Comin' Through the Rye di GirlWithTheGun (/viewuser.php?uid=84843)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Parking Lot - Prologo ***
Capitolo 2: *** Comin' Back To Me ***
Capitolo 3: *** Where Is My Mind? ***
Capitolo 4: *** Exit Music (For a Film) ***
Capitolo 5: *** Gypsy Death & You ***
Capitolo 6: *** Tir Nel Cortile ***
Capitolo 7: *** La Noyee ***
Capitolo 8: *** You Don't Care About Us ***
Capitolo 9: *** The Catchers In The Rye - Epilogo ***
Capitolo 1 *** Parking Lot - Prologo ***
Comin' Through the Rye
« Se
una persona incontra una persona
Che viene attraverso la segale,
Se una persona bacia una persona
deve una persona piangere? »
Robert Burns – Comin’
Through the Rye
Parking
Lot
Io
credo d’essere
pateticamente anziana. Però non lo sono. Lo credo, ma non lo
sono. Non nel
corpo, almeno. E questa è una di quelle fottute
fregature che il mondo ti
rifila senza nemmeno darti il tempo di spiegarti un po’, di
tentare, cambiare
il corso delle cose e prenderti qualche soddisfazione passeggera. Tipo
avere
ottant’anni nel duemilanove. Tirare avanti con la
consapevolezza di avere tre,
cinque, al massimo otto anni di strascicata esistenza da subire. E ti
va bene
tutto, anche l’idea di crepare male, perché tanto
il bello che potevi avere te
lo sei goduto. E allora chi se ne frega. Insomma, pensavo questo,
mentre ero su
in Piazza della Scala, oggi. C’era questo gruppo di
vecchietti arzilli che
discutevano le notizie sul quotidiano con l’aria di chi ha
qualcosa da dire e
se ne fotte. Ma come discutevano. Animatamente. Poi ce n’era
uno, più simpatico
degli altri, che continuava a dire “cazzo”. E cazzo
qui, e cazzo lì. Che cazzo,
un cazzo. Insomma, era uno a posto, dai. Ma non per la questione cazzo,
eh.
Proprio perché si vedeva che c’aveva la testa
sveglia. C’avevano un po’ tutti
la testa sveglia, ma lui mi è rimasto impresso. Beh stavo
lì a guardarli,
seduta su una di quelle panchine che non sono proprio delle panchine,
di pietra
o di marmo, grigie. E li invidiavo. Dio, se li invidiavo. Sembrerebbe
un po’
una cosa strana da pensare, no? Io che a quindici anni, che devo ancora
crescere del tutto, che non mi sono ancora uscite per bene le tette,
invidio
una tribù di pensionati arzilli che parlano del Governo,
della Sinistra, della
Destra, dello scatafascio. E ad osservarli, ho formulato un paio di
pensieri,
no? Per esempio, la prima cosa che ho pensato è che
parlavano così, tutti
disinvolti, infervorati, perché non hanno paura di
sbilanciarsi del tutto,
adesso che hanno un piede nella fossa e l’altro lì
lì per entrarci. E poi
fumano tante di quelle sigarette, insomma, scommetto che alla fine
dell’anno ce
ne sarà qualcuno in meno, dai. Questione matematica. Anche
se nella matematica
sono uno schifo, quindi dovrei provare ad astenermi da questioni che la
mettono
in ballo. Diciamo che si tratta di statistica. Che non capisco molto
bene come
funziona, ma ha a che fare con il calcolo delle probabilità.
Di nuovo
matematica, ed è meglio se magari zittisco queste sinapsi
nevrotiche di merda
per due minuti. Insomma, credo che ai pensionati arzilli la forza di
parlare di
massimi sistemi senza sentirsi dei deficienti, dei qualunquisti, non
gliela da’
l’esperienza, che fondamentalmente nessuno sa bene
cos’è, e nemmeno la
conoscenza o tutte quelle stronzate lì. Scommetto che si
sentono liberi di dire
tutto quello che gli frulla per quei cervelli sconquassati solo
perché sentono
vicina la morte, se la sentono sul collo, che gli fiata addosso e sa di
carogna
putrefatta, tanto per intenderci. E allora vogliono dire tutto su
tutto. Io
credo che fin quando uno non si sente la morte proprio dentro la
pancia, non
sarà mai capace di essere davvero quello che è,
di fare quello che vuole, di
dire quello che vuole dire. Perché con la morte lo spazio
per la paura non c’è,
non c’è mai. O almeno la penso così, ma
insomma, sono solo paranoie da undici
della sera, non so se mi spiego. E poi fa un freddo bestia. Mi sbrana
le
chiappe.
Comunque avevo iniziato con lo scopo di dire che
vorrei avere ottant’anni, ecco. Anche ottantacinque, per
essere sicura di tirare
le cuoia a breve. E essere un uomo. Un vecchio uomo rompicoglioni che
blatera
sul mondo, magari un po’ alternativo, roba tipo che quando
ero giovane mi sono
passato un sacco di donne ma amavo sempre mia moglie e lei mi lanciava
addosso
i piatti del servizio buono, però eravamo felici lo stesso.
E poi avere due
figli che insomma, mi vogliono bene e mi sembra ok che si facciano la
loro vita
senza di me, che me la sono fumata via tutta, proprio come le Marlboro
che
compro la mattina insieme a quattro o cinque quotidiani. Tipo leggere
Repubblica, Il Giornale, L’Unità, Libero, Il
Fatto, ma avere sempre le idee un
po’ spostate verso sinistra, nonostante con
l’età tutto diventa sempre più
grigio, piuttosto che bianco o nero. E veder nascere uno o due nipoti
che non
saranno mai abbastanza grandi per conoscermi davvero, ma qualcuno gli
racconterà di me, e vedranno le foto di un vecchio
rimbambito che una volta è
stato anche bello ed è impossibile crederci. E beatamente
crepare, tanto sono
sereno e mia moglie l’ho sempre desiderata lo stesso,
nonostante la sua
natura rompi cazzi e la sua fissazione
per le telenovelle. Telenovelle. Mi piacerebbe poter dire telenovelle.
Invece
il massimo che posso permettermi, parlando un po’ a scuola
con le mie compagne
o con le ragazze di nuoto, che poi alla fine si parla sempre del niente
ma
sembra non se ne accorga nessuno, è
“minchia”. O qualche monosillabo sparso in
giro, con la giusta enfasi. Che poi pensare che io di parolacce non ne
dico
quasi mai. Mi scateno sul serio solo quando ragiono un po’
così, tra me e me,
passeggiando con la felpa di mio fratello che se gliela riporto a casa
anche
solo bagnata o con una macchiolina sicuro che mi spezza un paio
d’ossa.
Possibilmente quelle delle gambe.
E’ che mi ci masturbo da un po’ di tempo, con
quest’idea
della morte e del futuro. Che sono due cose inscindibili. Insomma nel
futuro di
noi tutti cazzoni che verminiamo sulla Terra c’è
la morte. Certo, un sacco di
altre cose, ma alla fine o prima di tutte, a seconda dei punti di
vista, la
morte. Però insomma, quegli ottantenni lì, che
straparlano in una piazza come
chissà quanti altri, dovevano essere un po’
più contenti del loro possibile
futuro. Dovevano essere certi di avercelo, tipo. Ci confidavano,
magari. Magari
pensavano: “tra un paio d’anni andrà
tutto meglio”. O magari no. Ma resta il
fatto che io mi concentro, mi concentro parecchio, specie la notte,
quando non
riesco a dormire per via del troppo pensare. Ce la metto tutta, ma il
mio
futuro non lo vedo. E cazzo, ve lo dico così su due piedi,
con un po’ di
tremarella. Mi mette addosso una paura fottuta questa cosa. E una
delusione
stronza, che mi mangia via il sonno, la voglia, il sorriso.
E allora mi sono scelta il mio bel palazzo alto. Oggi
è il primo sopralluogo. Me lo studio un po’, prima
di salirci. Ma giuro su
tutti i santi, che poi chissà come ci si sente ad essere un
santo, che se mi
gira, alla fine di questo mese, mi ci butto giù. Dal tetto,
intendo. Mi butto
giù dal tetto dell’altissimo palazzo di fronte a
casa mia. E vaffanculo. E non
è per la paura. E’ per via delle delusioni, della
sicurezza che la mia, come
quella di ogni ragazzo distrutto della nostra epoca, sarà
una vita di merda. E
non è un’ipotesi. E’ una certezza, porco
mondo. Non ci voglio vivere, no, in
una dimensione dove quando guardi appena un po’ oltre, vedi
buio. Non il buio
della stanza quando mia madre mi spegneva la luce da piccola, no.
Proprio il
buio del nulla.
E non fa nemmeno più paura. Fa tristezza.
E li odio un po’, quei vecchiastri. Perché loro la
loro vita se la sono vissuta tutta, se la sono goduta, anche se magari
è stata
una vita infame. Io, invece, della mia vita non potrò mai
godermi un cazzo.
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Capitolo 2 *** Comin' Back To Me ***
Comin’
Back To
Me
Certi
giorni mi alzo con lo scazzo.
Come
mi piacerebbe spegnere tutte queste sigarette contro i muri della
scuola,
strusciare bene contro il cemento la cenere e sentire l’odore
che mi sfrigola
buono nelle narici.
Il
guaio delle adolescenti contemporanee è che, cazzo, non
sanno per niente
fumare. Le vedi gonfiare le guance, mettere tutto in bocca e poi
soffiare fuori
a vuoto il nulla. Il nulla, cazzo. Mentre invece la parte
più importante di
fumarsi una buona sigaretta, di fumarsela per bene, dico, è
portare il filtro
alle labbra. E poi tirare e tirare e sentire che tutte le sostanze
nocive, e la
nicotina e il catrame e il petrolio o quello che cazzo è, ti
entrano dentro i
polmoni, si attaccano, ti corrompono la salute, l’ossigeno. E
poi soffiare
fuori tutto, illudendosi di essere guariti. Perché per
soffiarlo fuori, il male
deve entrarti dentro. Per dire di aver fumato veramente una sigaretta,
devi
sentire i polmoni lamentarsi almeno la prima volta, e la testa girare,
fin
quando poi si tratta di abitudine.
A
me piace fumare, cazzo. Ma non così. Così non
è fumare. E’ come dipingersi
addosso un’aria maledetta che non ci azzecca niente con la
tua vita. E’ come
dire di avere i capelli biondi invece ci si accorge benissimo che sono
tinti,
ecco. Far finta di essere quello che non si è. Ecco
perché la maggior parte
delle mie coetanee mi stanno sul cazzo. Perché stanno tutte
lì a cercare di
essere quello che non sono. Cercano di convincerti e di convincersi, e
fanno di
quelle stronzate che neanche è possibile immaginarsele
tutte.
