Who's my son's father? di PattyOnTheRollercoaster (/viewuser.php?uid=63689)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** The escape of freedom ***
Capitolo 2: *** The countdown ***
Capitolo 3: *** Return to school ***
Capitolo 4: *** Nightmare and snowman ***
Capitolo 5: *** A punk T-shirt ***
Capitolo 6: *** The question ***
Capitolo 7: *** The last kiss ***
Capitolo 8: *** Nine years later ***
Capitolo 1 *** The escape of freedom ***
Who’s my
son’s father?
1.The escape of freedom
Non
mi ero mai chiesto cosa le fosse successo dopo averla lasciata ed
essermene andato via. E i vari messaggi a cui non avevo risposto erano
stati decisamente fatali. Chissà cosa sarei ora se invece
avessi risposto.
Dana mi aveva mandato quei messaggi poco dopo che mi fui trasferito a
Londra, ma io non le avevo risposto semplicemente perché
avevo paura. L’avevo appena lasciata, dopo due anni che
stavamo assieme, perché ero dovuto trasferirmi con i miei e
le mie sorelle. E dopo appena un mese non avevo la forza di risentirla.
Se a quel tempo avessi saputo perché mi voleva contattare
probabilmente avrei risposto. O forse sarei stato così
terrorizzato che sarei fuggito in un altro stato pur di non vedere
cos’era successo.
Per fortuna sono ancora qui. Se fossi fuggito non l’avrei mai
conosciuto.
Quando, improvviso come una fitta intercostale, piombò nella
mia vita, io ero placidamente steso sul divano a leggere un libro,
lanciando di tanto in tanto qualche occhiata all’orologio
perché dovevo andare in palestra. Ad un tratto qualcuno
suonò alla porta. Non mi piace mai alzarmi dal divano per
aprire a qualcuno, mi aspetto sempre che siano testimoni di Geova o
venditori porta a porta. Quando aprii, invece, ebbi una sorpresa.
“Ciao!” esclamò una ragazza nel vedermi.
Aveva i capelli corti sparati in tutte le direzioni di un colore rosso
acceso e dei piccoli rasta che le sbucavano da dietro il collo. Portava
un giubbotto blu e dei larghi jeans che ricadevano flosci sulle gambe.
“Dana?” chiesi incredulo. Lei annuì. Non
era cambiata quasi per niente. “Cosa … che ci fai
qui? E’ passato un sacco di tempo … mio Dio. Ma
chi ti ha dato il mio indirizzo?” chiesi leggermente
traumatizzato. La gente non poteva venire a sapere così
facilmente il mio indirizzo, pensavo: qualcuno avrebbe mandato un
kamikaze ad uccidermi!
“Gerome, l’ho incontrato lo scorso sabato e abbiamo
fatto una specie di … rimpatriata fra ex compagni di classe.
Ma scusa, dopo tutto questo tempo nemmeno mi saluti?” chiese.
“Scusa” dissi abbracciandola.
“Meglio?” chiesi, mentre ci dondolavamo goffi sulla
soglia.
“Abbastanza” rispose lei. Ci sciogliemmo e la
invitai ad entrare. “Sai, ti ho visto al cinema”
disse guardandosi attorno.
“Ah, che schifo” dissi io.
“Non lo definirei uno schifo, più che altro
strano” disse guardandosi attorno all’ingresso, con
le mani in tasca. L’accompagnai in salotto e le offrii un
caffè, che accettò volentieri. “Allora
…” disse dondolandosi sul posto come
un’autistica e guardando ovunque tranne che nella mia
direzione.
“Dana c’è qualcosa che non
va?” chiesi sospettoso.
“Perché me lo chiedi?” chiese lei, colta
in fallo.
“Perché mi ricordo come sei. Hai fatto la stessa
espressione e gli stessi identici gesti quando hai distrutto la
macchina di tuo padre, quando avevi perso i biglietti del concerto che
aspettavamo da tre mesi e …” ci pensai un secondo,
“quando siamo finiti davanti al preside per quella storia
della scritta in palestra”.
“Cavolo … non mi aspettavo che ti ricordassi tutte
queste cose” disse stupita.
“Ho una memoria di ferro” dissi compiaciuto.
“Comunque, parla. Mi metti in ansia se fai così,
dì qualcosa”.
“Posso … chiederti una cosa prima?”.
“Si”.
“Perché quando ho cercato di chiamarti, un sacco
di tempo fa, tu non c’eri? Voglio dire … per quale
motivo hai deciso di ignorarmi, forse io dovevo dirti qualcosa
d’importate. Sai, ho passato due mesi interi a cercare di
chiamarti. Ma tu niente, nemmeno una minuscola risposta” la
sua voce era andata in crescendo. Stava cominciando ad incazzarsi di
brutto e la cosa era davvero preoccupante. “Alla fine ho
lasciato perdere, ho perso le speranze perché, sai, tutto
quello che avevo voglia di fare era buttarmi sotto un camion, ma alla
fine avevo paura anche di quello!”.
“Dana ma che cosa dici?” chiesi allarmato. Non
potevo credere che fosse tornata dopo degli anni per dirmi che non
avevo risposto alle sue chiamate.
Dana riprese fiato, sembrava sull’orlo di un collasso
nervoso. “Devo fare un viaggio, ci metterò un paio
di settimane, non di più. Io non vedo più i miei
genitori per … diversi motivi e non posso permettermi di
pagare una persona che gli stia dietro. Sono disperata, e tu sei la mia
ultima possibilità. In più abitiamo relativamente
vicini, a qualche kilometro c’è la scuola, e
…”.
“Aspetta. Tu mi stai scaricando un bambino?” chiesi
incredulo. Mi stavo arrabbiando. Ma era diventata pazza?!
Cioè, questa qui arriva tutta tranquilla dopo anni che non
ci vediamo e vuole che badi a un bambino?! A parte il fatto che ho
mille cose da fare, ma poi non si può fare così!
E’ eticamente scorretto.
Dana sospirò. “Ok, hai ragione. E’ stata
… una cosa stupida” borbottò a testa
bassa alzandosi e stringendosi nel giubbotto. “Devo andare.
Io … mi dispiace per essere venuta a casa tua in questo
modo” disse con voce tremante.
Capii che il vero problema non era quello, così mi alzai e
l’abbracciai. Era sull’orlo delle lacrime e quando
si strinse a me scoppiò a piangere. Credevo di capire la
situazione: Dana aveva un figlio e, a quanto pare, nessuno con cui
lasciarlo. Mi chiesi che cosa avesse fatto della sua vita dopo che me
n’ero andato. Evidentemente si era cacciata nei guai.
Chissà, forse, se fossi rimasto, a quest’ora non
sarebbe successo niente, pensai al momento.
Feci sedere Dana sul divano e la strinsi ancora più forte.
Mi dispiaceva in modo incredibile vederla in quello stato. Da quel che
mi ricordavo lei aveva una personalità forte, non
l’avevo quasi mai vista piangere, al massimo arrabbiarsi. Era
una persona speciale, per questo mi piaceva quando andavamo alle
superiori. Ci avevo messo dei mesi a dirle anche solo che la trovavo
carina, poi alla fine la dichiarazione me l’aveva fatta lei.
Questo si chiama essere veri uomini!
“Robert” biascicò lei. “Tu non
rispondevi, e io avevo paura che non t’importasse
più niente di me, quindi che senso aveva cercare ancora di
incontrati?” disse fra le lacrime. Si sciolse dal mio
abbraccio e si asciugò il viso, prendendo larghi respiri.
Quando si fu calmata disse: “Non prendertela con me. Quando
ho smesso di chiamarti ho pensato che probabilmente, anche se te lo
avessi detto, non ti sarebbe importato. Poi non ci siamo più
sentiti e io non ho avuto l’occasione, ne il tempo per
cercarti e …” aveva iniziato a parlare
più velocemente così cercai di calmarla.
“Dana, aspetta, con calma. Ormai è passato tanto
tempo, non è più un problema” dissi,
senza nemmeno capire bene di che cosa parlasse.
“Robert io non avrei mai voluto chiamarti, tutti e due
avevamo preso una via diversa. Non avrei mai voluto una relazione a
distanza, non era per quello che ti cercavo”, prese a
tormentarsi le mani con lo sguardo basso. “Dopo circa un mese
dalla tua partenza … ho fatto un test di gravidanza che
è risultato positivo”.
“Come?” chiesi alzando le sopracciglia.
Non appena Dana pronunciò quelle parole mi crollò
il mondo addosso. Sentivo talmente tante cose che non sapevo quale
fosse la peggiore, o la più importante. Ero incredulo, dopo
tutti questi anni ti si presenta la tua ex e ti dice che hai un figlio,
insomma, è strano. Poi avevo paura, no anzi, ero
terrorizzato a morte! Io avevo un figlio? Già non sapevo
badare a me stesso, figuriamoci a qualcun altro che dipendeva del tutto
e per tutto da me! Infine ero curioso, e provavo una certa pena per il
bambino, anche se ancora non lo conoscevo. Nella mia mente non aveva
ancora né un volto né un nome, ma la sua sola
esistenza era per me motivo di preoccupazione. Forse, pensai,
è così che si sente sempre un padre, poi scacciai
quel pensiero: se la mia vita doveva essere un’ansia continua
sarebbe stato terribile. Era un po’ come quando ti rendi
conto di aver dimenticato qualcosa di importante e, improvvisamente, ti
ricordi che cos’è ma non hai la
possibilità di tornare a casa a prenderlo: era esattamente
così che mi sentivo.
“Dana …” dissi preoccupato, siccome
nessuno dei due diceva nulla.
Forse quello era tutto uno scherzo di cattivo gusto, un brutto sogno.
Ma certo! Fra poco mi sarei svegliato, avrei guardato
l’orologio, avrei detto cazzo!,
perché ero in ritardo, e sarei uscito di corsa. Ora rimaneva
solo la parte più difficile, e cioè svegliarsi.
“Scusami” disse Dana.
Questo sogno insisteva …
“So che avrei dovuto dirtelo prima, ma davvero, ero
spaventata, non sapevo nemmeno se … se sarei riuscita a
prendermi cura di lui, o se mi sarei buttata da una finestra prima che
nascesse. Io …” le scappò uno sbuffo,
“io andavo al liceo, non avevo idea di come crescere un
bambino. Poi tu non c’eri, chissà
cos’avresti fatto tu, mi chiedevo sempre. Ero sicura che
avresti avuto una risposta”.
“Io?” chiesi scettico. “L’unica
cosa di cui so prendermi cura è un cane” dissi con
orrore crescente. Cazzo, davvero! Non ero capace di fare niente!
“Può anche darsi” disse lei con un
leggero sorriso, “ma mi piaceva pensare che fossi
più preparato di me. O mio Dio” disse sospirando.
“E’ stata la peggiore idea che ho mai
avuto” disse massaggiandosi gli occhi. Dana si
alzò e fece per andarsene.
“Aspetta!” dissi alzandomi. Non volevo che andasse
via. Sembrava che, se se ne fosse andata, con lei sarebbe sparita
persino l’idea di un figlio. “Come si
chiama?” chiesi con voce strozzata.
Dana sorrise. “Si chiama Jonathan, ma tutti lo chiamano
sempre, solo Johnny” disse. “Vuoi …
vedere una sua foto? Ne ho una nel portafoglio, sembra una tradizione
che i genitori si portino una foto del loro bambino sempre
appresso” disse frugandosi in tasca. Prese una piccola
fotografia e me la passò. Con mano leggermente tremante la
presi e la voltai. Non si vedeva bene, era molto piccola.
C’era un bambino dai capelli rossastri, come quelli di Dana,
ma leggermente sul marrone, era chino su un tavolo a disegnare e aveva
un espressione concentrata. “Qui non si vede bene”
cominciò Dana, “ma avete gli stessi occhi. Vi
somigliate in un modo allucinante”.
“Quanti anni ha?” chiesi fissando la foto, ancora
in trans.
“Ne farà sette fra un po’ di giorni. Mi
dispiace un sacco non poter passare il suo compleanno con
lui”. Rimasi in silenzio a guardare la fotografia.
“E’ meglio che vada” disse Dana
allontanandosi, “Quella la puoi tenere se vuoi, magari un
giorno mi chiami, Gerome ha il mio numero. Magari vieni a trovarmi dopo
che sono tornata. A trovarci … a noi” disse.
“Che cosa farai?” chiesi con voce greve, dopo aver
finalmente alzato al testa da quella fotografia.
“Non lo so, vedremo” disse stringendosi nelle
spalle.
Stava andando via. Forse non l’avrei più rivista,
perché di sicuro non avrei avuto il coraggio di chiamarla.
In un impeto di pazzia raggiunsi la porta e la presi per un braccio.
“Dana aspetta”.
“Si?” chiese lei voltandosi.
Deglutii. “Posso tenerlo io” dissi in un sussurro
appena udibile.
Il volto di Dana s’illuminò
d’incredulità e felicità. Mi
gettò le braccia al collo e mi strinse, mentre io me ne
stavo come un perfetto imbecille fermo impalato, e reggevo la foto di mio figlio fra due
dita, come se sgualcirla o strapparla avrebbe significato fare del male
a lui. A quel bambino della foto che nemmeno conoscevo.
“Grazie Robert” disse Dana. “Grazie
mille!”.
“Non è niente” dissi. Poi ci ripensai:
“Cioè, non è vero, è proprio
un casino”.
Dana si slacciò da me e sorrise. “Io parto
Lunedì prossimo, dimmi quando posso portartelo, quando va
bene a te. Ti devo spiegare un po’ di cose”.
Guardai l’orologio. Al diavolo la ginnastica! “Hai
ancora un po’ di tempo? Magari puoi raccontarmi un
po’ … un po’ di quelle cose che mi devi
dire” dissi appoggiandomi con il braccio alla porta.
“Si, è prestissimo. La scuola finisce al
pomeriggio”.
“D’accordo entra”.
Così rientrò. E, al posto suo, sentivo che una
buona parte della mia libertà stava uscendo dalla porta di
casa mia, anzi stava letteralmente scappando, spaventata a morte, per
non tornare mai più. Sarei stato capace di lasciarla andare
così facilmente?
E salve! Eccomi di ritorno con
un'altra storia sul prode Robert Pattinson. Mamma mia, ogni volta che
leggo store su di lui non posso fare a meno di pensare che, se le
leggesse, o si rotolerebbe a terra dalle risate, o ci farebbe causa.
Robert, semmai leggessi questo (anche se non credo) non fami causa.
Bene, dopo questo sclero, qualcosa sulla fic.
Allora, era già pronta da un bel po' questa storia, tanto
che l'ho pubblicata anche su un'altro sito, ma fra tutte le cose che ho
da fare ho deciso di pubblicarla qui su EFP solo oggi. Ma questo
probabilmente non v'interessa. La cosa che v'interessa è:
ero stufa di tutte le storie in cui Robert trova una singolare ragazza,
che fa i mestieri più elementari (fotografa, ballerina,
truccatrice) e si scopre pazzamente innamorato di lei alla prima
occhiata. E lei non appena lo vede si scioglie, le luccicano gli occhi
e roba del genere. E già dal primo capitolo Robert ci prova,
e lei fa una simbolica resistenza, mentre invece lo trova un figo, e...
vabè, avete capito, no? Ovviamente dicendo questo non voglio
sminuire le fic su Robert, le leggo io stessa (anche se mi trovo a
selezionarle con cura), voglio solo dire che molte si possono
facilmente riassumere con la stessa frase.
E dunque, dopo questa tiritera vi lascio, spero di non avervi annoiati.
Ma se siete giunti fino alla fine del capitolo, meritate un premio. XD
Mi raccomando, lasciate un piccola recensione! Anche per dirmi che la
storia vi fa schifo! :) B'è, comunque sia, un saluto by...
Patty.
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Capitolo 2 *** The countdown ***
2.The countdown
Quel
pomeriggio scoprii diverse cose. Ad esempio come i genitori di Dana si
erano arrabbiati a morte con lei quand’era rimasta incinta
(come se si fosse messa incinta da sola) e, dopo aver finito il liceo,
aveva trovato un lavoro e si era trasferita a Londra perché
non sopportava di stare ancora a casa con loro. Di come aveva fatto un
corso serale per avere un lavoro nell’editoria e di come
doveva fare un viaggio nella sede centrale di un’agenzia per
sostenere un esame. E, siccome doveva aspettare lì il
risultato, doveva lasciare il bambino a qualcuno. Aveva chiesto ai suoi
genitori, ma non c’era stato verso. Aveva provato a
contattare una baby sitter ma costava molto più di quanto
avrebbe potuto permettersi. Alla fine mi aveva scovato e raggiunto e a
quanto pare aveva trovato la soluzione ideale.
Già, proprio ideale.
Lunedì Dana sarebbe partita, ma aveva deciso di lasciarmi
Jonathan domenica sera, così non ci sarebbero stati troppi
problemi alla partenza.
