The Sun Eclipsed Near the Glacier di Frances (/viewuser.php?uid=50802)
Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.
Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologue; Memories of Autumn • [ μ ] - εуλ 1992 (xxx) ***
Capitolo 2: *** One; Watching the evening pass by • [ μ ] - εуλ 1994 (xxx) ***
Capitolo 3: *** Two; The church that became his hideout • [ μ ] - εуλ 1997 (xxx) ***
Capitolo 4: *** Three; The other man who saw her vision • [ ν ] - εуλ 2001 (xxx) ***
Capitolo 5: *** Four; The pink-dressed and her letters • [ ν ] - εуλ 2002/2003 (xxx) ***
Capitolo 6: *** Five; Facing himself in front of the fireplace • [ ν ] - εуλ 2007 (xxx) ***
Capitolo 1 *** Prologue; Memories of Autumn • [ μ ] - εуλ 1992 (xxx) ***
Prologue;
Memories of Autumn • [
μ ] - εуλ 1992
(xxx)
The day he met his curse and salvation
---
La verità
si era rivelata una sera in maniera del
tutto inaspettata, inattesa, scivolando via dalle labbra umide di alcol
di Reno
in un bar fumoso e poco frequentato di Junon. Era passata inosservata
come una
qualsiasi sciocchezza inserita a caso in un discorso sconclusionato di
fine
giornata, si era dissolta e si era annidata in un angolo recondito
della mente
di Tseng senza riemergere per molti anni. Aveva continuato
semplicemente a
sorseggiare distrattamente il proprio drink, leggendo dei fascicoli che
elencavano banali rapporti quotidiani.
Fu forse grazie al
liquore e alla disperazione che
riuscì a far riemergere quel ricordo poco importante, quasi
venti anni dopo,
quando si ritrovò costretto ad affrontare sé
stesso, seduto davanti al fuoco,
solo con le fiamme ed i suoi fantasmi.
Era una notte
qualsiasi, o forse la più terribile
che avesse mai trascorso in solitudine. Ingoiava amari sorsi di un
liquore
forte quasi quanto quello che era solito bere assieme a Reno, tentando
di
sopprimere un’irrefrenabile bisogno di rompere il bicchiere
sulla moquette
rossa. Mentre osservava la carta ripiegarsi su sé stessa,
fissando gli angoli
delle buste immacolate annerirsi e accartocciarsi in una rapida e
malinconica
danza di morte tra le fiamme del caminetto, rivide la scena come sulla
pellicola sbiadita di un vecchio film.
« Le bugie
sono come la droga. Racconti la prima
ripromettendoti di non compiere mai più lo stesso errore, ma
poi finisci
inevitabilmente vittima di un’assuefazione
completa.» le lunghe dita sottili di
Reno avevano iniziato rapidamente a chiudersi a pugno, ad una ad una,
in una
fatale ed inesorabile conta « La prima bugia è un
tentativo, la seconda è
ingenua, la terza necessaria. L’inconveniente è
che,» le ultime due dita
seguirono le prime tre all’unisono, interrompendo il ritmo,
mentre le labbra di
Reno assumevano una curva fatalista ed ironica al tempo stesso
« dalla quarta
in poi diventa impossibile tenere il conto.»
La sua voce era stata
soffocata dal tintinnio del
ghiaccio nel bicchiere, dal frusciare dei fogli tra le dita di Tseng,
da un
rintronante cupo blues che rimbombava da un vecchio jukebox in un
angolo del
locale, dal sommesso brusio che proveniva dai pochi tavoli occupati,
nella
penombra.
Anche se il tono con
cui furono pronunciate aveva
in qualche modo reso quell’argomento poco serio, - quel suo
continuo e
particolare modo di flettere la voce trasformava ogni discorso in una
cupa
presa in giro –, le sue erano state parole fondamentalmente
tristi. Tuttavia,
il giorno in cui vennero proferite subirono il destino che di solito
Tseng
riservava agli sproloqui di Reno: furono ascoltate di sfuggita e
deliberatamente ignorate.
La ceralacca rossa
iniziò a colare tra i tizzoni
ardenti, scivolando sulla carta e nella cenere come un inquietante
serpente di
sangue.
L’uomo che
li osservava morire in quel fuoco che
piano divorava quattro anni di speranze e preghiere, vide i sigilli
sciogliersi, mescolarsi alla carta annerita.
E fissando quasi
rapito il lento sgretolarsi di
quelle lettere mai spedite, quell’uomo comprese lentamente.
Reno era sempre stato
un individuo singolare. La
maggior parte delle volte che apriva la bocca si trattava solo di un
modo
rapido di far sfoggio delle proprie illimitate e spesso eccessive
abilità oratorie,
aprendo discorsi irritanti e privi di senso che non valeva la pena
neppure di
prendere in considerazione.
Quando tuttavia
ricordava di come il dono della
parola non servisse solo a lamentarsi, a imprecare o ad urlare, Reno
sapeva
essere un uomo saggio. Si trattava di una saggezza grezza e priva di
morale,
plasmata dall’esperienza e dalle sofferenze di una vita
sregolata trascorsa
senza agi nei bassifondi di Midgar. Lui era l’unico nel loro
mondo di assassini
che fosse in grado di vedere la realtà per quello che era,
che riuscisse a
comprenderne ogni sfaccettatura, ad accettarla senza tentare in alcun
modo di
sfuggirle. Aveva la capacità di assimilarla, di respirarla,
di farla sua,
adattandosi al marcio ed alla corruzione come se fossero piccole
imperfezioni
senza valore, gli elementi naturali dell’aria che respirava.
Continuava a
immettere aria nei polmoni come se niente fosse, accettava quel cancro
senza
farsene un problema e non se ne lamentava. Era l’unico in
grado di capire
quanto ribellarsi fosse inutile, quanto fosse privo di senso illudersi
che
prima o poi le cose sarebbero andate diversamente, per loro e per il
Pianeta.
In quel mondo insanguinato di
truffe,
ingiustizie e putridume dove tutti non facevano altro che fingere, lui
era uno
dei pochi che riuscisse a rappresentare il mondo con estremo e
impietoso realismo
– in quei casi, le sue parole diventavano preziose come
diamanti rari.
Tseng
ripensò a quel suo stupido discorso sulle
bugie, mentre nel fuoco vedeva bruciare anche gli strascichi di inutili
promesse mai mantenute. Era stato così cieco da non
accorgersi che quella sera
Reno gli aveva offerto uno dei diamanti più preziosi mai
visti. Come aveva
potuto gettarlo via come un qualsiasi quarzo senza valore?
Abbandonò
mollemente le spalle contro lo schienale
morbido di quella poltrona costosa di pelle nera, il bicchiere ormai
mezzo
vuoto tra le dita aperte a ragno. Il vetro rifletteva i riverberi del
fuoco,
mescolandoli ai brevi lampi che percorrevano il ghiaccio e le onde
liquide
dell’alcol. Si passò la mano libera sul volto, poi
afferrò i capelli all’attaccatura,
in un moto di silenziosa e mesta frustrazione.
C’era una
risata che faceva di tutto per
sgorgargli dalla gola, ma la trattenne. Si limitò a
digrignare i denti,
silenziosamente, e poi a tornare inespressivo, la mano che scivolava
composta
sul bracciolo lucido.
Cieco
e
illuso.
C’era stato
un tempo lontano in cui un ragazzo
come gli altri aveva indossato morbidi abiti di lino con le maniche
ricamate di
fili d’oro e decorate di gru dipinte a mano. Aveva sentito
l’odore dell’incenso
per le strade, il rumore dell’acqua sulle rocce e sotto i
ponti di legno
laccato, aveva sentito la consistenza morbida delle stuoie sotto i
piedi nudi.
Una notte di inverno
si era seduto accanto al
letto di morte di suo padre, mentre la neve cadeva sul Da-Chao, le
montagne e gli
alberi.
Forse fu quello il
giorno del suo primo tentativo,
del primo passo verso l’assuefazione, mentre il suo piccolo
mondo di pace si
tingeva di bianco e la vita di suo padre si spegneva.
« Andrai via
da qui, figlio mio.» aveva detto suo
padre, gli occhi gonfi e arrossati, la voce ridotta ad un sibilo mentre
i suoi
polmoni cercavano in tutti i modi di raccogliere l’aria
necessaria « La mia
amata patria è ormai troppo piccola e povera
perché tu possa condurvi la vita
che meriti.» gli aveva sfiorato faticosamente il braccio, le
dita bianche e
gelide « Queste sono le mie ultime volontà,
figlio. Sarò l’ultimo di questa
stirpe a depositare qui le proprie ceneri.»
Il
giovane lo aveva fissato
intensamente per lunghi istanti;
c’erano tante cose che avrebbe voluto dirgli, ma le occhiate
febbrili piene di
aspettativa di suo padre erano state in grado di imporgli il silenzio.
Aveva
abbassato appena gli occhi scuri, in un moto di mesta, rispettosa ed
impassibile ubbidienza.
«
Andrò, padre.» aveva risposto, annuendo piano.
Aveva visto uno stanco
sorriso apparire sulle
labbra esangui del suo amato padre.
« Ti
ringrazio. Sono fiero di te, figlio.»
Il giorno dopo aveva
sentito il pianto sommesso di
sua madre riecheggiare per tutta la casa ed aveva aperto il pannello
scorrevole
della sua stanza; seduto sui talloni sul legno del porticato, davanti
al
giardino di pietre ghiacciate di cui suo padre era sempre stato geloso,
aveva
osservato i fiocchi di neve cadere dal cielo per tutta la notte.
La ShinRa aveva raggiunto il suo universo incontaminato
qualche mese prima, cercando affari e accordi commerciali con la Pagoda. Gli
ambasciatori provenienti da sud promettevano benessere, lavoro e denaro
per
chiunque desiderasse cominciare una vita nuova.
Si recò a
incontrarli al termine dei riti funebri
tramite i quali le ceneri di suo padre avevano trovato riposo tra
quelle dei
suoi predecessori. Quando si era presentato alla Pagoda indossando gli
abiti
che portavano il sigillo della sua casata, il nome della sua stirpe era
bastato
a convincere gli inviati da Midgar. La sua famiglia era una delle
più celebri
di Wutai, e lui ne era l’ultimo erede maschio.
« La tua
presenza porterà onore ed enormi vantaggi
all’azienda.»
Gli avevano promesso
un posto tra gli enti
esecutivi della ShinRa, gli chiesero di presentarsi alla pagoda entro
una
settimana per ripartire verso Midgar, gli avevano offerto la mano
aperta per
suggellare il patto.
Il ragazzo li aveva
esaminati lentamente,
rispondendo ai loro sorrisi solo con silenziosi e freddi sguardi.
« Vi
ringrazio.» si inchinò appena, senza degnare
i loro palmi spalancati neppure di un’occhiata.
E poco prima di
partire con la
ShinRa, verso un mondo che
conosceva solo grazie ai racconti cupi degli esploratori, dopo aver
reso onore
alla tomba degli antenati con incensi di ciliegio, aveva ultimato i
preparativi
chiudendo i lucchetti dei suoi pesanti bauli antichi.
« Non sei
costretto ad andare, figlio.» sua madre
lo aveva implorato di rimanere con lei fino all’ultimo. La
notte prima della
partenza si era poggiata affranta allo stipite della porta scorrevole,
la sua
sagoma un po’ curva che si proiettava allungata sulle pareti
della stanza ormai
vuota.
« Questo
è ciò che voleva mio padre. Gli ho dato
la mia parola.» il giovane aveva risposto senza guardarla.
Lei era rimasta a
lungo in silenzio.
« Non ti
fermerò se questa è anche la tua
volontà.» si era infine arresa, la voce incrinata
e tremante « Ma se in realtà
non vuoi partire ed ami ancora la tua casa, rimani qui con me. Tuo
padre
capirebbe, ne sono certa. E’ giusto che tu sia libero di fare
ciò che
preferisci.»
Lui aveva chiuso gli
occhi, dischiudendo appena le
labbra.
Ho
dato
la mia parola, madre.
Come
potrei sopportare il disonore di mancare ad una tale promessa?
E’
il mio
dovere.
Sebbene il fiato gli
si mozzasse in gola aveva
trovato la forza di pronunciare le uniche parole che avrebbero
costretto sua
madre a lasciarlo andare. Le uniche che gli avrebbero permesso di
continuare ad
avanzare lungo il sentiero di devozione che aveva imboccato.
«
E’ ciò che voglio.»
Sua madre aveva
trattenuto il respiro, soffocando
un breve rantolo di dolore.
Il giorno della
partenza, quando lo aveva baciato
su entrambe le guance e lo aveva osservato mentre lasciava la casa che
non
avrebbe mai più rivisto, gli aveva rivolto uno strano
sguardo di accusa. Lui
lo aveva sentito su di sé anche dopo, quando non
fu più in grado di distinguere i tetti di Wutai tra gli
alberi.
Un addio amaro che gli
suggeriva un biasimo malinconico.
Pensi
che
tuo padre sarebbe fiero delle tue menzogne?
C’era stato
un giorno in cui il giovane di Wutai
aveva varcato la soglia di un mondo che non conosceva affatto. La prima
cosa
che notò, scendendo dall’auto che lo aveva
accompagnato davanti ai cancelli di
Midgar, fu che il cielo era uno specchio nero privo di stelle. Rimase
immobile
a fissarlo per lunghi istanti, stringendo tra le mani i manici duri dei
suoi
bauli da viaggio, in sottofondo i tonfi metallici provocati dagli
sportelli
della macchina che venivano aperti e richiusi. Cercò di
riconoscere le costellazioni,
tentò in tutti i modi di scorgere anche il minimo bagliore
in quella distesa di
pece – ma l’unica cosa che colse fu il vuoto, ed un
istante dopo si sentì
avvolto da un assoluto senso di disorientamento.
Il primo giorno lo
accolsero tra le mura di un
gigantesco palazzo di ferro e luci: il neon gli ferì gli
occhi, fu assordato e
confuso dalle voci di uomini di cui comprendeva a stento
l’accento. In molti
gli strinsero la mano senza che lui la offrisse, presentandosi
spontaneamente.
Sembravano tutti soddisfatti del suo arrivo, ma il giovane non si
illuse. Il
nome di suo padre correva su quelle bocche con troppa
rapidità perché quel loro
entusiasmo fosse disinteressato. Cercando di adattarsi alla situazione,
mostrava a tutti un cortese e silenzioso distacco.
La sera stessa gli
consegnarono la chiave di un
appartamento, informandolo che quella sarebbe stata la sua sistemazione
temporanea. Gli dissero che finché non fosse stato possibile
farlo alloggiare
direttamente al Quartier Generale, avrebbe dovuto cambiare alloggio
ogni quattro
giorni per questioni di sicurezza.
La prima casa era
situata al quinto piano di un
condominio a meno di due isolati dal Palazzo ShinRa. Era piccola e poco
accogliente, ma il giovane non ebbe nulla di cui lamentarsi: sapeva che
non
sarebbe servito a nulla. Si sedette sul bordo del materasso duro e
fissò il
vuoto a lungo, senza curarsi dei bauli ancora intatti. Le pareti erano
grigie e
anonime – non c’erano decorazioni di carta di riso,
né qualsiasi altra cosa.
Il secondo giorno
degli uomini in giacca e cravatta
bussarono alla sua porta: erano le cinque del mattino ma lo trovarono
sveglio –
non era riuscito a chiudere occhio. Gli consegnarono formalmente degli
abiti
avvolti in un sottile e leggero foglio bianco di carta velina,
dicendogli di
presentarsi al Quartier Generale alle sette in punto. Aprendo
l’involto,
distese sul suo letto intatto un completo blu scuro: sul taschino della
giacca
era ricamato il simbolo della ShinRa, un piccolo rombo perfettamente
simmetrico
che incorniciava il logo della compagnia.
Alle sette e mezzo del
secondo giorno, il giovane
incontrò il Presidente ShinRa. Si presentò nel
suo grande ufficio dell’ultimo
piano con addosso la sua nuova scomoda divisa, salutandolo con un
profondo
inchino formale. Il Presidente gli diede il benvenuto
nell’organizzazione di
intelligence della sua agenzia – un organismo che, a detta
sua, era composto
solo di persone da lui stesso ritenute meritevoli di enorme fiducia.
Sembrava
che quelle parole di circostanza volessero in qualche modo rendergli
noto
quanto fosse importante il servizio che il figlio di un grande
feudatario di
Wutai avrebbe svolto per la società. Ma per qualche motivo,
il giovane le udì
distorte e gli parve che si trattasse solo di un metodo velato per
tenere a bada
un potenziale pericolo.
« Sono molto
onorato.» fu la risposta a quelle
vuote lusinghe. Una bugia ingenua di tre parole.
E tuttavia sentiva
ancora la voce di sua madre sussurrargli
fredde accuse all’orecchio.
Chi
pensi
di ingannare con queste tue menzogne?
Il terzo giorno gli
diedero le chiavi del suo
secondo alloggio e gli mostrarono il cartellino che lo identificava
come
dipendente della ShinRa – sulla carta plastificata si leggeva
chiaramente Sezione investigazioni del
dipartimento
degli Affari Interni.
Il quarto giorno lo
accompagnarono nelle prigioni
del palazzo e gli mostrarono un prigioniero bendato, legato ad una
sedia nel
bel mezzo di una cella umida. Gli diedero una pistola e gli dissero
“spara”.
Il Turk tese il
braccio e fissò in silenzio l’uomo
imprigionato; il dito tremava sul grilletto e il calcio bollente
dell’arma gli
si conficcava nel palmo provocandogli un dolore lancinante. E prima di
obbedire,
poggiando la canna sulla fronte del prigioniero, vide le lacrime rigare
le sue guance,
mentre una bassa preghiera sommessa e singhiozzante gli sfuggiva dalle
labbra
secche. Quando il frastuono dello sparo gli inibì
l’udito, estraniandolo da
qualsiasi cosa su quel Pianeta, il Turk riuscì a non pensare
a quanto quella nenia
gli fosse sembrata simile ad uno dei sutra di Wutai.
Si abituò
difficilmente all’odore dello smog per
strada, al frastuono che la inondava da mattina a sera, alle luci
abbaglianti,
al pavimento ruvido degli uffici e dell’asfalto.
All’inizio non riuscì a
chiudere occhio, ma alla fine le sue abitudini cedettero e si
modificarono – il
letto duro della sua stanza diventò una
necessità, così come il caffè amaro
dei
distributori in ufficio, o il colletto stretto e asfissiante di quella
giacca
blu inamidata. Le notti insonni terminarono, complici le intense
giornate di
lavoro.
L’unica cosa
a cui non riuscì mai ad assuefarsi,
per quanto si sforzasse, fu premere il grilletto. Quando al mattino gli
bastava
una leggera pressione dell’indice sul metallo freddo per
spezzare la vita di un
uomo, gli incubi che gli impedivano il sonno tornavano sempre, ogni
notte, a
volte per mesi.
E poi venne la guerra.
Se ne accorse una
mattina qualsiasi, sfogliando
dei mandati di arresto e di perquisizione. Uno dei fascicoli fissava il
primo
bombardamento su Wutai alle ore otto del mattino, in data otto agosto.
Sembrava
uno scherzo o un errore che uno dei Turk lo venisse a sapere a quel
modo – il
giovane rilesse quella dichiarazione di guerra più di dieci
volte, stringendo
forte tra le dita il foglio bianco che portava la firma del Presidente
ShinRa.
Quella sera stessa
chiese udienza al Presidente.
Si presentò davanti alla sua scrivania contando i passi
lungo le scale, i pugni
stretti in una morsa nel tentativo estremo di mantenere il controllo.
Si presentò
di fronte a quell’uomo per conoscere
il perché di quella guerra e ottenne in risposta solo uno
sguardo di irritata
sufficienza.
« Per quale
motivo un semplice Turk dovrebbe
contestare le decisioni dei suoi superiori?» il Presidente si
era alzato in
piedi, sbattendo le mani contro la scrivania.
« Wutai
è la mia terra.» fu la giustificazione
semplice e sincera che giunse in risposta
« Wutai
è un’isola maledetta popolata di sciocchi
ipocriti. Abbiamo tentato di trovare un accordo con loro, ma la loro
ostinazione
e i loro dogmi obsoleti di orgoglio e dovere ce lo hanno
impedito.» le parole
del Presidente lo ferirono come pugnali affilati « Ora
è tempo che Wutai riceva
ciò che si merita.»
Il giovane
deglutì, i principi in cui aveva sempre
creduto che si sgretolavano improvvisamente ad ogni parola,
frantumandosi in
mille pezzi ai suoi pedi come gingilli di vetro privi di valore. Il
presidente
li aveva scherniti e denigrati fino a disintegrarli nel nulla.
« Posso
aiutarvi. Lasciatemi il comando delle
contrattazioni e datemi la possibilità di
provare.» fu l’ultimo tentativo
disperato « Ritirate la dichiarazione di guerra.»
Gli occhi del
presidente si erano immediatamente
accesi di rabbia:
« I Turk
obbediscono. L’obbedienza è l’unica cosa
che viene chiesta loro in cambio di uno stipendio che chiunque sul
Pianeta
invidierebbe, e tu – chi credi di essere tu,
per osare anche solo venire qui al mio cospetto per
rivolgermi una domanda
del genere?» il Presidente si era riseduto lentamente,
rivolgendogli un gesto
stizzito della mano, quasi dimenticandosi della sua presenza
« Sei congedato.»
La notte del sette
agosto, il fracasso degli
elicotteri e dei bombardieri che si alzavano in volo
dall’aeroporto della
ShinRa non gli fece chiudere occhio. Il suo decimo appartamento era
più
spazioso dei precedenti, si trovava molto più vicino al
Quartier Generale di
qualsiasi altro avesse occupato. Affacciandosi alla finestra della sua
stanza
avrebbe facilmente potuto assistere alla processione militare che si
alzava in
volo in una cupa promessa di morte e rovina.
Abbassò le
persiane e si chiuse a chiave nel
bagno; si accasciò sul lavandino, rimettendo bile e acido
dallo stomaco vuoto.
Il rombare dei motori che si allontanavano giungeva attutito attraverso
le
sottili pareti di prefabbricato, ma lo assordarono e lo tormentarono
fino a
fargli quasi esplodere la testa dal dolore.
Quando alzò
gli occhi e si guardò allo specchio,
l’immagine riflessa gli mostrò un uomo in lacrime.
A cosa servivano la
giustizia e l’orgoglio, ormai?
Avrebbero fermato quella follia? Avrebbero lavato le sue mani
imbrattate dal
sangue degli uomini che aveva ucciso?
A
cosa
serve l’onore, se sono costretto a insozzarlo perseguendo dei
valori in cui non
credo?
I polpastrelli premuti
contro il vetro, il giovane
di Wutai poggiò la fronte contro la superficie fredda,
digrignando i denti, le
lacrime che colavano senza tregua fino al mento appuntito.
E battendo i pugni
contro la sua immagine riflessa,
il Turk si sentì un traditore. Non era forse lontano dalla
sua gente che sarebbe
morta? Non si rendeva conto di quanto quelle sue lacrime fossero
inutili?
Che
valore ha il mio giuramento, padre?
Quante
persone sono già morte a causa mia? Quante ne moriranno
ancora?
Continuando a fissare
l’uomo nello specchio,
studiando le sue guance salate ed incavate, il suo sguardo vacuo ed il
sudore
che gli imperlava la fronte e gli inumidiva i capelli, il Turk
impugnò la
pistola. Aveva abbandonato la terra di suo padre, offrendosi
ingenuamente come
prigioniero politico. Si era votato ad una vita fantasma, spingendo il
proprio
ego fino all’annullamento. E non poteva scappare: poteva solo
rimpiangere e
urlare, mentre iniziava la distruzione di ogni cosa avesse amato. Ora
che il
suo onore era andato in frantumi, a cosa serviva vivere?
Poggiò la
canna sulla propria tempia, il dito che
per la prima volta non fremeva nel toccare il grilletto.
Quante
vite ho strappato in nome dell’onore?
Secondo
quale diritto ho ucciso?
Solo
chi
è pronto a morire possiede quel diritto.
Chiuse gli occhi, il
ronzio degli aerei che
spariva lentamente.
La molla
scattò a vuoto. Non c’erano più
proiettili.
Neppure la morte gli
era più concessa.
Quando il giorno dopo
si guardò allo specchio, la
luce dei suoi occhi era diversa. Quando sorse l’alba
dell’otto agosto, il
ragazzo di Wutai non esisteva più. Non esistevano
più legami di sangue, né
abiti ricamati di seta, né la nostalgia di un mondo che
probabilmente in quello
stesso istante stava già bruciando.
Ora c’era un
uomo che avrebbe condotto la vita che
aveva scelto in silenzio, come in un eterno cammino di espiazione.
Si legò la
cravatta come ogni mattina, pettinando
all’indietro i capelli che iniziavano a diventare troppo
lunghi. Infilò il
caricatore nella pistola, ignorando la fitta ragnatela di crepe che
deturpava
lo specchio.
E firmando il primo
rapporto con il suo nuovo nome
fittizio – il nome di quell’uomo nato dalle lacrime
– impugnando un’elegante
stilografica nera, si fece silenziosamente una promessa ingenua.
Ho
abbandonato tutto per questa vita. Non è forse giusto che vi
dedichi tutto me
stesso?
Pose il sigillo della
ShinRa sulle ultime due
lettere della sua firma ancora acerba.
E’
ciò
che merito.
Era l’otto
agosto quando iniziò la lenta disfatta
di Wutai.
Era l’otto
agosto quando nacque Tseng.
Quando gli furono
consegnate le chiavi del
sedicesimo o forse diciottesimo appartamento,
Tseng iniziò ad occuparsi dei
sondaggi per la SOLDIER. Era incredibile
la quantità di candidati che si presentavano
ogni giorno alle porte del Quartier Generale, chiedendo di essere
ammessi tra
le schiere dell’esercito d’elite.
Il ruolo dei Turk, in
quel caso – uno dei compiti ufficiali
della Sezione Investigazioni –
era sottoporre i candidati a sondaggi e prove sia fisiche che
psicologiche in
modo da verificare che fossero idonei o meno alla procedura di
trasformazione
in SOLDIER. Tseng aveva svolto il suo dovere con estrema
professionalità fin
dal primo colloquio, prendendo appunti in silenzio, ascoltando e
registrando
ogni parola. La maggior parte dei volontari erano ingenui precari che
speravano
di cambiare vita – incantati dalle promesse elargite dagli
sponsor ShinRa o dal
sogno di gloria proposto dagli eroi SOLDIER come Sephiroth –
ma erano pochi
quelli ad avere i requisiti adatti. Ogni volta che si sedevano davanti
a lui,
tesi ed impazienti come se da quell’incontro dipendesse la
loro vita, Tseng non
riusciva a fermare quel muto flusso di coscienza che gli scorreva nella
testa,
in sottofondo – Poveri sciocchi avventati, non hanno idea di che
inferno li attenda. E nonostante ciò continuava a
lavorare, ponendo i
sigilli e la propria firma quando i test risultavano positivi. Quando
doveva congedare
i volontari non adatti, li osservava andarsene senza mostrare loro
alcuna
espressione, anche se spesso era costretto ad assistere impassibile
anche alla
loro delusione disperata.
A Midgar non era
facile distinguere le stagioni,
ma il calendario segnava l’inizio dell’autunno. Non
c’erano alberi spogli né
foglie secche per le strade e la cappa di smog ed inquinamento
manteneva la
temperatura costante – un caldo umido spesso soffocante che
si attenuava solo
durante le rare nevicate invernali.
In quel periodo il suo
lavoro si limitava
semplicemente nell’incontrare la gente, nel raccogliere
informazioni utili, nel
timbrare e contrassegnare biglietti di non ritorno verso il mondo
SOLDIER.
Ed era
una sera autunnale quando Tseng
vide il nome di un uomo non idoneo
stampato su uno di quei biglietti.
Se ne
accorse all’istante, sfogliando
le cartelle degli arruolamenti. Esaminò il fascicolo
leggendo ogni paragrafo
con attenzione: a giudicare dai risultati del sondaggio, si trattava di
un uomo
molto forte fisicamente, che tuttavia presentava delle debolezze minime
e dei trascurabili disturbi di natura
psichiatrica. Per quale motivo vi era stato apposto il sigillo? Una
svista? Un
errore di un collega?
Abbandonò
la cartella sul tavolo della
stanza degli archivi, dirigendosi a grandi passi verso
l’ascensore. Svista o
errore che fosse, solo una cosa era certa: quell’uomo non
avrebbe probabilmente
sopportato il trattamento.
Aspettò
di arrivare al cinquantesimo piano
fissando i numeri che crescevano rapidamente sul monitor a cristalli
liquidi – 44, 45, 46 – mentre
oltre i vetri
dell’ascensore i palazzi squallidi di Midgar si
rimpicciolivano e diventavano
in fretta insignificanti sotto i suoi piedi, a mano a mano che saliva. Quando le porte scorrevoli si
aprirono, accelerò il passo, dirigendosi verso il
laboratorio dove si
svolgevano le esposizioni Mako degli agenti SOLDIER.
Probabilmente,
in quegli attimi che
erano intercorsi tra la scoperta di quell’errore di
valutazione e la rapida
salita verso il laboratorio, Tseng era riuscito in qualche modo ad
illudersi di
poter salvare una vita – dopo che per molto tempo non aveva
fatto altro che
distruggerne.
Ma quando
gli infermieri lo portarono
davanti al letto del paziente 34, ogni sua speranza si dissolse
all’istante.
Si
avvicinò lentamente, ogni passo che
diventava più pesante e difficoltoso come in una corsa
disperata nel fango; e
quando si fermò, accartocciando tra le dita il fascicolo che
lo aveva condotto
fin lì, incontrò lo sguardo vitreo di un uomo
morto.
Aveva il
fisico imponente di un
minatore, ma il volto incavato raccontava un’altra storia.
Sembrava essere
dimagrito improvvisamente, all’istante, quasi che la sostanza
gli fosse stata
aspirata via dalle carni in un colpo solo. I bulbi oculari
sprofondavano nelle
orbite scure come in due profondi crateri vuoti, i capelli erano radi,
bianchi
come quelli di un vecchio. Giaceva lì, respirando a fatica,
muovendo gli occhi ciechi
che sembravano posarsi su ogni cosa senza tuttavia vedere nulla.
Tseng
studiò quegli occhi a lungo,
prima che l’uomo si accorgesse di lui; e fu osservando i
pigmenti castani delle
iridi che si rimescolavano disordinatamente al liquido verde del Mako
– una
macchia densa che si irradiava dalla pupilla come l’olio su
di uno specchio
d’acqua – che comprese di non poter fare nulla.
E’ troppo tardi.
Dopo
qualche istante, quando quegli
occhi innaturalmente bicromi si fissarono su di lui e riuscirono a
metterlo a
fuoco, l’espressione dell’uomo sembrò
rianimarsi; la voce sibilò tra le sue
labbra violacee in un basso rantolo:
«
Lei è uno dei Turk, non è vero?
