Dawn

di SHUN DI ANDROMEDA
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Vulcan Night ***
Capitolo 2: *** You're Not The Same ***
Capitolo 3: *** Vulcan Dawn ***



Capitolo 1
*** Vulcan Night ***


DAWN

CAPITOLO UNO

VULCAN NIGHT

 

Molte persone entreranno    
ed usciranno dalla tua vita,   
ma soltanto i veri amici    
lasceranno impronte nel tuo cuore.

Eleanor Roosvelt

 

La grande casa al limitare del deserto era silenziosa.

Il caldo giorno aveva ceduto il posto alla notte, fredda e ventosa, il sonno aveva preso possesso dei corpi di tutti, conducendo le menti verso il meritato riposo.

Turbini di sabbia si alzavano di quando in quando, sollevati dalle forti correnti  d’aria che imperversavano nell’area desertica, il grido solitario dei selhat e dei le-matya rompeva il silenzio della notte; nella grande dimora dell’ambasciatore Sarek, tutte le luci erano spente ormai da ore, ognuno degli abitanti era a riposo nei propri alloggi.

Solo un’ombra scura vagava senza pace per gli ampi corridoi illuminati dalla luce lunare.

La sagoma nervosa dell’ammiraglio James T. Kirk raggiunse la grande terrazza che dava direttamente sulla distesa sabbiosa, inargentata dai raggi dell’astro notturno.

Era inquieto, il celebre ufficiale della Flotta, non sarebbe riuscito a prendere sonno, non quella notte almeno.

Il suo riposo, tormentato da incubi, non era ristoratore, il pensiero del figlio perduto, la vista del suo corpo straziato dai Klingon, il rivedere la propria nave prendere fuoco e percorrere come una stella cadente ormai morente il cielo in tempesta di Genesi, lo sguardo vuoto e privo di luce del suo migliore amico una volta risvegliatosi dal fal-tor-pan…

Con rabbia, strinse i pugni, lasciando vagare il proprio sguardo all’orizzonte, contro il cielo nero si stagliava la sagoma fiera del monte Seleya.

Decisamente non sarebbe riuscito a dormire quella notte, poco importava se il suo corpo reclamava il giusto relax dopo gli sforzi compiuti, poco importava se avesse avuto bisogno di ogni grammo di forza nei giorni a venire.

“Ammiraglio, cosa ci fa ancora in piedi?”

Una gentile voce femminile e preoccupata fece trasalire il comandante dell’Enterprise che si voltò di scatto.

Sulla soglia del terrazzo vide la sagoma sottile e minuta di Lady Amanda, lambita dal chiarore diafano che splendeva nella notte vulcanita, che veniva verso di lui con passo lento e nobile, ritta e fiera, ma il viso dolcemente illuminato da un naturale sorriso; Kirk fece un leggero inchino, “Non riuscivo a prendere sonno.” ammise l’ufficiale, baciandole galantemente la mano.

Lei fece fare: “Dovrebbe invece provare, almeno per qualche ora,” disse con tono calmo e fermo, eppure senza perdere quella serenità innata che la contraddistingueva, “la notte è fatta per dormire, riposare e lasciarsi alle spalle ogni ricordo e paura, per placare l’animo… E sento che lei ne ha un grande bisogno.” concluse, scostando il lungo vestito per poggiarsi al parapetto del ballatoio, nel suo sguardo si specchiavano le stelle di Vulcano.

Jim non rispose, si limitò a poggiare i propri gomiti affianco ai suoi, il viso adagiato sui palmi delle mani.

Nel silenzio placido della notte, si udivano solo i respiri dei due.

“Ho perso mio figlio su Genesi… Ho perso una vecchia, carissima amica, ho rischiato di perdere anche i miei compagni…” sussurrò con un filo di voce il comandante dell’Enterprise, gli occhi lucidi, “e il mio migliore amico…”, Amanda sentì chiaramente il dolore nelle parole dell’ammiraglio e per poco non ne fu sopraffatta: aveva anche lei perduto un figlio, il suo unico figlio, eppure le era stato restituito.

Con autentico affetto e comprensione, ella poggiò con forza le proprie mani sulle spalle di Kirk, gli fece sollevare il viso, sorridendogli maternamente: “Saavik mi ha raccontato tutto… Quel Klingon aveva scelto lei come prima vittima, suo figlio si è gettato su di lui per impedirlo; anche se non lo dava a vedere, era molto scossa, credo che non rientrerà più nella Flotta. David è stato un eroe, della stessa pasta di suo padre, e io non posso non ringraziarla per tutto quello che ha fatto, ammiraglio.” anche lei aveva gli occhi lucidi, “Non pensi al passato, pensi solo che lui vivrà in eterno nei cuori di chi gli ha voluto bene,” affermò, una lacrima silenziosa scivolò lungo la guancia diafana, “e che il suo sacrificio non è stato vano. Lei ha perduto un figlio, ma le resterà in eterno la gratitudine di una madre.” mormorò lei, abbracciandolo.

Per un attimo, Kirk restò stupito dalla reazione della donna, imbarazzato quasi da un contatto così intimo da parte sua, ma non poté non ricambiarne la stretta.

“Jim! Finalmente ti ho trovato!”

La voce seccata di Bones ruppe improvvisamente il silenzio e il dottore comparve sulla soglia del terrazzo.