“Ascolta” dissi a Dana mentre ci stavamo mettendo
d’accordo sulle modalità di consegna, come per un
pacco, “magari possiamo uscire tutti assieme prima che tu
parta”. La verità era che, prima di ritrovarmelo
in casa, volevo vedere il bambino con i miei occhi e vedere come si
comportava, e come si comportava Dana con lui.
“Mh, si ok. Tanto ho l’aereo all’una,
quindi posso anche andare a dormire tardi. Prima posso passare da te
per darti tutte le cose di cui avrai bisogno”.
“Tipo?” chiesi.
“Sembri schifato. Il periodo dei pannolini è
passato da un pezzo, sai?” disse Dana, al che sospirai
scoraggiato. “Hey … andrà tutto bene,
scommetto che sei un bravissimo papà” disse
posandomi una mano sulla spalla.
“Non ne sarei tanto sicuro” dissi angosciato.
“Io dico di si. Mi preoccuperei se non fossi spaventato.
Così sei perfetto! Tutti i genitori hanno paura, almeno
credo. Io ne avevo un sacco. Se è per questo ne ho ancora,
sono tranquilla solo fuori”.
Nel guardarla mi scappò un sorriso. “Guardandoti
non si direbbe per niente che hai un figlio”.
“Lo so” disse lei stingendo le labbra e annuendo,
fissando il tavolino di fronte al quale eravamo seduti.
“Sembra una cosa strana in effetti. Voglio dire, sono molto
più da … rave party che da mamma con il suo
bambino al parco giochi. Però devo dire che tu sembri molto
più papà di me”.
“Chissà se è un bene” dissi
appoggiandomi sullo schienale del divano e alzando la testa al soffitto.
Domenica, alle sette di sera, Dana bussò alla mia porta.
“Ciao ti ho portato le cose” disse porgendomi un
borsone da ginnastica.
“Ok” dissi sbirciando dietro di lei e prendendo il
borsone. “Dov’è?” chiesi
incerto.
“In macchina che ci aspetta”. Gettai il borsone
vicino alla porta, presi la giacca e uscii. Fuori faceva molto freddo
ed era già buio. Ci dirigemmo verso la macchina di Dana e
lei mi porse le chiavi. “Vuoi guidare?” mi chiese.
Io sbirciavo il sedile anteriore, dove c’era un bambino che
faceva degli scarabocchi con le dita sulla condensa del finestrino e mi
dava le spalle.
“Ok” dissi prendendo le chiavi. Aprii e mi sedetti
al volante, voltandomi verso di lui. Nel momento esatto in cui mi girai
lui fece lo stesso.
Trattenni il fiato, un calore mi invase e mi compresse le viscere in
una morsa letale.
Era bellissimo. La cosa più bella e perfetta che avessi mai
visto in tutta la mia vita. Se ne stava lì in silenzio,
senza nemmeno accorgersi né immaginarsi di cosa mi stava
facendo passare, di che tortura era guardarlo. E mi osservava con occhi
così limpidi che quasi provai vergogna. Erano del mio stesso
colore, e brillavano alla fioca luce che ancora c’era per
strada. La morsa nelle mie viscere si faceva sempre più
stretta e mi mancava il fiato. Mio figlio. Mio figlio. Ma
avevo poi diritto a reclamarlo come mio in quel modo? Ad essere
così possessivo? Osservai le sue guancie, piene, i suoi
capelli un po’ castani, come i miei, e un po’
rossi, come quelli di Dana. Guardai le sue mani piccole, notai che
aveva le unghie lunghe. Osservai il suo naso piccolo
all’insù, dritto e perfetto. E come sembrava
piccolo in quegli abiti! Una giacca verde e una felpa grigia, e dei
jeans.
In quella non erano passati che uno o due secondi.
“Ciao” sussurrai.
“Ciao. Come ti chiami?” chiese, con voce squillante.
“Robert. E tu?” chiesi con il cuore in gola, anche
se sapevo già il suo nome.
“Jonathan” disse.
In quel momento entrò Dana sul sedile posteriore, e mise la
testa in mezzo ai due sedili davanti. “Questo è il
mio amico Robert” disse a Jonathan. “Salutalo
Johnny”.
“L’ho già fatto” disse lui
voltandosi verso Dana.
“L’ha fatto” confermai, voltandomi verso
di lei.
“D’accordo. Allora dove andiamo?”.
“Pensavo di andare a mangiare fuori” proposi.
“Andiamo a mangiare la pizza?” chiese Jonathan.
“Hey, basta pizza, capito?” disse Dana
minacciandolo con un dito.
“Dai! Daaai” la pregò lui inclinando la
testa di lato, mentre i capelli castano rossicci si muovevano con lui.
“Dai …” mi uscì detto,
voltandomi verso Dana. Nemmeno fossi io il bambino!
“E poi basta fino all’ inizio della scuola dopo le
vacanze?” chiese lei alzando un sopracciglio. Jonathan
annuì convinto. “Allora andiamo”
acconsentì. Guidavo, ma non vedevo la strada: Jonathan
attirava il mio sguardo in un modo pazzesco. Come quando vedi per
strada una persona vestita in modo strano, o come quando
c’è qualcuno che non conosci che ha qualcosa sulla
faccia e quindi non lo puoi avvisare: non puoi fare a meno di guardarlo.
Arrivammo in una pizzeria del centro, semplice ma abbastanza elegante,
e la cameriera (oltre a sorridermi in modo osceno) ci diede un tavolino
in un angolo.
Dopo aver ordinato Dana incrociò le dita sotto al mento e
disse: “Johnny, ti sta simpatico Rob?”.
“Si, ma non mi piace il tuo nome” disse lui
dondolando le gambe alla velocità della luce.
“Ma … tu puoi chiamarmi come vuoi” dissi
preso alla sprovvista.
“Allora ti chiamerò Bob” disse convinto.
Sorridendo, mi guardò dal basso verso l’alto. Era
il sorriso migliore che avessi mai visto. Luminoso, sincero.
“Bene” riprese Dana. “Ti ricordi che ti
ho detto che avrei dovuto lasciarti per qualche tempo da un
amico?”. Jhonny annuì, guardandomi di sottecchi.
“Starai con Robert. Io tornerò il ventinove,
così passeremo il Capodanno insieme”.
“Ma io non voglio stare con lui” disse con voce
lamentosa. Forse questo prima di vederlo mi avrebbe rallegrato, ma ora
mi dava un po’ di tristezza. Mi sentivo inadatto, forse la
persona meno adatta a tenere un bambino, un po’ come se Madre
Teresa suonasse nei Kiss.
“Jonathan non essere maleducato” lo
rimproverò Dana.
“Non importa, non importa” dissi io a voce bassa.
“Vuole stare con sua madre, logico”. Dana mi
guardò come se gli facessi pena, le labbra sottili rivolte
all’ingiù.
“Non fa niente non si dicono queste cose” disse
rivolta a Jonathan.
“E’ vero” aggiunsi io, “quando
parli male di una persona devi farlo solo quando lei non
c’è” mi raccomandai. Dovevo pur
insegnargli qualcosa, no? Johnny sorrise.
“Robert!” esclamò Dana divertita.
“E’ questo l’insegnamento che gli
dai?”.
“Tutti parlano male delle altre persone, almeno una volta
nella vita. E’ giusto che sappia prima che gli succeda
qualcosa” dissi alzando le spalle come se fosse logico. Dana
scosse la testa e alzò gli occhi al cielo.
“Ma quando arriva il ventinove?” chiese Johnny.
Tirai fuori il portafoglio e uno di quei calendari tascabili. Vidi una
cameriera e le chiesi di portarmi una biro.
“Guarda,” dissi a Johnny, avvicinandomi a lui,
“noi ora siamo qui” dissi facendo un cerchietto sul
quattordici di Dicembre. “Quando arriviamo qui”
dissi cerchiando il ventinove, “tua mamma torna”.
“Quanti giorni sono?” chiese lui prendendo in mano
il calendario.
“Quattordici. Facciamo così: ogni sera faremo una
x sul giorno passato e faremo il conto all’indietro,
ok?”.
“Ok”.
“Quello puoi tenerlo” dissi indicando il calendario.
“Grazie” disse lui sorridendo ed esaminando il
retro del cartoncino plastificato.
Dana mi guardò mordendosi un labbro, sorridente. Non potei
fare altro che ricambiare. Probabilmente fare il padre non comportava
solo regalare calendari formato francobollo a tuo figlio,
però mi sentivo realizzato.
Dopo la pizzeria passammo davanti ad un cinema e Dana propose di vedere
un film. Devo ammettere che mai un cartone animato della Disney era
stato così emozionante per me. Non guardavo più i
cartoni da quando avevo undici anni, più o meno …
ora so che Il Re Leone,
in quanto a inventiva, non era nulla in confronto a quello che abbiamo
visto. I cartoni di oggi lo fanno sembrare di una banalità
incredibile.
Quando il film finì e noi stavamo tornando a casa Johnny si
addormentò sul sedile posteriore dell’auto,
comodamente allungato lungo tutti e tre i posti.
“Nella borsa c’è il mio regalo di Natale
barra compleanno, non è che glielo potresti dare
tu?”.
“Certo.” risposi guardando la strada,
“Quand’è il suo compleanno?”.
“E’ a Natale” rispose Dana.
“Lui odia essere nato a Natale”.
“In effetti anche a me darebbe fastidio che tutti ricevano
dei regali al mio compleanno”.
“Già … dimmi, hai molti impegni in
questi giorni?” mi chiese Dana preoccupata.
“No, non molti in realtà. Solo …
dovrò dire ai miei che porterò a casa un bambino
per le feste”.
Dana abbassò lo sguardo. “Scusa, come al solito
non penso alle conseguenze di quello che faccio”.
“Se è per questo nemmeno io. Non è che
è nato solo per tua volontà” dissi
alludendo a Johnny.
“Si ma non è nemmeno completamente giusto
portartelo così senza preavviso” disse sospirando.
“Hey non preoccuparti” dissi, cercando di tirarla
su di morale. “Andrà tutto bene, non
sarò un caso così disperato”. In
realtà cercavo di rassicurare più me che
lei. Restammo un po’ in silenzio, poi mi venne in
mente una domanda da fare: “Dana, lui non sa che sono suo
padre, vero?”.
“No”.
“Voglio dirglielo” dissi lanciandole
un’occhiata per vedere che faccia avrebbe fatto.
“Forse è meglio che glielo dici quando torno.
Glielo diciamo assieme” propose lei.
“D’accordo. Mi sono divertito stasera, è
… è perfetto. Ma non voglio diventare una cosa
del tipo lo zio o cose del genere, da vedere solo quando hai voglia di
divertirti”.
“Lo zio?” chiese Dana divertita.
“Si, hai capito, no?”.
“Certo. Non preoccuparti. Te l’ho detto, io volevo
dirtelo fin dal principio, poi le cose … sono sfuggite un
po’ di mano” disse a bassa voce.
“Capisco …” mi fermai di fronte a casa e
Dana si voltò a guardare Johnny che dormiva.
“Non ci siamo mai separati per più di otto ore fin
da quando è nato” disse con sguardo sofferto.
“Io …” deglutii, “ti prometto
che ci penserò io. A tutto” dissi seguendo il suo
sguardo. Johnny dormiva beatamente, non dava segno di poterci sentire e
per questo ringraziavo il cielo, non volevo che sapesse quanto ero
inetto.
Dana uscì dalla macchina e fece tutto il giro, poi
aprì la portiera posteriore e prese in braccio il bambino
che, come se nulla fosse, continuava a dormire. Cercando di essere il
più silenzioso possibile la condussi in casa e le indicai la
stanza per gli ospiti che, avevo deciso, sarebbe stata la sua camera.
Chissà se gli sarebbe piaciuta? Dana scostò le
coperte e vi infilò delicatamente Johnny. Non ho idea di
come fece, ma riuscì a mettergli il pigiama mentre lui
dormiva, e senza nemmeno svegliarlo.
Avevo davvero molte cose da imparare …
Quando Dana ebbe compiuto la complicata missione tornò in
salotto e chiuse la porta della stanza di Johnny. “Allora
vado” disse esitante. “Grazie mille Robert, non so
davvero cosa dire”.
“Figurati. Sono contento che tu sia così
sprovveduta, almeno sei venuta fino a qui. Non avrei mai pensato che
fosse capitata una cosa del genere” dissi spostando il peso
da un piede all’altro.
“Ti prometto che quando tornerò cambieranno un
sacco di cose. Potrai vederlo quando vorrai, e ci metteremo
d’accordo … magari per le vacanze, così
sta un po’ con me e un po’ con te, e
…”.
“Hey” dissi alzando le mani, “di questo
parleremo con più calma. Vediamo prima se riesco a gestire
la cosa per un paio di settimane, altrimenti significa che non
c’è futuro”.
“Credo che nessuno sia davvero preparato a crescere un
figlio. Voglio dire, per quanti libri uno abbia letto o quanti corsi
abbia fatto, i bambini non li puoi imparare. Però vedi, tu
sei così … così bravo, non so come
descriverlo. Si vede lontano un miglio che te le la stai facendo nei
pantaloni dalla paura, però vuoi ancora
continuare”.
“Non so se questo mi rincuora” dissi corrugando la
fronte. Dana rise e io mi unii a lei. “Comunque anche tu sei
stata brava, non ti sei tirata indietro”.
“Grazie” disse Dana incamminandosi verso la porta.
“Allora ci vediamo fra un po’. Non mi odiare se
telefono ogni giorno”.
“Ma va, la tua chiamata sarà la mia ancora di
salvezza” dissi aprendole la porta. La abbracciai sulla
soglia di casa.
Improvvisamente fu come tornare a quel giorno: quel giorno in cui la
lasciai. Ero ancora un adolescente senza problemi, senza un pensiero
che fosse uno.
Senza il minimo sospetto che, in quel momento, mio figlio stava
cominciando a crescere in lei.
“Grazie” fu l’ultima cosa che dissi a
Dana prima di sciogliere il nostro abbraccio.
Mamma mia. A quanto pare Robert
è colpito dal fatto di avere un figlio. Mah...
chissà come mai? Dopotutto capita ogni giorno, no? XD
Comunque, adesso che abbiamo messo le cose in chiaro, e Dana
lascierà la città, adesso inizia il vero calvario
di Robert! XD Tutto solo con un bambino da accudire!
...cavolo. A volte mi chiedo come ho fatto a fare una fic del genere.
Io detesto i bambini piccoli, quelli dai 5 agli 11 anni circa.
Vabè, non è questo il punto. Quello che volevo
dire, è che ho scelto un'età precisa per
Jonathan: non volevo che fosse troppo piccolo, ma non poteva nemmeno
essere tanto grande. Spero di essere riuscita a prendere
un'età giusta. O.o
Enris: grazie mille per la recensione! Sono felice che la storia
t'interessi. Purtroppo il personaggio di Dana non comparirà
molto, verrà solo citato di sfuggita a volte, ma la sua
personalità si chiarirà più avanti.
Anche a me sarebbe piaciuto trattarlo meglio, come personaggio
è interessante, ma volevo che Robert e il bambino stessero
assieme senza interferenze. Grazie ancora e al prossimo capitolo! ^^
A tutti gli altri che seguono la storia: grazie mille! ^^
Patty.
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Capitolo 3 *** Return to school ***
3.Return to school
Stavo
facendo i miei piani per le prossime due settimane. Riguardo agli
impegni avevo mentito di brutto: avevo un sacco di cose da fare.
Per fortuna la prima settimana, almeno fino a venerdì,
Johnny sarebbe andato a scuola, quindi avevo tempo dalle nove di
mattina fino alle quattro di pomeriggio. Perfetto. Avrei potuto
tralasciare le cose meno importanti. Dissi al mio agente di annullare
tutte le cose che non fossero urgentissime delle prossime due
settimane, dando come scusa qualsiasi cosa risultasse credibile, come
che dovevo partecipare alle lotte clandestine di galli, o che mi
avevano trovato una pallottola nel cervello, cose così.
Alla fine la lista delle cose da fare era diminuita di molto, le uniche
giornate che mi preoccupavano erano: uno, una presentazione di New Moon
a cui dovevo per forza partecipare, e che si sarebbe tenuta il
ventiquattro Dicembre; due, il ventotto dovevo andare ad una festa a
cui, mi avevano chiaramente detto, era richiesta la mia presenza. Nel
senso che, se non mi presentavo, sarebbero venuti a prendermi a casa.
Avevo calcolato che ci avrei messo circa quaranta minuti a portare
Johnny fino a scuola, così, mezz’ora prima di
uscire, lo svegliai. Entrai piano nella stanza, lui dormiva ancora come
un ghiro. Mi dispiaceva svegliarlo. Mi avvicinai cautamente e mi
sedetti sul bordo del letto. Lo scossi delicatamente, chiamandolo per
nome. Lui si svegliò subito, quasi avesse soltanto gli occhi
chiusi.
“Buongiorno. Cosa mangi di solito per colazione?”
chiesi.
“Un toast, oppure i cereali” disse stropicciandosi
gli occhi e aprendosi in un formidabile sbadiglio.
“Ti preparo un toast allora, tu intanto cambiati”
gli dissi alzandomi.