Riconosco la divisa.» il silenzioso annuire di Tseng fece in
modo che su quel
volto tirato apparisse un grande sorriso « E’
grazie a voi che sono qui, vi
sono molto grato.» si era fermato un attimo a riprendere
fiato « Quando sarò
SOLDIER la mia vita cambierà! Potrò permettermi
un casa più grande e potrò
prendermi cura dei miei figli e di mia moglie…mi stanno
aspettando a Corel…»
tossì forte «…non sapevo
cos’altro fare. Quando sarò SOLDIER ci
trasferiremo
qui e loro vivranno la vita che meritano…»
Tseng
corrugò appena la fronte,
annuendo in risposta. Non riusciva a dire nient’altro e
sapeva bene che
qualsiasi cosa sarebbe comunque stata inutile. Di colpo
l’uomo si irrigidì, gli
occhi che si offuscavano nuovamente; proseguì a bassa voce,
balbettando, lo
sguardo che si perdeva ancora in universi che non poteva vedere.
«
Però è dura, signore. Mi hanno detto
che è normale che abbia così freddo, dopotutto
sono solo alla prima
esposizione…» tossì ancora,
più forte di prima, il tono di voce che sfumava
dalla lucidità febbrile al delirio «…ma
io ho davvero troppo freddo,
signore. E non sento le gambe, e fa male, e gli
occhi bruciano.» si voltò nuovamente a guardarlo
« Ma è normale, non è così?
Alla prossima esposizione si sistemerà tutto, mi
abituerò, e sarò un SOLDIER,
si?»
Tseng
restituì lo sguardo,
osservandolo mentre farneticava su quelle lenzuola bianche e accecanti
che
sarebbero probabilmente state il suo letto di morte. E respirando
piano, dischiuse le labbra:
«
Si.» annuì ancora, lentamente « Non
si preoccupi. Andrà tutto bene.»
Dopo un
istante di silenzio, l’uomo abbandonò
la testa quasi calva sul cuscino, gli occhi che si riducevano in
fessure:
«
Grazie di tutto, signore.» la sua
espressione si fece di colpo serena « Grazie di
cuore.»
Tseng si
allontanò in silenzio, l’eco
delle proprie parole che lo tormentava fino quasi a portarlo alla
follia, come
una maledizione.
Alcuni
giorni dopo, tenendo in mano il
manico della sua ventiquattro ore nera, Tseng si fermò
davanti alle porte
chiuse dell’ascensore al cinquantanovesimo piano.
Abbassò lo sguardo,
sentendosi strattonare debolmente i pantaloni – una bambina
stringeva nel pugno
bianco e piccolo le pieghe blu della sua divisa. La studiò
in silenzio,
ricambiando il suo sguardo luminoso con brevi e pacate occhiate
interrogative.
La
bambina indossava un camice bianco
da laboratorio, aveva i capelli raccolti in una corta treccia castana e
due
grandi occhi espressivi che brillavano di un verde acceso.
Se ne
stava lì, immobile, a piedi nudi
sul pavimento lucido, lo guardava con tanta intensità che
Tseng pensò per un
istante che con quegli occhi lei potesse leggere qualsiasi suo segreto.
E poi le
labbra rosa e carnose della
bambina si mossero:
«
Non essere triste, signore.»
Alcune
ore dopo, Tseng si recò
nuovamente al cinquantesimo piano, le parole della bambina non gli
davano
tregua. E quando lo fecero entrare nell’infermeria, vide che
il letto numero 34
era vuoto, intatto come se nessuno lo avesse occupato per anni.
Gli
infermieri gli si accostarono
scuotendo il capo e gli sussurrarono “Intossicazione
da Mako. Stadio terminale.”
L’uomo
di Corel era morto.
Fissando le lenzuola
pulite, Tseng sentì
distintamente la voce di una donna sussurrargli fredde accuse
all’orecchio.
A
cosa
pensi siano servite le tue menzogne?
(xxx)
|
Ritorna all'indice
Capitolo 2 *** One; Watching the evening pass by • [ μ ] - εуλ 1994 (xxx) ***
One; • Watching the evening pass by [ μ
] - εуλ
1994 (xxx)
The day he found
the little girl on the swing
---
Era una mattina
nuvolosa di metà inverno quando i
vetri delle finestre si ricoprirono di brina e la neve
iniziò a cadere.
Stringendo
tra le dita una cartella rigida su cui erano appuntati alcuni fogli,
Tseng
sollevò appena lo sguardo verso Rude.
«
Di cosa si
tratta?»
L’uomo
che
si ergeva davanti a lui, superandolo in altezza di un paio di spanne,
aveva la
pelle scura e indossava degli eleganti occhiali da sole: non parlava
mai molto,
ma sapeva essere molto efficiente in qualsiasi incarico gli
affidassero. Tseng
lo apprezzava perché sembrava affrontare il lavoro con il
suo stesso spirito:
non faceva mai domande scomode, né tendeva ad impicciarsi
nei fatti altrui –
una virtù che si era rivelata molto rara tra gli impiegati
della ShinRa. Anche
i silenzi che spesso cadevano tra loro due quando si ritrovavano a
condividere
un incarico non si rivelavano essere né pesanti
né fastidiosi: Tseng li
interpretava come una sorta di pacato e reciproco rispetto, un
disinteresse
discreto che poteva trasformarsi in un etere benefico nei momenti di
maggior
difficoltà.
«
Un lavoro per
conto della Sezione Scientifica.» Rude diede le necessarie
spiegazioni
mantenendo il suo solito cipiglio severo « Ci lasciano
autonomia organizzativa,
ma vogliono che sia portato a termine entro la fine del mese.»
Tseng
annuì
dopo un attimo, incrinando un lugubre silenzio carico di significato:
«
Capisco.»
quando gli altri organismi operativi della ShinRa cercavano in tutti i
modi di
liberarsi di qualsiasi responsabilità poteva significare due
sole cose: o si
trattava di operazioni ben oltre la soglia del top
secret, o si trattava di un assassinio. E
nell’ultimo caso, per
gli esecutivi non esistevano mercenari più affidabili dei
Turks.
Iniziò
ad
esaminare il caso sotto gli occhi del collega, senza farsi distrarre
dal ronzio
del neon in sottofondo, o dai passi lontani delle impiegate che
avanzavano
lungo i corridoi con i tacchi alti. Sfogliò le pagine
dandovi rapide occhiate,
registrando le informazioni fondamentali. Aveva sempre avuto delle doti
mnemoniche molto sviluppate: la chiamavano memoria
fotografica – il suo cervello immagazzinava ogni
piccola informazione,
impressionandola nella sua memoria come un’ istantanea a
colori. Una capacità
che poteva rivelarsi estremamente utile in certi frangenti, ma che a
volte lo
aveva costretto a sporcarsi ulteriormente le mani.
Cetra --- Flusso Vitale --- Ifalna ---
Tseng
lesse
il mandato di quella nuova missione focalizzando l’attenzione
sulle parole
chiave, individuando un nome, Aerith
Gainsborough. E infine voltò l’ultima
pagina, fissando a lungo la piccola
foto quadrata che immortalava il volto inespressivo e rotondo
dell’obbiettivo.
Una bambina.
Raggelò,
mentre
le dita si serravano sul bordo della cartella con tanta forza che un
minimo
movimento avrebbe potuto spaccarla. Alzò ancora la testa,
cercando lo sguardo
del suo collega, come alla ricerca di qualche conferma:
l’uomo gli restituì
l’occhiata, corrugando profondamente le sopracciglia.
«
Non è come
pensi.» Rude scosse il capo « Dobbiamo trovarla e
consegnarla al laboratorio.»
La presa
di
Tseng sulla cartella si allentò:
«
Capisco.»
non tirò alcun respiro di sollievo, ma sentì il
petto rilassarsi gradualmente. Percepì
il peso di quell’incarico piombargli sulle spalle, come
sempre succedeva quando
arrivavano nuovi ordini – si chiese brevemente quale fosse la
differenza tra
uccidere una persona e consegnarla al laboratorio e dopo qualche
istante,
socchiudendo tristemente le palpebre, concluse che, a lungo andare, le
due cose
avrebbero probabilmente coinciso.
Tornò
con
gli occhi alla piccola foto, fissandola brevemente prima di consegnare
il
fascicolo nuovamente tra le mani di Rude. La sua memoria fotografica lo
accecava con rapidi lampi di luce e frammenti di vetro colorato,
componendo un
mosaico pieno di sfaccettature e brevi sprazzi di passato. Aveva la
certezza
matematica ed inspiegabile di aver già incontrato quella
bambina.
L’uomo
con
gli occhiali sfilò la foto dalla cartella, studiandola:
«
Saresti in
grado di riconoscerla?»
Tseng gli
rivolse un’occhiata bieca, mentre spostava appena la manica
della giacca per
scoprire l’orologio:
«
Con chi
pensi di avere a che fare?»
Rude
grugnì
con tono grave in risposta.
«
Bene.»
Le dieci e quarantuno. Le lancette
nere ed appuntite si erano appena spostate sul quadrante dorato nel
cogliere lo
scoccare dell’ennesimo minuto della giornata; Tseng
seguì con poco interesse i
primi due scatti che scandivano l’inizio di un nuovo giro.
Nascondendo il polso
sotto la stoffa della camicia, esaminò mentalmente le
informazioni che aveva
appena raccolto: lesse di un quartiere diroccato nel Settore 5, poco
lontano
dalle mura di confine che lo dividevano da Wall Market. Avrebbe
facilmente
portato a termine i preparativi per scendere nei bassifondi nel giro di
tre
quarti d’ora – e con un po’ di fortuna,
avrebbe concluso la missione con largo
anticipo.
«
Mi
occuperò io di prelevarla, tu limitati a stendere il
rapporto.» concluse,
sistemando svogliatamente i gemelli nelle maniche « Puoi
informare Heidegger
che mi recherò nei bassifondi del Settore 5 questa sera
stessa.»
Rude
annuì:
«
Hai
bisogno di una scorta?»
Tseng
scosse
il capo, voltandogli le spalle:
«
Non credo
sia opportuno, ma due unità basteranno.»
sospirò silenziosamente nel fermarsi
davanti alle porte chiuse dell’ascensore.
D’altronde con chi aveva a che fare?
Si trattava solo di una bambina.
«
Riferirò.»
Rude annuì ancora e si allontanò lungo i corridoi
senza aggiungere altro. Non
sprecava fiato, non faceva domande, non diceva mai niente che non fosse
necessario.
Era tutto
ciò di cui Tseng avesse bisogno.
Dentro
l’ascensore, poggiò le dita sul vetro
freddo ed incrostato di ghiaccio, la neve che cadeva lentamente,
irraggiungibile e leggera, davanti ai suoi occhi.
Il
panorama
che lo accolse nei bassifondi era lo stesso di sempre: una
città triste e in
decadenza che continuava a trascinarsi nella povertà e a
sopravvivere come
meglio poteva, arrancando tra i rifiuti e le rovine,
all’ombra di un cielo
opprimente foriero solo di cattivi auspici. Ogni volta che metteva
piede in
quella cupa prigione di lamiera e pietra – osservando
l’elicottero che
atterrava sollevando turbinii di polvere e detriti – Tseng si
sentiva sempre in
qualche modo afferrare dall’ansia. L’aria era
densa, una melma maleodorante che
gli si insinuava nei polmoni ad ogni respiro. Ma probabilmente
l’inquinamento era
solo uno dei motivi del suo disagio.
Quando un
Turk appariva nei bassifondi, l’atmosfera nelle baraccopoli
subiva un mutamento
repentino ed inquietante. Le strade diventavano di colpo deserte, ogni
rumore
si annullava in un silenzio innaturale e assoluto, come in una sorta di
terrorizzata attesa. Lì nei bassifondi la divisa blu sapeva
solo preannunciare
disgrazie.
Tseng
avanzò, sentendo gli sguardi invisibili della gente
trafiggerlo da ogni parte,
spiandolo da nascondigli che non era interessato a scovare. Il freddo
invernale
dei bassifondi era umido e odorava di muffa, ma in quella situazione
riuscì ad
insinuarsi dentro di lui fino in fondo alle ossa – si strinse
maggiormente nel
soprabito di pelle, sentendo il colletto di pelliccia bianca che gli
sfiorava
il collo. La maggior parte degli omicidi che aveva compiuto per lavoro
si erano
consumati in quelle strade sterrate, in silenzio, nei vicoli ciechi,
nell’unico
luogo in cui la morte di un uomo si sarebbe semplicemente aggiunta alle
tante
che l’avevano preceduta, senza sconvolgere nessuno.
Quante vittime della ShinRa sono
seppellite tra
questi rifiuti?
Era la domanda che lo tormentava ogni volta che era
costretto a percorrere quei sentieri polverosi, il volto inespressivo
che
tentava in tutti i modi di ostentare sicurezza. Sembrava quasi che i
bassifondi
raccogliessero gli scarti della ShinRa come una discarica, un cimitero
in cui
ogni cosa veniva seppellita e cessava semplicemente di esistere.
Gli
uomini
della sua sparuta scorta lo seguivano in silenzio, del tutto ignari,
quasi
godendo del timore che la loro presenza sembrava incutere negli
abitanti. I
fanti erano sempre ignoranti pieni di boria – avevano sempre
l’ingenua
convinzione che ogni loro gesto fosse giustificato, che potessero
contravvenire
alle leggi senza doverne pagare le conseguenze.
Era
semplice, per chi doveva semplicemente assistere mentre erano gli altri
a
sporcarsi le mani e a caricarsi delle responsabilità.
Tseng li
ignorò, continuando ad avanzare come se non esistessero.
Quando
raggiunse la casa, la riconobbe all’istante: gli era stata
mostrata una foto
durante il breve viaggio in elicottero. Era una delle poche abitazioni
sopravvissute
alla demolizione totale che la ShinRa aveva imposto
prima di iniziare il progetto di
costruzione del sistema sopraelevato a piastre. Era di legno, il tetto
a punta
di tegole, sorgeva nel mezzo di uno spiazzo sterrato e vuoto nel quale
crescevano
incolti ciuffi di gramigna. Tseng rimase qualche istante a fissarla
prima di
avvicinarsi all’ingresso e bussare. Osservando le finestre
ancora trasparenti e
senza crepe, gli infissi senza sbrecciature e il tappetino consunto che
nella
polvere ancora annunciava ostinatamente “benvenuti”
all’entrata, pareva quasi di assistere ad un miracolo;
sembrava un’oasi, un
ritaglio di serenità nel caos di una città in
disfacimento, una terra di
nessuno che passava inosservata e che non era ancora stata inghiottita
da quel
cimitero di macchine e uomini.
E quando
prese in mano il batacchio e lo premette tre volte contro il portone,
ad
intervalli brevi e regolari, gli parve quasi di violare un santuario.
Sei mai riuscito a toccare qualcosa
senza
rovinarla?
Le mani
di Tseng non erano mai state in
grado di
fare altro.
Sapevano
solo profanare tesori inestimabili.
Non
degnò di
un’occhiata i fanti bisbiglianti alle proprie spalle, mentre
attendeva
compostamente che la porta si aprisse. Aveva già
raccomandato loro di tenersi a
debita distanza.
La donna
che
apparve oltre la porta dischiusa aveva i capelli castani e gli angoli
degli
occhi segnati da lievi rughe d’espressione. Lo
studiò con discrete occhiate
perplesse, sistemandosi uno scialle sfrangiato di lana intrecciata
sulle spalle
con movimenti lenti. Tseng attese qualche istante prima di aprire
bocca: il
modo in cui lo sguardo gentile della donna si era illuminato di
sospetto gli
aveva in qualche modo fatto sentire più freddo.
«
Buonasera.»
esordì alla fine, mostrandole il proprio badge «
Sono Tseng, della Sezione
Investigazioni.» nascose la tessera sotto il soprabito, in
una tasca della
giacca – non era mai molto fiero di mostrarla, ma era
necessario per fare in
modo che la gente lo ascoltasse « Spero che la mia presenza
qui non le arrechi
disagio.» che osservazione stupida. Come se esistesse un
luogo in cui uno come
lui potesse essere benaccetto. Si sentì ridicolo, ma non
c’era altro modo.
La donna
si
accostò lentamente allo stipite della porta, indietreggiando
piano. Come
previsto, il tesserino di riconoscimento faceva il suo effetto.
«
Siete della
ShinRa?» chiese infine, la mano che tremava appena sulla
maniglia, anche se il
volto ostentava un contegno signorile.
«
Corretto.»
Tseng le rivolse un breve cenno del capo, senza distogliere gli occhi
per un
solo istante; aveva imparato che spesso volgere lo sguardo altrove
poteva
essere interpretato come un segno di incertezza, e
l’esitazione era ciò che
rendeva un Turk debole. « Lei è la signora
Elmyra?»
«
Sono io.»
lei annuì, intrecciando le mani sul ventre « Cosa
posso fare per voi?»
« Abbiamo
avuto notizia
che lei si sta prendendo cura di una bambina di nome Aerith.»
le mostrò uno
sguardo perentorio « Vorremmo che ce la
riconsegnaste.»
La donna
batté le
palpebre con aria confusa:
« Temo di
non capire.»
ammise, le dita che correvano alla fronte corrugata, là dove
una ciocca di
capelli mossi era sfuggita dalla crocchia castana « Cosa
c’entra Aerith con la ShinRa?»
« Se
avrà la pazienza di
ascoltarmi, le spiegherò tutto.» distolse appena
lo sguardo, osservando gli
scorci dell’interno della casa oltre le spalle curve di
Elmyra – intravide il
corrimano di ciliegio di una corta scalinata, il profilo smussato di un
tavolo
ed i ricami di un tovaglia azzurra che pendeva mollemente dai bordi.
Passato qualche
istante, dopo essersi soffermato su di un vaso panciuto che conteneva
dei rari
boccioli di orchidee bianche, chiese ancora «
Dov’è la bambina?»
La donna scosse il
capo:
«
E’ uscita dopo pranzo
dicendo che sarebbe andata a giocare nel Settore 6 insieme ad altri
bambini.»
la linea della sua bocca divenne di colpo tesa « Vorrei prima
capire il motivo
per cui la cercate.» si fece da parte, muovendo qualche passo
verso l’interno
della casa « Posso offrirle un thè?»
Tseng si
limitò ad osservare
in silenzio la mano aperta di Elmyra che gli indicava cortesemente
l’interno
della casa, come ad invitarlo ad entrare. Si chiese quale accoglienza
gli
sarebbe stata riservata se la donna avesse saputo esattamente quali
fossero le
intenzioni della ShinRa riguardo la bambina. Annuendo piano, non
riuscì a
declinare: probabilmente era un gesto di gentilezza incondizionata o di
semplice ingenuità, ma era certo che non avrebbe mai
più ricevuto una proposta
simile. Come se lui fosse un uomo di cui ci si poteva fidare.
« La
ringrazio molto.»
oltrepassò la soglia, sfilandosi poco dopo il cappotto che
gocciolava di
condensa.
Quando decise di
andare
nel Settore 6
a
cercare la bambina, Tseng si volse brevemente alla propria scorta,
fulminando i
due uomini con fredde occhiate bieche.
«
Aspettatemi qui.»
ordinò, sistemandosi il colletto del soprabito; mosse un
passo nella polvere,
voltando loro le spalle. Gli parve di sentire qualche loro commento
sommesso,
poi una domanda dubbiosa e stizzita riguardo le sue intenzioni, ma
finse di non
sentirle, lasciandoseli alle spalle. Era stata una decisione improvvisa
e non
voleva che nessuno interferisse – si sentiva mosso da una
strana ed
inspiegabile impazienza. Aveva preventivato di concludere la missione
entro la
fine della serata e sapeva che un fallimento o un ritardo avrebbe
deluso i suoi
superiori, ma mentre avanzava gli parve che il desiderio di trovare
Aerith non
fosse del tutto legato al suo spiccato senso del dovere.
Controllò l’orologio,
riconoscendo in un attimo la posizione delle lancette. Era
abbondantemente in
ritardo sulla tabella di marcia. E subito dopo, abbassando lo sguardo
sui
propri passi che avanzavano nel pulviscolo, si chiese Chi sei,
Aerith Gainsborough?
Affondò le
mani nelle
tasche del giaccone, ricostruendo mentalmente il volto della bambina
della
foto. La memoria continuava a bisbigliargli parole inquiete e confuse,
mostrandogli brevi flash di una scena che lui stesso aveva vissuto ma
che
trovava difficile inquadrare. La cosa lo metteva estremamente a disagio
– era
abituato ad avere sempre pieno controllo dei propri ricordi, erano
sempre così
particolareggiati e vividi che gli bastava ripensarci per cogliere
tutto ciò di
cui aveva bisogno. Perché il bagliore verde degli occhi di
quella bambina lo
confondeva?
Aerith
ha un cuore gentile,
le parole di Elmyra lo avevano colpito tanto che
non era riuscito a pensare ad altro sin da quando la donna lo aveva
congedato
pregandolo di non tornare mai più; la
prego, lasciatela stare. E’ giusto che possa vivere
spensieratamente la sua
vita, con tutta sé stessa. La fronte della donna
si era corrugata
profondamente, mentre con la mano si accingeva a chiudergli la porta in
faccia,
So che tornare nelle vostre prigioni non
è ciò che lei vorrebbe, e sono sicura che la cosa
porterebbe giovamento solo a
voi. La vita nei bassifondi è dura per i bambini. Tseng
era rimasto fermo
davanti al portone serrato per alcuni istanti, fissando il vuoto, le
suole che
affondavano sul tappetino di benvenuto. L’oasi di pace nel
Settore 5 lo aveva
bandito.
Superò il
quartiere senza
che gli sguardi terrorizzati della gente lo turbassero, concentrandosi
sul suo
obbiettivo e nient’altro.
Quando si
ritrovò davanti
allo squarcio che deturpava le mura di confine tra i due Settori e li
metteva abusivamente
in comunicazione, esitò qualche istante. Un enorme graffito
di vernice rossa
incombeva su di lui come una inquietante provocazione scritta con il
sangue.
Attraversò il passaggio, tentando di non pensarci.
Il parco giochi era
piccolo e squallido, circondato da un basso recinto di metallo. Contava
cinque
o sei sgangherate ed usurate strutture di plastica impolverata o di
metallo deformato:
alcune di esse sembravano curiose sculture d’arte moderna,
basse e strette
gabbie di ferro arrugginito e ossidato. Tseng si guardò
intorno, immagazzinando
informazioni nell’eventualità si fosse rivelato
necessario tornare in quel
posto: nelle vicinanze dell’unico basso scivolo sbilenco,
vide una stretta
aiuola nella quale i bambini avevano ovviato alla mancanza dei fiori
assemblandovi con delle grosse pietre rotonde una figura che ricordava
vagamente un pupazzo di neve.
Trovò la
bambina poco
dopo, avanzando a passi lenti verso il centro del piazzale. Si
dondolava piano
sull’altalena, provocando un basso e continuo cigolare. E fu
in quello stesso
istante che la mente di Tseng riuscì a mettere ogni
frammento al proprio posto,
ricostruendo istantaneamente quel ricordo confuso che fino ad allora
gli era
sfuggito. Ogni pezzo trovò la giusta collocazione, mille
schegge di uno
specchio infranto che si accostavano e lo ricomponevano con precisione
infinitesimale. La piccola Aerith se ne stava lì, si
stringeva in una spessa
sciarpa rosa che le copriva il naso e la bocca. Seguiva con
intensità l’oscillare
dei propri piedi
sospesi, apparentemente
senza curarsi dell’altra altalena vuota immobile vicino a
lei, o del silenzio
che gravava sull’ambiente circostante.
E Tseng la riconobbe,
rivide i suoi occhi verdi e grandi che lo fissavano, il bianco
abbagliante del
camicie da laboratorio che le copriva appena le ginocchia,
sentì in sottofondo la
sua voce squillante da bambina che pronunciava quella frase misteriosa
– Non essere triste.
Le uniche parole di
consolazione che gli fossero mai state rivolte da quando era diventato
un Turk.
Sembrava essere
passata
un’eternità.
Impossibile. Se lo disse a bassa voce, sgranando appena gli
occhi mentre si fermava a
pochi passi da lei. Di colpo, il bisogno di parlarle divenne
impellente, una
necessità tanto forte che somigliava quasi alla sete. Si
accostò
all’impalcatura dell’altalena, studiando i suoi
movimenti lenti e pensierosi, e
quando aprì bocca per attirare la sua attenzione, la voce
fuoriuscì leggermente
roca:
« Aerith?
»
Lei si
voltò di scatto
nella sua direzione, gli occhi spalancati che esprimevano una sorpresa
curiosa
più che la paura che Tseng aveva immaginato. Interruppe il
moto dell’altalena
immobilizzando le gambe, le punte impolverate delle sue scarpette nere
che
sfioravano il terreno senza riuscire a toccarlo. Lo guardò
battendo le palpebre
un paio di volte, inclinando la testa di lato mentre si soffermava
interessata
sulla pelliccia bianca del suo soprabito e sulla sua fronte alta e
scoperta.
«
Ciao.» rispose dopo un
po’, le sopracciglia che si aggrottavano lievemente; non ebbe
la minima
esitazione quando poi gli chiese, l’espressione che si
incupiva appena « Sei
della ShinRa, vero?»
Tseng non
poté fare a
meno di annuire; l’urgenza di portare a termine
l’incarico tornò con tale
violenza da mozzargli il respiro, riportandolo con irruenza con i piedi
per
terra. Come al solito era caduto nella trappola che tendeva a
sé stesso in ogni
occasione: si era per un istante illuso che quella bambina che una
volta gli
aveva teso inspiegabilmente un mano d’aiuto, potesse
trattarlo diversamente. Ma
dopotutto lui era
l’uomo crudele che l’avrebbe riportata alla ShinRa.
« Mi chiamo
Tseng.» disse
infine, la voce nuovamente decisa e limpida « La ShinRa
ti ha cercata a
lungo, Aerith, sin da quando hai lasciato i laboratori con tua
madre.» le porse
una mano aperta, un invito perentorio « Vorrei che mi
seguissi.»
Aerith scosse forte il
capo, senza neanche permettergli di finire la frase:
« Non voglio
tornare alla
ShinRa.» distolse gli occhi dalla mano di Tseng, tornando a
fissare i propri
piedi « Cosa vogliono ancora da me? Sono solo una bambina
come le altre.»
« Sai che
non è così.» le
parole di Tseng le fecero premere le labbra le une contro le altre
« Hai
ereditato il sangue di tua madre e con esso la conoscenza dei
Cetra.»
« E con
questo?» la bocca
di Aerith assunse una piega ostinata « Non è
niente di speciale!»
Tseng
ritirò lentamente
la mano. Non riusciva a capire se la bambina fosse convinta di
ciò che diceva o
se fosse solo un tentativo per sviarlo; ad ogni modo, non sarebbe mai
riuscita
a fargli dubitare della sua memoria. Congiunse compostamente le mani
dietro la
schiena:
«
L’unica cosa che ti è
richiesta è la tua cooperazione. Niente di
più.»
Da lei giunse
l’ennesimo deciso
rifiuto:
« Non ci
credo. »
annunciò, categorica « Non vi aiuterò e
basta. Ciò che la ShinRa intende con
“cooperazione” si trasforma sempre in un brutale
sfruttamento incondizionato!»
Spiazzato da quella
proprietà di linguaggio così insolita nei bambini
della sua età, Tseng riuscì
solo a rifugiarsi in un convenzionale:
« Non
vogliamo farti del
male.» una bugia come le altre, a volte l’unica che
riuscisse davvero a
tranquillizzare le vittime della ShinRa. Ma Aerith non era una bimba
ingenua.
«
E’ a causa della ShinRa
che i miei genitori sono tornati al Pianeta. Hanno ucciso mio padre e
hanno
lasciato che mamma morisse senza fare nulla.» la
semplicità con cui pronunciò
quelle parole fu quasi disarmante « So che mi faranno del
male.» scosse il capo
« Non tornerò mai in quel posto.»
Probabilmente un altro
uomo avrebbe reagito a quella resistenza con ferocia:
l’avrebbe afferrata per
le braccia, l’avrebbe zittita in qualche modo, non facendosi
alcuno scrupolo
nel maltrattare una bambina finché si fosse trattato di
portare a termine un
incarico e guadagnarsi lo stipendio. Tseng non ne fu in grado. Forse si
sentiva
in qualche modo in debito con lei, forse era solo stanchezza, forse non
voleva
sporcarsi le mani inutilmente.
Attese qualche
istante,
osservando il capo chino di Aerith che sembrava in qualche modo
imporgli di
andare via e lasciarla in pace; la sorpassò facendo
scivolare la suola
consumata sulla sabbia, raggiungendo poco dopo l’altalena
vuota che pendeva
dall’impalcatura cigolando appena. Ci si sedette provocando
uno scricchiolio
inquietante, curvandosi in avanti, le mani intrecciate ed i gomiti
sulle
ginocchia.
« La morte
di tua madre è
stata una perdita immensa.» le parole vennero fuori da sole,
attingendo
informazioni da vecchi rapporti della Sezione Scientifica « La ShinRa
non voleva che
accadesse. Se non foste scappate, l’avrebbero aiutata e
probabilmente sarebbe
ancora viva.» sembravano premure vuote, ma era il massimo che
riuscisse a fare.
« La mamma
voleva
scappare perché odiava stare in quel posto. Sapeva che le
intenzioni della
ShinRa non erano benevole come volevano farci credere.»
Aerith rispose dopo qualche
istante, senza guardarlo, facendo dondolare un piede nel vuoto
« Sono sicura
che ora lei stia meglio, anche se non è più qui
con me.»
Tseng
abbassò lo sguardo
sulle proprie mani unite, osservando l’ordine casuale con cui
le dita si
incrociavano. Pensò a quella bambina che aveva assistito
alla morte di suo
padre, aveva dovuto subire chissà quali esperimenti, e
infine si era sottoposta
ad una fuga disperata durante la quale anche sua madre aveva finito per
abbandonarla. Dubitava che esternarle il proprio cordoglio potesse
servirle a
qualcosa.
Mi
dispiace. Rimase in
silenzio per qualche istante, mentre anche Aerith faceva lo
stesso. Sentiva il soffiare innaturale di un vento freddo che veniva da
ogni
parte. E sopra di loro continuava a nevicare, senza che i bassifondi
potessero
vedere di che colore fosse la neve.
«
Perché non hai lasciato
Midgar?» domandò dopo un po’, la voce
che ancora una volta perdeva decisione –
quel genere di debolezza non gli era concessa perché poteva
rendere poco
credibile la sua immagine di Turk imbattibile, ma non riuscì
in alcun modo a
controllarsi « Era ovviamente il primo posto in cui la ShinRa
ti avrebbe
cercata…se ti fossi allontanata da qui probabilmente non ti
avrebbero mai più
ritrovata.»