I due sciolsero l’abbraccio, il medico notò solo in quel momento la presenza della padrona di casa; come già il suo amico, fece un leggero e imbarazzato inchino, seguito dal baciamano: “Non li fanno più uomini così, hanno buttato via lo stampino.” ridacchiò lei, cercando di asciugare furtivamente le lacrime, “Mi scuso Lady Amanda, non l’avevo proprio notata.” disse il vecchio brontolone sorridendole, “Jim, dannazione a te, ti ho cercato dovunque. Il tranquillante che ti ho dato avrebbe dovuto fare ormai effetto.” sbottò poi, tirando fuori dalla tasca l’analizzatore, “Lascia perdere Leonard.” tagliò corto lui, sfregandosi gli occhi per cancellare i segni di commozione, “sto bene… Perché mi stavi cercando?” domandò con curiosità, ravvivandosi i capelli, “Contento tu… Ti stavo cercando perché siamo già tutti in piedi, Scotty e Hikaru hanno insistito per andare dallo Sparviero, hanno buttato giù dal letto anche Pavel e me. Uhura ha sentito il chiasso che hanno fatto e si è unita a noi, manchi solo tu.” borbottò, rimettendo a posto il piccolo apparecchio.

Jim sorrise, annuendo: “Vi raggiungo subito.”.

I tre lasciarono la terrazza, rientrando in casa.

Nessuno si accorse della sagoma umanoide che, lentamente, sbucò dall’ombra.

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 “Notizie dalla Federazione, Pavel?”

“Niente di niente amico! I casi sono due, o le comunicazioni non riescono a filtrare attraverso il sistema dello Sparviero, oppure non ci hanno ancora rintracciato.” esclamò Chekov, levandosi con stizza microfono e cuffia, “E in entrambi i casi, non so se esserne contento oppure no.” concluse, alzandosi dalla sedia.

Sulu annuì, avvicinandosi a lui: “hai ragione, è una cosa insolita… Io propenderei per la prima opzione però, in fondo non hanno ricevuto comunicati da parte nostra, a parte il segnale di esplosione dell’Enterprise… Crederanno che siamo morti nello scoppio.” disse l’asiatico con tono grave.

Chekov scrollò le spalle: “Una seccatura in meno per loro, sei persone in meno da giudicare e condannare ai lavori forzati.” decretò con aria falsamente allegra.

Il giapponese ridacchiò, battendogli una mano sulla spalla: “Non fare quella faccia, non è ancora detto nulla, dobbiamo vedere cosa deciderà l’ammiraglio. Quindi, sta su!” esclamò ottimista il timoniere, procedendo a una analisi totale dei sistemi.

Il russo annuì impercettibilmente, concentrandosi sulla strumentazione.

Un attimo dopo, udirono il sibilo di apertura delle porte e sul ponte comparvero Jim e Leonard; i due ufficiali fecero per alzarsi in piedi ma Kirk li bloccò con un gesto della mano: “Non è necessario… Piuttosto, come mai tutti qui?” chiese con un leggero sorriso, “Volete organizzare una nuova cospirazione senza di me?” domandò, accomodandosi sulla poltrona di comando.

Sulu e Chekov si guardarono, non trattenendo un espressione sollevata: “Semplicemente non riuscivamo a dormire… Checché ne dica il dottore, anche lui era completamente sveglio.” assicurò il russo, guadagnandosi un’occhiataccia da parte del medico brontolone, “Abbiamo pensato che fosse meglio occuparci di dare una sistemata qui, e di fare il punto della situazione.” aggiunse Sulu, poggiando i gomiti sui ginocchi, “E decidere che fare.”.

Un silenzio riflessivo cadde tra loro, i tre sottoposti guardavano il loro comandante in attesa di un qualsivoglia ordine.

Il viso di Kirk si fece pensieroso per qualche istante.

Poi, l’ammiraglio si alzò in piedi, si avvicinò alla console e premette un pulsante: “Scotty, Uhura, dovunque siate, salite da noi, dobbiamo parlare.”.

Mezzo minuto dopo, i due membri mancanti fecero la loro comparsa sulla soglia del turbo ascensore, prendendo posto attorno alla poltrona del comandante, le mani dell’ingegnere erano sporche di grasso e abrase in più punti, la veste della donna era nelle medesime condizioni; fece segno ai suoi uomini di avvicinarsi, prese un bel respiro, guardandoli fissi uno per uno: “La nostra situazione non è per nulla rosea. Se rientriamo nello spazio aereo terrestre, verremo subito presi in consegna e processati per ribellione,” cominciò lentamente, “Ho controllato il regolamento, abbiamo sul groppone nove capi d’accusa, abbastanza da condannarci in toto ai lavori forzati a Rura Penthe, tra neve, ghiaccio, vento e pidocchi.” sbuffò Bones, più per abitudine che per altro.

Sulu e Chekov ridacchiarono sommessamente: “Grazie per la precisazione, Leonard.” affermò sibillino l’ammiraglio, “Ora,” riprese, “la decisione spetta a voi. Io non ho nulla di cui vergognarmi, sono partito in questa avventura per salvare un amico in pericolo e accetterò con tranquillità ogni pena mi verrà commutata. Voi però non siete obbligati a condividere il mio destino, la colpa di tutto è solo mia, potreste restare qui su Vulcano finché le acque non si saranno calmate e…” ma la reazione dei suoi uomini troncò il discorso.

“Con tutto il rispetto, signore, abbiamo deciso noi di venire con lei, e ci assumeremo le nostre responsabilità!” esclamò decisa Uhura, rassettandosi la divisa, “col cavolo che ce ne resteremo qui a diventare sabbia per il deserto!” sbottò Bones, alzandosi in piedi di scatto, “Non dopo tutta la fatica fatta per salvare quell’indisponente demonio dalle orecchie appuntite! Se dobbiamo essere puniti, affronteremo tutto assieme, Jim, siamo coinvolti anche noi, e non solo fisicamente, anche emotivamente!” concluse il medico, incrociando le braccia al petto.

“Soprattutto emotivamente…” borbottò, senza che nessuno udisse le sue ultime parole.

