Comin' Through the Rye

di GirlWithTheGun
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Parking Lot - Prologo ***
Capitolo 2: *** Comin' Back To Me ***
Capitolo 3: *** Where Is My Mind? ***
Capitolo 4: *** Exit Music (For a Film) ***
Capitolo 5: *** Gypsy Death & You ***
Capitolo 6: *** Tir Nel Cortile ***
Capitolo 7: *** La Noyee ***
Capitolo 8: *** You Don't Care About Us ***
Capitolo 9: *** The Catchers In The Rye - Epilogo ***



Capitolo 1
*** Parking Lot - Prologo ***


Comin' Through the Rye

« Se una persona incontra una persona
Che viene attraverso la segale,
Se una persona bacia una persona
deve una persona piangere? »

Robert Burns – Comin’ Through the Rye

 

 

Parking Lot

 

Io credo d’essere pateticamente anziana. Però non lo sono. Lo credo, ma non lo sono. Non nel corpo, almeno. E questa è una di quelle fottute fregature che il mondo ti rifila senza nemmeno darti il tempo di spiegarti un po’, di tentare, cambiare il corso delle cose e prenderti qualche soddisfazione passeggera. Tipo avere ottant’anni nel duemilanove. Tirare avanti con la consapevolezza di avere tre, cinque, al massimo otto anni di strascicata esistenza da subire. E ti va bene tutto, anche l’idea di crepare male, perché tanto il bello che potevi avere te lo sei goduto. E allora chi se ne frega. Insomma, pensavo questo, mentre ero su in Piazza della Scala, oggi. C’era questo gruppo di vecchietti arzilli che discutevano le notizie sul quotidiano con l’aria di chi ha qualcosa da dire e se ne fotte. Ma come discutevano. Animatamente. Poi ce n’era uno, più simpatico degli altri, che continuava a dire “cazzo”. E cazzo qui, e cazzo lì. Che cazzo, un cazzo. Insomma, era uno a posto, dai. Ma non per la questione cazzo, eh. Proprio perché si vedeva che c’aveva la testa sveglia. C’avevano un po’ tutti la testa sveglia, ma lui mi è rimasto impresso. Beh stavo lì a guardarli, seduta su una di quelle panchine che non sono proprio delle panchine, di pietra o di marmo, grigie. E li invidiavo. Dio, se li invidiavo. Sembrerebbe un po’ una cosa strana da pensare, no? Io che a quindici anni, che devo ancora crescere del tutto, che non mi sono ancora uscite per bene le tette, invidio una tribù di pensionati arzilli che parlano del Governo, della Sinistra, della Destra, dello scatafascio. E ad osservarli, ho formulato un paio di pensieri, no? Per esempio, la prima cosa che ho pensato è che parlavano così, tutti disinvolti, infervorati, perché non hanno paura di sbilanciarsi del tutto, adesso che hanno un piede nella fossa e l’altro lì lì per entrarci. E poi fumano tante di quelle sigarette, insomma, scommetto che alla fine dell’anno ce ne sarà qualcuno in meno, dai. Questione matematica. Anche se nella matematica sono uno schifo, quindi dovrei provare ad astenermi da questioni che la mettono in ballo. Diciamo che si tratta di statistica. Che non capisco molto bene come funziona, ma ha a che fare con il calcolo delle probabilità. Di nuovo matematica, ed è meglio se magari zittisco queste sinapsi nevrotiche di merda per due minuti. Insomma, credo che ai pensionati arzilli la forza di parlare di massimi sistemi senza sentirsi dei deficienti, dei qualunquisti, non gliela da’ l’esperienza, che fondamentalmente nessuno sa bene cos’è, e nemmeno la conoscenza o tutte quelle stronzate lì. Scommetto che si sentono liberi di dire tutto quello che gli frulla per quei cervelli sconquassati solo perché sentono vicina la morte, se la sentono sul collo, che gli fiata addosso e sa di carogna putrefatta, tanto per intenderci. E allora vogliono dire tutto su tutto. Io credo che fin quando uno non si sente la morte proprio dentro la pancia, non sarà mai capace di essere davvero quello che è, di fare quello che vuole, di dire quello che vuole dire. Perché con la morte lo spazio per la paura non c’è, non c’è mai. O almeno la penso così, ma insomma, sono solo paranoie da undici della sera, non so se mi spiego. E poi fa un freddo bestia. Mi sbrana le chiappe.
Comunque avevo iniziato con lo scopo di dire che vorrei avere ottant’anni, ecco. Anche ottantacinque, per essere sicura di tirare le cuoia a breve. E essere un uomo. Un vecchio uomo rompicoglioni che blatera sul mondo, magari un po’ alternativo, roba tipo che quando ero giovane mi sono passato un sacco di donne ma amavo sempre mia moglie e lei mi lanciava addosso i piatti del servizio buono, però eravamo felici lo stesso. E poi avere due figli che insomma, mi vogliono bene e mi sembra ok che si facciano la loro vita senza di me, che me la sono fumata via tutta, proprio come le Marlboro che compro la mattina insieme a quattro o cinque quotidiani. Tipo leggere Repubblica, Il Giornale, L’Unità, Libero, Il Fatto, ma avere sempre le idee un po’ spostate verso sinistra, nonostante con l’età tutto diventa sempre più grigio, piuttosto che bianco o nero. E veder nascere uno o due nipoti che non saranno mai abbastanza grandi per conoscermi davvero, ma qualcuno gli racconterà di me, e vedranno le foto di un vecchio rimbambito che una volta è stato anche bello ed è impossibile crederci. E beatamente crepare, tanto sono sereno e mia moglie l’ho sempre desiderata lo stesso, nonostante  la sua natura rompi cazzi e la sua fissazione per le telenovelle. Telenovelle. Mi piacerebbe poter dire telenovelle. Invece il massimo che posso permettermi, parlando un po’ a scuola con le mie compagne o con le ragazze di nuoto, che poi alla fine si parla sempre del niente ma sembra non se ne accorga nessuno, è “minchia”. O qualche monosillabo sparso in giro, con la giusta enfasi. Che poi pensare che io di parolacce non ne dico quasi mai. Mi scateno sul serio solo quando ragiono un po’ così, tra me e me, passeggiando con la felpa di mio fratello che se gliela riporto a casa anche solo bagnata o con una macchiolina sicuro che mi spezza un paio d’ossa. Possibilmente quelle delle gambe.
E’ che mi ci masturbo da un po’ di tempo, con quest’idea della morte e del futuro. Che sono due cose inscindibili. Insomma nel futuro di noi tutti cazzoni che verminiamo sulla Terra c’è la morte. Certo, un sacco di altre cose, ma alla fine o prima di tutte, a seconda dei punti di vista, la morte. Però insomma, quegli ottantenni lì, che straparlano in una piazza come chissà quanti altri, dovevano essere un po’ più contenti del loro possibile futuro. Dovevano essere certi di avercelo, tipo. Ci confidavano, magari. Magari pensavano: “tra un paio d’anni andrà tutto meglio”. O magari no. Ma resta il fatto che io mi concentro, mi concentro parecchio, specie la notte, quando non riesco a dormire per via del troppo pensare. Ce la metto tutta, ma il mio futuro non lo vedo. E cazzo, ve lo dico così su due piedi, con un po’ di tremarella. Mi mette addosso una paura fottuta questa cosa. E una delusione stronza, che mi mangia via il sonno, la voglia, il sorriso.
E allora mi sono scelta il mio bel palazzo alto. Oggi è il primo sopralluogo. Me lo studio un po’, prima di salirci. Ma giuro su tutti i santi, che poi chissà come ci si sente ad essere un santo, che se mi gira, alla fine di questo mese, mi ci butto giù. Dal tetto, intendo. Mi butto giù dal tetto dell’altissimo palazzo di fronte a casa mia. E vaffanculo. E non è per la paura. E’ per via delle delusioni, della sicurezza che la mia, come quella di ogni ragazzo distrutto della nostra epoca, sarà una vita di merda. E non è un’ipotesi. E’ una certezza, porco mondo. Non ci voglio vivere, no, in una dimensione dove quando guardi appena un po’ oltre, vedi buio. Non il buio della stanza quando mia madre mi spegneva la luce da piccola, no. Proprio il buio del nulla.
E non fa nemmeno più paura. Fa tristezza.
E li odio un po’, quei vecchiastri. Perché loro la loro vita se la sono vissuta tutta, se la sono goduta, anche se magari è stata una vita infame. Io, invece, della mia vita non potrò mai godermi un cazzo.

 

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Capitolo 2
*** Comin' Back To Me ***


Comin’ Back To Me

 