Aerith scosse
brevemente
il capo:
« Mamma
voleva tornare a
casa, tra le montagne. Sapeva che scendendo sotto la piastra sarebbe
stato più
semplice far perdere le proprie tracce.» fece una pausa breve
prima di
aggiungere, alzando gli occhi per guardarlo « Però
poi lei è morta e mamma
Elmyra si è presa cura di me. Io le voglio bene, non posso
chiederle di venire
con me e abbandonare casa sua.» scosse il capo «
Sono ancora troppo piccola per
viaggiare da sola, mi ha detto. Non voglio farla preoccupare.»
Tseng annuì
piano, il
mento e le guance lambite dal morbido pellicciotto bianco:
«
Capisco.» si sentiva
stupido. Perché semplicemente non chiamava i due incapaci
della scorta e
lasciava che fossero loro a portarla via? Perché perdeva
tempo con lei,
tentando di mettere in piedi una conversazione che potesse in qualche
modo
farla sentire a proprio agio?
Aerith si diede una
debole spinta con i piedi, ricominciando lentamente a dondolare; la
guardò in
silenzio, chiedendosi ancora il motivo per cui stesse lì
vicino a lei,
arrampicandosi sugli specchi ogni volta che doveva aprire bocca e dirle
qualcosa, le parole che venivano fuori con difficoltà.
Qualsiasi cosa gli
venisse in mente gli sembrava inadatta, fuori luogo, inutile e
preferiva
tenerla per sé. Aveva avuto a che fare solo con uomini per i
quali le parole
erano un mezzo agile per guadagnare quantità immense di
denaro, per trovare
accordi, per comandare, per implorare pietà. Bastavano poche
frasi concise e
impersonali, era sempre stato facile come ripetere le battute di una
sceneggiatura immutabile, tentando di recitare la propria parte nel
migliore
dei modi. Ma la semplice presenza di Aerith gli impediva in qualche
modo di
attenersi a quel copione, lasciandolo in preda delle onde, alla deriva,
in
silenzio.
« A me
piacerebbe davvero
tornare a casa.» ammise lei in un sibilo sommesso, qualche
istante dopo, gli
occhi di Tseng che volavano nuovamente nella sua direzione «
Mamma mi
raccontava che d’inverno la neve ricopriva tutto come un
manto bianco luminoso e
sembrava che tutto brillasse nel raggio di mille miglia.»
fece un gesto ampio
con le piccole braccia, abbracciando un paesaggio immaginario
« Io ero troppo
piccola per ricordamene, ma quando mamma me ne parlava pensavo sempre
che mi
sarebbe piaciuto vederlo un giorno o l’altro.» poco
dopo, la bocca della bimba
assunse una piega intristita mentre le sue mani tornavano a stringere
le funi
metalliche dell’altalena « Aspetto
l’inverno sempre con ansia nella speranza
che nevichi anche qui a Midgar. Ma ogni volta l’inverno nei
bassifondi è
solamente più freddo dell’autunno e più
triste dell’inverno precedente.»
« Magari un
giorno,» le
parole giunsero in risposta senza che Tseng facesse in tempo a
valutarle « quando
sarai più grande, potrai andare ad Icicle e vederla con i
tuoi occhi.» fece una
pausa « Non vale la pena salire sulla piastra per vedere le
nevicate rare e
grigie di Midgar.»
Aerith gli rivolse
un’occhiata incerta, smettendo di dondolarsi: lo
studiò attentamente, quasi
senza sbattere le palpebre, i suoi occhi grandissimi e ingenui che
brillavano
come se avessero appena scoperto un tesoro nascosto. Tseng si
limitò a
ricambiare il suo sguardo, l’espressione che non tradiva
alcun turbamento.
E poi Aerith
Gainsborough, quella bambina che avrebbe dovuto odiarlo, gli
mostrò un sorriso
luminoso:
« Un
giorno.» confermò,
stringendosi nelle spalle in una movenza vezzosa ed infantile
« Un giorno ci
tornerò di sicuro.»
Il Turk dischiuse le
labbra:
«
Perché non scappi?» le
chiese, mentre lei continuava a ricambiare il suo sguardo senza
distoglierlo un
solo istante, come se il fatto di averlo al suo fianco non la
intimorisse
affatto « Perché continui a stare qui con me
sapendo che sono venuto solo per
riportarti alla ShinRa?»
La risposta della
bambina
arrivò subito, fulminante, senza esitazione:
« Non credo
che tu voglia
farmi del male.»
C’era una
risata di puro
sarcasmo che lottava per risalirgli la gola, ma Tseng riuscì
a combatterla; gli
sfuggì un sorriso effimero, una piega delle labbra che
sapeva di tristezza e di
un divertimento malinconico.
« Come puoi
esserne così
certa?»
« Se i tuoi
ordini erano
di portarmi alla ShinRa, allora perché non lo fai e basta?
Che motivo avevi di
fermarti qui a parlarmi?» le parole risolute di Aerith fecero
sparire il
sorriso dalle labbra del Turk, facendole tornare immote, tese
« Non mi sembra
che tu muoia dalla voglia di portare a termine il tuo incarico,
signore.»
Tseng rimase immobile,
gli occhi neri leggermente sgranati, senza trovare il modo di
rispondere. Con
poche occhiate Aerith lo aveva spogliato di ogni sua copertura, gli
aveva
sfilato il suo involucro di sicurezza, aveva visto oltre la sua
maschera
impassibile. Rimase fermo, sentendosi di colpo insicuro, nudo,
vulnerabile come
nessun Turk avrebbe mai dovuto essere.
Non
è possibile.
Passarono alcuni
istanti
prima che Tseng riuscisse a fare leva sulle gambe per alzarsi, facendo
ondeggiare l’altalena in mille scricchiolii. Mosse il primo
passo nella sabbia
sentendosi osservato come capitava sempre nei bassifondi, ma il peso di
quello
sguardo era completamente diverso da quelli a cui era abituato: era
sereno,
incuriosito e tentava inspiegabilmente di capirlo.
«
Dove vai?» Aerith balzò a sua volta
giù dall’altalena, muovendo rapidi passi alle sue
spalle per seguirlo. Ma Tseng
le volse un rapido sguardo di sottecchi e la cosa bastò a
fermarla.
«
Non seguirmi.» fu l’ultima cosa che
le disse prima di allontanarsi dal Settore 6, i lembi
dell’impermeabile nero
che ondeggiavano nella brezza fredda.
La
lasciò lì, da sola nel parco giochi
deserto, le scarpette nere che si impolveravano, le frange della
sciarpa rosa
che danzavano al vento assieme alle pieghe spesse della sua gonna a
quadretti.
Quando
raggiunse i due fanti che lo
avevano pigramente atteso davanti alla casa di Elmyra, li
trovò seduti in pose
indecorose sui resti usurati di due sedili d’auto. Li fece
balzare sull’attenti
con la sola forza di un’occhiata.
«
Torniamo al Quartier Generale.»
annunciò, tirando fuori il PHS, dimenticandosi
immediatamente della loro
esistenza. E mentre attendeva di ricevere risposta, il telefono nero e
sottile
premuto contro l’orecchio, si rese conto di aver fallito la
prima missione
della sua vita.
Nella casa del Settore 5 non
c’era traccia della bambina, si disse, il rimbombare ritmico e
senza tono della chiamata in attesa che gli riempiva le orecchie.
Nessuno
avrebbe potuto ribattere al riguardo.
(xxx)
|
Ritorna all'indice
Capitolo 3 *** Two; The church that became his hideout • [ μ ] - εуλ 1997 (xxx) ***
Two; The church that became his hideout
• [ μ
] - εуλ
1997
(xxx)
The day he gave
his devotion to the flowergirl
---
«
Complimenti, Tseng.» il sorriso complice di
Cissnei divenne incerto prima di aggiungere «…o
forse ora dovrei chiamarti
“capo”?»
Il nuovo comandante
della Sezione Investigazioni
si voltò appena a guardarla, seguendo i suoi passi a mano a
mano che gli si
avvicinava. Si fermò al suo fianco, davanti
all’enorme parete vetrata che
dall’ufficio apriva un’ampia visuale sul versante
ovest della città di Midgar.
I palazzi si ergevano sotto di loro come tristi naufraghi derelitti in
balia di
un’irrefrenabile tempesta di metallo grigio: le montagne
erano bassi monumenti
mutilati che scomparivano in un cupo banco di nubi, sfiorando un
orizzonte
invisibile.
« Un
panorama invidiabile.» concesse la giovane
Turk, poggiando una mano sul vetro, la voce che sembrava celare una
velata
ironia « Certo, a Midgar è il meglio a cui si
possa ambire.»
Tseng rispose con un
mugolio che poteva
significare mille cose e al tempo stesso non voleva dire nulla. Rimase
ancora
qualche istante a guardare oltre la finestra, mentre si rigirava tra le
mani la
tessera che attivava l’accesso al sessantunesimo piano, ed
apriva la porta
scorrevole del suo nuovo ufficio. Era una stanza ampia e semivuota,
arredata in
maniera spartana seguendo alla lettera lo stile della ShinRa. La
scrivania era
un lungo ripiano di legno nero e lucido, le poltrone di pelle erano
sistemate
negli angoli adiacenti all’ingresso, vicino a delle piante in
vaso che aprivano
le loro grandi foglie verdi sfiorando i muri. Sul pavimento di
mattonelle
recentemente incerate era steso un lungo tappeto di fattura pregiata, i
cui
intrecci mescolavano i colori dell’alba in
un’immagine astratta. Cissnei perse
interesse per la vetrata e ruotò su sé stessa:
« Di certo
alla ShinRa si vede quando diventi un
pezzo grosso.» commentò, i passi che rintoccavano
sul pavimento « Ti tirano via
dagli uffici comuni e ti danno la chiave di stanze grandi come
appartamenti.»
«
E’ solo una promozione di un grado.»
ribatté
Tseng, di colpo infastidito, la mano che si serrava contro la tessera
magnetica
con tanta forza da curvarla appena, i bordi affilati che penetravano
nelle
pieghe della pelle.
La ragazza non
sembrò cogliere il malessere di
Tseng:
« Ecco qui,
di nuovo a sminuirti.» si lamentò,
studiando i tratti futuristici di un dipinto di un metro e mezzo
assicurato ad
una delle pareti laterali « Sai, a volte non capisco quale
sia il vero te
stesso. Qual è quello vero?» si
abbracciò i fianchi in una movenza che la
caratterizzava, alzando gli occhi verso il soffitto « Tseng
che sa sempre come
fare e si compiace della propria infallibilità? Oppure Tseng
che non ama
ricevere complimenti e sguazza in un bagno di modestia
assoluta?» la giovane
donna sospirò, toccandosi una guancia con le dita
« Sai, capo, a volte ti
trovo contraddittorio. Non ti confronti mai
apertamente con nessuno di noi.»
Tseng
ascoltò in silenzio, avvicinandosi a passi
lenti alla propria scrivania.
Cissnei aveva il volto
puerile di una ragazzina di
quindici anni ma si rifiutava di dichiarare la propria vera
età; aveva gli
occhi grandi ed espressivi che sembravano sorridere in ogni occasione,
e dei
lunghi capelli castani che continuava a ripetere di voler accorciare,
ma che
continuava a tenere ostinatamente legati in una coda di cavallo. Era
una
ragazza particolare di cui non era semplice interpretare i
comportamenti: a
volte parlava ad enigmi, apparentemente fiera e divertita dal
disorientamento
che le proprie parole provocavano nei colleghi. In altre occasioni
invece
sapeva parlare con una immediatezza e efficacia invidiabili –
una dote che la
rendeva una compagna valida e affidabile durante le missioni. Tuttavia
aveva
anche l’incredibile capacità di trasformare il
proprio lavoro in un’occasione
per sondare gli animi della gente, in un tentativo continuo di trovare
un’intesa che andasse aldilà del semplice e freddo
cameratismo. Alcuni la
interpretavano positivamente, la vedevano come una amichevole e spesso
divertente giovane donna a cui piaceva studiare i caratteri e i difetti
delle
persone che la circondavano. Tseng la apprezzava come donna e come
compagna, ma
trovava che a volte la sua disponibilità e spensieratezza
occasionale si
trasformasse in un interesse invadente e inadatto. Forse
si trattava solo di un modo ingenuo di esprimere
la speranza di trovare degli amici anche in quel mondo in cui ognuno si
curava
solo e soltanto di sé stesso, ma l’indiscrezione
di Cissnei non era d’aiuto
quando si tentava in tutti i modi di nascondere qualcosa – e
la figura di Tseng era costruita su
di un’impalcatura
di segreti e silenzi che imponevano divieti severi. Se la ragazza
avesse
insistito, la riservatezza non sarebbe bastata a fermarla.
«
Cissnei,» Tseng si curò di richiamarla
all’ordine prima che il discorso degenerasse « Qual
è il tuo prossimo incarico?»
La ragazza
sbuffò, battendo spazientita un tacco
sul pavimento: probabilmente si rendeva conto di come il suo tentativo
di comprendere
Tseng fosse stato nuovamente ed abilmente sventato.
« Sono
libera fino alla fine della settimana.» annunciò,
avvicinandosi a lui ed alla scrivania, le braccia ferme ed intrecciate
al
disotto del seno « Mi avevano assegnata al tuo stesso
incarico, ma il tuo
intervento ha fatto in modo che si concludesse prima del
previsto.» fece un
gesto secco della mano « Sto parlando dei contrabbandieri al
mercato nero.»
«
Capisco.» il Turk annuì, socchiudendo le
palpebre. Era stato l’incarico grazie al quale era riuscito
ad ottenere la
promozione, ma ripensarci non sortiva altro effetto se non quello di
farlo
infuriare, e di riempirlo di sgomento.
« Hai
intenzione di affidarmi qualche incarico
estemporaneo per inaugurare la tua nuova carica di comandante
supremo?» lo
provocò, ridacchiando, fermandosi davanti a lui, le mani
aperte premute sulla
sua scrivania.
« Non
ancora.» tagliò corto l’altro,
rivolgendole
uno sguardo severo « Ma tieniti pronta perché non
ho intenzione di lasciarti
nullafacente fino al fine settimana.»
Lei rise ancora:
« Che paura,
Tseng.» scherzò « Vedo tempi duri
all’orizzonte. Più lavoro del solito! Non so
quanti di noi ne saranno
entusiasti, sai?»
Le sue parole
riuscirono a provocargli un
silenzioso e discreto sorriso amaro.
« Dovranno
adattarsi.» in tutta la sua semplicità,
c’era qualcosa in quella ragazza che Tseng invidiava. Cissnei
non era frivola
né spensierata quanto sembrava, ma aveva la
capacità di moderarsi. Sapeva
dedicare al lavoro la giusta quantità di energie e di
sé stessa, senza
esagerare né lesinare. Era equilibrata.
« Deve
essere dura non sentirsi schiacciati dalla
solitudine quando si è costretti a lavorare in un ufficio
del genere.»
l’osservazione di Cissnei suonava divertita, mentre
riprendeva allegramente a
guardarsi attorno « Dimmi una cosa, ti hanno anche trasferito
al quarantesimo
piano, vero? Com’è
l’appartamento? Grande?»
Tseng rispose senza
guardarla, aprendo
distrattamente i cassetti della scrivania – vi
trovò fogli ed una penna
stilografica, qualche cartella, vari articoli di cancelleria:
« Fin troppo
grande per una persona sola.» aveva
cambiato forse una cinquantina di appartamenti prima che gli
concedessero un
alloggio al Quartier Generale, ma con la promozione gli era stata
consegnata
anche la chiave di una suite al quarantesimo piano, dove alloggiavano
gli
esecutivi della ShinRa. Era fantastica e calda, il pavimento ricoperto
di
morbida moquette rossa, dotata di qualsiasi comfort immaginabile,
l’idromassaggio nel bagno rivestitodi mattonelle, le tende
pesanti drappeggiate
ai lati delle ampie finestre oscurabili, un grande camino di granito
incastrato
tra due librerie nel salone. E nonostante tutto quello sfarzo, era
bastato entrarvi
e chiudersi la porta alle spalle perché Tseng si sentisse a
disagio.
Sentì
l’improvvisa necessità di fuggire da quella
stanza così vuota da soffocarlo: richiuse un cassetto con un
movimento rapido e
violento della mano, provocando uno scatto secco che fece sobbalzare
Cissnei.
Tirò via il soprabito poggiato sullo schienale della
poltrona, sistemandoselo
sull’avambraccio, muovendo i primi passi per aggirare la
scrivania.
« E ora dove
vai?» la donna lo seguì contrariata
con lo sguardo, decidendo che era meglio andargli dietro solo quando lo
vide
accostarsi alle porte d’ingresso. Ormai nel corridoio vuoto,
Tseng aspettò che
lei lo raggiungesse prima di digitare la password per attivare la
serratura
blindata.
« Ho un
compito da svolgere nei bassifondi.»
annunciò, mentre camminavano assieme lungo
l’andito in direzione dell’ascensore
più vicino.
Cissnei
sospirò profondamente:
« Il solito
uomo impegnato.» si diede una rapida sistemata
al nodo della cravatta, approfittandone per lisciare anche il risvolto
dell’attillata giacca blu « Sei troppo ligio al
dovere, tu!» lo picchiettò su
di una spalla con il dito teso.
Tseng
ammorbidì appena l’espressione, soffocando
una bassa risatina baritonale:
«
Davvero.»
La cosa
sembrò insospettire Cissnei, ma
stranamente la ragazza ebbe la delicatezza di limitarsi ad uno sguardo
in
tralice, senza aggiungere nient’altro; avvicinò
una mano ai ricci morbidi che
le ricadevano armoniosamente su di una spalla, le dita che si
insinuavano tra i
sottili e definiti boccoli in un atteggiamento grazioso:
« Io magari
andrò a tagliarmi i capelli.»
Tseng si
fermò davanti ad una schiera di tre
ascensori allineati, prenotando quello più vicino:
«
E’ la ventesima volta che lo dici.» le fece
notare « Approfittane ora.» le rivolse
un’occhiata rapida « Sarai libera ancora
per poco.»
Cissnei
rabbrividì, le braccia che correvano
nuovamente alla loro posizione composta sotto i seni:
«
Lo so! Smettila di
minacciarmi.» quando uno squillante
tintinnio annunciò l’arrivo
dell’ascensore, sgranò di colpo gli occhi e
dischiuse
le labbra, come colta da un’illuminazione improvvisa
« Ah, capo! Quasi
dimenticavo!» sulla sua bocca tornò quella
divertita sicurezza che
preannunciava domande scomode « Sto svolgendo
un’indagine.»
Mentre le porte
scorrevoli si spalancavano
all’unisono con un forte risucchio metallico, Tseng si
voltò a guardarla:
« Di che
genere?»
« A volte un
nome in codice può celare segreti
incredibili.» spiegò lei, entusiasta, seguendolo
con lo sguardo mentre
oltrepassava il passaggio spalancato verso la cabina di vetro
« Cissnei non è
il mio vero nome, lo sanno tutti. Chiedendo in giro sto scoprendo
piccole cose
davvero interessanti. Non immagini che storia incredibile è
nascosta dietro il
nome di Rude.»
Tseng la
studiò per qualche istante:
«
Interessante.» mentì, sollevando una mano verso
il pulsante che lo avrebbe portato al piano terra « Anche se
a volte sarebbe
meglio non indagare quando si tratta delle faccende altrui.»
era una muta
regola che lui stesso si era imposto e che sembrava la cosa
più saggia da fare
nell’ambito di quella microsocietà di agenti in
giacca e cravatta. Ma Cissnei era
in grado di sottrarsi a quella regola, facendo sembrare
l’infrazione una cosa
normalissima.
«
Capo,» esordì, con voce mielosa « un
giorno me
lo rivelerai?» si sporse appena verso di lui, avvicinandosi
all’entrata
dell’ascensore « Il segreto del tuo nome.»
Tseng sorrise a labbra
strette, distogliendo lo
sguardo:
« Non
perdere tempo con me.» tagliò corto, con
voce atona « Il mio nome non ha senso. Sono semplicemente
cinque lettere senza
alcun significato particolare.» deglutì,
assaporando sulla lingua quel sapore
amaro a cui si era ormai abituato « Ciao, Cissnei.»
la salutò, premendo il
polpastrello sul bottone del piano terra. Le porte della cabina si
chiusero
rapide, congiungendosi alla perfezione, nascondendo la delusione che
aveva di
colpo reso più opaco lo sguardo castano della sua giovane
collega.
Non sapeva esattamente
da quando la semplice idea
di recarsi nei bassifondi avesse iniziato a rilassarlo. Se
n’era reso conto una
mattina come le altre, in estate, mentre aspettava che il treno si
fermasse sui
binari che collegavano la piastra del Settore 7 con qualsiasi cosa si
trovasse
ai piedi del pilastro. Il caldo torrido estivo gli aveva fatto bagnare
la
fronte ed i palmi delle mani, ma era rimasto immobile ad attendere,
composto
nella sua divisa stretta e scura, sebbene il metallo arroventato della
stazione
rendesse l’aria irrespirabile. Era salito
sull’ultimo vagone, quello che di
solito la gente comune non aveva il coraggio di occupare
perché veniva
utilizzato spesso dai fanti in pattuglia, nelle ore di punta. Si era
seduto in
disparte, ignorando gli sguardi dei soldati di turno che lo scrutavano
da sotto
i caschi pensando di essere discreti. E durante quel viaggio, seguendo
con gli
occhi lo sfrecciare del paesaggio grigio davanti e dietro di lui, si
era reso
conto di come il semplice fatto di essere su quel treno lo avesse reso
di colpo
più sereno.
Era la prima volta che
gli capitava: non si
sentiva oppresso dal proprio incarico.
E da quel giorno in
poi, il pensiero di
raggiungere il cimitero della ShinRa del Settore 5 non gli provocava
più ansia
e fastidio. Anzi, c’erano certi momenti della giornata,
quando sopportare in
silenzio mille situazioni che detestava diventava davvero troppo anche
per lui,
in cui l’unica cosa che desiderava era abbandonare la
superficie e trovare
rifugio sotto la piastra.
Nella chiesa in cui
sapeva di poter trovare Aerith,
la ragazza che era diventata, da un anno a quella parte, la sua
missione più
importante e l’unica donna che fosse in grado di parlare con
lui con
naturalezza.
Il mandato della
missione gli imponeva di
osservarla, di tenerla d’occhio a tempo indeterminato, senza
interferire nella
sua vita più del necessario – gli esecutivi della
ShinRa avevano il timore che
fuggisse o si facesse del male, ma avevano in qualche modo compreso che
perseguitarla mentre era ancora così giovane non avrebbe
fatto altro che
peggiorare le cose. E sebbene all’inizio Tseng avesse tentato
di attenersi agli
ordini, e di osservarla in silenzio senza farsi notare, Aerith era
sempre stata
in grado di accorgersi della sua presenza.
«
So che sei
lì.» aveva annunciato la prima volta,
voltandosi verso il portale scardinato della chiesa, senza che lui
avesse fatto
il minimo rumore. Tseng non aveva avuto altra scelta se non quella di
uscire
allo scoperto, avanzando sulle toghe scricchiolanti del pavimento. Dopo
essersi
abituato alla sua compagnia, non era più stato in grado di
nascondersi: bastava
vederla di spalle per sentire ancora il bisogno incontrollabile di
parlarle.
Nel giro di qualche mese, non era più stato in grado di fare
a meno di lei.
Il giorno in cui
ricevette la promozione, fuggì
dal suo lussuoso ufficio da comandante e si rifugiò tra le
macerie della chiesa
dei bassifondi, là dove sapeva che l’avrebbe
trovata. Era primavera inoltrata e
i raggi morenti del pomeriggio attraversavano le lunghe vetrate
proiettando sull’unica
navata affilate lame di luce multicolore. Aerith era lì come
al solito, a pochi
passi dall’altare, china su dei fiori che erano cresciuti
spontaneamente tra le
doghe danneggiate del pavimento. Se ne prendeva cura come se fossero un
tesoro
inestimabile, aiutandoli amorevolmente a sopravvivere là
dove l’inquinamento
aveva ucciso tutti gli alberi della città. Sembrava assurdo
ma quei fiori
continuavano a crescere, moltiplicandosi, invadendo e colorando la
chiesa come
una vivace spennellata di tonalità vive in un dipinto di
natura morta.
Ignorando la luce
rossa che filtrando tra i
battenti socchiusi del portale proiettava la sua ombra nera e
affusolata lungo
il corridoio, Tseng si limitò a guardarla in silenzio per
alcuni istanti. Anche
da quella distanza fu in grado di riconoscere il vestito corto a fiori
rossi e
bianchi che aveva indossato il giorno del proprio compleanno, qualche
anno
prima. I capelli castani che iniziavano a diventare molto lunghi erano
raccolti
su di una spalla da un nastro sottile di stoffa rossa, lasciandole la
nuca ed il
collo scoperti. Era un abbinamento che non gli capitava di vedere
spesso, ma
era comunque in grado di darle un aspetto quasi più grazioso
del solito. Si accostò
ad una delle ultime file, in disparte, sedendosi su di una panca
sbrecciata:
poggiò le spalle contro lo schienale, abbandonando il
soprabito al proprio
fianco.
« Eccoti
qui.» la voce cristallina di Aerith
rimbombò in un’eco delicata fino a raggiungerlo in
fondo alla navata « Iniziavo
a pensare che non saresti più tornato.»
Tseng non rispose,
chiudendo gli occhi, respirando
a fondo. Abbandonò la testa all’indietro,
incastrando i tacchi delle scarpe
sugli inginocchiatoi, i capelli legati sulla nuca che sfioravano il
legno
usurato del banco.
« Sei
mancato per un sacco di tempo.» lo apostrofò
ancora lei, da lontano « Che fine avevi fatto?»
« Ho avuto
da fare.» rispose infine il Turk,
riempiendo e svuotando i polmoni ad un ritmo regolare, sollevando
appena le
palpebre per guardarla « Un incarico che mi ha tenuto
impegnato per un po’.»
« Per un bel
po’.» Aerith ci tenne a precisare, voltando la
testa nella sua direzione « Quando
non ci sei mandano sempre dei tizi loschi e armati a sostituirti. Li
vedo
sempre aggirarsi intorno alla chiesa e a casa di mamma, ed è
una cosa che non
sopporto.» lo fulminò con lo sguardo «
Sei sempre impegnato, tu.» raccolse le
braccia sul ventre, nascondendole tra le pieghe del suo vestito, senza
tuttavia
abbandonare la sua posizione accovacciata. Teneva sempre i piedi bene
uniti e
le gambe piegate premute contro il petto, in delle movenze che la
rendevano
estremamente aggraziata anche quando lavorava la terra. Era ancora una
ragazzina.
Tseng sostenne il suo
sguardo che gli lanciava
scintillanti lampi di collera.
«
E’ il mio lavoro.» la solita scusa arrendevole,
la solita spiegazione diretta che aveva la capacità di
mettere a tacere
qualsiasi protesta. Il broncio bambinesco scomparve quasi del tutto dal
volto
di Aerith:
« Ah,
già.» annuì piano, riportando la
propria
attenzione all’aiuola rigogliosa di cui tanto andava fiera
« Se non fosse per
gli ordini, non saresti qui.»
Tseng dischiuse le
labbra ma non proferì parola.
Abbassò piano gli occhi sulle pieghe scure dei propri
pantaloni, cercando di
non pensare a niente.
Dopo qualche istante
di silenzio, Aerith emise un
lungo sospiro di soddisfazione, rialzandosi agilmente in piedi; le
pieghe del
suo vestito bianco le scivolarono addosso come acqua corrente, stirando
la
stoffa sulle sue curve acerbe. Batté le mani un paio di
volte, compiaciuta:
« E anche
oggi i fiori sono felici!» fece qualche
piccolo passo lungo i bordi ancora intatti del pavimento, saltellando
fino a
raggiungere l’estremità opposta
dell’aiuola « Guarda Tseng. Ne sono germogliati
altri.» indicò i fiori, presentandoglieli ad uno
ad uno come se fossero persone
in carne ed ossa « Sto facendo un bel lavoro, qui. Quando ho
portato mamma a
vederli lei ne è rimasta molto colpita.» si
chinò ancora a carezzare i petali
nuovi di qualche bocciolo, poi alzò di nuovo lo sguardo
verso il fondo della
chiesa « Stavo pensando di provare a piantarli anche vicino a
casa. Pensi che
funzionerà?»
Tseng le rispose
distrattamente, lo sguardo che
vagava sul soffitto: riusciva a vedere l’impalcatura di travi
spesse che
sosteneva il tetto di tegole.
« Potresti
provare.»
«
Mh-mh!» la risposta di Aerith fu un mugolio
entusiasta « Sarebbe bello, non credi? Se riuscissi a
colorare tutti i
bassifondi con i petali di questi fiori.»
« Immagino
di sì.» fu la risposta atona.
Aerith lo
fissò per qualche istante, evidentemente
delusa dalla sua scarsa partecipazione. Poi distolse gli occhi,
iniziando a
sfilare i piccoli guanti da lavoro ormai impregnati di terra e acqua.
Tseng la
sentì armeggiare con il suo annaffiatoio di rame, bagnando le foglie
delle
piantine prima di ritirare la paletta e tutti gli attrezzi che ogni
volta
portava diligentemente con sé da casa. La lasciò
fare senza proferir parola,
ascoltando, con gli occhi socchiusi, il gocciolare dell’acqua
che sfuggiva dal
becco bucherellato dell’annaffiatoio e i passi leggeri che
rimbombavano tra le
colonne. La consapevolezza che Aerith fosse lì bastava a
trasformare quella
chiesa abbandonata in un rifugio accogliente.
Dopo alcuni momenti di
silenzio, i passi della
bambina si fecero più svelti, le assi del pavimento che
scricchiolavano. Quando
Tseng dischiuse nuovamente le palpebre, la colse proprio
nell’atto di frenare
l’andatura accelerata e lanciarsi sulla panca di fronte a
quella dove lui era
seduto, provocando un frastuono notevole. La osservò mentre
si inginocchiava
sulla seduta e puntava i gomiti sul bordo dello schienale, in modo da
poterlo
guardare negli occhi. Passò un po’ di tempo prima
che lei assumesse un broncio
perplesso e si decidesse ad esprimere il proprio disappunto.
« Tseng,
qualcosa è andato storto.»
Il Turk
tentò di assumere una posizione più
composta:
«
Cosa?»
« Sto
parlando di te.» Aerith gesticolò appena con
le mani « Di quello che fai quando non sei qui a tenermi
d’occhio. Sei strano.»
Tseng la
guardò, rimanendo immobile con le braccia
incrociate mentre lei lo scrutava con il mento poggiato sulle mani, la
testa
inclinata leggermente di lato.
Quella bambina era
incredibile. Sapeva mettere a
nudo ogni piccolo particolare invisibile, sapeva interpretare ogni sua
parola,
ogni suo gesto, ogni sua minima mutazione di espressione. Sembrava in
grado di
scorgere tutto ciò che Tseng tentava in ogni modo di
nascondere, con una
naturalezza inaudita, come se un solo sguardo le bastasse a capire
tutto di lui.