“Ok” disse alzandosi dal letto, che in confronto a
lui era enorme.
Preparai alla svelta un toast. Cercai di farlo buonissimo, per quanto
le mie capacità culinarie non siano poi ‘sto
granché. E poi, per Dio, era un toast! Pane, formaggio e
prosciutto caldi! Come si faceva a renderlo buonissimo? Lo misi su un
piatto e lo lasciai sul tavolo.
In quel momento crollai. Mi sedetti su una sedia e mi cacciai le mani
nei capelli. Dio santo! Ancora mi chiedevo come fosse possibile! Per
fortuna arrivò Johnny a distrarmi (più o meno) da
quei pensieri. Si sedette e prese a mangiare il toast.
“Vuoi del succo? Del latte?” chiesi alzandomi.
“Succo” disse subito lui.
La cosa positiva dei bambini è che ti dicono subito cosa
vogliono, così è più facile farli
contenti, anche con stupidaggini come succo o latte. Non sono come noi
adulti, che giriamo attorno alle cose mille anni prima di arrivare al
punto. Odio l’adolescenza: è a
quell’età che cominciano a venire le inibizioni.
Dopo aver finito la colazione osservai Johnny che prendeva libri e
quaderni e li metteva in uno zaino che era grosso il doppio di lui.
Sconcertato dal peso e dalla mole di quella cosa la caricai in macchina
e partimmo.
“Allora …” cominciai, “che
cosa fai di solito a scuola?”.
“Faccio inglese, matematica, storia …”.
“E non ti annoi mai?”.
“No. Facciamo sempre tantissimi disegni, e poi li coloriamo.
E abbiamo imparato i numeri e le lettere. Vuoi sentire
l’alfabeto?”.
“Si, certo” dissi corrugando la fronte, stranito.
Mentre recitava l’alfabeto a memoria lo osservai bene. Avevo
paura di essere diventato un maniaco: non riuscivo assolutamente a
toglierli gli occhi di dosso.
“Guarda!” disse improvvisamente facendomi vedere i
denti e dondolandosi un dente da latte con la lingua. Da piccolo lo
facevo sempre anch’io: quando un dente da latte cominciava a
dondolare continuavo a giocherellarci per giorni, finché non
si staccava.
“Wow!” dissi, guardando il dente danzante.
“Quando si staccherà devi metterlo sotto al
cuscino, così il topo dei denti lo trova e ti lascia dei
soldi al posto del dente”.
“E perché li ruba?” chiese lui.
“Perché … lui colleziona
denti”.
“E perché?”
“Pe-perché ha un castello enorme fatto solo di
denti. Però denti non cariati, perché non gli
piacciono i denti neri, è per questo che ti devi sempre
lavare i denti”.
“Quindi ha un castello tutto bianco?” chiese.
“Esatto”.
“E cosa usa per tenere i denti incollati?”.
“Il dentifricio” dissi prontamente. Mi stupii della
mia inventiva, ero un grande inventore di balle.
A quanto pare avevo calcolato male il tempo per arrivare a scuola, e ci
arrivammo con ben un quarto d’ora di anticipo.
B’è, almeno adesso avrei potuto regolarmi.
Parcheggiai la macchina, presi lo zaino, presi Johnny per mano e,
mettendoci più attenzione del solito, attraversai. Ero
responsabile della vita di un bambino, questo è vero, ma se
stavo in ansia pure quando dovevo attraversare la strada ero nella
merda fino al collo!
“Dove ti lascia di solito Dana?” chiesi. Non
è così semplice come sembra, le
possibilità erano molte: potevo lasciarlo davanti a scuola, o
dentro, o
potevo addirittura accompagnarlo in
classe. Insomma, so che è ridicolo, ma non
avevo idea di che cosa fare. Cosa diavolo faceva mia madre quando mi
accompagnava a scuola?!
“Va bene qui” disse fermandosi appena dentro al
cancello.
“Va bene. Tieni” dissi togliendomi lo zaino dalle
spalle e passandoglielo. Se lo mise con fatica non indifferente: ma
quanti cavolo di kili fanno portare a scuola ai bambini? E se gli fosse
venuta la scogliosi?! Non dovevo pensare troppo, rischiavo seriamente
di perdere l’ultimo neurone che avevo.
“Ciao” disse agitando la mano e avviandosi verso il
portone principale, dove stava una donna in un completo marrone e
dall’aria severa.
“Ciao! Torno a prenderti, eh?” gli gridai dietro.
Quando arrivò al portone la donna si chinò a
dirgli qualcosa e mi indicò. Non riuscivo a sentire che cosa
dicevano, ma la donna mandò dentro Johnny e poi si diresse
verso di me.
“Buongiorno, sono la maestra di Johnny” disse
tendendomi una mano. Non poteva avere più di
trent’anni, sembrava sobria e paziente. Ok, aveva passato la
mia acutissima analisi visiva: ora poteva essere l’insegnante
di Johnny. Nel caso non l’avesse passata avrei messo a frutto
i miei tanti anni di karate e con una mossa l’avrei
… no non è vero, non ho mai fatto karate in vita
mia.
“Salve” dissi stringendole la mano.
“Dana mi ha avvertito in anticipo che Jonathan sarebbe stato
con qualcun altro. Lei è suo padre?”.
“Sembro suo padre?” chiesi a metà fra il
preoccupato e il sollevato.
“B’è non proprio ma Dana è
molto giovane, quindi ho pensato che, insomma …”
disse leggermente imbarazzata.
“Hm, comunque si, a quanto pare”.
“Bene” disse la donna sorridendo e prendendosi una
mano nell’altra. “E’ la prima volta che
tiene Johnny?”.
“Si, in realtà l’ho incontrato solo ieri
sera. Per la prima volta in … tutto questo tempo”.
“Oh” fece lei, probabilmente era incerta sul da
farsi. “B’è … nel caso le
servisse qualcosa può sempre contattarmi in qualsiasi
momento. Le do il mio numero, venga” disse conducendomi verso
l’interno della scuola.
Appena superato il portone c’era un grande atrio e, in fondo,
delle scale. Alcuni bambini si stavano dirigendo in classe, sempre con
quegli zaini grossi quasi quanto loro. Una scrivania stava incastrata
fra la parete e la prima rampa di scale e, da un cassetto, la donna
tirò fuori un pezzo di carta e una biro, sulla quale
cominciò a scrivere nome e numero.
Stavo tranquillamente aspettando quando sentii qualcosa che mi tirava
la giacca. Mi voltai e scorsi una bambina dotata di lunghe trecce
bionde e un vestito rosa.
“Tu sei Edward del cinema?” mi chiese. La maestra
alzò lo sguardo.
“Judy non disturbare il signore. Sarà
già abbastanza spaventato dai bambini” disse
sorridendo da dietro un paio di occhiali dalla montatura spessa che
aveva indossato.
“No, si figuri non importa” dissi lasciandomi
scappare un sorriso. Me ne vergogno, ma devo ammettere che aveva
ragione da un certo punto di vista.
“Quindi?” chiese la bambina.
“Hem … si”.
“Ma non sei bianco come nel film”.
“Perché ho fatto la lampada” dissi
stupidamente.
“I vampiri possono?” chiese facendo una faccia
strana, come se fosse sicura che le stessi mentendo.
“Si, certo. Ma solo se nessuno li guarda, sennò
vengono scoperti”.
“Lo sai che sto leggendo Twilight
insieme a mia mamma? Sono già a pagina
trenta” disse orgogliosa.
“Bravissima” dissi io. “Io nemmeno
l’ho letto quello. Ho letto l’altro, quello che
deve ancora …”.
“Va bene, ora basta” disse la maestra aggirando la
scrivania. “Vai in classe Judy, fra poco arrivo”.
“Ok” disse lei, e si allontanò.
“Ciao Edward” disse prima di sparire nel corridoio.
“Ecco il mio numero” disse la maestra porgendomi il
foglietto. Il suo nome era Amanda Swarts.
“Grazie” dissi tirando fuori il portafoglio e
mettendoci dentro il bigliettino.
“Di nulla” parve esitare, poi mi chiese:
“Mi scusi se glielo domando, ma lei lavora nel
cinema?”.
“Si, sono un attore”.
“Ah, capisco. B’è, se per caso le serve
qualcosa mi chiami pure. Ah, a proposito, non so se Dana glielo ha
detto, ma Jonathan è un bambino molto bravo. E’
svelto, impara le cose in fretta, fa sempre i compiti. Non so se sia
sua madre a farglieli fare, o ad aiutarlo a casa, ma è molto
bravo ed educato”.
“Non credo che Dana abbia tutto questo tempo per
aiutarlo” dissi, esprimendo ad alta voce un pensiero che mi
preoccupava.
“Immaginavo, ma non si sa mai. Tutti trovano un po’
di tempo per stare con i loro figli. Comunque Dana è davvero
premurosa, sono felice che abbia deciso di aiutarla”.
“Si … ora vado. Torno alle quattro
allora” dissi incamminandomi verso l’uscita.
“D’accordo. Arrivederci, signor
…?” chiese lei.
“Pattinson. Mi chiamo Robert Pattinson”.
Perfetto. La mia vita si può riassumere in pochi concetti:
mi chiamo Robert, faccio l’attore, ho una prole di cui non
sapevo l’esistenza e ho il brutto vizio di spargere per casa
le mie calze come se qualcuno prima o poi le raccogliesse.
Faccio schifo … sul serio.
Quel pomeriggio cercai di organizzarmi per la presentazione del film.
Telefonai a Kristen, che era l’unica persona con la quale mi
sentivo di parlare in quel momento. Non le dissi proprio che dovevo
portare mio figlio, appena spuntato come un fungo nella mia vita da
ventitreenne, alla presentazione di un film, però le chiesi
alcune cose.
“Pronto Kristen? Sono Robert” dissi, sedendomi al
tavolo della cucina.
“Ah ciao, come va?”.
“Bene, bene grazie. Volevo chiederti una cosa, per la
presentazione di mercoledì”.
“Dimmi”.
“Secondo te posso portare una persona? Dovremmo fare
interviste, o solo foto? O … che ne so”.
“Credo che sarà una di quelle cose dove possono
venire anche i fan. Quindi dovremmo parlare un sacco, mi sa.
Durerà circa un ora mi hanno detto. Perché,
volevi portare qualcuno? Chi?”.
“No, nessuno. Però se porto qualcuno vorrei che
stesse in un posto dove posso controllarlo, dove non possa …
che ne so, scappare via!” esclamai, passandomi una mano sulla
fonte.
“Scappare via? Sembra che devi portare il tuo cane. Devi
portarla?” mi chiese incredula.
“Mh … più o meno” mi sentii
davvero una merda per aver paragonato Jonathan ad un cane,
però non volevo ancora dire a nessuno di avere un figlio.
“Ci saranno un sacco di addetti alla sicurezza,
vero?”.
“Si, certo”.
“Ok perfetto”.
“Robert, che cosa succede?” mi chiese Kristen
vagamente preoccupata, ma più che altro curiosa credo.
“No niente. Ci vediamo mercoledì”.
“Sicuro che vada tutto bene?”.
“Si, non ti preoccupare. Ciao” dissi, cercando di
chiudere al più presto quella conversazione compromettente.
Finché non chiarivo questa situazione con Dana, quindi
finché lei non tornava e Johnny avesse saputo del fatto che
io ero suo padre, non volevo che nessun’altro lo sapesse. La
cosa negativa di fare l’attore era che, probabilmente, se la
gente avesse saputo della mia prematura paternità non mi
avrebbe lasciato in pace per diverso tempo. Forse avrebbero perfino
fatto fotografie a Jonathan o a Dana, il che non è molto
bello.
Restavano ancora altre due persone da chiamare: “Ciao
mamma” dissi con il sorriso sulle labbra e
l’ottimismo che volava alto. Doveva essere alto, avevo troppa
paura che mia madre me lo facesse abbassare troppo. Con lei
è un po’ come con la pressione: rischiavo di
svenire.
Inutile dire che i miei genitori ebbero reazione totalmente opposte.
Spesso mi chiedevo come facessero a stare assieme. Secondo mio padre
era una notizia fantastica, non capiva perché ancora non
avevo detto a Johnny di essere suo papà, e non vedeva
l’ora di conoscere il suo nipotino. Al contrario, mia madre
mi aveva gridato addosso per mezz’ora. Mi aveva detto che ero
un irresponsabile, che avrei dovuto stare attento eccetera. E, vi
assicuro, parlare di certe cose con la propria madre non è
piacevole. La parte peggiore venne quando mi disse: “La
prossima volta che devi fare bum-bada-bum con una ragazza vedi di
prendere le dovute precauzioni!”. A quel punto pretesi di parlare
con papà. Mia madre che parla di sesso chiamandolo
bum-bada-bum è una cosa che mette i brividi. Alla fine della
conversazione ero spossato, come se avessi corso per kilometri.
Mi ero trattenuto anche troppo quel pomeriggio fra telefonate, la
spesa, la ricerca di un regalo per Johnny e il cercare di scoprire che
cosa le aveva comprato Dana senza strappare la carta da regalo.
Così, mezz’ora prima delle quattro, uscii di casa.
Guidai come un pazzo: credo di aver avuto la fobia di arrivare in
ritardo e lasciare mio figlio lì da solo, ad aspettarmi,
come in certi film per famiglie, mentre i genitori degli altri bimbi
arrivavano puntuali e se li portavano a casa, felici come tanti dementi.
Scusatemi per il ritardo! Il
fatto è che ho risolto problemi con internet da poco e, fra
tutto quello che ho avuto da fare in questi giorni, questo è
il primo attimo che ho per postare. ^^ Comunque... qua le cose iniziano
ad andare con un po' di calma, insomma, non possiamo fare impazzire
subito il povero Robert (poi mi denuncia! XD).
Un grazie a tutti coloro che leggono e che hanno pazientato
così tanto per questo terzo capitolo! Grazie mille davvero,
siete fantastici!
E ora... recensioni:
romina75: sono felice che la storia ti piaccia, è una
situazione un po' diversa per Rob, e mi piace concentrare la narrazione
soprattutto su cosa pensa lui di quella faccenda! Ovviamente non so
cosa penserebbe in un caso del genere XD, ma è il risvolto
psicologico che m'interessa più di tutti. Grazie mille per
la recensione, ciao! ^^
Enris: grazie per i complimenti allo scorso capitolo! Mi spiace
deluderti ma, fin'ora, il bambino si è dimostrato tranquillo
come un angioletto. Il fatto è che non volevo che questa
storia si trasformasse in una specie di commedia per famiglie, che poi
vanno irrimediabilmente a finire nel banale. In questo capitolo, poi,
vengono introdotte diverse 'montagne' che Robert dovrà
scalare, ossia gli amici e i genitori, prima di tutto, e poi la
responsabilità che ha adesso. Non per nulla il titolo,
tradotto, sarebbe: chi è il padre di mio figlio? Un modo
molto complicato per chiedersi: Chi
sono io? Domanda secolare filosofica che non smetteremo
mai di farci! XD Be', al prossimo capitolo, ciao!
Un saluto e Buone Feste a tutti!
Patty.
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Capitolo 4 *** Nightmare and snowman ***
4. Nightmare and snowman
“Judy
mi ha detto che tu sei un vampiro” disse Johnny quando
tornammo a casa.
“Oh. E tu ci credi?” chiesi posando lo zaino vicino
alla porta della sua stanza.
“No. Io gli ho detto che non è possibile,
perché i vampiri mangiano la gente, e hanno i denti lunghi
per succhiare il sangue alle persone. E che se tu avessi voluto
mangiarmi lo avresti fatto stamattina a colazione” disse con
fare saccente. Mi scappò una risatina. Andammo in salotto e
ci sedemmo sul divano.
“Hai ragione. Credo che Judy mi abbia visto al cinema. Io
faccio l’attore”.
“E che film hai fatto?”.
“Harry Potter” dissi senza pensarci troppo.
“Davvero? Quale?!” chiese Johnny entusiasta tirando
i piedi sul divano e mettendosi a gambe incrociate.
“Il numero quattro … si, quello”.
“Harry Potter e il Calice di Fuoco” disse lui.
“Io l’ho già visto quattro volte! Lo
vediamo? Dai!”.
“Hem … d’accordo. Però
dobbiamo andare a noleggiarlo, perché io non ce
l’ho”.
“E perché no? Non te lo possono regalare se ci sei
anche tu nel film?”.
“No, non sono così gentili” dissi
alzandomi. C’era un negozio per noleggiare film a pochi
isolati, così andammo a piedi, ma me ne pentii subito,
perché faceva molto freddo.
“Devi fare i compiti oggi pomeriggio?” chiesi a
Jonathan mentre eravamo per strada.
“Si” disse lui letteralmente saltando da una
striscia pedonale all’altra, cercando di restare sempre nella
striscia bianca. Con la coda dell’occhio vidi che il semaforo
stava per cambiare, così per gli ultimi tre salti afferrai
Johnny da sotto le braccia, lo sollevai, e lo trasportai fino al
marciapiede.
