk non poté fare a meno di mostrarle una certa perplessità:

« Cosa?»

Lei si strinse nelle spalle:

« Tu mi sorvegli perché ti hanno ordinato di farlo, lo so.» si sporse verso di lui, battendo le palpebre, i lineamenti morbidi che disegnavano un’espressione entusiasta « Ma non pensi che sarebbe fantastico pensarla diversamente? Perché ci siamo conosciuti?» sollevò ancora il dito indice, frapponendolo tra i loro volti, come a sostenere una tesi importante « E se fosse stato il destino a farci incontrare?»

Tseng si limitò a guardarla, immobile, finché lei non ridacchiò piano, mostrandogli un altro sorriso fantastico. Non aveva la più pallida idea di come risponderle, aveva l’impressione che qualsiasi cosa avesse detto avrebbe potuto rovinare quella strana atmosfera che lei era stata in grado di creare tra di loro. Si rifugiò nel silenzio, fuggendo lo sguardo di quella donna che era diventata la persona più importante, e probabilmente la ragione per cui Tseng continuava ad esistere, sopportando ogni cosa, continuando a trascinarsi faticosamente.

Tseng viveva e respirava per proteggere lei.

Forse lei sbagliava a chiamarlo destino, ma era senza dubbio la cosa più bella che gli fosse capitata, nel bene e nel male. E in qualche modo, Tseng dubitava fortemente di meritarla.

Ricordandosi il motivo per cui aveva ancora le mani sporche di terra ed i polpastrelli pieni di schegge, tornò a concentrarsi sull’incarico che lei gli aveva affidato quella mattina. Strappò via l’ultimo pezzo di legno, gettandolo vicino al martello ormai inutile.  

« Ho finito.» annunciò, sfregandosi le mani per rimuovere i granelli di polvere. Fece leva sulle gambe per sollevarsi in piedi, mentre Aerith si chinava ad esaminare il suo operato.

« Ti ringrazio!» esclamò subito, battendo rapidamente le mani un paio di volte « Ora i fiori avranno più spazio per crescere! Non sapevo davvero come fare.» il suo sguardo vagò nel vuoto per qualche istante, come alla ricerca di qualcosa che non poteva trovare « Da sola non ce l’avrei fatta.»

Tseng le rivolse un breve cenno del capo, iniziando a svolgere le maniche e ad abbottonare nuovamente i polsini:

« Non c’è problema.» raggiunse la panca dove aveva ripiegato la giacca, afferrandola « Tornerò domattina. Vuoi che ti accompagni a casa?»

Lei si sollevò, lisciando la gonna con le mani:

« Uh-uh.» scosse il capo, intrecciando le dita dietro la schiena « Non ce n’è bisogno.»

Tseng annuì brevemente, restio, mentre indossava la giacca blu della divisa:

« Stai attenta.» le voltò le spalle, sistemando con attenzione il colletto della camicia. Cercò il PHS nella tasca dei pantaloni, avviandosi lungo la navata centrale verso l’uscita della chiesa – sarebbe tornato nella sua lussuosa gabbia al sessantunesimo piano, per scrivere e contrassegnare il rapporto quotidiano, e per apporre la propria firma sui registri che avrebbe trovato impilati sulla scrivania nera.

« Tseng, aspetta.»

Sentì i suoi passi rintoccare rapidi sul pavimento di legno e la sua mano toccargli la schiena, tra le scapole, un attimo prima che lui si voltasse a guardarla; gli lisciò attentamente la giacca, passando le dita bianche ed affusolate sulle piccole pieghe della stoffa, seguendo la cucitura perfetta del taschino. Nell’altra mano teneva con delicatezza il gambo sottile di un fiore bianco: lo infilò nella piccola tasca con attenzione, lentamente, in un unico movimento fluido.

« Tienilo.» poggiò il palmo sul suo petto, l’altro braccio che ricadeva lungo i fianchi « Per ciò che hai fatto per me oggi.»

Tseng premette le labbra l’una contro l’altra, percependo il tocco di Aerith come se gli strati pesanti di stoffa non esistessero, come se lei stesse sfiorando la sua pelle nuda e arroventata, come se potesse sentire con facilità il ritmo del suo cuore che accelerava.

Per una cosa così piccola.

« Grazie.» riuscì a dire, compiendo uno sforzo incredibile nel tentativo di mantenere la voce ferma e non farfugliare.

« Sai, pensavo di provare a venderli.» aggiunse lei d’un tratto « Cosa ne dici? Non avevo mai preso in considerazione una possibilità simile, ma potrebbe funzionare!»

Tseng annuì piano:

« Potrai realizzare il tuo sogno di colorare Midgar.»

Aerith annuì con decisione, entusiasmo ed uno strano affetto che si rimescolavano nel verde liquido delle sue iridi. Tseng socchiuse gli occhi, corrugando appena le sopracciglia. La sua mente si annebbiò del tutto, perse cognizione di ogni cosa lo circondasse, l’attenzione che si focalizzava solo su lei, sulla sua mano che ancora lo toccava, sul modo irresistibile con cui gli restituiva lo sguardo. Per la prima volta dimenticò del tutto i particolari, i dettagli, qualsiasi cosa che non riguardasse loro due ed il fatto che lei lo aveva appena reso felice in una maniera del tutto nuova ed indescrivibile.

Forse era inutile, forse era insignificante, forse era un semplice bocciolo ancora bagnato di rugiada che sarebbe appassito nel giro di uno o due giorni. Ma rappresentava la gratitudine di Aerith e dunque valeva molto più di qualsiasi altra cosa.

Gratitudine. Era la prima volta per Tseng ed era stato solo grazie a lei.

Era come affrontare una continua avventura, un piccolo passo alla volta, a poco a poco – Aerith lo prendeva per mano, guidandolo attraverso il percorso, mostrandogli aspetti della vita che lui pensava gli sarebbero stati negati fino a che non avesse smesso di respirare. Eppure bastava che ci fosse lei, ed ogni dolcezza, ogni piccola premura gli veniva elargita come se anche a lui spettasse di diritto.

I muscoli di Tseng si contrassero senza che lui ne avesse il completo controllo: in quel momento di confusione si mosse senza riflettere, per la prima volta del tutto succube ed inerme di fronte ad una forza sconosciuta. Avvicinò lentamente la mano alla sua guancia morbida, posando le dita vicino al suo zigomo morbido e leggermente arrossato; lasciò che i suoi capelli lunghi gli lambissero il polso, il pollice che le esplorava la guancia in un gesto impacciato che voleva essere una carezza. Lei rimase immobile, battendo le palpebre, le lunghe e folte ciglia nere che si aprivano in un ventaglio perfetto a coronare quello spettacolo fantastico che erano i suoi occhi.

E poi le dita di Tseng raggiunsero la sua bocca: era piccola, dischiusa come nell’atto di dire qualcosa, come se il gesto del Turk le avesse fatto morire le parole in gola. Sfiorò l’angolo delle sue labbra, indugiando – erano lucide, sembravano morbide e calde, piccoli petali di una rosa appena sbocciata.

Non puoi.

Fu un imperativo che penetrò nella sua testa, frantumando in un istante qualsiasi altra cosa, mandando in mille pezzi qualsiasi desiderio, ogni pensiero confuso che non riguardasse ciò che andava fatto. La nebbia svanì di colpo, lasciandolo di nuovo completamente padrone dei propri gesti; e rendendosi conto di ciò che stava facendo, si immobilizzò, ritirando piano la mano. Sentiva le pelle bruciare, reclamando ancora disperatamente il contatto con le guance soffici di Aerith – ma non c’era ormai modo di distoglierlo dal proprio dovere, un ordine martellante che non gli avrebbe dato tregua fino a che non si fosse lasciato quella chiesa alle spalle.

Puoi illuderti che lei ti consideri una persona su cui poter contare.

Ma non ti sarà mai permesso di averla.

Mai, qualsiasi cosa tu faccia.

Finché farà parte del tuo lavoro.

Quando a notte fonda riuscì finalmente a rinchiudersi nel suo appartamento, dopo aver attraversato in solitudine i cupi e freddi corridoi deserti del Quartier Generale, si accostò alla libreria, vicino al caminetto spento. Scelse un libro a caso, leggendo distrattamente il titolo – non aveva bisogno di informazioni inutili, sapeva che se gli fosse servito sarebbe stato in grado di riconoscerlo alla prima occhiata; sollevò la copertina rigida e vi pose il fragile dono bianco di Aerith, maneggiandolo come se fosse un inestimabile gioiello di cristallo.

E dopo aver sistemato il libro chiuso tra altri due anonimi volumi, si sedette sul bordo del proprio letto – un materasso a due piazze che rimaneva gelido anche durante le notti d’estate più afose. Sciogliendo il nodo della cravatta, guardò la propria immagine riflessa nel grande specchio che rivestiva le ampie ante dell’armadio a muro. Non riuscì a prendere sonno fino a quando l’eco nelle sue orecchie non si fu estinto del tutto.

Non puoi averla.

 

Zack Fair era un SOLDIER di Prima Classe.

La prima volta che Tseng lo vide con Aerith il sole stava tramontando, lasciando spazio ad una serata umida di fine agosto.

Lo aveva visto in lontananza, riconoscendo all’istante la divisa e la sua sagoma inconfondibile – aveva seguito i suoi movimenti mentre oltrepassava il portone dischiuso della chiesa, scendendo piano gli ampi scalini che si susseguivano davanti all’entrata. Tuttavia il fiato gli si era mozzato in gola, silenziosamente, quando anche Aerith aveva fatto capolino tra i due ampi battenti accostati. Teneva la mano del SOLDIER tra le sue così bianche e piccole, quasi che con quel gesto tentasse di costringerlo a non andare via.

E in seguito, quando ormai la ragazza era rimasta sola e Tseng era entrato nella chiesa, l’aveva trovata distesa sulle travi del pavimento, a pochi passi dalla sua ampia e rigogliosa aiuola. Si era insolitamente accorta della sua presenza solo dopo che lui l’aveva raggiunta – il suo sguardo vacuo che fissava il vuoto si era focalizzato distrattamente su di lui, assumendo una sfumatura che Tseng non era stato in grado di interpretare.

« Stai bene?» le aveva chiesto, chinandosi su di lei, toccandole piano la fronte con la mano – la sua pelle era leggermente accaldata, ma a parte la sottile malinconia nascosta nei suoi lineamenti non sembrava mostrare i sintomi di nessun malessere. Lei gli aveva mostrato un sorriso timido, socchiudendo gli occhi:

« Non preoccuparti.»

Tseng aveva deciso di fidarsi di lei.

Forse lo aveva fatto solo per proteggersi da sé stesso. Forse perché nel vedere gli occhi tristi di Aerith si era reso conto che molto probabilmente indagare ulteriormente lo avrebbe solo fatto sentire peggio.

Zack Fair era un valente soldato, ma sapeva anche essere un individuo difficile da gestire. Era giovane, non ancora del tutto padrone della sua forza e dei suoi sensi acuiti dal Mako, ancora troppo entusiasta e spericolato perché gli si potesse affidare una missione senza timore che le sue emozioni ne compromettessero il risultato.

Tseng aveva lavorato con lui proprio a causa di quel suo piccolo difetto: lo aveva affiancato in vari incarichi, contrapponendo al suo impeto giovanile, la propria calma, il proprio giudizio, la propria esperienza. Da una parte si era rivelato seccante come tenere d’occhio un cucciolo irrequieto – spesso si era ritrovato a doverlo richiamare all’ordine, assistendo impotente a bravate ed errori di proporzioni potenzialmente fatali. Ma da un altro punto di vista, Zack Fair incarnava l’ideale di un sognatore che riusciva a conciliare i propri desideri favolosi con un lavoro che di eroico aveva ben poco – essere SOLDIER non era certo come essere un Turk, ma la morale di fondo era la stessa: eliminare i nemici della ShinRa, lavorare per la ShinRa, osservare la morte del Pianeta sedendo comodamente tra le schiere della ShinRa, senza poter fare nulla se non facilitare il suo decadimento.

Forse era per questo motivo che Tseng lo apprezzava e accettava di accompagnarlo quando era necessario, anche se spesso la cosa comportava di doverlo anche sopportare.

Ma ogni volta che lo vedeva con Aerith, il Turk sentiva che qualcosa dentro di sé scricchiolava e si incrinava, una frattura che diventava sempre più profonda, innervandosi in una miriade di rami sottili fino a minare il suo autocontrollo.

Una sera autunnale si recò nei bassifondi del Settore 5 per avvertire Aerith che sarebbe partito la mattina dopo per un incarico che lo avrebbe impegnato probabilmente tutto il mese. Tuttavia, quando giunse nello spiazzo che si apriva davanti alla chiesa e intravide per l’ennesima volta la sagoma di Zack che lo precedeva, gli accadde qualcosa di insolito.

Afferrò il PHS, sfilandolo rapidamente dalla tasca destra dei pantaloni, seguì i passi del SOLDIER mentre attendeva impaziente che giungesse risposta dall’altro capo del telefono.

« L’inizio dell’operazione è anticipato.» ordinò al pilota che li avrebbe accompagnati durante la missione « Voglio l’elicottero nei bassifondi del Settore 5, ora.» la risposta dell’intimorito interlocutore fu un assenso formale, basso ed incerto, ma Tseng richiuse lo sportellino del cellulare senza curarsene.

Accelerò il passo per raggiungere la chiesa – e quando fu ai piedi della scalinata, fissò la schiena del SOLDIER, fermandosi:

« Zack, voglio che tu venga con me a Modeoheim.» disse, perentorio, facendolo fermare sul penultimo gradino.

« Lo so, dammi un minuto.» il giovane gli fece un rapido cenno della mano, voltandosi appena a guardarlo. Tseng deglutì forte, frenando l’improvviso scatto di ira che aveva fatto guizzare i muscoli delle gambe.

Tu non dovresti essere qui.

Non dovresti andare da lei.

Una smorfia di fastidio deturpò per un istante i suoi lineamenti composti.

Non dovresti entrare nel suo santuario.

Lasciala stare.

Lei non è tua.

« Aerith non c’è.» mentì, in un soffio « E’ un problema?»

Questa volta Zack si fermò. Tutto il corpo di Tseng si rilassò di colpo, come tirando un profondo respiro di sollievo. Era inspiegabile, assurdo, contro ogni logica, ma aveva la certezza matematica che se il SOLDIER avesse ancora una volta varcato la soglia della chiesa, non ci sarebbe stato più altro modo per tornare indietro. Per la prima volta, ingoiare il sapore acre delle menzogne fu come mandare giù uno sciroppo benefico.

