Impressione di febbraio di Mue (/viewuser.php?uid=79505)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo I ***
Capitolo 2: *** Capitolo II ***
Capitolo 3: *** Capitolo III ***
Capitolo 1 *** Capitolo I ***
Prima di
iniziare a leggere, un paio di avvisi.
Il primo è che questa storia è una spin-off di
Verderame, la mia precedente fanfiction e se non l'avete letta,
potreste rimanere piuttosto disorientati dalla situazione e da diversi
riferimenti all'interno del testo.
Il secondo è che si tratta di una storia totalmente
estemporanea perché stavo lavorando a tutt'altro fino a che
sono inciampata nell'iniziativa di Carnevale di Fanworld e, come
sempre, non ho resistito alla tentazione di partecipare.
Rimando ulteriori commenti al prossimo capitolo.
Ah, e un grazie particolarmente sentito alla mia beta, whateverhappened per essere sempre tanto disponibile con me.
Buona lettura!
Disclaimer:
I personaggi e gli elementi creati da J.K. Rowling presenti in questa
fanfiction sono suoi e solamente suoi, il resto della storia
è tutto una mia invenzione. Questa storia non è
scritta a scopo di lucro.
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Capitolo I
Diagon Alley, 6 febbraio
“Sentenza senza precedenti.”
Così la chiamava la Gazzetta
del Profeta e i giornalisti di mezzo mondo magico.
Per Marietta Edgecombe, invece, erano solo una manciata di parole senza
significato messe in bocca a un qualsiasi esponente del Wizengamot.
«La Nuova Moratoria non è una scorciatoia del
Ministero per ridurre drasticamente il lavoro degli Auror,
anzi!» ribadiva la voce del qualsiasi esponente in questione,
ronzando le parole attraverso la vecchia radio sulla scrivania.
«E’ un provvedimento a lungo discusso e ponderato
dal Ministro, dal Wizengamot e dai responsabili della sicurezza magica
inglese. A seguito di due condanne in tribunale rivelatesi errate in
seguito, il Ministro vuole assicurarsi che la giustizia non si
trasformi in autocrazia: la Costituzione Magica del 1654 dichiara
esplicitamente che il Wizengamot fu creato per garantire la
libertà di tutti e il rispetto di ciascuno, ma la condanna
di due innocenti quali erano Earnest Kettleback e Clare Rufford ha
dimostrato che la linea acquisita…»
Marietta spense la radio, seccata.
Aveva smesso di farsi coinvolgere emotivamente dalla politica del mondo
magico molto tempo prima, ma sentir parlare un membro del Wizengamot di
Earnest Kettleback e Clare Rufford come degli unici innocenti finiti ad
Azkaban negli ultimi tempi la irritava profondamente.
Prese una busta dalla scrivania: era arrivata quella mattina dal Canada
e Marietta l’aveva aperta senza nemmeno staccarla dalla zampa
del gufo, tanto era impaziente.
Fissò la grafia sottile e spesso sbavata che la ricopriva:
Roger Davies non era mai stato un gran calligrafo.
Non siamo stati anche io
e te un Earnest Kettleback e una Clare Rufford, Roger?, si
chiese silenziosamente. Non
abbiamo passato nove mesi rinchiusi laggiù a scrutare il
cielo fuori dalle sbarre di quelle fessure che i carcerieri chiamavano
finestre?
Certo, dopo la Seconda Guerra Magica non c’erano
più i Dissennatori a trasformare Azkaban in un inferno
d’incubi e visioni, ma rimaneva comunque una prigione grigia,
fredda e spoglia.
E solitaria, aggiunse Marietta, chiudendo gli occhi e ricordando il
peso del silenzio. Roger era entrato ed era uscito da quella fortezza
inaccessibile con lei, ma per il resto dei nove mesi non
l’aveva più visto né sentito.
Duecentosettanta giorni sola con se stessa.
Forse, se prima del processo non si fosse riconciliata con il suo
passato, accettando ciò che era stata e sarebbe diventata,
non ce l’avrebbe fatta a superare quel lungo lasso di tempo
senza impazzire. Ma c’era riuscita. E c’era
riuscito anche Roger.
«Marietta!»
Marietta sobbalzò e si voltò di scatto: la
vecchia stufa in ghisa nell’angolo del solaio in cui abitava
si era messa a borbottare con una voce familiare.