“Che cosa devi fare?” chiesi prendendolo per mano,
nel caso avesse deciso di rifarlo.
“Devo leggere una fotocopia e rispondere a delle
domande”.
“Vuoi che ti dia una mano? La mamma lo fa?”.
“A volte si” disse lui. “A volte invece
ha da fare”.
“Che lavoro fa Dana?”. Mi venne in mente
all’improvviso che non sapevo più nulla di lei.
“Pulisce le case delle persone ricche” disse.
Quando sentii quelle parole trasalii, mi si gelò
letteralmente il sangue nelle vene.
Dana che puliva? Mi ricordavo che al liceo era bravissima, fra le prime
della classe. Continuava a dirmi che voleva studiare storia
dell’arte e diventare archeologa o restauratrice. Non aveva
potuto sicuramente per via di Johnny.
Forse se fossi rimasto le cose sarebbero andate diversamente. Forse i
nostri genitori avrebbero preso la cosa in un modo … non
dico buono, ma per lo meno migliore. Avremmo continuato gli studi e
magari a quest’ora saremmo vissuti tutti assieme …
in riva al mare, con due cani, un gatto e un porcellino
d’India, e poi la sera accanto al fuoco ...
Un porcellino d’India?
Mi riscossi da queste fantasie stupide e guardai Johnny.
“Oggi ti aiuto io a fare i compiti” gli dissi.
“Ok. Cosa c’è per merenda?”.
“Quello che mangi di solito” risposi io esitante.
“Che cos’è?” aggiunsi poi.
“Quello che c’è a casa”.
“Perfetto” dissi soddisfatto.
Prendemmo il film e tornammo a casa. Credo che il commesso mi avesse
riconosciuto, e forse mi ha considerato un po’ sfigato dato
che stavo noleggiando un film nel quale avevo lavorato.
Preparai una veloce merenda a Johnny e dopo lo aiutai a fare i compiti.
Non credevo di essere un così bravo cuoco, papà,
attore e maestro delle elementari tutto assieme. Con una certa
difficoltà in alcune parole particolarmente lunghe Jonathan
lesse ad alta voce una fotocopia. Senza quasi nessun problema rispose
alle domande e poi fece anche grammatica.
Lo osservavo senza capire una mazza di quello che succedeva attorno a
me, era come se assorbisse tutte le mie attenzioni senza fare nulla di
particolare. Cercai di riconoscere in lui qualche segno distintivo che
svelava il mio DNA. Forse i capelli, non so. Non sono mai stato bravo a
cogliere le somiglianze in una famiglia, e poi, a dirla tutta, ero un
po’ stordito. Però mi piaceva Johnny: con la sua
parlantina veloce, il dente davanti che dondolava follemente
… e quegli occhi così profondi e intensi,
così innocenti, limpidi, espressivi.
Mi riscossi quando vidi, fuori dalla finestra, l’albero del
parco che c’è di fronte a casa mia, piegarsi sotto
i colpi forti del vento. Fra tutto si erano fatte le sei di pomeriggio,
ed era già molto buio. In quel momento squillò il
telefono.
“Pronto?”.
“Ciao Robert, sono Dana” disse una voce.
“Dana!” esclamai. “Come va?
Com’è stato il viaggio?”.
“Tutto bene, sono appena tornata dal primo incontro con i
direttori. Penso che sia andata bene. Tu com’è
andata?”.
“Tutto perfetto, si. E’ stato tranquillo tutto il
giorno. Ci siamo noleggiati un film, fra un po’ ce lo
guardiamo”.
“Ah, ok”.
“Aspetta te lo passo” dissi andando in cucina. Mi
spostai il telefono dall’orecchio e lo porsi a Johnny,
dicendo: “E’ Dana”.
“Mamma!” esclamò lui prendendo il
telefono e portandoselo all’orecchio.
Mentre parlavano, per curiosità, presi i compiti di Johnny e
li guardai. Erano quasi tutti giusti. Parlarono per diverso tempo,
tanto che mi chiesi come avrebbe fatto Dana a pagare la telefonata.
Negli hotel un minimo decenti le telefonate te le facevano pagare un
sacco. Quando si salutarono chiesi ancora a Johnny di passarmela.
“Pronto Dana. Ascolta.” dissi rinchiudendomi nella
mia stanza e abbassando la voce. “Che cos’hai
regalato a Johnny per il suo compleanno?”.
“E’ un gioco di quelli con le macchinine e le
piste. L’aveva visto in tv e gli piaceva tanto”.
“Ah ok … c’è per caso
qualcos’altro che vuole?” chiesi cercando di usare
un tono neutro.
“Non hai idea di cosa prendergli vero?”.
“No. Ce l’ha la bici?”.
“Robert per favore, niente regali costosi. Potresti finire in
un brutto giro” disse lei.
“Il giro degli spacciatori di tricicli? No, perché
ho sentito dire che è davvero brutto” dissi
cercando di essere serio.
“Scemo!” disse lei ridendo. “Quello che
dicevo è che poi, forse, lui comincerà a vederti
solo come uno che gli fa regali costosi. E poi non voglio che cresca
viziato. Uno le cose se le deve guadagnare!”.
“Ma una bici ce l’hanno tutti. E poi si sta
separando da sua madre per quasi mezzo mese, direi che dopo di questo
un premio se lo merita”.
“Ha un triciclo a casa” ribatté Dana.
“Ha quasi sette anni, deve imparare ad andare in
bicicletta” dissi acidamente.
“Come vuoi” sbuffò lei alla fine.
“Ma solo la bici, ok? Poi basta”.
“Perfetto”. Tornai in salotto, trionfante dopo la
mia clamorosa vincita sul problema bici. “Johnny, ti
piacerebbe una bicicletta?”.
“Si. Però non ci so andare” disse lui
voltandosi verso di me, appendendosi alla spalliera del divano.
“Ah, quello lo impari al volo” dissi. “Ti
insegnerò io”.
“Ok. Ne voglio una velocissima, come quelle delle corse. Il
mio amico Frank ne ha una così, e va velocissimo”.
Ci guardammo il film e, circa alla fine, quando ero ormai morto, Johnny
pretese delle spiegazioni: “Ma perché se
lì muori sei ancora qui? Sei un fantasma?”.
Così cercai di spiegare in modo semplice che i film erano
cose registrate. Fu complicato. Alla fine presi la digitale e feci un
filmino. Anche Johnny registrò qualcosa, ma per lo
più erano riprese all’altezza delle ginocchia che
si muovevano tutte e non si capiva un tubo. Finimmo di guardare il
film, cenammo e misi Johnny a letto.
Decisi di farmi una doccia. L’acqua calda che mi scivolava
addosso era rilassante in una maniera incredibile. Quando uscii dal
bagno ero completamente calmo, e annusandomi scoprii che avevo usato il
bagno schiuma che Dana aveva portato per Johnny. Poco male, al posto di
puzzare come un adulto avrei avuto il profumo di un bambino.
Andai a letto e mi addormentai subito. Era stata una giornata
stancante, però a modo suo mi era piaciuta.
“Bob! Boob!” chiamò una voce con tono
disperato. Mi svegliai di scatto. Mi alzai, srotolandomi le coperte di
dosso e correndo verso la stanza di Johnny. Una cosa stupida che mi
venne in mente in quel momento era che dovevo iniziare a mettere il
pigiama, almeno d’inverno. Perché alzarsi
così, di notte, in mutande, era stato traumatizzante.
“Che c’è?” chiesi senza fiato,
entrando in camera e accendendo la luce.
“Ho fatto un brutto sogno” si lamentò
Johnny chiudendo gli occhi per l’improvvisa luce. Stava con
le coperte tirate fin sotto il mento e si era raggomitolato in
posizione fetale. Tirando un sospiro di sollievo mi avvicinai al letto
e mi sedetti.
“Che cos’hai sognato?”.
“Ho sognato che c’era qualcuno che mi seguiva, e
poi mi prendevano e facevano degli esperimenti”. Fece una
pausa, poi disse, con sguardo supplicante: “Posso venire a
dormire con te?”.
“Certo” dissi alzandomi e prendendolo in braccio,
sorridendo. Lo portai fino in camera mia e lo misi a letto.
“Vuoi che lasci una luce accesa?” chiesi. Lui
annuì, così andai ad accendere la luce del
corridoio. “Ve bene così?” chiesi
tornando indietro. Annuì di nuovo. Mi sdraiai accanto a lui,
il volto rivolto al soffitto. Dopo pochi minuti si era riaddormentato
e, muovendosi nel sonno, mi si avvicinò. Senza pensarci,
riflettendo per i fatti miei, lo chiusi in un semi abbraccio.
Non sarebbe mai più andato via da me.
Restai sveglio fino al mattino dopo. Verso le sei aveva iniziato a
nevicare e non aveva ancora smesso quando svegliai Johnny. Come
l’altro giorno lo portai a scuola e poi andai in cerca di una
bici. Ne trovai una piuttosto costosa e le misi in garage. Avrei
sorvolato sul prezzo con Dana, però era simile a quelle bici
da corsa, solo in formato mignon.
Per tutto il giorno non aveva fatto altro che nevicare. La neve era
altissima e sui bordi della strade si erano formati dei cumuli di neve
marrone e grigiastra, a causa dello spazzaneve che passava ogni due
minuti. Il risultato fu che non si poteva assolutamente camminare sui
marciapiedi, ma in macchina ci si poteva muovere.
Con largo anticipo andai a prendere Johnny. Avevo fatto bene,
perché ci misi circa un’ora, se non di
più. Quando uscì da scuola la maestra mi venne
incontro, sotto un grande ombrello marrone.
“Salve” disse. “Volevo avvisarla di
persona che domani non ci sarà scuola a causa della neve.
Molti genitori hanno problemi a portare i bambini, così il
comune ha deciso che la scuola resterà chiusa per un paio di
giorni. Forse tre, se la neve è ancora troppo
alta”.
“Ah d’accordo” dissi prendendo dalle
spalle di Johnny lo zaino. Notai che la maestra sembrava molto
più professionale di me con quell’ombrello. Glielo
invidiai: anche io volevo avere un ombrello per portarci sotto Jonathan!
“Questi” disse porgendomi un foglio,
“sono i compiti delle vacanze natalizie”.
“Ah. Ok, grazie mille”. Presi il foglio dalle sue
mani, poi, assieme a Johnny, m’incamminai verso la macchina.
La neve era molto alta in certi punti e, siccome già a me
arrivava quasi alle ginocchia pensai che Johnny stesse arrancando nella
neve come uno scalatore sull’Everest, così lo
presi in braccio e lo portai fino in macchina.
Tornammo a casa e, una volta dentro, Johnny disse: “Che
cos’è la neve?”.
Non sapevo che per fare il padre si dovesse anche essere un fisico.
“I fiocchi di neve sono acqua fredda. Talmente fredda che si
trasforma e diventa … un po’ ghiaccio e un
po’ acqua”. Per me era una spiegazione fantastica,
ma Johnny non parve pensarla allo stesso modo.
“Si, ma che cos’è? La pioggia sono le
lacrime degli angeli, me lo ha detto la mamma. Loro piangono quando
succede qualcosa di brutto” disse. Queste invenzioni
filo-cristiane! Io non sono per nulla bravo in queste cose, mi adatto
meglio agli dei pagani e ai topi dei denti … niente
religione di mezzo.
“B’è la neve … viene quando
… gli angeli fanno una torta” dissi.
“Hai presente lo zucchero a velo?”. Lui
annuì. “Ecco la neve è come lo zucchero
a velo degli angeli” dissi soddisfatto.
“Ah” disse lui guardando fuori dalla finestra.
“E quanto è alta la neve?”.
“Troppo” dissi sbirciando anch’io fuori.
Johnny corse verso lo zaino e prese un righello.
“Voglio andare fuori a misurarla!”.
“Allora andiamo” dissi prendendogli la giacca.
Dopo che qualche anima coraggiosa l’aveva spalata mentre
eravamo in casa era ridiventata alta più di sedici
centimetri. E non aveva intenzione di fermarsi. Il commento di Johnny
fu: “Magari gli angeli stanno facendo una festa, e devono
preparare tante, tante torte”.
“Può darsi” dissi io sorridendo.
“Ti va di fare un pupazzo di neve?” chiesi.
“Si!” esclamò lui.
Ci mettemmo all’opera. Prima costruimmo la pancia e poi, con
un po’ di difficoltà perché continuava
a cadere, la testa. Ma alla fine ci riuscimmo. Non era un
granché, era basso e rachitico, e più che un
sorriso sembrava stesse ghignando. Però scattai diverse foto
di Johnny accanto al mostro di neve.
Quella sera mi chiamò il mio agente e mi disse che la
presentazione di New Moon non era stata per nulla spostata a causa del
maltempo. Poco male, non importava. Il giorno dopo sarebbero venuti a
prendermi alle due del pomeriggio, anche se la presentazione sarebbe
cominciata alle cinque.
“Andiamo a dormire presto, che domani ho da fare, ma ti porto
con me” dissi a Johnny rimboccandogli le coperte.
“Cosa devi fare?”.
“Devo andare a parlare con alcune persone. Non ci metteremo
molto, tu però puoi portarti qualcosa da fare”.
“Posso portare il mio album per colorare?” chiese.
“Certo” dissi. In quel momento avrei avuto una
voglia pazza di dirgli che ero suo padre. Avevo passato una giornata
bellissima. Però mi era anche sorto il dubbio che forse Dana
gli aveva raccontato qualcosa di strano su suo papà, sul
fatto che non vivesse con loro come invece facevano i padri degli altri
bambini. “Johnny, dov’è il tuo
papà?”.
“Il mio papà abita lontano. Perché lui
è molto impegnato” rispose.
“E tu non lo vuoi conoscere?” chiesi, tremando al
pensiero della risposta.
“Si, però la mamma mi ha detto è molto
impegnato in questo momento e non può venire a trovarmi. Che
lui vuole però”.
“Probabilmente è così. Ma tu lo sai,
vero, che lui ti vuole bene?”.
“Ma lui non me lo ha mai detto”.
Mi venne un groppo in gola. “Ehm … ma io so che
è così. Ti vuole bene, e vuole che tu lo sappia,
capito?”. Johnny annuì.
Dopo essere uscito dalla stanza mi appoggiai al muro e deglutii,
chiudendo gli occhi. Sentivo il battito cardiaco molto veloce che mi
rimbombava nelle orecchie, più forte di quanto fosse mai
stato.
Quarto capitolo postato! Yeah!
In questo capitolo non succede nulla di che, è vero, ma
volevo dare a Robert qualche scorcio di vita da papà!
XD
Mi piace particolarmente l'ultima scena, ma avrei voluto renderla
ancora più emotiva. Però non volevo farci sopra
tanti ragionamenti, perchè poi poteva perdere
d'intensità. Insomma, volevo una cosa veloce e dolorosa
(povero Rob)! XD Insomma, Robert si sta affezionando a suo figlio, sta
imparando a conoscerlo un po' meglio, e già sente un forte
legame con lui, quindi il sapere che questo bambino pensa che suo padre
sia lontano e non abbia tempo per lui lo fa star male.
B'è, a proposito del prossimo capitolo, vi dico solo che
vedremo comparire le star di Twilight! Yeah! XD
E ora, recensioni:
romina75: wow! Grazie mille per la lunga recensione! Hai ragione per
quanto riguarda i bambini, possono essere terribili quanto dolci! Tu di
sicuro lo saprai meglio di me dato che sei mamma ^^ Robert, hai
ragione, se la sta cavando bene, anche se è molto giovane e
del tutto inesperto con i bambini, questo perchè volevo che
la storia fosse più che altro incentrata su come si sente
Robert, e fargli passare troppe disavventure mi sembrava
esagerato! Poveraccio! XD Comunque grazie per gli auguri,
passa anche tu buone feste! Ciao! ^^
Enris: prima di tutto grazie per aver recensito! ^^ Sono felice che tu
abbia notato che la storia non va verso una strada scontata, insomma,
la solita storiella allegra. Sono d'accordo con te, essere genitore
dev'essere complicato all'inizio, e strano, forse uno si sente
inadatto a volte, non saprei. Quindi non mi sembrava giusto continuare
la storia 'alla leggera', insomma, è una situazione
complicata non volevo buttarla troppo sul ridere. Comunque sia... spero
che questo capitolo, anche se non vi sono grandissimi avvenimenti, ti
sia piaciuto. Buone feste, ciao! ^^
_Miss_: grazie mille per i complimenti! Sono felice che la storia ti
piaccia, anche se è un po' diversa da quelle che solitamente
si leggono su Robert. Per quanto riguarda il mio modo di scrivere...
caspita, grazie! <3 Spero che la storia
continuerà a piacerti, ciao e buone feste! ^^
winnie poohina: grazie per la recensione! Eh, la parte con la mamma di
Robert è stata troppo divertente anche da scrivere! XD Sono
contenta che ti abbia fatta ridere! Mhuahahah! Nel prossimo capitolo
vedremo anche: gli amici di Robert! Come reagiranno? Hmmm! XD
B'è... alla prossima, ciao! ^^
Ringrazio tutti coloro che hanno messo la storia fra Preferiti o
Seguite! Grazie mille davvero ragazzi! ^^ Mi raccomando, passate bene
questi ultimi giorni di festa! Ciao!