Ci
penso parecchio, a questo genere di cose, la mattina. Penso anche al
fatto che
io ho il mio pacchetto di Lucky Strike rosse, che le fumo da quattro
anni,
ormai, ma nessuna di queste squinze qui mi ha mai visto accendere una
sigaretta. Io le mie sigarette me le fumo quando ne ho voglia, e di
solito la
voglia mi sale quando sono solo, quando c’è buio,
e quando attraverso i viali
inutilmente giganteschi del mio quartiere amaro. Ecco. Le mie Lucky
Strike non
sono uno status. Sono solo sigarette. Fanno un male del cazzo e tutto
il resto,
certo, lo so. Ma tutto questo è iniziato molto tempo fa e
per motivi ben
precisi, per quanto mi riguarda. Non per sentirmi a mio agio in mezzo a
degli
sconosciuti o per ingannare il tempo. Mah. Fanculo. Sembro proprio uno
di quegli
opinionisti del cazzo che stanno in tivù a parlare delle
nuove generazioni
credendo di saperne qualcosa.
Ah,
poi non capisco.
Come fanno a vestirsi
tutte nello stesso modo? Io impazzirei per riuscirci. Infatti mi vesto
senza
pensarci, e si vede. Non che mi interessi, eh, ma posso capire che a
qualcuno
il mio modo di vestire potrebbe sembrare un mischiarsi di abiti senza
nessun
senso apparente, e nemmeno non apparente. Mi vesto alla cazzo di cane.
Lo so
io, lo sanno gli altri. E punto, la faccenda finisce lì. Ma
loro, come fanno? Come
fanno ad avere le stesse scarpe, gli stessi pantaloni, le stesse
magliette
dello stesso modello, le stesse borse? Fanno compere tutte insieme? Si
comunicano
i negozi dove andare? E poi mettiamo che una compri qualcosa di
leggermente
differente? Non va bene? Certo che non va bene, cazzo. Altrimenti non
sarebbero
tutte uguali.
Dopo
un po’ mi stanco, di pensare a queste cose. Non
perché c’è qualcosa di più
significativo a cui pensare, no. E’ che pensarci troppo mi fa
salire la
disperazione, ecco. Perché? Perché non lo
so… mi piacerebbe sapermi spiegare.
Comunicare a tutte queste bambine-ciminiera che potrebbero anche essere
tanto
belle, tanto pulite. Invece c’è il fondotinta, la
matita, la magrezza
esasperata e la piastra e i profumi di Dolce & Gabbana, i jeans
di non so
quale fottuta firma e gli stivali imbottiti UGG. O forse tutta questa
sconsiderata tristezza è colpa dei Jefferson Airplane, di
Comin’ Back To Me, e
di mio padre, che si ostina ad inseguirmi. Mi sembra di avere sempre un
cane attaccato
al guinzaglio da portare a pisciare. E anche se il mio vecchio
è morto da
quattro anni e qualche mese, non ha importanza. Lui è ancora
qui, attaccato
come una zecca ai miei polpacci, aggrappato ai miei capelli lunghi e
alle mie
sigarette. Che certe volte avrei voglia di urlare senza spiegazione:
“VATTENE!
CAZZO, VATTENE!”. E mi guarderebbero tutti, assicurato. Ma
almeno saprei se lui
mi può sentire, se gli interessa rispettare quello che
voglio io, per una
dannata volta. Invece non l’ho ancora fatto. Non ho trovato
un briciolo di
coraggio fottuto. Perché so che se ci provassi, a cacciarlo
ad alta voce, mi verrebbe
male. Non mi riuscirebbe di fare un ringhio disperato, di quelli da
film.
Piuttosto produrrei un pigolio, una preghiera patetica. E magari potrei
anche
convincermi di aver detto “vattene”, ma molto
probabilmente tutto quello che
direi, una volta aperta la mia boccaccia sporca, suonerebbe tipo
“I saw you
comin’ back to me. Comin’ back to me”.
E’
per questo che il mio vecchio non se ne va. Perché alla fine
non voglio
lasciarlo andare, cazzo.
Ma
come faccio a convincere questo mio cuore di merda che è il
momento, eh?
Come
faccio?
Oggi
il compito di italiano. Tema scontatissimo: “Immagina di
avere quarant’anni”.
Credo
sia una delle peggiori tracce mai svolte in vita mia. Roba che la leggo
e non
faccio altro che ripetere “cazzo” sottovoce.
Infatti Marco mi lancia un paio di
anatemi dei suoi per farmi smettere. Non che gli interessi se continuo
ad
imprecare allegramente, no. E’ che così perdo
tempo. Perché tocca a me
scrivergli il suo bel compito di italiano, dato che lui non riesce a
mettere
due parole in fila quando parla, figuriamoci se si tratta di scrivere.
Insomma,
parto con il suo tema. E lo farcisco di frasi fatte, luoghi comuni, chi
più ne
ha più ne metta. Un tema alla Marco Ravasi, tanto per
intenderci. Roba di
ragionamenti degni dei palinsesti Mediaset. Un mucchio di stronzate,
ecco. Ma
di stronzate belle grosse, ridondanti e farcite di buonismo. Tipo
famiglia
unita, impiego che ti permette di stare con i figli, moglie anche non
bellissima ma intelligente, vita sana, weekend nei parchi naturali,
estate in
camper. Visite ai genitori anziani, anche, che a una come la nostra
prof di lettere
cose del genere piacciono. E’ pronto in venti minuti, e a me
rimane un’ora e
trenta per stendere il mio tema, mentre le idee mi si affollano nella
testa e
faccio una fatica boia a riordinarle in un modo umanamente
comprensibile.
Ravasi è contento. A me non sbatte un cazzo, non so nemmeno
perché gli faccio i
temi. Forse siamo una sottospecie di amici, devo ancora capirci
qualcosa.
Deve
essere sempre colpa di tutta la storia dei Jefferson Airplane, di
Comin’ Back
To Me e del mio vecchio. Sta di fatto che, come praticamente ogni volta
che
scrivo, mi si spacca il cuore e ne scoppia fuori qualcosa di
stranissimo. Come una
sensazione iniziale di smarrimento e poi la trance totale,
l’assenza. Cazzo. Mi
ci perdo, io, nell’inchiostro. E non torno più fin
quando non so che è uscito
tutto, che è finita. E vorrei aver i polpastrelli duri come
quelli dei
pescatori, o dei muratori, o di quelli che follavano la lana una volta.
Pelle che
si spacca contro la penna Bic e sangue acquoso che ne esce, che magari
macchia
il foglio. Così potrei vedermi davvero, dipinto sulla
pagina. Così potrei
essere sicuro di esserci davvero io, in quella grafia sghemba e
bambinesca che
storpia la carta giallognola.
Alla
mia prof racconto che non so se arriverò ai quaranta. Che ci
sto pensando. Perché
tutto mi sembra già abbastanza angosciante adesso, e non
riesco ancora a capire
se ne vale la pena, di andare avanti. Che non ho paura, no.
Più che altro che
mi sento stanco ancora prima di partire. Che so già che
probabilmente non ne
varrà la pena, perché a questa vita di merda tu
puoi dare tutto, anche il
respiro, che tanto la maggior parte delle volte non ti torna indietro
niente. Anzi,
forse ci perdi qualcosa. La salute, la felicità, le speranze
e anche i soldi. Le
scrivo chiaro e tondo che poi non posso sapere come sarò a
quarant’anni, perché
la verità è che non ci spreco nemmeno un minuto
su questa ipotesi qui, del
crescere troppo. Tipo che sarebbe bello morire come Sid Vicious, a
vent’anni
più uno, e non vedere mai tutte le cose brutte che il futuro
ci riserva. Magari
anche morire di droga o di velocità o di proiettile, che
tanto la mancanza di
quello che non conosciamo non ci potrà mai venire, se siamo
morti. Perché non
esiste l’inferno, e non esiste il paradiso, come diceva il
mio vecchio. Esiste
la polvere e basta. E’ come schiacciare il tasto
“erase”. Tutto quello che c’è
stato prima scompare, tutto quello che verrà dopo non
può interessarti.
Punto.
Ecco,
alla prof non glielo scrivo che per fatti miei ho già deciso
di non arrivare
ai quarant’anni.
Che
traccia di merda, cazzo.
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Capitolo 3 *** Where Is My Mind? ***
Where
Is My
Mind?
Dov’è
la mia testa? Dov’è la mia testa del cazzo?
Ma
come faccio a spiegare a mia madre cose di questo genere? Lei se ne sta
lì,
ferma sulla porta, che mi dice dolcemente di alzarmi, altrimenti si
farà tardi,
altrimenti sarà un’altra nota del cazzo sul mio
tristissimo libretto verde. E’
così tenera che nemmeno riesco a guardarla.
Mentre
io vorrei riaddormentarmi e spegnermi, come una lampadina difettosa
affondata
nel cuscino. Non voglio, non voglio alzarmi, non voglio svegliarmi
davvero.
Ma
guardala. Mi viene quasi da piangere, a guardarla. Lei che non sa
niente di
questa mia follia distruttiva. Della mia malattia cerebrale definitiva.
Non
è che vorrei morire in questo momento, no. Mia madre ci
creperebbe sul posto,
lo so. Magari non esistere, ecco. E allora chissà cosa ci
sarebbe in questa
stanza, forse solo il letto di mio fratello. Forse riuscirebbe a
trovare il
posto per tutti i suoi cd, senza dover litigare come un pazzo con me.
Nessuno
gli fregherebbe più i vestiti, certo. Nessuno.
Mamma
ti vorrei rispondere che hai sbagliato, che mi hai disegnata male per
questa
terra. Che hai partorito un alieno che non è nemmeno verde,
che non ha un suo
ruolo. Invece dico si, che mi sto alzando. Tu non resti a controllare,
ti fidi.
Ti fidi spudoratamente di me e vai in cucina a scaldarmi il latte, a
metterci
dentro due cucchiaini di zucchero, strisciando le tue ciabatte rosa a
terra.
Morbide. C’è una cosa che faccio sempre quando non
ci sei, quando sei al lavoro.
Me le infilo e sciabatto per tutta la casa, perché mi piace
sentire che con le
tue stupide pantofole riesco ad essere te per dieci assurdi minuti.