«Oscar?» fece lei, riconoscendo il volto confuso
tra le fiamme nello sportello della legna. «Cosa
succede?»
Il viso del suo vecchio datore di lavoro fece una smorfia deformata dal
fuoco morente. «Detesto parlare attraverso la tua stufa:
è veramente stretta. Perché non ti trovi un posto
dove vivere che abbia un camino?»
«Lo farò quando anche tu lascerai quella tua
enorme cantina piena di umidità e puzza di tintura e ti
troverai qualcosa di più salutare» rispose lei,
ridacchiando e accoccolandosi di fronte alla stufa.
Oscar sospirò e un tizzone ardente rimbalzò sul
pavimento di legno scheggiato. Marietta si affrettò a
calpestarlo con un piede prima che appiccasse fuoco a tutta la stanza.
«In realtà temo che il momento in cui
lascerò quel posto per qualcosa di meglio sia più
vicino di quanto pensassi» disse mestamente il vecchio.
«Peccato, perché mi ci ero affezionato.»
Marietta aggrottò la fronte. «Cosa intendi
dire?»
Oscar fece un sorrisetto enigmatico e il suo viso già pieno
di rughe s’increspò, facendo spiccare i suoi occhi
limpidi. «Indovina!»
Marietta rifletté, perplessa. Oscar era un pittore e se un
tempo, quando le famiglie Purosangue erano numerose e
l’usanza di farsi ritrarre era diffusa, guadagnava parecchio,
ora era povero in canna e aveva a malapena i soldi per pagare lei che
gli faceva da assistente e tuttofare. Quindi come avrebbe potuto
lasciare la cantina dove viveva per un altro posto, se di
più economici non ne esistevano?
«E’ morto qualcuno che ti ha lasciato in
eredità un appartamento? Dei soldi?»
ipotizzò.
«No» fece il vecchio, gongolante. Sembrava
divertirsi molto a farla provare a indovinare.
«Hai ricevuto qualche offerta allettante per un
quadro?»
Oscar ci pensò un attimo su prima di rispondere.
«Non ancora.»
Marietta sospirò. «Oscar, se è un altro
dei tuoi voli pindarici di fantasia, non c’è da
sperarci troppo perché…»
«Non è un volo pindarico di fantasia! Non mio,
almeno» ribatté lui.
Marietta si accigliò. «E di chi, allora?»
«Vieni qui e te lo mostrerò. Non hai ancora letto
la Gazzetta del Profeta,
stamattina, vero?» chiese lui, eccitato.
Marietta alzò le spalle. «No, mi è
bastata la radio. Perché?»
«Vieni e lo saprai» rispose Oscar, ridacchiando
come un bambino che ha appena ricevuto in regalo il giocattolo che
tanto desiderava. «Veloce!» aggiunse, e
sparì, lasciandosi dietro solo informi fiammelle blu morenti.
Marietta sospirò, chiuse lo sportello della stufa e
s’infilò il giaccone rattoppato, l’unico
che possedesse. L’autorità ministeriale aveva
sequestrato i suoi abiti e i suoi effetti personali quando era entrata
ad Azkaban e alla sua uscita gliene erano stati restituiti solo la
metà. Aveva provato a protestare, ma le era stato risposto
che, a causa di un qualche disguido con le targhette numerate, tante
delle sue cose erano state assegnate ad altri detenuti e non ci si
poteva fare niente. Marietta se n’era andata rassegnata e
determinata a non avere mai più a che fare con il Ministero
della Magia per tutto il resto della sua vita.
Uscì dalla botola che costituiva l’ingresso al suo
solaio, scese le scale della pensione fatiscente in cui abitava,
evitò una vecchietta incartapecorita che abitava sotto di
lei e che stava salendo in quel momento le scale con una borsa piena di
uova di rospo dal cattivo odore e raggiunse l’atrio.
Fuori, lungo una delle vie meno prestigiose e più rintanate
di Diagon Alley, il freddo la aggredì come gli artigli di un
Avvincino: la nebbia era talmente fitta che persino l’insegna
del pub di fronte era solo una macchia di colore poco distinguibile nel
grigiore del mattino.
Si avviò sospirando lungo il selciato costellato di piante
ed erbacce che affioravano dal terreno: gli addetti alla Manutenzione
Cittadina passavano di lì solo una volta all’anno.