Patty.
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Capitolo 5 *** A punk T-shirt ***
5.A punk T-shirt
Il
giorno dopo un autista ci venne a prendere, si fermò sotto
casa e suonò il campanello.
“Arrivo” dissi al citofono. “Preso
tutto?” chiesi a Johnny. Lui annuì.
“Devi andare in bagno?”. Scosse la testa.
“Bene, allora andiamo”.
Non mi fiderò mai più quando un bambino dice che
non deve andare in bagno, infatti eravamo in macchina da
mezz’ora, stavamo in mezzo all’autostrada, quando
cambiò idea.
“Boob” disse esitante.
“Si?”.
“Devo fare pipì”.
“Oh”. Mi sporsi verso il conducente, che era
rimasto non poco stupito del fatto che mi portassi dietro un bambino di
sette anni, alla presentazione di un film. “Scusa, a quanto
dista il prossimo autogrill?”.
“Fra una quarantina di kilometri”.
“Ci dobbiamo fermare”.
“Certo” disse guardando la strada.
“Fra venti minuti c’è un autogrill. Ce
la fai a tenerla?” chiesi preoccupato.
“Si, però facciamo in fretta” disse lui.
“Facciamo in fretta” dissi all’autista.
Lui annuì. Era proprio bravo, in poco tempo eravamo
già arrivati. Scesi dall’auto e mi trascinai
dietro Johnny fino in bagno. Per fortuna non era l’ora di
punta e non c’era molta gente, così non dovette
aspettare troppo.
Dopo altri quaranta minuti di viaggio arrivammo. Il luogo dove si
sarebbe tenuta la presentazione era pieno di gente che aspettava di
entrare. Per fortuna non dovevo fare le foto, altrimenti sarebbe stata
una tortura, sia per me che per Jonathan. Oltretutto se avessi dovuto
posare non avrei avuto idea di dove lasciarlo. Passammo in macchina
davanti alla folla e alcune persone presero a gridare e a fare foto.
“Perché ci fanno le foto?” chiese
Johnny. “Perché hai fatto un film?”.
“Si”.
“Com’è essere famosi?”.
“E’ bello perché mi piace recitare,
però a volte è brutto perché la gente
ti dà fastidio”.
“E perché lo fanno?”.
“Perché sono curiosi”. Caspita forse
avevo ragione. Avevo trovato il vero motivo che spingeva la gente a
comprare riviste scandalistiche!
Con la macchina arrivammo sul retro e, prendendo Johnny per mano,
entrai nell’edificio. Spuntammo dietro ad un palco e raggiunsi
la saletta dove di solito c’erano anche gli altri.
In lontananza vidi la mia agente, che appena mi scorse aprì
la bocca in una smorfia di orrore e mi raggiunse, quasi correndo.
“Cos’è questo?” mi chiese
indicando il bambino.
“E’ Jonathan” dissi solo. Per quanto
riguardava Johnny lui non disse una parola, ma si limitò a
fissarla.
“Ciao ciccio” disse Hanna sorridendo falsamente.
“Perché è qui?”.
“Dobbiamo parlarne ora?” chiesi infastidito.
“In questo istante” disse lei annuendo. Sbuffai e
presi Johnny in braccio, incominciando a camminare più
velocemente.
“No, ne parliamo dopo” dissi aprendo la porta del
camerino ed entrando. Mi voltai: dentro c’erano
già Nikki, Kellan, Kristen e Taylor, e tutti quanti mi
osservavano. Chi stranito, chi curioso, chi sconvolto. “Ciao,
questo è Jhonatan” dissi con un vago sorriso.
“Ciao” disse lui agitando una mano.
Calò il silenzio.
“Ciao, io sono Nikki” disse lei sorridendo e
avvicinandosi. Le sarò grato per
l’eternità per aver rotto il giaccio. Posai Johnny
a terra e gli tolsi il giubbotto. Posai le giacche
sull’appendiabiti e lo zaino a terra. Quasi come se nulla
fosse tutti si presentarono.
A un tratto mi ritrovai preso da parte da Kristen. “Robert ma
chi è quel bambino?”.
“Un bambino, appunto. Non vedi?” risposi vago.
“Vuoi dire che è un bambino che hai trovato per
strada, no? Sei diventato un filantropo e vai a raccattare tutti gli
orfani alla Oliver
Twist che ci sono in giro per Londra, vero?”.
“Se vogliamo metterla così” dissi
osservando Kellan e gli altri che cercavano di costruire un castello di
carte.
“E’ tuo?” chiese Kristen con voce greve.
“Possiamo anche metterla in quest’altro
modo” dissi abbassando lo sguardo e passandomi una mano fra i
capelli. “O anche dobbiamo … dato che è
così” borbottai.
“Ah!” esclamò Kristen voltandosi verso
il tavolino e osservando Jonathan. “Porca troia!”
esclamò.
Taylor la guardò male e le lanciò qualcosa
addosso. “Hey!” disse indicando Johnny.
“Scusa” disse lei andando a sedersi accanto agli
altri.
Li raggiunsi, e mi beccai un sacco di sguardi che chiedevano
spiegazioni. “Questo è il figlio di
Dana” dissi indicandolo, “la mia ragazza del
liceo” sussurrai dopo. Kellan mi guardò alzando le
sopracciglia in uno sguardo incredulo e così fece anche
Taylor. Nikki invece osservò Johnny.
Fino alle cinque restammo lì a parlare poi, quando mancava
poco ad entrare misi la testa fuori dalla porta e fermai la prima
persona
che vidi. “Hey” dissi ad una ragazza prendendola
per un braccio. “Devi controllarmi il bambino, se qualcuno ti
chiede qualcosa dì che
te l’ho detto io”. Lei sbirciò dentro la
stanza. “Dai, se vuoi ti pago!” esclamai al culmine
della disperazione.
“Ok” disse lei scrollando le spalle ed entrando con
me in camerino.
Mi sedetti accanto a Johnny, me lo misi sulle ginocchia e dissi:
“Adesso devo andare a parlare con quelle persone di cui ti
dicevo ieri. Non ci metto tanto. Tu se vuoi puoi guardare, o puoi
restare qui, come vuoi. Starai con …” mi girai
verso la ragazza.
“Fiona” disse lei.
“Con Fiona” ripetei.
“Va bene. Lo sai che il dente si sta staccando?”
disse facendo dondolare ancora il dente, che si muoveva molto
più dell’altro giorno.
“Oh si, fra poco cadrà” dissi
guardandolo con occhio critico. “Stai segnando i giorni sul
calendario che ti ho dato?” chiesi, ricordandomene
improvvisamente.
“Si, guarda”. Dall’astuccio prese il
calendario tascabile e mi fece vedere che aveva già
tracciato delle x rosse.
“Bravo! Ora vado, ci vediamo fra un po’”
dissi e, senza pensarci, gli diedi un bacio sulla fronte prima di
depositarlo di nuovo sul divano. Mi fermai un secondo, stupito da
quello che avevo appena fatto, che non era proprio da me, poi uscii.
Raggiunsi le quinte del palcoscenico, dove avevano messo un lungo
tavolo dietro al quale ci saremmo seduti. Una voce ci
annunciò
al microfono e cominciammo ad entrare, sommersi dal boato della folla.
Appena prima di uscire incrociai lo sguardo di Kristen, appoggiata alla
parete con le braccia incrociate e un’espressione corrucciata
in viso.
Ci misi quasi due ore purtroppo. Ad un certo punto sbirciai alla mia
destra e, oltre il palco, vidi Johnny e Fiona, la ragazza con cui
l’avevo lasciato, che ci osservavano. Volevo fare un saluto,
ma stavo rispondendo ad una domanda, così mi sforzai di
distogliere lo sguardo e osservai la massa di persona davanti a me.
Forse in un altro momento non l’avrei pensata
così, ma in quell’istante credevo che nessuna di
quelle persone valesse abbastanza da competere con Johnny. Non
c’era alcuna speranza per nessuna di loro, per quanto fossero
meravigliose, di essere alla sua altezza.
Alla fine, dopo i saluti e le foto, feci per tornare al camerino ma
qualcuno mi bloccò. “Robert, ti posso
parlare?” mi chiese Kristen.
“Certo”. Così ci dirigemmo verso un
punto isolato dietro al palco e lì, come avvisandomi che la
conversazione non era nulla di buono, Kristen mi guardò con
aria di rimprovero.
“Robert, so che non sono affari miei, ma cosa pensi di fare
con quel bambino?”.
“Per ora lo terrò, poi quando tornerà
sua madre vedremo. Senti,” aggiunsi vedendo la sua
espressione incredula ,“lo so che non sono proprio la persona
adatta a badare ad un bambino ventiquattr’ore su
ventiquattro, però … non lo so, a me va che
stiamo insieme. E poi non mi sembra di andare così male
finora”.
“Robert tu esci tutte le sere, alcune volte ti ubriachi, hai
mille impegni, devi viaggiare. Che cosa pensi di fare precisamente?
Portartelo appresso dappertutto?”.
“Ma Dana tornerà il ventinove!” esclamai
stringendomi nelle spalle.
“Si, ma come farai poi? Un figlio è impegnativo,
il tuo lavoro è impegnativo … dovrai rinunciare a
qualcosa” concluse.
“Un uomo impegnato non può avere figli,
è questo che stai cercando di dire?”.
“No, ma …” Kristen sospirò,
alzando gli occhi al cielo.
“Senti, ce la farò, non ti preoccupare. E so che
ci saranno sacrifici da fare, so che sarà difficile,
ma” sospirai, “… non puoi capire
finché non lo provi. E’ mio figlio,
è … la cosa più fantastica che ho mai
visto in vita mia” dissi allargando le braccia e stringendomi
nelle spalle.
Kristen abbassò la testa. “Io … sono
solo preoccupata. Non so a quali cose vai incontro, ma credo che quel
bambino rischia di crescere con un padre più lontano da lui
di quanto non sia ora”.
“E si può sapere quale sarebbe la soluzione
secondo te?” sbottai.
“La soluzione è che quando arriva sua madre tu
glielo ridai e basta. Robert hai ventitré anni, mille cose a
cui pensare e vuoi pure metterti a badare ad un bambino? Per cosa poi?
Per vederlo buttato di qua e di là prima con te, poi con sua
madre, poi di nuovo qui?”.
“Io sono suo padre.” dissi con voce dura
indicandomi e avvicinandomi a Kristen, “Tu invece non sei
nessuno per dirmi cosa devo fare!”.
“Robert …” cominciò lei, ma
io non la volevo sentire.
Me ne andai, ero incazzato come una belva! Preoccupata, e per cosa?
Fatti gli affari tuoi! Mi sedetti su una sedia che trovai lì
e mi misi la testa fra le mani. Non ero mai stato peggio in vita mia.
In quel momento cominciò ad insidiarsi un dubbio dentro di
me: e se davvero fossi stato un cattivo padre? Se non avessi avuto
tempo? Se questa decisione di entrare prepotentemente nella vita di
Jonathan fosse sbagliata, e non fosse servita a dargli una vita
normale, con un padre e una madre come si deve?
No, queste non erano buone ragioni per non vederlo più. Il
casino l’avevamo combinato in due, e Dana si era presa le sue
e le mie responsabilità per troppo tempo ormai. Inoltre,
come facevo a dimenticare? Potevo fare come se nulla fosse successo?
Jonathan era lì, con i suoi sogni, le sue idee, era una
persona in formato mini ma aveva tutte le caratteristiche per diventare
qualcuno. Non dico qualcuno d’importante, ma qualcuno e
basta. Una persona, non c’è altro modo per dirlo.
E, cazzo, mio figlio! Non potevo scordarlo, come si fa quando lasci la
macchina parcheggiata in seconda fila (promemoria per Robert: non devo
più fare paragoni fra Johnny-cose o Johnny-animali).
Qualcuno mi riscosse dai miei pensieri toccandomi una spalla. Alzai la
testa e vidi Jonathan. “Che cos’hai?” mi
chiese.
“Niente, sono stanco” dissi alzandomi.
“Ti sei annoiato, vuoi andare?”.
“Non mi sono annoiato. Guarda: ho fatto un disegno. Ci sei
anche tu, poi ci siamo io e la mamma” disse facendomi vedere
un foglio di carta.
“Che bello” dissi prendendolo in mano. Stavamo
tutti su quella che poteva essere neve, ed eravamo stranamente
slungati. Io praticamente ero tutto gambe e, ovviamente, come nei
disegni di ogni bambino, avevo gli occhi che erano delle palline e un
sorriso enorme. “Perché Dana ha queste cose sulla
testa?” chiesi notando delle righe nere che partivano dal
centro della sua testa e andavano verso il basso.
“Sono i rasta” disse Johnny come se fosse ovvio.
“Oh”. Mi sedetti, sollevai Johny e lo feci sedere
sulle mie ginocchia. “Che cosa vuoi fare domani?”.
“Voglio fare un altro pupazzo di neve” disse lui.
“Un altro?” chiesi sconcertato. Basta pupazzi!
Erano maligni, inquietanti e stronzi, perché quando
cominciavano a piacerti si scioglievano.
“Non vuoi? Allora …”. In quel momento
passò Kristen.
Mi dispiaceva essermi arrabbiato con lei, non volevo litigare. Quando
passò mi osservò con sguardo triste, ma io le
sorrisi. Non volevo ci restasse male per quello che le avevo detto. Fra
parentesi, credo di non aver mai perso la pazienza al lavoro, forse
vedermi così deve essere stato strano. La vidi esitare, poi
venne verso di noi. Si abbassò sulle ginocchia e
arrivò alla stessa altezza di Johnny.
“Ciao” disse. “Io mi chiamo Kristen, e
tu?”.
“Jonathan. Perché sulla tua maglietta
c’è un teschio con delle punte sulla
testa?”.
“Perché i teschi vanno sempre in giro
così” disse Kris guardandosi la maglia.
“E perché vanno sempre in giro
così?”.
“Perché gli piace così. Anche tu se
vuoi puoi andare in giro così”.
“Hey,” protestai “non convertirmelo al
punk”. Al che Kristen rise.
“Io so cos’è il punk, ma non mi piace.
Perché i punk vanno sempre in giro con i capelli strani e a
me non piacciono. Una volta Mitch voleva farmi diventare
punk”.
“Chi è Mitch?” chiesi sospettoso.
“Mitch era l’amico di mia mamma. Veniva sempre a
casa nostra e suonava la chitarra elettrica. E una volta siamo andati a
vederlo suonare, ma siamo tornati subito a casa perché
c’era gente stupida in quel posto. Poi però mamma
non lo ha fatto più venire, perché dice che era
… uno stronzo. Lui voleva farmi i capelli da punk
però né io né la mamma volevamo,
perché sono brutti”.
“Uno stronzo” ripeté Kristen.
“Sai cosa vuol dire?”.
“E’ una parolaccia e significa che una persona
è cattiva. Ma la mamma mi ha detto che non devo dirla a
nessuno”.
“Bravo!” esclamai. Appena Dana tornava le avrei
chiesto di questo Mitch. Ma chi era un tipo che voleva pettinare un
bambino da punk?! “Comunque, domani facciamo che
…” cercavo di farmi venire in mente qualcosa, ma
con la neve per strada non era proprio una giornata comoda.
“Se non avete niente da fare domani possiamo andare a fare un
giro” intervenne Kristen.
“Come?” chiesi stupito. Si stava sforzando di
essere gentile o voleva davvero uscire con me e Johnny?
“Dovremmo andare a bere una cioccolata calda siccome
c’è la neve”.
“Si!” disse Johnny. “Andiamo?”
chiese voltandosi verso di me. Cavolo, avevo un sacco di potere, mi
accorsi in quel momento. Io potevo decidere cosa far fare a Johnny e
cosa non fargli fare … inquietante.
“Certo” dissi.
Il giorno dopo smise di nevicare, per fortuna, però, per
sicurezza, mi portai dietro l’ombrello. Ci incontrammo in
centro città, dove la maggior parte della neve era stata
già spalata. Quando seppero che Kris, Johnny ed io saremmo
andati a fare un giro, anche Nikki, Taylor e Jackson vollero venire con
noi. Sospettavo che fosse per vedere come mi comportavo con Johnny,
forse solo Taylor era venuto senza doppi fini … o forse per
la cioccolata.
“Ciao” ci salutò Jack quando ci vide
arrivare.
“Ciao. Gli altri?” chiesi.
“Nikki e Kris sono andate un attimo a comprare le sigarette.
Taylor boh, sarà in ritardo come al solito”.
“Ok”.
“Hey ciao!” esclamò Jackson rivolgendosi
a Johnny. “Come va?”.
“Bene. Perché?”.
“Così” disse lui alzando le spalle.
“Non ti conviene che inizi a chiedere perché.
Quando comincia non si ferma più” dissi.
“Ma va! E’ arrivato Lunedì e
già credi di sapere tutto sui bambini” mi
rimproverò Jack con un ghigno.