«
E’ andato tutto alla perfezione invece.» il tono
con cui disse quella frase la rese del tutto inattendibile, soprattutto
quando,
dopo un istante di silenzio, aggiunse con voce bassa e fioca
« Mi hanno
promosso.»
Aerith
storse la bocca:
« Non ne
sembri molto contento.»
Il Turk distolse lo
sguardo, dando inizio ad un
silenzio pesante che durò alcuni istanti. Gli bastava
chiudere gli occhi perché
i momenti che avevano messo fine alla missione ed erano stati il
principale
motivo della sua improvvisa promozione tornassero a ripetersi nella sua
testa.
Rivedeva lo scantinato buio ed umido, l’unica lampadina che
dondolava dal
soffitto spandendo una fioca luce gialla intermittente. Vi aveva
trovato interi
scaffali ricolmi di armi che portavano il marchio della ShinRa
– un carico di
artiglieria appena uscito di fabbrica che era stato sottratto alla
compagnia
senza che nessuno se ne accorgesse fino a quando lo Sviluppo Militare
non aveva
compilato il registro della produzione mensile. Aveva fatto scivolare
le dita
sulle casse di metallo ancora sigillate, ordinando agli uomini che lo
accompagnavano di iniziare il trasporto del maltolto verso gli
elicotteri; avevano
trovato il magazzino di armi rubate in cui un gruppo di contrabbandieri
svolgeva trattative di mercato nero.
E solo qualche ora
dopo, mentre ancora erano in
corso le operazioni di recupero, aveva mobilitato la sua squadra ed era
riuscito a individuare l’ID della spia che aveva tradito la
compagnia e le
sottraeva gli armamenti una volta al mese per sostenere un gruppo
antiShinRa,
fingendosi un dipendente qualsiasi nella Sezione di Sviluppo Militare.
Era il
vicedirettore del cantiere in cui le armi venivano assemblate.
Lo avevano trovato il
giorno dopo, nella botola
celata sotto l’abitazione dell’uomo, nel bel mezzo
di una riunione d’affari. I
suoi uomini avevano aperto il fuoco sul piccolo gruppo, le pallottole
che
sfrecciavano da ogni parte, una pioggia acida di morte che lo assordava
e
spostava violentemente l’aria che lo circondava.
Aveva alzato una mano
aperta per ordinare il
cessate il fuoco e si era avvicinato al traditore ferito e tuttavia
ancora
vivo, senza guardare se i piedi calpestavano il pavimento o
scricchiolavano nel
sangue che scorreva lentamente sul cemento.
Ricordava di aver
letto il terrore nei suoi occhi
arrossati, mentre si accasciava sul tavolo, ansimando, tenendosi
stretta la spalla
ferita. Vi aveva visto una tenue speranza di essere risparmiato, di
ricevere un
trattamento diverso per i tanti anni di devozione che aveva dedicato
alla
ShinRa, di essere chiamato a giudizio.
«
Perché lo hai fatto?» gli aveva chiesto,
fermandosi a pochi passi da lui. L’uomo aveva deglutito
rumorosamente,
annaspando, in preda ad un terrore puro:
« Pensavo
che la
ShinRa ci avrebbe aiutati e avrebbe mostrato al
Pianeta una nuova epoca di prosperità e
ricchezza.» era riuscito faticosamente
e risollevarsi, muovendosi zoppicante verso di lui « Ma tutto
è degenerato e mi
sono reso conto che qualcuno doveva intervenire prima che il Pianeta
morisse.»
si era fermato, cadendo in ginocchio ai suoi piedi « Vi
prego. L’ho fatto
perché amo la mia terra. Volevo solo fare in modo che
l’azienda non cedesse ai
proprio difetti…vi prego. Ho sempre servito con diligenza.
Ho sempre fatto il
mio lavoro.»
Tseng lo aveva
osservato per qualche istante,
scrutando quegli occhi terrorizzati e tuttavia ancora speranzosi che
tentavano
in tutti i modi di trasmettergli un silenzioso messaggio, una richiesta
disperata di grazia: e il Turk vi aveva letto anche un significato
nascosto, un
bisbiglio ronzante che tentava di sviarlo, Comprendi
ciò che intendo, perché in fondo anche tu la
pensi allo stesso modo.
«
Alzati.» gli aveva intimato, gelido, la bocca
tirata. L’uomo aveva obbedito, barcollante; Tseng lo aveva
sorpassato,
raggiungendo il tavolo imbrattato di sangue, la mano che esplorava dei
fogli
umidi e sporchi facendoli frusciare nel silenzio teso. Poi alzando gli
occhi,
si era rivolto nuovamente al traditore. Vedeva le sue spalle curve e la
macchia
scura sulla sua camicia sudata:
« Non ti
verrà fatto del male. Il Presidente vuole
parlarti.»
La tensione dei
muscoli dell’uomo si era allentata:
« Vi
ringrazio molto.»
E poi Tseng lo aveva
raggiunto, poggiando la canna
della propria pistola sulla sua nuca. Aveva premuto il grilletto
sentendo il
veleno della menzogna impastargli il palato e la gola.
Gli ordini non
prevedevano dei superstiti.
E ancora una volta,
non c’era modo di ottenere
meriti e complimenti se non facendo del male agli altri.
Un movimento brusco di
Aerith riuscì in qualche
modo a riportarlo alla realtà, distogliendolo da i suoi cupi
pensieri.
«
Tseng,» esordì improvvisamente la ragazzina,
assumendo un cipiglio ostinato « Ti ricordi com’ero
vestita l’ultima volta che
sei venuto qui? Quando ci siamo visti prima che tu partissi.»
Tseng
sollevò appena gli occhi a guardarla,
affatto stupito dalla sua uscita inaspettata e fuori luogo:
« Una
camicia bianca con la gonna corta a pieghe.»
rispose, raccogliendo al volo la sua provocazione « Avevi
delle vistose e
piuttosto brutte calze a righe azzurre.»
Lei non accolse la
palese critica e annuì,
riducendo le palpebre a due piccole fessure:
« E che
orecchini?» si mise due dita dietro le
orecchie per mostrargli le due piccole sfere argentate che spiccavano
sulla
pelle morbida dei lobi.
Tseng
aggrottò la fronte, accennando un sorriso:
era un gioco che le piaceva fare di tanto in tanto, per passare il
tempo quando
lui veniva a trovarla. Lo metteva alla prova, sfidandolo: si divertiva
a
frugare nelle foto istantanee della sua memoria, ripescando a caso
particolari
spesso insignificanti. Capitava raramente che riuscisse a confonderlo,
anche se
a volte le sue domande sapevano rivelarsi ostiche.
« Non avevi
i buchi alle orecchie, l’ultima volta.»
le sfiorò un padiglione auricolare con la punta delle dita
« Ti stanno bene.
Sono piuttosto carini.»
Lei
sospirò, consapevole di essere stata un’altra
volta sconfitta – tuttavia la sua espressione rimase ferma:
« Tu sei
sempre così.» raddrizzò la schiena, le
mani poggiate sullo schienale della panca « Ti concentri
sulle cose
insignificanti. Fai caso ad ogni minimo dettaglio e riesci a rievocarlo
con
estrema precisione anche a distanza di mesi.» lo sguardo le
si riempì
inaspettatamente di tristezza « Però
così facendo non puoi pretendere di
ricordare sempre tutto.»
fece una
pausa, gonfiando le guance in un atteggiamento stizzito e infantile
« Infatti
finisci per dimenticare le cose più importanti.»
Tseng rimase in
silenzio, in attesa che
continuasse.
Aerith era solo una
ragazzina, ma non era stupida.
Sapeva essere acuta, amava parlare, sapeva sostenere senza
difficoltà e con
incredibile lungimiranza delle conversazioni che potevano risultare
ardue a
molti adulti. E nonostante fosse ormai abituato alla sua piacevole e
spesso
divertente eloquenza, il Turk sgranò appena gli occhi quando
sentì le parole
che seguirono.
« Tu non
sorridi quasi mai.» gli disse, le sopracciglia
contratte in una maschera di desolazione « Sembri sempre
coinvolto in qualche
misterioso dialogo interiore, come se dentro di te qualcosa ti
perseguitasse
senza darti tregua, come se…» cercò le
parole giuste prima di aggiungere «…come
se ti tormentassi in continuazione. Quando ti guardo sembri sempre
così
afflitto che mi sembra di provare la tua stessa sofferenza.»
« Non puoi
capire.» azzardò il Turk, la voce
soffocata che scivolava tra le labbra con incertezza malcelata
« Ci sono certe
cose che sarebbe meglio tu non sapessi.»
Aerith gli diede
ragione con un breve cenno del
capo ed un mugolio:
« Non ti sto
dicendo di confidarti con me. Quella
è una scelta che devi fare tu.» e poi
allungò la mano verso di lui, poggiando
piano il palmo sulla sua guancia fredda. Tseng accolse il suo tocco,
sigillando
le labbra. Le sue dita erano tiepide, sentì i polpastrelli
carezzargli incerti
la pelle, come in una silenziosa e timida ricerca. Il Turk chiuse e
riaprì
lentamente gli occhi, il tepore di quel contatto così
insignificante che gli
provocava uno strana sensazione. Sembrava di ricevere un abbraccio dopo
tanti
anni. Quando incontrò di nuovo lo sguardo di Aerith, vide
che il verde smeraldo
dei suoi occhi era liquido.
« Ecco,
Tseng.» riprese, facendo risalire l’indice
fino alla linea dritta del suo naso, ripercorrendola come in un gioco
« Tu hai
degli occhi davvero belli. Sono scuri e profondi e hanno una forma
particolare che
non avevo mai visto prima. Ma se non sorridi sono così
tristi da farmi venire
voglia di piangere.»
« Mi
dispiace.» fu l’unico pensiero compiuto che
gli riuscì di formulare.
Aerith interruppe un
istante l’esplorazione del
suo volto, immobilizzando la mano a mezz’aria; poi decise che
le sue parole
necessitavano una punizione e premette forte l’indice sulla
sua fronte,
costringendolo a piegare indietro il collo.
« Non ti
viene in mente nulla di più intelligente
da dire?» lo rimproverò, continuando a minacciarlo
con il dito teso premuto sotto
la sua attaccatura dei capelli « Potresti magari
promettermi che d’ora in
poi seguirai i miei consigli.»
« Per
esempio?»
La ragazzina
sospirò, esasperata; però poi
sorrise, tentando in tutti i modi di spianare l’increspatura
che era apparsa
tra le sopracciglia di Tseng.
« Sorridi di
più.» disse « E non essere
triste.»
ritirò la mano, poggiandosi con le braccia alla panchina da
cui si era sporta
per raggiungerlo « Sono cose importanti, queste. Cerca di non
dimenticarle.»
Tseng batté
rapidamente le palpebre, le immagini
vivide nei suoi ricordi che si adattavano perfettamente al presente.
C’erano i
suoi occhi straordinari, il suo volto armonioso da bambina, le sue
guance piene
ed arrossate, l’eco della sua voce che gli impediva di
sentire qualsiasi altro
rumore.
C’era Aerith
Gainsborough che nonostante tutto,
nel suo interessamento altruista ed ingenuo, a distanza di tanti anni,
continuava a pregarlo di essere felice.
Non
essere triste, signore.
Hai
dimenticato?
E nonostante quella
situazione lo turbasse in una
maniera che non riusciva bene a comprendere, non riuscì a
fare a meno di
obbedirle.
Le sorrise. Con
lentezza, gradualmente, come nel
raggiungimento sofferto di un traguardo
lontano. Un sorriso che apparve sulle sue labbra sincero e quasi timido.
E nonostante
quell’incertezza sortì l’effetto di
inquietarlo ulteriormente, fu la prima volta che si sentì
apprezzato per il
semplice fatto di essere sé stesso.
Non era di certo il
raggiungimento di quella
felicità estrema che Aerith intendeva, ma almeno fu qualcosa.
Ed era già
tanto.
(xxx)
|
Ritorna all'indice
Capitolo 4 *** Three; The other man who saw her vision • [ ν ] - εуλ 2001 (xxx) ***
Three; The other man who saw her vision
• [ ν ] - εуλ 2001 (xxx)
The day he got
enslaved by honour, altruism and jealousy
---
« Ehi,
capo.» Reno lo guardava con il mento
poggiato su di un palmo ed una matita in bocca,
un’espressione di pura frustrazione
stampata in volto « Ti devo assolutamente rendere partecipe
di una cosa.»
Tseng si
fermò un istante, le mani sospese ed
immobili sulla tastiera del proprio sottile portatile. Stava per
concludere un
rapporto, ma l’improvvisa uscita di Reno gli aveva fatto
momentaneamente
perdere il filo del discorso. Lo ritrovò senza troppe
difficoltà, le dita che
riprendevano rapide a battere sui tasti senza che gli fosse necessario
guardarli. Per quanto spesso si sforzasse di ignorarlo, la voce di Reno
aveva
la strana capacità di attirare l’attenzione
– era gracchiante e morbida al
tempo stesso, un po’ strascicata. Sapeva farsi ascoltare
anche quando non
diceva altro che cose di importanza trascurabile; risultava molto
fastidioso
quando sovrastava altre voci meno acute che invece tentavano di
comunicare
messaggi importanti.
« Non puoi
proprio rimandare a quando avremo
finito?» lo apostrofò, senza degnarlo di una sola
occhiata mentre concludeva di
scrivere il testo. Dall’altra sponda del grande tavolo
provenne un mugolio
seccato:
« No, non
posso.» il tono divenne lamentoso «
Capo, lo devi sapere.» la matita tra le sue labbra si mosse
appena, come una
piccola gru « Ho fatto una scoperta.»
Tseng si
fermò ancora, alzando lo sguardo oltre lo
schermo piatto del terminale. Reno lo fissava battendo pigramente le
palpebre, sedeva
svogliato davanti ad un altro computer: il bagliore freddo dello
schermo acceso
gli si rifletteva sul volto, mettendo in risalto i suoi zigomi marcati
ed il
naso che si era rotto durante la missione di cui stavano in quel
momento
stendendo i rapporti. Aveva ancora un lungo cerotto bianco e stretto a
nascondergli
l’osso scoperto, ma per il resto appariva come il solito uomo
annoiato di
sempre.
Reno sembrava essere
piombato nella Turk senza
nessun motivo preciso, un individuo senza nome e senza passato a cui un
giorno
era stato detto “questa è
la tua nuova
vita”, e che vedendosi trascinare via dallo
squallore dei bassifondi aveva
risposto con un’alzata di spalle. Faceva quello che gli
ordinavano senza troppe
cerimonie, come se si trattasse di semplice e noiosa routine
quotidiana, e in
quel gruppo di giacche blu dava sempre l’impressione di
essere la persona
sbagliata arrivata al momento sbagliato. Quando metteva mano alle armi
sembrava
lo facesse solo per una curiosa coincidenza di eventi, partecipava ai
colloqui
con i superiori come se si trattasse di un modo come un altro per
passare il
tempo, indossava la divisa come se fossero i primi stracci che gli
fossero
capitati a tiro appena alzato dal letto. Ed era un carattere difficile
da
inquadrare. Era Reno. Non si capiva mai cosa pensasse, quando dicesse
le cose
per scherzare o con tono serio, non si capiva se gli importasse o meno
di ciò
che faceva. Si limitava a farlo, spesso e volentieri aprendo bocca solo
per
dire qualcosa di stupido, per annunciare che si stava annoiando a morte
o che
al contrario si stava divertendo da matti. L’unica cosa che
non gli si poteva
rimproverare era l’efficienza: certo, a volte se ne lamentava
fino a missione
compiuta, ma non era ancora capitato che un compito affidatogli non
venisse
portato a termine con estrema efficacia.
Tseng
sospirò silenziosamente, richiudendo il
portatile: lo schermo si congiunse alla tastiera con uno scatto
delicato.
«
E’ solo un modo per evitare di scrivere quel
rapporto.» lo accusò, volgendogli una fredda
occhiata in tralice. Reno sgranò
gli occhi, buttando la testa indietro sullo schienale della sedia, le
ciocche
scarmigliate di capelli rossi e assurdi che si immobilizzavano in
posizioni
antigravitazionali:
« Aaaaah,
capo.» si lamentò, la voce impastata e
alterata dalla matita che continuava a tenere tra le labbra «
Ti pare che abbia
mai consegnato un rapporto incompleto? Forse scritto da cani si, ma non incompleto.
Avanti…» il tono diventò
seccato «…non puoi semplicemente farmi parlare? Il
mio cervello ha lavorato
industriosamente per mesi prima di giungere a questa conclusione. Non
ti costa
niente ascoltarmi.»
Tseng annuì
distrattamente, pensando che forse
valeva la pena assistere ad una delle poche occasioni in cui il
cervello di
Reno dimostrava di esistere e di non essere solo un pigro elaboratore
di
lamentele. Sfilò un foglio bianco da una cartella,
impugnando un portamina che
teneva nascosto nel taschino della giacca:
« Sono
tutt’orecchi.» annunciò, premendo un
paio
di volte la molla per scoprire la
grafite e iniziando a scrivere con scarsa attenzione la
bozza di un nuovo
rapporto.
«
Bene!» annunciò Reno, entusiasta, stabilizzando
la propria postura sulla sedia « Ho notato delle cose sul tuo
conto.»
« Ah,
si?»
«
Già.» continuò Reno, la foga improvvisa
che già
iniziava a scemare « Cerchi sempre di nascondere i tuoi
sentimenti e ciò che
pensi, ma con un po’ di allenamento basta guardarti in faccia
per capire cosa
provi.» si tolse la matita di bocca con due dita «
Io ci ho fatto caso, capo,
mi sono scervellato in una maniera che non hai idea nel tentativo di
capire
cosa diavolo macchini il tuo cervello straordinario quando stai zitto e
lo
sguardo ti si perde nel vuoto.»
Tseng
inarcò un sopracciglio. C’era qualcosa nel
discorso di Reno che iniziava in qualche modo a infastidirlo:
« Non trovi
altro modo di sprecare il tuo tempo?»
L’altro si
affrettò a mettere le mani avanti,
sbilanciandosi appena sulla sedia. Sembrava incredibilmente serio e
convinto
della sua tesi:
« Ascoltami
fino alla fine, capo.» prese a
gesticolare pigramente con una mano « Alla fine, dopo lunghi
studi, sono
riuscito a trovare il tuo punto debole.» fece una pausa
teatrale tenendo
l’indice sollevato, sospeso, poi aggiunse « Ti si
legge tutto negli occhi con chiarezza
incredibile.»
Tseng si
fermò per un istante, la mano poggiata
sul foglio; l’espressione di Reno era imperturbabile mentre
sollevava una mano
ed iniziava ad elencare, contando sulle dita:
« Quando sei
preoccupato abbassi stancamente le
palpebre, quando odi occuparti di un determinato affare ti si scurisce
il volto
in maniera incredibile. E poi la bocca prende una piega che insinua la
depressione in chiunque ti guardi, e ti si corrugano le
sopracciglia.»
« Mi
sembrano solo tue supposizioni senza alcun
fondamento.» commentò l’altro,
riprendendo a scrivere, ostentando completo
disinteresse. Reno non sembrò scoraggiarsi; anzi, fece un
respiro profondo,
prendendo ad esaminare le pareti bianche della stanza mentre proseguiva
con il
suo discorso:
« Ma ho
notato un’altra cosa fantastica e ancora
più incredibile. Ovvero.» fece una pausa per
deglutire ed umettarsi le labbra «
E’ da un po’ che non ti vedo fare quella faccia
orribile da morto che cammina.
Anzi quando risali al Quartier Generale dalla tua missione quotidiana
nei
bassifondi mi sembra sempre che la tua espressione sia più
rilassata. E anche
Cissnei dice che sorridi un po’ più spesso, anche
se la cosa sciocca parecchio
tutti quanti.» i suoi occhi affilati e semichiusi tornarono a
fissare la testa
china del suo capo « E a questo punto mi sono posto una
domanda cruciale, e
concorderai che l’ipotesi che avanzo non sia del tutto
assurda, stupida o
campata per aria.» ci fu un attimo di silenzio prima che
concludesse, la voce
che diventava più acuta e cantilenante, come nel completare
in bellezza uno
scherzo di cattivo gusto:
« Non ti
sarai mica infatuato dell’Antica?»
Crack.
Tseng interruppe di
colpo il moto automatico della
mano, lasciando incompleta una parola: bastò una pressione
minima e mal calibrata
a far spezzare la mina. Il piccolo mozzicone di grafite
rotolò sul foglio,
mentre la polverina nera macchiava la carta.
«
Oooh?» biascicò Reno, un sorrisetto soddisfatto
che gli appariva gradualmente sulle labbra « Non ci
avrò mica azzeccato?»
Tseng tentò
di controllare il tremore che
improvvisamente si era impossessato della mano destra:
poggiò compostamente il
portamina sulla carta, facendolo aderire perfettamente al bordo
superiore del
foglio.
« Mi spiace
deluderti, ma sono solo tue fantasie
astruse.» era riuscito a dire, mantenendo immobili i muscoli
del viso con
maggiore difficoltà del solito « Aerith
Gainsborough fa solo parte di un
incarico a cui io cerco di adempiere con la maggiore efficienza
possibile.»
poggiò entrambe le mani sul tavolo, facendo leva per alzarsi
in piedi « Faccio
solo il mio dovere.»
Il sorriso di Reno
divenne ancora più ampio e
sornione: scrutò i lineamenti del suo capo con una luce
astuta e appagata negli
occhi, poi ridacchiò appena. Sembrava quasi divertito dalle
cose che sentiva e
vedeva, come se avesse previsto tutto fin dall’inizio.
« Ecco
qui.» disse « Hai lo sguardo corrucciato
che ti vedo assumere più spesso.» batté
una volta le mani, abbassando la voce «
Stai mentendo, non è vero?»
Tseng lo
fissò dall’alto, premendo forte i
polpastrelli contro il ripiano della scrivania, osservandolo in
silenzio mentre
batteva le palpebre, di nuovo annoiato e assente come se quella
discussione non
fosse mai iniziata.
Poi prese fiato e si
diresse verso l’uscita della
stanza, le articolazioni delle dita che gli facevano male:
« Voglio
quel rapporto entro la fine del
pomeriggio.»
Sentì alle
proprie spalle uno sbadiglio e dei
fruscii, il cigolio di una sedia girevole che veniva mossa sul
pavimento:
«
Certamente.»
Tseng
oltrepassò la porta scorrevole, avanzando in
silenzio lungo il corridoio, le mani che gli formicolavano.
Cercò di ignorare
la bile che gli inacidiva la saliva, o il sapore tanto familiare che
gli
riempieva la bocca quando faceva ciò che gli riusciva meglio.
Stai
mentendo, non è vero?
Deglutì,
accelerando il passo verso il proprio
appartamento. Sentiva il bisogno di ingoiare alcol.
Reno sembrava stupido,
ma sapeva dimostrare il
contrario.
« Ehi,
Tseng! Tu credi nel destino? »
Il Turk si
immobilizzò nell’atto di rimboccarsi
nuovamente le maniche della camicia, le dita che affondavano nelle
pieghe
bianche del risvolto scivolato fino all’avambraccio. Aerith
aveva interrotto il
suo lavoro e lo guardava battendo le palpebre, poggiando le mani aperte
sul
bordo dell’aiuola, un’aria stranamente
più vivace del solito a dare colorito
alle sue guance.
« Come mai
questa domanda?» l’uomo sistemò i
polsini in modo che non scendessero più, portandoli fino
all’incavo del gomito;
inginocchiato vicino a lei, afferrò nuovamente il martello,
incastrando la coda
di rondine metallica sotto la testa di un chiodo lungo ed arrugginito
che
spuntava da una trave. Fece leva sul manico dell’attrezzo, la
vite che
scricchiolava nel legno e a poco a poco se ne sfilava.
« Nulla di
che.» continuò lei, sporgendosi per studiare
il suo operato « Volevo sapere cosa ne pensi tu. Ti ho dato
fastidio?»
Tseng scosse il capo,
alcune ciocche nere che gli
ricadevano sugli occhi, sfuggendo dal laccio che le assicurava
strettamente
alla nuca. Aerith sembrava più cauta con lui; era cresciuta
di pochi anni ma il
suo atteggiamento era leggermente cambiato. Non si sbilanciava mai
troppo nel
parlargli, sembrava più attenta a non disturbarlo con le sue
parole piuttosto
che tentare in ogni modo di destabilizzare il suo precario equilibrio.
Tseng lo
aveva notato quasi subito, ma era ancora incerto: non capiva se quel
mutamento
dipendesse da Aerith o dal modo in cui lui la percepiva. La maggiore
riservatezza della ragazza tuttavia non lo infastidiva: era una sorta
di
evoluzione, un nuovo stadio del loro modo di farsi compagnia. Qualcosa
che
sapeva quasi di una silenziosa e adulta complicità. Forse
erano semplicemente
cresciuti, entrambi.
«
No.» fece una pausa, interrotto dallo schiocco
del chiodo che, finalmente libero, aveva ridotto in schegge un
frammento di
legno « Però non…»
poggiò il martello «…non saprei cosa
risponderti.»
«
Avanti.» Aerith insistette, sedendosi di fronte
a lui «Tutti ci pensano almeno una volta nella
vita.» alzò gli occhi al cielo,
dondolandosi appena sul posto « Perché
sono
qui? Perché è
successo questo e non
il contrario? Sono domande che tutti si pongono.»
si sporse di nuovo verso
di lui « Dai, per favore. Vorrei sapere!»
Troppo
vicino.
Tseng si
schiarì piano la gola, costringendosi ad
allontanare gli occhi dalla scollatura che lei aveva involontariamente
esposto.
Non
mi è
permesso.
Infilò le
dita negli anfratti dell’asse sconnessa,
facendo forza per staccarla da terra.
A volte capitava che
Aerith si dimenticasse di
essere ormai una donna fatta.
Indossava un vestito
estivo azzurro con i bordi di
merletto che le lasciava scoperte le spalle bianche – una
visione che da
qualche tempo aveva l’effetto di mettere Tseng
inspiegabilmente a disagio. A
partire dalla primavera appena trascorsa, la ragazza aveva iniziato a
legare tra
i capelli un fiocco di seta rosa – le donava un aspetto
più grazioso, ricadendo
dolcemente dalla cima della spessa treccia che le fermava le ciocche
lunghissime. Le arrivavano alla vita ormai.
Il Turk
riuscì a tirare via la trave, provocando
un rumore secco. Aerith si ritrasse appena, sobbalzando.
« Hai scelto
la persona sbagliata a cui chiedere.»
le disse, mentre impugnava nuovamente il martello e si preparava a
togliere un
altro chiodo « Anche se spesso è il caso a mettere
gli uomini in determinate
situazioni, ogni individuo è artefice del proprio
destino.» impresse fin troppa
forza nel gesto di strappare via il bullone « Chi si lascia
semplicemente
trascinare dagli eventi è solo uno sciocco.» si
sentì avvolgere da una
consapevolezza violenta e da una malinconica autocommiserazione, ma
tentò di
non farvi caso.
«
Mmmh.» fu il commento pensoso di Aerith, mentre
si toccava il mento in un atteggiamento concentrato « Tipico
del tuo
pragmatismo. Ognuno sceglie la propria strada, eh? » ci fu un
istante di
silenzio prima che aggiungesse, sommessamente «
Sai…» lo sguardo le si addolcì
mentre chinava la testa « Un po’ di tempo fa
è successa una cosa che mi ha
fatto pensare che il destino esista veramente.»
Un altro frammento di
trave fu strappato via, le
schegge che si disperdevano sulla terra scoperta. Tseng rimase in
ascolto,
proseguendo con il suo lavoro, sistemandosi di tanto in tanto la
camicia bianca
e ormai un po’ sgualcita; la cravatta blu scuro pendeva nel
vuoto, ancora
impeccabile ed al suo posto. Ormai Aerith sapeva che il silenzio del
Turk non significava
mai disinteresse.
« Una
persona è caduta dal cielo.» ridacchiò
appena, socchiudendo gli occhi « Sembra assurdo, ma
è successo davvero!»
sollevò l’indice verso il tetto, indicando un
enorme squarcio da cui era
possibile scorgere il supporto della piastra « E’
precipitato quaggiù senza
farsi niente. Mi ha spaventata.» abbassò la mano
lentamente, portandola a
congiungersi con l’altra adagiata sulle pieghe morbide del
suo vestito « Ma
dopo un po’ ho capito che non c’era niente di cui
avere paura.» alzò di nuovo
gli occhi, entusiasta « Tseng, non credi che sia stato il
destino? Com’è
possibile che sia caduto proprio qui, mentre io mi occupavo dei
fiori?»
Tseng
poggiò il martello e l’ultima vite appena
divelta:
«
Probabilmente una coincidenza.» commentò, senza
farci troppo caso « Ma suppongo che chiamarla destino
faccia un effetto diverso.» un lampo di pacata
preoccupazione gli attraversò gli occhi, la
priorità assoluta della sua
missione che gli tornava alla mente in una fitta improvvisa,
richiamandolo
all’ordine, soffocando qualsiasi altro pensiero «
Quando è successo?»
Lei ci
pensò qualche istante:
« La
primavera scorsa.» disse, tranquilla « Non ti
ho visto molto in quel periodo. Probabilmente non eri a
Midgar.»
Tseng si
fermò un attimo per guardarla, accovacciato,
poggiando un gomito sul ginocchio destro. I rapporti di quel periodo
non accennavano
nulla riguardo l’incidente, ed era certo di non averne mai
sentito parlare prima
che Aerith glielo confidasse. Annotò mentalmente di proporre
una diminuzione allo
stipendio degli incapaci soldati che lo avevano sostituito in
primavera.
« Ti
è stato fatto del male?» indagò ancora,
perentorio. Sentì un brivido gelido di apprensione sincera
insinuarsi nella sua
determinazione professionale, facendola cedere appena. Di colpo le sue
domande
non erano più semplicemente mirate a riempire le lacune di
qualche vecchio registro.
Aerith scosse il capo,
accompagnando il diniego con
brevi mugolii:
« No,
affatto. E’ stato molto gentile con me. Mi
ha detto di essere un SOLDIER.» e prima che Tseng potesse
aggiungere altro,
Aerith gli sorrise. Bastò quel semplice gesto a zittirlo
completamente.
« Ti
preoccupi sempre troppo.» si portò i pugni ai
fianchi in un atteggiamento severo « Sai benissimo che non
sono una
sprovveduta!»
I lineamenti contratti
di Tseng si rilassarono
appena, gli angoli della bocca che si piegavano lievemente verso
l’alto; il
sorriso di Aerith era irresistibile e aveva la strana
capacità di coinvolgerlo,
come una magia bianca sconosciuta.
«
Certo.» tornò al proprio lavoro, afferrando i
bordi scheggiati dell’ultima trave da rimuovere.