Certi giorni mi alzo con lo scazzo.
Come mi piacerebbe spegnere tutte queste sigarette contro i muri della scuola, strusciare bene contro il cemento la cenere e sentire l’odore che mi sfrigola buono nelle narici.
Il guaio delle adolescenti contemporanee è che, cazzo, non sanno per niente fumare. Le vedi gonfiare le guance, mettere tutto in bocca e poi soffiare fuori a vuoto il nulla. Il nulla, cazzo. Mentre invece la parte più importante di fumarsi una buona sigaretta, di fumarsela per bene, dico, è portare il filtro alle labbra. E poi tirare e tirare e sentire che tutte le sostanze nocive, e la nicotina e il catrame e il petrolio o quello che cazzo è, ti entrano dentro i polmoni, si attaccano, ti corrompono la salute, l’ossigeno. E poi soffiare fuori tutto, illudendosi di essere guariti. Perché per soffiarlo fuori, il male deve entrarti dentro. Per dire di aver fumato veramente una sigaretta, devi sentire i polmoni lamentarsi almeno la prima volta, e la testa girare, fin quando poi si tratta di abitudine.
A me piace fumare, cazzo. Ma non così. Così non è fumare. E’ come dipingersi addosso un’aria maledetta che non ci azzecca niente con la tua vita. E’ come dire di avere i capelli biondi invece ci si accorge benissimo che sono tinti, ecco. Far finta di essere quello che non si è. Ecco perché la maggior parte delle mie coetanee mi stanno sul cazzo. Perché stanno tutte lì a cercare di essere quello che non sono. Cercano di convincerti e di convincersi, e fanno di quelle stronzate che neanche è possibile immaginarsele tutte.
Ci penso parecchio, a questo genere di cose, la mattina. Penso anche al fatto che io ho il mio pacchetto di Lucky Strike rosse, che le fumo da quattro anni, ormai, ma nessuna di queste squinze qui mi ha mai visto accendere una sigaretta. Io le mie sigarette me le fumo quando ne ho voglia, e di solito la voglia mi sale quando sono solo, quando c’è buio, e quando attraverso i viali inutilmente giganteschi del mio quartiere amaro. Ecco. Le mie Lucky Strike non sono uno status. Sono solo sigarette. Fanno un male del cazzo e tutto il resto, certo, lo so. Ma tutto questo è iniziato molto tempo fa e per motivi ben precisi, per quanto mi riguarda. Non per sentirmi a mio agio in mezzo a degli sconosciuti o per ingannare il tempo. Mah. Fanculo. Sembro proprio uno di quegli opinionisti del cazzo che stanno in tivù a parlare delle nuove generazioni credendo di saperne qualcosa.
Ah,  poi non capisco. Come fanno a vestirsi tutte nello stesso modo? Io impazzirei per riuscirci. Infatti mi vesto senza pensarci, e si vede. Non che mi interessi, eh, ma posso capire che a qualcuno il mio modo di vestire potrebbe sembrare un mischiarsi di abiti senza nessun senso apparente, e nemmeno non apparente. Mi vesto alla cazzo di cane. Lo so io, lo sanno gli altri. E punto, la faccenda finisce lì. Ma loro, come fanno? Come fanno ad avere le stesse scarpe, gli stessi pantaloni, le stesse magliette dello stesso modello, le stesse borse? Fanno compere tutte insieme? Si comunicano i negozi dove andare? E poi mettiamo che una compri qualcosa di leggermente differente? Non va bene? Certo che non va bene, cazzo. Altrimenti non sarebbero tutte uguali.
Dopo un po’ mi stanco, di pensare a queste cose. Non perché c’è qualcosa di più significativo a cui pensare, no. E’ che pensarci troppo mi fa salire la disperazione, ecco. Perché? Perché non lo so… mi piacerebbe sapermi spiegare. Comunicare a tutte queste bambine-ciminiera che potrebbero anche essere tanto belle, tanto pulite. Invece c’è il fondotinta, la matita, la magrezza esasperata e la piastra e i profumi di Dolce & Gabbana, i jeans di non so quale fottuta firma e gli stivali imbottiti UGG. O forse tutta questa sconsiderata tristezza è colpa dei Jefferson Airplane, di Comin’ Back To Me, e di mio padre, che si ostina ad inseguirmi. Mi sembra di avere sempre un cane attaccato al guinzaglio da portare a pisciare. E anche se il mio vecchio è morto da quattro anni e qualche mese, non ha importanza. Lui è ancora qui, attaccato come una zecca ai miei polpacci, aggrappato ai miei capelli lunghi e alle mie sigarette. Che certe volte avrei voglia di urlare senza spiegazione: “VATTENE! CAZZO, VATTENE!”. E mi guarderebbero tutti, assicurato. Ma almeno saprei se lui mi può sentire, se gli interessa rispettare quello che voglio io, per una dannata volta. Invece non l’ho ancora fatto. Non ho trovato un briciolo di coraggio fottuto. Perché so che se ci provassi, a cacciarlo ad alta voce, mi verrebbe male. Non mi riuscirebbe di fare un ringhio disperato, di quelli da film. Piuttosto produrrei un pigolio, una preghiera patetica. E magari potrei anche convincermi di aver detto “vattene”, ma molto probabilmente tutto quello che direi, una volta aperta la mia boccaccia sporca, suonerebbe tipo “I saw you comin’ back to me. Comin’ back to me”.
E’ per questo che il mio vecchio non se ne va. Perché alla fine non voglio lasciarlo andare, cazzo.
Ma come faccio a convincere questo mio cuore di merda che è il momento, eh?
Come faccio?

Oggi il compito di italiano. Tema scontatissimo: “Immagina di avere quarant’anni”.
Credo sia una delle peggiori tracce mai svolte in vita mia. Roba che la leggo e non faccio altro che ripetere “cazzo” sottovoce. Infatti Marco mi lancia un paio di anatemi dei suoi per farmi smettere. Non che gli interessi se continuo ad imprecare allegramente, no. E’ che così perdo tempo. Perché tocca a me scrivergli il suo bel compito di italiano, dato che lui non riesce a mettere due parole in fila quando parla, figuriamoci se si tratta di scrivere.
Insomma, parto con il suo tema. E lo farcisco di frasi fatte, luoghi comuni, chi più ne ha più ne metta. Un tema alla Marco Ravasi, tanto per intenderci. Roba di ragionamenti degni dei palinsesti Mediaset. Un mucchio di stronzate, ecco. Ma di stronzate belle grosse, ridondanti e farcite di buonismo. Tipo famiglia unita, impiego che ti permette di stare con i figli, moglie anche non bellissima ma intelligente, vita sana, weekend nei parchi naturali, estate in camper. Visite ai genitori anziani, anche, che a una come la nostra prof di lettere cose del genere piacciono. E’ pronto in venti minuti, e a me rimane un’ora e trenta per stendere il mio tema, mentre le idee mi si affollano nella testa e faccio una fatica boia a riordinarle in un modo umanamente comprensibile. Ravasi è contento. A me non sbatte un cazzo, non so nemmeno perché gli faccio i temi. Forse siamo una sottospecie di amici, devo ancora capirci qualcosa.
Deve essere sempre colpa di tutta la storia dei Jefferson Airplane, di Comin’ Back To Me e del mio vecchio. Sta di fatto che, come praticamente ogni volta che scrivo, mi si spacca il cuore e ne scoppia fuori qualcosa di stranissimo. Come una sensazione iniziale di smarrimento e poi la trance totale, l’assenza. Cazzo. Mi ci perdo, io, nell’inchiostro. E non torno più fin quando non so che è uscito tutto, che è finita. E vorrei aver i polpastrelli duri come quelli dei pescatori, o dei muratori, o di quelli che follavano la lana una volta. Pelle che si spacca contro la penna Bic e sangue acquoso che ne esce, che magari macchia il foglio. Così potrei vedermi davvero, dipinto sulla pagina. Così potrei essere sicuro di esserci davvero io, in quella grafia sghemba e bambinesca che storpia la carta giallognola.
Alla mia prof racconto che non so se arriverò ai quaranta. Che ci sto pensando. Perché tutto mi sembra già abbastanza angosciante adesso, e non riesco ancora a capire se ne vale la pena, di andare avanti. Che non ho paura, no. Più che altro che mi sento stanco ancora prima di partire. Che so già che probabilmente non ne varrà la pena, perché a questa vita di merda tu puoi dare tutto, anche il respiro, che tanto la maggior parte delle volte non ti torna indietro niente. Anzi, forse ci perdi qualcosa. La salute, la felicità, le speranze e anche i soldi. Le scrivo chiaro e tondo che poi non posso sapere come sarò a quarant’anni, perché la verità è che non ci spreco nemmeno un minuto su questa ipotesi qui, del crescere troppo. Tipo che sarebbe bello morire come Sid Vicious, a vent’anni più uno, e non vedere mai tutte le cose brutte che il futuro ci riserva. Magari anche morire di droga o di velocità o di proiettile, che tanto la mancanza di quello che non conosciamo non ci potrà mai venire, se siamo morti. Perché non esiste l’inferno, e non esiste il paradiso, come diceva il mio vecchio. Esiste la polvere e basta. E’ come schiacciare il tasto “erase”. Tutto quello che c’è stato prima scompare, tutto quello che verrà dopo non può interessarti.
Punto.
Ecco, alla prof non glielo scrivo che per fatti miei ho già deciso di non arrivare ai quarant’anni.
Che traccia di merda, cazzo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 3
*** Where Is My Mind? ***


Where Is My Mind?

 

Dov’è la mia testa? Dov’è la mia testa del cazzo?
Ma come faccio a spiegare a mia madre cose di questo genere? Lei se ne sta lì, ferma sulla porta, che mi dice dolcemente di alzarmi, altrimenti si farà tardi, altrimenti sarà un’altra nota del cazzo sul mio tristissimo libretto verde. E’ così tenera che nemmeno riesco a guardarla.
Mentre io vorrei riaddormentarmi e spegnermi, come una lampadina difettosa affondata nel cuscino. Non voglio, non voglio alzarmi, non voglio svegliarmi davvero.
Ma guardala. Mi viene quasi da piangere, a guardarla. Lei che non sa niente di questa mia follia distruttiva. Della mia malattia cerebrale definitiva.
Non è che vorrei morire in questo momento, no. Mia madre ci creperebbe sul posto, lo so. Magari non esistere, ecco. E allora chissà cosa ci sarebbe in questa stanza, forse solo il letto di mio fratello. Forse riuscirebbe a trovare il posto per tutti i suoi cd, senza dover litigare come un pazzo con me. Nessuno gli fregherebbe più i vestiti, certo. Nessuno.
Mamma ti vorrei rispondere che hai sbagliato, che mi hai disegnata male per questa terra. Che hai partorito un alieno che non è nemmeno verde, che non ha un suo ruolo. Invece dico si, che mi sto alzando. Tu non resti a controllare, ti fidi. Ti fidi spudoratamente di me e vai in cucina a scaldarmi il latte, a metterci dentro due cucchiaini di zucchero, strisciando le tue ciabatte rosa a terra. Morbide. C’è una cosa che faccio sempre quando non ci sei, quando sei al lavoro. Me le infilo e sciabatto per tutta la casa, perché mi piace sentire che con le tue stupide pantofole riesco ad essere te per dieci assurdi minuti. E’ una cosa da pazzi, lo so. Ma è così bello. Vorrei essere te.
Apro la finestra. Fa freddo ed è una giornata di pioggia. Che qui pioggia vuol dire aghi sottili, mica quei begli uragani che si vedono su Discovery. Io vedo oltre la pioggia. Le case popolari con i mattoni arancioni, gli alberi gialli e le foglie che si appiccicano all’asfalto. Poi, ancora oltre, i contorni delle case, degli uffici. In città c’è sempre qualcuno che sta più in alto di te, qualcuno che vuole prendersi un pezzetto di cielo in più. Milano sembra la torre di Babele, e noi tutti gli stronzi che si tendono verso il cielo. Ma quale cielo?
Il cielo non si vede. È cieco anche lui.