E’ una cosa
da pazzi, lo so. Ma è così bello. Vorrei essere
te.
Apro
la finestra. Fa freddo ed è una giornata di pioggia. Che qui
pioggia vuol dire
aghi sottili, mica quei begli uragani che si vedono su Discovery. Io
vedo oltre
la pioggia. Le case popolari con i mattoni arancioni, gli alberi gialli
e le
foglie che si appiccicano all’asfalto. Poi, ancora oltre, i
contorni delle
case, degli uffici. In città c’è sempre
qualcuno che sta più in alto di te,
qualcuno che vuole prendersi un pezzetto di cielo in più.
Milano sembra la
torre di Babele, e noi tutti gli stronzi che si tendono verso il cielo.
Ma
quale cielo?
Il
cielo non si vede. È cieco anche lui.
Seduta
al mio banco verde. Che poi perché i banchi o sono verdi o
sono bianchi. Sono dei
colori del cazzo. Sanno d’ospedale. Come i neon, come la
pittura grigia per le
pareti. E tutti a lamentarsi che macchiamo sempre, che sporchiamo, che
roviniamo. Ma se io fossi libera di fare quel che voglio sfonderei tutti questi muri
tristi con un
martello di quelli pesanti. Sono una merda, queste classi. Tutto
all’insegna
del risparmio, tutto scadente e da rifare. Anche i professori. E allora
fanculo, mi tolgo le scarpe e le lancio contro il soffitto, ad
imprimerci le
forme della mia suola. Faccio un sacco di cose che non hanno nessun
senso.
E’
che ho una gran voglia di piangere. Riempio la mia disperazione
infantile con
un passatempo rumoroso. Mi stufo subito però, e mi ricordo
delle mie belle
cuffie appese al collo. Rimetto ai piedi le mie DC sotto lo sguardo
schifato di
Margherita. Che per la cronaca è la mia compagna di banco.
Lei più o meno
riesce ad intuire che ho qualcosa che non va, perciò quando
non è giornata mi
ignora. Sa che comunque non risponderei. In ogni caso a lei la
questione delle
scarpe lanciate contro il soffitto non è mai piaciuta, mi ha
sempre fatto un
sacco di menate per le cose di questo genere. È una brava
amica, eh. Una come
me, di regola, nemmeno dovrebbe averla, un’amica. Invece
Margherita mi vuole
bene, anche se non capisco perché. Insomma volermi bene
è una bella fregatura
del cazzo secondo me. Considerato anche il fatto che penso spesso alla
questione del palazzo alto, ultimamente. Ma Marghe mica lo sa. Sono una
disonesta. Ma come cazzo si fa, spiegatemi. Come glielo potrei dire?
Ogni
tanto ho questo desiderio. Di stare finalmente meglio e chiedere scusa
a tutti,
per quello che ho fatto fino ad ora, per non essere riuscita a
comportarmi da
normale essere umano, mai. Tipo un percorso di redenzione. Vorrei
sapere che
sto bene. Ma non posso, cazzo. Non posso. Sono nata distrutta. Vorrei
poter
ricordare quando è iniziato tutto, quando ho cominciato a
soffocare.
Chissà
cosa si prova ad alzarsi la mattina e a pensare a cose semplici come ai
vestiti
da mettere, alle interrogazioni, al ragazzo che ti piace, al ragazzo a
cui non
piaci, a cosa farai nel pomeriggio. Io vorrei davvero saperlo,
com’è. Si deve
sentire dentro una gran pace, una gran calma che non conosco. Un gran
divertimento. Sarebbe bello anche non pensare proprio a niente, non
riuscire a
capire di esistere e di avere un potenziale in questa cazzo di
società. Anche non
avere un parere, dei principi e degli ideali. Muoversi spinti dalla
massa. Quella
è la pace totale, vaffanculo. Invece io non riesco a capire
quando ho
cominciato a pensare, ma è stato un giorno del cazzo,
sicuro. Da allora, da
quel giorno maledetto, tutto mi sta stretto, tutto mi pesa addosso.
E’ come
avere sei paia di occhi, vedere il quadruplo degli altri, e soffrire
per cose
inspiegabili. Ecco, tornando a Margherita. Lei si alza la mattina e
pensa a
quelle due o tre cose da quindicenne perfetta. Io mi alzo la mattina e
penso al
pianeta che collassa, alle balene che muoiono sulle spiagge
perché hanno perso
il senso dell’orientamento. Penso che non posso fare niente.
In un mare di
adolescenti senza bussola. Perché sono persa, e non so dove
cazzo sto andando. E
a nessuno interessa.
BastaBastaBasta.
Ma la mia testa non si ferma, è persa anche lei a rincorrere
angosce estranee
ai miei coetanei. E in tutto vede solo una risposta. Non voler vivere.
Più. Per
cosa sto vivendo? Ci hanno già tolto tutto, si sono mangiati
tutto il nostro
futuro. A noi rimane la disperazione. Io lo so. Io lo vedo.
Impazzirò per
questo, lo sento. E’ come un fottuto abisso senza fondo.
Mi
alzo che è la seconda ora. Ma non ce la faccio
più. Voglio andare in bagno,
voglio scappare, voglio bruciare il mondo. Filo via dalla porta con le
cuffie
appese al collo e le mani in tasca. Calma come se semplicemente stessi
pensando
a quanto mi annoia la chimica, a quanto mi fa schifo. Vago per i
corridoi
deserti, alla ricerca di una finestra aperta. Tutte queste stanze
chiuse piene
d’aria logora mi fanno venire il mal di testa.
Appoggiata
al davanzale, guardo la pioggia che cade nel cortile di cemento. E mi
sembra di
avere quattro anni. Di essere una bambina di quattro anni con un
orribile e
grottesco testone di grandezza spropositata, che mi fa barcollare ad
ogni
passo.
Poi
lo vedo. Se ne sta affacciato dall’altra parte del cortile,
alla finestra di
fronte alla mia. Sembra una cazzo di allucinazione,
all’inizio. Poi lo
riconosco. E’ il tipo della seconda E. Parola mia, quello si
che è fuori come
un balcone. Infatti mi sta proprio simpatico, mi sembra a posto. Lo
guardo. Ha gli
occhi azzurri, slavati e quei capelli biondissimi disordinati e lisci,
tipo che
assomigliano tanto a quelli di Kurt Cobain. E questa è una
di quelle
similitudini scontatissime da ragazzina impastata di Nirvana che si
crede
alternativa. Io in realtà ascolto più punk, che
grunge. E dei Nirvana non mi
sono mai interessata tantissimo. Ma la prima cosa che mi viene in mente
guardando il tipo della seconda E è questa. Cosa ci posso
fare. Sono piena di
cliché in questa mia testa di merda.
Insomma,
se ne sta lì. Ci guardiamo. Lui deve essere tipo mezzo
inglese o giù di lì. Non
so perché lo so, ma lo so. L’avrò
sentito dire da qualcuna delle mie compagne scassacazzi.
Continuiamo a guardarci. C’è qualcosa di
meravigliosamente familiare in noi due
che ci guardiamo. Non lo so. È tipo incontri ravvicinati del
terzo tipo. Vorrei
urlarglielo da una finestra all’altra. Ma siamo due alieni,
noi? Dobbiamo metterci
in bicicletta e rincorrere la nave madre? E’così,
che funziona? Ma tu lo sai?
Invece
non ce la faccio. Adesso sono sicura che mi guarda anche lui. Ci
guardiamo
negli occhi come se fosse una cosa normalissima. E in effetti lo
è. Ma non
parliamo, no. Mai.
E
adesso dov’è la mia testa?
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Capitolo 4 *** Exit Music (For a Film) ***
Exit Music (For a Film)
La
bella storia della mia caduta libera comincia il sei agosto del
duemilacinque.
Adesso che sono qui a pensarci sulla banchina della metro mi sembra
tutto molto
surreale. In questi quattro anni mi è capitato di rovinarmi
la testa con questo
pensiero parecchie volte, nei posti più impensabili, anche
al cesso. Che poi
qualcuno potrebbe considerare dissacrante pensare alla morte del
proprio padre
mentre si piscia. Io invece credo sia stato il modo più
giusto, tra tutti
quelli che ho sperimentato. Lì, con il cazzo in mano, ero
immobile nell’atto
più antico e più naturale del mondo. Pisciare
viene anche prima del sesso.
Prima di tante altre cose, insomma. E anche la morte è
così naturale, che a
pensarci non mi sembra nemmeno una brutta cosa. Anche se tecnicamente
spararsi
un buco in testa non è naturalissimo, però alla
fine sempre di morte si parla,
no? Con queste cose le differenze è inutile farle. Inutile
attaccarsi ai
cavilli. Tanto anche il suicidio porta sempre dalla stessa parte:
sottoterra.
Mio
padre era costantemente malinconico. Non sono mai riuscito a capire
perché, ma
in fondo questa cosa qui un po’ mi piaceva, anche. Sembrava
proprio una di
quelle persone che nascondono dentro qualche abisso insondabile. Chili
e chili
di nero. Non riesco nemmeno a rendere bene l’idea con il
pensiero. Come se mio
padre fosse sempre stato una tela spessa e bianca, come se qualcuno
l’avesse
cucito di proposito a forma di sacchetto, e nemmeno tanto grande. E
come se, a quella
stessa persona a cui era venuta la brutta idea di cucirlo malamente,
senza
nemmeno dargli il tempo di spiegarsi, fosse venuto in mente di
scagliare
all’interno di questo piccolo sacchetto, il mare. Ma un mare
di quelli in
tempesta. Di quelli che te li figuri con il cielo plumbeo,
l’acqua color ferro
e gigantesche onde fameliche. Un mare perennemente in burrasca. Mio
padre era
un po’ così. Era quel sacchetto. Io lo guardavo
negli occhi e vedevo la schiuma
cattiva delle onde che lo mangiava lentamente. Quasi sentivo il rumore
dell’acqua
che gli si fracassava contro le costole, nei polmoni. Ma non potevo
farci
niente. Forse era per via della mamma che se n’è
andata, o per le sue origini
irlandesi. Non lo so. Ma del resto non ho mai capito come abbia fatto
mio padre
a finire qui, in Italia, a vivere a Milano e a lavorare come
magazziniere tutta
la notte. Accadono delle cose inspiegabili, certe volte. Come se ci
fosse
qualcuno che cala dall’alto situazioni già belle e
pronte e le affibbia al
primo che passa.