L’occhiata che il giovane gli rivolse mutò gradualmente: all’inizio sembrò deluso, mentre si voltava e scendeva un gradino verso di lui, poi divenne improvvisamente incerto:

« E tu come fai a conoscere Aerith?»

La domanda sospettosa del SOLDIER fece sgranare appena gli occhi Tseng, provocandogli un forte tremore delle mani. Un brivido incandescente di pura rabbia gli risalì rapidamente la gola.

Chi sei per chiedermi una cosa simile?

Con quale arroganza ti permetti di accusarmi, come se lei fosse di tua proprietà?

Sentiva il peso dello sguardo mako del ragazzo su di sé, percepiva con estrema chiarezza la sua improvvisa diffidenza, il suo disorientamento, come se di colpo i ruoli si fossero invertiti, come se non fosse lui l’intruso. Come se in qualche modo pensasse che il Turk potesse rappresentare una minaccia, una pedina fastidiosa in una scacchiera su cui i pedoni erano già posizionati a suo favore.

Chi sei? Perché sei qui?

Riuscì a trattenersi con difficoltà, distogliendo lo sguardo, incrociando le braccia sul petto; l’unica risposta ambigua che riuscì a dargli, trattenendo e regolando a dovere il tono della voce, fu un enigmatico:

« E’ una storia lunga e complicata.» Si chiese confusamente quanto di quel riserbo fosse dovuto al rispetto del segreto professionale – che diritto aveva lui di sapere?

Il SOLDIER non sembrò affatto soddisfatto della risposta; sospirò rumorosamente, scuotendo il capo:

« Ma pensa…»

« Lei ti ha detto qualcosa?» nel porgere quella domanda, la voce del Turk si schiarì appena. Ma poi Zack si strinse nelle spalle, allargando le braccia in un gesto ampio:

« Niente di niente.»

Tseng rimase sospeso, in silenzio, le sue certezze che gli precipitavano addosso in frammenti.

Tutta la rabbia evaporò in un solo istante, si dissolse e fu come se non fosse mai esistita; al suo posto sopraggiunse un’angoscia soffocante. Lo attanagliò con violenza, avviluppandolo completamente fino ad impedirgli di riprendere fiato, i gelidi artigli della delusione che si conficcavano nella carne e la facevano sanguinare fino a renderla cerea.

Gli venne quasi voglia di ridere, un modo come un altro per schernire la propria inutile e incrollabile ostinazione – ancora una volta non aveva fatto altro che illudersi, stringendo ulteriormente il nodo del cappio che lo avrebbe condotto all’autodistruzione. Chiuse gli occhi e li riaprì faticosamente, risollevando lo sguardo verso Zack.

Di colpo comprese ogni cosa con chiarezza, incastrando piccoli frammenti di ricordi e conversazioni fino ad ottenere un unico, chiaro dipinto di cui intuì dolorosamente ogni sfumatura.

Lei lo ama.

Aerith che tentava di rasserenarlo sui SOLDIER. Aerith che nel parlargliene sembrava cercare una sorta di benestare, una completa approvazione che altrimenti non avrebbe avuto alcun senso.

Il tono di Aerith, gli sguardi di Aerith, le guance arrossate di Aerith, la sua allegria  che si manifestava in maniera così prorompente solo dopo ogni rara visita del SOLDIER.

Aerith che non riteneva necessario mettere Zack al corrente del proprio rapporto con il Turk. Che sembrava quasi tentare in tutti i modi di nasconderlo.

Aerith, Aerith, Aerith.

Aerith che si dedicava ad un altro uomo.

Era tutto così chiaro, ora.

Così terribilmente evidente.

Le braccia ricaddero lentamente lungo i fianchi, le sue labbra si dischiusero: e nell’immettere fiato nei polmoni, pronunciò quelle parole leggermente risentite come se gli venissero estratte forzatamente dalla gola:

« Allora non lo farò nemmeno io.»

Quando furono saliti entrambi sull’elicottero che arrivò puntuale solo alcuni minuti dopo, Tseng chiuse il pesante portello metallico imprimendo nel gesto forse più forza del necessario.

I ricordi vividi dei sorrisi e delle parole di Aerith si susseguirono davanti ai suoi occhi l’uno dopo l’altro, sovrapponendosi, confondendosi gli uni con gli altri, una raccolta infinita di attimi che lo avevano reso incredibilmente felice e che in quella situazione non facevano altro che acuire il dolore che sentiva.

Un sorriso amaro gli illuminò cupamente le labbra, mentre ancora una volta si rendeva conto della crudele e triste realtà, come svegliandosi da un sogno.

Non c’era amore, non c’era dolcezza, non c’era sentimento nel mondo in cui aveva scelto di vivere. Era quella la sua punizione; non importava cosa facesse, cosa pensasse, quanto rimorso provasse quando uccideva un ennesimo innocente – la realtà non sarebbe cambiata.

Eppure era ancora riuscito ad ingannarsi. Forse ci aveva anche flebilmente sperato, per un breve attimo.

Patetico.

Ripensò alla donna che era la sua ragione d’essere, ricordando tutte le volte che aveva ingenuamente creduto di essere importante per lei.

Soffocò quel bisogno disperato che sentiva di tentare ancora in tutti i modi di tenerla con sé, di sentirla vicina nonostante tutto. Ma se per conquistare il suo amore e le sue attenzioni non aveva altra scelta che costringerla, non c’era senso nell’ottenerlo – non l’avrebbe trattata come una qualsiasi delle sue vittime.

Rise sottovoce, un tremito basso che gli sgorgò direttamente dalla gola, senza riuscire a trattenersi, ignorando gli sguardi confusi dei compagni di viaggio. Rideva di sé stesso, o forse era solo un modo come un altro per domare la tristezza che minacciava di dilaniarlo dall’interno.

Che stupido.

 

(xxx)

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Capitolo 5
*** Four; The pink-dressed and her letters • [ ν ] - εуλ 2002/2003 (xxx) ***


Four; The pink-dressed and her letters • [ ν ] - εуλ 2002/2003 (xxx)

The day he made a promise of loyalty to his opponent

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In un nuvoloso pomeriggio di ottobre, Aerith attraversò il Settore 6 fino a raggiungere il piccolo parco giochi spingendo un carrellino cigolante in cui erano ordinatamente sistemati dieci piccoli mazzi di fiori appena colti. Era il suo primo timido tentativo: aveva chiesto aiuto per scegliere i fiori più belli e li aveva raccolti uno ad uno, avvolgendoli nella carta velina colorata con la stessa perizia con cui avrebbe preparato un regalo.

La sera prima, quando Tseng aveva raggiunto la chiesa per il quotidiano turno di sorveglianza, l’aveva trovata intenta nel comporre attentamente un mazzo di boccioli bianchi e rossi: stava legando un nastro viola intorno agli steli recisi, le dita affusolate che lavoravano un grande fiocco lucido.

« Che ne pensi?» gli aveva domandato, tendendo le braccia fino a piazzargli il mazzo sotto il naso « Ti viene voglia di comprarlo?» lo aveva guardato piena di aspettative.

Tseng aveva trattenuto il respiro, i petali ed i pollini dei fiori che gli solleticavano il volto ed il loro profumo che si confondeva fino a fargli girare la testa. Aveva battuto le palpebre, guardando lei e poi la sua prima composizione floreale.

« Ti spiace vendermelo?» aveva tirato fuori il portafogli dall’interno della giacca; e sebbene lei avesse inizialmente allontanato il mazzo con espressione perplessa, alla fine aveva giocosamente iniziato a contrattare.

Era stato il suo primo cliente. Aveva pagato in silenzio, senza fare caso al prezzo, ricevendo l’acquisto direttamente dalle mani di Aerith; gli aveva regalato in cambio un sorriso così sincero e limpido che Tseng pensò che quel mazzo di fiori valesse molto più della cifra irrisoria di cui lei si era accontenta.

La sera del suo timido debutto sul mercato dei bassifondi, la ragazza si era incamminata attraverso il quartiere con la sua merce profumata, piena di buona volontà ed impazienza.

Tseng l’aveva vista uscire dalla chiesa tenendo strette le mani sul manico di legno dell’improvvisato mezzo di trasporto, stando attenta a non far urtare le piccole ruote sui grandini della scalinata. L’aveva osservata da lontano, ascoltando ogni sua parola, seguendo i suoi passi fino al luogo in cui si erano parlati la prima volta – riuscì stranamente a compiere il proprio lavoro senza alcuna interruzione, senza imprevisti, e senza che lei desse mai segno di essersi accorta della sua presenza.

Zack Fair l’aveva accompagnata lungo tutto il tragitto, tentando di adeguarsi al suo passo lento, senza smettere di parlare un attimo. Di tanto in tanto si era offerto di spingere il carretto per lei, ma dopo che aveva rischiato di rovesciarlo mentre lo conduceva accelerando il passo, lei aveva scosso il capo e declinato ogni sua offerta. E nonostante con lei facesse spesso e volentieri figuracce tremende, Aerith rideva sempre con garbo, nella giusta misura, senza mai eccedere o offenderlo; dava retta alle sue spacconate da supereroe o le sue osservazioni divertite come se ascoltare la sua voce fosse l’unica cosa di cui avesse bisogno.

Quando infine raggiunsero il parco giochi, Tseng li vide appostarsi vicino all’altalena sbilenca. Avrebbe voluto raggiungere Aerith e assisterla in quel momento che lei considerava così importante, ma il dovere lo costrinse a tenersi in disparte.

Non solo il dovere. Una voce nella sua testa gli sussurrò la verità, ma lui cercò di rimandarla indietro. Poggiò la schiena sulla superficie ricurva di un enorme animale cavo nel quale a volte i bambini giocavano a nascondino – incrociò le braccia, in attesa.

Il carrellino ricolmo di fiori colorava quell’angolo polveroso di tinte insolite – alcuni ragazzini si voltarono incuriositi, interrompendo i loro giochi.

« Credi davvero che in fin dei conti qualcuno comprerà i miei fiori?» il tono di Aerith suonò improvvisamente teso « Non è ancora venuto nessuno.» le sue parole provocarono un leggero divertimento in Tseng. Erano lì da pochi minuti, ma lei non era mai stata un tipo paziente.

« Vedrai che arriveranno!» la rassicurò Zack, benevolo, sicuro di sé come al solito « Devi solo aspettare un po’ di più.»

Aerith si toccò preoccupata una guancia, studiando il carrello con aria critica ed un po’ rassegnata:

« Se non arriverà nessuno, darò la colpa al tuo carrello! Non è abbastanza grazioso.»

Lui rise in risposta:

« Appena potrò te ne costruirò uno più carino, allora.»

Lo sguardo di Tseng si perse nel vuoto; volse gli occhi al reticolato metallico ed arrugginito che faceva da recinzione al parco, lo fissò a lungo senza vederlo. Ascoltare le loro conversazioni era terribile quanto spiarli quando rimanevano in silenzio tra le mura della chiesa, godendo semplicemente della compagnia l’uno dell’altra. Avrebbe voluto andarsene, si sentiva un intruso, superfluo come un terzo incomodo. Ma i suoi piedi rimasero fermi, immobili nella polvere. Non poteva abbandonare l’incarico.

« Un cliente!» sbottò d’un tratto Aerith a bassa voce, mentre un individuo attempato varcava l’entrata del parco giochi probabilmente per recuperare i propri figli. Zack gli corse incontro, tagliandogli la strada – l’uomo indietreggio di un passo, sulla difensiva. D’altronde un esagitato ragazzo dall’aspetto non esattamente comune – indossava la divisa SOLDIER della ShinRa ed i suoi occhi brillavano di un accesso azzurro come fossero vivide fiamme di Mako – gli era appena apparso davanti senza alcun motivo preciso, e oltretutto assumendo un atteggiamento decisamente allarmante.

« Che dite di acquistare dei fiori?» gli chiese, esaltato « Sono solo dieci Gil! E’ un prezzo stracciato! Non può farsi scappare questa offerta!»

Aerith lo osservò, divertita, controbattendo che l’importante era distribuire i fiori e non quanto denaro fossero riusciti a guadagnare; quando lui tornò da lei con aria abbattuta per chiederle scusa – aveva ovviamente fatto scappare il primo potenziale cliente della giornata – lei scosse graziosamente il capo:

« Non devi scusarti. Sono molto felice.» gli sorrise « L’importante è che tu sia qui con me.»

Tseng chiuse gli occhi. Avrebbe preferito non sentire una sola parola.

Aerith superò il suo maldestro socio in affari, correndo verso una giovane donna che avanzava tenendo in braccio un neonato, decisa a fare un altro tentativo – aveva apprezzato la buona volontà del SOLDIER ma forse avrebbe avuto più speranze di vendere i fiori se fosse stata lei stessa ad occuparsi della pubblicità.

Fu in quel momento che Zack si accorse della presenza di Tseng, forse aveva semplicemente finto di non vederlo fino a quel momento, forse i suoi sensi acuiti dal Mako lo avevano individuato sin da quando erano usciti dalla chiesa, e silenziosamente aveva assecondato il gioco del Turk facendo finta di nulla.

Tuttavia lo raggiunse, fermandosi al suo fianco con poche falcate. 

« Devo partire.» annunciò con tono cupo, incrociando gravemente le braccia sul petto « E’ un incarico importante assieme a Sephiroth…non so neppure quando mi sarà concesso tornare.» il suo sguardo brillante vagò per un attimo, cercando in tutti i modi di non incontrare quello di Tseng – sarebbe stato troppo facile per lui leggervi un leggero imbarazzo ed una certa inquietudine.

« A lei lo hai già detto?» gli chiese il Turk, senza mezzi termini. Zack annuì, corrugando la fronte, insinuando una mano tra i capelli per scompigliarli in un gesto nel quale si mescolavano impaccio e frustrazione.

« Il punto è che questa volta non so quanto potrebbe durare.» rivelò « Potrei rimanere via per mesi.»

« Non essere in pena per lei.» fu straziante come una ferita d’arma da fuoco, ma Tseng non poté fare altro che tranquillizzarlo – tenerla al sicuro era il suo lavoro « Proteggere il soggetto fa parte degli incarichi di sorveglianza.» Zack gli impedì quasi di concludere la frase – sembrava che avesse atteso le parole di Tseng in preda ad un’ansia terribile:

« Sei l’unico di cui possa fidarmi.»

Tseng lo guardò per qualche istante, sgranando appena gli occhi. Le parole del SOLDIER tuonarono dentro la sua testa come una filastrocca fantasiosa – ma anche sforzandosi, gli fu impossibile interpretarle come uno scherzo di cattivo gusto. Il giovane lo pensava davvero.