Lei colse
immediatamente la velata presa in giro:
«
Insomma!» tentò di colpirlo con il pungo serrato,
mancandogli la spalla destra di un soffio; si arrese quasi subito,
incrociando
le braccia sul petto con fare offeso, lasciando che l’altro
ridacchiasse piano
a labbra strette.
«
…E in ogni caso,» riprese dopo qualche istante,
il tono che diventava quasi incerto « I SOLDIER dovrebbero
essere persone di
cui puoi fidarti, no?» indugiò, lo sguardo basso
sulle proprie mani che
giocavano nervosamente con il pizzo della gonna « Voglio
dire,» sembrò
soppesare le parole prima di concludere « Il fatto che un
SOLDIER mi stia
vicino dovrebbe tranquillizzarti, no? I guerrieri scelti della ShinRa
non mi
farebbero mai del male…» si toccò i
capelli, inquieta, sistemandosi senza
motivo il fiocco rosa « Non credo mi accadrebbe
nulla.»
Tseng socchiuse appena
le palpebre, senza
guardarla:
« Suppongo
di sì.» disse, il tono di voce che
perdeva di colpo colore « L’importante è
che tu sia al sicuro.» deglutì piano.
Le menzogne che le diceva erano sempre quelle più dolorose.
Sembravano violare quel
suo rifugio che odorava di fiori facendovi penetrare i miasmi
cancerogeni che
era costretto a respirare quando non poteva sfuggire al proprio dovere.
Bastava
una sola bugia pronunciata per ingannare Aerith ad avvilirlo come mille
menzogne dette per necessità. Eppure era lei.
Perché non riusciva a dirle la verità?
Odi
non
poterle stare accanto.
Odi
che
siano altri a sorvegliarla.
Vuoi
essere l’unico.
« Ehi,
Tseng.» la voce della ragazza interruppe il
suo flusso di coscienza, facendogli alzare lo sguardo; lei sorrideva
appena, gli
occhi che brillavano in modo strano. Sembrava sollevata:
« Sarebbe
bello pensare la stessa cosa di te e me.»
Le dita premute
sull’asse che ancora giaceva al
suo posto, il Turk non poté fare a meno di mostrarle una
certa perplessità:
«
Cosa?»
Lei si strinse nelle
spalle:
« Tu mi
sorvegli perché ti hanno ordinato di
farlo, lo so.» si sporse verso di lui, battendo le palpebre,
i lineamenti
morbidi che disegnavano un’espressione entusiasta «
Ma non pensi che sarebbe fantastico
pensarla diversamente? Perché ci siamo
conosciuti?» sollevò ancora il dito
indice, frapponendolo tra i loro volti, come a sostenere una tesi
importante « E
se fosse stato il destino a farci incontrare?»
Tseng si
limitò a guardarla, immobile, finché lei
non ridacchiò piano, mostrandogli un altro sorriso
fantastico. Non aveva la più
pallida idea di come risponderle, aveva l’impressione che
qualsiasi cosa avesse
detto avrebbe potuto rovinare quella strana atmosfera che lei era stata
in
grado di creare tra di loro. Si rifugiò nel silenzio,
fuggendo lo sguardo di
quella donna che era diventata la persona più importante, e
probabilmente la
ragione per cui Tseng continuava ad
esistere, sopportando ogni cosa, continuando a trascinarsi
faticosamente.
Tseng
viveva e respirava
per proteggere lei.
Forse lei sbagliava a
chiamarlo destino, ma era
senza dubbio la cosa più bella che gli fosse capitata, nel
bene e nel male. E
in qualche modo, Tseng dubitava fortemente di meritarla.
Ricordandosi il motivo
per cui aveva ancora le
mani sporche di terra ed i polpastrelli pieni di schegge,
tornò a concentrarsi
sull’incarico che lei gli aveva affidato quella mattina.
Strappò via l’ultimo
pezzo di legno, gettandolo vicino al martello ormai inutile.
« Ho
finito.» annunciò, sfregandosi le mani per
rimuovere i granelli di polvere. Fece leva sulle gambe per sollevarsi
in piedi,
mentre Aerith si chinava ad esaminare il suo operato.
« Ti
ringrazio!» esclamò subito, battendo
rapidamente le mani un paio di volte « Ora i fiori avranno
più spazio per
crescere! Non sapevo davvero come fare.» il suo sguardo
vagò nel vuoto per qualche
istante, come alla ricerca di qualcosa che non poteva trovare
« Da sola non ce
l’avrei fatta.»
Tseng le rivolse un
breve cenno del capo,
iniziando a svolgere le maniche e ad abbottonare nuovamente i polsini:
« Non
c’è problema.» raggiunse la panca dove
aveva
ripiegato la giacca, afferrandola « Tornerò
domattina. Vuoi che ti accompagni a
casa?»
Lei si
sollevò, lisciando la gonna con le mani:
«
Uh-uh.» scosse il capo, intrecciando le dita
dietro la schiena « Non ce n’è
bisogno.»
Tseng annuì
brevemente, restio, mentre indossava
la giacca blu della divisa:
« Stai
attenta.» le voltò le spalle, sistemando
con attenzione il colletto della camicia. Cercò il PHS nella
tasca dei
pantaloni, avviandosi lungo la navata centrale verso l’uscita
della chiesa –
sarebbe tornato nella sua lussuosa gabbia al sessantunesimo piano, per
scrivere
e contrassegnare il rapporto quotidiano, e per apporre la propria firma
sui
registri che avrebbe trovato impilati sulla scrivania nera.
« Tseng,
aspetta.»
Sentì i
suoi passi rintoccare rapidi sul pavimento
di legno e la sua mano toccargli la schiena, tra le scapole, un attimo
prima
che lui si voltasse a guardarla; gli lisciò attentamente la
giacca, passando le
dita bianche ed affusolate sulle piccole pieghe della stoffa, seguendo
la cucitura
perfetta del taschino. Nell’altra mano teneva con delicatezza
il gambo sottile
di un fiore bianco: lo infilò nella piccola tasca con
attenzione, lentamente,
in un unico movimento fluido.
«
Tienilo.» poggiò il palmo sul suo petto,
l’altro
braccio che ricadeva lungo i fianchi « Per ciò che
hai fatto per me oggi.»
Tseng premette le
labbra l’una contro l’altra,
percependo il tocco di Aerith come se gli strati pesanti di stoffa non
esistessero, come se lei stesse sfiorando la sua pelle nuda e
arroventata, come
se potesse sentire con facilità il ritmo del suo cuore che
accelerava.
Per una cosa
così piccola.
«
Grazie.» riuscì a dire, compiendo uno sforzo
incredibile nel tentativo di mantenere la voce ferma e non farfugliare.
« Sai,
pensavo di provare a venderli.» aggiunse
lei d’un tratto « Cosa ne dici? Non avevo mai preso
in considerazione una
possibilità simile, ma potrebbe funzionare!»
Tseng annuì
piano:
« Potrai
realizzare il tuo sogno di colorare
Midgar.»
Aerith
annuì con decisione, entusiasmo ed uno strano
affetto che si rimescolavano nel verde liquido delle sue iridi. Tseng
socchiuse
gli occhi, corrugando appena le sopracciglia. La sua mente si
annebbiò del
tutto, perse cognizione di ogni cosa lo circondasse,
l’attenzione che si
focalizzava solo su lei, sulla sua
mano che ancora lo toccava, sul modo irresistibile con cui gli
restituiva lo
sguardo. Per la prima volta dimenticò del tutto i
particolari, i dettagli,
qualsiasi cosa che non riguardasse loro due ed il fatto che lei lo
aveva appena
reso felice in una maniera del tutto nuova ed indescrivibile.
Forse era inutile,
forse era insignificante, forse
era un semplice bocciolo ancora bagnato di rugiada che sarebbe
appassito nel giro
di uno o due giorni. Ma rappresentava la gratitudine di Aerith e dunque
valeva
molto più di qualsiasi altra cosa.
Gratitudine. Era la prima volta per Tseng
ed era stato solo grazie a lei.
Era come affrontare
una continua avventura, un
piccolo passo alla volta, a poco a poco – Aerith lo prendeva
per mano,
guidandolo attraverso il percorso, mostrandogli aspetti della vita che
lui
pensava gli sarebbero stati negati fino a che non avesse smesso di
respirare.
Eppure bastava che ci fosse lei, ed ogni dolcezza, ogni piccola premura
gli
veniva elargita come se anche a lui spettasse di diritto.
I muscoli di Tseng si
contrassero senza che lui ne
avesse il completo controllo: in quel momento di confusione si mosse
senza
riflettere, per la prima volta del tutto succube ed inerme di fronte ad
una
forza sconosciuta. Avvicinò lentamente la mano alla sua
guancia morbida,
posando le dita vicino al suo zigomo morbido e leggermente arrossato;
lasciò
che i suoi capelli lunghi gli lambissero il polso, il pollice che le
esplorava
la guancia in un gesto impacciato che voleva essere una carezza. Lei
rimase
immobile, battendo le palpebre, le lunghe e folte ciglia nere che si
aprivano
in un ventaglio perfetto a coronare quello spettacolo fantastico che
erano i
suoi occhi.
E poi le dita di Tseng
raggiunsero la sua bocca:
era piccola, dischiusa come nell’atto di dire qualcosa, come
se il gesto del
Turk le avesse fatto morire le parole in gola. Sfiorò
l’angolo delle sue labbra,
indugiando – erano lucide, sembravano morbide e calde,
piccoli petali di una
rosa appena sbocciata.
Non
puoi.
Fu un imperativo che
penetrò nella sua testa,
frantumando in un istante qualsiasi altra cosa, mandando in mille pezzi
qualsiasi desiderio, ogni pensiero confuso che non riguardasse ciò che andava fatto. La
nebbia svanì di
colpo, lasciandolo di nuovo completamente padrone dei propri gesti; e
rendendosi conto di ciò che stava facendo, si
immobilizzò, ritirando piano la
mano. Sentiva le pelle bruciare, reclamando ancora disperatamente il
contatto
con le guance soffici di Aerith – ma non c’era
ormai modo di distoglierlo dal
proprio dovere, un ordine martellante che non gli avrebbe dato tregua
fino a
che non si fosse lasciato quella chiesa alle spalle.
Puoi
illuderti che lei ti consideri una persona su cui poter contare.
Ma
non ti
sarà mai permesso di averla.
Mai,
qualsiasi
cosa tu faccia.
Finché
farà parte del tuo lavoro.
Quando a notte fonda
riuscì finalmente a
rinchiudersi nel suo appartamento, dopo aver attraversato in solitudine
i cupi
e freddi corridoi deserti del Quartier Generale, si accostò
alla libreria,
vicino al caminetto spento. Scelse un libro a caso, leggendo
distrattamente il
titolo – non aveva bisogno di informazioni inutili, sapeva
che se gli fosse
servito sarebbe stato in grado di riconoscerlo alla prima occhiata;
sollevò la
copertina rigida e vi pose il fragile dono bianco di Aerith,
maneggiandolo come
se fosse un inestimabile gioiello di cristallo.
E dopo aver sistemato
il libro chiuso tra altri
due anonimi volumi, si sedette sul bordo del proprio letto –
un materasso a due
piazze che rimaneva gelido anche durante le notti d’estate
più afose. Sciogliendo
il nodo della cravatta, guardò la propria immagine riflessa
nel grande specchio
che rivestiva le ampie ante dell’armadio a muro. Non
riuscì a prendere sonno
fino a quando l’eco nelle sue orecchie non si fu estinto del
tutto.
Non
puoi
averla.
Zack Fair era un
SOLDIER di Prima Classe.
La prima volta che
Tseng lo vide con Aerith il
sole stava tramontando, lasciando spazio ad una serata umida di fine
agosto.
Lo aveva visto in
lontananza, riconoscendo
all’istante la divisa e la sua sagoma inconfondibile
– aveva seguito i suoi
movimenti mentre oltrepassava il portone dischiuso della chiesa,
scendendo
piano gli ampi scalini che si susseguivano davanti
all’entrata. Tuttavia il
fiato gli si era mozzato in gola, silenziosamente, quando anche Aerith
aveva
fatto capolino tra i due ampi battenti accostati. Teneva la mano del
SOLDIER
tra le sue così bianche e piccole, quasi che con quel gesto
tentasse di
costringerlo a non andare via.
E in seguito, quando
ormai la ragazza era rimasta
sola e Tseng era entrato nella chiesa, l’aveva trovata
distesa sulle travi del
pavimento, a pochi passi dalla sua ampia e rigogliosa aiuola. Si era
insolitamente accorta della sua presenza solo dopo che lui
l’aveva raggiunta –
il suo sguardo vacuo che fissava il vuoto si era focalizzato
distrattamente su
di lui, assumendo una sfumatura che Tseng non era stato in grado di
interpretare.
« Stai
bene?» le aveva chiesto, chinandosi su di
lei, toccandole piano la fronte con la mano – la sua pelle
era leggermente
accaldata, ma a parte la sottile malinconia nascosta nei suoi
lineamenti non
sembrava mostrare i sintomi di nessun malessere. Lei gli aveva mostrato
un
sorriso timido, socchiudendo gli occhi:
« Non
preoccuparti.»
Tseng aveva deciso di
fidarsi di lei.
Forse lo aveva fatto
solo per proteggersi da sé
stesso. Forse perché nel vedere gli occhi tristi di Aerith
si era reso conto
che molto probabilmente indagare ulteriormente lo avrebbe solo fatto
sentire
peggio.
Zack Fair era un
valente soldato, ma sapeva anche
essere un individuo difficile da gestire. Era giovane, non ancora del
tutto
padrone della sua forza e dei suoi sensi acuiti dal Mako, ancora troppo
entusiasta e spericolato perché gli si potesse affidare una
missione senza
timore che le sue emozioni ne compromettessero il risultato.
Tseng aveva lavorato
con lui proprio a causa di
quel suo piccolo difetto: lo aveva affiancato in vari incarichi,
contrapponendo
al suo impeto giovanile, la propria calma, il proprio giudizio, la
propria
esperienza. Da una parte si era rivelato seccante come tenere
d’occhio un
cucciolo irrequieto – spesso si era ritrovato a doverlo
richiamare all’ordine, assistendo
impotente a bravate ed errori di proporzioni potenzialmente fatali. Ma
da un
altro punto di vista, Zack Fair incarnava l’ideale di un
sognatore che riusciva
a conciliare i propri desideri favolosi con un lavoro che di eroico
aveva ben
poco – essere SOLDIER non era certo come essere un Turk, ma
la morale di fondo
era la stessa: eliminare i nemici della ShinRa, lavorare per la ShinRa,
osservare la morte
del Pianeta sedendo comodamente tra le schiere della ShinRa, senza
poter fare
nulla se non facilitare il suo decadimento.
Forse era per questo
motivo che Tseng lo
apprezzava e accettava di accompagnarlo quando era necessario, anche se
spesso
la cosa comportava di doverlo anche sopportare.
Ma ogni volta che lo
vedeva con Aerith, il Turk
sentiva che qualcosa dentro di sé scricchiolava e si
incrinava, una frattura
che diventava sempre più profonda, innervandosi in una
miriade di rami sottili fino
a minare il suo autocontrollo.
Una sera autunnale si
recò nei bassifondi del
Settore 5 per avvertire Aerith che sarebbe partito la mattina dopo per
un
incarico che lo avrebbe impegnato probabilmente tutto il mese.
Tuttavia, quando
giunse nello spiazzo che si apriva davanti alla chiesa e intravide per
l’ennesima volta la sagoma di Zack che lo precedeva, gli
accadde qualcosa di
insolito.
Afferrò il
PHS, sfilandolo rapidamente dalla tasca
destra dei pantaloni, seguì i passi del SOLDIER mentre
attendeva impaziente che
giungesse risposta dall’altro capo del telefono.
«
L’inizio dell’operazione è
anticipato.» ordinò al
pilota che li avrebbe accompagnati durante la missione «
Voglio l’elicottero
nei bassifondi del Settore 5, ora.» la risposta
dell’intimorito interlocutore
fu un assenso formale, basso ed incerto, ma Tseng richiuse lo
sportellino del
cellulare senza curarsene.
Accelerò il
passo per raggiungere la chiesa – e
quando fu ai piedi della scalinata, fissò la schiena del
SOLDIER, fermandosi:
« Zack,
voglio che tu venga con me a Modeoheim.»
disse, perentorio, facendolo fermare sul penultimo gradino.
« Lo so,
dammi un minuto.» il giovane gli fece un
rapido cenno della mano, voltandosi appena a guardarlo. Tseng
deglutì forte, frenando
l’improvviso scatto di ira che aveva fatto guizzare i muscoli
delle gambe.
Tu
non
dovresti essere qui.
Non
dovresti andare da lei.
Una smorfia di
fastidio deturpò per un istante i
suoi lineamenti composti.
Non
dovresti entrare nel suo santuario.
Lasciala
stare.
Lei
non è
tua.
« Aerith non
c’è.» mentì, in un soffio
« E’ un
problema?»
Questa volta Zack si
fermò. Tutto il corpo di
Tseng si rilassò di colpo, come tirando un profondo respiro
di sollievo. Era
inspiegabile, assurdo, contro ogni logica, ma aveva la certezza
matematica che
se il SOLDIER avesse ancora una volta varcato la soglia della chiesa,
non ci
sarebbe stato più altro modo per tornare indietro. Per la
prima volta, ingoiare
il sapore acre delle menzogne fu come mandare giù uno
sciroppo benefico.
L’occhiata
che il giovane gli rivolse mutò
gradualmente: all’inizio sembrò deluso, mentre si
voltava e scendeva un gradino
verso di lui, poi divenne improvvisamente incerto:
« E tu come
fai a conoscere Aerith?»
La domanda sospettosa
del SOLDIER fece sgranare
appena gli occhi Tseng, provocandogli un forte tremore delle mani. Un
brivido
incandescente di pura rabbia gli risalì rapidamente la gola.
Chi
sei
per chiedermi una cosa simile?
Con
quale
arroganza ti permetti di accusarmi, come se lei fosse di tua
proprietà?
Sentiva il peso dello
sguardo mako del ragazzo su
di sé, percepiva con estrema chiarezza la sua improvvisa
diffidenza, il suo
disorientamento, come se di colpo i ruoli si fossero invertiti, come se
non
fosse lui l’intruso. Come
se in
qualche modo pensasse che il Turk potesse rappresentare una minaccia,
una
pedina fastidiosa in una scacchiera su cui i pedoni erano
già posizionati a suo
favore.
Chi
sei?
Perché sei qui?
Riuscì a
trattenersi con difficoltà, distogliendo
lo sguardo, incrociando le braccia sul petto; l’unica
risposta ambigua che
riuscì a dargli, trattenendo e regolando a dovere il tono
della voce, fu un
enigmatico:
«
E’ una storia lunga e complicata.» Si chiese
confusamente quanto di quel riserbo fosse dovuto al rispetto del
segreto professionale
– che diritto aveva lui di sapere?
Il SOLDIER non
sembrò affatto soddisfatto della
risposta; sospirò rumorosamente, scuotendo il capo:
« Ma
pensa…»
« Lei ti ha
detto qualcosa?» nel porgere quella
domanda, la voce del Turk si schiarì appena. Ma poi Zack si
strinse nelle
spalle, allargando le braccia in un gesto ampio:
« Niente di
niente.»
Tseng rimase sospeso,
in silenzio, le sue certezze
che gli precipitavano addosso in frammenti.
Tutta la rabbia
evaporò in un solo istante, si
dissolse e fu come se non fosse mai esistita; al suo posto sopraggiunse
un’angoscia soffocante. Lo attanagliò con
violenza, avviluppandolo
completamente fino ad impedirgli di riprendere fiato, i gelidi artigli
della
delusione che si conficcavano nella carne e la facevano sanguinare fino
a renderla
cerea.
Gli venne quasi voglia
di ridere, un modo come un
altro per schernire la propria inutile e incrollabile ostinazione
– ancora una
volta non aveva fatto altro che illudersi, stringendo ulteriormente il
nodo del
cappio che lo avrebbe condotto all’autodistruzione. Chiuse
gli occhi e li
riaprì faticosamente, risollevando lo sguardo verso Zack.
Di colpo comprese ogni
cosa con chiarezza,
incastrando piccoli frammenti di ricordi e conversazioni fino ad
ottenere un
unico, chiaro dipinto di cui intuì dolorosamente ogni
sfumatura.
Lei
lo
ama.
Aerith che tentava di
rasserenarlo sui SOLDIER.
Aerith che nel parlargliene sembrava cercare una sorta di benestare,
una
completa approvazione che altrimenti non avrebbe avuto alcun senso.
Il tono di Aerith, gli
sguardi di Aerith, le
guance arrossate di Aerith, la sua allegria che
si manifestava in maniera così prorompente
solo dopo ogni rara visita del SOLDIER.
Aerith che non
riteneva necessario mettere Zack al
corrente del proprio rapporto con il Turk. Che sembrava quasi tentare
in tutti
i modi di nasconderlo.
Aerith,
Aerith, Aerith.
Aerith
che si dedicava ad un altro uomo.
Era tutto
così chiaro, ora.
Così
terribilmente evidente.
Le braccia ricaddero
lentamente lungo i fianchi,
le sue labbra si dischiusero: e nell’immettere fiato nei
polmoni, pronunciò
quelle parole leggermente risentite come se gli venissero estratte
forzatamente
dalla gola:
« Allora non
lo farò nemmeno io.»
Quando furono saliti
entrambi sull’elicottero che
arrivò puntuale solo alcuni minuti dopo, Tseng chiuse il
pesante portello
metallico imprimendo nel gesto forse più forza del
necessario.
I ricordi vividi dei
sorrisi e delle parole di
Aerith si susseguirono davanti ai suoi occhi l’uno dopo
l’altro,
sovrapponendosi, confondendosi gli uni con gli altri, una raccolta
infinita di
attimi che lo avevano reso incredibilmente felice e che in quella
situazione
non facevano altro che acuire il dolore che sentiva.
Un sorriso amaro gli
illuminò cupamente le labbra,
mentre ancora una volta si rendeva conto della crudele e triste
realtà, come
svegliandosi da un sogno.
Non c’era
amore, non c’era dolcezza, non c’era
sentimento nel mondo in cui aveva scelto di vivere. Era quella la sua
punizione; non importava cosa facesse, cosa pensasse, quanto rimorso
provasse
quando uccideva un ennesimo innocente – la realtà
non sarebbe cambiata.
Eppure era ancora
riuscito ad ingannarsi. Forse ci
aveva anche flebilmente sperato, per un breve attimo.
Patetico.
Ripensò
alla donna che era la sua ragione
d’essere, ricordando tutte le volte che aveva ingenuamente
creduto di essere
importante per lei.
Soffocò
quel bisogno disperato che sentiva di
tentare ancora in tutti i modi di tenerla con sé, di
sentirla vicina nonostante
tutto. Ma se per conquistare il suo amore e le sue attenzioni non aveva
altra
scelta che costringerla, non c’era senso
nell’ottenerlo – non l’avrebbe
trattata come una qualsiasi delle sue vittime.
Rise sottovoce, un
tremito basso che gli sgorgò
direttamente dalla gola, senza riuscire a trattenersi, ignorando gli
sguardi
confusi dei compagni di viaggio. Rideva di sé stesso, o
forse era solo un modo
come un altro per domare la tristezza che minacciava di dilaniarlo
dall’interno.
Che
stupido.
(xxx)
|
Ritorna all'indice
Capitolo 5 *** Four; The pink-dressed and her letters • [ ν ] - εуλ 2002/2003 (xxx) ***
Four;
The pink-dressed and her letters • [ ν ] - εуλ 2002/2003 (xxx)
The
day he made a promise of loyalty to his opponent
---
In un nuvoloso pomeriggio di ottobre, Aerith
attraversò il Settore 6 fino a raggiungere il piccolo parco
giochi spingendo un
carrellino cigolante in cui erano ordinatamente sistemati dieci piccoli
mazzi
di fiori appena colti. Era il suo primo timido tentativo: aveva chiesto
aiuto
per scegliere i fiori più belli e li aveva raccolti uno ad
uno, avvolgendoli
nella carta velina colorata con la stessa perizia con cui avrebbe
preparato un
regalo.
La sera prima, quando Tseng aveva raggiunto la
chiesa per il quotidiano turno di sorveglianza, l’aveva
trovata intenta nel
comporre attentamente un mazzo di boccioli bianchi e rossi: stava
legando un
nastro viola intorno agli steli recisi, le dita affusolate che
lavoravano un
grande fiocco lucido.
« Che ne pensi?» gli aveva
domandato, tendendo le
braccia fino a piazzargli il mazzo sotto il naso « Ti viene
voglia di
comprarlo?» lo aveva guardato piena di aspettative.
Tseng aveva trattenuto il respiro, i petali ed i
pollini dei fiori che gli solleticavano il volto ed il loro profumo che
si
confondeva fino a fargli girare la testa. Aveva battuto le palpebre,
guardando
lei e poi la sua prima composizione floreale.
« Ti spiace vendermelo?» aveva
tirato fuori il
portafogli dall’interno della giacca; e sebbene lei avesse
inizialmente
allontanato il mazzo con espressione perplessa, alla fine aveva
giocosamente
iniziato a contrattare.
Era stato il suo primo cliente. Aveva pagato in
silenzio, senza fare caso al prezzo, ricevendo l’acquisto
direttamente dalle
mani di Aerith; gli aveva regalato in cambio un sorriso così
sincero e limpido
che Tseng pensò che quel mazzo di fiori valesse molto
più della cifra irrisoria
di cui lei si era accontenta.
La sera del suo timido debutto sul mercato dei
bassifondi, la ragazza si era incamminata attraverso il quartiere con
la sua
merce profumata, piena di buona volontà ed impazienza.
Tseng l’aveva vista uscire dalla chiesa
tenendo
strette le mani sul manico di legno dell’improvvisato mezzo
di trasporto,
stando attenta a non far urtare le piccole ruote sui grandini della
scalinata.
L’aveva osservata da lontano, ascoltando ogni sua parola,
seguendo i suoi passi
fino al luogo in cui si erano parlati la prima volta –
riuscì stranamente a
compiere il proprio lavoro senza alcuna interruzione, senza imprevisti,
e senza
che lei desse mai segno di essersi accorta della sua presenza.
Zack Fair l’aveva accompagnata lungo
tutto il
tragitto, tentando di adeguarsi al suo passo lento, senza smettere di
parlare
un attimo. Di tanto in tanto si era offerto di spingere il carretto per
lei, ma
dopo che aveva rischiato di rovesciarlo mentre lo conduceva accelerando
il
passo, lei aveva scosso il capo e declinato ogni sua offerta. E
nonostante con lei
facesse spesso e volentieri figuracce tremende, Aerith rideva sempre
con garbo,
nella giusta misura, senza mai eccedere o offenderlo; dava retta alle
sue
spacconate da supereroe o le sue osservazioni divertite come se
ascoltare la
sua voce fosse l’unica cosa di cui avesse bisogno.
Quando infine raggiunsero il parco giochi, Tseng
li vide appostarsi vicino all’altalena sbilenca. Avrebbe
voluto raggiungere
Aerith e assisterla in quel momento che lei considerava così
importante, ma il
dovere lo costrinse a tenersi in disparte.
Non solo
il dovere. Una voce
nella sua
testa gli sussurrò la verità, ma lui
cercò di rimandarla indietro. Poggiò la
schiena sulla superficie ricurva di un enorme animale cavo nel quale a
volte i
bambini giocavano a nascondino – incrociò le
braccia, in attesa.
Il carrellino ricolmo di fiori colorava
quell’angolo polveroso di tinte insolite – alcuni
ragazzini si voltarono
incuriositi, interrompendo i loro giochi.
« Credi davvero che in fin dei conti
qualcuno
comprerà i miei fiori?» il tono di Aerith
suonò improvvisamente teso « Non è
ancora venuto nessuno.» le sue parole provocarono un leggero
divertimento in
Tseng. Erano lì da pochi minuti, ma lei non era mai stata un
tipo paziente.
« Vedrai che arriveranno!» la
rassicurò Zack,
benevolo, sicuro di sé come al solito « Devi solo
aspettare un po’ di più.»
Aerith si toccò preoccupata una guancia,
studiando
il carrello con aria critica ed un po’ rassegnata:
« Se non arriverà nessuno,
darò la colpa al tuo
carrello! Non è abbastanza grazioso.»
Lui rise in risposta:
« Appena potrò te ne
costruirò uno più carino,
allora.»
Lo sguardo di Tseng si perse nel vuoto; volse gli
occhi al reticolato metallico ed arrugginito che faceva da recinzione
al parco,
lo fissò a lungo senza vederlo. Ascoltare le loro
conversazioni era terribile
quanto spiarli quando rimanevano in silenzio tra le mura della chiesa,
godendo
semplicemente della compagnia l’uno dell’altra.
Avrebbe voluto andarsene, si
sentiva un intruso, superfluo come un terzo incomodo. Ma i suoi piedi
rimasero
fermi, immobili nella polvere. Non poteva abbandonare
l’incarico.
« Un cliente!»
sbottò d’un tratto Aerith a bassa
voce, mentre un individuo attempato varcava l’entrata del
parco giochi
probabilmente per recuperare i propri figli. Zack gli corse incontro,
tagliandogli la strada – l’uomo indietreggio di un
passo, sulla difensiva.
D’altronde un esagitato ragazzo dall’aspetto non
esattamente comune – indossava
la divisa SOLDIER della ShinRa ed i suoi occhi brillavano di un accesso
azzurro
come fossero vivide fiamme di Mako – gli era appena apparso
davanti senza alcun
motivo preciso, e oltretutto assumendo un atteggiamento decisamente
allarmante.
« Che dite di acquistare dei
fiori?» gli chiese, esaltato
« Sono solo dieci Gil! E’ un prezzo stracciato! Non
può farsi scappare questa
offerta!»
Aerith lo osservò, divertita,
controbattendo che
l’importante era distribuire i fiori e non quanto denaro
fossero riusciti a guadagnare;
quando lui tornò da lei con aria abbattuta per chiederle
scusa – aveva
ovviamente fatto scappare il primo potenziale cliente della giornata
– lei
scosse graziosamente il capo:
« Non devi scusarti. Sono molto
felice.» gli
sorrise « L’importante è che tu sia qui
con me.»
Tseng chiuse gli occhi. Avrebbe preferito non
sentire una sola parola.
Aerith superò il suo maldestro socio in
affari,
correndo verso una giovane donna che avanzava tenendo in braccio un
neonato,
decisa a fare un altro tentativo – aveva apprezzato la buona
volontà del
SOLDIER ma forse avrebbe avuto più speranze di vendere i
fiori se fosse stata
lei stessa ad occuparsi della pubblicità.
Fu in quel momento che Zack si accorse della
presenza di Tseng, forse aveva semplicemente finto di non vederlo fino
a quel
momento, forse i suoi sensi acuiti dal Mako lo avevano individuato sin
da
quando erano usciti dalla chiesa, e silenziosamente aveva assecondato
il gioco del
Turk facendo finta di nulla.