Insomma,
mio padre si è ammazzato che era estate. Mi ricordo che
erano i miei primi mesi
di libera uscita. E per libera uscita intendo le sere passate nel
cortile del
mio condominio, a giocare a gavettoni con gli amici del quartiere.
Quando le
undici mi sembravano già notte. Ho questo ricordo di
una serata
bellissima. L’avevo trascorsa a giocare, a ridere, e non so
nemmeno io a fare
cosa. Ma ero felicissimo. E insomma, mi è capitato di
guardare in alto, proprio
alle undici di sera, e di riuscire a vedere le stelle. Lo giuro su
tutti i santi,
mi sono sentito un essere libero. Cazzo, non sono mai stato
più libero in vita
mia. Me ne stavo la, bagnato dalla testa ai piedi, con le braccia
spalancate
come un deficiente, a sorridere al cielo stellato. Ed ero libero.
Cristo, ero
LIBERO. Me lo sono sentito sulla pelle. Non lo dimenticherò
mai, cazzo.
Si
è sparato in testa mentre io ero al parco con la bici. La
mia bici rossa. L’ha
trovato la nonna, la mia nonna materna, nel garage. Che mi è
sempre sembrato
molto strano il fatto che i miei nonni si siano presi cura di noi, e
invece mia
madre ha lasciato me e mio padre soli come dei cani randagi ed
è scappata con
uno in Spagna, a fare tanti altri figli e a spedirmi cartoline per il
mio
compleanno. La verità è che gli adulti sono
incasinati, distrutti più di noi.
Che non sono in grado di spiegarti nulla, il più delle
volte, e che spesso ti
tocca accudirli, se non vuoi che appassiscano. Come le piante. Come mio
padre.
La pistola era del nonno, che non se lo perdona ancora, di essere stato
carabiniere.
Il garage adesso non lo usiamo più. Mio nonno lascia
l’auto fuori da allora, e
gli hanno spaccato il vetro un paio di volte, ma lui l’ha
sempre portata a
riparare senza fare un fiato. E poi la guida così poco.
Il
giorno del funerale c’era un sole bellissimo, un caldo porco.
Io so che a mio
padre sarebbe piaciuto essere infilato in una barchetta e spinto al
largo, nel
suo mare irlandese. Gli sarebbe piaciuto colare a picco
nell’acqua salata e
finire mangiato dai pesci. Ma come fai a spiegare certe cose a due
sessantenni?
Invece marcisce dentro una bara e io non vado a trovarlo mai,
perché secondo me
non ha senso. E poi vedere la sua foto sulla lapide mi fa venire una
fottuta
voglia di piangere, e vaffanculo. Mia nonna gli porta sempre i fiori
freschi
ogni settimana, e torna con le lacrime agli occhi anche lei. Mio padre
era
buono, faceva ridere, quando gli andava, e raccontava sempre delle
storie
fantastiche, da rimanerci ore ad ascoltarlo. E poi la nonna dice sempre
che era
bellissimo, che sembrava un angelo. Io non riesco a capire cosa
intende. Per me
era mio padre e basta. Più di questo non saprei cosa dire.
Le
sue sono state le prime sigarette che ho fumato. Aveva lasciato un
pacco di Lucky
Strike rosse, mezzo consumato, aperto sul comodino della nostra camera.
E l’accendino
era proprio lì accanto. Ne ho fumate tre, quattro, fin
quando la nicotina mi ha
fatto girare la testa sul serio, fin quando non mi sono spaventato e ho
smesso.
Cacasotto fottuto. Poi la paura non è più
tornata. In compenso sentivo mio
padre ad ogni tiro, sentivo come il suo odore, me lo trovavo accanto
nei
vortici di fumo grigiastro che mi aleggiava intorno. E non se
n’è più andato.
Vaffanculo papà. Mi senti?
Pensando
pensando, sono quasi arrivato. Fuoriesco da sottoterra con le mani in
tasca,
inciampo un paio di volte. Ho questa grazia nel muovermi che mi sembra
di essere
un ippopotamo sui roller, cazzo. Inciampo e cado e faccio delle
acrobazie tali
che non riesco nemmeno a capacitarmene. Camminare seguendo una linea
retta è
un’impresa, per me. Anche da lucido.
Mi
abbandono al solito posto, in compagnia delle solite facce.
Perlopiù è gente con
la quale non ho veri rapporti. Al di fuori di questo contesto noi non
esistiamo, non ci conosciamo. Oddio, magari a loro piacerebbe anche, ma
io
faccio un po’ lo stronzo. Forse è proprio per
questo che mi tengono ancora in
considerazione. Ce ne stiamo qui, passano illegalissime lattine di Coca
riempite di non so cosa, qualche liquido che da in testa, di solito.
Non lo so,
io bevo. Mi piace fottutamente, bere. Dico. Quando sono triste. Il
mondo si
riempie di colori, e tutti sono pronti a parlare di tutto. Di guerra,
di pace,
di politica, di massimi sistemi, di rivoluzioni, ribellioni, Dio.
E’
straordinario. Continuo a non capire perché da lucidi di
queste cose non si
parla. Ci comportiamo come se fossimo costantemente sotto effetto di
narcotici
mentali. Addormentati, ce ne stiamo la a parlare di un cazzo, a
discutere di un
cazzo, per ore intere. Poi aspettiamo di stordirci per parlare davvero
di cose
serie. Oppure è tutto al contrario. Forse è il
metro con cui giudichiamo un
argomento “serio”, che non va. Forse da ubriachi
parliamo di stronzate, e da
lucidi di quello che ha veramente peso. Insomma, la cosa mi mette
angoscia
comunque, a pensarci. Perciò non ci penso. Punto.
Però
mi faccio un po’ schifo. E’ quasi arrendersi, certe
volte. Sempre. È una cosa a
metà, non avere il coraggio di passare al rimedio estremo e
starsene qui,
sospesi nello stordimento, a rincorrere gli autobus, a farli fermare
apposta e
poi ad andarsene, a cantare cosa, a parlare di cosa. Mi stimerei di
più, se
improvvisamente mi arrivasse tra capo e collo il coraggio di farla
finita per
davvero. O forse no. Ma comunque non potrei saperlo per più
di una frazione di
secondo. Così è ammazzarsi un po’ ogni
ora, e condursi pateticamente verso una
triste esistenza strascicante. A me cose di questo tipo non sono mai
piaciute.
Eppure eccomi qui, no?
Me
ne torno a casa presto, con le sinapsi rallentate, fumando una
sigaretta.
Prendo l’autobus con il numero giusto, mi siedo in fondo,
dove piace a me. Da
qui riesco a leggere le parole di uno di quei cartellini pubblicitari
che
appendono in alto. Cos’è che
c’è scritto? Il futuro a portata di click? O
qualcosa del genere. Una stronzata. Chi è che lo vuole, un
futuro a portata di
click? Chi l’ha mai chiesto?
Penso
alla canzone dei Radiohead con cui mi sto stracciando i timpani da
stamattina a
scuola. Dopo il momento finestra. Quella canzone che Yorke ha scritto
per Romeo
+ Giulietta, o qualcosa del genere. Oggi fuggiamo, fuggiamo. Cantaci
una
canzone, una canzone per tenerci caldi. Ed è così
lancinante, ascoltarla. Fa
proprio un male fisico del cazzo.
Vorrei
un paio di minuti per parlare con mio padre, adesso. Un paio di minuti
che non
posso avere, vaffanculo. Gli direi tipo ciao papà, qualche
stronzata simile per
rompere il ghiaccio. In fondo quando se n’è andato
avevo undici anni, adesso, a
quindici, mi sento un altro essere. Probabilmente dovremmo ricominciare
daccapo
a parlare e sarebbe complicato, ma bello. Come riscoprirsi a vicenda.
Poi gli
direi che oggi ho visto una ragazza, a scuola. La vedo spesso. Che
è un po’
strana, si veste veramente malissimo, e proprio per questo mi piace
guardarla.
Come si muove in quelle maxitute e maximagliette, maxifelpe, maxicuffie
spaziali. Ha proprio un faccino come quello delle bambole, con i
capelli scuri
e la frangetta spettinata. Sembra un cucciolo, o qualcosa del genere.
Qualcosa
di terribilmente tenero. O almeno così l’ho sempre
vista… Poi oggi dalla
finestra lei guardava la pioggia, io guardavo la pioggia, e invece ci
guardavamo senza dire niente e ancora un po’ non lo sapevamo.
E
sai una cosa, papà? Io la guardavo negli occhi e vedevo la
schiuma cattiva
delle onde che la mangiava lentamente. E sentivo il rumore del mare,
papà.
Cazzo, il rumore del mare.
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Capitolo 5 *** Gypsy Death & You ***
Gypsy
Death
& You
Scendo
gli scalini di corsa, con il rischio di schiantarmi per terra ad ogni
pianerottolo. Come un proiettile. Mi lancio giù quasi ad
occhi chiusi. Cazzo,
mi sembra di essere impazzita. E’ come un gioco da bambini,
dall’ottavo al
pianterreno senza interruzione, sollevando baccano, polvere, proteste.
Ma
chissà se mi sentono i condomini, attaccati con le flebo
alla tv, chissà se si
accorgono che fuori passo io, matta come un cavallo matto.
È
proprio dalla tv che sto scappando. Ultimamente mi capita spesso. Mi
succede di
guardarla per sbaglio, mentre mia madre prepara la cena, e sento di
andare
fuori di testa. Tipo che vorrei tapparmi le orecchie, tapparmi gli
occhi, o
scaraventarla giù dal nostro balcone striminzito.
Maledetta
tv, maledetti tutti. Anche mia madre, cazzo.
Ci
sono questi momenti qui, in cui tutto sembra scorrermi dentro
più veloce. Il
sangue, i respiri, l’agonia. Avrei bisogno di ballare,
cantare. Qualsiasi cosa.
Potrei diventare od essere qualsiasi cosa. Invece, cazzo, eccomi qui
che mi
scapicollo giù dalle scale. Rinchiusa in un corpo da
quindicenne disfatta.
Cristo, voglio piangere, dimenticare che non avrò mai niente
da dimenticare.
Mai,
mai come adesso, mi sento viva, e mi fa male, mi brucia sulla pelle.
Voglio
dare fuoco al mondo.
E
invece corri, cazzo, adesso corri. Che non ti vede, non ti conosce mai
nessuno.
Che sono tutti chiusi dietro i muri di cemento e invece tu scappi con
l’aria
fredda in faccia.