Non poté fare a meno di ridere, portandosi un pugno alla bocca come a nasconderla.

Si fida di te.

Era una cosa talmente contraddittoria e incoerente da sembrare quasi impossibile, eppure quell’uomo che avrebbe potuto contrastare un intero esercito senza troppe difficoltà era lì, era disperatamente serio e gli stava affidando la donna che amava.

Zack Fair era davvero incredibile. Un grande stupido che offriva volontariamente il fianco al nemico senza neppure accorgersene, sbandierando i propri segreti e le proprie debolezze ai quattro venti – ma che in qualche modo riusciva a far sentire importante chiunque lo circondasse.

Aveva la capacità di trovare i pregi del prossimo, ingigantendoli fino a far sembrare ogni aspetto negativo delle inezie senza valore – e in un modo tutto suo, riusciva a valorizzare quelle virtù nascoste fino a che anche gli altri non le riconoscevano e gli davano ragione.

Il ragazzo sembrò quasi arrossire; si sporse verso di lui, contrariato:

« Ehi, perché stai ridendo?»

Si fida.

Si fida di te che sei solo un assassino.

Tseng lo guardò, senza dire nulla.

Zack Fair era il suo completo opposto: aveva scelto la sua strada per rincorrere un sogno, aveva compiuto la sua scalata verso il rango di Prima Classe scalciando e sgomitando, allenandosi strenuamente, rialzandosi dopo ogni fallimento. Faceva il suo lavoro perché aveva un obbiettivo, combatteva perché non si sarebbe arreso fino a quando non lo avesse raggiunto.

Zack Fair non mentiva a sé stesso.

Zack Fair si era conquistato il proprio onore con il sudore e la fatica.

Non lo aveva buttato via come se non gli fosse più di alcuna utilità. Aveva lottato per proteggerlo.

Tseng sentì improvvisamente il peso di ogni azione compiuta diventare insopportabile; smise di mentire, smise di nascondersi, si limitò semplicemente ad accettare pienamente la propria colpa.

Aveva desiderato che Zack Fair sparisse, che non fosse mai esistito, che non fosse entrato nella sua vita e in quella di Aerith. Lo aveva guardato tante volte, da lontano, desiderando solo che gliela restituisse.

Sei meschino.

C’era un modo per sentirsi ancora un volta fiero di sé stesso?

Il SOLDIER abbassò il capo, sospirando sommessamente, voltando appena la testa in direzione dell’improvvisata fioraia ancora intenta nelle operazioni di compravendita; era evidente che non volesse lasciarla. Indicò il Turk con l’indice puntato, convinzione e serietà che tenevano immoti i suoi lineamenti e gli corrugavano fronte:

« Conto su di te.» lo disse ancora, come se la prima volta non fosse bastata.

Tseng lo seguì con lo sguardo mentre correva di nuovo verso Aerith, distogliendo gli occhi solo quando lo vide intromettersi in una contrattazione e rovinarla fino a costringere l’acquirente ad andarsene con un nulla di fatto.

L’uomo che gli aveva sottratto l’unica ragione per cui Tseng viveva, gli stava donando la possibilità di riconquistare tutto ciò che lo avrebbe fatto sentire nuovamente un essere umano. La dignità, la fiducia, la morale, la certezza di poter ancora fare la cosa giusta.

Ora che l’onore serviva a qualcosa, come avrebbe potuto tradirlo e ripudiarlo nuovamente? Sarebbe stato doloroso e spesso difficile, ma non era forse una prova? Un ennesimo ed ultimo sacrificio per riscattarsi dai propri errori?

Bastava rinunciare alla felicità per riottenere tutto.

Tseng sorrise appena – in ogni caso non gli era rimasto nient’altro da perdere.

Zack Fair. Lo giuro.

Saprò essere degno della tua fiducia.

 

In un giorno qualsiasi di metà gennaio, Aerith indossò per la prima volta un lungo ed attillato vestito rosa. Le lasciava le spalle scoperte e si chiudeva sul davanti grazie ad una lunga fila di piccoli bottoni bianchi. Non aveva decorazioni, né particolari graziosi – era semplice, disadorno, molto diverso dagli abiti che Tseng ricordava di averle visto addosso. Le erano sempre piaciuti i pizzi, i tessuti dipinti o ricamati, i gingilli decorativi e le tonalità sgargianti.

« Ho finito di cucirlo ieri notte.» gli rivelò, facendo una piroetta sul posto per mostrargli il proprio lavoro; la stoffa si gonfiò morbidamente intorno alle sue gambe magre, la lunga e spessa treccia disegnò un ampio semicerchio a circondarle le spalle, frustando l’aria. « Che te ne pare?»

Tseng la seguì con lo sguardo senza battere ciglio, cercando di non fare caso a quanto profondo fosse lo spacco della gonna o a quanto graziose fossero diventate le sue forme; l’abito attillato la fasciava mettendo in risalto i fianchi morbidi e la vita snella, disegnando perfettamente le curve del seno tondo e perfetto:

« Pensavo che il tuo colore preferito fosse l’azzurro.» osservò, guardandola mentre terminava il suo giro e si immobilizzava davanti a lui, con i piedi uniti.

« Uno strappo alla regola.» spiegò lei, evasiva.

Come se Tseng non sapesse.

« Pensi che abbia fatto un buon lavoro? » chiese ancora, sollevando un lembo della gonna tra l’indice ed il pollice, studiando con poca convinzione le cuciture « Mamma mi ha dato qualche dritta, ma non sono molto sicura. Credi sia troppo semplice?»

Tseng scosse il capo. Lei cercava sempre la sua approvazione, qualsiasi cosa facesse. E se non voleva il suo consenso, desiderava un consiglio, un’opinione, qualsiasi cosa che la facesse sentire sicura di ciò che faceva. Era sempre stato così, sin da quando lei aveva dieci anni e gli aveva chiesto aiuto per scegliere il regalo di compleanno per sua madre.

Tseng l’aveva sempre assecondata, quando ne era stato in grado. E se serviva a renderla più contenta o sicura di sé, andava bene. Anche se ultimamente la cosa gli procurava solo un profondo senso di vuoto.

« Trovo che ti stia bene.» aggiunse, allungando una mano per toccarle la clavicola esposta « Potresti provare a cucire anche un copri spalle.» le suggerì « Non voglio che ti ammali solo perché a metà gennaio hai deciso che ti piace il rosa.»   

Lei accolse la sua mano senza battere ciglio, lasciando che la sfiorasse in cima al braccio destro. Ma mentre la toccava, anche se durò poco meno di un istante, Tseng sentì gelare le punte delle dita, un brivido freddo che gli si insinuava con prepotenza nelle ossa.

Lei soppesò il consiglio per qualche istante, picchiettando il labbro inferiore con i polpastrelli:

« Potrei provare a farne uno.» ci pensò per qualche istante, il volto concentrato ed assorto « Rosso? Che dici?»

« Aggiudicato.» il Turk annuì brevemente. Non gli importava molto del colore o dell’abbinamento o di qualsiasi altra cosa potesse tormentare il senso estetico di Aerith. L’importante era che coprisse quelle sue spalle bianche.

« Bene, allora. Farò un tentativo.» lei annuì, dirigendosi verso la panca in prima fila su cui aveva poggiato ordinatamente le proprie cose – iniziò ad infilare la sua giacca bianca sagomata, inforcando le maniche l’una dopo l’altra « Oggi mamma mi ha chiesto di tornare a casa presto.» lo informò, sistemandosi il colletto e tirando su la lunga zip « Voleva che l’aiutassi a cogliere qualche fiore dal nostro giardino per riempire i vasi del salotto.»

« Ti accompagno.» la proposta di Tseng suonò fin troppo categorica perché lei potesse rifiutarsi – infatti fece un cenno rapido del capo, chinandosi per raccogliere gli attrezzi da giardinaggio ed il grembiule ripiegato sul pavimento:

« Ti ringrazio.»

Tseng attese che fosse pronta, osservandola mentre riponeva le sue cose in una grossa borsa di tela azzurra; gliela sfilò di mano quando vide che la sollevava per caricarsela in spalla:

« Lascia fare a me.»

Aerith ridacchiò con aria divertita, stringendosi nelle spalle mentre avanzavano insieme verso il portale della chiesa.

Camminarono in silenzio a lungo, i loro passi che si sovrapponevano nella polvere, un venticello freddo che li frustava vorticando tra i capelli di Aerith e tra le ciocche nere dell’ormai lunga coda di cavallo del Turk.

Di solito la ragazza non permetteva che tra di loro calassero silenzi imbarazzanti e soprattutto non sopportava che Tseng fosse così taciturno, ma ultimamente era capitato molto spesso che fosse lei la prima a non trovare nulla da dire – le sue labbra rimanevano sigillate, i suoi occhi catturati dal movimento alternato dei propri passi che si susseguivano. E così si limitavano ad affiancarsi, come due estranei che incontratisi lungo il sentiero avessero deciso di raggiungere insieme la loro meta comune.

« Tseng.» esordì lei d’un tratto, con voce fioca; gli toccò un braccio con la punta delle dita, in un atteggiamento insolitamente timoroso « Vorrei parlarti di una cosa.»

Il Turk annuì:

« Ti ascolto.»

Aeirth fece una pausa, aggrappandosi a lui, le mani che cercavano rifugio tra le pieghe del suo soprabito di pelle nera:

« Anche se…» le sfuggì una risatina imbarazzata mentre cercava in tutti i modi di non incrociare lo sguardo dell’uomo «…forse potresti pensare che io sia una stupida.» scosse il capo, premendo una guancia contro la sua spalla, come in un tentativo impacciato di nascondere il volto « E’ abbastanza imbarazzante.»

« Non riderei mai di te.»

Lei parve sollevata dalle parole del Turk; inspirò profondamente, infilando con cautela una mano nella tasca destra della sua giacca:

« Ecco…» frugò per qualche istante, estraendone infine una piccola busta quadrata di carta rosa « Ho scritto una lettera, ma non saprei a che indirizzo spedirla.»

« A chi è indirizzata?»

La domanda di Tseng fece in modo che Aerith smettesse improvvisamente di avanzare. Si immobilizzò, al centro di un incrocio, gli occhi bassi che ancora una volta sembravano scrutare la punta delle sue scarpe pesanti ed impolverate. Il Turk fece lo stesso, guardandola – sentiva ancora le sue dita premere con forza contro il proprio braccio.

« Tseng, non ho sue notizie da quasi tre mesi.» disse lei dopo qualche istante « Non ho idea di come funzioni la ShinRa, non mi è venuta in mente nessun’altra idea se non questa. Non saprei cos’altro fare per avere sue notizie.» sollevò gli occhi verso il Turk – erano seri, intensi, le sopracciglia sottili che delineavano un turbamento profondo « Tseng, non ho altri che te su cui poter fare affidamento. Se lo consideri un fastidio, sei libero di rifiutare.» gli porse la busta, le dita intirizzite dal freddo che fremevano appena.

Tseng la osservò per qualche istante, un turbamento insopportabile che si rimescolava dentro di lui senza dargli mai tregua. C’era il viso congestionato di Aerith, l’eco delle sue parole speranzose che lo imploravano, il suo sguardo così insolitamente abbattuto da far gelare il sangue. E poi c’era quell’anonima lettera, un sottile foglio di carta che significava tutto e niente, che faceva male come un’ennesima pugnalata.

Zack Fair non era più tornato dalla sua ultima missione. Aerith lo aveva atteso ogni giorno, a volte sedendosi da sola sui gradini della chiesa, chiedendo spesso a Tseng se avesse sue notizie e ricevendo sempre la stessa identica risposta avvilente.  

Mi dispiace, non mi sono state fornite informazioni al riguardo.

Quando i rapporti ufficiali della ShinRa avevano catalogato la missione affidata a Zack Fair e Sephiroth come un totale fallimento, gli Esecutivi avevano iniziato a comportarsi come se i due SOLDIER di Prima Classe non fossero mai esistiti. O meglio, i giornali avevano riportato solennemente la notizia del decesso dell’eroe Sephiroth, avvenuto in circostanze misteriose. Ma la scomparsa di Zack era passata in sordina, era stata quasi ignorata, come se la compagnia avesse tentato di proposito di occultarla in ogni modo possibile.

I tentativi del Turk di rintracciarlo si erano rivelati del tutto vani – la ShinRa non sembrava interessata al suo ritrovamento, il reparto scientifico non si esprimeva al riguardo, i registri riportavano la sua morte sul campo senza sprecarsi in particolari. E sebbene godesse di piena fiducia e fosse apprezzato da tutti i suoi superiori, il grado di Tseng non era abbastanza alto perché gli fosse permesso indagare in maniera più approfondita.

Ed ogni volta che Aerith gli chiedeva sue notizie, lui non poteva fare altro che scuotere il capo, sentendosi del tutto inutile.

« So che lui è vivo.» erano le parole che lei non si stancava mai di ripetere e che spingevano Tseng a non interrompere le ricerche.

Lo fai per lei.

Lo fai perché hai promesso.

O lo fai solo per sentirti meglio?

Accolse tra le dita la lettera di Aerith, annuendo piano:

« Troverò un modo per fargliela avere.»

 

In una sera in cui il cielo coperto minacciava l’inizio di un temporale, Aerith si inoltrò da sola nel cimitero dei treni del Settore 7, scomparendo tra la ferraglia ed il metallo corroso dall’umidità.

Quel pomeriggio, Tseng l’aveva lasciata piuttosto tardi; aveva ignorato l’orologio fino a che le lancette non avevano indicato lo scoccare delle otto, limitandosi ad ascoltare la sua voce che intonava motivetti sconosciuti mentre le sue mani armeggiavano laboriose attorno all’aiuola. Si erano salutati solo all’imbrunire, quando lei aveva sollevato il cestino pieno di fiori appena colti e gli aveva chiesto graziosamente di accompagnarla a casa; Tseng l’aveva accontentata senza fiatare, sollevandosi dalla panca su cui aveva passato la maggior parte del tempo. Era dalla fine di Febbraio che Aerith preferiva non essere lasciata sola e che Tseng, di conseguenza, era diventato ancora più restio ad abbandonare i bassifondi.

« Devo fare un lavoretto.» gli spiegò, mentre frugava nella sua borsa in cerca delle chiavi di casa, in piedi davanti all’entrata « Non mi ci vorrà molto, ad ogni modo. Quindi non preoccuparti, okay?» aveva infilato la chiave nella toppa, ma nel girarla si era voltata a guardarlo con aria severa « Non mi taglierò, non mi farò male, non sarò in pericolo. Ti basta come assicurazione?»