Tuttavia lo raggiunse, fermandosi al suo fianco con
poche falcate.
« Devo partire.»
annunciò con tono cupo,
incrociando gravemente le braccia sul petto « E’ un
incarico importante assieme
a Sephiroth…non so neppure quando mi sarà
concesso tornare.» il suo sguardo
brillante vagò per un attimo, cercando in tutti i modi di
non incontrare quello
di Tseng – sarebbe stato troppo facile per lui leggervi un
leggero imbarazzo ed
una certa inquietudine.
« A lei lo hai già
detto?» gli chiese il Turk,
senza mezzi termini. Zack annuì, corrugando la fronte,
insinuando una mano tra
i capelli per scompigliarli in un gesto nel quale si mescolavano
impaccio e
frustrazione.
« Il punto è che questa volta
non so quanto
potrebbe durare.» rivelò « Potrei
rimanere via per mesi.»
« Non essere in pena per lei.»
fu straziante come una
ferita d’arma da fuoco, ma Tseng non poté fare
altro che tranquillizzarlo –
tenerla al sicuro era il suo lavoro
«
Proteggere il soggetto fa parte degli incarichi di
sorveglianza.» Zack gli
impedì quasi di concludere la frase – sembrava che
avesse atteso le parole di
Tseng in preda ad un’ansia terribile:
« Sei l’unico di cui possa
fidarmi.»
Tseng lo guardò per qualche istante,
sgranando
appena gli occhi. Le parole del SOLDIER tuonarono dentro la sua testa
come una
filastrocca fantasiosa – ma anche sforzandosi, gli fu
impossibile interpretarle
come uno scherzo di cattivo gusto. Il giovane lo pensava davvero.
Non poté fare a meno di ridere,
portandosi un
pugno alla bocca come a nasconderla.
Si fida
di te.
Era una cosa talmente contraddittoria e incoerente
da sembrare quasi impossibile, eppure quell’uomo che avrebbe
potuto contrastare
un intero esercito senza troppe difficoltà era
lì, era disperatamente serio e gli
stava affidando la donna che amava.
Zack Fair era davvero incredibile. Un grande
stupido che offriva volontariamente il fianco al nemico senza neppure
accorgersene, sbandierando i propri segreti e le proprie debolezze ai
quattro
venti – ma che in qualche modo riusciva a far sentire
importante chiunque lo
circondasse.
Aveva la capacità di trovare i pregi del
prossimo,
ingigantendoli fino a far sembrare ogni aspetto negativo delle inezie
senza
valore – e in un modo tutto suo, riusciva a valorizzare
quelle virtù nascoste
fino a che anche gli altri non le riconoscevano e gli davano ragione.
Il ragazzo sembrò quasi arrossire; si
sporse verso
di lui, contrariato:
« Ehi, perché stai
ridendo?»
Si fida.
Si fida
di te che sei solo un assassino.
Tseng lo guardò, senza dire nulla.
Zack Fair era il suo completo opposto: aveva
scelto la sua strada per rincorrere un sogno, aveva compiuto la sua
scalata verso
il rango di Prima Classe scalciando e sgomitando, allenandosi
strenuamente,
rialzandosi dopo ogni fallimento. Faceva il suo lavoro
perché aveva un
obbiettivo, combatteva perché non si sarebbe arreso fino a
quando non lo avesse
raggiunto.
Zack Fair non mentiva a sé stesso.
Zack Fair si era conquistato il proprio onore con
il sudore e la fatica.
Non lo aveva buttato via come se non gli fosse
più
di alcuna utilità. Aveva lottato per proteggerlo.
Tseng sentì improvvisamente il peso di
ogni azione
compiuta diventare insopportabile; smise di mentire, smise di
nascondersi, si
limitò semplicemente ad accettare pienamente la propria
colpa.
Aveva desiderato che Zack Fair sparisse, che non
fosse mai esistito, che non fosse entrato nella sua vita e in quella di
Aerith.
Lo aveva guardato tante volte, da lontano, desiderando solo che gliela
restituisse.
Sei
meschino.
C’era un modo per sentirsi ancora un
volta fiero
di sé stesso?
Il SOLDIER abbassò il capo, sospirando
sommessamente, voltando appena la testa in direzione
dell’improvvisata fioraia
ancora intenta nelle operazioni di compravendita; era evidente che non
volesse
lasciarla. Indicò il Turk con l’indice puntato,
convinzione e serietà che
tenevano immoti i suoi lineamenti e gli corrugavano fronte:
« Conto su di te.» lo disse
ancora, come se la
prima volta non fosse bastata.
Tseng lo seguì con lo sguardo mentre
correva di
nuovo verso Aerith, distogliendo gli occhi solo quando lo vide
intromettersi in
una contrattazione e rovinarla fino a costringere
l’acquirente ad andarsene con
un nulla di fatto.
L’uomo che gli aveva sottratto
l’unica ragione per
cui Tseng viveva, gli stava donando
la possibilità di riconquistare tutto ciò che lo
avrebbe fatto sentire
nuovamente un essere umano. La
dignità, la fiducia, la morale, la certezza di poter ancora
fare la cosa giusta.
Ora che l’onore serviva a qualcosa, come
avrebbe
potuto tradirlo e ripudiarlo nuovamente? Sarebbe stato doloroso e
spesso
difficile, ma non era forse una prova? Un ennesimo ed ultimo sacrificio
per
riscattarsi dai propri errori?
Bastava rinunciare alla felicità per
riottenere tutto.
Tseng sorrise appena – in ogni caso non
gli era
rimasto nient’altro da perdere.
Zack
Fair. Lo giuro.
Saprò
essere degno della tua fiducia.
In un giorno qualsiasi di metà gennaio,
Aerith
indossò per la prima volta un lungo ed attillato vestito
rosa. Le lasciava le
spalle scoperte e si chiudeva sul davanti grazie ad una lunga fila di
piccoli
bottoni bianchi. Non aveva decorazioni, né particolari
graziosi – era semplice,
disadorno, molto diverso dagli abiti che Tseng ricordava di averle
visto
addosso. Le erano sempre piaciuti i pizzi, i tessuti dipinti o
ricamati, i
gingilli decorativi e le tonalità sgargianti.
« Ho finito di cucirlo ieri
notte.» gli rivelò,
facendo una piroetta sul posto per mostrargli il proprio lavoro; la
stoffa si
gonfiò morbidamente intorno alle sue gambe magre, la lunga e
spessa treccia disegnò
un ampio semicerchio a circondarle le spalle, frustando
l’aria. « Che te ne
pare?»
Tseng la seguì con lo sguardo senza
battere
ciglio, cercando di non fare caso a quanto profondo fosse lo spacco
della gonna
o a quanto graziose fossero diventate le sue forme; l’abito
attillato la
fasciava mettendo in risalto i fianchi morbidi e la vita snella,
disegnando
perfettamente le curve del seno tondo e perfetto:
« Pensavo che il tuo colore preferito
fosse
l’azzurro.» osservò, guardandola mentre
terminava il suo giro e si
immobilizzava davanti a lui, con i piedi uniti.
« Uno strappo alla regola.»
spiegò lei, evasiva.
Come se Tseng non sapesse.
« Pensi che abbia fatto un buon lavoro?
» chiese
ancora, sollevando un lembo della gonna tra l’indice ed il
pollice, studiando
con poca convinzione le cuciture « Mamma mi ha dato qualche
dritta, ma non sono
molto sicura. Credi
sia
troppo semplice?»
Tseng scosse il capo. Lei cercava sempre la sua
approvazione, qualsiasi cosa facesse. E se non voleva il suo consenso,
desiderava un consiglio, un’opinione, qualsiasi cosa che la
facesse sentire
sicura di ciò che faceva. Era sempre stato così,
sin da quando lei aveva dieci
anni e gli aveva chiesto aiuto per scegliere il regalo di compleanno
per sua
madre.
Tseng l’aveva sempre assecondata, quando
ne era
stato in grado. E se serviva a renderla più contenta o
sicura di sé, andava
bene. Anche se ultimamente la cosa gli procurava solo un profondo senso
di
vuoto.
« Trovo che ti stia bene.»
aggiunse, allungando
una mano per toccarle la clavicola esposta « Potresti provare
a cucire anche un
copri spalle.» le suggerì « Non voglio
che ti ammali solo perché a metà gennaio
hai deciso che ti piace il rosa.»
Lei accolse la sua mano senza battere ciglio,
lasciando che la sfiorasse in cima al braccio destro. Ma mentre la
toccava,
anche se durò poco meno di un istante, Tseng
sentì gelare le punte delle dita,
un brivido freddo che gli si insinuava con prepotenza nelle ossa.
Lei soppesò il consiglio per qualche
istante, picchiettando
il labbro inferiore con i polpastrelli:
« Potrei provare a farne uno.»
ci pensò per
qualche istante, il volto concentrato ed assorto « Rosso? Che
dici?»
« Aggiudicato.» il Turk
annuì brevemente. Non gli
importava molto del colore o dell’abbinamento o di qualsiasi
altra cosa potesse
tormentare il senso estetico di Aerith. L’importante era che coprisse quelle sue spalle bianche.
« Bene, allora. Farò un tentativo.» lei
annuì, dirigendosi verso
la panca in prima fila su cui aveva poggiato ordinatamente le proprie
cose – iniziò
ad infilare la sua giacca bianca sagomata, inforcando le maniche
l’una dopo
l’altra « Oggi mamma mi ha chiesto di tornare a
casa presto.» lo informò,
sistemandosi il colletto e tirando su la lunga zip « Voleva
che l’aiutassi a
cogliere qualche fiore dal nostro giardino per riempire i vasi del
salotto.»
« Ti accompagno.» la proposta
di Tseng suonò fin
troppo categorica perché lei potesse rifiutarsi –
infatti fece un cenno rapido
del capo, chinandosi per raccogliere gli attrezzi da giardinaggio ed il
grembiule ripiegato sul pavimento:
« Ti
ringrazio.»
Tseng attese che fosse pronta, osservandola mentre
riponeva le sue cose in una grossa borsa di tela azzurra; gliela
sfilò di mano
quando vide che la sollevava per caricarsela in spalla:
« Lascia fare a me.»
Aerith ridacchiò con aria divertita,
stringendosi
nelle spalle mentre avanzavano insieme verso il portale della chiesa.
Camminarono in silenzio a lungo, i loro passi che
si sovrapponevano nella polvere, un venticello freddo che li frustava
vorticando
tra i capelli di Aerith e tra le ciocche nere dell’ormai
lunga coda di cavallo
del Turk.
Di solito la ragazza non permetteva che tra di
loro calassero silenzi imbarazzanti e soprattutto non sopportava che
Tseng
fosse così taciturno, ma ultimamente era capitato molto
spesso che fosse lei la
prima a non trovare nulla da dire – le sue labbra rimanevano
sigillate, i suoi
occhi catturati dal movimento alternato dei propri passi che si
susseguivano. E
così si limitavano ad affiancarsi, come due estranei che
incontratisi lungo il
sentiero avessero deciso di raggiungere insieme la loro meta comune.
« Tseng.» esordì lei
d’un tratto, con voce fioca;
gli toccò un braccio con la punta delle dita, in un
atteggiamento insolitamente
timoroso « Vorrei parlarti di una cosa.»
Il Turk annuì:
« Ti
ascolto.»
Aeirth fece una pausa, aggrappandosi a lui, le
mani che cercavano rifugio tra le pieghe del suo soprabito di pelle
nera:
« Anche se…» le
sfuggì una risatina imbarazzata mentre
cercava in tutti i modi di non incrociare lo sguardo
dell’uomo «…forse potresti
pensare che io sia una stupida.» scosse il capo, premendo una
guancia contro la
sua spalla, come in un tentativo impacciato di nascondere il volto
« E’
abbastanza imbarazzante.»
« Non riderei mai di te.»
Lei parve sollevata dalle parole del Turk;
inspirò
profondamente, infilando con cautela una mano nella tasca destra della
sua
giacca:
« Ecco…»
frugò per qualche istante, estraendone
infine una piccola busta quadrata di carta rosa « Ho scritto
una lettera, ma
non saprei a che indirizzo spedirla.»
« A chi è
indirizzata?»
La domanda di Tseng fece in modo che Aerith
smettesse improvvisamente di avanzare. Si immobilizzò, al
centro di un incrocio,
gli occhi bassi che ancora una volta sembravano scrutare la punta delle
sue
scarpe pesanti ed impolverate. Il Turk fece lo stesso, guardandola
– sentiva
ancora le sue dita premere con forza contro il proprio braccio.
« Tseng, non ho sue notizie da quasi tre
mesi.»
disse lei dopo qualche istante « Non ho idea di come funzioni
la
ShinRa, non mi è venuta in
mente nessun’altra idea se non questa. Non saprei
cos’altro fare per avere sue
notizie.» sollevò gli occhi verso il Turk
– erano seri, intensi, le
sopracciglia sottili che delineavano un turbamento profondo «
Tseng, non ho
altri che te su cui poter fare affidamento. Se lo consideri un
fastidio, sei
libero di rifiutare.» gli porse la busta, le dita intirizzite
dal freddo che
fremevano appena.
Tseng la osservò per qualche istante, un
turbamento insopportabile che si rimescolava dentro di lui senza dargli
mai
tregua. C’era il viso congestionato di Aerith,
l’eco delle sue parole
speranzose che lo imploravano, il suo sguardo così
insolitamente abbattuto da
far gelare il sangue. E poi c’era quell’anonima
lettera, un sottile foglio di
carta che significava tutto e niente, che faceva male come
un’ennesima
pugnalata.
Zack Fair non era più tornato dalla sua
ultima
missione. Aerith lo aveva atteso ogni giorno, a volte sedendosi da sola
sui
gradini della chiesa, chiedendo spesso a Tseng se avesse sue notizie e
ricevendo sempre la stessa identica risposta avvilente.
Mi
dispiace, non mi sono state fornite informazioni al riguardo.
Quando i rapporti ufficiali della ShinRa avevano
catalogato la missione affidata a Zack Fair e Sephiroth come un totale
fallimento, gli Esecutivi avevano iniziato a comportarsi come se i due
SOLDIER
di Prima Classe non fossero mai esistiti. O meglio, i giornali avevano
riportato solennemente la notizia del decesso dell’eroe
Sephiroth, avvenuto in
circostanze misteriose. Ma la scomparsa di Zack era passata in sordina,
era
stata quasi ignorata, come se la compagnia avesse tentato di proposito
di
occultarla in ogni modo possibile.
I tentativi del Turk di rintracciarlo si erano
rivelati del tutto vani – la ShinRa
non sembrava interessata al suo ritrovamento, il reparto scientifico
non si
esprimeva al riguardo, i registri riportavano la sua morte sul campo
senza
sprecarsi in particolari. E sebbene godesse di piena fiducia e fosse
apprezzato
da tutti i suoi superiori, il grado di Tseng non era abbastanza alto
perché gli
fosse permesso indagare in maniera più approfondita.
Ed ogni volta che Aerith gli chiedeva sue notizie,
lui non poteva fare altro che scuotere il capo, sentendosi del tutto
inutile.
« So che lui è
vivo.» erano le parole che lei non
si stancava mai di ripetere e che spingevano Tseng a non interrompere
le
ricerche.
Lo fai
per lei.
Lo fai
perché hai promesso.
O lo fai
solo per sentirti meglio?
Accolse tra le dita la lettera di Aerith, annuendo
piano:
« Troverò un modo per
fargliela avere.»
In una sera in cui il cielo coperto minacciava
l’inizio
di un temporale, Aerith si inoltrò da sola nel cimitero dei
treni del Settore
7, scomparendo tra la ferraglia ed il metallo corroso
dall’umidità.
Quel pomeriggio, Tseng l’aveva lasciata
piuttosto
tardi; aveva ignorato l’orologio fino a che le lancette non
avevano indicato lo
scoccare delle otto, limitandosi ad ascoltare la sua voce che intonava
motivetti sconosciuti mentre le sue mani armeggiavano laboriose attorno
all’aiuola. Si erano salutati solo all’imbrunire,
quando lei aveva sollevato il
cestino pieno di fiori appena colti e gli aveva chiesto graziosamente
di
accompagnarla a casa; Tseng l’aveva accontentata senza
fiatare, sollevandosi
dalla panca su cui aveva passato la maggior parte del tempo. Era dalla
fine di
Febbraio che Aerith preferiva non essere lasciata sola e che Tseng, di
conseguenza, era diventato ancora più restio ad abbandonare
i bassifondi.
« Devo fare un lavoretto.» gli
spiegò, mentre frugava
nella sua borsa in cerca delle chiavi di casa, in piedi davanti
all’entrata «
Non mi ci vorrà molto, ad ogni modo. Quindi non
preoccuparti, okay?» aveva
infilato la chiave nella toppa, ma nel girarla si era voltata a
guardarlo con
aria severa « Non mi taglierò, non mi
farò male, non sarò in pericolo. Ti basta
come assicurazione?»
Tseng l’aveva assecondata, suo malgrado.
Accettava
di aiutarla con i lavori manuali non solo per semplice altruismo.
« Stai attenta lo stesso.» non
riuscì ad evitare
di dirglielo. Lei aveva sbuffato appena, prendendolo in giro:
« Certo!» la chiave aveva
scattato nella
serratura, mentre la porta si dischiudeva lentamente «
Buonanotte, mio
guardiano dai capelli corvini e dalle poche parole.» Il Turk
l’aveva seguita
con gli occhi mentre scappava dentro casa, mettendosi al riparo da
qualsiasi
sua reazione imprevista – lei sapeva che Tseng non avrebbe
mai varcato quella
soglia, anche se non gli aveva mai chiesto il perché.
Tuttavia lui l’aveva
semplicemente salutata con garbo, rimanendo immobile mentre la porta si
chiudeva. Si era voltato ed aveva iniziato ad allontanarsi, lasciandosi
alle
spalle il rigoglioso giardino che Aerith aveva piantato intorno alla
casetta. In
quello scorcio colorato e pacifico del Settore 5, ogni folata di vento,
anche
se minima, portava con sé i profumi di un mondo che non era
Midgar.
Si era diretto verso la stazione del Settore 7,
controllando distrattamente che lo schermo del PHS non evidenziasse
messaggi non
letti. Aveva aspettato l’arrivo dell’ultimo treno,
in piedi sul ciglio dei
binari, le punte delle scarpe che superavano ampiamente la linea gialla
di
sicurezza. E un quarto d’ora dopo, sistemandosi sui sedili
dell’ultimo vagone,
aveva alzato gli occhi verso il finestrino e l’aveva
vista.
La scorse con la coda dell’occhio, una
figura
minuta e rosa che avanzava piano e spiccava sul grigio
dell’ambiente
circostante, addentrandosi indisturbata nell’angolo dei
bassifondi dove
venivano gettate ed abbandonate le locomotive inutilizzabili. Gli occhi
gli si
sbarrarono quando la vide addirittura scavalcare goffamente le assi che
barricavano
l’entrata, passando le gambe ad una ad una aldilà
del basso ostacolo. Si alzò
di scatto, riuscendo a scendere dal treno poco prima che le porte
automatiche
si chiudessero e la locomotiva iniziasse a muoversi; urtò un
ferroviere,
riconoscendo di sfuggita la sua divisa rossa, mormorando a bassa voce
delle
scuse soffocate.
Non mi
taglierò, non mi farò male, non sarò
in pericolo.
Lei, da
sola, nel cimitero dei treni.
Perché quella donna faceva di tutto per
farlo
preoccupare, per mettersi nei guai, per farlo sentire tanto in ansia da
non
riuscire neppure a ragionare? Perché continuava a ripetergli
che non c’era
nulla di cui preoccuparsi, se poi si cacciava in situazioni simili?
Sentì in lontananza il fischio acuto del
capostazione e lo sferragliare pigro delle ruote metalliche sui binari,
il
rombare raschiante che cresceva gradualmente, raggiungeva il suo apice
e poi
rapidamente si dissolveva, allontanandosi. Aveva appena perso
l’ultimo treno.
Importava?
La seguì silenziosamente, guardandola
mentre
incespicava e urtava bidoni e rifiuti provocando un fracasso infernale
ad ogni
passo. Tuttavia avanzava imperterrita, guardandosi attorno, senza fare
caso
alla giungla di cavi, di spazzatura e rottami che le si apriva davanti
e che minacciava
di inghiottirla non appena avesse commesso l’errore
più stupido. Si fermò un
attimo davanti all’alta e imponente carcassa di un vecchio
vagone – lo scheletro
della locomotiva emergeva dalle vecchie coperture di legno, lunghe dita
ritorte
che sembravano tendersi scompostamente verso l’alto,
scomparendo nel buio cupo
della notte imminente. Le uniche luci che rischiarassero quella zona
proibita
del Settore, a cui il cielo veniva del tutto negato
dall’ombra della piastra
soprelevata, erano delle piccole e accecanti lampadine al neon che
punteggiavano l’immenso soffitto metallico. Aerith si
guardò attorno, spaesata,
l’oscurità che la disorientava – Tseng
sentì dei sommessi squittii in
lontananza, dei fruscii insistenti, un tonfo metallico provenire dalle
proprie
spalle.
E quando lei, sobbalzando, arretrò
appena
rischiando di inciampare su delle assi di legno scheggiate, il Turk
sentì la
rabbia crescere tanto in fretta che le sue gambe si mossero da sole,
ogni
singolo muscolo che si contraeva senza ritmo. La raggiunse,
sostenendola,
afferrandole fermamente un polso; lei ingoiò un grido, si
voltò di scatto, gli
occhi spalancati.
Lei, di
notte, in un posto del genere.
Rimase sospesa, immobile, le palpebre che
battevano in fretta; lo riconobbe dopo qualche istante, i lineamenti
che si
confondevano nella penombra.
« Tseng!» disse il suo nome con
la voce che
diventava di colpo più acuta, le iridi che le si riempivano
della luce
colpevole e di uno stupore quasi terrorizzato.
Una
bambina.
Tseng allentò appena la presa su suo
polso, le
dita che sfioravano piano la pelle liscia della sua piccola mano
destra.
E’ ancora
una bambina.
« Cosa ci fai qui?» le chiese,
tentando di rendere
il proprio tono meno duro possibile. Era talmente infuriato che sentiva
un nodo
ostruirgli la gola ed ogni via respiratoria, ma l’ultima cosa
che desiderava
era metterle paura.
« Te l’ho detto, no?»
si giustificò subito lei
aggrottando le sopracciglia in un atteggiamento nuovamente combattivo
« Devo sistemare
delle cose! Non ti avevo detto di non preoccuparti? Che bisogno
c’era di
venirmi alle spalle a quel modo? Mi hai spaventata!»
« Perché sei venuta
qui?» le chiese ancora, questa
volta assumendo un cipiglio deciso – lei
indietreggiò di un passo « Hai idea di
quanto sia pericoloso?»
« Lo so benissimo!»
ribatté la ragazza, riuscendo
a domare l’incertezza che l’aveva fatta balbettare
appena sulle prime parole «
Sai perfettamente che so badare a me stessa!»
« Cosa dovrei pensare?» le
strinse la mano in un
gesto automatico, senza neppure accorgersene, sentendo le sue dita
abbandonate
ed inermi contro le proprie « Mi racconti una bugia simile
solo per poterti
mettere nei guai con maggiore facilità? Non scherzare con
me, ragazzina.»
« Sapevo che se avessi provato a venire
qui
assieme a te, me lo avresti impedito.» controbatté
ancora lei, rispondendo alla
stretta dell’uomo; piegò le dita contro quelle di
lui in un gesto docile – la
sua espressione si indurì, mentre continuava a contrastarlo,
imperterrita; non
c’era coerenza tra gesti e parole « Ho dovuto
farlo! Sapevo che tu non me lo
avresti permesso!»
Gli occhi di Tseng si sgranarono appena:
« Se me lo avessi detto, non ce ne
sarebbe stato
bisogno.» continuò, stringendole mano con maggiore
impeto « Se mi avessi detto
cosa ti serviva, te lo avrei procurato.»
Lei trattenne il respiro, le guance che le si
arrossavano di rabbia o forse di imbarazzo, stava diventando troppo
buio perché
Tseng riuscisse a percepire la differenza:
« Il carretto si è
rotto.» ammise alla fine,
abbassando la voce e gli occhi « Ha perso una ruota mentre lo
spingevo verso
casa.» la sue dita fremettero appena nella mano del Turk
« Volevo cercare un
pezzo di ricambio.»
Il furore dell’altro si
affievolì appena, una
strana consapevolezza che gli faceva ancora una volta gelare le vene.
Attese
qualche istante, scrutando gli inquietanti e cupi disegni che la luce
fioca
delineava sulle gote di Aerith, sulla curva della sua bocca.
« Perché non mi hai chiesto
aiuto?» domandò alla
fine, con un fil di voce, con tono talmente basso che per un attimo
penso che
Aerith non lo avesse udito « Sapevi che ti avrei
aiutata.»
Non vuoi
che le mie mani tocchino le cose che ti ricordano lui?
E’
così?
Si preparò ad una risposta avvilente, si
preparò
ad avere l’ennesima conferma di quanto quel suo disperato
bisogno di stare con
lei non servisse a nulla, fosse solo un elemento di contorno, di quanto
ogni
delusione facesse sempre più male, nonostante tutto. Ma
Aerith sollevò gli
occhi scuotendo il capo.
« Tu sei sempre troppo gentile con
me.» ammise,
stringendosi in sé stessa « Fai già
tanto e ogni volta mi sembra solo di
crearti fastidi.»
Tseng la guardò, rendendosi conto davvero di quanto quelle poche e banali
parole avessero reso tutto più semplice.
Si accorse solo in quel momento delle loro mani strette l’una
all’altra, ma lei
si rifiutò ostinatamente di lasciarlo andare sebbene
tentasse in tutti i modi
di allontanarla. E alla fine rinunciò.
« Ti aiuterò a sistemare quel
carretto.» concluse
alla fine, categorico, serio, con lo stesso tono con cui avrebbe
pronunciato un
giudizio di vita o di morte, con la stessa solennità con cui
avrebbe impartito
un ordine di fondamentale importanza. Aerith rimase un attimo zitta,
guardandolo
allucinata mentre continuava a tenerle la mano e nel frattempo le
parlava con
quell’espressione grave; poi trattenne improvvisamente il
respiro, soffocando e
trattenendo con difficoltà una risata.
« Non dirmelo con quella faccia,
però.» contestò,
coprendosi il volto con la mano libera – sembrava stesse
facendo uno sforzo
incredibile per non scoppiare a ridere.
E accorgendosi che ora avrebbe potuto agevolmente
trascinarla via da quel posto tremendo e riportarla a casa, dove
avrebbe
finalmente smesso di insistere riguardo la ruota del maledetto
carretto, Tseng
distolse l’attenzione da lei – con
difficoltà – e si guardò
attorno. La vecchia locomotiva usurata dal tempo
sorgeva al centro di uno spiazzo sterrato e a tratti fangoso, un
semicerchio
perfetto delimitato dalle tombe di altri sei vagoni più
piccoli e da una
quantità imprecisata di frammenti di calcestruzzo crepato
che giacevano
disordinatamente sui binari ormai inagibili. La sua memoria infallibile
fotografò ogni particolare, notò la luce
intermittente che ancora
miracolosamente funzionava all’interno di un vagone con le
finestre crepate,
vide la pelle marcia che rivestiva alcuni dei sedili, le pozze
d’acqua che si
erano accumulate ed avevano stagnato sul pavimento metallico dopo le
piogge autunnali.
E poi si interruppe, di botto, scrutando le fessure
che segnavano una spessa asse di legno da cui spuntavano numerosi
chiodi
arrugginiti. La sua memoria non gli mandava segnali, ogni particolare
era nuovo
e sconosciuto, vedeva tante cose ma non ne riconosceva neppure una. E
frugando
nella propria memoria nel tentativo di ricordare e ripercorrere la
strada che
lo aveva condotto fino a quel punto, trovò solo il buio, il
silenzio, ed un
disorientamento sconcertante.
Si guardò ancora intorno, nel vano
tentativo di
trovare qualcosa che potesse essergli d’aiuto. Ma nella sua
memoria fotografica
si accavallavano solo le immagini di quello spiazzo vuoto, freddo, cupo
e
desolato e poi Aerith che correva, Aerith che inciampava, Aerith che
gli urlava
contro e comunque gli teneva la mano, Aerith
che si metteva sempre e comunque
nei
guai.
Sbatté le palpebre, perdendo di botto il
senso
dell’orientamento, sentendosi sperduto ed indifeso come mai
era successo prima.
La sua
memoria non lo
aveva mai tradito.
« Cosa succede?» chiese la
ragazza, notando
improvvisamente il suo disagio.
Tseng non le rispose, cercando con impazienza
quasi febbrile il telefono nella tasca – lo estrasse,
sollevando lo schermo con
un secco movimento del polso.
« Dobbiamo andarcene di qui.»
spiegò, senza
aggiungere ulteriori particolari. In una situazione normale, si sarebbe
affidato al proprio istinto – ma c’era
quell’interferenza, una sorta di
disturbo insistente che gli impediva di raggiungere i ricordi confusi
dei
momenti che lo avevano condotto in quel luogo. E fu con una sorta di
cupa
disperazione che aprendo il PHS, si rese conto che quella zona del
Settore non
era coperta dalla rete telematica della ShinRa. Aveva sperato di poter
chiamare
qualcuno o di rintracciare una mappa della zona tramite le informazioni
satellitari, ma lo schermo del telefono continuava a negargli qualsiasi
servizio. Tentò una telefonata, premendo per qualche istante
il cellulare
sull’orecchio – ma la linea rimase muta fino a
quando, senza fare rumore, non
cadde definitivamente. E alzando gli occhi, vedeva solo rottami e
macerie che
si confondevano con il buio della notte, i ristretti e fiochi fasci di
neon
della piastra che rischiaravano le tombe dei treni come cupe candele
funerarie.
Il cimitero dei treni, sconosciuto, buio, un
dedalo di sentieri e vicoli ciechi che gli era completamente ignoto. Si era perso.
Come aveva potuto distrarsi? Perché non
riusciva a
ricordare?
« Come facciamo?» chiese
d’un tratto Aerith,
accostandosi maggiormente a lui « Non si vede quasi
più nulla.» sembrò
incupirsi appena « Non avevo intenzione di inoltrarmi
così tanto, ma non vedevo
piccole ruote da nessuna parte…»
Tseng non le rispose, mentre
l’inquietante
immagine di lei che si ritrovava in quella stessa situazione da sola gli attraversava la mente
facendogli irrigidire la schiena.
Tentò di valutare la situazione in
maniera
razionale, mentre si rendeva conto di non avere la più
pallida idea di quale
potesse essere la via del ritorno – vedeva mille strade
snodarsi tra le rotaie
e tra le locomotive abbandonate senza un ordine preciso, senza
criterio, il
buio aveva inghiottito ogni cosa nel giro di duecento metri. Rimase
lì
immobile, la mano di Aerith ancora ferma nella propria. E con rammarico
estremo
fu costretto a prendere l’unica decisione ragionevole
– l’unica che gli avrebbe
permesso certamente e senza troppi rischi di proteggere Aerith in
quella
situazione anomala.