Dalla pensione dove abitava al casale in rovina dove si trovava la
cantina di Oscar c’erano solo dieci minuti, ma bastarono a
far contrarre a Marietta un raffreddore coi fiocchi.
Scese le scale di legno ed entrò nello scantinato
starnutendo sonoramente.
«Finalmente! Pensavo non arrivassi più!»
la accolse Oscar, impaziente. Quel giorno sembrava ancora
più piccolo e curvo del solito, eppure sotto la vecchia
redingote color melanzana pareva sprizzare entusiasmo da tutti i pori.
Marietta tirò su con il naso e si sfilò la
giacca: là dentro era umido, certo, ma almeno il camino
accanto a cui troneggiavano i numerosi cavalletti da lavoro di Oscar
impediva alla stanza di assumere temperature polari. E pensare che
erano già a febbraio, ma l’inverno non accennava
ancora a diminuire la sua morsa sull’isola britannica.
«Che cos’è tutta questa
impazienza?» chiese Marietta, perplessa. «Hai vinto
alla Lotteria della Gazzetta
del Profeta?»
«Meglio!» dichiarò Oscar.
«Leggi!»
E le infilò in mano una copia della Gazzetta del Profeta
di quel giorno, mostrandole un trafiletto sotto la sezione “Arte di Parte”,
la rubrica sull’arte e la fotografia del giornale.
« “…La
nuova mostra sulla storia delle scope…”
» cominciò Marietta.
«No, non lì; sotto!» fece Oscar,
indicandole la riga esatta.
« “…Un’opera
sensazionale, di grande espressività e perizia pittorica; il
chiaroscuro e le tinte blu, grigie e rosse utilizzate rivelano
un’inventiva fuori dal comune e il soggetto emana dai difetti
di superficie una bellezza interiore di rara fattura. Se dovessi fare
una stima del valore della Vergine del fuoco, senza dubbio la collocherei tra
i duemila e i tremila galeoni…” La Vergine del fuoco?
Che cos’è?» chiese Marietta, perplessa.
Oscar fece un sorrisetto strano, la prese per una manica e la
trascinò verso una tela coperta da un panno bianco.
«Ricordi quando ti chiesi di provare a posare per un
ritratto?»
«Sì, fin troppo bene. Non so nemmeno
perché insistesti tanto, dato che non potrebbe esserci un
soggetto peggiore di me per un quadro» rispose Marietta,
sfiorandosi inconsapevolmente la grossa ustione che le apriva sul volto
una macchia rossastra. «Non vedo, comunque, cosa
c’entri con questo il quadro di cui parla il
giornale.»
«C’entra perché il tuo ritratto
è quel quadro» rispose Oscar, e scoprì
la tela nascosta.
Marietta trattenne il fiato, sconvolta: dalla tela un viso serio dagli
occhi grandi e intensi e i lunghi capelli ricci la scrutava con
distacco, come se stesse fissando qualcosa di molto lontano. E quel
viso era il suo, per quanto l’ustione fosse un po’
meno estesa della realtà.
«Che cosa…?» balbettò,
frastornata.
«L’ho finito tre giorni fa e l’ho portato
alla galleria di Nocturnal Square, quella dietro alla Gringott: il
custode, Jacques, è un mio amico e l’ho convinto a
lasciarmi esporlo lì con quello di altri artisti
più famosi. Salvador Russian, il critico della Gazzetta del Profeta,
l’ha visto e ne è rimasto così colpito
che ha deciso di scriverci un articolo e di fargli una foto: guarda,
c’è anche sul giornale. Vedi?»
Marietta abbassò lo sguardo sulla pagina e vide i propri
occhi ricambiarle lo sguardo da una piccola foto a lato della colonna
che non aveva nemmeno notato.
La didascalia, in piccolo, recitava: Vergine del fuoco, di Oscar
Hugo. Modella anonima.
«Non ho dato loro il nome della modella, anche se hanno
insistito per saperlo. Avrei dovuto?» chiese lui, preoccupato.
Marietta scosse il capo, ancora troppo sopraffatta per poter parlare.
«Tremila galeoni, Marietta» mormorò
Oscar, esaltato. «Ti rendi conto di cosa significa?»
Marietta non rispose.
No, non se ne rendeva conto; o, perlomeno, non ci riusciva: un quadro
con il suo viso stimato a quella cifra era qualcosa di impossibile da
concepire.