Tseng l’aveva assecondata, suo malgrado. Accettava di aiutarla con i lavori manuali non solo per semplice altruismo.

« Stai attenta lo stesso.» non riuscì ad evitare di dirglielo. Lei aveva sbuffato appena, prendendolo in giro:

« Certo!» la chiave aveva scattato nella serratura, mentre la porta si dischiudeva lentamente « Buonanotte, mio guardiano dai capelli corvini e dalle poche parole.» Il Turk l’aveva seguita con gli occhi mentre scappava dentro casa, mettendosi al riparo da qualsiasi sua reazione imprevista – lei sapeva che Tseng non avrebbe mai varcato quella soglia, anche se non gli aveva mai chiesto il perché. Tuttavia lui l’aveva semplicemente salutata con garbo, rimanendo immobile mentre la porta si chiudeva. Si era voltato ed aveva iniziato ad allontanarsi, lasciandosi alle spalle il rigoglioso giardino che Aerith aveva piantato intorno alla casetta. In quello scorcio colorato e pacifico del Settore 5, ogni folata di vento, anche se minima, portava con sé i profumi di un mondo che non era Midgar.

Si era diretto verso la stazione del Settore 7, controllando distrattamente che lo schermo del PHS non evidenziasse messaggi non letti. Aveva aspettato l’arrivo dell’ultimo treno, in piedi sul ciglio dei binari, le punte delle scarpe che superavano ampiamente la linea gialla di sicurezza. E un quarto d’ora dopo, sistemandosi sui sedili dell’ultimo vagone, aveva alzato gli occhi verso il finestrino e l’aveva vista.

La scorse con la coda dell’occhio, una figura minuta e rosa che avanzava piano e spiccava sul grigio dell’ambiente circostante, addentrandosi indisturbata nell’angolo dei bassifondi dove venivano gettate ed abbandonate le locomotive inutilizzabili. Gli occhi gli si sbarrarono quando la vide addirittura scavalcare goffamente le assi che barricavano l’entrata, passando le gambe ad una ad una aldilà del basso ostacolo. Si alzò di scatto, riuscendo a scendere dal treno poco prima che le porte automatiche si chiudessero e la locomotiva iniziasse a muoversi; urtò un ferroviere, riconoscendo di sfuggita la sua divisa rossa, mormorando a bassa voce delle scuse soffocate.

Non mi taglierò, non mi farò male, non sarò in pericolo.

Lei, da sola, nel cimitero dei treni.

Perché quella donna faceva di tutto per farlo preoccupare, per mettersi nei guai, per farlo sentire tanto in ansia da non riuscire neppure a ragionare? Perché continuava a ripetergli che non c’era nulla di cui preoccuparsi, se poi si cacciava in situazioni simili?

Sentì in lontananza il fischio acuto del capostazione e lo sferragliare pigro delle ruote metalliche sui binari, il rombare raschiante che cresceva gradualmente, raggiungeva il suo apice e poi rapidamente si dissolveva, allontanandosi. Aveva appena perso l’ultimo treno. Importava?

La seguì silenziosamente, guardandola mentre incespicava e urtava bidoni e rifiuti provocando un fracasso infernale ad ogni passo. Tuttavia avanzava imperterrita, guardandosi attorno, senza fare caso alla giungla di cavi, di spazzatura e rottami che le si apriva davanti e che minacciava di inghiottirla non appena avesse commesso l’errore più stupido. Si fermò un attimo davanti all’alta e imponente carcassa di un vecchio vagone – lo scheletro della locomotiva emergeva dalle vecchie coperture di legno, lunghe dita ritorte che sembravano tendersi scompostamente verso l’alto, scomparendo nel buio cupo della notte imminente. Le uniche luci che rischiarassero quella zona proibita del Settore, a cui il cielo veniva del tutto negato dall’ombra della piastra soprelevata, erano delle piccole e accecanti lampadine al neon che punteggiavano l’immenso soffitto metallico. Aerith si guardò attorno, spaesata, l’oscurità che la disorientava – Tseng sentì dei sommessi squittii in lontananza, dei fruscii insistenti, un tonfo metallico provenire dalle proprie spalle.

E quando lei, sobbalzando, arretrò appena rischiando di inciampare su delle assi di legno scheggiate, il Turk sentì la rabbia crescere tanto in fretta che le sue gambe si mossero da sole, ogni singolo muscolo che si contraeva senza ritmo. La raggiunse, sostenendola, afferrandole fermamente un polso; lei ingoiò un grido, si voltò di scatto, gli occhi spalancati.

Lei, di notte, in un posto del genere.

Rimase sospesa, immobile, le palpebre che battevano in fretta; lo riconobbe dopo qualche istante, i lineamenti che si confondevano nella penombra.   

« Tseng!» disse il suo nome con la voce che diventava di colpo più acuta, le iridi che le si riempivano della luce colpevole e di uno stupore quasi terrorizzato.

Una bambina.

Tseng allentò appena la presa su suo polso, le dita che sfioravano piano la pelle liscia della sua piccola mano destra.

E’ ancora una bambina.

« Cosa ci fai qui?» le chiese, tentando di rendere il proprio tono meno duro possibile. Era talmente infuriato che sentiva un nodo ostruirgli la gola ed ogni via respiratoria, ma l’ultima cosa che desiderava era metterle paura.

« Te l’ho detto, no?» si giustificò subito lei aggrottando le sopracciglia in un atteggiamento nuovamente combattivo « Devo sistemare delle cose! Non ti avevo detto di non preoccuparti? Che bisogno c’era di venirmi alle spalle a quel modo? Mi hai spaventata!»

« Perché sei venuta qui?» le chiese ancora, questa volta assumendo un cipiglio deciso – lei indietreggiò di un passo « Hai idea di quanto sia pericoloso?»

« Lo so benissimo!» ribatté la ragazza, riuscendo a domare l’incertezza che l’aveva fatta balbettare appena sulle prime parole « Sai perfettamente che so badare a me stessa!»

« Cosa dovrei pensare?» le strinse la mano in un gesto automatico, senza neppure accorgersene, sentendo le sue dita abbandonate ed inermi contro le proprie « Mi racconti una bugia simile solo per poterti mettere nei guai con maggiore facilità? Non scherzare con me, ragazzina.»

« Sapevo che se avessi provato a venire qui assieme a te, me lo avresti impedito.» controbatté ancora lei, rispondendo alla stretta dell’uomo; piegò le dita contro quelle di lui in un gesto docile – la sua espressione si indurì, mentre continuava a contrastarlo, imperterrita; non c’era coerenza tra gesti e parole « Ho dovuto farlo! Sapevo che tu non me lo avresti permesso!»

Gli occhi di Tseng si sgranarono appena:

« Se me lo avessi detto, non ce ne sarebbe stato bisogno.» continuò, stringendole mano con maggiore impeto « Se mi avessi detto cosa ti serviva, te lo avrei procurato.»

Lei trattenne il respiro, le guance che le si arrossavano di rabbia o forse di imbarazzo, stava diventando troppo buio perché Tseng riuscisse a percepire la differenza:

« Il carretto si è rotto.» ammise alla fine, abbassando la voce e gli occhi « Ha perso una ruota mentre lo spingevo verso casa.» la sue dita fremettero appena nella mano del Turk « Volevo cercare un pezzo di ricambio.»

Il furore dell’altro si affievolì appena, una strana consapevolezza che gli faceva ancora una volta gelare le vene. Attese qualche istante, scrutando gli inquietanti e cupi disegni che la luce fioca delineava sulle gote di Aerith, sulla curva della sua bocca.

« Perché non mi hai chiesto aiuto?» domandò alla fine, con un fil di voce, con tono talmente basso che per un attimo penso che Aerith non lo avesse udito « Sapevi che ti avrei aiutata.»

Non vuoi che le mie mani tocchino le cose che ti ricordano lui?

E’ così?

Si preparò ad una risposta avvilente, si preparò ad avere l’ennesima conferma di quanto quel suo disperato bisogno di stare con lei non servisse a nulla, fosse solo un elemento di contorno, di quanto ogni delusione facesse sempre più male, nonostante tutto. Ma Aerith sollevò gli occhi scuotendo il capo.

« Tu sei sempre troppo gentile con me.» ammise, stringendosi in sé stessa « Fai già tanto e ogni volta mi sembra solo di crearti fastidi.»

Tseng la guardò, rendendosi conto davvero di quanto quelle poche e banali parole avessero reso tutto più semplice. Si accorse solo in quel momento delle loro mani strette l’una all’altra, ma lei si rifiutò ostinatamente di lasciarlo andare sebbene tentasse in tutti i modi di allontanarla. E alla fine rinunciò.

« Ti aiuterò a sistemare quel carretto.» concluse alla fine, categorico, serio, con lo stesso tono con cui avrebbe pronunciato un giudizio di vita o di morte, con la stessa solennità con cui avrebbe impartito un ordine di fondamentale importanza. Aerith rimase un attimo zitta, guardandolo allucinata mentre continuava a tenerle la mano e nel frattempo le parlava con quell’espressione grave; poi trattenne improvvisamente il respiro, soffocando e trattenendo con difficoltà una risata.

« Non dirmelo con quella faccia, però.» contestò, coprendosi il volto con la mano libera – sembrava stesse facendo uno sforzo incredibile per non scoppiare a ridere.

E accorgendosi che ora avrebbe potuto agevolmente trascinarla via da quel posto tremendo e riportarla a casa, dove avrebbe finalmente smesso di insistere riguardo la ruota del maledetto carretto, Tseng distolse l’attenzione da lei – con difficoltà – e si guardò attorno. La vecchia locomotiva usurata dal tempo sorgeva al centro di uno spiazzo sterrato e a tratti fangoso, un semicerchio perfetto delimitato dalle tombe di altri sei vagoni più piccoli e da una quantità imprecisata di frammenti di calcestruzzo crepato che giacevano disordinatamente sui binari ormai inagibili. La sua memoria infallibile fotografò ogni particolare, notò la luce intermittente che ancora miracolosamente funzionava all’interno di un vagone con le finestre crepate, vide la pelle marcia che rivestiva alcuni dei sedili, le pozze d’acqua che si erano accumulate ed avevano stagnato sul pavimento metallico dopo le piogge autunnali.

E poi si interruppe, di botto, scrutando le fessure che segnavano una spessa asse di legno da cui spuntavano numerosi chiodi arrugginiti. La sua memoria non gli mandava segnali, ogni particolare era nuovo e sconosciuto, vedeva tante cose ma non ne riconosceva neppure una. E frugando nella propria memoria nel tentativo di ricordare e ripercorrere la strada che lo aveva condotto fino a quel punto, trovò solo il buio, il silenzio, ed un disorientamento sconcertante.

Si guardò ancora intorno, nel vano tentativo di trovare qualcosa che potesse essergli d’aiuto. Ma nella sua memoria fotografica si accavallavano solo le immagini di quello spiazzo vuoto, freddo, cupo e desolato e poi Aerith che correva, Aerith che inciampava, Aerith che gli urlava contro e comunque gli teneva la mano, Aerith che si metteva sempre e comunque nei guai.

Sbatté le palpebre, perdendo di botto il senso dell’orientamento, sentendosi sperduto ed indifeso come mai era successo prima. La sua memoria non lo aveva mai tradito.

« Cosa succede?» chiese la ragazza, notando improvvisamente il suo disagio.

Tseng non le rispose, cercando con impazienza quasi febbrile il telefono nella tasca – lo estrasse, sollevando lo schermo con un secco movimento del polso.

« Dobbiamo andarcene di qui.» spiegò, senza aggiungere ulteriori particolari. In una situazione normale, si sarebbe affidato al proprio istinto – ma c’era quell’interferenza, una sorta di disturbo insistente che gli impediva di raggiungere i ricordi confusi dei momenti che lo avevano condotto in quel luogo. E fu con una sorta di cupa disperazione che aprendo il PHS, si rese conto che quella zona del Settore non era coperta dalla rete telematica della ShinRa. Aveva sperato di poter chiamare qualcuno o di rintracciare una mappa della zona tramite le informazioni satellitari, ma lo schermo del telefono continuava a negargli qualsiasi servizio. Tentò una telefonata, premendo per qualche istante il cellulare sull’orecchio – ma la linea rimase muta fino a quando, senza fare rumore, non cadde definitivamente. E alzando gli occhi, vedeva solo rottami e macerie che si confondevano con il buio della notte, i ristretti e fiochi fasci di neon della piastra che rischiaravano le tombe dei treni come cupe candele funerarie.

Il cimitero dei treni, sconosciuto, buio, un dedalo di sentieri e vicoli ciechi che gli era completamente ignoto. Si era perso.

Come aveva potuto distrarsi? Perché non riusciva a ricordare?

« Come facciamo?» chiese d’un tratto Aerith, accostandosi maggiormente a lui « Non si vede quasi più nulla.» sembrò incupirsi appena « Non avevo intenzione di inoltrarmi così tanto, ma non vedevo piccole ruote da nessuna parte…»

Tseng non le rispose, mentre l’inquietante immagine di lei che si ritrovava in quella stessa situazione da sola gli attraversava la mente facendogli irrigidire la schiena.

Tentò di valutare la situazione in maniera razionale, mentre si rendeva conto di non avere la più pallida idea di quale potesse essere la via del ritorno – vedeva mille strade snodarsi tra le rotaie e tra le locomotive abbandonate senza un ordine preciso, senza criterio, il buio aveva inghiottito ogni cosa nel giro di duecento metri. Rimase lì immobile, la mano di Aerith ancora ferma nella propria. E con rammarico estremo fu costretto a prendere l’unica decisione ragionevole – l’unica che gli avrebbe permesso certamente e senza troppi rischi di proteggere Aerith in quella situazione anomala.

« Sarebbe meglio non spostarsi al buio, senza neppure conoscere la strada.» ammise, suo malgrado, mettendo a posto il PHS « Dovremo aspettare e provare ad andarcene domattina, quando tornerà la luce.»

Aerith rispose con voce tranquilla, come se l’idea non la turbasse affatto:

« Vuol dire che dobbiamo passare la notte qui?»

« Così pare.»

Cosa era successo? Perché non aveva prestato attenzione alla strada? Un errore del genere in qualsiasi altra situazione avrebbe potuto rivelarsi fatale.

« E’ colpa mia.» bisbigliò lei, assumendo un tono leggermente colpevole « Non credi che dovremmo cercare una via d’uscita?»