Non
riesco a tenere ferme le gambe, mi sento prigioniera. Corro, scappo,
volo, non
lo so. Fino alla fermata del tram. Che ho voglia di vedere il Naviglio
morire
nella sua acqua putrescente.
Cammino,
da sola. Ma vorrei ancora cantare, e ogni musica che ascolto mi sembra
quella
giusta per ballarci su. E mi immagino grandi discoteche, artisti di
strada che
si scatenano negli angoli delle vie. E so che ogni fotogramma che vedo
in
questa mia testa di merda me l’hanno già
propinato, confezionato su misura. Che
non c’è niente di originale, qui dentro. Niente.
Il tutto mi mette troppa
angoscia e mi ritrovo seduta sul gradino di un portone, a guardare
spaesata il
tempo che mi passa denso davanti al naso. Ho bisogno di una pausa.
Giuro,
non capisco. Cosa mi è successo quando è successo
perché è successo. Perché
voglio di più perché so che non posso avere di
più.
Fanculo.
Le lacrime sono sprecate, qui. C’è da guardare le
luci sospese sopra i ponti, i
passanti con le facce brutte.
Me
la passeggio. Poi succede che ho voglia di qualcosa di dolce e compro
una
crepe, mi vizio. Me ne sto seduta fuori dal negozio, vestita da
profuga, con il
pigiama sotto la felpa.
Mentre
mangio i miei bei quadratini farciti di Nutella, guardo il maxischermo
sospeso
davanti ai miei occhi. E penso che qui i fatti sono due. O mi manca
qualcosa
che loro, gli altri, hanno. Tipo un regolatore di emozioni e di
pensieri o
qualche stronzata del genere. Oppure ho qualcosa in più,
qualcosa che non
dovrei avere, ma non qualcosa di positivo. E forse è anche
peggio.
Succede
tutto molto in fretta. Mentre me ne sto qui ad ingozzarmi di cioccolato
artificiale, arriva lui. Sembra sbucare fuori dall’asfalto,
tipo come un fungo
metropolitano o chessò io. E’ il ragazzo della
pioggia, il Kurt Cobain dei
poveri. Si veste proprio alla cazzo di cane, ed è una cosa
fantastica da guardare.
Ti fanno male gli occhi.
Non
so cosa gli passa per la sua folle testa, non lo so. Ma mi vede, e mi
si siede
accanto. E la cosa più bella di tutte è che non
parliamo. Non parliamo mai. Ci
guardiamo e basta, vicini, con i respiri condensati a farci compagnia.
Per
gentilezza, gli lascio l’ultimo angolo di crepe. Lui lo
mangia, non ringrazia.
Poi
mi alzo con l’aria di chi se ne sta andando, e lui biascica
qualcosa, tipo che
vorrebbe accompagnarmi per un po’. Gli sento
l’alito, che sa di alcol. Gli dico
si. Sembriamo una bella coppia di fattoni, passeggiamo sul Naviglio, e
non
c’entriamo un cazzo con tutti questi adulti grandi e chic che
ci camminano
incontro, e nemmeno con tutti gli altri. Siamo noi. Siamo persi.
Lui
barcolla un po’, mi prende la mano. Ed io lo guido. Comincia
a raccontarmi una
favola bellissima, su un cagnolino bianco. Io sto ad ascoltarlo e mi
sembra di
vedergli gli occhi lucidi. Ma forse solo perché è
zuppo di rum o quello che è.
O forse perché adesso tutto è lucido, bagnato
dalla pioggia.
Ci
fermiamo sotto un balcone, per paura di bagnarci. Che io certe paure
non le
capisco. Perché abbiamo paura di bagnarci?
E
all’improvviso ci accorgiamo delle foto di Alda Merini
attaccate ad un
cancello. Io lo sapevo, che viveva qui. Anche lui. Ci perdiamo a
leggere le
lettere che sono appese, come foglie morte, infilzate ai fiori. Dico ad
alta
voce che anche lei aveva qualcosa in più, qualcosa che non
doveva avere. E lui
risponde che infatti ha passato metà della sua vita in
manicomio. Probabilmente
anche io passerò metà della mia vita in
manicomio, se deciderò di sopravvivere
alla fine del mese. O magari no. Ma non riuscirò mai a
scrivere niente di
interessante, sicuramente. Niente di così geniale e bello.
Sarò solo una pazza
come tanti. Cerco di spiegare questa mia idea. E ridiamo, ridiamo, ma
ci viene
anche un po’ da piangere.
Non
lo so. Io penso che ci stanno abbandonando tutti, in linea generale.
Anche lei,
se n’è andata. Penso che ci dovrebbe essere un
ricambio di menti, invece c’è
solo buio, adesso. E quando se ne andranno tutti per davvero, cosa
rimarrà?
Barbara D’Urso e Platinette, Bossi e D’Alema, la
Santanchè e il Grande
Fratello. E poi ne arriveranno di peggiori, e i peggiori saremo noi.
Che poi
alla fine le cose che non ci piacciono sono sempre le stesse per tutti.
E anche
questo mi fa paura. Io ho paura, cazzo, ho paura. Mi scappa di dirlo ad
alta
voce.
Kurt,
che poi si chiama Colin, ma io lo chiamerò sempre Kurt, mi
abbraccia. Ubriaco
fradicio e sincero. Ce ne stiamo immobili sotto l’acquazzone,
fin quando ci si
gelano le dita. Forse ci siamo già ammalati e non lo
sappiamo. Forse sarà suina
e moriremo senza ausili. O forse tra una settimana saremo ancora qui
così,
stretti.
Poi
lui senza dire nulla mi abbandona e se ne va senza voltarsi. Resto un
po’ a
guardarlo allontanarsi, poi me ne vado anch’io, con le mani
in tasca.
C’è
che mia madre doveva farmi nascere cagnolino. Cagnolino, e bianco. Lo
ha detto
anche Kurt.
I
giorni sono scarni, se ne vanno via uno dopo l’altro e
sembrano
pezzi di un puzzle che non esiste. Ho la nausea di qualcosa, senza
sapere cosa,
ma anche una specie di peso all’altezza dello stomaco. Sono
sempre più
silenziosa e i miei non sanno che pesci prendere. Mio padre vorrebbe
stare
tranquillo, mia madre mi ama con un amore che noi esseri umani non
siamo in
grado di spiegare, nel nostro essere limitati e storpi. A scuola sento
il mio
cervello appassire, assieme a quelli degli altri. Avrei tante domande,
ma non è
mai il momento giusto per farle. E poi sembra che fare domande sia solo
una mia
prerogativa. Come se volessi dar fastidio. Invece vorrei solo delle
risposte.
Vorrei un dibattito, non lo so, parlo a caso, un’ora per
discutere tra noi di
grandi temi. Qualcosa. Ma forse sono solo io a volere queste cose, e
allora sto
zitta, lancio le molliche di pane fuori dalla finestra e guardo i
piccioni
ingozzarsi.
Kurt
non viene a scuola da abbastanza. Forse non ne ha voglia. Forse
è suina per
davvero. A me piace pensare che sia scappato da qualche parte, a fare
quello che
più gli piace. Tipo a Barcellona a vendere bracciali o a
rubare portafogli
nelle Ramblas. Mi sembra il tipo giusto per questo genere di cose.
Martedì
diciassette manifestazione studentesca. Mi piacerebbe salire su una
fontana e
urlare quello che credo, quello che penso. Qualcuno mi ascolterebbe
anche. Il
problema è che non arriverei da nessuna parte. Vorrei
davvero battermi per
un’idea. Mettere su una rivoluzione, una ribellione di menti.
Ma, come tutti
quelli che ci hanno pensato prima di me, probabilmente ne ricaverei una
pallottola in testa, una bomba nella macchina o un sequestro
misterioso. Questo
Paese è strano. Questo mondo è strano. O magari
sono io ad avere paura.
Allora
opto per la mia passeggiata nei corridoi, a guardare fuori dalle
finestre il
cielo milanese. C’è odore di termosifoni accesi e
di bidelli, che adesso si
chiamano commessi ma secondo me non ha senso tutto questo cambiar nomi.
Magari
domani arriva il sole.
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Capitolo 6 *** Tir Nel Cortile ***
Tir
Nel Cortile
Ci
sono cose che pesano, pesano. Ci sono cose che schiacciano.
Ansima
la nebbia tra le case, e tutto sembra disegnato sullo sfondo. Ci sono
dei
momenti di silenzio surreale, mi ascolto respirare male. Fare cose
senza senso.
Come non andare a scuola per una settimana, simulando una febbre da
cavallo per
la nonna, e poi tornarci quando finalmente è arrivata per
davvero – la febbre -.
Avrò tipo trentotto o giù di lì. Ho
messo il giubbotto imbottito, la sciarpa. Ho
i pantaloni del pigiama sotto i jeans. Ho la cartella vuota per non
fare
fatica. Ma continuo ad avere un freddo disperato, dei brividi strani in
tutto
il corpo, e la debolezza nelle ossa. Non ho voglia di esistere,
stamattina.
Sono sicuro che capita a tutti, di svegliarsi con il desiderio
inespresso di
ammuffire sotto le coperte. Mi sento poco lucido, poco pronto alla
parola. Annebbiato
anch’io.
Fuori
da scuola c’è una grande agitazione, ricordo
appena il perché. Martedì. Gruppi
di compagni che schiamazzano. Marco mi lancia un saluto da lontano, io,
senza
farci troppo caso, mi guardo intorno. Eccola, penso. Se ne sta
lì a parlare con
una ragazza piena di capelli rosso carota. Ride, sorride, dondola
avanti e
indietro, le mani nelle tasche della tuta. C’è
qualcosa che stona, in tutta
questa sua allegria. La felicità non si estende agli occhi.
Dico, fa increspare
le palpebre, le fa socchiudere, ma non accende le pupille. Lei
è come una
lampadina difettosa.
Marco
mi salta addosso, mi parla tutto contento, lancia qualche frase come
“cazzo oggi
non entriamo, manifestazione”, “cazzo ma io al
corteo non ci voglio andare, chi
se ne fotte, ci facciamo un giro in centro”, “cazzo
ma ce l’hai l’accendino?”.
Cazzo, no che non ce l’ho. L’ho dimenticato. Mi
trascina con lui a cercarne uno,
a tampinare passanti innocenti. Senza rendercene conto siamo nel bel
mezzo di
un grosso gruppo, ci muoviamo insieme agli altri. Lei l’ho
persa di vista, e
forse non riuscirò a ritrovarla, in mezzo a tutto questo
casino. Intanto Marco
mi racconta i suoi sogni erotici e pretende
un’interpretazione attendibile. Lui
è notoriamente imbecille ed io anonimamente febbricitante.