 
Seduta al mio banco verde. Che poi perché i banchi o sono verdi o sono bianchi. Sono dei colori del cazzo. Sanno d’ospedale. Come i neon, come la pittura grigia per le pareti. E tutti a lamentarsi che macchiamo sempre, che sporchiamo, che roviniamo. Ma se io fossi libera di fare quel che voglio  sfonderei tutti questi muri tristi con un martello di quelli pesanti. Sono una merda, queste classi. Tutto all’insegna del risparmio, tutto scadente e da rifare. Anche i professori. E allora fanculo, mi tolgo le scarpe e le lancio contro il soffitto, ad imprimerci le forme della mia suola. Faccio un sacco di cose che non hanno nessun senso.
E’ che ho una gran voglia di piangere. Riempio la mia disperazione infantile con un passatempo rumoroso. Mi stufo subito però, e mi ricordo delle mie belle cuffie appese al collo. Rimetto ai piedi le mie DC sotto lo sguardo schifato di Margherita. Che per la cronaca è la mia compagna di banco. Lei più o meno riesce ad intuire che ho qualcosa che non va, perciò quando non è giornata mi ignora. Sa che comunque non risponderei. In ogni caso a lei la questione delle scarpe lanciate contro il soffitto non è mai piaciuta, mi ha sempre fatto un sacco di menate per le cose di questo genere. È una brava amica, eh. Una come me, di regola, nemmeno dovrebbe averla, un’amica. Invece Margherita mi vuole bene, anche se non capisco perché. Insomma volermi bene è una bella fregatura del cazzo secondo me. Considerato anche il fatto che penso spesso alla questione del palazzo alto, ultimamente. Ma Marghe mica lo sa. Sono una disonesta. Ma come cazzo si fa, spiegatemi. Come glielo potrei dire?
Ogni tanto ho questo desiderio. Di stare finalmente meglio e chiedere scusa a tutti, per quello che ho fatto fino ad ora, per non essere riuscita a comportarmi da normale essere umano, mai. Tipo un percorso di redenzione. Vorrei sapere che sto bene. Ma non posso, cazzo. Non posso. Sono nata distrutta. Vorrei poter ricordare quando è iniziato tutto, quando ho cominciato a soffocare.
Chissà cosa si prova ad alzarsi la mattina e a pensare a cose semplici come ai vestiti da mettere, alle interrogazioni, al ragazzo che ti piace, al ragazzo a cui non piaci, a cosa farai nel pomeriggio. Io vorrei davvero saperlo, com’è. Si deve sentire dentro una gran pace, una gran calma che non conosco. Un gran divertimento. Sarebbe bello anche non pensare proprio a niente, non riuscire a capire di esistere e di avere un potenziale in questa cazzo di società. Anche non avere un parere, dei principi e degli ideali. Muoversi spinti dalla massa. Quella è la pace totale, vaffanculo. Invece io non riesco a capire quando ho cominciato a pensare, ma è stato un giorno del cazzo, sicuro. Da allora, da quel giorno maledetto, tutto mi sta stretto, tutto mi pesa addosso. E’ come avere sei paia di occhi, vedere il quadruplo degli altri, e soffrire per cose inspiegabili. Ecco, tornando a Margherita. Lei si alza la mattina e pensa a quelle due o tre cose da quindicenne perfetta. Io mi alzo la mattina e penso al pianeta che collassa, alle balene che muoiono sulle spiagge perché hanno perso il senso dell’orientamento. Penso che non posso fare niente. In un mare di adolescenti senza bussola. Perché sono persa, e non so dove cazzo sto andando. E a nessuno interessa.
BastaBastaBasta. Ma la mia testa non si ferma, è persa anche lei a rincorrere angosce estranee ai miei coetanei. E in tutto vede solo una risposta. Non voler vivere. Più. Per cosa sto vivendo? Ci hanno già tolto tutto, si sono mangiati tutto il nostro futuro. A noi rimane la disperazione. Io lo so. Io lo vedo. Impazzirò per questo, lo sento. E’ come un fottuto abisso senza fondo.
Mi alzo che è la seconda ora. Ma non ce la faccio più. Voglio andare in bagno, voglio scappare, voglio bruciare il mondo. Filo via dalla porta con le cuffie appese al collo e le mani in tasca. Calma come se semplicemente stessi pensando a quanto mi annoia la chimica, a quanto mi fa schifo. Vago per i corridoi deserti, alla ricerca di una finestra aperta. Tutte queste stanze chiuse piene d’aria logora mi fanno venire il mal di testa.
Appoggiata al davanzale, guardo la pioggia che cade nel cortile di cemento. E mi sembra di avere quattro anni. Di essere una bambina di quattro anni con un orribile e grottesco testone di grandezza spropositata, che mi fa barcollare ad ogni passo.
Poi lo vedo. Se ne sta affacciato dall’altra parte del cortile, alla finestra di fronte alla mia. Sembra una cazzo di allucinazione, all’inizio. Poi lo riconosco. E’ il tipo della seconda E. Parola mia, quello si che è fuori come un balcone. Infatti mi sta proprio simpatico, mi sembra a posto. Lo guardo. Ha gli occhi azzurri, slavati e quei capelli biondissimi disordinati e lisci, tipo che assomigliano tanto a quelli di Kurt Cobain. E questa è una di quelle similitudini scontatissime da ragazzina impastata di Nirvana che si crede alternativa. Io in realtà ascolto più punk, che grunge. E dei Nirvana non mi sono mai interessata tantissimo. Ma la prima cosa che mi viene in mente guardando il tipo della seconda E è questa. Cosa ci posso fare. Sono piena di cliché in questa mia testa di merda.
Insomma, se ne sta lì. Ci guardiamo. Lui deve essere tipo mezzo inglese o giù di lì. Non so perché lo so, ma lo so. L’avrò sentito dire da qualcuna delle mie compagne scassacazzi. Continuiamo a guardarci. C’è qualcosa di meravigliosamente familiare in noi due che ci guardiamo. Non lo so. È tipo incontri ravvicinati del terzo tipo. Vorrei urlarglielo da una finestra all’altra. Ma siamo due alieni, noi? Dobbiamo metterci in bicicletta e rincorrere la nave madre? E’così, che funziona? Ma tu lo sai?
Invece non ce la faccio. Adesso sono sicura che mi guarda anche lui. Ci guardiamo negli occhi come se fosse una cosa normalissima. E in effetti lo è. Ma non parliamo, no. Mai.
E adesso dov’è la mia testa?

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 4
*** Exit Music (For a Film) ***


Exit Music (For a Film)

 