« Vorrei.» ammise, storcendo le labbra in una smorfia accennata « Ma il buio non mi permette di avere la situazione completamente sotto controllo. Non posso mettere a rischio la tua incolumità.» se quella notte avesse commesso anche solo un altro errore, non se lo sarebbe mai perdonato.

Nella sua testa si affollavano mille pensieri di cui riusciva a cogliere a malapena il senso - si sovrapponevano l’uno all’altro, un confuso groviglio di voci che gli mettevano fretta, rendendo ancora più instabile la sua capacità di giudizio. C’era la promessa fatta a Zack, c’erano gli ordini dei superiori, c’era il suo cuore terrorizzato che ansimava al solo pensiero che ad Aerith potesse accadere qualcosa. Tutte quante tuttavia improvvisamente si unirono in un coro talmente chiaro ed unanime da riuscire quasi ad assordarlo.

Proteggila.

Riuscì in qualche modo a sciogliere la presa delle loro mani; un istante dopo sentì le dita di Aerith aggrapparsi ad un lembo dei suoi pantaloni, un gesto timido e leggermente timoroso che gli riportò alla mente vecchie foto ingiallite di quella bambina dagli occhi grandi che tanto tempo prima lo aveva avvicinato solo per consolarlo.

Hai seguito il suo consiglio.

Hai dimenticato del tutto i particolari, non hai prestato attenzione a ciò che ti circondava.

Finché non l’hai raggiunta, hai pensato solo a lei, hai visto solo lei.

La cosa più importante.

Si sfilò la giacca, sentendo il fruscio sommesso della stoffa, ignorando il freddo pungente che gli pizzicò subito la pelle attraverso la leggera camicia bianca:

« Per ora conta solo che tu non ti faccia male.» lo disse poggiandole l’abito sulle spalle nude, sentendola che sobbalzava appena in risposta a quel gesto inatteso « Senti freddo?»

Lei ci si avvolse dentro, non facendo caso alle maniche che superavano di una buona decina di centimetri la lunghezza delle sue braccia:

« Non molto.» rispose, curandosi di aggiungere subito dopo « Scusami, non sono ancora riuscita a finire il copri spalle.» si strinse nella giacca, le mani che chiudevano il colletto coprendole naso e bocca « Sono un po’ impedita con ago e filo. Ci metterò ancora un po’.»

Il Turk la ascoltò fino alla fine:

« Potrei anche comprartelo io e farla finita.»

Lei protestò colpendolo debolmente su di una spalla:

« Vuoi scommettere? Lo finirò entro il mese prossimo!» lo sfidò, assumendo subito dopo un tono leggermente impensierito, mentre la sua mano sfiorava il tessuto leggero della camicia «…ma sei sicuro che ora non sia tu a gelare?»

« Sto bene.» mentì l’altro, cercando di ignorare il freddo pungente che sentiva e che gli stava a poco a poco irrigidendo le dita. Scosse il capo, sbattendo velocemente le palpebre mentre una folata improvvisa di vento sollevava un fitto pulviscolo di carbone e terra – Aerith strizzò gli occhi, il volto che quasi scompariva dietro la stoffa spessa della giacca blu.

« Troviamo un posto coperto.» propose il Turk, cercando ancora una volta la mano della ragazza; lei accettò nuovamente il contatto, stringendo le dita contro quelle di Tseng come se quel gesto le fosse familiare e le infondesse un senso indispensabile di sicurezza. Non sapeva neppure con quale incredibile sforzo di volontà, Tseng riuscì a frenare il tremore che si era impossessato del suo braccio – non sapeva se fosse per il freddo o per la tensione.

O forse è solo causa sua.

« Posso scegliere io la reggia?» aggiunse lei con aria scherzosa, coprendosi la bocca con una manica scura. Si guardarono attorno, lui freddo e teso come durante una missione di sopravvivenza, lei curiosa, quasi divertita dalle circostanze insolite.

« Ecco.» disse Aerith infine, indicando l’entrata sbilenca di una locomotiva arrugginita che sorgeva alla loro destra, nella penombra, inclinata leggermente su di un lato « Preferisci la tappezzeria rossa?» chiese, riferendosi a ciò che restava del rivestimento di pelle dei sedili « Oppure una rilassante luce intermittente ad illuminare un ambiente caldo e confortevole?» spostò il dito, mostrandogli un vagone situato davanti a loro.

La decisione non fu difficile; la luce gli avrebbe permesso di tenerla d’occhio più facilmente. Iniziando ad avanzare verso il treno semi illuminato, Aerith che lo seguiva disciplinata avvolta nella sua giacca e tenendosi stretta alla sua mano, decise di assecondarla:

« Preferisco gli alloggi luminosi.» era difficile scherzare in quella situazione, ma si rivelò più naturale del previsto. Forse era ancora per via di Aerith.

« Come vuole lei, signore, cavaliere, custode.» disse tutto d’un fiato, come se le ultime tre parole ne componessero una sola. Erano definizioni completamente distorte di ciò che lui era, ma questo non cambiava il fatto che per Tseng fossero suonate come un altro ennesimo, dolcissimo ed immeritato complimento.

L’entrata della locomotiva era leggermente rialzata rispetto al pavimento fangoso – c’erano dei massi piuttosto grandi che ostruivano il passaggio e delle vecchie ruote d’auto che inclinavano il vagone verso l’alto. Il Turk passò avanti, issandosi sui massi con due lunghi passi, in uno slancio abile e fluido; quando fu in cima si voltò verso di lei, afferrandole entrambe le mani per aiutarla a salire. Le fissò le gambe che sfuggivano dallo spacco ampio della gonna rosa fino a che non fu arrivata al suo fianco, assicurandosi che gli spigoli appuntiti della pietra non la ferissero.

L’interno della locomotiva odorava di rancido e di acqua stagnante; i vetri delle finestre erano del tutto assenti, il metallo sembrava essere marcito in vari punti sul soffitto e lungo le pareti. La lampadina emetteva brevi e poco intensi lampi facendo luce sui sedili consunti da cui emergevano le molle arrugginite ed ormai inutili. Tseng individuò subito l’unico ad essere del tutto intatto: il rivestimento era logoro e sfilacciato, ma aveva comunque l’aria di essere in qualche modo comodo.

« Siediti.» ordinò, lasciandole la mano solo quando lei si fu sistemata dove le aveva detto, obbediente « Cerca di dormire.»

Lei annuì, osservandolo mentre le dava le spalle e riprendeva a guardarsi attorno: poggiò una mano sul cuscino, mentre con l’altra impediva alla giacca di scivolarle dalle spalle.

« E tu?» chiese dopo qualche istante, vedendo che lui non accennava a raggiungerla ed anzi sembrava cercare un altro modo per sistemarsi « Continuo a sostenere con convinzione che nonostante continui a negarlo, tu in realtà stia gelando.»

La memoria di Tseng studiò la locomotiva, individuando tutte le possibili vie attraverso cui avrebbero potuto manifestarsi eventuali pericoli – le finestre ai lati del treno, l’entrata spalancata, un’ampia fessura nel tetto che sembrava una brutta ferita tra due lembi lacerati di pelle frastagliata. Alla fine convenne con sé stesso che la postazione migliore per passare la notte fosse quella da cui avrebbe potuto controllare senza troppe difficoltà qualsiasi apertura. Si accostò alla parete umida di fronte al sedile su cui aveva lasciato Aerith, sedendosi sul pavimento, la schiena che premeva contro il metallo gelido e duro:

« Ti ho detto che sto bene.» mentì ancora, poggiando i gomiti sulle ginocchia piegate « Starò qui.»

Gli occhi verdi di Aerith si sgranarono:

« E speri di riuscire a dormire in quella posizione tremenda?»

« Non è necessario che io stia comodo.» le fece notare, guardandola con espressione neutra « Il mio compito è sorvegliarti.» aveva già previsto di non chiudere occhio, quella notte. Non avrebbe commesso altri stupidi errori. Non poteva.

Tuttavia Aerith si rifiutò di ascoltarlo; batté con la mano sull’imbottitura del sedile, al proprio fianco:

« Qui c’è posto abbastanza per entrambi. Non farmi arrabbiare e vieni qui.»

« Aerith, ho detto no.» concluse, categorico, con tono secco « Ora cerca solo di dormire.»

Quando lui distolse lo sguardo, riuscì a vederla mentre gonfiava appena le guance assumendo un broncio bambinesco. Ma bastò un solo istante, giusto il tempo di tornare a posare gli occhi su di lei e cogliere il suo slancio, i suoi passi rapidi e quasi ostentatamente rumorosi sul metallo – questa volta gli disobbedì con tanta irruenza e determinazione che riuscì quasi a stupirlo. Gli si parò davanti con aria ostinata, come una ragazzina testarda che vuole vendicarsi per essere stata disattesa una sola volta. Si sedette sul pavimento, tra le sue gambe leggermente aperte e piegate, poggiando la schiena sul suo petto con forza, come ad imporsi. Si sistemò le pieghe del vestito, lasciando scivolare la stoffa lungo le gambe graziosamente abbandonate sul metallo freddo della locomotiva – il gesto tranquillo di una dama che aveva appena reclamato ed ottenuto ciò che voleva.

Tseng rimase immobile, tendendosi all’improvviso, con violenza, gli occhi spalancati e le labbra dischiuse. La guardò come se lei fosse la cosa più strana ed aliena mai apparsa sul Pianeta, scrutò i suoi lineamenti tranquilli mentre piegava il collo all’indietro e poggiava la testa sulla sua spalla, restituendogli lo sguardo:

« Per una buona volta stammi a sentire senza fiatare, testardo masochista che non sei altro.» lo rimproverò, aggrottando le sopracciglia « Ti ho già costretto a passare una notte orribile in questo posto orribile, non lascerò anche che tu muoia assiderato.» lo costrinse a porgerle un braccio, iniziando a sfregare le sue dita tra le proprie « Guardati. Hai due cubi di ghiaccio al posto delle mani.»

Tseng non rispose, sentendosi talmente rigido che per qualche istante temette di poter perdere completamente il controllo. Sentiva i capelli di Aerith contro le proprie guance, la sua schiena premuta contro il proprio petto, il suo profumo lo investì con tanta forza da soffocare quasi del tutto ogni altro odore sgradevole. Sapeva di lei, sapeva del suo essere sempre così bella e luminosa, sapeva del suo essere giovane e sempre nuova; lo spinse fino all’orlo del baratro, lasciandolo pericolosamente in bilico, disperato, smarrito, mentre tentava in tutti i modi di trovare un appiglio, un appiglio qualsiasi per non precipitare. Deglutì con difficoltà, tentando in tutti i modi di sciogliere i muscoli del collo – riuscì a poggiare la testa contro il muro, respirando a fondo, silenziosamente, la bocca sigillata. Aerith non aveva la più pallida idea di cosa avesse appena fatto.

« Ecco.» concluse lei soddisfatta, avvolgendo la mano di Tseng con la propria, lasciandola lì dov’era « Ora se vuoi potrei anche provare ad addormentarmi.» poggiò ancora la testa contro la sua gola, la sua fronte che gli sfiorava il mento « E dormirai anche tu. Se dovesse esserci qualche pericolo, ce ne accorgeremmo subito entrambi.»

Tseng dischiuse le palpebre, scrutandola con la coda dell’occhio. Quei familiari occhi verdi brillavano di soddisfazione e di trionfo, completamente ignari di tutto. Eppure bastò quello scorcio smeraldino di purezza a calmarlo – come un attimo di bonaccia, riuscì a rilassare appena i muscoli.

« L’importante è che tu lo faccia.» concluse, atono, mentre lei cercava una posizione più comoda « Domani andremo via di qui appena sorge l’alba.»

« Looo so.» cantileno lei, mentre chiudeva occhi, un leggero sorriso vittorioso che le illuminava le labbra. C’era del carbone che le macchiava una gota arrossata, ma Tseng non osò toccarla per rimuoverlo.

Ricorda, Comandante.

Ricordatelo.

Ricordati che non puoi averla.

E non appena lui la vide abbastanza immobile e silenziosa – quasi che i suoi tentativi di farla addormentare fossero andati a buon fine – lei sollevò un braccio e in un gesto fulmineo lo piegò intorno al suo collo, raggiungendogli la testa. Afferrò l’elastico che raccoglieva i suoi capelli lunghi sulla nuca, lo sfilò con un gesto rapido ed esperto; le ciocche ricaddero libere sulla spalla dell’uomo, lunghe onde di pece che si adagiarono morbidamente sulla camicia bianca.

« Oplà.» disse lei, vivacemente, ritirando la mano, spalancando ancora gli occhi « Sono finalmente riuscita a scioglierteli. E’ da una vita che ci provo.» giocherellò con l’elastico bianco, rigirandoselo tra le dita, rimirandolo con espressione fiera come se fosse una sorta di trofeo inestimabile.

« I tuoi capelli sono neri come sottili fili d’ombra. Come la notte. Sembra di affondare la mano in un liquido vellutato…come in un abisso senza fine.» arrotolò una ciocca intorno all’indice, sfiorando con il polpastrello il lobo del suo orecchio « Perché continui a legarli? Mi piacciono moltissimo.»

Ti voglio per me.

Il tocco delle dita di Aerith tra i suoi capelli era allo stesso tempo un veleno fatale ed un balsamo che lo cullava e gli mandava lenti e pigri brividi lungo tutto il corpo. Era piacere ed era tormento. Era il desiderio di abbracciarla e non lasciarla mai andare e di allontanarla il più possibile perché altrimenti non sarebbe più stato possibile trattenersi.

Vorrei.

Vorrei potertelo dire.

Tseng sopportò, desiderando che smettesse ed allo stesso tempo che continuasse all’infinito. Rimase immobile, ogni lembo del proprio corpo che toccava il suo bruciava e si disfaceva, continuava a mandargli segnali dolorosi e pulsazioni insopportabili.

Vorrei che fosse possibile.

« Li lascerò sciolti, d’ora in poi.» le promise, mentre i capelli neri gli scivolavano sulla fronte, intralciandogli appena la visuale; lei piegò appena la testa per guardarlo, passandogli una grossa ciocca dietro l’orecchio per fermarli:

« Lo faresti davvero?»

« Per me non c’è differenza.» Tseng scosse il capo, mentre sul volto di Aerith appariva un sorriso di soddisfazione: era appena riuscita a vedere realizzato un altro piccolo capriccio. Ed era insolito.

Sei l’unico su cui possa contare.

Conto su di te.