“Grazie per la gentile definizione, dottore.”.

Una voce posata e ferma riecheggiò improvvisamente nel piccolo ambiente, ponendo fine alle discussioni.

I Sei si voltarono in simultanea, scorgendo sulla soglia la sagoma del loro compagno, seguito dal padre, entrambi indossavano le tuniche grigie da viaggio vulcanite.

Jim si alzò incredulo, sgranò gli occhi, mentre l’ex primo ufficiale si avvicinava a loro, sempre seguito da Sarek.

Padre e figlio si fermarono al centro del gruppo, lo sguardo di Spock celava ancora vaghe ombre, anche se era già possibile notare una sorta di luce, più debole rispetto a quella del passato, eppure presente.

“Mia moglie mi ha riferito che vi trovavate tutti qui.” disse l’ambasciatore, poggiando una mano sulla spalla del figlio, “e lui ha insistito per potervi raggiungere.” aggiunse solo, spingendolo delicatamente in avanti; “chiedo il permesso di unirmi a voi.” chiese tranquillo lo scienziato, le lunghe maniche della tunica gli coprivano le mani, i ciuffi neri come l’ebano si stendevano in parte sopra le punte delle orecchie, aveva un’aria così indifesa, lontana anni luce dalla compostezza che aveva esibito con orgoglio per tutta la sua vita.

Uhura, Scotty, Chekov e Sulu non aspettarono risposta dal capitano che già si erano alzati in piedi per farlo passare e sedere a una delle loro postazioni; per un attimo, Spock restò interdetto, guardandoli interrogativamente, quasi attendesse un ordine, ma i sorrisi gentili di Jim e Leonard lo incoraggiarono.

Con passo lento e leggermente goffo, si accomodò al posto di Sulu, intrecciando le dita delle mani.

Con un cenno, l’ammiraglio rassicurò l’ambasciatore, e questi, con un veloce inchino, si congedò, scendendo dalla navicella.

“Bene!” esclamò con aria allegra Bones, “ora che ci siamo finalmente tutti e la decisione è stata presa, possiamo anche uscire da questo puzzolente macinino e starcene qui fuori a parlare, non c’è così freddo da impedircelo!” esclamò convinto, cercando con lo sguardo il supporto di Jim; Kirk scoppiò a ridere, e fu una risata cristallina, contagiosa per tutti, Sulu e Chekov esibivano le loro dentature, e così Uhura e Scotty, che ridevano di gusto.

In pochi istanti, la plancia di comando dello Sparviero sembrò più calda e familiare del normale, per un attimo fu come se fossero sulla loro Enterprise: “D’accordo Leonard, come vuoi.” decretò l’ammiraglio, alzandosi, “Andiamo.” disse dolcemente, guardando con affetto tutti loro negli occhi.

Non poté trattenere un moto di tenerezza nel profondo dell’animo quando vide la sagoma barcollante del suo migliore amico affiancata dal dottore.

Chiacchierando, lasciarono il vascello da guerra, uscendo all’aria aperta.

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“Sarek…”

Il tono calmo e fermo della moglie fece lentamente voltare l’ambasciatore, placidamente disteso tra le lenzuola del grande letto.

Nella semioscurità, egli distinse chiaramente il profilo gentile di Lady Amanda, i grandi occhi chiari puntati con insistenza su di lui, la mano poggiata a sorreggere la testa: “Sarek…” ripeté lei con un filo di voce, “Non c’è ragione di essere preoccupata.” la prevenne l’ambasciatore, “Sono perfettamente in grado di occuparsi di lui, ora come ora, è la cosa migliore da fare…” replicò secco, mettendosi seduto.

Cautamente, la signora lo imitò, il corpo avvolto per tre quarti dal sottile lenzuolo: “Non è di questo che ho paura… è della sua mente…” sussurrò Amanda, cercando nel buio un contatto con il marito, “La rifusione… ha avuto successo, il Katra è tornato, ma Spock ha perso tutti i sentimenti e le sensazioni che il suo essere un sanguemisto comportava, tutto ciò che ha imparato nella sua vita è rimasto solo a livello teorico… Per quanto possa essere rieducato, sarà pur sempre un mezzo umano, educato alla maniera vulcaniana, si, ma privo di quella parte fondamentale che lo caratterizzava… è di questo che sono spaventata… Ci è stato restituito, ma la parte più bella di lui è andata perduta…” gemette.

Per qualche minuto, nella stanza si udirono solo i singhiozzi della donna, a stento trattenuti.

“Sono sicuro che c’è ancora…”

La voce dell’ambasciatore placò per un attimo la disperazione della moglie, che alzò di scatto la testa.

Timidamente, l’indice destro di Sarek raccolse una lacrima dall’occhio di Amanda, gettandola via: “Sono certo che non sia andata interamente persa… Vive ancora, nello spirito dei suoi amici.” continuò serio, “Ora come ora, bisogna solo attendere che la loro vicinanza faccia il suo effetto, a poco a poco, sono sicuro che ritornerà completamente sé stesso; i loro sentimenti nei confronti di Spock sono sinceri, sono forti, più forti di qualunque altra cosa, l’ammiraglio e il dottore soprattutto sono molto legati a nostro figlio.” disse lui, “Illuminazione due.” ordinò poi al computer centrale.

La stanza da letto si rischiarò debolmente.

L’ambasciatore prese nelle sue le mani della moglie, stringendole con amore.

“Starà bene.” la rassicurò.

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La conclusione del canto di Uhura fu accolta con un applauso unanime da parte di tutti i presenti e dai fischi di approvazione di Chekov.