Uno
scambio di battute che è un programma.
“Ma
secondo me vuol dire qualcosa, no, che non era tutta nuda”.
“Beh,
può essere”.
“Insomma
aveva ‘ste mutandine verdi con dei disegni rossi. Tipo
peperoni. Che cazzo c’entrano
i peperoni?”.
“Mah”.
“Magari
tipo che ho mangiato pesante?”.
Ride
di gusto. Afferro vagamente che deve ritenersi molto spiritoso, in
questo
momento. Io barcollo per un giramento di testa improvviso.
“Si,
ma una porcona, eh. Ti giuro, da panico. Oh, mi senti?”.
“Si,
si”.
“Poi
però alla fine non so com’è, ma quando
ha finito mi ha detto che era passata
solo per salutarmi”.
Ha
lo sguardo interrogativo puntato su di me, Marco.
“Cazzo
ne so, chiamala. Uscite insieme”.
Une
delle risposte più insulse della mia breve esistenza. Anche
perché adesso ho
serie difficoltà a ricordarmi la domanda. Probabilmente
perché non c’è stata.
E’
lei a ritrovarmi. Mentre tento di spiegare a Marco, con il minor numero
di
parole possibili, che la manifestazione ha un suo senso. In teoria,
almeno. In
pratica, non ne sono troppo convinto. Più che altro sono
sicuro del fatto che
noi non siamo per niente una generazione da manifestazioni
studentesche. Troppa
concentrazione sul singolo, la visione d’insieme non esiste
più. Quindi, anche
in questo momento, non riusciamo davvero a sentirci parte di un gruppo,
una
classe, una massa con dei diritti, delle pretese, delle stronzate da
dire.
Siamo individui soli e allo sbaraglio. E il tutto riconduce
inevitabilmente al
fallimento e alla scarsa capacità di azione. Che angoscia.
Qualcuno
mi tira la manica del giubbotto. Mi volto ed eccola qui, con il suo
sorriso da
lampadina spenta.
“Ciao”,
dice.
“Ciao”.
“Ma
dove sei sparito questa settimana?”, chiede.
Vorrei
risponderle tipo che sono stato in viaggio, che sono andato a trovare
mia madre
in Spagna o un mio fratello maggiore inesistente in Irlanda. Che ho
scritto
poesie, che mi hanno pubblicato in diciassette Stati, che
lunedì andrò in onda
su Rai Tre. E invece…
“In
giro”.
Lei
annuisce. Ed è incredibile. Mi sembra quasi che abbia capito
tutto.
Marco
la sta studiando. Ora, per Marco le ragazze si dividono in due
maxicategorie
nette: quelle che fanno i pompini e quelle che non li fanno. Cerco di
coprire
Lei con il mio corpo, di nasconderla ai suoi occhi. Non mi va che la fissa
così, che le guarda la bocca. Mi
irrita.
“Io
vado via. Vieni con me?”.
Me
lo domanda come se sapesse già la risposta. Come se
sottintendesse che me lo chiede
solo per pura educazione. Che sa già che vorrei portarla ad
esempio sulla Luna,
a raccogliere i pezzi del senno di Orlando. A cavalcare le nuvole.
Invece
magari non sa nulla ed è solo la mia febbre a stonarmi,
distrarmi, sballarmi. Mi
piace.
“Si”.
Certe
volte le risposte brevi sono le migliori di tutte, perché
non lasciano spazio
ad interpretazioni.
Marco
mi guarda andar via con un sorriso maligno. Lui non capisce.
Dispersi,
camminiamo per ore intere. Mentre lontano da noi qualcuno da’
fuoco ai
cassonetti della spazzatura, la pula carica e fischiano i manganelli. E
c’è il
sangue, da qualche parte. E anche qualche paio di manette. Ma non ci
riguarda.
Ad
un certo punto ci sediamo a parlare del niente.
Io
brucio, dentro, fuori. Vaneggio, e lei mi asseconda. Ride, ogni tanto.
Forse per
via delle stronzate che sparo a raffica. Si illumina ad intermittenza,
fin
quando non mi accascio sulle sue gambe, esausto, dopo un discorso
inconcludente
sui Capi di Stato. Splende, mentre mi guarda. Arrossisce, ma non
è un problema.
Siamo rossi in viso tutti e due. Mi sfiora l’idea che forse
siamo proprio
belli. Giovani e tutto il resto, bianchi, confusi. Fragili come fogli
di carta
zuppi di umidità.
Mi
racconta un po’ della sua vita “normale”.
La studio con un’espressione sicuramente
ebete. Non riesco a pensare ad altro: vorrei dormire con lei. Proprio
dormire. Vicini.
Ha
paura di toccarmi. Lo vedo da come muove le mani, da come me le tiene
lontane. Come
se aspettasse un permesso.
E
se non fosse così? Ho paura anch'io.
“Credo
di avere la febbre”, dico.
Lei
arriccia il naso e mi guarda bene.
“Hai
gli occhi lucidi”.
O
forse sto solo piangendo?
Allunga
le dita piccole e sottili sulla mia fronte. Ha la pelle fresca.
“Stai
andando a fuoco”, osserva.
E’
fottutamente vero, penso.
E’
buio. Ascoltiamo una canzone insieme. Le tempie mi pulsano. Lei mi
scosta i
capelli dalle guance con delicatezza. E
quando la musica finisce siamo ancora qui, nelle luci della
città, ma ci si è
aperta una voragine nello stomaco. Un buco nero che le note riempivano
benissimo.
Ci
lasciamo con un saluto strano, a metà. Sospesi in avanti
nell’attesa di un
bacio che non arriva. Lo aspettiamo per un paio di istanti confusi,
come
pendolari che aspettano il treno, fino a quando decidiamo di accontentarci
di un
sorriso imbarazzato ciascuno.
“Addio”,
mi dice.
Come
a sottolineare che domani, quando ci incontreremo, già non
saremo più gli
stessi.
Lo
so, vorrei dirle.
Lo
so, cazzo.
Si
chiama Elisa.
E’
un nome straordinario e continuo a piagnucolare riguardo a Beethoven
fino a
quando non svengo nel letto.
Cresco,
eppure m’abbasso. Chilometri in giù. Chilometri
più giù.
Ci
sono cose che pesano. Ci sono cose che schiacciano.
Colpiscono
un cuore di piombo.
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Capitolo 7 *** La Noyee ***
La
Noyee
Mi
sento come una vecchia fisarmonica. Un mantice che si allarga e si
restringe,
pieno d’aria fredda ed ingombrante. Questa mattina sono
rimasta quindici minuti
netti a guardare il cielo sospeso fuori dalla mia finestra. E mi
sembrava così
bello. E tutto era possibile, con gli occhi incollati lì, a
seguire gli
strascichi pigri delle nuvole.
Il
sole sorge più tardi del previsto. Previsto da chi, poi. Da
cosa. Da me.
E’
arrivato il gelo. Ho le mani spaccate e un’immensa voglia di
volare, come non
lo so, ma di volare. Mi si sparpaglia il cuore in tanti piccoli pezzi
di vetro
al pensiero che più di camminare veloce, così,
non posso fare. Una scheggia
qui, una lì, come un mosaico senza disegno, di un colore
rosso grondante, come
densa tempera da pitturarci tutti i papaveri della Terra. Dentro
è come un
maremoto, una valanga di neve bollente, una pioggia asciutta
scrosciante,
danzante. Danzare! Come avrei voglia di ballare! Un passo qui, uno
lì, un incrocio,
una giravolta. Una giravolta! Di quelle belle solo se indossi una gonna
blu
sopra il ginocchio, piena di perfette piegoline. Vorrei qualcuno qui,
incatenato a me, qualcuno che mi spieghi come è bello il
mondo, che tutte
queste tonalità di giallo e d’arancione nelle
foglie non sono un caso, che nei contorni
così nitidi delle case popolari c’è un
disegno, un desiderio di bellezza eterna
irraggiungibile. Che posso aspirare anche io alla felicità,
agli sconvolgimenti
emozionali senza ritorno come l’amore. Che
diventerò grande e che ogni
risveglio sarà come oggi, pieno e vivo. Ma è
stupendo. Non è stupendo? Così meraviglioso
che a guardare i rami degli alberi stagliarsi contro
l’azzurro limpido,
inverosimile, mi scricchiolano i polmoni. E pare non esistere
nell’universo
nulla di così struggente e malinconico come questa bellezza
mattutina. E voglio
vivere, vivere fino a consumarmi i denti. Un salto in avanti, superare
una
pozzanghera profonda trenta metri di foglie cadute e zuppe. Un passo
dietro l’altro,
l’asfalto sfrega forte contro le suole delle scarpe. Una
vecchietta con un
cappello viola, i cappotti neri delle quarantenni con un impiego fisso.
La crisi
economica che non la sento, lo scatafascio generale che non mi arriva.
Roteiamo,
roteiamo. Come la carne del kebab, che in mezzo al pane è
buona e sa di
esotico. Quanti odori, rumori, macchine che sfrecciano,
caffè, bigodini delle
nonne, frignare dei bambini che non vogliono andare a scuola. E poi non
va
nemmeno a me, in fondo. Così decido che oggi è la
mia vacanza, il mio Santo Patrono
delle sette e venti. Fuggiamo, fuggiamo! Ho già prenotato i
biglietti per non
so quale città, quale luogo dimenticato, dove la fine del
mondo è solo l’inizio
di una festa.
Il
Sole! Il Sole! Mi illumina i capelli attraverso i vetri del tram. E
guardo
tutti con gli occhi accesi, mi piace incrociare gli occhi dei
passeggeri che
salgono ad ogni fermata. Il Duomo sembra calato dall’alto e
messo lì, per farci
spalancare la bocca dallo stupore. Non può essere reale,
così perfetto. Non può
essere vero. La Galleria, i piccioni che molestano i passanti, mille
lingue che
non saranno mai una. E’ Babele, è il Paese dei
Balocchi, è una metropoli. Un’arma.
Un revolver carico. Un arco. Niente. Via Torino con i negozi aperti e
non posso
permettermi un paio di stivali che comunque mi starebbero malissimo. Ho
letto
da qualche parte che i commessi delle filiali Foot Locker li scelgono
rompicazzi
di proposito.