“Sempre meglio di te” lo rimbeccai. Lui
sbuffò. In quel momento arrivò Taylor,
incappucciato in una giacca marrone.
“Ciao” disse tirando fuori un attimo una mano dalla
tasca per fare ciao e poi ricacciandola dentro per il freddo.
“Ah, guarda” mi disse cercando qualcosa,
“E’ da un po’ che ce l’ho a
casa e non so che farmene … tieni, dallo a lui”
disse tirando fuori una pacchetto e indicando Johnny con il capo.
“Cos’è?” chiesi prendendo il
pacchetto.
“E’ un regalo. Tu prendilo”.
“Ok” dissi, e lo passai a Johnny. “Puoi
anche aprirlo adesso se vuoi”.
“Non lo voglio aprire ora. Lo voglio aprire al mio
compleanno. Così ho più regali da
aprire” disse allontanando il pacchetto.
“Ok” ripetéi. Io da piccolo non avevo
tutta questa pazienza. Passavo tutto Dicembre a cercare il nascondiglio
dei regali, e se li trovavo cercavo di capire che cos’erano.
“Quand’è il tuo compleanno?”
chiese Taylor.
“E’ il venticinque di Dicembre”.
“Ah, Natale”. Jhonny annuì.
Kristen e Nikki furono presto di ritorno e andammo a bere la famigerata
cioccolata. Non che ne avessi proprio voglia, ma era per uscire.
Siccome eravamo in una strada dove c’era il divieto di
passaggio per le auto lasciai andare Johnny senza tenerlo per mano,
come mi ero abituato a fare. Ad un tratto lo vidi correre verso il
ciglio della strada e chinarsi sulla neve.
“No! Aspetta Johnny” dissi correndo verso di lui.
Ma guarda che strano: mi sentivo addosso un po’ di sguardi.
“Non toccare la neve sporca” gli dissi
allontanandolo.
“Perché?”.
“Perché non è pulita, poi ti prendi
qualcosa”.
“Ma …” lui fece per girarsi e tornare
sul ciglio della strada.
“No” dissi io. Lo sollevai e tornammo verso gli
altri, solo che Johnny era leggermente imbronciato. “Ehy mi
fai il muso?” gli chiesi. Lui non rispose. Lo presi per la
vita e lo sistemai sulle mie spalle. Sentii distintamente le sue
piccole mani che si appoggiavano alla mia testa.
“Com’è la sopra?”.
“E’ alto!” disse Johnny ridendo. Ci vuole
poco per far felice un bambino. Veloci come si arrabbiano poi subito si
calmano. Kristen sorrise vedendoci tornare e continuammo lungo la
strada. Arrivammo dentro una cioccolateria e ci diedro un grosso tavolo
rotondo. Ordinai un caffè per me e una cioccolata con la
panna per Johnny. Dopo averla finita, ovviamente, aveva delle lunghe
strisce di cioccolata ai lati e sopra la bocca.
“Vieni Johnny, andiamo a lavarci” disse Nikki
alzandosi e prendendolo per mano. Poco dopo furono di ritorno, nel
frattempo avevo pagato il conto. Quando Johnny e Nikki tornarono,
uscimmo.
Non l’avessimo mai fatto.
Fuori due giornalisti con delle grosse macchine fotografiche ci
accecarono con i flash e ci si assediarono tutto attorno. Non capii
più niente. “Robert chi è quel
bambino?” chiese un donna che era arrivata correndo in quel
momento.
“Andiamo” disse Jackson mettendosi fra me e i
fotografi e cominciando a camminare.
“Oh, forza, solo un paio di domande!”
esclamò la giornalista seguendoci per un po’.
“Ho da fare” dissi prendendo in braccio Johnny.
Cominciammo a camminare, ma vedevo solo flash luminosi davanti agli
occhi.
“Bob chi sono?” chiese lui sporgendosi da sopra la
mia spalla.
“Nessuno, lasciali stare” dissi velocizzando il
passo. Camminammo finché non decisero di lasciarci perdere,
poi rallentammo.
“Avvoltoi” borbottò Taylor.
“Che stronzi, non ti lasciano in pace nemmeno un
minuto” concordò Kris.
“Ma è mai possibile che non dici una frase che sia
una senza metterci dentro uno stronzi o un bastardi?”.
“Uff, scusa” disse Kris stringendosi nelle spalle.
Feci un sorrisino.
Chissà se sotto la felpa portava ancora la maglietta col
teschio?
Ecco qui! Capitolo cinque!
Ovviamente non so se Kristen Stewart parla come uno scaricatore di
porto, ma in questa fic va così! XD Ho pensato di darle una
personalità mai vista prima in una fic, un po' da maschio
forse... Vabè, spero che questa sboccata-version di Kris vi
piaccia! XD
Per quanto riguarda la sua reazione, si, forse è un po'
esagerata, ma si preoccupa sia per Robert che per il bambino in fondo,
è una persona schietta e dice ciò che pensa.
Vuole solo dare un consiglio, ma Robert ormai è totalmente
succube di Johnny! :)
La parte dei fotografi la volevo assolutamente mettere! Trovo che sia
una cosa vergognosa certe cose che fanno. Non lasciano in pace la gente
nemmeno un minuto! Danno fastidio persino a me, e da me non verrebbero
nemmeno se mi mettessi a ballare la hula in mezzo a Piazza Duomo! XD
Oddio ma come mi è uscita? -.-'' Lasciamo stare...
Si. Lasciamo stare. Piuttosto, recensioni:
_Miss_: wow sono contenta che l'ultimo pezzo ti sia piaciuto! ^^ Ce ne
saranno altri così, spero di riuscire ad emozionarti ancora!
Sai, è un grande complimento, sono felicissima di essere
riuscita a trasmetterti qualcosa. Grazie per la recensione! Ciao ^^
winnie poohina: gli amici tutto sommato hanno reagito bene mi pare.
Anche Kris, che all'inizio era preoccupata, ha capito che per Robert,
Johnny conta troppo per non rivederlo più, e ha cercato di
essere gentile. B'è grazie per la recensione, al prossimo
capitolo! :)
Enris: esattamente come hai detto tu! XD In questo capitolo ho cercato
di rendere una situazione reale, se un mio amico avesse un figlio mi
preoccuperei per tutti i pasticci che potrebbe combinare, cercherei di
aiutarlo, probabilemnte anche io andrei in palla! XD B'è,
grazie per aver recensito, ciao! ^^
E il prossimo capitolo sarà, tipo, stra-importante! Ci
sarà il Natale, e accadrà una cosa
importantissima! Oh, vi tengo sulle spine! Quanto sono cattiva! XD
Vabè, ci vediamo al prossimo capitolo, un grazie a tutti per
leggere e recensire, ciao! ^^
Patty.
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Capitolo 6 *** The question ***
6.The question
Dopo
l’incidente con i giornalisti ero preoccupato. Forse
avrebbero cominciato ad assediarmi di domande o cose simili su Johnny,
e se mi avessero ancora beccato in giro con lui avrebbero dato fastidio
come l’altra volta. Comunque le vacanze iniziarono in fretta
e presto fu il ventiquattro. I miei genitori mi avevano detto
tassativamente di andare da loro, che ci sarebbe stata anche mia
sorella Lizzy. Ma in realtà era solo per vedere il bambino
ricomparso. Mi ero già stupito che non fossero venuti prima
a bussare insistentemente alla porta.
Tutte le sere Dana telefonava e parlava con Johnny, poi mi chiedeva
come andava. Decisi di raccontarle tante mezze verità, ad
esempio che avevo portato Johnny ad un impegno di lavoro durato non
troppo tempo e che forse, ma forse, ci avevano scattato una foto.
“Ma probabilmente è sfocata e non si vede per
niente” la rassicurai al telefono, ben sapendo invece che le
foto erano molte ed estremamente nitide.
“Mh, vabbé” disse lei con una punta di
preoccupazione nella voce.
“Senti, solo una curiosità: chi è
Mitch?” chiesi la sera della vigilia.
“Ah nessuno, è il mio ex”.
“Dovresti sceglierteli meglio. Chi è uno che vuole
fare la cresta a un bambino di sette anni?” chiesi.
“Ma che …? Robert, fa silenzio”.
“Chiedevo soltanto, l’importante è che
ora l’hai mollato” dissi. Sentii Dana sospirare.
“Spero che Johnny non ti abbia raccontato tanti altri
aneddoti sulla mia vita privata”.
“B’è comunque sia mi sembra giusto che
io sappia con chi mio figlio passerà la metà del
suo tempo” osservai.
“Certo, come no. Perché quando mi
metterò con qualcuno verrò dritta a chiedere il
permesso a te” la sentii dire con ironia.
“B’è … no, non in quel senso,
però …”. Era una situazione strana: io
volevo sapere con chi stava Johnny, ma sapevo anche che era sbagliato
interferire nella vita di Dana. In fondo erano fatti suoi.
“Lo so, è una situazione un po’
strana” disse Dana.
“E’ la stessa cosa che pensavo io. Ti ricordi,
anche quando stavamo assieme era come se ci leggessimo nel
pensiero” dissi sorridendo.
“E’ vero! A proposito, indovina cosa sto
facendo”.
“Allora, stando ai miei ricordi di come parlavi al telefono,
sei stesa sul letto a pancia in su” azzardai. “E se
il telefono è fisso allora stai giocando con il
filo”.
“Hai ragione!” disse lei. “Lo sai, credo
proprio che otterrò il lavoro. L’unico problema
sarebbe se mi chiedessero di venire a vivere qui, ma sanno che ho un
figlio. Di solito se hai famiglia non ti chiedono di
spostarti”.
“Si, si giusto” dissi atterrito. Sarebbe stato un
problema se Dana e Johnny si fossero trasferiti così
lontano. Praticamente dall’altra parte dell’
Inghilterra!
“Non preoccuparti. Ah senti, mi sono scordata di dirtelo:
torno il ventotto alle undici, non il ventinove ok? Quelli delle
prenotazione avevano fatto un casino, però almeno mi hanno
rimborsato il biglietto. Ah! Dillo a Johnny”.
Ecco, un altro casino: il ventotto c’era la festa alla quale
dovevo assolutamente partecipare. “Non
c’è problema” dissi fiducioso.
“Robert ciao!” esclamò mia madre aprendo
la porta.
“Mamma!” dissi abbracciandola. Lei prese la borsa
piena di regali che avevo in mano e ci condusse in salotto, dove
c’era l’albero e sotto tutti i regali.
“Robert!” mio padre e mia sorella mi vennero
incontro e mi abbracciarono, poi si dedicarono a Johnny.
“Hey ciao, io mi chiamo Lizzy. Tu sei Jonathan,
vero?”. Lui annuì, forse era un po’
timido, con così tanta gente nuova, tutti adulti.
Dovete sapere che mia madre è una forza della natura, da
sola aveva cucinato tutto il pranzo di Natale, che era, come tutti gli
anni, una cosa esagerata. Quando vivevo a casa dei miei mangiavamo gli
avanzi surgelati e poi ri-cotti di quel pranzo per almeno una
settimana.
Tutti continuavano a parlare con Johnny, e mia madre, che probabilmente
aveva cambiato idea su di lui, continuava a chiedergli quale fosse la
sua pietanza preferita, e quindi lo riempiva di patate al forno.
“Ok, basta, è pieno” dissi io quando
cercò di servirlo per la quarta volta. Un bambino non
può mangiare così tanto!
“Oh, ma che dici?” disse mia mamma corrugando le
sopracciglia.
“Clare, siediti” disse mio padre. Lei, stranamente,
obbedì.
Quando arrivò l’apertura dei regali il
più entusiasta di tutti fu Johnny. Credo che Dana non avesse
la possibilità di fargli tanti regali, quindi
quell’anno fu per lui il record dei regali ricevuti in tutta
la sua vita. Scoprii anche che il regalo di Taylor era un regalo vero,
comprato. Altro che disfarsi di cose vecchie! Quel ragazzo è
di una gentilezza incredibile. Ovviamente non avevo portato la
bicicletta a casa dei miei, e me la riservavo come sorpresa una volta
tornati a casa. Restammo lì anche per cena, anche se,
davvero, non vedevo l’ora di insegnare a Johnny ad andare in
bici ora che la neve si era sciolta. Il tempo passò in
fretta, fra telefonate di auguri ai parenti, tentare di capire come si
usavano certi regali di Johnny, e conversazioni varie.
Verso le undici di sera mia madre servì il caffè.
Johnny si era addormentato sul divano e noi stavamo seduti tutti
attorno al tavolo. A quel punto sapevo che mi aspettava la paternale. E
infatti, come ad avvisarmi, mia madre sospirò.
Ah! Il sospiro no! Il sospiro era come un’avvisaglia di
qualcosa di terribile, di estremamente tedioso e, in questo caso,
probabilmente imbarazzante.
“Robert, ma com’è possibile che sia
successo?” domandò con uno sguardo che si sarebbe
adattato meglio ad un funerale.
“Non ne ho idea. Non lo sapevo nemmeno io, te l’ho
detto” sbuffai.
“Io un’idea di come è capitato ce
l’avrei” disse Lizzy ridendo sotto i baffi.
“Ma come, Dana non ti ha mai avvisato?” chiese mia
madre lanciandole uno sguardo di rimprovero. “Mi ricordo
Dana, era una ragazza così carina, così
educata”.
“Ma che centra scusa?” intervenne Lizzy.
“Avrà avuto un sacco di motivi per non dirglielo.
Quanti anni avevate Rob? Quindici? Sedici? Avrà pensato che
questo babbeo sarebbe fuggito in Canada”.
“In realtà si può dire che è
stata un po’ colpa mia” azzardai, attirando gli
sguardi di tutti. “Lei mi voleva chiamare, ma io non ho
risposto perché … pensavo che volesse rimettersi
assieme a me”.
“Che scemo” disse mia sorella dandomi una gomitata.
Dopo diverse spiegazioni su come si era svolta la faccenda, e consigli
sui bambini da parte dei miei, si era fatta mezzanotte passata e mia
sorella e mia madre erano in cucina a chiacchierare, mentre io stavo
mettendo i regali nelle buste per tornare a casa.
“Papà … secondo te sarò
bravo a, insomma, a gestire la cosa?”. Ormai gestire la cosa
era diventata una delle mie frasi preferite.
“Gestire le cosa?” chiese mio padre alzando un
sopracciglio.
“Si, a fare tutte le cose che fanno i papà
normali, quelli che tornano a casa alle cinque e hanno già
… trent’anni e passa” dissi osservando
Jonathan.
“Ah secondo me per queste cose farai schifo”.
“Cosa?!”.
“Però potrai fare altre cose con tuo figlio, forse
non saranno cose tradizionali come al solito. Insomma, se ti aspetti di
tornare alle cinque a casa sei molto lontano dalla verità.
Lo sai meglio di me quanto sei impegnato. E sappi che non si fanno solo
cose felici con i propri figli, ci sono anche cose spiacevoli da
fare”.
“Ad esempio?” chiesi preoccupato. Cavolo, come se
non lo sapessi! Con i miei ci avevo litigato parecchie volte, ma nella
parte del figlio pensavo di potermi permettere addirittura un
po’ di arroganza. Insomma, io ero quello immaturo che doveva
ancora crescer,e loro invece i genitori che dovevo per forza opporsi (a
quei tempi la pensavo così). Essere dall’altra
parte mi sembrava innaturale, e mi terrorizzava.
“Devi insegnargli cos’è giusto e
sbagliato, devi imporre delle regole perché non faccia
scelte stupide. Dire di no a tuo figlio è una delle cose
più difficili in certi casi: loro si arrabbiano, tu ti
arrabbi, e sembra che tutto vada a puttane. Ma poi passa”
disse con fare rassicurante che non mi tranquillizzò nemmeno
un po’.
Dopo aver messo tutto in macchina salutai tutti quanti, presi Johnny in
braccio e, ancora dormiente, lo misi in macchina. Una volta a casa lo
misi a letto e poi mi buttai sul divano.
Avevo voglia di buttarmi giù dalla finestra, correre fino a
Buckingham Palace e andare a svegliare la regina con un fischietto.
Si, a volte mi vengono in mente queste cose stupide.
“Bob come devo fare ora?”.
“Tu pedala, io ti tengo da qui” dissi reggendo la
bici da dietro.
“E se cado di nuovo?”.
“Non puoi cadere, ci sono io dietro”. Era ormai il
secondo giorno che provavo a far andare in bici Johnny, ma
l’ultima volta ci aveva fatto una caduta di culo
colossale, e per quel giorno non volle più riprovare. Invece
quella volta aveva fatto un paio di metri, solo che talmente lento che
poi sentiva la bici che si sbilanciava e metteva giù i
piedi. Quindi stavo provando con l’ultimo metodo che mi
veniva in mente.
“Guarda che vado eh” disse cominciando a pedalare.
Potevo seguirlo a passo lento.
“Ok, visto che non cadi?”.
“Per ora no”.
“Prova ad andare un po’ più
veloce”.
“Sicuro?”.