Le parole che avevano suggellato la sua promessa a Zack Fair lo rintronavano, rimbombando all’infinito come un monito, un avvertimento pieno di tensione e di fiducia. Si impose dei limiti, si trattenne anche quando sentì il bisogno disperato e lacerante di toccarla – non poteva tradire un giuramento, non poteva tradire l’onore, sé stesso, lei. Non poteva.

« Tseng…c’è una cosa che mi domando da un po’.» lo deconcentrò, introducendo un nuovo discorso. Lui la guardo in silenzio, in attesa, mentre lei continuava a giocare senza troppa attenzione con i suoi capelli scuri.

« Il tuo nome…» esitò appena, la voce impastata da un improvviso torpore «…non è quello vero.»

Tseng rimase sospeso qualche istante.

« No, non lo è.»

« Tseng mi è sempre suonato strano, sai? E’ come se celasse un segreto.» gli occhi si chiusero e si riaprirono, un brillare fantastico che ricordava il bagliore del Flusso Vitale « Posso sapere cosa significa?»

E per la prima volta dopo quasi dieci anni, Tseng prese un respiro profondo e riesumò un vecchio ed impolverato scrigno di argento ossidato. Vi infilò piano la chiave, timoroso, ascoltando il rumore della serratura che si apriva, temendo che tutti i segreti che vi aveva serbato tanto gelosamente fino ad allora potessero scivolare via da quella prigione fino a farlo impazzire.

Ma il coperchio scricchiolò appena, si dischiuse senza che lui provasse alcun dolore. Quando aprì bocca e decise che era pronto a risponderle, la voce gli risalì la gola con inaspettata naturalezza: tutti i tesori custoditi in quello scrigno si offrirono a lei, come se fin da quando vi erano stati rinchiusi avessero aspettato il suo arrivo per poter riemergere. Era ancora una sua magia bianca. L’incantesimo più terrificante e spaventoso di tutti, ed allo stesso tempo il più gratificante: lei gli leggeva dentro, lei non lo disprezzava, lei sapeva ascoltare.

Era come se tutto ciò che lo riguardava le fosse sempre appartenuto.

« Tempo fa esisteva un ragazzo a cui piaceva leggere poesie.» mormorò, guardando un punto indistinto davanti a sé « Suo padre possedeva una grande biblioteca ricca di volumi.» fece una pausa, socchiudendo appena le palpebre « Quel giovane era capace di passare ore ed ore ad esplorare gli scaffali ricolmi di libri, anche giornate intere, finché sua madre non accorreva a dirgli che era pronta la cena. Non c’era testo che non lo affascinasse.»

« E questo cosa c’entra con…?» azzardò lei, ma Tseng le passò un braccio intorno alle spalle, poggiandole l’indice teso contro le labbra – bastò a zittirla.

« C’era una poesia che lo aveva colpito in particolare.» continuò, la voce che diventava un sussurro « Ogni volta che la leggeva ne rimaneva sempre più stregato.» un sorriso debole e malinconico gli apparve sulla bocca « Gli capitava spesso di ripensarci, domandandosi strenuamente quale fosse il significato di quei versi. E nonostante tutti i suoi sforzi, non riusciva a comprendere. Non capiva perché lo inquietasse così tanto, né come fosse possibile che quelle poche parole assemblate così abilmente tra di loro potessero suscitargli un tale turbamento.»

Aerith lo guardò, la bocca dischiusa:

« Cosa diceva quella poesia?»

« Erano pochi versi.» continuò Tseng, tornando a poggiare la mano libera sul pavimento, le dita che le avevano sfiorato la bocca bruciavano « Raccontavano la morte lenta di un sole che, percorrendo lentamente la sua discesa verso l’estinzione completa, raggiungeva i picchi di un brillante e maestoso ghiacciaio. E nonostante continuasse a bruciare anche durante la sua estenuante eclissi, trasformando in polvere qualsiasi cosa incontrasse lungo la sua caduta, alla fine moriva senza essere riuscito in alcun modo a sciogliere il ghiaccio di quel monumento millenario eretto dall’inverno.» riprese fiato, silenziosamente « Nonostante fossero poche parole, avevano la capacità di immortalare quella scena d’agonia con tanta efficacia ed immediatezza che leggerla era esattamente come fissare un dipinto.» fece una lunga pausa, deglutendo, mordendosi il labbro inferiore, la bocca che si storceva appena « Tseng.» riprese « Tseng è una sigla. Il titolo di quella poesia riassunto in cinque lettere.»

Su di loro cadde un silenzio innaturale, le parole del Turk che si estinguevano lasciando un vuoto rimbombante. Era come liberarsi di un peso insopportabile, come lasciare scivolare via strati e strati di carbone e sporcizia accumulati negli anni, facendo scorrere l’acqua santa lungo la pelle. Aerith lo guardava, la sua bellissima dea dagli occhi verdi, se ne stava lì tra le sue braccia, così vicina ed irraggiungibile:

« E’ così bello.» commentò, una sorta di strana ed affascinata sorpresa che le illuminava lo sguardo « Non mi aspettavo nulla del genere.»

Tseng non aggiunse altro; abbassò lo sguardo, tentando in tutti i modi di non fare caso allo scorcio di pelle bianca che intravedeva tra i lembi di stoffa blu e rosa – si curò di oscurarli, tirando la giacca da una parte per fare in modo che avvolgesse completamente Aerith.

« Cosa ne è stato di quel ragazzo?» chiese ancora lei, incuriosita. Ma la risposta giunse subito, immediata e priva di esitazioni.

« E’ morto.»

« Oh.» la ragazza distolse gli occhi dal volto del Turk, spostando appena la testa contro la sua giugulare alla ricerca di una posizione più confortevole « E’ un vero peccato.»

Tseng asserì con un breve mugolio – avrebbe voluto poggiare la guancia sui capelli di lei, non sapeva con esattezza se il fatto che lei potesse sentire il battito irregolare del suo cuore o il suo respiro mozzo lo confortasse o lo mettesse in ulteriore agitazione. Poggiò la nuca contro la parete, sentendo i capelli sciolti che gli si insinuavano nel colletto della camicia, solleticandolo appena.

« Un vero peccato.»

La lampadina sfrigolava, mandando lampi irregolari – il vagone diventava a tratti buio come la notte, tutto il mondo che scompariva e appariva nuovamente dopo qualche istante. Le dita di Aerith abbandonarono i capelli di Tseng, stanche di giocare – l’uomo seguì quel gesto con gli occhi, senza sapere se rimpiangerlo o meno. Sentiva ancora il tocco tiepido della mano di Aerith sulla propria, non osava ritrarsi per timore che se lo avesse fatto, lei sarebbe improvvisamente svanita.

Ti prego.

Una voce gridava disperatamente dal suo interno, la sentiva forte e chiara, tanto affranta e supplichevole che riuscì quasi ad avere pena di sé stesso.

Ti prego, fai qualcosa. Anche se solo per poco, anche se è solo un’illusione, anche se dopo il solo pensiero ti farà soffrire il doppio.

Ti prego. Abbracciala. Tienila con te finché non arrivi domani.

Che diritto aveva di darle ascolto? Ancora una volta la prepotenza di un uomo senza onore?

Aerith sospirò, abbassando finalmente le palpebre; mosse ancora la testa, coprendosi la bocca con una mano a celare uno sbadiglio silenzioso:  

« Tseng… lo aiuterai, vero?» mormorò, la voce leggermente impastata dalla sonnolenza che inesorabilmente si impadroniva di lei « Lo aiuterai a tornare indietro?»

Lo sguardo di Tseng divenne vacuo.

Zack Fair. Lo giuro.

Saprò essere degno della tua fiducia.

La voce del dovere soffocò le altre, riducendole ad un sospiro, estinguendole definitivamente.

« Te lo prometto.»

Si vergognò di sé stesso, mentre la guardava sorridere appena, ringraziandolo, addormentarsi come se nulla sul Pianeta potesse minacciarla o farle del male, o farla soffrire.

Sapeva farle solo promesse che non era certo di poter mantenere.

Lo aveva fatto con le lettere, sentendo i sensi di colpa divorarlo ogni volta che   una nuova busta finiva nel cassetto della sua scrivania senza che sapesse come farle giungere al destinatario.

 

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Capitolo 6
*** Five; Facing himself in front of the fireplace • [ ν ] - εуλ 2007 (xxx) ***


Five; Facing himself in front of the fireplace • [ ν ] - εуλ 2007 (xxx)

The day he used a lie to say goodbye

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Pioveva a dirotto il giorno in cui Cissnei spense il suo PHS e svanì nel nulla.

Dispersa sul campo.

Quando Tseng lesse il rapporto ufficiale che era stato steso dopo la conclusione dell’ultima missione, le uniche tre parole che parlassero di lei lo gettarono in un silenzioso sconforto. Aveva disteso lentamente il foglio sulla propria scrivania, massaggiandosi lentamente la radice del naso – tentando di adattare il respiro al battito cardiaco agitato, aveva fatto scorrere le ruote della sua poltrona, alzandosi in piedi.

Quando convocò nel suo ufficio Reno e Rude che avevano lavorato con lei durante il suo ultimo incarico, si erano presentati solennemente davanti a lui mostrandogli espressioni cupe. Rude aveva le labbra contratte e le sopracciglia corrugate, i muscoli del viso tanto tesi che non ci sarebbe stato bisogno di guardarlo negli occhi nascosti per scorgere la preoccupazione che lo attanagliava. Reno teneva le mani in tasca e come suo solito non sembrava affatto turbato – ma quando aprì bocca, la sua voce aveva subìto una trasformazione inquietante. Era bassa, roca, un rantolo che gli risaliva la gola e fremeva, ogni parola suonava aggressiva e piena di rabbia.

« Ditemi la verità.» fissando Midgar attraverso la grande vetrata, la richiesta di Tseng fu perentoria e secca.

« Non ho la più pallida idea di cosa diavolo sia successo, capo.» il rosso parlò per primo « Io e Rude eravamo assieme in elicottero, Cissnei si spostava via terra, con la moto. Ad un tratto ha spento il PHS, l’auricolare è diventato muto ed il suo indicatore di posizione si è volatilizzato da qualunque radar.» sollevò una mano sfilandola dalla tasca, schioccò le dita « Sparita.»

Tseng abbassò appena lo sguardo, riuscendo a scorgere solo il proprio riflesso sbiadito sulla superficie trasparente. Quel giorno di Settembre aveva affidato ai suoi uomini una missione di recupero – era riuscito a dare inizio all’operazione senza troppe difficoltà, in segretezza. I registri catalogavano la missione come un semplice pattugliamento delle terre aride intorno a Midgar, dalle porte della città fino alla costa e Kalm; i registri formali lo confermavano, ma erano ben pochi coloro a cui era permesso toccare gli archivi del dipartimento degli Affari Interni e l’affidabilità dei documenti era provata dalla firma di Tseng posta in calce su ogni foglio. I segreti della Turk rimanevano nella Turk – e nessuno avrebbe mai sospettato di una banale pattugliamento.

Era stata un’infrazione grave, un tradimento rischioso, un deliberato occultamento ed una consapevole alterazione di informazioni – disubbidienze che normalmente avrebbero portato a gravi ripercussioni; tuttavia, quel giorno Tseng aveva osservato Cissnei, Reno  e Rude salire sull’elicottero senza pentirsi un solo istante degli ordini che aveva impartito. Dopo che per anni le sue parole erano state semplicemente giudici e proclamatrici di condanne capitali, questa volta avrebbero salvato un uomo innocente da una morte ingiusta.

Cissnei si era fermata un attimo prima di richiudere il portellone, ignorando il fracasso causato dalle pale ormai in funzione:

« Lascia fare a me, Tseng!» aveva urlato, gli occhi che brillavano di determinazione ed un sorriso sicuro e sereno sulle labbra, i capelli ormai corti che le turbinavano intorno al volto « Te lo riporterò vivo. Costi quel che costi!»

Il Comandante della Sezione Investigazioni aveva seguito l’elicottero con gli occhi, fissandolo mentre si sollevava dalla pista di decollo e si allontanava provocando un frastuono assordante, diventando d’un tratto il catalizzatore di tutte le sue speranze.

Ma.

Tseng deglutì appena, voltandosi lentamente verso i due colleghi. Nonostante tutti i suoi sforzi, la realtà era stata ben diversa.

« L’abbiamo persa poco dopo essere venuti a conoscenza del…» Rude si interruppe, cercando la giusta maniera di esprimersi «…fallimento del nostro incarico.»

Tseng annuì piano, avanzando verso di loro, le mani congiunte dietro la schiena:

« Capisco.»

« Probabilmente se l’è svignata.» commentò Reno, il gorgoglio teso della sua voce che diventava gradualmente più svogliato « Chi può dirlo? Era sola, aveva un mezzo veloce, all’improvviso ci ha lasciati soli sull’elicottero senza neppure dirci addio.» fece un gesto rapido con la mano aperta, come a scacciare degli insetti fastidiosi « Abbiamo perso le sue tracce e i rapporti confermano la sua scomparsa. Una fuga perfetta.»

« Dovremmo chiedere il supporto dell’esercito per condurre delle ricerche.» propose Rude, sovrastando le supposizioni vuote di Reno – il quale stranamente si zittì dopo un istante, mentre con un gesto svogliato infilava le dita tra le ciocche rosse eccessivamente lunghe.

« E’ quello che ho intenzione di fare.» Tseng gli diede subito ragione, sfilando il PHS dalla tasca destra dei pantaloni.

« Capo, pensaci un attimo.» riprese Reno, imperterrito, le dita che tentavano di sciogliere un groviglio di capelli rossi e sottili « Magari lei non vuole essere trovata. Lasciala perdere.» scosse il capo « Se è davvero filata via avrà avuto i suoi motivi.» fece una pausa prima di aggiungere, il tono di voce che si abbassava notevolmente « E se anche fosse scappata perché questo posto iniziava a farle schifo, scommetto che tu stesso le daresti ragione completamente.» si grattò la nuca, come se le cose che stava dicendo non fossero altro che informazioni gratuite e prive di qualsiasi peso « Certo, non lo ammetteresti mai apertamente.»

Perché in fin dei conti tu odi questo lavoro. Era la conclusione inespressa di tutto il suo discorso, aleggiò nell’aria come se Reno l’avesse urlata, un’accusa tanto veritiera che dopo una miriade di bugie fece male come un gancio nello stomaco.

Tseng lo studiò, aprendo il telefono. Reno ricambiò il suo sguardo senza farsene un problema, i suoi occhi verdi che non tradivano alcun turbamento, alcun fastidio, non lasciavano intendere niente di niente. Era preoccupato ed era incredibilmente bravo a non darlo a vedere, oppure, semplicemente, non gliene importava nulla?