Poi,
ecco, tutta la mia isteria frenetica si spegne. Si schianta sopra i
moncherini
di due gambe senza piedi, la carne ritratta contro le ossa. Lui ha una
barba
nera e ricciuta, e mi ricorda Che Guevara, anche se in effetti non gli
somiglia
per niente. Se ne sta seduto contro l’angolo sinistro della
vetrina, in basso,
vicino alle scarpe da ginnastica bianche come i sorrisi della
pubblicità. Sopra
una stuoia, neanche fosse un piccolo animaletto domestico abbandonato.
Magari ha
un ritardo mentale, magari non parla la mia lingua, ma sicuramente ne
parlerà
un’altra che io non posso comprendere. Magari è
brillante e ci odia tutti, o ci
compatisce, mentre passiamo con i nostri piedi al loro posto. Certo
è che ha
quel bicchiere di plastica piantato tra i due moncherini,
c’è qualche monetina
dentro. Vorrei avvicinarmi, chiedergli com’è che
è successo. Se è Rivoluzione,
malattia, tortura o incidente. Se passeggiava sui campi di granate come
i
bambini delle associazioni onlus. Invece mi vergogno di una vergogna
pavida. Vedo
che i passanti gli girano intorno, e ostentatamente evitano di posare
lo
sguardo su quei due terzi di gambe scoperti di proposito. Non ho
neanche il
coraggio di avvicinarmi e lanciare dentro due monete. Non lo so. Ho
paura. Come
tutti gli altri, mi allontano. Cos’è che ci frega,
a noi, come umanità? Perché,
in un modo o nell’altro, ci manca sempre il coraggio?
Le
Colonne di San Lorenzo sono uno di quei posti classici che non si
possono non
conoscere. In qualche modo sono diventate anche loro uno status,
però. I miei
si sono fidanzati proprio qui, quando le fighe e i fighi si chiamavano
paninari. Paninari. Bellissimo. Come li invidio. Invidio un
po’ tutti,
veramente, tranne i miei coetanei. Soprattutto i vecchietti, ecco.
Sospiro di
circostanza.
La
pietra è umida. Ci sono i soliti fattoni che sembrano vivere
qui, in mezzo ai
cani. Poi magari uno scopre che sono figli di gente piena di soldi, o
che
invece è proprio il contrario. Con le persone non si
può mai dire. Magari ci si
aspetta qualcosa di specifico da un individuo, poi si scopre che in
realtà è
tutto il contrario. Si, insomma, è tutto banalmente
complicato o ridicolmente
semplice. Dipende dai punti di vista.
Io
e Kurt ci siamo visti qui, l’ultima volta. Cioè un
giorno fa. E’ così dolce
pensarci. Potrei morirci qui, credo, di dolcezza. Arrossisco.
Così, da sola. Da
matti. E poi è fantastico ricordare ogni particolare. Come
la luce del tramonto
proiettava sulle sue ciglia una dimensione parallela di ombre nelle
quali
perdersi. O come sembravano morbidi i capelli, come avrei voluto
toccarli. Ne avevo
una voglia che mi faceva prudere le dita. Come stavo scomoda, a
guardarlo così,
chinata un poco in avanti per non togliergli l’aria, per
farlo respirare. E lui
pieno di febbre fino alle orecchie che vaneggiava raccontandomi della
corruzione
che inquina la politica e delle linee metropolitane che potrebbe
prendere per
arrivare prima a casa, se non gli venissero gli attacchi di panico, a
stare
sottoterra. Non ricordo di cosa abbiamo parlato. Non ricordo cosa ci
siamo
detti. Però sento ancora gli sguardi che si sfiorano, come
fogli di carta
velina che si scontrano per caso, che si accarezzano. E’
oppressione e
leggerezza. Angoscia e il frullo d’ali di un uccellino. Tutto
insieme. Tutto insieme.
Tanta voglia di esistere, tanta voglia di morire. Tanta voglia di non
immaginare cosa sarà domani. Tante speranze vuote.
Oggi
è stato come un giro turistico.
Nel
tornare a casa la mente mi si oscura di nubi. Guardo la strada
allontanarsi,
dalla coda del tram.
Penso
a come deve essere il sapore di una sigaretta. Se è giusto o
sbagliato fumare. Se
fa male o non fa male. A come deve essere il sesso, il piacere,
ammettere
pubblicamente di masturbarsi. E bere fino a vomitare? Chissà
se l’LSD ha un
sapore. Chissà cosa vuol dire davvero trip. Io mi sento una
tipa da bad trip,
da uno di quei viaggi incubo senza ritorno, magari. E
l’eroina? Com’è bucarsi
la pelle? Com’è l’astinenza?
Vorrei
scacciare via le domande inopportune dalla mia testa, ma si accalcano
una sull’altra.
E
com’è il matrimonio, il divorzio, partorire, i
figli, le bollette? Com’è essere
omosessuali? Com’è essere lesbiche? La vita
sregolata dei tossici per bene da
discoteca e tavoli nei locali giusti. Ballare abbracciati alle casse ad
un
rave, trombare con il primo che trovi. Gli stivali con le punte in
ferro. I tanga.
Il cancro. La leucemia. La chemio. La calvizie incipiente.
Affondo
la testa nel cappuccio. Com’è possibile. Il mondo
stamattina brillava così
forte da farmi male e bene. Il mondo stamattina sembrava un altro
posto,
davvero. Sono le montagne russe. Tutto su, tutto giù.
Più giù che su. Chissà se
anche Kurt ci pensa, a tutte queste cose, intendo, qualche volta.
Vorrei non
sentirmi l’unica.
Vorrei…
vorrei.
Annegare.
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Capitolo 8 *** You Don't Care About Us ***
You Don’t Care About Us
Stravolgimenti mattutini senza nome. Ho la neve bianca dentro gli occhi, le
suole lisce da caderci e rompersi il collo senza star tanto lì a menarsela.
Insomma oggi potrebbe essere il giorno perfetto.
Invece no, ultimo giorno di scuola prima di vacanze mai richieste, risultati di
compiti invecchiati sopra ai banchi verde agghiacciante. Ma wow! Ho l’entusiasmo
di una centrale nucleare incamminata verso l’implosione.
Che in realtà poi avrei dovuto aspettarmelo, con tutte le stronzate che ho
scritto quel giorno lontano e sconfitto. Il voto della mediocrità per
eccellenza: un bel sei scarabocchiato in rosso, proprio sopra ad una firma
indecifrabile che dovrebbe essere il nome della mia prof. Perché sì, un sei in
italiano è proprio un marchio di mediocrità. E’ diverso prenderlo in matematica
o in biologia. Quelle sono materie del cazzo in cui un sei è quasi motivo di
orgoglio. Il sei in un tema di italiano vuol dire solo una cosa: insignificante.
Quindi suppongo di essere questo, in fondo. Insignificante. Ci penso per un po’,
realizzo che forse è il voto più azzeccato di dieci anni persi a scuola. Senza
significato anche quelli.
Ecco Marco che mi sventola sotto il naso il compito con entusiasmo schifoso,
quasi fosse suo, che cazzo. Un po’ di pietà! Ma la curiosità è forte, lancio uno
sguardo così, di finta indifferenza, e i miei occhi si scontrano contro le forme
tonde ed invitanti di un bell’otto obeso come i ciccioni americani.
Non lo so cosa guardo, dopo, forse il vuoto grigio di sempre fuori dalla
finestra. Resta il fatto che mi prende un’angoscia insopportabile, e così
realizzo, istantaneamente, di non farcela più davvero. Magari, nella vita, le
conclusioni fottutamente importanti arrivano sempre dopo avvenimenti molto
stupidi, chissà. Magari prima o poi lo scoprirò, o magari no.
Ho una voglia matta di andare al cesso, in ogni caso.
Eccomi, nello stesso posto, quello perfetto per me, in mezzo ai corridoi deserti
e lucidamente sadici di una scuola che ancora fatico a riconoscere. Mi rifletto
sui vetri, negli occhi della bidella baffuta appostata all’ingresso dei bagni,
che infila il naso in culo a tutti quelli che passano per captare l’odore delle
sigarette. Che possa morire di sinusite fulminante, o qualcosa del genere, un
giorno.
Piscio. Prendo a ripetere dentro di me ogni processo e movimento, come fossi lì
a mettere in atto un qualche rito sacro, e non a pisciare. Guardandomi il
Gianni, nome proprio di persona con il quale nonna ha ribattezzato il mio
pisello nella prima infanzia, rimpiango amaramente i giorni delle medie, in cui
ero ancora relativamente normale, e passavo le mezz’ore a misurarmi il cazzo
insieme ai miei fidatissimi amici nei bagni della scuola. Quella era vita.
Totale inconsapevolezza di qualunque altra cosa all’infuori di vagine e peni. Un
traguardo dal quale i tredicenni non dovrebbero mai elevarsi, perché dopo, è il
suicidio. Quando inizi a fare pensieri un po’ più complessi, più articolati,
finisci sempre o con il diventare un coglione per eliminare quel senso di vuoto
assoluto che banchetta con le tue budella, oppure… beh, finisci come mio padre.
Dopo aver considerato mentalmente le ipotesi, realizzo di non essere davvero
convinto del mio attuale schieramento. Perché sicuramente non vivrò a lungo, con
tutta questa tendenza ereditaria all’autodistruzione, ma per essere coglione,
sono coglione, e anche parecchio, questione dimostrata dal fatto che sono qui a
riempirmi di seghe mentali per merito di un cazzuto sei in italiano. Patetico,
ecco.
Ma, poi… e’ così importante, non lo so, identificarmi? Capire? Perché capire se
sono in continua evoluzione, se cambio con la velocità folle di un missile terra
aria. E’ una stronzata. Sto perdendo tempo inutile ad inseguire una risposta
insignificante. Come quel sei rosso semaforo.
Scoppio a ridere mentre infilo di nuovo il Gianni nelle mutande.
Mi sento leggero. Non lo so perché. Mi sento leggero.
Vorrei annunciarlo. Anche se naturalmente so che a nessuno importa davvero come
posso sentirmi.
A nessuno importa di noi, naturalmente.
Elisa è nel corridoio davanti a me, quando esco per entrare in classe. Le guardo
la forma delle spalle, della schiena, della vita. Ha una maglietta stretta e un
paio di jeans normali, regolari. Non lo so. Mi sembra forse più bella, forse più
Elisa del solito. Le arranco dietro fino a raggiungerla. Mi sorride, luminosa.
Decido di provare a sembrare un po’ più normale del solito, in suo onore. E in
onore della mia nuova scoperta.
“Ehi”, faccio.
Lei si ferma, porta una ciocca di capelli dietro l’orecchio.