La bella storia della mia caduta libera comincia il sei agosto del duemilacinque. Adesso che sono qui a pensarci sulla banchina della metro mi sembra tutto molto surreale. In questi quattro anni mi è capitato di rovinarmi la testa con questo pensiero parecchie volte, nei posti più impensabili, anche al cesso. Che poi qualcuno potrebbe considerare dissacrante pensare alla morte del proprio padre mentre si piscia. Io invece credo sia stato il modo più giusto, tra tutti quelli che ho sperimentato. Lì, con il cazzo in mano, ero immobile nell’atto più antico e più naturale del mondo. Pisciare viene anche prima del sesso. Prima di tante altre cose, insomma. E anche la morte è così naturale, che a pensarci non mi sembra nemmeno una brutta cosa. Anche se tecnicamente spararsi un buco in testa non è naturalissimo, però alla fine sempre di morte si parla, no? Con queste cose le differenze è inutile farle. Inutile attaccarsi ai cavilli. Tanto anche il suicidio porta sempre dalla stessa parte: sottoterra.
Mio padre era costantemente malinconico. Non sono mai riuscito a capire perché, ma in fondo questa cosa qui un po’ mi piaceva, anche. Sembrava proprio una di quelle persone che nascondono dentro qualche abisso insondabile. Chili e chili di nero. Non riesco nemmeno a rendere bene l’idea con il pensiero. Come se mio padre fosse sempre stato una tela spessa e bianca, come se qualcuno l’avesse cucito di proposito a forma di sacchetto, e nemmeno tanto grande. E come se, a quella stessa persona a cui era venuta la brutta idea di cucirlo malamente, senza nemmeno dargli il tempo di spiegarsi, fosse venuto in mente di scagliare all’interno di questo piccolo sacchetto, il mare. Ma un mare di quelli in tempesta. Di quelli che te li figuri con il cielo plumbeo, l’acqua color ferro e gigantesche onde fameliche. Un mare perennemente in burrasca. Mio padre era un po’ così. Era quel sacchetto. Io lo guardavo negli occhi e vedevo la schiuma cattiva delle onde che lo mangiava lentamente. Quasi sentivo il rumore dell’acqua che gli si fracassava contro le costole, nei polmoni. Ma non potevo farci niente. Forse era per via della mamma che se n’è andata, o per le sue origini irlandesi. Non lo so. Ma del resto non ho mai capito come abbia fatto mio padre a finire qui, in Italia, a vivere a Milano e a lavorare come magazziniere tutta la notte. Accadono delle cose inspiegabili, certe volte. Come se ci fosse qualcuno che cala dall’alto situazioni già belle e pronte e le affibbia al primo che passa. 
Insomma, mio padre si è ammazzato che era estate. Mi ricordo che erano i miei primi mesi di libera uscita. E per libera uscita intendo le sere passate nel cortile del mio condominio, a giocare a gavettoni con gli amici del quartiere. Quando le undici mi sembravano già notte. Ho questo ricordo di una serata bellissima. L’avevo trascorsa a giocare, a ridere, e non so nemmeno io a fare cosa. Ma ero felicissimo. E insomma, mi è capitato di guardare in alto, proprio alle undici di sera, e di riuscire a vedere le stelle. Lo giuro su tutti i santi, mi sono sentito un essere libero. Cazzo, non sono mai stato più libero in vita mia. Me ne stavo la, bagnato dalla testa ai piedi, con le braccia spalancate come un deficiente, a sorridere al cielo stellato. Ed ero libero. Cristo, ero LIBERO. Me lo sono sentito sulla pelle. Non lo dimenticherò mai, cazzo.
Si è sparato in testa mentre io ero al parco con la bici. La mia bici rossa. L’ha trovato la nonna, la mia nonna materna, nel garage. Che mi è sempre sembrato molto strano il fatto che i miei nonni si siano presi cura di noi, e invece mia madre ha lasciato me e mio padre soli come dei cani randagi ed è scappata con uno in Spagna, a fare tanti altri figli e a spedirmi cartoline per il mio compleanno. La verità è che gli adulti sono incasinati, distrutti più di noi. Che non sono in grado di spiegarti nulla, il più delle volte, e che spesso ti tocca accudirli, se non vuoi che appassiscano. Come le piante. Come mio padre. La pistola era del nonno, che non se lo perdona ancora, di essere stato carabiniere. Il garage adesso non lo usiamo più. Mio nonno lascia l’auto fuori da allora, e gli hanno spaccato il vetro un paio di volte, ma lui l’ha sempre portata a riparare senza fare un fiato. E poi la guida così poco.
Il giorno del funerale c’era un sole bellissimo, un caldo porco. Io so che a mio padre sarebbe piaciuto essere infilato in una barchetta e spinto al largo, nel suo mare irlandese. Gli sarebbe piaciuto colare a picco nell’acqua salata e finire mangiato dai pesci. Ma come fai a spiegare certe cose a due sessantenni? Invece marcisce dentro una bara e io non vado a trovarlo mai, perché secondo me non ha senso. E poi vedere la sua foto sulla lapide mi fa venire una fottuta voglia di piangere, e vaffanculo. Mia nonna gli porta sempre i fiori freschi ogni settimana, e torna con le lacrime agli occhi anche lei. Mio padre era buono, faceva ridere, quando gli andava, e raccontava sempre delle storie fantastiche, da rimanerci ore ad ascoltarlo. E poi la nonna dice sempre che era bellissimo, che sembrava un angelo. Io non riesco a capire cosa intende. Per me era mio padre e basta. Più di questo non saprei cosa dire.
Le sue sono state le prime sigarette che ho fumato. Aveva lasciato un pacco di Lucky Strike rosse, mezzo consumato, aperto sul comodino della nostra camera. E l’accendino era proprio lì accanto. Ne ho fumate tre, quattro, fin quando la nicotina mi ha fatto girare la testa sul serio, fin quando non mi sono spaventato e ho smesso. Cacasotto fottuto. Poi la paura non è più tornata. In compenso sentivo mio padre ad ogni tiro, sentivo come il suo odore, me lo trovavo accanto nei vortici di fumo grigiastro che mi aleggiava intorno. E non se n’è più andato. Vaffanculo papà. Mi senti?
Pensando pensando, sono quasi arrivato. Fuoriesco da sottoterra con le mani in tasca, inciampo un paio di volte. Ho questa grazia nel muovermi che mi sembra di essere un ippopotamo sui roller, cazzo. Inciampo e cado e faccio delle acrobazie tali che non riesco nemmeno a capacitarmene. Camminare seguendo una linea retta è un’impresa, per me. Anche da lucido.
Mi abbandono al solito posto, in compagnia delle solite facce. Perlopiù è gente con la quale non ho veri rapporti. Al di fuori di questo contesto noi non esistiamo, non ci conosciamo. Oddio, magari a loro piacerebbe anche, ma io faccio un po’ lo stronzo. Forse è proprio per questo che mi tengono ancora in considerazione. Ce ne stiamo qui, passano illegalissime lattine di Coca riempite di non so cosa, qualche liquido che da in testa, di solito. Non lo so, io bevo. Mi piace fottutamente, bere. Dico. Quando sono triste. Il mondo si riempie di colori, e tutti sono pronti a parlare di tutto. Di guerra, di pace, di politica, di massimi sistemi, di rivoluzioni, ribellioni, Dio. E’ straordinario. Continuo a non capire perché da lucidi di queste cose non si parla. Ci comportiamo come se fossimo costantemente sotto effetto di narcotici mentali. Addormentati, ce ne stiamo la a parlare di un cazzo, a discutere di un cazzo, per ore intere. Poi aspettiamo di stordirci per parlare davvero di cose serie. Oppure è tutto al contrario. Forse è il metro con cui giudichiamo un argomento “serio”, che non va. Forse da ubriachi parliamo di stronzate, e da lucidi di quello che ha veramente peso. Insomma, la cosa mi mette angoscia comunque, a pensarci. Perciò non ci penso. Punto.
Però mi faccio un po’ schifo. E’ quasi arrendersi, certe volte. Sempre. È una cosa a metà, non avere il coraggio di passare al rimedio estremo e starsene qui, sospesi nello stordimento, a rincorrere gli autobus, a farli fermare apposta e poi ad andarsene, a cantare cosa, a parlare di cosa. Mi stimerei di più, se improvvisamente mi arrivasse tra capo e collo il coraggio di farla finita per davvero. O forse no. Ma comunque non potrei saperlo per più di una frazione di secondo. Così è ammazzarsi un po’ ogni ora, e condursi pateticamente verso una triste esistenza strascicante. A me cose di questo tipo non sono mai piaciute. Eppure eccomi qui, no?
Me ne torno a casa presto, con le sinapsi rallentate, fumando una sigaretta. Prendo l’autobus con il numero giusto, mi siedo in fondo, dove piace a me. Da qui riesco a leggere le parole di uno di quei cartellini pubblicitari che appendono in alto. Cos’è che c’è scritto? Il futuro a portata di click? O qualcosa del genere. Una stronzata. Chi è che lo vuole, un futuro a portata di click? Chi l’ha mai chiesto?
Penso alla canzone dei Radiohead con cui mi sto stracciando i timpani da stamattina a scuola. Dopo il momento finestra. Quella canzone che Yorke ha scritto per Romeo + Giulietta, o qualcosa del genere. Oggi fuggiamo, fuggiamo. Cantaci una canzone, una canzone per tenerci caldi. Ed è così lancinante, ascoltarla. Fa proprio un male fisico del cazzo.
Vorrei un paio di minuti per parlare con mio padre, adesso. Un paio di minuti che non posso avere, vaffanculo. Gli direi tipo ciao papà, qualche stronzata simile per rompere il ghiaccio. In fondo quando se n’è andato avevo undici anni, adesso, a quindici, mi sento un altro essere. Probabilmente dovremmo ricominciare daccapo a parlare e sarebbe complicato, ma bello. Come riscoprirsi a vicenda. Poi gli direi che oggi ho visto una ragazza, a scuola. La vedo spesso. Che è un po’ strana, si veste veramente malissimo, e proprio per questo mi piace guardarla. Come si muove in quelle maxitute e maximagliette, maxifelpe, maxicuffie spaziali. Ha proprio un faccino come quello delle bambole, con i capelli scuri e la frangetta spettinata. Sembra un cucciolo, o qualcosa del genere. Qualcosa di terribilmente tenero. O almeno così l’ho sempre vista… Poi oggi dalla finestra lei guardava la pioggia, io guardavo la pioggia, e invece ci guardavamo senza dire niente e ancora un po’ non lo sapevamo.
E sai una cosa, papà? Io la guardavo negli occhi e vedevo la schiuma cattiva delle onde che la mangiava lentamente. E sentivo il rumore del mare, papà. Cazzo, il rumore del mare.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 5
*** Gypsy Death & You ***


Gypsy Death & You

 