Il suo viso, quello stesso viso che per anni aveva nascosto al mondo,
che per anni aveva occultato, che aveva stravolto, sprofondandolo di
proposito nella fiamma viva del Fuoco Draconiano. Il suo viso che
odiava, che temeva, che disprezzava. Il suo viso, che Roger le aveva
accarezzato una notte, senza saperne le reali fattezze. E che Ruben
Armstrong le aveva curato con tutto l’amore della sua anima
silenziosa e introversa.
Vergine del fuoco.
Marietta fissò il suo ritratto, che sedeva nel quadro con
aria impassibile, come se ormai niente del mondo la riguardasse. Come
se il fuoco che l’aveva toccata da così vicino
avesse bruciato ogni tristezza, ogni paura, ogni traccia di rancore o
di colpa. Come se l’avesse purificata.
Vergine del fuoco.
Un titolo azzeccato.
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Capitolo 2 *** Capitolo II ***
Capitolo II
Diagon Alley, 11 Febbraio
«Questa storia della Nuova Moratoria non mi
piace nemmeno un po’. In questo modo praticamente tutti i
ladri e i truffatori verranno rimessi in libertà e quelli a
piede libero non potranno più essere arrestati. E’
vergognoso!»
«Io invece credo che non sia una cattiva idea. Dopotutto
quanti, dopo essere stati in prigione, si reintegrano nella
società? Non vengono nemmeno assunti se non per i lavori
più degradanti a causa del loro passato, si immagini! La
prigione non fa altro che alienarli ancor più dalle altre
persone.»
«Sciocchezze. Secondo me questo dimostra maggiormente che se
una persona è abituata a comportarsi male, lo
continuerà a fare. Al massimo si dovrebbero rieducare una
volta usciti di prigione, ma eliminare la pena per un delitto compiuto
non fa altro che incoraggiare i malviventi a perseguire nelle loro
azioni criminose.»
«Non sono d’accordo! Ci sono ex-detenuti che sono
riusciti a farsi strada nel mondo grazie ad alcune
opportunità, il che dimostra che chi entra in prigione non
è irrecuperabile, ma stare rinchiuso per mesi in una cella
fredda e umida non lo aiuta di certo a riprendersi. Guardi Roger
Davies, il fondatore della Davies
Verdigris, che in tre anni ha superato la
Firebolt&co in vendite di scope da corsa.»
«Roger Davies è la dimostrazione del fatto che
anche se uno finisce in prigione, può ricominciare con le
sue forze, senza indulti nazionali anche a tutti gli altri
criminali!»
Marietta sorrise e spense la radio. Chissà
perché, ma aveva la sensazione che Roger non avrebbe
confermato nessuna delle supposizioni dei due giornalisti.
Se li sentisse,
probabilmente li manderebbe tranquillamente tutti a raccattare
escrementi di drago, pensò tra sé,
ridacchiando.
Era felice di aver mantenuto i contatti con lui nonostante si fosse
trasferito da tanto tempo in Canada e avesse una ditta da dirigere. Una
volta era anche venuto a trovarla e le aveva offerto un lavoro, ma
Marietta aveva rifiutato: si era affezionata troppo a Oscar per
lasciarlo ora che aveva bisogno di lei.
«Sta’ attenta che non s’innamori pure lui
di te! Hai un ascendente poco salutare sui tuoi datori di
lavoro» le aveva raccomandato Roger scherzosamente.
Marietta non aveva replicato: il pensiero di Ruben Armstrong era ancora
una ferita aperta del suo passato, l’unica mai guarita.
Quando era uscita di prigione, era andata a cercarlo a Ilkley Moor.
«Ti
aspetterò sempre» le aveva
detto.
Non aveva mantenuto la promessa: Marietta era stata alla sua vecchia
casa, ma l’aveva trovata chiusa e abbandonata, e lo stesso
per la propria. Il magazzino era stato smantellato da mesi, ormai, e
Cho non sapeva nulla.
Così aveva rinunciato, abbattuta.
Aveva pensato a Ruben spesso, durante il soggiorno ad Azkaban,
più spesso di quanto potesse immaginare. L’aveva
considerato un datore di lavoro e un amico, e forse addirittura un
eroe, quando l’aveva salvata dopo che era entrata nella
caldaia, ma nulla di più. Niente di più profondo.