La donna sorrise, poggiando accanto a se lo strumento: “Era da tanto che non cantavo questa canzone!” ammise soddisfatta, “L’ultima volta la cantai per Riley.” disse, “Me lo ricordo, credo che da quel giorno si sia perdutamente innamorato di te!” esclamò Sulu, facendo il verso del vecchio compagno d’equipaggio, “Lo credo anche io, ti stava sempre intorno!” aggiunse il russo, scatenando le risate di Jim, comodamente seduto su una larga pietra dietro di loro.

“Non mi ero mai accorto di questo interesse.” ammise Kirk, incrociando le gambe, “E invece è così, da allora non l’ha più mollata, ogni volta che era fuori turno, le andava dietro come un cagnolino!” sogghignarono i due amici.

“Jim, il dottore e il signor Spock dove sono finiti?” chiese improvvisamente Scotty, guardandosi attorno con fare preoccupato, “ha ragione, è da un po’ che non li vedo più in giro…” borbottò Pavel, guardandosi nervosamente attorno.

Il gruppo scivolò nuovamente nel silenzio.

L’ammiraglio sorrise malinconicamente, alzando lo sguardo al cielo, la volta celeste era trapunta di stelle: “Dovevano parlare di qualcosa di molto importante…” replicò a bassa voce, mentre una leggera brezza fredda prendeva a soffiare su di loro.

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Leonard non era un tipo nervoso.

Irascibile si, ed era uno dei suoi più grandi difetti, ma non si faceva quasi mai prendere dal nervosismo, tranne che in casi eccezionali.

Eppure, in quel momento, ringraziava qualunque Dio per aver inventato la notte; solo così, poteva sperare che il suo compagno non notasse il tremito convulso delle mani e del corpo.

Dannato il suo corpo e le sue reazioni!

Davanti a lui, l’ex ufficiale scientifico lo fissava con sguardo vacuo e quasi triste, spento.

Stava poggiato alla poppa dello sparviero Klingon, le braccia ricoperte dalla tunica abbandonate lungo il corpo magro e sottile, il viso pallido splendeva di una luce irreale sotto lo spettro luminoso emanato dalla luna di Vulcano, i corti capelli neri sembravano brillare di luce propria, dolcemente smossi da una debole brezza.

Ma ciò che lo colpì maggiormente fu l’espressione stanca che permeava tutta la figura che aveva davanti.

Non era mai stato un tipo molto allegro, Leonard l’aveva visto sorridere pochissime volte, talmente poche che si potevano contare sulle dita di una mano, ma non lo aveva mai visto così… spento e sconfitto.

Non aveva mai visto quell’espressione così indifesa.

Per un attimo, si sentì un estraneo.

“Dottore, se è ancora preoccupato per la mia salute, si rassicuri, sto benissimo.”

Bones sbuffò, tirando fuori dalla tasca il tricoder medico e avvicinandosi ulteriormente allo scienziato, la luna avvolse di un delicato candore anche lui: “Questo lo lasci dire a me, non mi sono mai fidato dei metodi Vulcan, e questo lo sa bene!” replicò secco, passando il rilevatore su tutto il corpo del compagno, “E se ricordo ancora come leggere i suoi valori, lei è tutto fuorché in salute…” borbottò, mentre il tricorder rumoreggiava inquietantemente, “Avrebbe dovuto restare a letto.” continuò, riponendo il dispositivo ed estraendo al suo posto una iposiringa pronta all’uso.

“A cosa serve?” domandò con una punta di, Bones ne era sicuro, timore; sorridendo in modo preoccupante, il medico si voltò verso di lui: “A cosa crede che serva?” interloquì sornione, avvicinandola a lui, “Forza, il braccio!” esclamò deciso, rimboccando la manica della tunica.

 

ANGOLO DEL LEMURE VIOLETTO:

Buongiorno!

Ed eccomi a voi con la mia nuova fic in due capitoli!!

Questa volta, l’ho ambientata a metà tra il III e il IV film, subito dopo la rifusione del katra di Spock dal corpo di Bones e poco prima della partenza dei nostri eroi alla volta della Terra^^

Diciamo che è stata una sfida con me stessa, all’inizio, volevo solo approfondire un po’ il ruolo di Amanda nei film, ma poi mi è sfuggito il controllo e sono finita a scrivere questa fic.

Le tematiche di questo racconto dolceamaro sono varie e spero di riuscire ad esprimerle tutte.

L’amicizia, la base della fic, l’unica ragione per cui i Sei dell’Enterprise si trovano su Vulcano, il rapporto strano e allo stesso tempo indissolubile che c’è tra il capitano, il suo primo ufficiale e il medico di bordo, tra i loro quattro compagni e tra tutti loro.

La famiglia, Kirk ha perso David per cercare di recuperare la persona che è quasi un fratello per lui, Amanda deve a Jim e ai suoi compagni la vita del suo unico figlio, Sarek lo stesso.

L’amore, perché io sono una slasher convinta, e anche se piccolo, un accenno alla Spock/Bonny, l’attuale coppia totem, ce lo devo mettere per forza.

La determinazione e la volontà che muovono l’Universo, perché se non avessero davvero voluto salvare Spock, non sarebbero mai partiti, se Chekov, Uhura, Scotty e Sulu non avessero voluto VERAMENTE seguire il loro capitano per andare in soccorso del Primo Ufficiale, forse non sarebbero mai riusciti a riportarlo tra i vivi.

Grazie della lettura, spero di non essere la sola a imbarcarmi in questa avventura.

 

Lo dedico a Maya, Rowen ed Eerya! GRAZIE DI TUTTO!!

KISS

SHUN

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Capitolo 2
*** You're Not The Same ***


DAWN

CAPITOLO 2

YOU'RE NOT THE SAME

 

L’ago s’infilo sottopelle e ne uscì rapidamente, un’unica goccia di sangue smeraldino lambì la pelle arrossata dell’avambraccio.