« Reno.» Tseng sostenne il suo sguardo indecifrabile con occhiate altrettanto fredde « Non sono il genere di comandante che rimane impassibile quando un suo prezioso sottoposto sparisce nel nulla.» poggiò il cellulare all’orecchio « E in questi casi, la priorità per me è assicurarmi che i miei subordinati stiano bene.»

Reno liquidò la questione con un’alzata di spalle:

« Lo dici tu.»

Quando tuttavia Tseng parlò dell’operazione ad Heidegger, dopo che il PHS aveva squillato a vuoto in attesa di una risposta, la reazione dell’Sovrintendente della Sicurezza Pubblica fu decisamente diversa da quella che si era aspettato:

« Perché dovrei mobilitare l’esercito per una cosa simile?»

Tseng rimase in silenzio per qualche istante, le labbra dischiuse e gli occhi sbarrati:

« Signore, si tratta di un mio sottoposto.» spiegò, rispettoso, cercando di ignorare le smorfie infastidite che avevano iniziato ad apparire sulla bocca di Reno.

« Non ho intenzione di sprecare tempo prezioso.» aveva continuato Heidegger dall’altro capo del telefono, la voce che rimbombava metallica dal ricevitore « Il mio Dipartimento non se ne fa niente di elementi incompetenti o inutili, tantomeno si preoccupa quando un sottoposto scompare in missione. Se dovessimo condurre operazioni di ricerca per ogni soldato che perdiamo in battaglia, non la finiremmo più.» l’uomo rise sonoramente, come reagendo d’istinto ad una battuta di incredibile umorismo « Se la cosa ti sta molto a cuore, occupatene da solo, ma non ti permetterò di intralciare altre operazioni. Se vuoi l’esercito, aspetta al mese prossimo, e forse potrò concederti una scorta.» tirò su con il naso, schiarendosi la gola, rischiando quasi di soffocare con la sua stessa saliva « Ora lasciami lavorare.»

Quando Tseng chiuse il telefono, riponendolo in silenzio al suo posto, a Reno e Rude bastò guardarlo in faccia per comprendere quale fosse stato l’esito della chiamata.

« I nostri superiori ci amano.» commentò sarcastico il rosso, con tono fatalista prima di aggiungere, disattento « Niente di personale, capo.»

Tuttavia, tre giorni dopo, il PHS di Tseng squillò svegliandolo alle tre del mattino; e sebbene sullo schermo del telefono il numero risultasse sconosciuto, quando il Turk accettò la chiamata, la testa affondata stancamente nel cuscino, la voce che gli rispose suonava incredibilmente familiare.

« Tseng.» Cissnei pronunciò il suo nome soffocando le ultime due lettere, un rantolo basso che somigliava ad un singhiozzo o un affanno.

« Dove sei?» la domanda del Turk giunse prima di qualsiasi altra cosa, impaziente e tesa come se dalla risposta dipendesse tutto.

« La spiaggia, davanti a Midgar.» disse lei semplicemente « Tseng, vorrei vederti.» fece una pausa, il suo respiro sembrava irregolare, il vento sferzava con forza contro il ricevitore provocando un disturbo fastidioso « E’ possibile? So di non avere giustificazioni, forse avrei fatto meglio a non chiama…»

« Aspettami.» Tseng interruppe la chiamata senza farla finire, gettando da una parte il lenzuolo e mettendosi fulmineamente in piedi.

Entrò in una macchina di cui la ShinRa gli aveva dato le chiavi il giorno della sua promozione, indossando solo una camicia con il colletto sbottonato ed i pantaloni di un vecchio completo gessato che ormai non indossava più da tempo.

Quando raggiunse la costa, il cielo iniziava a rischiararsi, colorandosi lentamente dei colori accesi dell’alba. Si fermò solo quando vide una Nuova Hardy Daytona 840 parcheggiata al lato della strada, una moto di alta cilindrata che veniva fornita alle truppe della ShinRa per le missioni di pattuglia rapida o di inseguimento. Quando scese dall’auto, una brezza leggera fece frusciare il colletto aperto della camicia, mentre i capelli sciolti gli lambivano morbidamente gli zigomi e la fronte. La luce del sole nascente infuocava la superficie piatta del mare, fino all’orizzonte, mentre il vento leggero lo increspava appena. Cissnei era lì, seduta sulla sabbia a pochi metri dal bagnasciuga: aveva i piedi nudi e stringeva le gambe piegate contro il petto, mentre la giacca della divisa sgualcita giaceva sulla sabbia assieme alle scarpe con il tacco alto ed un involto di stoffa bianca. Quando Tseng la raggiunse, senza fare caso alle suole che scricchiolavano nella sabbia o ai granelli che si insinuavano all’interno delle scarpe, la piccola Turk non si mosse di un millimetro. Si limitò a salutarlo con voce fioca, continuando a scrutare il mare e la risacca incessante sulla riva.

« Ciao.» disse « Grazie per essere venuto.»

L’uomo la affiancò, rimanendo in piedi:

« Sai che non avrei potuto fare altrimenti.»

Cissnei ridacchiò appena, debolmente, muovendo la testa di lato:

« Sei davvero quel genere di capo che si affeziona ai suoi sottoposti, vero?» sembrava divertita dalla cosa, anche se normalmente lo avrebbe forse dimostrato in maniera più vivace « Ho visto anche Reno e Rude, poco fa.» aggiunse poco dopo, tornando seria « Non ho resistito. Volevo incontrare anche loro.»

« Volevo chiedere scusa per il mio comportamento. Reno mi ha detto che se non fossi stata una donna mi avrebbe probabilmente colpita. Non capivo se dicesse sul serio o se fosse uno dei suoi soliti scherzi.» si strinse maggiormente in sé stessa, nascondendo la bocca tra le ginocchia « Rude mi ha portato un ricambio di vestiti.» concluse, indicando il fagotto bianco « E’ stato gentile.»

Tseng annuì debolmente, spostando lo sguardo verso un punto indefinito della costa:

« Mh. Suppongo di sì.»

Passò qualche istante prima che lei si decidesse a riprendere; quando parlò la sua voce era tornata incerta, sottile, quasi un sussurro:

« Perdonami.»

Tseng continuò a guardare la linea sfuggevole che divideva il mare ed il cielo, segnando un confine di sfumature arancioni, rosa e rosse.

« Non è stata colpa tua.»

« Ho fallito.» l’ammissione di Cissnei risuonò distorta, segnò una crepa nella sua voce rendendola molto simile ad un singhiozzo trattenuto.

Zack Fair è morto.

Tseng socchiuse gli occhi, spostando lo sguardo verso il bagnasciuga:

« So cosa è successo. Le cose non sono andate come speravamo, ma non è dipeso da te.»

« Lo sapevi, non è vero?» il tono di Cissnei si rianimò appena – i due Turk mossero la testa all’unisono, finendo per scambiarsi vicendevolmente occhiate intense. Lo sguardo della ragazza era limpido, umido, le iridi erano due polle di acrilico castagna che si rimescolavano come in preda ad una tempesta. Aveva le guance aride e incavate, i bordi delle palpebre sembravano gonfi ed arrossati come dopo un lungo e silenzioso pianto; e anche ora la sua bocca era distorta, era piegata in una curva tanto affranta che Tseng sentì la sua tristezza penetrargli nelle ossa.

« Sapevi quanto tenevo a lui.» continuò lei « Per questo mi hai chiesto di aiutarlo. Sapevi che avrei fatto di tutto per salvargli la vita.»

Tseng non riuscì né a negare né a darle ragione. In realtà aveva semplicemente sperato che i suoi tentativi si rivelassero efficaci.

« Nessuno ti accusa per ciò che è accaduto.» non cercava di consolarla, né la compativa – era solo un modo come un altro per dirle come stavano le cose « Hai fatto ciò che potevi.»

Cissnei sospirò, tornando a nascondere il volto tra le ginocchia piegate:

« Sono davvero inutile.»

Tseng rimase in silenzio, mentre un’improvvisa fiammata di pietà e disprezzo iniziava a consumarlo dall’interno. Non compativa Cissnei, né Reno, né Rude che non erano riusciti a portare termine quell’incarico troppo importante – derideva la propria inadeguatezza.

Chi è il vero inutile, qui?

Dopo qualche istante, Cissnei sollevò ancora il capo, immettendo aria nei polmoni; chiuse e riaprì lentamente gli occhi, con la bocca chiusa, poi il suo sguardo si fece più deciso. Sistemò appena il colletto della camicia, tirando la cravatta sciolta che le pendeva informe ai lati del seno – la legò con gesti esperti, stringendola fino a quando non le lambì perfettamente il collo:

« Ho finito la benzina.» annunciò, mentre frugava nella tasca dei pantaloni alla ricerca di qualcosa « Non sapevo cos’altro fare, ma suppongo che ormai sia finito il tempo per piangersi addosso. Devo tornare alla base.» estrasse il suo telefono, aprendolo con un gesto rapido del polso « Riattivo il mio ID ed il segnale radar.»

No.

Tseng contrasse appena le labbra, poi le mostrò la mano aperta:

« Dammi il PHS.»

Cissnei spostò lo sguardo su di lui e sul suo palmo, interrompendosi poco prima di premere il tasto d’accensione del telefono; per qualche istante si limitò a studiarlo con un’espressione perplessa ed interrogativa negli occhi, forse si stava domandando quali potessero essere le intenzioni del suo misterioso comandante. Poi decise di obbedire e gli consegnò docilmente ciò che le aveva chiesto.

Tseng lo richiuse premendo le dita contro lo schermo, provocando uno schiocco metallico – se lo rigirò tra le mani, rimuovendo lo sportello che chiudeva lo scomparto in cui venivano inseriti la batteria e le schede di riconoscimento. Sfilò l’ID di Cissnei, una sottile piccola tessera di metallo su cui era inciso il simbolo della ShinRa, un chip di dimensioni ridotte che alla luce rifletteva mille colori, come il riverbero mutevole del gasolio. Lo sollevò tenendolo tra il pollice e l’indice, studiandolo contro lo sfondo dell’alba, sentendo lo sguardo dubbioso di Cissnei che non lo abbandonava un attimo ed ancora silenziosamente si chiedeva quali fossero le sue intenzioni. 

Il Turk schiacciò l’ID tra le dita, spezzandolo in due – i due frammenti scricchiolarono e sfrigolarono, caddero nella sabbia, ormai del tutto inutili.

Gli occhi liquidi di Cissnei si fecero enormi, le pupille che si rimpicciolivano fino a diventare due puntini invisibili nelle iridi castane:

« Ma, Tseng, che…!»

Il Comandante non fece una piega, limitandosi a riporre lo sportellino al proprio posto, richiudendo il reparto della batteria – le porse nuovamente il PHS, tenendolo stretto in mano:

« Ora prendilo e gettalo in mare.»

L’espressione di Cissnei, se possibile, divenne ancora più incredula:

« Cosa…?»

Il tono di Tseng si indurì, divenne basso e severo:

« E’ un ordine.»

« Ma, signore…»

« Cissnei.» esordì l’altro, assumendo un tono rigido « Secondo i rapporti ufficiali risulti dispersa e la ShinRa non è interessata a ritrovarti. Io testimonierò, mettendo per iscritto che Cissnei è morta oggi stesso.» la guardò, lanciandole un’occhiata gelida « Non sprecare questa occasione.»

Vattene, scappa.

Tu che ne hai la possibilità, sottraiti a questa prigione senza uscita.

Vivi come una donna e non come un’assassina.

Cissnei lo guardò con gli occhi sgranati per alcuni istanti prima di deglutire ed assumere un’espressione leggermente più decisa; allungò la mano verso il telefono che Tseng le porgeva, afferrandolo con forza. L’occhiata che gli rivolse prima di alzarsi in piedi fu ferma e determinata:

« Agli ordini, capo.»

Accettò l’aiuto di Tseng e si sollevò aggrappandosi al braccio del collega; poi avanzò a piedi nudi sulla sabbia, accelerando il passo – corse fino a quando l’acqua marina non le lambì le caviglie, bagnando i pantaloni della sua divisa ormai inutile e priva di significato.

E mentre lanciava il PHS verso quel mare infuocato dall’alba, un urlo le sgorgò dalla gola così forte e limpido che chiunque nel giro di un miglio avrebbe potuto udirlo. Sapeva di libertà.

 

Quando quel pomeriggio Tseng entrò nella chiesa, trovò Aerith distesa tra i suoi fiori. Se ne stava lì, sulla terra e nella polvere, i petali che le sfioravano il volto e la stoffa rosa dell’abito, guardava attraverso lo squarcio nel tetto che lasciava filtrare la luce dall’esterno.

La prima reazione fu di stupore e di una sorta di strana angoscia – la fioraia aveva sempre fermamente insistito sul fatto di non calpestare o rovinare i fiori, e gli aveva ricordato spesso di fare attenzione a non schiacciarli.

Ma prima che potesse accostarsi all’aiuola e accertarsi che lei stesse bene, la voce di Aerith lo immobilizzò:

« Sapevo che saresti arrivato.» esordì, mettendosi a sedere. Era finalmente riuscita ad ultimare anche la piccola giacca rossa – l’aveva sempre indossata orgogliosamente sul vestito lungo che si era cucita da sola, sin da quando gliel’aveva mostrata, subito dopo aver concluso l’ultima rifinitura.

Tseng la raggiunse silenziosamente, porgendole una mano quando arrivò ai margini dell’aiuola – fece attenzione a non calpestare i fiori. Aerith spostò lentamente lo sguardo verso di lui, accettando il suo aiuto poco dopo; si sollevò balzando fuori dall’aiuola,con cautela. I fiori su cui si era distesa si ripresero lentamente, gli steli elastici che tornavano alla loro posizione eretta originaria – alcuni petali bianchi erano piegati e scuriti, sembravano chiedere aiuto, fiaccati da una ferita invisibile.

« Vengo a trovarti tutti i giorni.» le fece notare, lasciando la sua mano, sentendosi stupido ed insignificante subito dopo aver finito di pronunciare quelle parole. Lei sorrise appena, battendo l’abito rosa, lasciando scivolare via i granelli di terra:

« Oggi è un giorno diverso.» sollevò gli occhi verso di lui « Mi devi dare una brutta notizia, vero?»

Tseng serrò le labbra, il fiato che gli si spegneva in gola. Aveva cercato in tutti i modi di trovare le giuste parole per comunicarle ciò che era successo, ma di colpo le vide volatilizzarsi, diventare polvere, lasciandolo bocconi e muto.