Eppure le mancava, più di quanto non le mancassero sua
madre, o Roger, o Cho. Le mancavano la sua presenza rassicurante, i
suoi sguardi eloquenti, i suoi silenzi carichi di significato.
Ruben era stato la sua famiglia più di chiunque altro. Era
stato il suo sostegno.
E ora, ora che l’aveva perso probabilmente per sempre, si
chiedeva se avesse mai potuto essere qualcosa di più.
Il cigolio della porta dello scantinato che si apriva la distolse dai
suoi pensieri e Oscar fece il suo ingresso, arzillo come non mai.
«Quante offerte alla galleria, oggi?» chiese lei
con un sorriso.
«Sei, tutte sopra i tremilacinquecento galeoni»
rispose Oscar allegramente. «Sette, a dire la
verità, ma l’ultimo era chiaramente un giornalista
che voleva intervistarti, dato che mi ha chiesto di incontrarti e sono
riuscito a liberarmene solo dopo un quarto d’ora.»
Marietta tirò un sospiro di sollievo. Non aveva nessuna
voglia di apparire sui giornali di tutta la Londra magica come un
animale da esposizione diventato improvvisamente interessante.
«Comunque ho incassato la percentuale delle vendite dei
biglietti della galleria di oggi e possiamo andare a mangiare fuori,
magari al Paiolo Magico. E’ meraviglioso, non trovi? Ho anche
comprato una nuova cravatta da mettere… ma
dov’è? L’avevo messa qui, ero
sicuro…» Frugò con le mani nelle
numerose tasche del suo mantello e ne fece uscire oggetti di tutti i
tipi, dai pennelli agli yo-yo, ma della cravatta nemmeno
l’ombra. «Oh, che sbadato!»
borbottò, accigliato. «Devo averla lasciata alla
galleria quando mi sono fermato a chiacchierare con Jacques. Non
importa, vado a riprenderla.»
«Vado io» lo frenò Marietta, alzandosi e
recuperando la giacca. «Tu per oggi hai già preso
abbastanza freddo, Oscar. Ricordati i tuoi reumatismi.»
«Oh, non importa!» esclamò il vecchio,
battendo le mani con allegria. «Con i soldi della vendita
della Vergine del fuoco
potrò comprarmi tonnellate di barattoli di Unguento
Antireumatico di Madama Sweetheart!»
Marietta sospirò, lo costrinse a togliersi la giacca e lo
fece sedere sul divano rappezzato all’angolo della cantina
con una tazza di tè caldo in mano.
«Vado a prendere la cravatta e torno» si
raccomandò, e uscì.
La nebbia era ancora fittissima e il buio era calato da un pezzo:
raggiunse in fretta la galleria di Nocturnal Square e si
tirò su la sciarpa fino al naso prima di entrare, sperando
che ci fosse poca gente ora che era quasi orario di chiusura. Non le
andava di farsi riconoscere da qualche visitatore, soprattutto il
giornalista di cui aveva parlato Oscar.
«Ciao, Marietta» la salutò Jacques
all’ingresso. «A momenti non ti riconoscevo. Fa
freddo, fuori?»
Marietta sorrise al custode della galleria, un uomo sulla cinquantina
dalla calvizie incipiente e una sviscerata passione per il verde
–come si notava dai suoi vestiti, quel giorno tutti color
smeraldo.
«Abbastanza» disse Marietta. «Sono venuta
a recuperare la cravatta nuova di Oscar. Ha detto di averla dimenticata
qui.»
«Ah, certo! Aspetta, dove l’ho messa…
eccola!» Ed estrasse dal cassetto in cui stava frugando un
sacchetto di cartone con lo stemma di Madama McClan.
Marietta lo prese ringraziando il custode.
«Non hai voglia di dare un’occhiata alla galleria,
già che sei qui?» chiese lui, indicando
l’interno della sala. «Non sei più
venuta da quando il tuo quadro è diventato un nostro ospite
fisso, e abbiamo sistemato alcuni nuovi arrivi. Ti va di
vederli?»
Marietta guardò verso l’interno della sala,
incuriosita. «Beh, a dire il vero sì,
ma…»
«Su, vai» la incoraggiò Jacques con un
cenno. «Tanto ormai non c’è quasi
più nessuno e puoi guardare con tutta calma.»
Lei sorrise. «D’accordo, grazie. Darò
un’occhiata veloce.»