Il dottore strappò un lembo di tessuto dalla manica della camicia, pulendo con cura e attenzione il punto leso, non si scambiarono né parole né sguardi, le mani del medico operarono con prontezza e sicurezza, senza il minimo tremito.

Qualche attimo dopo e una stretta fasciatura cingeva il braccio sottile dell’ex ufficiale.

Con aria soddisfatta, il medico fece un passo indietro, asciugandosi i palmi delle mani madidi di sudore sulla stoffa dei pantaloni scuri: “Ecco fatto, per un po’ dovrebbe bastare.” borbottò, poggiandosi contro lo Sparviero con le braccia incrociate sul petto, “ma è solo un rimedio temporaneo, fino alla nostra partenza dovrebbe restare a letto.” sbuffò, riponendo l’iposiringa nel taschino della giacca.

L’alieno guardò con curiosità il bendaggio candido: “Dottore, la ringrazio per il suo interessamento, ma sto benissimo, non c’è bisogno di tutto questo…” provò a dire, ma la reazione furibonda e inaspettata del medico lo colse del tutto impreparato.

Leonard lo afferrò per un polso, quasi torcendoglielo, per poi farlo sbattere con la schiena contro la carlinga della nave, i suoi occhi sembravano mandare lampi di rabbia: “Bene, bene… Dite tutti che state bene e invece siete ridotti peggio di un relitto! Ma quando imparerete a dare ascolto a qualcuno che ne sa più di voi?? Quando imparerete tu e Jim a darmi retta una buona volta?? Non stai bene! E se lo dico, lo so! Due settimane, due maledette settimane col tuo katra che mi galleggiava nel cervello mi hanno insegnato molte cose di te! Quello che ti è accaduto è stato un vero e proprio miracolo, eri morto! Morto!” calcò con rabbia e frustrazione sull’ultima parola, “sono stato io a controfirmare il rapporto di Christine dopo le opportune analisi! Eri morto, le radiazioni ti avevano ucciso. Ero accanto a Jim quando Hikaru e Pavel ti hanno messo nella capsula, ero lì mentre la lanciavano fuori dall’Enterprise, l’ho vista sparire nell’atmosfera di Genesi…” la sua voce si dissolse in un debole sussurro.

Bones mollò la presa, lasciandosi cadere a terra, sul terreno polveroso.

“E ciononostante, sei ancora vivo… e ti ostini a dire che stai bene…!” farfugliò, scuotendo la testa sconsolato, “Al diavolo i precetti vulcaniani! Sei un mezzo umano, non potrai negarlo per sempre!” sbottò, alzando lo sguardo velato di lacrime, “non c’è nulla di sbagliato nell’ammettere le proprie debolezze e le proprie sofferenze.” concluse, sedendosi faticosamente.

Il vento si alzò, soffiando caldo su di loro.

Spock lo fissò severamente: “Dottore, credo che lei la stia prendendo un po’ troppo male.” disse con tono posato, tendendogli una mano per rialzarsi; il medico la guardò per qualche istante, poi la colpi col dorso della propria, quasi con disgusto, “Non riesci a ingannarmi, né a fingere una sicurezza che non hai più. Potrai imbrogliare Jim e gli altri quanto vuoi, ma questo giochetto non ti riesce con me, non ti è mai riuscito.” disse, facendo per alzarsi da solo.

All’improvviso, si ritrovò coi piedi che spenzolavano a qualche centimetro da terra, i suoi profondi occhi azzurri si ritrovarono immersi in quella distesa nera come l’ebano che era lo sguardo del Vulcaniano.

Il respiro gli si mozzò in gola, sentiva distintamente la stoffa della camicia strapparsi sul colletto, sentiva la pelle sfregarsi contro il tessuto ruvido, la sentiva bruciare.

Tentò debolmente di divincolarsi, ma quegli occhi sembravano tenerlo soggiogato, come i cobra seguono incantati i loro ammaestratori; all’improvviso, quella strana possessione s’interruppe con dolorosa violenza e il CMO si ritrovò inginocchiato a terra, col fiato mozzo, i pugni stretti ad afferrare la sabbia fredda, che sfuggiva alle sue mani come il fumo.

La schiena e tutto il suo corpo tremavano, aveva freddo, percepiva attorno a sé un gelo che gli penetrava sin nelle ossa, strappandogli quella parvenza di calore che a stento era riuscito a conservare.

Si sentì in un attimo fragile e indifeso come non mai.

Socchiuse gli occhi, lasciandosi andare alla debolezza che lo assaliva a ondate continue.

Ma qualcuno lo sorresse, impedendogli di scivolare nell’incoscienza, una presa ferma ma gentile sulle sue spalle fermò la sua lenta e inesorabile caduta verso il terreno sabbioso; una mano fresca gli sfiorò la fronte, facendolo rabbrividire ulteriormente, ma era diverso dal freddo che aveva provato poco prima, era quasi un sollievo.

Aprì lentamente un occhio, trovandosi davanti il viso dello scienziato.

Istintivamente, cercò di muoversi, ma sembrava quasi che il suo corpo si stesse rifiutando palesemente di assecondare gli ordini del cervello; imprecando a mezza voce, si puntellò col gomito a terra, .

“Le chiedo scusa dottore, non volevo… è stato un atto puramente istintivo.” mormorò il Vulcan, “Istintivo…?” sussurrò il medico con tono stupito, “Si… non ho ancora un totale controllo del mio corpo e della mia mente, non era mia intenzione nuocerle in questo modo. Ma dovrebbe già cominciare a riprendere sensibilità agli arti.” concluse Spock, aiutandolo ad alzarsi.