Scendo gli scalini di corsa, con il rischio di schiantarmi per terra ad ogni pianerottolo. Come un proiettile. Mi lancio giù quasi ad occhi chiusi. Cazzo, mi sembra di essere impazzita. E’ come un gioco da bambini, dall’ottavo al pianterreno senza interruzione, sollevando baccano, polvere, proteste. Ma chissà se mi sentono i condomini, attaccati con le flebo alla tv, chissà se si accorgono che fuori passo io, matta come un cavallo matto.
È proprio dalla tv che sto scappando. Ultimamente mi capita spesso. Mi succede di guardarla per sbaglio, mentre mia madre prepara la cena, e sento di andare fuori di testa. Tipo che vorrei tapparmi le orecchie, tapparmi gli occhi, o scaraventarla giù dal nostro balcone striminzito.
Maledetta tv, maledetti tutti. Anche mia madre, cazzo.
Ci sono questi momenti qui, in cui tutto sembra scorrermi dentro più veloce. Il sangue, i respiri, l’agonia. Avrei bisogno di ballare, cantare. Qualsiasi cosa. Potrei diventare od essere qualsiasi cosa. Invece, cazzo, eccomi qui che mi scapicollo giù dalle scale. Rinchiusa in un corpo da quindicenne disfatta. Cristo, voglio piangere, dimenticare che non avrò mai niente da dimenticare.
Mai, mai come adesso, mi sento viva, e mi fa male, mi brucia sulla pelle. Voglio dare fuoco al mondo.
E invece corri, cazzo, adesso corri. Che non ti vede, non ti conosce mai nessuno. Che sono tutti chiusi dietro i muri di cemento e invece tu scappi con l’aria fredda in faccia.
Non riesco a tenere ferme le gambe, mi sento prigioniera. Corro, scappo, volo, non lo so. Fino alla fermata del tram. Che ho voglia di vedere il Naviglio morire nella sua acqua putrescente.
Cammino, da sola. Ma vorrei ancora cantare, e ogni musica che ascolto mi sembra quella giusta per ballarci su. E mi immagino grandi discoteche, artisti di strada che si scatenano negli angoli delle vie. E so che ogni fotogramma che vedo in questa mia testa di merda me l’hanno già propinato, confezionato su misura. Che non c’è niente di originale, qui dentro. Niente. Il tutto mi mette troppa angoscia e mi ritrovo seduta sul gradino di un portone, a guardare spaesata il tempo che mi passa denso davanti al naso. Ho bisogno di una pausa.
Giuro, non capisco. Cosa mi è successo quando è successo perché è successo. Perché voglio di più perché so che non posso avere di più.
Fanculo. Le lacrime sono sprecate, qui. C’è da guardare le luci sospese sopra i ponti, i passanti con le facce brutte.
Me la passeggio. Poi succede che ho voglia di qualcosa di dolce e compro una crepe, mi vizio. Me ne sto seduta fuori dal negozio, vestita da profuga, con il pigiama sotto la felpa.
Mentre mangio i miei bei quadratini farciti di Nutella, guardo il maxischermo sospeso davanti ai miei occhi. E penso che qui i fatti sono due. O mi manca qualcosa che loro, gli altri, hanno. Tipo un regolatore di emozioni e di pensieri o qualche stronzata del genere. Oppure ho qualcosa in più, qualcosa che non dovrei avere, ma non qualcosa di positivo. E forse è anche peggio.
Succede tutto molto in fretta. Mentre me ne sto qui ad ingozzarmi di cioccolato artificiale, arriva lui. Sembra sbucare fuori dall’asfalto, tipo come un fungo metropolitano o chessò io. E’ il ragazzo della pioggia, il Kurt Cobain dei poveri. Si veste proprio alla cazzo di cane, ed è una cosa fantastica da guardare. Ti fanno male gli occhi.
Non so cosa gli passa per la sua folle testa, non lo so. Ma mi vede, e mi si siede accanto. E la cosa più bella di tutte è che non parliamo. Non parliamo mai. Ci guardiamo e basta, vicini, con i respiri condensati a farci compagnia. Per gentilezza, gli lascio l’ultimo angolo di crepe. Lui lo mangia, non ringrazia.
Poi mi alzo con l’aria di chi se ne sta andando, e lui biascica qualcosa, tipo che vorrebbe accompagnarmi per un po’. Gli sento l’alito, che sa di alcol. Gli dico si. Sembriamo una bella coppia di fattoni, passeggiamo sul Naviglio, e non c’entriamo un cazzo con tutti questi adulti grandi e chic che ci camminano incontro, e nemmeno con tutti gli altri. Siamo noi. Siamo persi.
Lui barcolla un po’, mi prende la mano. Ed io lo guido. Comincia a raccontarmi una favola bellissima, su un cagnolino bianco. Io sto ad ascoltarlo e mi sembra di vedergli gli occhi lucidi. Ma forse solo perché è zuppo di rum o quello che è. O forse perché adesso tutto è lucido, bagnato dalla pioggia.
Ci fermiamo sotto un balcone, per paura di bagnarci. Che io certe paure non le capisco. Perché abbiamo paura di bagnarci?
E all’improvviso ci accorgiamo delle foto di Alda Merini attaccate ad un cancello. Io lo sapevo, che viveva qui. Anche lui. Ci perdiamo a leggere le lettere che sono appese, come foglie morte, infilzate ai fiori. Dico ad alta voce che anche lei aveva qualcosa in più, qualcosa che non doveva avere. E lui risponde che infatti ha passato metà della sua vita in manicomio. Probabilmente anche io passerò metà della mia vita in manicomio, se deciderò di sopravvivere alla fine del mese. O magari no. Ma non riuscirò mai a scrivere niente di interessante, sicuramente. Niente di così geniale e bello. Sarò solo una pazza come tanti. Cerco di spiegare questa mia idea. E ridiamo, ridiamo, ma ci viene anche un po’ da piangere.
Non lo so. Io penso che ci stanno abbandonando tutti, in linea generale. Anche lei, se n’è andata. Penso che ci dovrebbe essere un ricambio di menti, invece c’è solo buio, adesso. E quando se ne andranno tutti per davvero, cosa rimarrà? Barbara D’Urso e Platinette, Bossi e D’Alema, la Santanchè e il Grande Fratello. E poi ne arriveranno di peggiori, e i peggiori saremo noi. Che poi alla fine le cose che non ci piacciono sono sempre le stesse per tutti. E anche questo mi fa paura. Io ho paura, cazzo, ho paura. Mi scappa di dirlo ad alta voce.
Kurt, che poi si chiama Colin, ma io lo chiamerò sempre Kurt, mi abbraccia. Ubriaco fradicio e sincero. Ce ne stiamo immobili sotto l’acquazzone, fin quando ci si gelano le dita. Forse ci siamo già ammalati e non lo sappiamo. Forse sarà suina e moriremo senza ausili. O forse tra una settimana saremo ancora qui così, stretti.
Poi lui senza dire nulla mi abbandona e se ne va senza voltarsi. Resto un po’ a guardarlo allontanarsi, poi me ne vado anch’io, con le mani in tasca.
C’è che mia madre doveva farmi nascere cagnolino. Cagnolino, e bianco. Lo ha detto anche Kurt.

I giorni sono scarni, se ne vanno via uno dopo l’altro e sembrano pezzi di un puzzle che non esiste. Ho la nausea di qualcosa, senza sapere cosa, ma anche una specie di peso all’altezza dello stomaco. Sono sempre più silenziosa e i miei non sanno che pesci prendere. Mio padre vorrebbe stare tranquillo, mia madre mi ama con un amore che noi esseri umani non siamo in grado di spiegare, nel nostro essere limitati e storpi. A scuola sento il mio cervello appassire, assieme a quelli degli altri. Avrei tante domande, ma non è mai il momento giusto per farle. E poi sembra che fare domande sia solo una mia prerogativa. Come se volessi dar fastidio. Invece vorrei solo delle risposte. Vorrei un dibattito, non lo so, parlo a caso, un’ora per discutere tra noi di grandi temi. Qualcosa. Ma forse sono solo io a volere queste cose, e allora sto zitta, lancio le molliche di pane fuori dalla finestra e guardo i piccioni ingozzarsi.
Kurt non viene a scuola da abbastanza. Forse non ne ha voglia. Forse è suina per davvero. A me piace pensare che sia scappato da qualche parte, a fare quello che più gli piace. Tipo a Barcellona a vendere bracciali o a rubare portafogli nelle Ramblas. Mi sembra il tipo giusto per questo genere di cose.
Martedì diciassette manifestazione studentesca. Mi piacerebbe salire su una fontana e urlare quello che credo, quello che penso. Qualcuno mi ascolterebbe anche. Il problema è che non arriverei da nessuna parte. Vorrei davvero battermi per un’idea. Mettere su una rivoluzione, una ribellione di menti. Ma, come tutti quelli che ci hanno pensato prima di me, probabilmente ne ricaverei una pallottola in testa, una bomba nella macchina o un sequestro misterioso. Questo Paese è strano. Questo mondo è strano. O magari sono io ad avere paura.
Allora opto per la mia passeggiata nei corridoi, a guardare fuori dalle finestre il cielo milanese. C’è odore di termosifoni accesi e di bidelli, che adesso si chiamano commessi ma secondo me non ha senso tutto questo cambiar nomi.
Magari domani arriva il sole.

 

 

 

 

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Capitolo 6
*** Tir Nel Cortile ***


Tir Nel Cortile

 

Ci sono cose che pesano, pesano. Ci sono cose che schiacciano.
Ansima la nebbia tra le case, e tutto sembra disegnato sullo sfondo. Ci sono dei momenti di silenzio surreale, mi ascolto respirare male. Fare cose senza senso. Come non andare a scuola per una settimana, simulando una febbre da cavallo per la nonna, e poi tornarci quando finalmente è arrivata per davvero – la febbre -. Avrò tipo trentotto o giù di lì. Ho messo il giubbotto imbottito, la sciarpa. Ho i pantaloni del pigiama sotto i jeans. Ho la cartella vuota per non fare fatica. Ma continuo ad avere un freddo disperato, dei brividi strani in tutto il corpo, e la debolezza nelle ossa. Non ho voglia di esistere, stamattina. Sono sicuro che capita a tutti, di svegliarsi con il desiderio inespresso di ammuffire sotto le coperte. Mi sento poco lucido, poco pronto alla parola. Annebbiato anch’io.
Fuori da scuola c’è una grande agitazione, ricordo appena il perché. Martedì. Gruppi di compagni che schiamazzano. Marco mi lancia un saluto da lontano, io, senza farci troppo caso, mi guardo intorno. Eccola, penso. Se ne sta lì a parlare con una ragazza piena di capelli rosso carota. Ride, sorride, dondola avanti e indietro, le mani nelle tasche della tuta. C’è qualcosa che stona, in tutta questa sua allegria. La felicità non si estende agli occhi. Dico, fa increspare le palpebre, le fa socchiudere, ma non accende le pupille. Lei è come una lampadina difettosa.
Marco mi salta addosso, mi parla tutto contento, lancia qualche frase come “cazzo oggi non entriamo, manifestazione”, “cazzo ma io al corteo non ci voglio andare, chi se ne fotte, ci facciamo un giro in centro”, “cazzo ma ce l’hai l’accendino?”. Cazzo, no che non ce l’ho. L’ho dimenticato. Mi trascina con lui a cercarne uno, a tampinare passanti innocenti. Senza rendercene conto siamo nel bel mezzo di un grosso gruppo, ci muoviamo insieme agli altri. Lei l’ho persa di vista, e forse non riuscirò a ritrovarla, in mezzo a tutto questo casino. Intanto Marco mi racconta i suoi sogni erotici e pretende un’interpretazione attendibile. Lui è notoriamente imbecille ed io anonimamente febbricitante.
Uno scambio di battute che è un programma.
“Ma secondo me vuol dire qualcosa, no, che non era tutta nuda”.
“Beh, può essere”.
“Insomma aveva ‘ste mutandine verdi con dei disegni rossi. Tipo peperoni. Che cazzo c’entrano i peperoni?”.
“Mah”.
“Magari tipo che ho mangiato pesante?”.
Ride di gusto. Afferro vagamente che deve ritenersi molto spiritoso, in questo momento. Io barcollo per un giramento di testa improvviso.
“Si, ma una porcona, eh. Ti giuro, da panico. Oh, mi senti?”.
“Si, si”.
“Poi però alla fine non so com’è, ma quando ha finito mi ha detto che era passata solo per salutarmi”.
Ha lo sguardo interrogativo puntato su di me, Marco.
“Cazzo ne so, chiamala. Uscite insieme”.
Une delle risposte più insulse della mia breve esistenza. Anche perché adesso ho serie difficoltà a ricordarmi la domanda. Probabilmente perché non c’è stata.