Jacques le fece l’occhiolino. «Buona visita. E
attenta» aggiunse, serio. «Davanti al tuo quadro
c’è ancora il giornalista di cui Oscar si
è liberato, ma non credo si accorgerà di te:
è troppo ipnotizzato dalla Vergine.»
Marietta annuì e si nascose meglio il viso con la sciarpa.
Ricordò quando lo faceva sempre qualche anno prima: un gesto
abituale tutte le mattine, quando entrava nel Magazzino dove lavorava
con Ruben. Sentì la malinconia assalirla e si accorse solo
dopo qualche attimo di ritrovarsi di fronte al proprio ritratto, al
posto d’onore vicino all’ingresso della sala, che
ricambiava il suo sguardo con un’espressione calma e
imperturbabile.
C’era qualcun altro a osservarlo: un uomo alto, massiccio e
dalla pelle scura. La sentì arrivare, evidentemente,
perché si voltò e la vide.
«Cub.»
Un sogno: Marietta doveva esserci appena sprofondata. Un sogno
impossibile.
«Ruben» mormorò, incredula.
L’uomo di fronte a lei fece un cenno d’assenso.
«Sei… sei proprio tu?» chiese lei.
Lui assentì di nuovo, senza parlare.
Era proprio Ruben. Ruben Armstrong in persona, avvolto in un grande
mantello nero, i capelli tagliati e la barba corta. Ruben Armstrong,
che parlava a cenni e non a parole, che la fissava dall’alto
in basso senza per questo farla sentire inferiore. Ruben, che
l’aveva amata profondamente e silenziosamente per anni, prima
di Azkaban.
«Che cosa fai qui?» chiese Marietta che ancora
stentava a credere che quella di fronte a lei non fosse
un’apparizione ma qualcosa di reale.
Ruben rispose senza alcuna esitazione. «Ti
aspettavo.»
----------
In
diversi, alla conclusione di Verderame,
mi avevano fatto qualche domanda sul fatto che Ruben e Marietta, dopo
Azkaban, si sarebbero ritrovati, perciò ho deciso di provare
a immaginare un loro incontro successivo. Con questo non voglio dire
che in soli tre capitoli riuscirò a spiegare il motivo per
cui poi non si separeranno più, ma almeno di dare un
indizio, una possibilità per entrambi.
Se ci sono riuscita, bene, altrimenti pazienza: scrivere qualcosa per
me rimane sempre e comunque un piacere, raramente poco di
più.
Al prossimo e -già- ultimo capitolo, stasera ^-^
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Capitolo 3 *** Capitolo III ***
Capitolo III
Diagon Alley, 11 febbraio.
Ruben non era il Principe delle fiabe.
Non era senza macchia e senza paura: aveva partecipato al commercio
clandestino di oggetti oscuri e ci aveva guadagnato un mucchio di
soldi. Non era bello o avvenente, ma scuro, nerboruto e scontroso. Non
era ricco, se non di volontà. L’aveva salvata una
volta, non da un drago o un assassino, ma semplicemente da se stessa. E
non le aveva mai promesso nulla per il futuro tranne che
l’avrebbe aspettata; ma quella promessa non era stata
mantenuta.
O così lei aveva creduto. Fino a quel momento.
«Stavo ancora aspettando che venissi da me» le
rivelò, fissandola con un’intensità
tanto forte da ferirla.
«Ma io sono venuta!» replicò lei,
sconvolta. «Ti ho cercato ovunque, quando sono uscita di
prigione: la mia casa, la tua, Ilkley Moor…
ovunque!»
«Non potevo aspettarti in Inghilterra»
replicò lui, pacato. «Non finché ci
fosse stato un mandato di cattura sulla mia testa: se mi avessero
arrestato e tu fossi uscita di prigione non avrei potuto mantenere la
promessa.»
«La Nuova Moratoria…» mormorò
Marietta, improvvisamente consapevole. «Sei tornato quando
hanno dato l’indulto per tutti i crimini minori.»
Ruben annuì. «Ho visto la foto del tuo ritratto
sul giornale e sono venuto a vederlo approfittando della
Moratoria» confessò. «Ho pensato che se
non avessi voluto tornare da me, avrei potuto almeno vedere il tuo
volto in un quadro.»
«Io volevo venire da te!» replicò lei,
concitata. «Ma dove sei stato? Come potevi aspettarmi davvero
se eri in un posto che non potevo trovare?»