Il CMO sentì le gambe, innaturalmente rigide, scricchiolare sotto il suo peso, un dolore improvviso al ginocchio lo sbilanciò a tal punto che quasi si ritrovò in terra, ma riuscì ad aggrapparsi al braccio dell’alieno, seppur con fatica: “Beh, grazie tante… Mi sento come se mi fosse caduta addosso una delle gondole di curvatura dell’Enterprise.” disse con voce strozzata e roca, mentre Spock lo poggiava con la schiena contro lo scafo metallico, gelido per il contatto con il freddo vento notturno.

“Io credo… sia meglio ritornare dagli altri.” osservò critico il compagno, allontanandosi tra le ombre della notte; Bones lo guardò con espressione a metà tra lo sconvolto e il seccato, una miriade di emozioni contrastanti e di parole si agitavano dentro di lui, ma erano troppe per dare voce a tutte.

“Non riuscirai in eterno a evitare di rispondere alle mie domande…” borbottò arrabbiato, seguendolo.

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Un leggero e ritmico bussare accarezzò l’orecchio del giovane tenente Saavik, che si rizzò di scatto sul letto, svegliata da quel rumore così inaspettato nel cuore della notte.

Tese l’udito, riconoscendo con stupore la voce della madre che parlava a bassa voce con qualcuno, qualcuno che, però, non riusciva a riconoscere.

Sfregandosi stancamente gli occhi, scese dal giaciglio e afferrò la vestaglia accanto al comodino, poggiata sulla sedia; drappeggiandosela addosso, aprì la porta e uscì nel corridoio debolmente illuminato; a piedi nudi, in silenzio totale, la giovane donna percorse l’andito e raggiunse le scale che portavano al piano inferiore; lì, la luce era un poco più intensa, sufficiente a ferirle gli occhi, abituati alla penombra della sua stanza e del sonno.

Si sporse leggermente dal corrimano, notando una figura femminile e aggraziata sulla porta, un semplice mantello grigio a proteggerla dal vento e dalla polvere, il viso solcato da rughe e da una buona dose di stanchezza.

La riconobbe, non senza un certo stupore, e come avrebbe potuto non riconoscerla?

“Lady Amanda,” disse, sentì la propria voce risuonare ancora impastata di sonno, “è successo qualcosa?” chiese, scendendo le scale; la sposa dell’ambasciatore alzò improvvisa la testa, sorridendo nel notarla in cima alle scale, un sorriso dolce e gentile; si avvicinò a lei, afferrandole entrambe le mani e stringendole piano nelle proprie: “Mi spiace di averti disturbato, so che stavi riposando, ma ho bisogno di parlarti.”.

Saavik si voltò di scatto verso la madre, ma la donna era già scomparsa, sparita tra le ombre della notte.

Con un sospiro, la donna annuì: “Venga, spostiamoci in cucina. Lì fa più caldo.” concluse, non senza provare qualcosa che, se fosse stata umana, non avrebbe esitato a definire imbarazzo.

L’ambiente in cui entrarono era piccolo ma accogliente, pulito e intiepidito dalla presenza di una sorta di termosifone posto in un angolo della stanza; l’ufficiale fece sedere Lady Grayson a capo della tavolata in legno grezzo al centro del tinello prima di spostarsi davanti ai fornelli.

Ella armeggiò per qualche minuto con l’acqua e un bollitore in metallo, prima di poggiare sul piano ligneo un vassoio con tazze e una ciotola di maiolica decorata, ricolma di erbe essiccate; una teiera seguì subito dopo, fumante d’acqua bollente.

La preparazione del tè si svolse nel silenzio più assoluto, e fu solo dopo che entrambe le tazze vennero riempite della calda bevanda che Saavik si decise a parlare: “Signora, cosa è successo?” insistette, guardandola con aria interrogativa, “perché è venuta sin qui? È pericoloso girare di notte.”.

Amanda sfiorò con le dita sottili il bordo della tazzina, persa in chissà quali pensieri, poi alzò di scatto la testa, guardando la Vulcan negli occhi: “Saavik, mio marito mi ha detto che hai intenzione di lasciare la Flotta Stellare.” disse repentina, intrecciando le dita dinanzi a sé, “Perché? “.

La domanda della donna colse del tutto impreparata il tenente, che abbassò lo sguardo: “Credevo ti trovassi bene nella Flotta…” continuò la signora con tono materno, “Perché vuoi gettare al vento questi ultimi cinque anni? Sarebbe uno sbaglio.” concluse.

La giovane tenne ostinatamente lo sguardo basso, i bei riccioli neri spettinati e arruffati dal contatto col cuscino la facevano sembrare più umana e indifesa di quanto non fosse, un sussulto impercettibile seguì le parole dell’anziana signora; quando la sua voce riprese a uscire, era stridula e leggermente incrinata, la dama non l’aveva mai vista così.

“David è morto davanti ai miei occhi… Avrei dovuto essere io al suo posto. Eppure, sento ancora il mio cuore battere, mentre il suo si è fermato e il suo corpo è ormai pulviscolo stellare. Quando sono entrata nella Flotta, credevo che nulla avrebbe potuto fermarmi, ho confuso la mia superbia con la logica, ho creduto che la mia logica avrebbe potuto superare ogni cosa. Ma mi sbagliavo. David Markus è morto, senza che io potessi fare nulla per impedirlo.” sussurrò, “quando superai l’esame per diventare cadetto e venni assegnata sotto il comando di suo figlio, avevo la certezza matematica che nulla potesse andare storto. Eppure, dopo l’esame della Kobayashi Maru, la situazione è solo peggiorata, culminando con la morte del capitano Spock e di David; e in tutto questo, non c’è logica.”.