« Sarebbe meglio non spostarsi al buio,
senza
neppure conoscere la strada.» ammise, suo malgrado, mettendo
a posto il PHS «
Dovremo aspettare e provare ad andarcene domattina, quando
tornerà la luce.»
Aerith rispose con voce tranquilla, come se
l’idea
non la turbasse affatto:
« Vuol dire che dobbiamo passare la notte
qui?»
« Così pare.»
Cosa era successo? Perché non aveva
prestato
attenzione alla strada? Un errore del genere in qualsiasi altra
situazione
avrebbe potuto rivelarsi fatale.
« E’ colpa mia.»
bisbigliò lei, assumendo un tono
leggermente colpevole « Non credi che dovremmo cercare una
via d’uscita?»
« Vorrei.» ammise, storcendo le
labbra in una
smorfia accennata « Ma il buio non mi permette di avere la
situazione
completamente sotto controllo. Non posso mettere a rischio la tua
incolumità.»
se quella notte avesse commesso anche solo un altro errore, non se lo
sarebbe mai
perdonato.
Nella sua testa si affollavano mille pensieri di
cui riusciva a cogliere a malapena il senso - si sovrapponevano
l’uno all’altro,
un confuso groviglio di voci che gli mettevano fretta, rendendo ancora
più
instabile la sua capacità di giudizio. C’era la
promessa fatta a Zack, c’erano
gli ordini dei superiori, c’era il suo cuore terrorizzato che
ansimava al solo
pensiero che ad Aerith potesse accadere qualcosa. Tutte quante tuttavia
improvvisamente si unirono in un coro talmente chiaro ed unanime da
riuscire
quasi ad assordarlo.
Proteggila.
Riuscì in qualche modo a sciogliere la
presa delle
loro mani; un istante dopo sentì le dita di Aerith
aggrapparsi ad un lembo dei
suoi pantaloni, un gesto timido e leggermente timoroso che gli
riportò alla mente
vecchie foto ingiallite di quella bambina dagli occhi grandi che tanto
tempo
prima lo aveva avvicinato solo per consolarlo.
Hai
seguito il suo consiglio.
Hai
dimenticato del tutto i particolari, non hai prestato attenzione a
ciò che ti
circondava.
Finché
non l’hai raggiunta, hai pensato solo a lei, hai visto solo lei.
La cosa
più importante.
Si sfilò la giacca, sentendo il fruscio
sommesso
della stoffa, ignorando il freddo pungente che gli pizzicò
subito la pelle
attraverso la leggera camicia bianca:
« Per ora conta solo che tu non ti faccia
male.»
lo disse poggiandole l’abito sulle spalle nude, sentendola
che sobbalzava
appena in risposta a quel gesto inatteso « Senti
freddo?»
Lei ci si avvolse dentro, non facendo caso alle
maniche che superavano di una buona decina di centimetri la lunghezza
delle sue
braccia:
« Non molto.» rispose,
curandosi di aggiungere
subito dopo « Scusami, non sono ancora riuscita a finire il
copri spalle.» si
strinse nella giacca, le mani che chiudevano il colletto coprendole
naso e
bocca « Sono un po’ impedita con ago e filo. Ci
metterò ancora un po’.»
Il Turk la ascoltò fino alla fine:
« Potrei anche comprartelo io e farla
finita.»
Lei protestò colpendolo debolmente su di
una
spalla:
« Vuoi scommettere? Lo finirò
entro il mese prossimo!»
lo sfidò, assumendo subito dopo un tono leggermente
impensierito, mentre la sua
mano sfiorava il tessuto leggero della camicia
«…ma sei sicuro che ora non sia
tu a gelare?»
« Sto bene.» mentì
l’altro, cercando di ignorare
il freddo pungente che sentiva e che gli stava a poco a poco
irrigidendo le
dita. Scosse il capo, sbattendo velocemente le palpebre mentre una
folata
improvvisa di vento sollevava un fitto pulviscolo di carbone e terra
– Aerith
strizzò gli occhi, il volto che quasi scompariva dietro la
stoffa spessa della
giacca blu.
« Troviamo un posto coperto.»
propose il Turk,
cercando ancora una volta la mano della ragazza; lei accettò
nuovamente il
contatto, stringendo le dita contro quelle di Tseng come se quel gesto
le fosse
familiare e le infondesse un senso indispensabile di sicurezza. Non
sapeva
neppure con quale incredibile sforzo di volontà, Tseng
riuscì a frenare il
tremore che si era impossessato del suo braccio – non sapeva
se fosse per il
freddo o per la tensione.
O forse è
solo causa sua.
« Posso scegliere io la
reggia?» aggiunse lei con
aria scherzosa, coprendosi la bocca con una manica scura. Si guardarono
attorno, lui freddo e teso come durante una missione di sopravvivenza,
lei
curiosa, quasi divertita dalle circostanze insolite.
« Ecco.» disse Aerith infine,
indicando l’entrata
sbilenca di una locomotiva arrugginita che sorgeva alla loro destra,
nella
penombra, inclinata leggermente su di un lato « Preferisci la
tappezzeria
rossa?» chiese, riferendosi a ciò che restava del
rivestimento di pelle dei
sedili « Oppure una rilassante luce intermittente ad
illuminare un ambiente
caldo e confortevole?» spostò il dito,
mostrandogli un vagone situato davanti a
loro.
La decisione non fu difficile; la luce gli avrebbe
permesso di tenerla d’occhio più facilmente.
Iniziando ad avanzare verso il
treno semi illuminato, Aerith che lo seguiva disciplinata avvolta nella
sua
giacca e tenendosi stretta alla sua mano, decise di assecondarla:
« Preferisco gli alloggi
luminosi.» era difficile
scherzare in quella situazione, ma si rivelò più
naturale del previsto. Forse
era ancora per via di Aerith.
« Come vuole lei, signore, cavaliere,
custode.» disse
tutto d’un fiato, come se le ultime tre parole ne
componessero una sola. Erano
definizioni completamente distorte di ciò che lui era, ma
questo non cambiava
il fatto che per Tseng fossero suonate come un altro ennesimo,
dolcissimo ed
immeritato complimento.
L’entrata della locomotiva era
leggermente
rialzata rispetto al pavimento fangoso – c’erano
dei massi piuttosto grandi che
ostruivano il passaggio e delle vecchie ruote d’auto che
inclinavano il vagone
verso l’alto. Il Turk passò avanti, issandosi sui
massi con due lunghi passi,
in uno slancio abile e fluido; quando fu in cima si voltò
verso di lei, afferrandole
entrambe le mani per aiutarla a salire. Le fissò le gambe
che sfuggivano dallo
spacco ampio della gonna rosa fino a che non fu arrivata al suo fianco,
assicurandosi che gli spigoli appuntiti della pietra non la ferissero.
L’interno della locomotiva odorava di
rancido e di
acqua stagnante; i vetri delle finestre erano del tutto assenti, il
metallo sembrava
essere marcito in vari punti sul soffitto e lungo le pareti. La
lampadina
emetteva brevi e poco intensi lampi facendo luce sui sedili consunti da
cui
emergevano le molle arrugginite ed ormai inutili. Tseng
individuò subito
l’unico ad essere del tutto intatto: il rivestimento era
logoro e sfilacciato,
ma aveva comunque l’aria di essere in qualche modo comodo.
« Siediti.» ordinò,
lasciandole la mano solo
quando lei si fu sistemata dove le aveva detto, obbediente «
Cerca di dormire.»
Lei annuì, osservandolo mentre le dava
le spalle e
riprendeva a guardarsi attorno: poggiò una mano sul cuscino,
mentre con l’altra
impediva alla giacca di scivolarle dalle spalle.
« E tu?» chiese dopo qualche
istante, vedendo che
lui non accennava a raggiungerla ed anzi sembrava cercare un altro modo
per
sistemarsi « Continuo a sostenere con convinzione che
nonostante continui a
negarlo, tu in realtà stia gelando.»
La memoria di Tseng studiò la
locomotiva,
individuando tutte le possibili vie attraverso cui avrebbero potuto
manifestarsi eventuali pericoli – le finestre ai lati del
treno, l’entrata
spalancata, un’ampia fessura nel tetto che sembrava una
brutta ferita tra due
lembi lacerati di pelle frastagliata. Alla fine convenne con
sé stesso che la
postazione migliore per passare la notte fosse quella da cui avrebbe
potuto
controllare senza troppe difficoltà qualsiasi apertura. Si
accostò alla parete
umida di fronte al sedile su cui aveva lasciato Aerith, sedendosi sul
pavimento,
la schiena che premeva contro il metallo gelido e duro:
« Ti ho detto che sto bene.»
mentì ancora,
poggiando i gomiti sulle ginocchia piegate « Starò
qui.»
Gli occhi verdi di Aerith si sgranarono:
« E speri di riuscire a dormire in quella
posizione tremenda?»
« Non è necessario che io stia
comodo.» le fece
notare, guardandola con espressione neutra « Il mio compito
è sorvegliarti.»
aveva già previsto di non chiudere occhio, quella notte. Non
avrebbe commesso
altri stupidi errori. Non poteva.
Tuttavia Aerith si rifiutò di
ascoltarlo; batté
con la mano sull’imbottitura del sedile, al proprio fianco:
« Qui c’è posto
abbastanza per entrambi. Non farmi
arrabbiare e vieni qui.»
« Aerith, ho detto no.»
concluse, categorico, con
tono secco « Ora cerca solo di dormire.»
Quando lui distolse lo sguardo, riuscì a
vederla
mentre gonfiava appena le guance assumendo un broncio bambinesco. Ma
bastò un
solo istante, giusto il tempo di tornare a posare gli occhi su di lei e
cogliere il suo slancio, i suoi passi rapidi e quasi ostentatamente
rumorosi
sul metallo – questa volta gli disobbedì con tanta
irruenza e determinazione
che riuscì quasi a stupirlo. Gli si parò davanti
con aria ostinata, come una
ragazzina testarda che vuole vendicarsi per essere stata disattesa una
sola
volta. Si sedette sul pavimento, tra le sue gambe leggermente aperte e
piegate,
poggiando la schiena sul suo petto con forza, come ad imporsi. Si
sistemò le
pieghe del vestito, lasciando scivolare la stoffa lungo le gambe
graziosamente
abbandonate sul metallo freddo della locomotiva – il gesto
tranquillo di una
dama che aveva appena reclamato ed ottenuto ciò che voleva.
Tseng rimase immobile, tendendosi
all’improvviso,
con violenza, gli occhi spalancati e le labbra dischiuse. La
guardò come se lei
fosse la cosa più strana ed aliena mai apparsa sul Pianeta,
scrutò i suoi
lineamenti tranquilli mentre piegava il collo all’indietro e
poggiava la testa
sulla sua spalla, restituendogli lo sguardo:
« Per una buona volta stammi a sentire
senza
fiatare, testardo masochista che non sei altro.» lo
rimproverò, aggrottando le
sopracciglia « Ti ho già costretto a passare una
notte orribile in questo posto
orribile, non lascerò anche che tu muoia
assiderato.» lo costrinse a porgerle
un braccio, iniziando a sfregare le sue dita tra le proprie «
Guardati. Hai due
cubi di ghiaccio al posto delle mani.»
Tseng non rispose, sentendosi talmente rigido che
per qualche istante temette di poter perdere completamente il
controllo. Sentiva
i capelli di Aerith contro le proprie guance, la sua schiena premuta
contro il
proprio petto, il suo profumo lo investì con tanta forza da
soffocare quasi del
tutto ogni altro odore sgradevole. Sapeva di lei, sapeva del suo essere
sempre
così bella e luminosa, sapeva del suo essere giovane e
sempre nuova; lo spinse
fino all’orlo del baratro, lasciandolo pericolosamente in
bilico, disperato,
smarrito, mentre tentava in tutti i modi di trovare un appiglio, un
appiglio qualsiasi per non
precipitare. Deglutì
con difficoltà, tentando in tutti i modi di sciogliere i
muscoli del collo –
riuscì a poggiare la testa contro il muro, respirando a
fondo, silenziosamente,
la bocca sigillata. Aerith non aveva la più pallida idea di
cosa avesse appena
fatto.
« Ecco.» concluse lei
soddisfatta, avvolgendo la
mano di Tseng con la propria, lasciandola lì
dov’era « Ora se vuoi potrei anche
provare ad addormentarmi.» poggiò ancora la testa
contro la sua gola, la sua
fronte che gli sfiorava il mento « E dormirai anche tu. Se
dovesse esserci
qualche pericolo, ce ne accorgeremmo subito entrambi.»
Tseng dischiuse le palpebre, scrutandola con la
coda dell’occhio. Quei familiari occhi verdi brillavano di
soddisfazione e di
trionfo, completamente ignari di tutto. Eppure bastò quello
scorcio smeraldino
di purezza a calmarlo – come un attimo di bonaccia,
riuscì a rilassare appena i
muscoli.
« L’importante è che
tu lo faccia.» concluse,
atono, mentre lei cercava una posizione più comoda
« Domani andremo via di qui
appena sorge l’alba.»
« Looo so.» cantileno lei,
mentre chiudeva occhi,
un leggero sorriso vittorioso che le illuminava le labbra.
C’era del carbone
che le macchiava una gota arrossata, ma Tseng non osò
toccarla per rimuoverlo.
Ricorda,
Comandante.
Ricordatelo.
Ricordati
che non puoi averla.
E non appena lui la vide abbastanza immobile e
silenziosa – quasi che i suoi tentativi di farla addormentare
fossero andati a
buon fine – lei sollevò un braccio e in un gesto
fulmineo lo piegò intorno al
suo collo, raggiungendogli la testa. Afferrò
l’elastico che raccoglieva i suoi capelli
lunghi sulla nuca, lo sfilò con un gesto rapido ed esperto;
le ciocche
ricaddero libere sulla spalla dell’uomo, lunghe onde di pece
che si adagiarono
morbidamente sulla camicia bianca.
« Oplà.» disse lei,
vivacemente, ritirando la mano,
spalancando ancora gli occhi « Sono finalmente riuscita a
scioglierteli. E’ da
una vita che ci provo.» giocherellò con
l’elastico bianco, rigirandoselo tra le
dita, rimirandolo con espressione fiera come se fosse una sorta di
trofeo
inestimabile.
« I tuoi capelli sono neri come sottili
fili
d’ombra. Come la notte. Sembra di affondare la mano in un
liquido vellutato…come
in un abisso senza fine.» arrotolò una ciocca
intorno all’indice, sfiorando con
il polpastrello il lobo del suo orecchio « Perché
continui a legarli? Mi
piacciono moltissimo.»
Ti voglio
per me.
Il tocco delle dita di Aerith tra i suoi capelli
era allo stesso tempo un veleno fatale ed un balsamo che lo cullava e
gli
mandava lenti e pigri brividi lungo tutto il corpo. Era piacere ed era
tormento. Era il desiderio di abbracciarla e non lasciarla mai andare e
di
allontanarla il più possibile perché altrimenti
non sarebbe più stato possibile
trattenersi.
Vorrei.
Vorrei
potertelo dire.
Tseng sopportò, desiderando che
smettesse ed allo
stesso tempo che continuasse all’infinito. Rimase immobile,
ogni lembo del
proprio corpo che toccava il suo bruciava e si disfaceva, continuava a
mandargli
segnali dolorosi e pulsazioni insopportabili.
Vorrei
che fosse possibile.
« Li lascerò sciolti,
d’ora in poi.» le promise,
mentre i capelli neri gli scivolavano sulla fronte, intralciandogli
appena la
visuale; lei piegò appena la testa per guardarlo,
passandogli una grossa ciocca
dietro l’orecchio per fermarli:
« Lo faresti davvero?»
« Per me non c’è
differenza.» Tseng scosse il
capo, mentre sul volto di Aerith appariva un sorriso di soddisfazione:
era
appena riuscita a vedere realizzato un altro piccolo capriccio. Ed era
insolito.
Sei
l’unico su cui possa contare.
Conto su
di te.
Le parole che avevano suggellato la sua promessa a
Zack Fair lo rintronavano, rimbombando all’infinito come un
monito, un
avvertimento pieno di tensione e di fiducia. Si impose dei limiti, si
trattenne
anche quando sentì il bisogno disperato e lacerante di
toccarla – non poteva
tradire un giuramento, non poteva tradire l’onore,
sé stesso, lei. Non
poteva.
«
Tseng…c’è una cosa che mi domando da un
po’.» lo
deconcentrò, introducendo un nuovo discorso. Lui la guardo
in silenzio, in
attesa, mentre lei continuava a giocare senza troppa attenzione con i
suoi
capelli scuri.
« Il tuo nome…»
esitò appena, la voce impastata da
un improvviso torpore «…non è quello
vero.»
Tseng rimase sospeso qualche istante.
« No, non lo è.»
« Tseng mi è sempre suonato
strano, sai? E’ come
se celasse un segreto.» gli occhi si chiusero e si
riaprirono, un brillare
fantastico che ricordava il bagliore del Flusso Vitale «
Posso sapere cosa
significa?»
E per la prima volta dopo quasi dieci anni, Tseng
prese un respiro profondo e riesumò un vecchio ed
impolverato scrigno di
argento ossidato. Vi infilò piano la chiave, timoroso,
ascoltando il rumore
della serratura che si apriva, temendo che tutti i segreti che vi aveva
serbato
tanto gelosamente fino ad allora potessero scivolare via da quella
prigione
fino a farlo impazzire.
Ma il coperchio scricchiolò appena, si
dischiuse
senza che lui provasse alcun dolore. Quando aprì bocca e
decise che era pronto
a risponderle, la voce gli risalì la gola con inaspettata
naturalezza: tutti i
tesori custoditi in quello scrigno si offrirono a lei, come se fin da
quando vi
erano stati rinchiusi avessero aspettato il suo arrivo per poter
riemergere.
Era ancora una sua magia bianca. L’incantesimo più
terrificante e spaventoso di
tutti, ed allo stesso tempo il più gratificante: lei gli
leggeva dentro, lei
non lo disprezzava, lei sapeva ascoltare.
Era come se tutto ciò che lo riguardava
le fosse
sempre appartenuto.
« Tempo fa esisteva un ragazzo a cui
piaceva
leggere poesie.» mormorò, guardando un punto
indistinto davanti a sé « Suo
padre possedeva una grande biblioteca ricca di volumi.» fece
una pausa,
socchiudendo appena le palpebre « Quel giovane era capace di
passare ore ed ore
ad esplorare gli scaffali ricolmi di libri, anche giornate intere,
finché sua
madre non accorreva a dirgli che era pronta la cena. Non
c’era testo che non lo
affascinasse.»
« E questo cosa c’entra
con…?» azzardò lei, ma
Tseng le passò un braccio intorno alle spalle, poggiandole
l’indice teso contro
le labbra – bastò a zittirla.
« C’era una poesia che lo aveva
colpito in
particolare.» continuò, la voce che diventava un
sussurro « Ogni volta che la
leggeva ne rimaneva sempre più stregato.» un
sorriso debole e malinconico gli
apparve sulla bocca « Gli capitava spesso di ripensarci,
domandandosi strenuamente
quale fosse il significato di quei versi. E nonostante tutti i suoi
sforzi, non
riusciva a comprendere. Non capiva perché lo inquietasse
così tanto, né come
fosse possibile che quelle poche parole assemblate così
abilmente tra di loro
potessero suscitargli un tale turbamento.»
Aerith lo guardò, la bocca dischiusa:
« Cosa diceva quella poesia?»
« Erano pochi versi.»
continuò Tseng, tornando a
poggiare la mano libera sul pavimento, le dita che le avevano sfiorato
la bocca
bruciavano « Raccontavano la morte lenta di un sole che,
percorrendo lentamente
la sua discesa verso l’estinzione completa, raggiungeva i
picchi di un
brillante e maestoso ghiacciaio. E nonostante continuasse a bruciare
anche
durante la sua estenuante eclissi, trasformando in polvere qualsiasi
cosa
incontrasse lungo la sua caduta, alla fine moriva senza essere riuscito
in
alcun modo a sciogliere il ghiaccio di quel monumento millenario eretto
dall’inverno.» riprese fiato, silenziosamente
« Nonostante fossero poche
parole, avevano la capacità di immortalare quella scena
d’agonia con tanta
efficacia ed immediatezza che leggerla era esattamente come fissare un
dipinto.»
fece una lunga pausa, deglutendo, mordendosi il labbro inferiore, la
bocca che
si storceva appena « Tseng.»
riprese «
Tseng è una sigla. Il
titolo di
quella poesia riassunto in cinque lettere.»
Su di loro cadde un silenzio innaturale, le parole
del Turk che si estinguevano lasciando un vuoto rimbombante. Era come
liberarsi
di un peso insopportabile, come lasciare scivolare via strati e strati
di
carbone e sporcizia accumulati negli anni, facendo scorrere
l’acqua santa lungo
la pelle. Aerith lo guardava, la sua bellissima dea dagli occhi verdi,
se ne
stava lì tra le sue braccia, così vicina ed
irraggiungibile:
« E’ così
bello.» commentò, una sorta di strana ed
affascinata sorpresa che le illuminava lo sguardo « Non mi
aspettavo nulla del
genere.»
Tseng non aggiunse altro; abbassò lo
sguardo,
tentando in tutti i modi di non fare caso allo scorcio di pelle bianca
che
intravedeva tra i lembi di stoffa blu e rosa – si
curò di oscurarli, tirando la
giacca da una parte per fare in modo che avvolgesse completamente
Aerith.
« Cosa ne è stato di quel
ragazzo?» chiese ancora
lei, incuriosita. Ma la risposta giunse subito, immediata e priva di
esitazioni.
« E’ morto.»
« Oh.» la ragazza distolse gli
occhi dal volto del
Turk, spostando appena la testa contro la sua giugulare alla ricerca di
una
posizione più confortevole « E’ un vero
peccato.»
Tseng asserì con un breve mugolio
– avrebbe voluto
poggiare la guancia sui capelli di lei, non sapeva con esattezza se il
fatto
che lei potesse sentire il battito irregolare del suo cuore o il suo
respiro
mozzo lo confortasse o lo mettesse in ulteriore agitazione.
Poggiò la nuca
contro la parete, sentendo i capelli sciolti che gli si insinuavano nel
colletto della camicia, solleticandolo appena.
« Un vero peccato.»
La lampadina sfrigolava, mandando lampi irregolari
– il vagone diventava a tratti buio come la notte, tutto il
mondo che
scompariva e appariva nuovamente dopo qualche istante. Le dita di
Aerith
abbandonarono i capelli di Tseng, stanche di giocare –
l’uomo seguì quel gesto
con gli occhi, senza sapere se rimpiangerlo o meno. Sentiva ancora il
tocco
tiepido della mano di Aerith sulla propria, non osava ritrarsi per
timore che
se lo avesse fatto, lei sarebbe improvvisamente svanita.
Ti prego.
Una voce gridava disperatamente dal suo interno,
la sentiva forte e chiara, tanto affranta e supplichevole che
riuscì quasi ad
avere pena di sé stesso.
Ti prego,
fai qualcosa. Anche se solo per poco, anche se è solo
un’illusione, anche se
dopo il solo pensiero ti farà soffrire il doppio.
Ti prego.
Abbracciala. Tienila con te finché non arrivi domani.
Che diritto aveva di darle ascolto? Ancora una
volta la prepotenza di un uomo senza onore?
Aerith sospirò, abbassando finalmente le
palpebre;
mosse ancora la testa, coprendosi la bocca con una mano a celare uno
sbadiglio
silenzioso:
« Tseng… lo aiuterai,
vero?» mormorò, la voce
leggermente impastata dalla sonnolenza che inesorabilmente si
impadroniva di
lei « Lo aiuterai a tornare indietro?»
Lo sguardo di Tseng divenne vacuo.
Zack
Fair. Lo giuro.
Saprò
essere degno della tua fiducia.
La voce del dovere soffocò le altre,
riducendole
ad un sospiro, estinguendole definitivamente.
« Te lo
prometto.»
Si vergognò di sé stesso,
mentre la guardava
sorridere appena, ringraziandolo, addormentarsi come se nulla sul
Pianeta
potesse minacciarla o farle del male, o farla soffrire.
Sapeva farle solo promesse che non era certo di
poter mantenere.
Lo aveva fatto con le lettere, sentendo i sensi di
colpa divorarlo ogni volta che una nuova busta finiva nel
cassetto della sua
scrivania senza che sapesse come farle giungere al destinatario.
(xxx)
|
Ritorna all'indice
Capitolo 6 *** Five; Facing himself in front of the fireplace • [ ν ] - εуλ 2007 (xxx) ***
Five;
Facing himself in front of the fireplace • [ ν ] - εуλ 2007 (xxx)
The
day he used a lie to say goodbye
---
Pioveva a dirotto il giorno in cui Cissnei spense il suo
PHS e svanì nel nulla.
Dispersa
sul campo.
Quando Tseng lesse il rapporto ufficiale che era
stato steso dopo la conclusione dell’ultima missione, le
uniche tre parole che
parlassero di lei lo gettarono in un silenzioso sconforto. Aveva
disteso
lentamente il foglio sulla propria scrivania, massaggiandosi lentamente
la
radice del naso – tentando di adattare il respiro al battito
cardiaco agitato,
aveva fatto scorrere le ruote della sua poltrona, alzandosi in piedi.
Quando convocò nel suo ufficio Reno e
Rude che
avevano lavorato con lei durante il suo ultimo incarico, si erano
presentati solennemente
davanti a lui mostrandogli espressioni cupe. Rude aveva le labbra
contratte e
le sopracciglia corrugate, i muscoli del viso tanto tesi che non ci
sarebbe
stato bisogno di guardarlo negli occhi nascosti per scorgere la
preoccupazione
che lo attanagliava. Reno teneva le mani in tasca e come suo solito non
sembrava affatto turbato – ma quando aprì bocca,
la sua voce aveva subìto una
trasformazione inquietante. Era bassa, roca, un rantolo che gli
risaliva la
gola e fremeva, ogni parola suonava aggressiva e piena di rabbia.
« Ditemi la verità.»
fissando Midgar attraverso la
grande vetrata, la richiesta di Tseng fu perentoria e secca.
« Non ho la più pallida idea
di cosa diavolo sia
successo, capo.» il rosso parlò per primo
« Io e Rude eravamo assieme in
elicottero, Cissnei si spostava via terra, con la moto. Ad un tratto ha
spento
il PHS, l’auricolare è diventato muto ed il suo
indicatore di posizione si è
volatilizzato da qualunque radar.» sollevò una
mano sfilandola dalla tasca, schioccò
le dita « Sparita.»
Tseng abbassò appena lo sguardo,
riuscendo a scorgere
solo il proprio riflesso sbiadito sulla superficie trasparente. Quel
giorno di Settembre
aveva affidato ai suoi uomini una missione di recupero – era
riuscito a dare
inizio all’operazione senza troppe difficoltà, in
segretezza. I registri
catalogavano la missione come un semplice pattugliamento delle terre
aride
intorno a Midgar, dalle porte della città fino alla costa e
Kalm; i registri
formali lo confermavano, ma erano ben pochi coloro a cui era permesso
toccare
gli archivi del dipartimento degli Affari Interni e
l’affidabilità dei
documenti era provata dalla firma di Tseng posta in calce su ogni
foglio. I
segreti della Turk rimanevano nella Turk – e nessuno avrebbe
mai sospettato di
una banale pattugliamento.
Era stata un’infrazione grave, un
tradimento
rischioso, un deliberato occultamento ed una consapevole alterazione di
informazioni – disubbidienze che normalmente avrebbero
portato a gravi
ripercussioni; tuttavia, quel giorno Tseng aveva osservato Cissnei, Reno e Rude salire
sull’elicottero senza pentirsi
un solo istante degli ordini che aveva impartito. Dopo che per anni le
sue
parole erano state semplicemente giudici e proclamatrici di condanne
capitali, questa
volta avrebbero salvato un uomo innocente da una morte ingiusta.
Cissnei si era fermata un attimo prima di
richiudere il portellone, ignorando il fracasso causato dalle pale
ormai in
funzione:
« Lascia fare a me, Tseng!»
aveva urlato, gli
occhi che brillavano di determinazione ed un sorriso sicuro e sereno
sulle
labbra, i capelli ormai corti che le turbinavano intorno al volto
« Te lo
riporterò vivo. Costi quel che costi!»
Il Comandante della Sezione Investigazioni aveva
seguito l’elicottero con gli occhi, fissandolo mentre si
sollevava dalla pista
di decollo e si allontanava provocando un frastuono assordante,
diventando d’un
tratto il catalizzatore di tutte le sue speranze.
Ma.
Tseng deglutì appena, voltandosi
lentamente verso
i due colleghi. Nonostante tutti i suoi sforzi, la realtà
era stata ben
diversa.
« L’abbiamo persa poco dopo
essere venuti a
conoscenza del…» Rude si interruppe, cercando la
giusta maniera di esprimersi «…fallimento
del nostro incarico.»
Tseng annuì piano, avanzando verso di
loro, le
mani congiunte dietro la schiena:
« Capisco.»
« Probabilmente se
l’è svignata.» commentò Reno,
il gorgoglio teso della sua voce che diventava gradualmente
più svogliato « Chi
può dirlo? Era sola, aveva un mezzo veloce,
all’improvviso ci ha lasciati soli
sull’elicottero senza neppure dirci addio.» fece un
gesto rapido con la mano
aperta, come a scacciare degli insetti fastidiosi « Abbiamo
perso le sue tracce
e i rapporti confermano la sua scomparsa. Una fuga perfetta.»
« Dovremmo chiedere il supporto
dell’esercito per
condurre delle ricerche.» propose Rude, sovrastando le
supposizioni vuote di
Reno – il quale stranamente si zittì dopo un
istante, mentre con un gesto
svogliato infilava le dita tra le ciocche rosse eccessivamente lunghe.
« E’ quello che ho intenzione
di fare.» Tseng gli
diede subito ragione, sfilando il PHS dalla tasca destra dei pantaloni.
« Capo, pensaci un attimo.»
riprese Reno,
imperterrito, le dita che tentavano di sciogliere un groviglio di
capelli rossi
e sottili « Magari lei non vuole essere trovata. Lasciala
perdere.» scosse il
capo « Se è davvero filata via avrà
avuto i suoi motivi.» fece una pausa prima
di aggiungere, il tono di voce che si abbassava notevolmente
« E se anche fosse
scappata perché questo posto iniziava a farle schifo,
scommetto che tu stesso le
daresti ragione completamente.» si
grattò la nuca, come se le cose che stava dicendo non
fossero altro che
informazioni gratuite e prive di qualsiasi peso « Certo, non
lo ammetteresti
mai apertamente.»