E’ lei a ritrovarmi. Mentre tento di spiegare a Marco, con il minor numero di parole possibili, che la manifestazione ha un suo senso. In teoria, almeno. In pratica, non ne sono troppo convinto. Più che altro sono sicuro del fatto che noi non siamo per niente una generazione da manifestazioni studentesche. Troppa concentrazione sul singolo, la visione d’insieme non esiste più. Quindi, anche in questo momento, non riusciamo davvero a sentirci parte di un gruppo, una classe, una massa con dei diritti, delle pretese, delle stronzate da dire. Siamo individui soli e allo sbaraglio. E il tutto riconduce inevitabilmente al fallimento e alla scarsa capacità di azione. Che angoscia.
Qualcuno mi tira la manica del giubbotto. Mi volto ed eccola qui, con il suo sorriso da lampadina spenta.
“Ciao”, dice.
“Ciao”.
“Ma dove sei sparito questa settimana?”, chiede.
Vorrei risponderle tipo che sono stato in viaggio, che sono andato a trovare mia madre in Spagna o un mio fratello maggiore inesistente in Irlanda. Che ho scritto poesie, che mi hanno pubblicato in diciassette Stati, che lunedì andrò in onda su Rai Tre. E invece…
“In giro”.
Lei annuisce. Ed è incredibile. Mi sembra quasi che abbia capito tutto.
Marco la sta studiando. Ora, per Marco le ragazze si dividono in due maxicategorie nette: quelle che fanno i pompini e quelle che non li fanno. Cerco di coprire Lei con il mio corpo, di nasconderla ai suoi occhi. Non mi va  che la fissa così, che le guarda la bocca. Mi irrita.
“Io vado via. Vieni con me?”.
Me lo domanda come se sapesse già la risposta. Come se sottintendesse che me lo chiede solo per pura educazione. Che sa già che vorrei portarla ad esempio sulla Luna, a raccogliere i pezzi del senno di Orlando. A cavalcare le nuvole. Invece magari non sa nulla ed è solo la mia febbre a stonarmi, distrarmi, sballarmi. Mi piace.
“Si”.
Certe volte le risposte brevi sono le migliori di tutte, perché non lasciano spazio ad interpretazioni.
Marco mi guarda andar via con un sorriso maligno. Lui non capisce.
Dispersi, camminiamo per ore intere. Mentre lontano da noi qualcuno da’ fuoco ai cassonetti della spazzatura, la pula carica e fischiano i manganelli. E c’è il sangue, da qualche parte. E anche qualche paio di manette. Ma non ci riguarda.
Ad un certo punto ci sediamo a parlare del niente.
Io brucio, dentro, fuori. Vaneggio, e lei mi asseconda. Ride, ogni tanto. Forse per via delle stronzate che sparo a raffica. Si illumina ad intermittenza, fin quando non mi accascio sulle sue gambe, esausto, dopo un discorso inconcludente sui Capi di Stato. Splende, mentre mi guarda. Arrossisce, ma non è un problema. Siamo rossi in viso tutti e due. Mi sfiora l’idea che forse siamo proprio belli. Giovani e tutto il resto, bianchi, confusi. Fragili come fogli di carta zuppi di umidità.
Mi racconta un po’ della sua vita “normale”. La studio con un’espressione sicuramente ebete. Non riesco a pensare ad altro: vorrei dormire con lei. Proprio dormire. Vicini.
Ha paura di toccarmi. Lo vedo da come muove le mani, da come me le tiene lontane. Come se aspettasse un permesso.
E se non fosse così? Ho paura anch'io.
“Credo di avere la febbre”, dico.
Lei arriccia il naso e mi guarda bene.
“Hai gli occhi lucidi”.
O forse sto solo piangendo?
Allunga le dita piccole e sottili sulla mia fronte. Ha la pelle fresca.
“Stai andando a fuoco”, osserva.
E’ fottutamente vero, penso.

E’ buio. Ascoltiamo una canzone insieme. Le tempie mi pulsano. Lei mi scosta i capelli dalle guance con delicatezza. E quando la musica finisce siamo ancora qui, nelle luci della città, ma ci si è aperta una voragine nello stomaco. Un buco nero che le note riempivano benissimo.
Ci lasciamo con un saluto strano, a metà. Sospesi in avanti nell’attesa di un bacio che non arriva. Lo aspettiamo per un paio di istanti confusi, come pendolari che aspettano il treno, fino a quando decidiamo di accontentarci di un sorriso imbarazzato ciascuno.
“Addio”, mi dice.
Come a sottolineare che domani, quando ci incontreremo, già non saremo più gli stessi.
Lo so, vorrei dirle.
Lo so, cazzo.

Si chiama Elisa.
E’ un nome straordinario e continuo a piagnucolare riguardo a Beethoven fino a quando non svengo nel letto.

Cresco, eppure m’abbasso. Chilometri in giù. Chilometri più giù.
Ci sono cose che pesano. Ci sono cose che schiacciano.
Colpiscono un cuore di piombo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 7
*** La Noyee ***


La Noyee

 

 

Mi sento come una vecchia fisarmonica. Un mantice che si allarga e si restringe, pieno d’aria fredda ed ingombrante. Questa mattina sono rimasta quindici minuti netti a guardare il cielo sospeso fuori dalla mia finestra. E mi sembrava così bello. E tutto era possibile, con gli occhi incollati lì, a seguire gli strascichi pigri delle nuvole.
Il sole sorge più tardi del previsto. Previsto da chi, poi. Da cosa. Da me.
E’ arrivato il gelo. Ho le mani spaccate e un’immensa voglia di volare, come non lo so, ma di volare. Mi si sparpaglia il cuore in tanti piccoli pezzi di vetro al pensiero che più di camminare veloce, così, non posso fare. Una scheggia qui, una lì, come un mosaico senza disegno, di un colore rosso grondante, come densa tempera da pitturarci tutti i papaveri della Terra. Dentro è come un maremoto, una valanga di neve bollente, una pioggia asciutta scrosciante, danzante. Danzare! Come avrei voglia di ballare! Un passo qui, uno lì, un incrocio, una giravolta. Una giravolta! Di quelle belle solo se indossi una gonna blu sopra il ginocchio, piena di perfette piegoline. Vorrei qualcuno qui, incatenato a me, qualcuno che mi spieghi come è bello il mondo, che tutte queste tonalità di giallo e d’arancione nelle foglie non sono un caso, che nei contorni così nitidi delle case popolari c’è un disegno, un desiderio di bellezza eterna irraggiungibile. Che posso aspirare anche io alla felicità, agli sconvolgimenti emozionali senza ritorno come l’amore. Che diventerò grande e che ogni risveglio sarà come oggi, pieno e vivo. Ma è stupendo. Non è stupendo? Così meraviglioso che a guardare i rami degli alberi stagliarsi contro l’azzurro limpido, inverosimile, mi scricchiolano i polmoni. E pare non esistere nell’universo nulla di così struggente e malinconico come questa bellezza mattutina. E voglio vivere, vivere fino a consumarmi i denti. Un salto in avanti, superare una pozzanghera profonda trenta metri di foglie cadute e zuppe. Un passo dietro l’altro, l’asfalto sfrega forte contro le suole delle scarpe. Una vecchietta con un cappello viola, i cappotti neri delle quarantenni con un impiego fisso. La crisi economica che non la sento, lo scatafascio generale che non mi arriva. Roteiamo, roteiamo. Come la carne del kebab, che in mezzo al pane è buona e sa di esotico. Quanti odori, rumori, macchine che sfrecciano, caffè, bigodini delle nonne, frignare dei bambini che non vogliono andare a scuola. E poi non va nemmeno a me, in fondo. Così decido che oggi è la mia vacanza, il mio Santo Patrono delle sette e venti. Fuggiamo, fuggiamo! Ho già prenotato i biglietti per non so quale città, quale luogo dimenticato, dove la fine del mondo è solo l’inizio di una festa.

Il Sole! Il Sole! Mi illumina i capelli attraverso i vetri del tram. E guardo tutti con gli occhi accesi, mi piace incrociare gli occhi dei passeggeri che salgono ad ogni fermata. Il Duomo sembra calato dall’alto e messo lì, per farci spalancare la bocca dallo stupore. Non può essere reale, così perfetto. Non può essere vero. La Galleria, i piccioni che molestano i passanti, mille lingue che non saranno mai una. E’ Babele, è il Paese dei Balocchi, è una metropoli. Un’arma. Un revolver carico. Un arco. Niente. Via Torino con i negozi aperti e non posso permettermi un paio di stivali che comunque mi starebbero malissimo. Ho letto da qualche parte che i commessi delle filiali Foot Locker li scelgono rompicazzi di proposito.
Poi, ecco, tutta la mia isteria frenetica si spegne. Si schianta sopra i moncherini di due gambe senza piedi, la carne ritratta contro le ossa. Lui ha una barba nera e ricciuta, e mi ricorda Che Guevara, anche se in effetti non gli somiglia per niente. Se ne sta seduto contro l’angolo sinistro della vetrina, in basso, vicino alle scarpe da ginnastica bianche come i sorrisi della pubblicità. Sopra una stuoia, neanche fosse un piccolo animaletto domestico abbandonato. Magari ha un ritardo mentale, magari non parla la mia lingua, ma sicuramente ne parlerà un’altra che io non posso comprendere. Magari è brillante e ci odia tutti, o ci compatisce, mentre passiamo con i nostri piedi al loro posto. Certo è che ha quel bicchiere di plastica piantato tra i due moncherini, c’è qualche monetina dentro. Vorrei avvicinarmi, chiedergli com’è che è successo. Se è Rivoluzione, malattia, tortura o incidente. Se passeggiava sui campi di granate come i bambini delle associazioni onlus. Invece mi vergogno di una vergogna pavida. Vedo che i passanti gli girano intorno, e ostentatamente evitano di posare lo sguardo su quei due terzi di gambe scoperti di proposito. Non ho neanche il coraggio di avvicinarmi e lanciare dentro due monete. Non lo so. Ho paura. Come tutti gli altri, mi allontano. Cos’è che ci frega, a noi, come umanità? Perché, in un modo o nell’altro, ci manca sempre il coraggio?