La reazione ed il silenzio di Tseng bastarono perché Aerith ottenesse le conferme che cercava – l’espressione le si spense, il sorriso che si affievoliva fino a svanire. Abbassò gli occhi, intrecciando le dita dietro la schiena:

« Non preoccuparti.» disse « Io…a volte mi rendo conto di ciò che succede al Pianeta. Riesco a sentire quando le persone tornano nel Flusso Vitale.» fece una pausa, fissando i propri stivali premuti contro il pavimento di legno « Quindi, insomma…» sorrise debolmente, quasi che fosse lui quello da confortare «…me lo aspettavo, un po’. Ero preparata.»

Tseng distolse lo sguardo, socchiudendo malinconicamente gli occhi:

« Mi dispiace.»

« No, no…» lei fece un cenno rapido con il capo, scuotendo una mano davanti al volto « Davvero. So che hai fatto tanto per lui, perciò, come dire…» era la prima volta che la vedeva così incerta, così instabile, così poco convinta di ciò che diceva «…sono sicura che lui te ne è grato, anche se…» fece una pausa, il tono che si sforzava ostinatamente di rimanere vivace «…ecco, io ti sono molto grata di tutto ciò che hai fatto.»

Cosa ho fatto?

Ho mai fatto qualcosa che potesse renderti felice, finora?

E le parole scivolarono via dalla bocca di Tseng senza che lui riuscisse a controllarle, gli ustionarono il palato e la lingua – avevano il sapore acido che lui conosceva fin troppo bene. Eppure furono le uniche che riuscì a dire, quelle che gli sembrarono le più adatte:

« Sono riuscito a dargli le tue lettere.»

Aerith spalancò gli occhi, interrompendosi nell’atto di dire qualcosa; rimase in silenzio per qualche istante, in bilico, sembrava tentare in tutti i modi di riordinare le idee. Quando infine parlò di nuovo, un barlume di speranza disegnava un increspatura tra le sopracciglia, sulla sua fronte liscia, un lusso che lei non si era mai concessa:

« Dici sul serio?»

Il Turk annuì piano, le mani che formicolavano, immobili lungo i fianchi. Non sapeva se lei ci avrebbe creduto o se si sarebbe accorta della sua menzogna, non aveva neppure la più pallida idea di quanto avrebbe potuto rincuorarla ciò che le stava dicendo. Tuttavia continuò con quella recita, sapendo di essere ormai troppo bravo a fingere perché lei potesse notare il leggero tremore che gli incrinava impercettibilmente la voce:

« Le ha lette tutte, fino all’ultima.» e aggiunse la frase più dolorosa di tutte, una pugnalata terribile che lo ferì in pieno petto « Mi ha detto di riferirti che…» indugiò appena «…anche lui ti ama.»

L’espressione di Aerith mutò velocemente, subendo dei cambiamenti rapidi, immediati. Batté le palpebre un paio di volte, con la bocca leggermente dischiusa, come in preda ad uno stupore sincero – poi la piega delle sue labbra curvò ed i suoi occhi divennero lucidi, mentre il suo volto così bello e sereno si scioglieva in un sorriso contenuto, a labbra strette; era silenzioso, era malinconicamente fantastico, era unico, sembrava raccontare una storia ed era in grado di rimpiazzare mille parole. Tristezza, angoscia, gentilezza, felicità, sollievo – un’ondata infinita di emozioni che si confondevano l’una nell’altra, combattendosi a vicenda, lasciando sospeso quel sorriso nel purgatorio dell’ambiguità.

E quel piccolo dono di gratitudine e dolore che sostituì le lacrime senza far alcun rumore, fu per Tseng l’ennesima sottile stilettata, l’ultima, la fatale, l’unica che grondando veleno dolcissimo gli trafisse il petto impedendo al cuore di continuare a battere.

Aerith lo raggiunse con passi lenti, fermandosi solo quando furono così vicini che lei fu costretta a sollevare lo sguardo per guardarlo negli occhi. E poi andò contro di lui, nascondendosi, insinuando le braccia sotto le sue per raggiungere la sua schiena ampia con le mani. Si aggrappò alla stoffa tesa sulle scapole, stringendolo forte, premendo il volto contro il suo petto – come se tutto ciò che gli chiedeva fosse solo di abbracciarla e di non andarsene, perché senza di lui non sarebbe riuscita a rimanere in piedi da sola.

« Grazie.» bisbigliò « Grazie per tutto ciò che hai fatto.» la sua voce sussurrata soffocò contro la stoffa della giacca blu « Sei la persona più gentile che io abbia mai conosciuto.»

Tseng trattenne il respiro, la sentì rabbrividire, ma lei non pianse mai. Ricambiò la sua stretta, dolcemente, le sue braccia che la avvolgevano completamente, una mano che le si insinuava appena tra i capelli tesi dietro l’orecchio. Poggiò la guancia contro la sua fronte tiepida, sentendo le ciocche castane che si mescolavano a quelle nere come la notte.

Rimasero l’una nelle braccia dell’altro a lungo, in silenzio, mentre le mani di Aerith tremavano contro le spalle del Turk, le unghie che gli pungevano appena la pelle. E Tseng la strinse, sebbene il sapore della menzogna lo tormentasse tanto da rovinare quell’istante che normalmente forse lo avrebbe reso felice.

Addio, Aerith.

Aveva lo strano sentore che alla fine di quell’abbraccio, ogni cosa sarebbe andata irrimediabilmente in frantumi; lei gli sarebbe sfuggita tra le dita e non ci sarebbe più stato modo di ritrovarla.

 

La verità si era rivelata una sera in maniera del tutto inaspettata, inattesa, scivolando via dalle labbra umide di alcol di Reno in un  bar fumoso e poco frequentato di Junon. Era passata inosservata come una qualsiasi sciocchezza inserita a caso in un discorso sconclusionato di fine giornata, si era dissolta e si era annidata in un angolo recondito della mente di Tseng senza riemergere fino a quella notte in cui si sedette davanti al fuoco, a bere in solitudine.

Aveva aperto il cassetto della sua scrivania, nel suo ufficio buio e silenzioso, senza fare caso alle luci bianche e fredde che si riflettevano attraverso il vetro sulle pareti ed i mobili, come piccole ed immobili lucciole di neon. Aveva riposto in quel nascondiglio una lettera dopo l’altra, piccole buste di carta colorata che si erano accumulate negli anni senza che lui trovasse modo di consegnarle nelle mani dell’uomo a cui erano state indirizzate – erano ancora lisce ed intonse, immacolate, non vi era scritta nessuna intestazione, non era indicato nessun mittente, si sentiva ancora lievemente l’aroma floreale di cui erano state  impregnate. Le aveva prese tra le dita, sentendole frusciare e scricchiolare, sentendosi inadatto ed indegno di toccare quei piccoli e fragili cimeli con cui lui, in fondo, non aveva mai avuto niente a che fare. Aveva cercato il proprio timbro ed aveva lasciato sciogliere la ceralacca nel fornello – aveva tirato il nastro blu che legava le missive, lasciando che si sparpagliassero disordinatamente sulla scrivania lucida. Aveva apposto il sigillo su ognuna di esse, ottantotto piccole buste mai aperte e che non sarebbero mai state lette da nessuno – e dopo averlo fatto, aveva richiuso il cassetto, le aveva nuovamente legate tra di loro, le aveva prese tra le dita ed aveva lasciato l’ufficio.

Si era chiuso nel suo appartamento e si era sfilato la giacca, ripiegandola accuratamente prima di poggiarla sullo schienale dritto di una sedia di mogano spesso. Aveva poggiato il piccolo mazzo di lettere sul tavolo, accostandosi subito dopo al vassoio su cui erano sistemati dei bicchieri di vetro ed una bottiglia di gin – versò il liquore fino all’orlo, aggiungendo distrattamente due cubetti di ghiaccio. Si era accostato alla libreria, ascoltando il leggero scoppiettare del fuoco nel caminetto acceso, mentre il riverbero intenso delle fiamme lasciava inquietanti spennellate sanguigne sul suo volto, sulle pareti, in ogni angolo del salone buio. Una rapida occhiata alle file ordinate di volumi era stata sufficiente: aveva sfilato il libro dalla copertina rigida, aprendo la prima pagina: il fiore bianco che Aerith gli aveva regalato era ancora lì, rinsecchito, ingiallito, sottile e fragile come un foglio di pergamena antica – lo aveva preso tra le dita rimuovendolo dal nascondiglio che lo aveva accolto e custodito per molti anni, sentendo in cuor suo che stava profanando un tesoro preziosissimo. Tornando al tavolo, aveva insinuato il gambo pressato del fiore di carta sotto il nastro blu che legava le lettere – sembrava tutto perfetto, ora, ottantotto meravigliose dichiarazioni d’amore che non sarebbero mai state lette ed un piccolo bocciolo che significava nulla e tutto, il simbolo rinsecchito di un amore che non sarebbe mai stato soddisfatto.

Si era accostato al camino, stringendo in una mano il bicchiere pieno d’alcol e nell’altra il paradossale connubio di due cuori traditi e follemente innamorati.

Tseng, tu credi nel destino?

Aveva fissato le fiamme a lungo, ingoiando lentamente piccoli sorsi di liquore, sentendolo sfrigolare sulla lingua e lungo la gola, un bruciore che lo infastidiva piacevolmente, facendogli dimenticare, anche se solo per brevi istanti, qualsiasi altra cosa.

E se fosse stato il destino a farci incontrare?

Era bastato un movimento rapido del braccio, come una condanna senza appello – le lettere si adagiarono tra le fiamme, sollevando piccoli lapilli ed una nuvola di cenere ardente. Il fiore bianco si dissolse immediatamente, in un battito di ciglia, venne divorato dal morso del fuoco e dopo un istante fu come se non fosse mai esistito.

Le bugie sono come una droga.

Seduto sulla poltrona, Tseng osservò l’esecuzione capitale di anni ed anni di speranze e promesse infondate, mentre il calore del fuoco e dell’alcol riuscivano ad estraniarlo dalla realtà – la sua espressione rimase immota, imperscrutabile, nei suoi occhi si rifletteva il bagliore amaranto del fuoco, cupe luci rosse che danzavano in un abisso d’oscurità. La ceralacca iniziò a colare, i timbri a disfarsi fino a diventare irriconoscibili.

L’ inconveniente è che dalla quarta in poi diventa impossibile tenere il conto.

Quanto tempo fa hai perso il conto?

Cos’era stata la sua vita fino a quel momento, se non un patetico susseguirsi di menzogne? Era mai riuscito a dire la verità, quando si era rivelato arduo affrontarla? Non aveva forse continuato a scappare fino a quando la realtà gli si era parata davanti, categorica ed immutabile, ferendolo con tanta violenza da distruggerlo definitivamente?

Il nastro di stoffa scura si sfilacciò, si accartocciò, divenne una piccola scultura di carbone, uno scherzo ritorto ed irregolare che cadde in pezzi e divenne cenere.

Ormai aveva senso continuare ad ingannarsi?

Credevi che le menzogne ti avrebbero aiutato a sentirti meglio?

Una voce femminile lo rimproverò in lontananza, un ricordo flebile che pensava di aver seppellito da tempo e che tuttavia ora tornava a biasimarlo, implacabile, spietato.

No.

Tseng portò il bicchiere alla bocca, premendo il vetro freddo contro le labbra bollenti. Ingoiò il liquore con una sorsata lunga.

Ho mentito solo perché lo ritenevo necessario ed inevitabile.

Tutto aveva avuto inizio con una bugia, e tutto sarebbe finito allo stesso modo.

Gli bastò chiudere gli occhi per vederla. Era lì, una ragazza bellissima dal volto luminoso che rifulgeva come una stella – indossava il suo grazioso vestito azzurro con i bordi di merletto, roteava su sé stessa, lo chiamava, sorrideva, gli chiedeva di raggiungerlo per vedere quanto erano diventati belli i fiori. I suoi occhi erano vivaci e accesi, due cristalli di Flusso Vitale in cui chiunque avrebbe solo trovato gentilezza, premure, una tranquillità assoluta. La raggiunse in un attimo, le carezzò una guancia con la mano, la sua pelle era tiepida e vellutata come era sempre stata, le sue gote erano leggermente arrossate, le sue labbra quel meraviglioso bocciolo di rosa umido di rugiada che lo aveva sempre fatto impazzire. La baciò tenendo il suo viso tra le mani, sentendo i suoi capelli che gli sfioravano le dita, sentendo la sua bocca contro la propria, sentendola morbida e perfetta, dolce come solo lei poteva essere. La baciò ancora e ancora, senza interrompersi neppure per respirare, sentendo la sua bocca che si adattava e a poco a poco lo ricambiava, sentendo il suo corpo sottile contro il proprio, il suo respiro corto sfiorargli le guance.

Ti amo.

Sentì il suo sapore sulla lingua senza stancarsene mai, mai, mai, fino a quando non fosse completamente impazzito. E quando poi fu costretto ad interrompere quel contatto per riempire i polmoni di aria – aria infuocata che lo consumava dall’interno – le braccia di lei erano strette intorno al suo collo, le loro fronti si toccavano e lei era sua, sua e di nessun altro. Vide il suo sguardo intenso colorarsi di una strana sfumatura, e la sua bocca ancora rossa e dischiusa che si incurvava in un sorriso tanto languido e tenero che si sentì morire. Perché anche lei lo amava.

Riaprì faticosamente gli occhi, il mondo reale che lentamente si sovrapponeva a qualsiasi altra cosa, cancellando tutto, lasciandolo nuovamente solo su quella poltrona di pelle nera. La stanza era silenziosa, era buia, era il rifugio ideale in cui abbandonarsi del tutto ad una resa incondizionata, senza che nessuno se ne accorgesse, come lui meritava. Le lettere non erano altro che cenere nelle fiamme, piccoli granelli grigi che non avevano più nessuna storia e sapevano solo di delusione e fallimenti. Un requiem tra le fiamme.

Tseng batté le palpebre, il danzare amorfo del fuoco che lo stregava e lo teneva fermamente legato alla cruda realtà.

Ti amo.

Quando richiuse gli occhi, vide solo un cupo bagliore rosso disegnarsi tristemente sulla parete interna delle palpebre abbassate. Lei era sparita definitivamente.

Non sarebbe più tornata.

Ti amo.

Ma non lo saprai mai.

 

Dopo lunga agonia

gli ultimi raggi tiepidi

morirono in silenzio,

il calore dell’ultimo sole che

giaceva nella sua tomba

di duro ghiaccio.

E dopo quel congedo,

ci fu solo inverno.



~ Fin

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