“Si, si, ti tengo io”. E accelerò. Ora
si che stava diventando difficile stargli dietro, mi sentivo un
po’ un coglione. Senza dire nulla, lo mollai, tenendomi
dietro di lui un po’ correndo, un po’ camminando a
passo svelto. “Stai andando!” esclamai.
“No, non mi mollare!” esclamò lui.
“Stai andando benissimo, se vuoi fermarti schiaccia il
freno!”.
“No ho paura!” esclamò. Intanto la
stradina solitaria che avevo scelto come campo di apprendimento
curvava, così lui girò il manico incerto.
Rallentò talmente tanto che cadde. Si alzò,
sorridente, e corse verso di me.
“Hai visto? Ce l’ho fatta!”.
“Bravissimo!” esclamai prendendolo in braccio.
Provammo ancora un po’ di volte e poi tornammo a casa.
“Bob” mi chiese improvvisamente Johnny
quella sera a cena, “posso chiederti una cosa?”.
“Certo” gli dissi. “Però
dovrai mangiare anche questi, altrimenti niente”. Gli misi un
paio di verdure nel piatto. Le separava tutte e non le mangiava, ma non
potevo tenerlo solo a pasta e carne, altrimenti sarebbe morto di
colesterolo alto!
“Ma non mi piacciono” si lamentò.
“Prova a mangiarle assieme alla carne, il sapore non si
sente” dissi. Lui provò e, senza quasi rendersene
conto, continuò a mangiare. Ora ero curioso: se accettava di
mangiare melanzane pur di chiedermi qualcosa allora doveva essere una
domanda urgente. Sperai che non fosse la famigerata: come nascono i
bambini? Potevo raccontare la storia della cicogna, o quella di
Gesù Bambino, oppure potevo dire: sei troppo piccolo ancora!
“Ora posso chiederti quella cosa?”.
“Ovvio” dissi, soddisfatto delle mie
capacità di persuasione.
“Tu sei il mio papà?”.
Mi andò di traverso un pezzo di qualcosa, e bevvi grossi
sorsi d’acqua per calmare la tosse che mi era venuta. Quando
mi passò chiesi: “Perché?”.
“Perché tutti i miei amici stanno, tutto il tempo,
con il loro papà o con la loro mamma. Io sono sempre stato
con la mia mamma, quindi il mio papà sei tu, per forza,
perché sei il primo che sto con te tutto il tempo”.
Caspita, certo che come ragionamento non faceva una piega. E
cos’avrei dovuto rispondere? Dovevo aspettare Dana per
quello, però ormai me lo aveva chiesto. Non potevo dirgli
ora di no e dopo di si. Non volevo nemmeno rimandare
l’argomento. “Hem … se lo fossi a te
farebbe piacere?”.
“Si! Tantissimo, tanto così!” disse
allungando le braccia verso l’esterno. “Tu sei
l’amico di mamma più simpatico di tutti”
aggiunse poi.
“Ah grazie.” sussurrai,
“B’è in realtà …
si, io sono tuo papà” bisbigliai a mezza voce.
“Si!” esclamò lui scendendo dalla sedia
e raggiungendomi. Mi saltò addosso e si sedette sulle mie
ginocchia, stringendomi, per quando potesse stringermi con le sue
braccia sottili. Con una specie di groppo in gola lo strinsi anche io.
Mi venivano i brividi, era una sensazione quasi dolorosa, mi sentivo
come se da un momento all’altro fossi dovuto esplodere. Ma il
mio cuore era gonfio di sentimenti contrastanti. Amore. Paura.
Tristezza, incertezza. Insiscurezza, felicità, amore. E
ancora amore, amore, amore.
Ero lì in casa mia, senza alcun tipo di programma per la
serata che comprendesse amici, feste o ragazze. Dovevo andare a dormire
presto e probabilmente mi sarei svegliato altrettanto presto, con
davanti una giornata senza troppi eventi come quella appena passata.
Però ero felice.
Strinsi ancora un po’ più forte Johnny. Profumava
di fresco …
Olè!
Vi avevo detto che questo capitolo era importante. Adesso Johnny sa che
Robert è suo papà, spero di essere riuscita a
trasmettere un fondo di veridicità (che secondo me
è la cosa più importante). La reazione del
bambino in particolare mi è stata difficile da ricreare,
perchè... come si fa in questi casi? Cosa sa quello che
passa per la testa di un bambino di sette anni in una situazione come
questa? Comunque, spero che abbiate notato i fantastici errori
ortografici messi di proposito nella parlata di Johnny! XD
Vi avviso che fra due caitoli questa fic finirà. E' una
storia un po' corta, ma a me va bene così, poi vedrete come
si svolgerà la faccenda!
Mi spiace ma ora non posso proprio ripondere alle recensioni, vado di
fretta! Mi scuso infinitamente, spero che questo capitolo vi sia
piaciuto! :) Un bacione a tutti e grazie mille per leggere questa
storia! ^^
Patty.
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Capitolo 7 *** The last kiss ***
7.The last kiss
“Johnny,
perché non vieni qui? Ti faccio paura per caso?”.
“Certo che gli fai paura. E poi lui preferisce me”.
“Ma va, è solo per essere gentile che sta
lì a farsi torturare”.
“Io non lo torturo, lui si diverte. Vero?”. Kristen
osservò Johnny con sguardo talmente cattivo che lui
annuì. “Visto?” disse poi lei facendo
una smorfia a Taylor.
“Ma se l’hai traumatizzato”
sbuffò lui poggiandosi sul sedile con le braccia allungate
sullo schienale.
“Diglielo che ti diverti” disse Kristen a Johnny.
“Kris, Kirs” dissi attirando la sua attenzione,
“dubito che qualunque bambino si diverta ad aiutarti a
mettere i lacci alle all star”.
“Tzé …” disse lei.
“Johnny!” esclamò poi, “Ti si
è staccato il dente?”.
“Hai visto?!” chiese lui entusiasta sorridendo.
“C’è già quello
nuovo” disse aprendo la bocca e facendogli vedere la candida
punta del nuovo nato.
“E’ venuto il topo a darti il regalo?”
chiese Taylor.
“No, mi ha dato i soldi” disse Jonathan corrugando
le sopracciglia.
“Il mio topo mi dava solo regali inutili” si
lamentò Taylor.
“Così me lo confondi” dissi io.
“Pa!” mi chiamò Johnny. Non mi chiamava
mai papà in modo intero, solo pa.
“Che c’è?”.
“Siamo arrivati?”.
“Fra un po’” dissi io. “Ci
saranno tanti fotografi secondo te?” chiesi a Taylor a voce
bassa.
Lui alzò le spalle. “B’è noi
salutiamo, entriamo e basta, tanto ci sarà la
sicurezza”.
Seguii il suo consiglio. Uscii e fui investito da una marea di flash e
dal rumore delle foto scattate. Presi in braccio Johnny, sorrisi un
po’ ai giornalisti e poi sparii dentro il locale. Dietro di
me, poco dopo, arrivarono gli altri. Il posto era davvero grande e
illuminato. Sul fondo c’era un lungo tavolo pieno di cibo e
tanti tavolini rotondi attorniati da poltroncine. Probabilmente dovevo
andare in giro a conversare, ma non potevo lasciare Johnny da solo.
Tutti assieme occupammo un paio di tavolini e ordinammo da bere. Per
passare quella serata mi serviva qualcosa di forte, così
chiesi un Jack Daniels con ghiaccio.
Fatto sta che erano le nove di sera, e Dana mi avrebbe chiamato sul
cellulare per dirmi quando arrivava, perché, come uno scemo,
le avevo anche detto che andavo a prenderla assieme a Johnny. Quindi
dovevo ad un certo punto fuggire dalla festa con lui e andare
all’aeroporto, quando ci si aspettava invece che restassi
lì tutta la notte a parlare con tutti quanti e bere alcolici
a volontà. Forse avrei potuto anche starci con gli
alcolici, ma non avevo proprio voglia di una serata mondana.
“E a te porto qualcosa?” chiese il cameriere
sorridendo verso Johnny.
“Ti va una coca?” gli chiesi.
“Con il ghiaccio” rispose lui.
“Perfetto, arrivano fra un minuto signori” disse il
cameriere voltandosi e andando ad un altro tavolo. Quando arrivarono le
ordinazioni bevemmo tutti assieme e, dopo aver finito la coca, Johnny
si allungò verso Kris.
“Cosa bevi?”.
“Una cosa che potrai bere solo da maggiorenne”
rispose lei.
“Perché?”.
“Perché la birra la possono bere solo i
maggiorenni”.
“Che cos’è un maggiorenne?”.
“Uno che ha diciotto anni”.
Johnny prese a contare con le dita, infine trasse le sue conclusioni.
“Ma mancano undici anni!” protestò.
“Ed è meglio così, fidati”
dissi io ingoiando un sorso di Jack.
“Che fai, il papà intransigente?” chiese
Taylor. “Lascialo un po’ stare che quando
avrà l’età giusta proverà le
cose giuste. Non diventarmi uno di quelli che fumano e vietano le
sigarette ai figli”.
“Si dice ipocrisia” disse Kris. “E a
proposito di sigarette …” aggiunse tirando fuori
il pacchetto.
“Si vabbè ma io dicevo per dire. Così
lo intossichi di fumo passivo” disse Taylor indicando
Jonathan.
“E’ vero. Vado fuori” disse.
“Vengo anch’io. Vuoi venire?” chiesi a
Johnny.
“Ma lo tengo io!” protestò Taylor.
“Guarda che sono capace”.
“Ehm … d’accordo”. Mi alzai e,
mentre passavo dietro a Taylor, gli diedi una manata sulla spalla e mi
chinai su di lui dicendo: “Grazie per il regalo. Guarda so
che l’hai comprato”.
Fuori, sul retro, c’era il cortile del locale. Faceva freddo,
ma si stava abbastanza bene da fumare una sigaretta in pace. Aspirai il
fumo e mi rilassai, finalmente.
“E’ da un po’ che non ti riposi,
eh?” mi chiese Kris ghignando. Si vedeva così
tanto che ero in un periodo di stress post-figlio?
“Già. Devo ammettere che è stressante
… però non sarà così per
sempre. Quando tornerà Dana Johnny starà la
maggior parte del tempo con lei, e le volte che ho tempo
andrò … a trovarli o verrà lui da
me” dissi aspirando il
fumo.
“Ma scusa non ti spiace nemmeno un po’?”.
“Che cosa?” chiesi stupefatto.
“Credevo che volessi vederlo il più tempo
possibile, ma … quando
avrò tempo è una cosa
limitata” disse lei gesticolando con la sigaretta fra le dita.
“Però è tutto il tempo che mi posso
permettere. E poi crescerà, potrei addirittura portarmelo
dietro qualche volta, durante le vacanze, che ne so! Tutti vogliono
viaggiare, io gli darò l’opportunità di
farlo. Ci sono un sacco di vantaggi che uno può trarre da un
padre attore”.
“E’ vero” asserì Kris.
Devo ammettere che le scorse settimane erano state dure, ma anche uno
dei periodi più belli che avevo mai passato, non ci sono
dubbi. Ma sono molto realista su certe cose, e sapevo che la mai vita
era molto complicata da gestire, quindi mi dicevo sempre che, quando
fosse tornata Dana, avremmo messo le cose in chiaro. Avrei sacrificato
tutto pur di passare un po’ di tempo con Johnny, ma mi
rendevo anche conto che lui aveva bisogno di stabilità, di
crescere in un ambiente adatto. Non sapevo ancora come sarebbe
continuata la storia, ma avrei fatto di tutto purchè
succedesse.
Io e Kris restammo almeno mezz’ora a parlare e, verso le
undici, rientrammo. Non appena fummo dentro Taylor ci venne incontro,
con la mia giacca e con Johnny per mano, pronto e vestito.
“Ti sei scordato dentor il cellulare! Ha appena chiamato sua
madre” disse indicando Johnny con la testa.
“E’ appena arrivata
all’aeroporto”.
“Bene, tanto non siamo lontani” dissi prendendo la
giacca che mi porgeva. “Ehm … che ha detto Dana
sul fatto che hai risposto tu?”.
“Oh niente, prima ha detto: chi sei tu? E allora io gli ho
detto che ero un tuo amico e che ti eri scordato il cellulare dentro il
bar, e lei ha chiesto: Robert è in un bar? E
Johnny?”.
“Ah! Scemo! Magari mi prendo uno di quei culi pazzeschi per
averlo portato qui!”.
“Ma va era tutta contenta” disse Taylor.
“Ha detto: finalmente
comincia a sciogliersi un po’”.
“Ah …”. Senza parole. Davvero.
“Vabbè andiamo. E io che credevo di essere quello
irresponsabile” dissi poi prendendo la giacca che Taylor mi
porgeva e dando uan spinteralla a Johnny verso la porta.
Quella sera c’era l’autista a disposizione,
così lo sfruttammo alla grande. Prima andammo a prendere
Dana e poi dissi, tanto per parlare: “Perché non
torniamo alla festa?”.
“Non lo so, ti va Johnny?” chiese Dana. Lui
alzò le spalle. “Allora andiamo”.
Tornammo alla festa, ma questa volta non fummo investiti da flash e
fotografie, perché ormai era tardi. Entrammo e, in poco
tempo, incontrammo Taylor e Kris, così ci sedemmo al loro
tavolo.
“Che fai ancora qui?” mi chiese Kris.
“Secondo te? Ah questa è Dana” dissi
presentandola.
“Ciao”.
“Io sono Kristen”.
“Taylor. Ma scusa, lui non si annoia?”.
“Quando è stanco me lo dice” disse Dana
alzando le spalle. “Hey, me lo porti qualcosa da
bere?” disse Dana all’indirizzo del cameriere di
prima.
“Che cosa ti porto?” chiese lui avvicinandosi con
un mezzo sorriso.
“Il tuo cocktail preferito, ma che non costi
troppo” disse lei.
“Ti sembro uno che si può permettere di
spendere?” chiese allora lui.
“Hai ragione. Va’, lavora e guadagna!”
fece Dana indicando il bancone con un gesto secco della mano. Poco dopo
arrivò un drink dall’aria strana.
“E’ il mio preferito” disse lui
servendolo.
“Mi chiedo se ho fatto bene … Simon”
disse leggendo la targhetta appuntata sul petto del ragazzo.
“Infatti hai ragione, l’ho inventato io adesso.
Però non dovrebbe essere male, l’ho
assaggiato”.
“Fermo qui, dove vai?” chiese Dana prendendolo per
la maglietta siccome lui stava andando via.
“Finché non lo assaggio e lo accetto tu devi
restare qui” disse picchiando la mano su una sedia vuota,
facendo muovere i vari bracciali che aveva al polso.
“Ok” disse il cameriere sedendosi. Dana tolse la
cannuccia e bevve due lunghi sorsi del liquido ambrato, poi
cominciò a tossire.
“Cazzo quant’è forte!”
esclamò portandosi una mano al petto. Simon rise di gusto.
“Ne vuoi un altro?”.
“No lascia stare. Però … è
buono” osservò.
“Fa assaggiare” disse Kristen tendendo la mano.
Assaggiamo tutti lo strano cocktail. Era forte sul serio, ma aveva
anche un sapore niente male. Ad un tratto mi accorsi che Johnny non
c’era più.
“Dov’è Jonathan?!” mi disperai
guardandomi attorno. Senza fare una piega Dana mi indicò una
figurina che chiacchierava con un attore di cui non sapevo il nome.
“Ma … se gli succede qualcosa?”.
“Oh sta’ calmo. Sa che non deve andare fuori dalla
mia vista. E’ da tutto il tempo che parla con quello.
E’ un giocatore di basket?”.
“Non è un metodo tanto sicuro” borbottai.
“Ma si annoia se lo tieni qui tutto il tempo. Nei posti dove
andiamo noi ormai lo conoscono tutti. Se ne sta sempre con qualcuno che
me lo guarda” rispose lei fra i denti.
“B’è io preferisco essere sicuro che non
gli succeda niente, non ho un occhio come il tuo” dissi
alzandomi e andando a chiamare Johnny. Lo riportai al tavolo ma ad un
tratto si alzò di nuovo. “No, Johnny
…”. Lui si fermò, voltandosi verso di
me. Lanciai un’occhiata a Dana.
“Perché non posso andare a fare un
giro?” chiese.
“Perché c’è troppa gente
qui” dissi. Lui si trascinò di nuovo verso di noi.
“Mamma il cameriere mi ha detto di darti questo”
disse improvvisamente tirando fuori un pezzetto di carta e dandolo a
Dana.
“Hai letto cosa c’è scritto?”
chiese lei sbirciandolo.
“Si” disse lui.
“Bravo!” esclamò. “Ci hai
messo tanto?”. Johnny scosse la testa. “Bravissimo!
Quando vuoi ti compro qualcosa da leggere. Lo leggiamo insieme se ti
va”.