Le Colonne di San Lorenzo sono uno di quei posti classici che non si possono non conoscere. In qualche modo sono diventate anche loro uno status, però. I miei si sono fidanzati proprio qui, quando le fighe e i fighi si chiamavano paninari. Paninari. Bellissimo. Come li invidio. Invidio un po’ tutti, veramente, tranne i miei coetanei. Soprattutto i vecchietti, ecco. Sospiro di circostanza.
La pietra è umida. Ci sono i soliti fattoni che sembrano vivere qui, in mezzo ai cani. Poi magari uno scopre che sono figli di gente piena di soldi, o che invece è proprio il contrario. Con le persone non si può mai dire. Magari ci si aspetta qualcosa di specifico da un individuo, poi si scopre che in realtà è tutto il contrario. Si, insomma, è tutto banalmente complicato o ridicolmente semplice. Dipende dai punti di vista.
Io e Kurt ci siamo visti qui, l’ultima volta. Cioè un giorno fa. E’ così dolce pensarci. Potrei morirci qui, credo, di dolcezza. Arrossisco. Così, da sola. Da matti. E poi è fantastico ricordare ogni particolare. Come la luce del tramonto proiettava sulle sue ciglia una dimensione parallela di ombre nelle quali perdersi. O come sembravano morbidi i capelli, come avrei voluto toccarli. Ne avevo una voglia che mi faceva prudere le dita. Come stavo scomoda, a guardarlo così, chinata un poco in avanti per non togliergli l’aria, per farlo respirare. E lui pieno di febbre fino alle orecchie che vaneggiava raccontandomi della corruzione che inquina la politica e delle linee metropolitane che potrebbe prendere per arrivare prima a casa, se non gli venissero gli attacchi di panico, a stare sottoterra. Non ricordo di cosa abbiamo parlato. Non ricordo cosa ci siamo detti. Però sento ancora gli sguardi che si sfiorano, come fogli di carta velina che si scontrano per caso, che si accarezzano. E’ oppressione e leggerezza. Angoscia e il frullo d’ali di un uccellino. Tutto insieme. Tutto insieme. Tanta voglia di esistere, tanta voglia di morire. Tanta voglia di non immaginare cosa sarà domani. Tante speranze vuote.

Oggi è stato come un giro turistico.
Nel tornare a casa la mente mi si oscura di nubi. Guardo la strada allontanarsi, dalla coda del tram.
Penso a come deve essere il sapore di una sigaretta. Se è giusto o sbagliato fumare. Se fa male o non fa male. A come deve essere il sesso, il piacere, ammettere pubblicamente di masturbarsi. E bere fino a vomitare? Chissà se l’LSD ha un sapore. Chissà cosa vuol dire davvero trip. Io mi sento una tipa da bad trip, da uno di quei viaggi incubo senza ritorno, magari. E l’eroina? Com’è bucarsi la pelle? Com’è l’astinenza?
Vorrei scacciare via le domande inopportune dalla mia testa, ma si accalcano una sull’altra.
E com’è il matrimonio, il divorzio, partorire, i figli, le bollette? Com’è essere omosessuali? Com’è essere lesbiche? La vita sregolata dei tossici per bene da discoteca e tavoli nei locali giusti. Ballare abbracciati alle casse ad un rave, trombare con il primo che trovi. Gli stivali con le punte in ferro. I tanga. Il cancro. La leucemia. La chemio. La calvizie incipiente.
Affondo la testa nel cappuccio. Com’è possibile. Il mondo stamattina brillava così forte da farmi male e bene. Il mondo stamattina sembrava un altro posto, davvero. Sono le montagne russe. Tutto su, tutto giù. Più giù che su. Chissà se anche Kurt ci pensa, a tutte queste cose, intendo, qualche volta. Vorrei non sentirmi l’unica.
Vorrei… vorrei.
Annegare.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 8
*** You Don't Care About Us ***


You Don’t Care About Us

 

 

 

Stravolgimenti mattutini senza nome. Ho la neve bianca dentro gli occhi, le suole lisce da caderci e rompersi il collo senza star tanto lì a menarsela.

Insomma oggi potrebbe essere il giorno perfetto.

Invece no, ultimo giorno di scuola prima di vacanze mai richieste, risultati di compiti invecchiati sopra ai banchi verde agghiacciante. Ma wow! Ho l’entusiasmo di una centrale nucleare incamminata verso l’implosione.

Che in realtà poi avrei dovuto aspettarmelo, con tutte le stronzate che ho scritto quel giorno lontano e sconfitto. Il voto della mediocrità per eccellenza: un bel sei scarabocchiato in rosso, proprio sopra ad una firma indecifrabile che dovrebbe essere il nome della mia prof. Perché sì, un sei in italiano è proprio un marchio di mediocrità. E’ diverso prenderlo in matematica o in biologia. Quelle sono materie del cazzo in cui un sei è quasi motivo di orgoglio. Il sei in un tema di italiano vuol dire solo una cosa: insignificante. Quindi suppongo di essere questo, in fondo. Insignificante. Ci penso per un po’, realizzo che forse è il voto più azzeccato di dieci anni persi a scuola. Senza significato anche quelli.

Ecco Marco che mi sventola sotto il naso il compito con entusiasmo schifoso, quasi fosse suo, che cazzo. Un po’ di pietà! Ma la curiosità è forte, lancio uno sguardo così, di finta indifferenza, e i miei occhi si scontrano contro le forme tonde ed invitanti di un bell’otto obeso come i ciccioni americani.

Non lo so cosa guardo, dopo, forse il vuoto grigio di sempre fuori dalla finestra. Resta il fatto che mi prende un’angoscia insopportabile, e così realizzo, istantaneamente, di non farcela più davvero. Magari, nella vita, le conclusioni fottutamente importanti arrivano sempre dopo avvenimenti molto stupidi, chissà. Magari prima o poi lo scoprirò, o magari no.

Ho una voglia matta di andare al cesso, in ogni caso.

Eccomi, nello stesso posto, quello perfetto per me, in mezzo ai corridoi deserti e lucidamente sadici di una scuola che ancora fatico a riconoscere. Mi rifletto sui vetri, negli occhi della bidella baffuta appostata all’ingresso dei bagni, che infila il naso in culo a tutti quelli che passano per captare l’odore delle sigarette. Che possa morire di sinusite fulminante, o qualcosa del genere, un giorno.

Piscio. Prendo a ripetere dentro di me ogni processo e movimento, come fossi lì a mettere in atto un qualche rito sacro, e non a pisciare. Guardandomi il Gianni, nome proprio di persona con il quale nonna ha ribattezzato il mio pisello nella prima infanzia, rimpiango amaramente i giorni delle medie, in cui ero ancora relativamente normale, e passavo le mezz’ore a misurarmi il cazzo insieme ai miei fidatissimi amici nei bagni della scuola. Quella era vita. Totale inconsapevolezza di qualunque altra cosa all’infuori di vagine e peni. Un traguardo dal quale i tredicenni non dovrebbero mai elevarsi, perché dopo, è il suicidio. Quando inizi a fare pensieri un po’ più complessi, più articolati, finisci sempre o con il diventare un coglione per eliminare quel senso di vuoto assoluto che banchetta con le tue budella, oppure… beh, finisci come mio padre. Dopo aver considerato mentalmente le  ipotesi, realizzo di non essere davvero convinto del mio attuale schieramento. Perché sicuramente non vivrò a lungo, con tutta questa tendenza ereditaria  all’autodistruzione, ma per essere coglione, sono coglione, e anche parecchio, questione dimostrata dal fatto che sono qui a riempirmi di seghe mentali per merito di un cazzuto sei in italiano. Patetico, ecco.

Ma, poi… e’ così importante, non lo so, identificarmi? Capire? Perché capire se sono in continua evoluzione, se cambio con la velocità folle di un missile terra aria. E’ una stronzata. Sto perdendo tempo inutile ad inseguire una risposta insignificante. Come quel sei rosso semaforo.

Scoppio a ridere mentre infilo di nuovo il Gianni nelle mutande.

Mi sento leggero. Non lo so perché. Mi sento leggero.

Vorrei annunciarlo. Anche se naturalmente so che a nessuno importa davvero come posso sentirmi.

A nessuno importa di noi, naturalmente.

 

Elisa è nel corridoio davanti a me, quando esco per entrare in classe. Le guardo la forma delle spalle, della schiena, della vita. Ha una maglietta stretta e un paio di jeans normali, regolari. Non lo so. Mi sembra forse più bella, forse più Elisa del solito. Le arranco dietro fino a raggiungerla. Mi sorride, luminosa.

Decido di provare a sembrare un po’ più normale del solito, in suo onore. E in onore della mia nuova scoperta.

“Ehi”, faccio.

Lei si ferma, porta una ciocca di capelli dietro l’orecchio.

Sono magicamente consapevole della velocità del sangue nelle vene. Bum.

“Ehi”, risponde, piano. Quasi sussurrando.

“Che fai in giro?”, domando. Mica posso partire subito con un fottuto invito deprimente. No.

“Niente. Ho preso il numero dei genitori di una mia compagna di classe che ha dato di matto”, fa, sventolando un pezzettino di carta davanti al mio naso.