Il tono amaro e, disilluso?, di Saavik colpì molto Amanda, non era abituata a un simile scoppio emotivo da parte di un Vulcan, perché di emotività si trattava, abilmente dissimulata sotto un velo di autocontrollo, ma non poteva avere altro nome.

Tutti quegli anni passati al fianco dell’ambasciatore Sarek le avevano insegnato molto, capiva bene ciò che quella ragazza nascondeva e provava.

Strano come in poco tempo la vita possa essere sconvolta in tal modo.

“La vita non è logica, Saavik…” mormorò, facendole alzare lo sguardo, una lacrima solitaria e fredda scivolò lungo la guancia pallida dell’ufficiale, “non c’è logica nelle sofferenze e nel dolore. Non c’è logica nel perdere un amico, un fratello… un figlio,” dichiarò la donna, “l’Universo è troppo grande e imprevedibile per essere tenuto sotto controllo ed è una cosa che devi imparare il prima possibile. Ma la vita è bella anche per questo, amara ma bella, e devi continuare a viverla.” interloquì, sollevando la tazza; un sorso di tè ormai intiepidito le sciabordò nello stomaco.

“Sono confusa…” ammise la Vulcan, “Confusa… Non riesco a capire.” disse con tono quasi spento.

Amanda le prese le mani, stringendole come avrebbe fatto con il figlio: “Capirai. Ma non devi gettare al vento i tuoi sforzi, resta nella Flotta, e vedrai che presto ti sarà chiara ogni cosa.” le disse, “Vivi, Saavik. Vivi anche per David.”.

§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§

I giorni che si susseguirono furono frenetici.

I lavori di riparazione dello Sparviero Klingon procedettero lentamente, sotto il cocente calore del Sole vulcanita e tra la polvere rossastra del deserto, che s’appiccicava alla pelle sudata come le mosche alla carta moschicida.

Tutto attorno al vascello era un fervore di attività e rumori, sibili di cuscinetti a sfera e grida di richiamo.

Tecnici ed esperti lavoravano alacremente giorno e notte, metri e metri di fibre ottiche e cavi serpeggiavano attorno a ogni parte metallica, e non, dello scafo, casse di pezzi di ricambio giacevano abbandonate al limitare del cantiere, parti ormai inservibili di motore erano gettate alla stregua di cadaveri in semplici mucchi accanto ai cassoni, a ogni passo non era impossibile imbattersi in qualche pozza d’olio bruciato oppure in qualche rottame.

All’interno, dove la temperatura era forse più sopportabile, la chioma ricciuta di Uhura era l’unica cosa che spuntava della donna da sotto la consolle di comunicazione; completamente immersa nell’intrico di collegamenti ottici, il comandante cercava di risintonizzare le frequenze di bordo su quelle della Flotta.

“Uff, così non va…” sbuffò, asciugandosi con la manica il sudore dalla fronte, “è più difficile del previsto…” ammise, massaggiandosi il collo indolenzito, “Pavel! Vieni un attimo?”, la voce dell’ufficiale raggiunse l’orecchio del russo, seduto alla sua postazione con l’occhio sul radar; si voltò, alzandosi, un sorriso divertito gli increspò spontaneo le labbra, vedendo i ciuffi nerissimi della compagna ondeggiare a ogni movimento.

Si poggiò coi gomiti sul bordo del pannello, sporgendosi quel tanto che bastava per farsi vedere: “Cosa succede?” domandò; Uhura si spostò leggermente per guardarlo in viso, la sua pelle era madida di sudore e trasfigurata in una smorfia di disappunto e stanchezza, “Non riesco a interfacciare le comunicazioni del Comando, il sistema non risponde alle istruzioni che ho dato al computer centrale.” dichiarò lei, sfregando i palmi sudati sui pantaloni della divisa; il russo si inginocchiò accanto a lei, scoccando un’occhiata critica all’ammasso inestricabile di allacci elettronici che penzolavano inerti, sfiorando il pavimento.

“Ma che diavolo…?” imprecò a mezza voce, armeggiando per qualche istante con lo spinotto più vicino, quasi completamente fuso; un paio di scintille avvilupparono la struttura plastica, colpendo dolorosamente le punte delle dita dell’uomo, Chekov si ritrasse come se si fosse scottato: “Ahia!” esclamò, massaggiandosi la parte lesa e mollando il frammento plastico, “Maledizione… è tutto in sovraccarico, devi staccare l’impianto e lavorare a freddo, oppure rischi di prendere una brutta scossa e bruciare l’intera struttura.” affermò serio, alzandosi e aiutando la compagna a fare altrettanto.

La donna sospirò, armeggiando con i dispositivi di controllo: “così facendo sarà tutto molto più lungo… Dannata tecnologia Klingon, inutile come i suoi creatori…” sbuffò lei amareggiata, cominciando a staccare alcuni cavi ormai inservibili e a gettarli in un angolo.

Pavel si sedette sulla poltroncina: “Io non ho ancora finito coi radar ma finché Hikaru non rientra non posso proseguire con il caricamento delle mappe, posso darti una mano.” propose il russo, passandole alcune chiavi.

§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§

“Leonard, mi spiegheresti il senso di questa tua idea?”

La voce di Scotty giunse attutita, coperta in parte dal rumore delle turbine, il volto del capo ingegnere sbucò, sporco di grasso e olio bruciato, da sotto un pesante portellone; i vispi occhietti dello scozzese saettarono dubbiosi verso il medico, seduto comodamente a gambe incrociate su una cassa di legno abbandonata in un angolo della sala macchine, il gilet piegato e depositato accanto, c’era troppo caldo là sotto: “non possiamo dare il nome Enterprise ad un vascello Klingon!” esclamò schifato il dottore, “Sarebbe un insulto alla nostra gloriosa nave! E poiché noi siamo, in un certo qual senso, degli ammutinati, perché no?” argomentò, puntellandosi coi palmi sui ginocchi, “Ho capito, ma diavolo! Già è difficile accettare che l’Enterprise non ci sia più…”, la voce di Scott, di solito allegra, risonante e gioviale, si abbassò di un’ottava, “ma dare un nome allo scafo di quei bastardi di Klingon mi sembra quasi tradire la sua memoria.”.