Fu più o meno allora che mi resi conto di come, davvero, io
mi fossi goduto la mia adolescenza, e di come invece Dana non aveva
potuto viverla e all’età di ventitré
anni volesse recuperare il tempo perduto. Mi sembrava paradossale, ma
fra i due il più responsabile ero io. Nonostante questo
Johnny aveva vissuto sette anni con lei, e non era venuto su niente
male. Adesso che era un po’ più iperattivo,
più grande, ci voleva solo, secondo il mio modesto parere di
neo-genitore, un po’ più di disciplina. Che
evidentemente Dana o non voleva, o non riusciva ad imporre.
Perché far girare un bambino in un bar non è la
cosa più sicura del mondo. Questo per fare un esempio, poi
anche se su certe cose Dana era una buona madre, su altre si lasciava
un po’ andare.
Invitai Johnny e Dana a casa mia e, appena fummo dentro, Johnny volle
andare a dormire. Mi stupii che fosse durato fino a
quell’ora. Erano già quasi le tre di mattina.
“Non so se hai da fare, mi rendo conto che sei impegnato, ma
se vuoi puoi tenerlo ancora per un po’” disse Dana
prendendo il bicchiere che le porgevo.
“Ah già … io volevo farlo quando tu
fossi tornata, ma Johnny mi ha chiesto se ero suo padre … e
io gliel’ho detto” dissi con un mezzo sorriso.
“Davvero? Com’è andata?”.
“Bene, benissimo” dissi grattandomi il mento
cercando di reprimere l’espressione di beatitudine che mi si
leggeva già in volto.
“Robert non so ancora come ringraziarti. Sei una delle
persona più gentili che abbia mai incontrato in vita
mia” disse allungandosi e abbracciandomi. La abbracciai anche
io.
Ormai quello che avevamo era sbiadito da anni, ma condividevamo ancora
qualcosa: era Johnny. Era solo per lui.
Quando Dana si scostò mi resi conto che una piccola lacrima
le era scesa lungo la guancia. Accaldato e sotto l’effetto
dell’alcol, senza nemmeno pensare a quello che facevo, la
bacia sulla bocca, tremante. Inizialmente lei rispose, e le mie mani
cominciarono a riprendere conoscenza del suo corpo. Non era cambiato in
quegli anni, forse era solo un po’ più morbido in
alcune parti, segno probabilmente della gravidanza passata, ormai le
forme spigolose adolescenziali si erano ammorbidite. Misi una mano
sotto la sua maglietta ma, improvvisamente, lei la tirò
fuori e si staccò.
“No, aspetta Robert” disse mettendo le mani davanti
a me.
“Hai ragione” dissi risoluto. “Questa
volta prenderemo la dovute precauzioni: vado a prendere un
preservativo”.
“No, che hai capito?” chiese lei scuotendo la
testa. “Io non voglio”.
“A me prima non sembrava” dissi alzando un
sopracciglio.
“Si ma lascia stare” disse allontanandosi.
“Ma che c’è che non va?” mi
lamentai.
“Robert noi non siamo più fatti per stare assieme,
si capisce dai” disse sistemandosi i vestiti. “Non
vorrei che Jonathan si mettesse in testa strane idee”.
“Strane idee?” chiesi senza capire cosa diceva. Ero
troppo ubriaco per un discorso del genere.
“Si, del tipo che io e te staremo ancora assieme. A vivere
assieme e felici come quelle famiglie delle
pubblicità”.
“Ah” dissi abbassando lo sguardo.
Effettivamente era giusto, Dana non era più una ragazza con
la quale sarei potuto stare bene. Sarebbe stato diverso se non ci fosse
stato Johnny: saremmo stati assieme per un po’ poi ci saremmo
lasciati, capendo che non era una relazione da portare avanti. Ma ora
non potevamo metterci assieme e mollarci come se nulla fosse, dovevamo
tener conto anche dei sentimenti di Johnny, che magari in fondo
desiderava che noi due stessimo assieme.
Dana cominciò a prendere le sue cose e a mettersi la giacca.
Mise tutte le cose di Johnny in una borsa e poi entrò nella
sua stanza.
“Che cosa fai?” chiesi alzandomi.
“Torniamo a casa” disse lei risoluta mettendo la
giacca a Johnny che, mezzo addormentato, non capiva cosa succedeva.
“Ma è presto. Aspetta, non puoi andartene
così!” esclamai.
“Se restassi … probabilmente farei cose di cui mi
potrei pentire” disse lei senza guardarmi in faccia. Prese in
braccio Jonathan e aprì la porta di casa.
“Aspetta. Johnny … !” dissi io cercando
di fermarli.
All’ultimo momento Dana si voltò verso di me e mi
sfiorò le labbra con un bacio.
Non c’era più niente da fare. Jonathan stava
appoggiato sulla sua spalla e si era addormentato, la bocca semiaperta
e il volto schiacciato contro la spalla di Dana.
Rimasi impalato sulla porta, incapace di fare alcunché.
Mentre la mia vita, Jonathan, spariva per le strade buie di Londra.
Non perdete la speranza! Ancora
la storia non è finita :)
Spero che questo capitolo sia piaciuto, perchè è
stato un po' complicato da scrivere, soprattutto la parte di Dana. E'
vero, in questo capitolo fa una magra figura, ma volevo rendere una
situazione interiore abbastanza complicata. Dana non è una
cattiva madre (per quanto certi suoi comportamenti possano essere
negligenti delle volte), ma è come ha detto Robert: cerca di
riguadagnare il tempo perduto, ed è anche molto confusa come
persona. Non condannatela per questo, è uno dei personaggi
più strani che abbia mai trattato! XD
Per sapere cosa succede poi, dovrete leggere il prossimo, e ultimo
capitolo. E ora passo alle recesioni:
Enris: grazie mille per i complimenti ^^ Sono felice che la storia e lo
stile ti piacciano, grazie mille! L'ultima parte è descritta
dal punto di vista di Rob, ma non pensavo fosse un problema far capire
anche come si sente Jonathan, dato che i bimbi sono così
spontanei, e infatti è come hai detto tu, lui accetta Robert
come padre. La parte della cena con i parenti è stata molto
divertente da scrivere! XD B'è, grazie ancora per leggere la
storia e recensire, al prossimo capitolo! :)
romina 75: grazie per la recensione ^^ Non sono una mamma, per ora solo
una figlia! XD Ma mi fa piacere sapere di essere riuscita a descrivere
decentemente un rapporto familiare. Anche a me è piaciuto
scrivere la scena della bici, anche se forse è stato
trasformato un po' in cliché, sembra una scena
indispensabile nell'infanzia! ^^ Comunque grazie per la recensione e
per i complimenti, al prossimo capitolo! ^^
Morneeng Yeah: grazie per i complimenti! Per la parlata di Johnny mi
sono liberamente ispirata al mio cuginetto piccolo! XD Spero che questo
capitolo non sia stato sconvolgente. E spero anche che il finale ti
soddisfi! Grazie per la recensione, ciao! ^^
Al prossimo e ultimo capitolo a tutti quanti!
Patty.
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Capitolo 8 *** Nine years later ***
8. Nine years later
“No!
Frena, frena!”. La macchina si ferma di botto e io mi
accascio su sedile. “Ma sei scemo?!” esclamo.
“Avevo tutto sotto controllo” mi rimbecca lui
picchiando le mani sul volante.
“Sotto controllo non vuol dire stare a due centimetri dal
palo della luce”.
“Sono molti di più che due centimetri”
dice Jonathan allungando il collo fuori dal finestrino.
“Spostati, guido io” dico togliendomi la cintura di
sicurezza. “Il giorno che imparerai a guidare non ci
sarò io su quella macchina”. Esco
dall’auto e lo sento sbuffare. Quando apro la portiera del
guidatore lui si arpiona al volante.
“Dai ancora un giro. Solo uno!” dice, cercando di
restare seduto, ma io lo prendo per un braccio e lo alzo.
“Papà!” esclama lui contrariato.
Tornando a casa mi viene in mente di come gli avevo insegnato ad andare
in bici. Era stato molto più facile della macchina!
Quella mattina presto, dopo che Dana se n’era andata, ero
rimasto tutto il giorno a fissare con sguardo piatto il pavimento. Allo
squillo del telefono ero sobbalzato. Avevo la tentazione di non
rispondere e di rimanere ancora un po’ in autocommiserazione
con me stesso. Però per fortuna risposi e,
dall’altra parte della cornetta, c’era Johnny.
Non ricordo esattamente come andarono le trattative, ma per un paio di
anni io e Dana ci scambiammo Jonathan come se fosse una specie di
merce. Poi abbiamo iniziato a vederci di nuovo senza alcun pericolo,
anche perché Dana pochi anni dopo si era sposata.
La sera in cui Dana diede la notizia del fidanzamento a Johnny lui mi
chiamò e mi chiese di andare a prenderlo. Aveva tredici
anni. Passammo una notte intera a mangiare schifezze e parlare di
niente. Voleva solo un periodo di tregua da tutti i cambiamenti
repentini che stavano avvenendo nella sua vita, e aveva scelto di
venire da me. Ero felice per quello.
“Scendi, arrivo subito” dico quando, verso le
dieci, ci fermiamo davanti al locale. Parcheggio l’auto e
raggiungo Taylor, Jackson, Nikki, Kris e Kim, la mia fidanzata.
Più Michael, il ragazzo di Kris più o meno da
quando sono nati (credo che siano destinati a stare assieme), e la
fidanzata di Taylor.
Nulla è cambiato troppo da quella sera di quando Johnny
aveva sette anni. Ancora stretti attorno al tavolo, ancora a dire a
Jonathan che non posso comprargli gli alcolici perché ha
ancora sedici anni. E ancora, ad un tratto si alza senza preavviso e se
ne va.
“Vai a corrompere la cameriera?” chiede Kim. Lui,
senza degnarla di risposta, continua per la sua strada. Siccome
è passato un po’ di tempo e non torna mi volto a
vedere che fa.
“Ma … !” esclamo quando lo vedo assieme
ad un ragazza a chiacchierare. Tutti si voltano a guardare ma in quel
momento Johnny si alza e viene verso di noi assieme alla ragazza.
“Sei tornato” gli dico scoccando
un’occhiata a lei. E’ molto graziosa, deve avere un
anno più di lui, forse.
“Si, ma non t’illudere non resto per molto. Questa
è Genevièv” dice indicando la ragazza.
Lei ci saluta cortesemente tutti quanti sorridendo. “Me la
presti la macchina?” chiede poi Johnny speranzoso.
“Scherzi? Nemmeno se non fosse la mia” dico.
“Per favore … pa!” esclama.
“Non andare mai in macchina con lui”. E’
giusto avvisare la sua ragazza, deve sapere a cosa va incontro. Lei
sorride e Jonathan, per fortuna, desiste nel suo intento.
Li osservo mentre escono dal locale chiacchierando e improvvisamente mi
ricordo di avere ancora in tasca le chiavi di casa di Johnny. Mi alzo e
corro verso di lui. “Johnny!” lo chiamo.
Si volta. “Hai deciso di darmi le chiavi?” chiede
speranzoso.
“Si, quelle di casa” dico passandogliele.
“Sempre meglio che niente” dice lui stringendosi
nelle spalle.
“Hey … vieni qui” dico prendendolo per
le spalle e chinandomi su di lui. “Tu … hai
già fatto il discorso che ti sto per fare con tua madre,
vero?” chiedo. “Di quando stai con una ragazza, e
sai, magari l’atmosfera si fa …”.
“Co … no! Cioè, si! Lasciami in pace,
so cosa fare!” esclama diventando tutto rosso.
“Sai anche cosa non fare, vero?”.
“Si, si. Calmo, e non parlare più di certe cose
con me” dice mettendosi il cappuccio sulla testa.
“Ci vediamo a casa. Credo che arriverò alla tua
stessa ora, più o meno”.
“Ok, ciao” gli dico. Sto già tornando
dentro quando Jonathan mi chiama.
“Hey guarda cos’ho trovato l’altro
giorno” mi fa mostrandomi una cosa.
“Che cos’è?” chiedo
avvicinandomi.
“E’ il calendario che mi avevi regalato un sacco di
tempo fa”.
“Ma va! Fa vedere” dico prendendolo in mano.
“Però dopo un po’ hai smesso di segnare
i giorni”.
“Si, credo di aver smesso quando hai cominciato a starmi
simpatico, o quando ho capito che eri mio padre. Non ci voleva poi
molto” dice ghignando. “Ciao pa!”.
Si volta e corre verso Genevièv. Quando la raggiunge si
prendono per mano e incominciano a camminare. Li guardo un secondo
finché Kim non esce a vedere dove sono finito.
“E’ grande, eh?” mi chiede.
“Pure troppo” rispondo, mettendomi le mani in
tasca. Kim mi abbraccia e mi dà un bacio sulla guancia.
“Non si può fermare il tempo. E poi scusa,
vorresti negargli tutte le belle cose che gli possono capitare
crescendo?”.
“Assolutamente no. Credo che lui sia una delle cose
più belle che mi siano mai capitate”.
“Ecco … a proposito di questo” fa Kim
grattandosi una guancia, “Penso che fra un po’ ne
capiterà un’altra” dice a mezza voce
posandosi una mano sul ventre.
“Che cosa?!” esclamo terrorizzato.
Fine
Questa fan fiction non
è stata scritta a fini di lucro ma per puro divertimento.
Non conosco Robert Pattinson e lui non ha dato
l’autorizzazione per questa storia. Qualsiasi analogia con
fatti realmente accaduti e persone reali (scomparse o in vita)
è assolutamente casuale.
E... fine. Lo so, lo so, mi
vorrete fucilare. E avete anche tutte le ragioni per farlo, vi capisco.
Mi fucilerei da sola, è stato un ritardo imperdonabile. Non
so davvero cosa mi è preso: avevo tempo, avevo la storia...
ma mi mancava proprio la voglia ._. Eh, ormai è andata.
Spero che il capitolo, e la storia in generale, vi sia piaciuta. Devo
ammettere di esseremi particolarmente affezionata a questo racconto,
forse per la tematica, forse per i personaggi, non saprei...
Passo alle (ultime) recensioni:
_Miss_: grazie mille per i complimenti e le recensioni che hai scritto!
^^ Mi scuso ancora per questo ritardo, comunque sono felice di sapere
che la storia ti sia piaciuta. Ciao! :)
romina75: grazie mille per la recensione ^^ Mi ha fatto molto piacere
leggerla, soprattutto perchè sono d'accordo con te su molte
cose. I personaggi come Dana sono complicati da trattare, e per il loro
carattere, se fossero veri, sarebbero continuamente giudicati dalla
gente, quindi sono felice che, in qualche modo, 'giustifichi' il suo
modo di fare. Non dico sia corretto, ma lo si può
comprendere. Già dall'inizio pensavo che Dana e Robert non
sarebbero tornati assieme, semplicemente perchè non si amano
più, e sono persone con un po' di testa che non vogliono
ferire il loro bambino per scopi puramente egoistici. Comunque, grazie
per le tue recensioni, sono state davvero utili, sia per capire che ero
sulla buona strada nei sentimenti e nelle azioni dei personaggi, sia
per vedere la faccenda da un diverso punto di vista. ^^ Grazie, mille!
Enris: ciao! Grazie per i complimenti. Sono felice che il titolo, alla
fine, sia stato notato. Penso che sia una domanda che un po' tutti si
fanno, prima o poi: 'chi sono io?' E soprattutto in momenti della vita
particolarmente difficili, quando si subiscono tanti cambiamenti, si
cresce e si impara. E' proprio questo il cambiamento che volevo subisse
Robert, sono felice che tu l'abbia notato :) Grazie mille per aver
recensito, ciao! ^^
Morneeng Yeah: wow grazie mille per i complimenti! ^^ Spero che la
storia ti sia piaciuta fino alla fine, io credo che sia un finale che
lascia spazio a molta fantasia. Si capisce che Robert e suo figlio
hanno un buon rapporto, a volte litigano, ma sono sereni, e penso che
questa sia la cosa più importante. Insomma, il classico
lieto fine (ma a me piacciono così tanto <3) XD Be'
grazie ancora per la recensione, ciao! :)
Channy: eccomi di ritorno! Lo so, mi sono fatta aspettare, ma spero con
questo ultimo capitolo di farmi perdonare. Sono felice che la storia ti
piaccia, e capisco come mai tanta ostilità verso Dana (se
non l'avessi inventata io starebbe antipatica anche a me! XD) Grazie
mille per aver recensito, ciao ciao ^^
Allora, premettendo che, lo so, questo sarà un discorso da
vera mediocre che non ha postato in tempo, ma voglio lo stesso
ringraziarvi dal profondo del cuore. Sia che abbiate soltanto letto,
che abbiate recensito, che abbiate solo dato un'occhiata veloce alla
storia, ma vi sono davvero grata. Questa è una delle storie
cui sono più legata, e sapere che anche a qualcun'altro
è piaciuta, è davvero una grossa soddisfazione.
Scalda il cuore, ecco...
Non sono parole prese a caso, sono davvero felice di aver postato
questa fic, e di averla condivisa con voi. Siete stati tutti molto
gentili a leggere e persino a recensire! ^^ Quindi...
Grazie mille
da
Patty
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