“Ah, ok. Senti, facciamo che mi aspetti fuori da scuola, oggi? Facciamo un pezzo di strada insieme, non lo so”, propongo.

Dirà di no. E’ matematico. Dirà di no.

“Ok, va bene. Ti aspetto”, risponde, invece, e sembra contenta. Sembra contenta.

Mi aspetterà.

Punto.

Mi aspetterà.

La bacerò.

 

*

 

Giulia Morazzoni è sempre stata una di quelle perfette che più perfette non si può. Una di quelle che riescono a tenere sempre i capelli miracolosamente in ordine. Una di quelle che hanno l’accessorio giusto al posto giusto, e tutto il resto. Io non potrei mai essere, per dire, una Giulia Morazzoni. I miei capelli si ribellano, il mio corpo ingrassa e dimagrisce come diavolo gli pare, ho la faccia sconvolta quando arrivo in ritardo e durante la lezione di fisica i pantaloni mi salgono sempre oltre le caviglie scoprendo i calzini. In ogni caso ho sempre creduto di essere decisamente poco normale rispetto a lei. Credevo che essere Giulia Morazzoni volesse dire essere normale. Perfettamente normale.

Normale un cazzo.

Oggi eravamo tutti tranquilli a seguire la lezione di storia. E per tranquilli intendo annoiati. Poi Paolo Besozzo detto Panzer ha pensato bene di iniziare a lanciare palline di carta in testa alla Morazzoni, che già dalla mattina era arrivata a scuola tutta scazzata per ragioni sconosciute al resto dell’umanità. Il fatto è che Panzer odia intimamente Giulia perché sa che non gliela darà mai, ma questo è solo quello che penso io, eh. Comunque, fosse stato un giorno come gli altri la Morazzoni avrebbe fatto il suo solito piantillo e si sarebbe preoccupata di far notare alla prof la cosa, per poi sibilare a Besozzo uno di quei vaffanculo ricamati ad arte che sono la sua specialità. Invece è rimasta zitta tutto il tempo, e continuava a ricalcare una parola sul foglio degli appunti, senza nemmeno spostarsi. Panzer non sopporta di essere ignorato, è qualcosa che lo manda fuori di testa, così ha cominciato ad insultarla a mezza voce, sporgendosi sul banco quando la prof voltava le spalle per tracciare infinite linee del tempo sulla lavagna, soffiandogli parolacce nell’orecchio. Naturalmente molti di noi stavano già guardando, ma tutti, proprio tutti, si sono risvegliati dal coma dello studente non appena la Morazzoni è scattata in piedi e ha afferrato Besozzo per i capelli. Ecco, è stato un momento in cui tante mie certezze si sono sfaldate come un castello di carte.

Giulia aveva la faccia stravolta da un pianto che fino a quel momento era rimasto nascosto dai capelli biondi, aveva la bocca serrata e le labbra bianche, gli occhi gonfi come quelli di un rospo. Ha cominciato ad urlare dopo un secondo di pausa gelata che ci aveva cementati tutti immobili in quello che stavamo facendo. Ha preso ad agitare la testa di Besozzo da un lato all’altro, avanti e indietro, strattonandolo per i capelli. E quello la graffiava, cercava di strapparle via le mani, sbilanciato in avanti e bloccato dal banco, ma non c’era verso di riuscirci. La Morazzoni era paonazza in faccia, orribile, e piangeva, piangeva. La prof e Massimo Crivelli si sono lanciati in avanti e l’hanno afferrata per le braccia e per la vita, l’hanno strattonata fino a quando non ha lasciato andare Panzer, che anche lui piangeva, ma per il dolore. Subito Giulia si è spenta, si è accasciata tra le braccia di tutti e due, come una bambola di pezza, ma continuando a lamentarsi e a farfugliare parole senza senso. Orribile. La prof l’ha abbandonata del tutto addosso a Marco e, terrorizzata, l’ha spedito in segreteria con la Morazzoni tra le braccia, gli ha strillato un paio di raccomandazioni e ci ha guardati tutti come se si aspettasse che le dicessimo che cosa fare. A quel punto mi sono alzata e ho proposto di chiamare i genitori per far portare via Giulia. Non ho nemmeno aspettato che la prof dicesse che andava bene. L’ho vista titubante e sono schizzata fuori dalla porta. Dopo una mezz’ora la madre è venuta a prendere Giulia e l’ha trascinata via scusandosi e assicurando che avrebbe chiesto un colloquio con la preside per discutere dei provvedimenti disciplinari. Besozzo è rimasto a scuola fino alla campanella, ma a guardare il crocifisso appeso sopra la lavagna.

 

Arrivo a casa con lo stomaco in subbuglio per tante cose. Per Giulia Morazzoni, per sua madre con gli occhialoni da sole, per Panzer e la sua fronte fucsia, per Kurt che mi ha accompagnata fino al portone di casa e mi ha dato un bacio freddo sulla bocca. Tutte queste cose mi travolgono, hanno l’effetto di sconvolgermi, rompere gli equilibri precari della mia testa. Non riesco a capire cosa provo, ad identificare. È tutto insieme. La vergogna di Panzer, la rabbia matta e la disperazione di Giulia, la mia angoscia, la malinconia di Kurt. Così non ce la faccio, non resisto. Scoppio a tavola e racconto tutto, parto chiedendo un sorso d’acqua e finisco con la Morazzoni trascinata da sua madre giù per le scale, che la tiene per il braccio come una bambina disobbediente. Mia madre mi accarezza la testa ed io la amo follemente.

Mio padre fa muovere un paio di volte le mascelle in un movimento che a me è sempre sembrato molto virile e che ho cercato di imitare spesso. Poi sputa fuori la notizia controvoglia, sofferente. Dice che il padre della Morazzoni lavora due piani più su in azienda, tra i dirigenti. Che si è dovuto dimettere due settimane fa. Che i dottori gli hanno detto che camperà al massimo un altro mese. Che gli hanno detto “metastasi epatica in fase avanzata”, e che in quella famiglia hanno ormai smesso tutti di vivere.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 9
*** The Catchers In The Rye - Epilogo ***


The Catchers In The Rye

 

 

Oggi è il giorno della morte.

Paura fottuta, le dita gelate, avrei preferito non pensarci e invece ci penso ogni secondo. Lo so.

Guardo giù e vedo i contorni di un parco violentato dalla brina, che l’ha dilaniato tutta la notte, che gli si aggrappa addosso come una bambina senza madre.

E’ il sole, sono le punte delle mie scarpe sospese sopra il nulla.

Tutto è più autentico. Non importa perché, ma lo è. E’ tutto al suo posto. Fa tutto parte del disegno, adesso. Ma come ho fatto a non capirlo, a non vederlo prima?

Non ho le forze, mi mancano tutto ad un tratto, come se qualcuno mi avesse annullato il sangue.

Mi abbandono. Al cornicione, al vuoto.

Sento le lacrime scoppiare sulla sciarpa, il fuoco mangiarmi via la vita.

Sono le fiamme della frenesia di esistere, di fare qualunque cosa pur di vivere davvero, di sentire davvero, di toccare davvero.

Non sono più qui, no, mai.

Sono nel cielo. Oltre l’azzurro, oltre l’ozono consumato, oltre l’impossibile e i pianeti e le lune, le galassie. A morire in volo senza mai aver respirato, oltre i confini della pelle lacerata. Senza ali, senza paracadute, senza angeli. Senza male e senza bene. C’è solo la bellezza del soffrire per la troppa pienezza, per la totalità del mondo rinchiusa nelle fibre muscolari.

Sospirare e gemere e questo è fare l’amore. E le coccinelle, gli occhi dei neonati, i baci freddi, le rivoluzioni, i capelli bianchi, il seno di una donna.

Oh… scricchiolare il petto, fondere le ciglia, la lingua sul cemento.

Ma cosa siamo se possiamo esaltarci e distruggerci così? Perché siamo, dove siamo, sperduti negli angoli degli universi e schiantati nelle nostre tragedie di cartone. Esistenze misere che non si accendono mai, lampadine spente che non conoscono la luce.

Ma io voglio brillare!

Io voglio brillare!

E se conoscessi Dio… se conoscessi Dio.

Gli direi che sto saltando.

C’è stato un tempo in cui giocavo nei campi di segale.

Gli direi di afferrarmi prima che io cada nel burrone.

C’è stato un tempo in cui giocavo nei campi di segale.

 

“El?”

“Si”

“Si?”

“Si”

“Cosa fai lì?”

“Guardo giù”

“Posso venire?”

 

“Scusa il ritardo”

 

“El?”

 

“Non è importante”

“Si che lo è”

“No. Stavo per saltare. Non è importante”

 

“Saltare?”

“Giù”

“Perché?”

 

“Mi sentivo tutta vuota”

“Anche io”

“E poi tutta piena”

 

“E allora ho avuto paura”

“Di cosa?”

“Di non sentirmi mai più così”

 

“Succederà, vero?”

 

Elisa solleva gli occhi su di me.

Siamo immobili sul cornicione.

L’immagine che ho di me in questo momento mi ricorda una parola: bilico.

Non credevo che la nostra giornata sarebbe iniziata così, quando lei mi ha detto di raggiungerla qui.

Il maremoto dei miei sensi mi risveglia.

E credo davvero in qualcosa, adesso.

“No, non succederà”.

Ha la faccia di chi desiderava con tutta la sua anima questa risposta.

Ma non le basta. Non vuole arrendersi così. Deve capire.

Ed io conosco ogni parola. Ogni parola, per la prima volta nella mia vita.

“Adesso siamo differenti. Adesso tu ricorderai per sempre quello che hai sentito”.

“Ma se non bastasse, dimmi. Cosa farò, se non bastasse?” mormora.

“Potresti sempre saltare, un giorno”.

Ci pensiamo per molto tempo.

Poi ci afferriamo e non vogliamo cadere.

Non siamo più vecchi, ma solo giovani.

Ci si schiude il futuro incerto nelle mani.

Non vogliamo più cadere.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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