Sono magicamente consapevole della velocità del sangue nelle vene. Bum.
“Ehi”, risponde, piano. Quasi sussurrando.
“Che fai in giro?”, domando. Mica posso partire subito con un fottuto invito
deprimente. No.
“Niente. Ho preso il numero dei genitori di una mia compagna di classe che ha
dato di matto”, fa, sventolando un pezzettino di carta davanti al mio naso.
“Ah, ok. Senti, facciamo che mi aspetti fuori da scuola, oggi? Facciamo un pezzo
di strada insieme, non lo so”, propongo.
Dirà di no. E’ matematico. Dirà di no.
“Ok, va bene. Ti aspetto”, risponde, invece, e sembra contenta. Sembra contenta.
Mi aspetterà.
Punto.
Mi aspetterà.
La bacerò.
*
Giulia Morazzoni è sempre stata una di quelle perfette che più perfette non si
può. Una di quelle che riescono a tenere sempre i capelli miracolosamente in
ordine. Una di quelle che hanno l’accessorio giusto al posto giusto, e tutto il
resto. Io non potrei mai essere, per dire, una Giulia Morazzoni. I miei capelli
si ribellano, il mio corpo ingrassa e dimagrisce come diavolo gli pare, ho la
faccia sconvolta quando arrivo in ritardo e durante la lezione di fisica i
pantaloni mi salgono sempre oltre le caviglie scoprendo i calzini. In ogni caso
ho sempre creduto di essere decisamente poco normale rispetto a lei. Credevo che
essere Giulia Morazzoni volesse dire essere normale. Perfettamente normale.
Normale un cazzo.
Oggi eravamo tutti tranquilli a seguire la lezione di storia. E per tranquilli
intendo annoiati. Poi Paolo Besozzo detto Panzer ha pensato bene di
iniziare a lanciare palline di carta in testa alla Morazzoni, che già dalla
mattina era arrivata a scuola tutta scazzata per ragioni sconosciute al resto
dell’umanità. Il fatto è che Panzer odia intimamente Giulia perché sa che
non gliela darà mai, ma questo è solo quello che penso io, eh. Comunque, fosse
stato un giorno come gli altri la Morazzoni avrebbe fatto il suo solito
piantillo e si sarebbe preoccupata di far notare alla prof la cosa, per poi
sibilare a Besozzo uno di quei vaffanculo ricamati ad arte che sono la sua
specialità. Invece è rimasta zitta tutto il tempo, e continuava a ricalcare una
parola sul foglio degli appunti, senza nemmeno spostarsi. Panzer non
sopporta di essere ignorato, è qualcosa che lo manda fuori di testa, così ha
cominciato ad insultarla a mezza voce, sporgendosi sul banco quando la prof
voltava le spalle per tracciare infinite linee del tempo sulla lavagna,
soffiandogli parolacce nell’orecchio. Naturalmente molti di noi stavano già
guardando, ma tutti, proprio tutti, si sono risvegliati dal coma dello studente
non appena la Morazzoni è scattata in piedi e ha afferrato Besozzo per i
capelli. Ecco, è stato un momento in cui tante mie certezze si sono sfaldate
come un castello di carte.
Giulia aveva la faccia stravolta da un pianto che fino a quel momento era
rimasto nascosto dai capelli biondi, aveva la bocca serrata e le labbra bianche,
gli occhi gonfi come quelli di un rospo. Ha cominciato ad urlare dopo un secondo
di pausa gelata che ci aveva cementati tutti immobili in quello che stavamo
facendo. Ha preso ad agitare la testa di Besozzo da un lato all’altro, avanti e
indietro, strattonandolo per i capelli. E quello la graffiava, cercava di
strapparle via le mani, sbilanciato in avanti e bloccato dal banco, ma non c’era
verso di riuscirci. La Morazzoni era paonazza in faccia, orribile, e piangeva,
piangeva. La prof e Massimo Crivelli si sono lanciati in avanti e l’hanno
afferrata per le braccia e per la vita, l’hanno strattonata fino a quando non ha
lasciato andare Panzer, che anche lui piangeva, ma per il dolore. Subito
Giulia si è spenta, si è accasciata tra le braccia di tutti e due, come una
bambola di pezza, ma continuando a lamentarsi e a farfugliare parole senza
senso. Orribile. La prof l’ha abbandonata del tutto addosso a Marco e,
terrorizzata, l’ha spedito in segreteria con la Morazzoni tra le braccia, gli ha
strillato un paio di raccomandazioni e ci ha guardati tutti come se si
aspettasse che le dicessimo che cosa fare. A quel punto mi sono alzata e ho
proposto di chiamare i genitori per far portare via Giulia. Non ho nemmeno
aspettato che la prof dicesse che andava bene. L’ho vista titubante e sono
schizzata fuori dalla porta. Dopo una mezz’ora la madre è venuta a prendere
Giulia e l’ha trascinata via scusandosi e assicurando che avrebbe chiesto un
colloquio con la preside per discutere dei provvedimenti disciplinari. Besozzo è
rimasto a scuola fino alla campanella, ma a guardare il crocifisso appeso sopra
la lavagna.
Arrivo a casa con lo stomaco in subbuglio per tante cose. Per Giulia Morazzoni,
per sua madre con gli occhialoni da sole, per Panzer e la sua fronte
fucsia, per Kurt che mi ha accompagnata fino al portone di casa e mi ha dato un
bacio freddo sulla bocca. Tutte queste cose mi travolgono, hanno l’effetto di
sconvolgermi, rompere gli equilibri precari della mia testa. Non riesco a capire
cosa provo, ad identificare. È tutto insieme. La vergogna di Panzer, la
rabbia matta e la disperazione di Giulia, la mia angoscia, la malinconia di
Kurt. Così non ce la faccio, non resisto. Scoppio a tavola e racconto tutto,
parto chiedendo un sorso d’acqua e finisco con la Morazzoni trascinata da sua
madre giù per le scale, che la tiene per il braccio come una bambina
disobbediente. Mia madre mi accarezza la testa ed io la amo follemente.
Mio padre fa muovere un paio di volte le mascelle in un movimento che a me è
sempre sembrato molto virile e che ho cercato di imitare spesso. Poi sputa fuori
la notizia controvoglia, sofferente. Dice che il padre della Morazzoni lavora
due piani più su in azienda, tra i dirigenti. Che si è dovuto dimettere due
settimane fa. Che i dottori gli hanno detto che camperà al massimo un altro
mese. Che gli hanno detto “metastasi epatica in fase avanzata”, e che in quella
famiglia hanno ormai smesso tutti di vivere.
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Capitolo 9 *** The Catchers In The Rye - Epilogo ***
The Catchers In The Rye
Oggi è il giorno della morte.
Paura fottuta, le dita gelate, avrei preferito non pensarci e invece ci penso
ogni secondo. Lo so.
Guardo giù e vedo i contorni di un parco violentato dalla brina, che l’ha
dilaniato tutta la notte, che gli si aggrappa addosso come una bambina senza
madre.
E’ il sole, sono le punte delle mie scarpe sospese sopra il nulla.
Tutto è più autentico. Non importa perché, ma lo è. E’ tutto al suo posto. Fa
tutto parte del disegno, adesso. Ma come ho fatto a non capirlo, a non vederlo
prima?
Non ho le forze, mi mancano tutto ad un tratto, come se qualcuno mi avesse
annullato il sangue.
Mi abbandono. Al cornicione, al vuoto.
Sento le lacrime scoppiare sulla sciarpa, il fuoco mangiarmi via la vita.
Sono le fiamme della frenesia di esistere, di fare qualunque cosa pur di vivere
davvero, di sentire davvero, di toccare davvero.
Non sono più qui, no, mai.
Sono nel cielo. Oltre l’azzurro, oltre l’ozono consumato, oltre l’impossibile e
i pianeti e le lune, le galassie. A morire in volo senza mai aver respirato,
oltre i confini della pelle lacerata. Senza ali, senza paracadute, senza angeli.
Senza male e senza bene. C’è solo la bellezza del soffrire per la troppa
pienezza, per la totalità del mondo rinchiusa nelle fibre muscolari.
Sospirare e gemere e questo è fare l’amore. E le coccinelle, gli occhi dei
neonati, i baci freddi, le rivoluzioni, i capelli bianchi, il seno di una donna.
Oh… scricchiolare il petto, fondere le ciglia, la lingua sul cemento.
Ma cosa siamo se possiamo esaltarci e distruggerci così? Perché siamo, dove
siamo, sperduti negli angoli degli universi e schiantati nelle nostre tragedie
di cartone. Esistenze misere che non si accendono mai, lampadine spente che non
conoscono la luce.
Ma io voglio brillare!
Io voglio brillare!
E
se conoscessi Dio… se conoscessi Dio.
Gli direi che sto saltando.
C’è stato un tempo in cui giocavo nei campi di segale.
Gli direi di afferrarmi prima che io cada nel burrone.
C’è stato un tempo in cui giocavo nei campi di segale.
“El?”
“Si”
“Si?”
“Si”
“Cosa fai lì?”
“Guardo giù”
“Posso venire?”
“Scusa il ritardo”
“El?”
“Non è importante”
“Si che lo è”
“No. Stavo per saltare. Non è importante”
“Saltare?”
“Giù”
“Perché?”
“Mi sentivo tutta vuota”
“Anche io”
“E poi tutta piena”
“E allora ho avuto paura”
“Di cosa?”
“Di non sentirmi mai più così”
“Succederà, vero?”
Elisa solleva gli occhi su di me.
Siamo immobili sul cornicione.
L’immagine che ho di me in questo momento mi ricorda una parola: bilico.
Non credevo che la nostra giornata sarebbe iniziata così, quando lei mi ha detto
di raggiungerla qui.
Il maremoto dei miei sensi mi risveglia.
E credo davvero in qualcosa, adesso.
“No, non succederà”.
Ha la faccia di chi desiderava con tutta la sua anima questa risposta.
Ma non le basta. Non vuole arrendersi così. Deve capire.
Ed io conosco ogni parola. Ogni parola, per la prima volta nella mia vita.
“Adesso siamo differenti. Adesso tu ricorderai per sempre quello che hai
sentito”.
“Ma se non bastasse, dimmi. Cosa farò, se non bastasse?” mormora.
“Potresti sempre saltare, un giorno”.
Ci pensiamo per molto tempo.
Poi ci afferriamo e non vogliamo cadere.
Non siamo più vecchi, ma solo giovani.
Ci si schiude il futuro incerto nelle mani.
Non vogliamo più cadere.
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