Perché in
fin dei conti tu odi questo lavoro. Era la conclusione inespressa di tutto il suo
discorso, aleggiò nell’aria
come se Reno l’avesse urlata, un’accusa tanto
veritiera che dopo una miriade di
bugie fece male come un gancio nello stomaco.
Tseng lo studiò, aprendo il telefono.
Reno
ricambiò il suo sguardo senza farsene un problema, i suoi
occhi verdi che non
tradivano alcun turbamento, alcun fastidio, non lasciavano intendere
niente di
niente. Era preoccupato ed era incredibilmente bravo a non darlo a
vedere,
oppure, semplicemente, non gliene importava nulla?
« Reno.» Tseng sostenne il suo
sguardo indecifrabile
con occhiate altrettanto fredde « Non sono il genere di
comandante che rimane
impassibile quando un suo prezioso sottoposto sparisce nel
nulla.» poggiò il
cellulare all’orecchio « E in questi casi, la
priorità per me è assicurarmi che
i miei subordinati stiano bene.»
Reno liquidò la questione con
un’alzata di spalle:
« Lo dici tu.»
Quando tuttavia Tseng parlò
dell’operazione ad
Heidegger, dopo che il PHS aveva squillato a vuoto in attesa di una
risposta,
la reazione dell’Sovrintendente della Sicurezza Pubblica fu
decisamente diversa
da quella che si era aspettato:
« Perché dovrei mobilitare
l’esercito per una cosa
simile?»
Tseng rimase in silenzio per qualche istante, le
labbra dischiuse e gli occhi sbarrati:
« Signore, si tratta di un mio
sottoposto.» spiegò,
rispettoso, cercando di ignorare le smorfie infastidite che avevano
iniziato ad
apparire sulla bocca di Reno.
« Non ho intenzione di sprecare tempo
prezioso.»
aveva continuato Heidegger dall’altro capo del telefono, la
voce che rimbombava
metallica dal ricevitore « Il mio Dipartimento non se ne fa
niente di elementi
incompetenti o inutili, tantomeno si preoccupa quando un sottoposto
scompare in
missione. Se dovessimo condurre operazioni di ricerca per ogni soldato
che
perdiamo in battaglia, non la finiremmo più.»
l’uomo rise sonoramente, come
reagendo d’istinto ad una battuta di incredibile umorismo
« Se la cosa ti sta
molto a cuore, occupatene da solo, ma non ti permetterò di
intralciare altre
operazioni. Se vuoi l’esercito, aspetta al mese prossimo, e
forse potrò
concederti una scorta.» tirò su con il naso,
schiarendosi la gola, rischiando
quasi di soffocare con la sua stessa saliva « Ora lasciami
lavorare.»
Quando Tseng chiuse il telefono, riponendolo in
silenzio al suo posto, a Reno e Rude bastò guardarlo in
faccia per comprendere
quale fosse stato l’esito della chiamata.
« I nostri superiori ci amano.»
commentò
sarcastico il rosso, con tono fatalista prima di aggiungere, disattento
«
Niente di personale, capo.»
Tuttavia, tre giorni dopo, il PHS di Tseng
squillò
svegliandolo alle tre del mattino; e sebbene sullo schermo del telefono
il
numero risultasse sconosciuto, quando il Turk accettò la
chiamata, la testa
affondata stancamente nel cuscino, la voce che gli rispose suonava
incredibilmente familiare.
« Tseng.» Cissnei
pronunciò il suo nome soffocando
le ultime due lettere, un rantolo basso che somigliava ad un singhiozzo
o un
affanno.
« Dove sei?» la domanda del
Turk giunse prima di
qualsiasi altra cosa, impaziente e tesa come se dalla risposta
dipendesse
tutto.
« La spiaggia, davanti a
Midgar.» disse lei
semplicemente « Tseng, vorrei vederti.» fece una
pausa, il suo respiro sembrava
irregolare, il vento sferzava con forza contro il ricevitore provocando
un
disturbo fastidioso « E’ possibile? So di non avere
giustificazioni, forse
avrei fatto meglio a non chiama…»
« Aspettami.» Tseng interruppe
la chiamata senza
farla finire, gettando da una parte il lenzuolo e mettendosi
fulmineamente in
piedi.
Entrò in una macchina di cui la ShinRa
gli aveva dato le
chiavi il giorno della sua promozione, indossando solo una camicia con
il
colletto sbottonato ed i pantaloni di un vecchio completo gessato che
ormai non
indossava più da tempo.
Quando raggiunse la costa, il cielo iniziava a
rischiararsi, colorandosi lentamente dei colori accesi
dell’alba. Si fermò solo
quando vide una Nuova Hardy Daytona 840 parcheggiata al lato della
strada, una
moto di alta cilindrata che veniva fornita alle truppe della ShinRa per
le
missioni di pattuglia rapida o di inseguimento. Quando scese
dall’auto, una
brezza leggera fece frusciare il colletto aperto della camicia, mentre
i
capelli sciolti gli lambivano morbidamente gli zigomi e la fronte. La
luce del
sole nascente infuocava la superficie piatta del mare, fino
all’orizzonte, mentre
il vento leggero lo increspava appena. Cissnei era lì,
seduta sulla sabbia a
pochi metri dal bagnasciuga: aveva i piedi nudi e stringeva le gambe
piegate
contro il petto, mentre la giacca della divisa sgualcita giaceva sulla
sabbia
assieme alle scarpe con il tacco alto ed un involto di stoffa bianca.
Quando
Tseng la raggiunse, senza fare caso alle suole che scricchiolavano
nella sabbia
o ai granelli che si insinuavano all’interno delle scarpe, la
piccola Turk non
si mosse di un millimetro. Si limitò a salutarlo con voce
fioca, continuando a
scrutare il mare e la risacca incessante sulla riva.
« Ciao.» disse «
Grazie per essere venuto.»
L’uomo la affiancò, rimanendo
in piedi:
« Sai che non avrei potuto fare
altrimenti.»
Cissnei ridacchiò appena, debolmente,
muovendo la
testa di lato:
« Sei davvero quel genere di capo che si
affeziona
ai suoi sottoposti, vero?» sembrava divertita dalla cosa,
anche se normalmente
lo avrebbe forse dimostrato in maniera più vivace
« Ho visto anche Reno e Rude,
poco fa.» aggiunse poco dopo, tornando seria « Non
ho resistito. Volevo incontrare
anche loro.»
« Volevo chiedere scusa per il mio
comportamento.
Reno mi ha detto che se non fossi stata una donna mi avrebbe
probabilmente
colpita. Non capivo se dicesse sul serio o se fosse uno dei suoi soliti
scherzi.» si strinse maggiormente in sé stessa,
nascondendo la bocca tra le
ginocchia « Rude mi ha portato un ricambio di
vestiti.» concluse, indicando il
fagotto bianco « E’ stato gentile.»
Tseng annuì debolmente, spostando lo
sguardo verso
un punto indefinito della costa:
« Mh. Suppongo di
sì.»
Passò qualche istante prima che lei si
decidesse a
riprendere; quando parlò la sua voce era tornata incerta,
sottile, quasi un
sussurro:
« Perdonami.»
Tseng continuò a guardare la linea
sfuggevole che
divideva il mare ed il cielo, segnando un confine di sfumature
arancioni, rosa
e rosse.
« Non è stata colpa
tua.»
« Ho fallito.»
l’ammissione di Cissnei risuonò
distorta, segnò una crepa nella sua voce rendendola molto
simile ad un
singhiozzo trattenuto.
Zack Fair
è morto.
Tseng socchiuse gli occhi, spostando lo sguardo
verso il bagnasciuga:
« So cosa è successo. Le cose
non sono andate come
speravamo, ma non è dipeso da te.»
« Lo sapevi, non è
vero?» il tono di Cissnei si
rianimò appena – i due Turk mossero la testa
all’unisono, finendo per
scambiarsi vicendevolmente occhiate intense. Lo sguardo della ragazza
era
limpido, umido, le iridi erano due polle di acrilico castagna che si
rimescolavano come in preda ad una tempesta. Aveva le guance aride e
incavate,
i bordi delle palpebre sembravano gonfi ed arrossati come dopo un lungo
e
silenzioso pianto; e anche ora la sua bocca era distorta, era piegata
in una
curva tanto affranta che Tseng sentì la sua tristezza
penetrargli nelle ossa.
« Sapevi quanto tenevo a lui.»
continuò lei « Per
questo mi hai chiesto di aiutarlo. Sapevi che avrei fatto di tutto per
salvargli la vita.»
Tseng non riuscì né a negare
né a darle ragione.
In realtà aveva semplicemente sperato che i suoi tentativi
si rivelassero efficaci.
« Nessuno ti accusa per ciò
che è accaduto.» non
cercava di consolarla, né la compativa – era solo
un modo come un altro per
dirle come stavano le cose « Hai fatto ciò che
potevi.»
Cissnei sospirò, tornando a nascondere
il volto
tra le ginocchia piegate:
« Sono davvero inutile.»
Tseng rimase in silenzio, mentre
un’improvvisa
fiammata di pietà e disprezzo iniziava a consumarlo
dall’interno. Non compativa
Cissnei, né Reno, né Rude che non erano riusciti
a portare termine
quell’incarico troppo importante – derideva la
propria inadeguatezza.
Chi è il
vero inutile, qui?
Dopo qualche istante, Cissnei sollevò
ancora il
capo, immettendo aria nei polmoni; chiuse e riaprì
lentamente gli occhi, con la
bocca chiusa, poi il suo sguardo si fece più deciso.
Sistemò appena il colletto
della camicia, tirando la cravatta sciolta che le pendeva informe ai
lati del
seno – la legò con gesti esperti, stringendola
fino a quando non le lambì
perfettamente il collo:
« Ho finito la benzina.»
annunciò, mentre frugava
nella tasca dei pantaloni alla ricerca di qualcosa « Non
sapevo cos’altro fare,
ma suppongo che ormai sia finito il tempo per piangersi addosso. Devo
tornare
alla base.» estrasse il suo telefono, aprendolo con un gesto
rapido del polso «
Riattivo il mio ID ed il segnale radar.»
No.
Tseng contrasse appena le labbra, poi le
mostrò la
mano aperta:
« Dammi il PHS.»
Cissnei spostò lo sguardo su di lui e
sul suo
palmo, interrompendosi poco prima di premere il tasto
d’accensione del
telefono; per qualche istante si limitò a studiarlo con
un’espressione
perplessa ed interrogativa negli occhi, forse si stava domandando quali
potessero essere le intenzioni del suo misterioso comandante. Poi
decise di
obbedire e gli consegnò docilmente ciò che le
aveva chiesto.
Tseng lo richiuse premendo le dita contro lo
schermo, provocando uno schiocco metallico – se lo
rigirò tra le mani,
rimuovendo lo sportello che chiudeva lo scomparto in cui venivano
inseriti la
batteria e le schede di riconoscimento. Sfilò l’ID
di Cissnei, una sottile
piccola tessera di metallo su cui era inciso il simbolo della ShinRa,
un chip
di dimensioni ridotte che alla luce rifletteva mille colori, come il
riverbero
mutevole del gasolio. Lo sollevò tenendolo tra il pollice e
l’indice,
studiandolo contro lo sfondo dell’alba, sentendo lo sguardo
dubbioso di Cissnei
che non lo abbandonava un attimo ed ancora silenziosamente si chiedeva
quali
fossero le sue intenzioni.
Il Turk schiacciò l’ID tra le
dita, spezzandolo in
due – i due frammenti scricchiolarono e sfrigolarono, caddero
nella sabbia,
ormai del tutto inutili.
Gli occhi liquidi di Cissnei si fecero enormi, le
pupille che si rimpicciolivano fino a diventare due puntini invisibili
nelle
iridi castane:
« Ma, Tseng, che…!»
Il Comandante non fece una piega, limitandosi a
riporre lo sportellino al proprio posto, richiudendo il reparto della
batteria –
le porse nuovamente il PHS, tenendolo stretto in mano:
« Ora prendilo e gettalo in
mare.»
L’espressione di Cissnei, se possibile,
divenne
ancora più incredula:
« Cosa…?»
Il tono di Tseng si indurì, divenne
basso e
severo:
« E’ un ordine.»
« Ma, signore…»
« Cissnei.» esordì
l’altro, assumendo un tono rigido
« Secondo i rapporti ufficiali risulti dispersa e la ShinRa
non è interessata a
ritrovarti. Io testimonierò, mettendo per iscritto che Cissnei è morta oggi
stesso.»
la guardò, lanciandole un’occhiata gelida
« Non sprecare questa occasione.»
Vattene,
scappa.
Tu che ne
hai la possibilità, sottraiti a questa prigione senza uscita.
Vivi come
una donna e non come un’assassina.
Cissnei lo guardò con gli occhi sgranati
per
alcuni istanti prima di deglutire ed assumere un’espressione
leggermente più
decisa; allungò la mano verso il telefono che Tseng le
porgeva, afferrandolo
con forza. L’occhiata che gli rivolse prima di alzarsi in
piedi fu ferma e
determinata:
« Agli ordini, capo.»
Accettò l’aiuto di Tseng e si
sollevò aggrappandosi
al braccio del collega; poi avanzò a piedi nudi sulla
sabbia, accelerando il
passo – corse fino a quando l’acqua marina non le
lambì le caviglie, bagnando i
pantaloni della sua divisa ormai inutile e priva di significato.
E mentre lanciava il PHS verso quel mare infuocato
dall’alba, un urlo le sgorgò dalla gola
così forte e limpido che chiunque nel
giro di un miglio avrebbe potuto udirlo. Sapeva di libertà.
Quando quel pomeriggio Tseng entrò nella
chiesa,
trovò Aerith distesa tra i suoi fiori. Se ne stava
lì, sulla terra e nella
polvere, i petali che le sfioravano il volto e la stoffa rosa
dell’abito,
guardava attraverso lo squarcio nel tetto che lasciava filtrare la luce
dall’esterno.
La prima reazione fu di stupore e di una sorta di
strana angoscia – la fioraia aveva sempre fermamente
insistito sul fatto di non
calpestare o rovinare i fiori, e gli aveva ricordato spesso di fare
attenzione
a non schiacciarli.
Ma prima che potesse accostarsi
all’aiuola e
accertarsi che lei stesse bene, la voce di Aerith lo
immobilizzò:
« Sapevo che saresti arrivato.»
esordì, mettendosi
a sedere. Era finalmente riuscita ad ultimare anche la piccola giacca
rossa –
l’aveva sempre indossata orgogliosamente sul vestito lungo
che si era cucita da
sola, sin da quando gliel’aveva mostrata, subito dopo aver
concluso l’ultima
rifinitura.
Tseng la raggiunse silenziosamente, porgendole una
mano quando arrivò ai margini dell’aiuola
– fece attenzione a non calpestare i
fiori. Aerith spostò lentamente lo sguardo verso di lui,
accettando il suo
aiuto poco dopo; si sollevò balzando fuori
dall’aiuola,con cautela. I fiori su
cui si era distesa si ripresero lentamente, gli steli elastici che
tornavano
alla loro posizione eretta originaria – alcuni petali bianchi
erano piegati e
scuriti, sembravano chiedere aiuto, fiaccati da una ferita invisibile.
« Vengo a trovarti tutti i
giorni.» le fece
notare, lasciando la sua mano, sentendosi stupido ed insignificante
subito dopo
aver finito di pronunciare quelle parole. Lei sorrise appena, battendo
l’abito
rosa, lasciando scivolare via i granelli di terra:
« Oggi è un giorno
diverso.» sollevò gli occhi
verso di lui « Mi devi dare una brutta notizia,
vero?»
Tseng serrò le labbra, il fiato che gli
si
spegneva in gola. Aveva cercato in tutti i modi di trovare le giuste
parole per
comunicarle ciò che era successo, ma di colpo le vide
volatilizzarsi, diventare
polvere, lasciandolo bocconi e muto.
La reazione ed il silenzio di Tseng bastarono
perché Aerith ottenesse le conferme che cercava –
l’espressione le si spense,
il sorriso che si affievoliva fino a svanire. Abbassò gli
occhi, intrecciando
le dita dietro la schiena:
« Non preoccuparti.» disse
« Io…a volte mi rendo
conto di ciò che succede al Pianeta. Riesco a sentire quando
le persone tornano
nel Flusso Vitale.» fece una pausa, fissando i propri stivali
premuti contro il
pavimento di legno « Quindi, insomma…»
sorrise debolmente, quasi che fosse lui
quello da confortare «…me lo
aspettavo, un po’. Ero preparata.»
Tseng distolse lo sguardo, socchiudendo
malinconicamente gli occhi:
« Mi dispiace.»
« No, no…» lei fece
un cenno rapido con il capo,
scuotendo una mano davanti al volto « Davvero. So che hai
fatto tanto per lui,
perciò, come dire…» era la prima volta
che la vedeva così incerta, così
instabile, così poco convinta di ciò che diceva
«…sono sicura che lui te ne è
grato, anche se…» fece una pausa, il tono che si
sforzava ostinatamente di
rimanere vivace «…ecco, io ti sono molto grata di
tutto ciò che hai fatto.»
Cosa ho
fatto?
Ho mai
fatto qualcosa che potesse renderti felice, finora?
E le parole scivolarono via dalla bocca di Tseng
senza che lui riuscisse a controllarle, gli ustionarono il palato e la
lingua –
avevano il sapore acido che lui conosceva fin troppo bene. Eppure
furono le
uniche che riuscì a dire, quelle che gli sembrarono le
più adatte:
« Sono riuscito a dargli le tue
lettere.»
Aerith spalancò gli occhi,
interrompendosi
nell’atto di dire qualcosa; rimase in silenzio per qualche
istante, in bilico,
sembrava tentare in tutti i modi di riordinare le idee. Quando infine
parlò di
nuovo, un barlume di speranza disegnava un increspatura tra le
sopracciglia, sulla
sua fronte liscia, un lusso che lei non si era mai concessa:
« Dici sul serio?»
Il Turk annuì piano, le mani che
formicolavano,
immobili lungo i fianchi. Non sapeva se lei ci avrebbe creduto o se si
sarebbe
accorta della sua menzogna, non aveva neppure la più pallida
idea di quanto
avrebbe potuto rincuorarla ciò che le stava dicendo.
Tuttavia continuò con
quella recita, sapendo di essere ormai troppo bravo a fingere
perché lei
potesse notare il leggero tremore che gli incrinava impercettibilmente
la voce:
« Le ha lette tutte, fino
all’ultima.» e aggiunse
la frase più dolorosa di tutte, una pugnalata terribile che
lo ferì in pieno
petto « Mi ha detto di riferirti che…»
indugiò appena «…anche lui ti
ama.»
L’espressione di Aerith mutò
velocemente, subendo
dei cambiamenti rapidi, immediati. Batté le palpebre un paio
di volte, con la
bocca leggermente dischiusa, come in preda ad uno stupore sincero
– poi la
piega delle sue labbra curvò ed i suoi occhi divennero
lucidi, mentre il suo
volto così bello e sereno si scioglieva in un sorriso
contenuto, a labbra
strette; era silenzioso, era malinconicamente fantastico, era unico,
sembrava
raccontare una storia ed era in grado di rimpiazzare mille parole.
Tristezza,
angoscia, gentilezza, felicità, sollievo –
un’ondata infinita di emozioni che
si confondevano l’una nell’altra, combattendosi a
vicenda, lasciando sospeso
quel sorriso nel purgatorio dell’ambiguità.
E quel piccolo dono di gratitudine e dolore che
sostituì le lacrime senza far alcun rumore, fu per Tseng
l’ennesima sottile
stilettata, l’ultima, la fatale, l’unica che
grondando veleno dolcissimo gli
trafisse il petto impedendo al cuore di continuare a battere.
Aerith lo raggiunse con passi lenti, fermandosi
solo quando furono così vicini che lei fu costretta a
sollevare lo sguardo per
guardarlo negli occhi. E poi andò contro di lui,
nascondendosi, insinuando le
braccia sotto le sue per raggiungere la sua schiena ampia con le mani.
Si
aggrappò alla stoffa tesa sulle scapole, stringendolo forte,
premendo il volto
contro il suo petto – come se tutto ciò che gli
chiedeva fosse solo di
abbracciarla e di non andarsene, perché senza di lui non
sarebbe riuscita a
rimanere in piedi da sola.
« Grazie.» bisbigliò
« Grazie per tutto ciò che
hai fatto.» la sua voce sussurrata soffocò contro
la stoffa della giacca blu « Sei
la persona più gentile che io abbia mai
conosciuto.»
Tseng trattenne il respiro, la sentì
rabbrividire,
ma lei non pianse mai. Ricambiò la sua stretta, dolcemente,
le sue braccia che
la avvolgevano completamente, una mano che le si insinuava appena tra i
capelli
tesi dietro l’orecchio. Poggiò la guancia contro
la sua fronte tiepida,
sentendo le ciocche castane che si mescolavano a quelle nere come la
notte.
Rimasero l’una nelle braccia
dell’altro a lungo,
in silenzio, mentre le mani di Aerith tremavano contro le spalle del
Turk, le
unghie che gli pungevano appena la pelle. E Tseng la strinse, sebbene
il sapore
della menzogna lo tormentasse tanto da rovinare quell’istante
che normalmente
forse lo avrebbe reso felice.
Addio,
Aerith.
Aveva lo strano sentore che alla fine di
quell’abbraccio, ogni cosa sarebbe andata irrimediabilmente
in frantumi; lei
gli sarebbe sfuggita tra le dita e non ci sarebbe più stato
modo di ritrovarla.
La verità si era rivelata una sera in
maniera del
tutto inaspettata, inattesa, scivolando via dalle labbra umide di alcol
di Reno
in un bar fumoso e
poco frequentato di
Junon. Era passata inosservata come una qualsiasi sciocchezza inserita
a caso
in un discorso sconclusionato di fine giornata, si era dissolta e si
era
annidata in un angolo recondito della mente di Tseng senza riemergere
fino a
quella notte in cui si sedette davanti al fuoco, a bere in solitudine.
Aveva aperto il cassetto della sua scrivania, nel
suo ufficio buio e silenzioso, senza fare caso alle luci bianche e
fredde che
si riflettevano attraverso il vetro sulle pareti ed i mobili, come
piccole ed
immobili lucciole di neon. Aveva riposto in quel nascondiglio una
lettera dopo
l’altra, piccole buste di carta colorata che si erano
accumulate negli anni
senza che lui trovasse modo di consegnarle nelle mani
dell’uomo a cui erano
state indirizzate – erano ancora lisce ed intonse,
immacolate, non vi era
scritta nessuna intestazione, non era indicato nessun mittente, si
sentiva
ancora lievemente l’aroma floreale di cui erano state impregnate. Le aveva prese
tra le dita,
sentendole frusciare e scricchiolare, sentendosi inadatto ed indegno di
toccare
quei piccoli e fragili cimeli con cui lui, in fondo, non aveva mai
avuto niente
a che fare. Aveva cercato il proprio timbro ed aveva lasciato
sciogliere la
ceralacca nel fornello – aveva tirato il nastro blu che
legava le missive,
lasciando che si sparpagliassero disordinatamente sulla scrivania
lucida. Aveva
apposto il sigillo su ognuna di esse, ottantotto piccole buste mai
aperte e che
non sarebbero mai state lette da nessuno – e dopo averlo
fatto, aveva richiuso
il cassetto, le aveva nuovamente legate tra di loro, le aveva prese tra
le dita
ed aveva lasciato l’ufficio.
Si era chiuso nel suo appartamento e si era
sfilato la giacca, ripiegandola accuratamente prima di poggiarla sullo
schienale dritto di una sedia di mogano spesso. Aveva poggiato il
piccolo mazzo
di lettere sul tavolo, accostandosi subito dopo al vassoio su cui erano
sistemati dei bicchieri di vetro ed una bottiglia di gin –
versò il liquore
fino all’orlo, aggiungendo distrattamente due cubetti di
ghiaccio. Si era
accostato alla libreria, ascoltando il leggero scoppiettare del fuoco
nel
caminetto acceso, mentre il riverbero intenso delle fiamme lasciava
inquietanti
spennellate sanguigne sul suo volto, sulle pareti, in ogni angolo del
salone
buio. Una rapida occhiata alle file ordinate di volumi era stata
sufficiente:
aveva sfilato il libro dalla copertina rigida, aprendo la prima pagina:
il
fiore bianco che Aerith gli aveva regalato era ancora lì,
rinsecchito,
ingiallito, sottile e fragile come un foglio di pergamena antica
– lo aveva
preso tra le dita rimuovendolo dal nascondiglio che lo aveva accolto e
custodito per molti anni, sentendo in cuor suo che stava profanando un
tesoro
preziosissimo. Tornando al tavolo, aveva insinuato il gambo pressato
del fiore
di carta sotto il nastro blu che legava le lettere – sembrava
tutto perfetto,
ora, ottantotto meravigliose dichiarazioni d’amore che non
sarebbero mai state lette
ed un piccolo bocciolo che significava nulla e tutto, il simbolo
rinsecchito di
un amore che non sarebbe mai stato soddisfatto.
Si era accostato al camino, stringendo in una mano
il bicchiere pieno d’alcol e nell’altra il
paradossale connubio di due cuori
traditi e follemente innamorati.
Tseng, tu
credi nel destino?
Aveva fissato le fiamme a lungo, ingoiando
lentamente piccoli sorsi di liquore, sentendolo sfrigolare sulla lingua
e lungo
la gola, un bruciore che lo infastidiva piacevolmente, facendogli
dimenticare,
anche se solo per brevi istanti, qualsiasi altra cosa.
E se
fosse stato il destino a farci incontrare?
Era bastato un movimento rapido del braccio, come
una condanna senza appello – le lettere si adagiarono tra le
fiamme, sollevando
piccoli lapilli ed una nuvola di cenere ardente. Il fiore bianco si
dissolse
immediatamente, in un battito di ciglia, venne divorato dal morso del
fuoco e
dopo un istante fu come se non fosse mai esistito.
Le bugie
sono come una droga.
Seduto sulla poltrona, Tseng osservò
l’esecuzione
capitale di anni ed anni di speranze e promesse infondate, mentre il
calore del
fuoco e dell’alcol riuscivano ad estraniarlo dalla
realtà – la sua espressione
rimase immota, imperscrutabile, nei suoi occhi si rifletteva il
bagliore
amaranto del fuoco, cupe luci rosse che danzavano in un abisso
d’oscurità. La
ceralacca iniziò a colare, i timbri a disfarsi fino a
diventare
irriconoscibili.
L’
inconveniente è che dalla quarta in poi diventa impossibile
tenere il conto.
Quanto
tempo fa hai perso il conto?
Cos’era stata la sua vita fino a quel
momento, se
non un patetico susseguirsi di menzogne? Era mai riuscito a dire la
verità,
quando si era rivelato arduo affrontarla? Non aveva forse continuato a
scappare
fino a quando la realtà gli si era parata davanti,
categorica ed immutabile,
ferendolo con tanta violenza da distruggerlo definitivamente?
Il nastro di stoffa scura si sfilacciò,
si
accartocciò, divenne una piccola scultura di carbone, uno
scherzo ritorto ed
irregolare che cadde in pezzi e divenne cenere.
Ormai aveva senso continuare ad ingannarsi?
Credevi
che le menzogne ti avrebbero aiutato a sentirti meglio?
Una voce femminile lo rimproverò in
lontananza, un
ricordo flebile che pensava di aver seppellito da tempo e che tuttavia
ora
tornava a biasimarlo, implacabile, spietato.
No.
Tseng portò il bicchiere alla bocca,
premendo il
vetro freddo contro le labbra bollenti. Ingoiò il liquore
con una sorsata
lunga.
Ho
mentito solo perché lo ritenevo necessario ed inevitabile.
Tutto aveva avuto inizio con una bugia, e tutto
sarebbe finito allo stesso modo.
Gli bastò chiudere gli occhi per
vederla. Era lì,
una ragazza bellissima dal volto luminoso che rifulgeva come una stella
–
indossava il suo grazioso vestito azzurro con i bordi di merletto,
roteava su
sé stessa, lo chiamava, sorrideva, gli chiedeva di
raggiungerlo per vedere quanto
erano diventati belli i fiori. I suoi occhi erano vivaci e accesi, due
cristalli di Flusso Vitale in cui chiunque avrebbe solo trovato
gentilezza,
premure, una tranquillità assoluta. La raggiunse in un
attimo, le carezzò una
guancia con la mano, la sua pelle era tiepida e vellutata come era
sempre
stata, le sue gote erano leggermente arrossate, le sue labbra quel
meraviglioso
bocciolo di rosa umido di rugiada che lo aveva sempre fatto impazzire.
La baciò
tenendo il suo viso tra le mani, sentendo i suoi capelli che gli
sfioravano le
dita, sentendo la sua bocca contro la propria, sentendola morbida e
perfetta,
dolce come solo lei poteva essere. La baciò ancora e ancora,
senza
interrompersi neppure per respirare, sentendo la sua bocca che si
adattava e a
poco a poco lo ricambiava, sentendo il suo corpo sottile contro il
proprio, il
suo respiro corto sfiorargli le guance.
Ti amo.
Sentì il suo sapore sulla lingua senza
stancarsene
mai, mai, mai, fino a quando non fosse completamente impazzito. E
quando poi fu
costretto ad interrompere quel contatto per riempire i polmoni di aria
– aria
infuocata che lo consumava dall’interno – le
braccia di lei erano strette
intorno al suo collo, le loro fronti si toccavano e lei era sua, sua
e di nessun altro. Vide il suo sguardo intenso colorarsi di una strana
sfumatura, e la sua bocca ancora rossa e dischiusa che si incurvava in
un
sorriso tanto languido e tenero che si sentì morire.
Perché anche lei lo amava.
Riaprì faticosamente gli occhi, il mondo
reale che
lentamente si sovrapponeva a qualsiasi altra cosa, cancellando tutto,
lasciandolo nuovamente solo su quella poltrona di pelle nera. La stanza
era
silenziosa, era buia, era il rifugio ideale in cui abbandonarsi del
tutto ad
una resa incondizionata, senza che nessuno se ne accorgesse, come lui
meritava.
Le lettere non erano altro che cenere nelle fiamme, piccoli granelli
grigi che
non avevano più nessuna storia e sapevano solo di delusione
e fallimenti. Un
requiem tra le fiamme.
Tseng batté le palpebre, il danzare
amorfo del
fuoco che lo stregava e lo teneva fermamente legato alla cruda
realtà.
Ti amo.
Quando richiuse gli occhi, vide solo un cupo
bagliore rosso disegnarsi tristemente sulla parete interna delle
palpebre
abbassate. Lei era sparita definitivamente.
Non sarebbe più tornata.
Ti amo.
Ma non lo
saprai mai.
Dopo lunga agonia
gli ultimi raggi tiepidi
morirono in silenzio,
il calore
dell’ultimo sole che
giaceva nella sua tomba
di duro ghiaccio.
E dopo quel congedo,
ci fu solo inverno.
~ Fin
|
Ritorna all'indice
Questa storia è archiviata su: EFP /viewstory.php?sid=414373
|