«Io sono sempre stato rintracciabile»
ribatté Ruben. «Ho lasciato il mio indirizzo nella
tasca del tuo mantello il giorno in cui te ne sei andata via da
me.»
Marietta batté le palpebre. Il mantello? Quale mantello?
Poi ricordò: prima di entrare in prigione indossava un
mantello nero che le aveva dato Ruben quando l’aveva lasciato
solo nella stanza del motel in Francia dov’erano fuggiti per
non farsi prendere dagli Auror. Che ne era stato di quel mantello?
«E’ uno degli abiti che non mi hanno mai
restituito!» esclamò, inorridita.
Ruben aggrottò la fronte. «Che cosa?»
«Quando sono entrata ad Azkaban mi hanno confiscato tutti gli
effetti personali tranne quelli di stretta necessità e nove
mesi dopo la maggior parte delle cose era sparita perché era
stata assegnata per errore ad altri prigionieri. Io non ho mai visto da
nessuna parte il tuo indirizzo!»
Ruben rimase un attimo in silenzio, come per assorbire
l’informazione. Poi alzò le spalle. «Non
ha importanza. Alla fine siamo qui lo stesso, no?»
Marietta sentì le lacrime salirle agli occhi. Ruben, il
saldo, impassibile Ruben che le aveva fatto da famiglia, da datore di
lavoro, da amico per tanto tempo era lì, di nuovo accanto a
lei. Ruben, che le era mancato tanto. Troppo.
Lasciò cadere il sacchetto con la cravatta di Oscar a terra
e lo abbracciò, affondando il viso nel suo torace.
«Sì» bisbigliò.
«Siamo qui.»
Ruben la circondò con un braccio.
E poi fu silenzio.
Un silenzio che durò molti, troppi minuti, perché
Jacques dovette venire a chiamarli quando fu l’ora di
chiudere la galleria. Uscirono insieme nell’atmosfera irreale
della sera, sospesa tra la nebbia spettrale e
l’oscurità lugubre che aleggiavano lungo le strade
di Diagon Alley.
«E ora?» chiese Marietta in un sussurro.
Ruben scrollò le spalle. «Possiamo
incamminarci.»
«Insieme?» chiese Marietta, dubbiosa.
«Se lo vuoi.»
Lei si morse le labbra, incerta. «Non so nemmeno io cosa
voglio, o anche solo se c’è qualcosa che
voglio… che voglio da te»
Silenzio. Poi Ruben chiese: «Non vuoi provare a
scoprirlo?»
«Come?»
Ruben le tese la mano. «Andando avanti.»
Un giorno Marietta aveva chiesto a Roger come si fosse innamorato delle
ragazze che aveva avuto.
Lui le aveva risposto nella lettera seguente: “Ci sono molti
modi di innamorarsi: alcuni sono improvvisi e violenti come onde che
s’infrangono su uno scoglio, altri lenti e impercettibili
come le maree.”
Ruben non era un uomo del quale innamorarsi a prima vista; un uomo con
il quale abbandonarsi completamente, senza riflettere; un uomo dal
quale lasciarsi conquistare senza esitazioni.
Ruben non era un Principe.
E la loro storia non era una fiaba.
Niente gesta, niente trionfi, niente impeti o sentieri idilliaci, ma
solo il cammino tortuoso della vita.
Marietta sorrise, ma non prese la mano di Ruben. Non ancora.
Gli fece semplicemente cenno di andare avanti.
«Ti seguo.»
Sono anni che ti aspetto, e ti aspetterò ancora, fino a
quando, finalmente, mi raggiungerai.
Fine.
----------
Un altro
bel finale aperto, alè.
Ora, qualcuno obbietterà che l'amore arriva da solo e non si
può cercare, ma io non credo che Marietta stia forzando la situazione: sta semplicemente lasciando scorrere il corso delle cose, dando una possibilità ad una delle persone più importanti della sua vita.
Poi come e quando si innamorerà di Ruben e, finalmente, lo
raggiungerà e gli darà la mano, be', è
un'altra storia. Chissà se mi verrà voglia di
raccontarla.
A ogni modo per ora è tutto.
Un grazie particolare a Giu per il supporto morale e a tutti voi che avete letto.
Arrivederci al prossimo guizzo d'ispirazione -o iniziativa di Fanworld
-potrebbe essere più vicino di quanto non pensi io o voi xD
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