Bones sospirò, stringendo i pugni: “Lo so, è triste pensare che, dopo più di vent’anni, l’Enterprise non ci sia più; la nostra nave ci ha servito fedelmente e la sua carriera si è conclusa per salvarci; ma adesso, è questa quella che ci riporterà a casa,” dichiarò, dando un colpetto alla parete metallica col dorso della mano, “e forse è meglio dargli un nome diverso da quello che quel pazzo di Kruge, o chi per lui, gli ha dato. Non ho alcuna intenzione di rientrare nello spazio aereo terrestre a bordo di una “Lampo di Guerra” o “Furia Animale”, o con qualunque altro nome bislacco l’abbiano battezzata, né ora né mai!”.

Una sonora risata riecheggiò tra le quattro mura metalliche, una manata s’abbatté implacabile sulla schiena del medico, mozzandogli il respiro: “Hai perfettamente ragione! E sono certo che anche all’ammiraglio e agli altri andrà bene!” esclamò Scotty, strappando un sorriso al vecchio brontolone.

In quel preciso momento, l’interfono gracchiò fastidiosamente e la voce, seppur disturbata, del loro comandante risuonò forte: “Scott, Bones, raggiungeteci di sopra.”.

I due amici si guardarono interrogativi: “E adesso cosa succede?” si lamentò il dottore, afferrando il gilet e indossandolo, “Andiamo a vedere, forza.” lo spinse in avanti l’ingegnere.

Una volta in plancia, videro che era del tutto deserta: “Saranno fuori.” decretò Scotty, asciugandosi la fronte imperlata di sudore, “Certo che quassù fa un caldo micidiale!” esclamò, levandosi la giacca della divisa e poggiandola sullo schienale della sedia della postazione tecnica.

“Finalmente! Era ora che arrivaste!” dichiarò l’ammiraglio, sbucando improvvisamente sulla soglia della porta scorrevole, “Mancavate solo voi, dobbiamo prendere una decisione importante.”.

Fuori c’erano già tutti gli altri.

Rivolgendosi un breve e sbrigativo cenno di saluto, i cinque ufficiali della Flotta si disposero in ordine di grado dinanzi al loro comandante; Jim li guardò uno a uno, con uno sguardo colmo di orgoglio: “Signore, sappiamo cosa sta per dire.” affermò improvviso il giapponese, serio come non mai, “Ce l’aveva già chiesto, ricorda? E la risposta non è cambiata.” continuò il russo, “noi resteremo con lei sino alla fine.” concluse la donna.

Per un attimo, l’ammiraglio restò basito, cosa si aspettava? Forse che lo avrebbero ascoltato?

Qualcosa dentro di lui sapeva che non lo avrebbero mai fatto.

Ma diamine, almeno il tempo di parlare!

L’uomo si ravvivò i corti capelli scuri, non sapendo che dire né come agire.

“Beh, non resta che metterla ai voti.” decretò poi, passandoli in rassegna come avrebbe fatto in altri tempi, e come già aveva fatto molto tempo prima.

Ognuno di loro rinnovò il proprio giuramento di fedeltà con decisione e senza esitazione alcuna, le immense solitudini siderali li avevano temprati a ben altre difficoltà e avevano da sempre saputo che, in tali occasioni, non si può solo contare su sé stessi.

Si, forse sarebbero stati processati, ma almeno le loro anime sarebbero state salve.

§§§§

La notte calò rapidamente, il caldo intenso cedette il posto al freddo intenso.

Sarebbe stata la loro ultima notte su Vulcano.

Lo Sparviero Klingon ormai familiarmente ribattezzato “Bounty” riposava come un grande uccello da preda sulla sabbia del deserto, pronto a spiccare il volo al sorgere del Sole, a lasciare l’ospitale nido per gettarsi nel pericolo.

A bordo, il silenzio e la tensione erano così tangibili da poter essere affettati con un coltello, e solo ogni tanto il ticchettio nervoso delle dita del comandante russo alleggeriva l’aria pesante che vi regnava; alla quarta volta, il compagno giapponese lo squadrò torvo, intimandogli con lo sguardo di piantarla e starsene tranquillo.

Ma il più giovane lo ignorò, continuando quel fastidioso rumore.

Sulu allora scattò in piedi, facendo un gran chiasso, che rimbombò a lungo nella plancia muta, con un balzo gli fu davanti, lo afferrò per il colletto e lo sollevò di qualche centimetro, il suo sguardo sprizzava di lampi di rabbia. Per un attimo, Chekov restò sorpreso da quella reazione dell’amico, sgranò gli occhi, cercando di divincolarsi, ormai privo di aria; improvvisamente, l’asiatico mollò la presa, lasciando cadere il compagno a terra, si guardò le mani tremanti, il russo tossì e ansimò, stringendosi un lembo della maglia col pugno, aveva la gola in fiamme.

“Ragazzi.. Cosa diavolo vi prende?” domandò sconvolta Uhura, avvicinandosi a Pavel per aiutarlo a rialzarsi, “Non risolveremo i nostri problemi in questo modo, lo sapete.” disse la donna, facendo sedere il più giovane sulla poltroncina, “Credevo fossimo tutti d’accordo.” li rimbeccò l’africana, guardandoli fisso, “non riesco a capire tutto questo nervosismo!” la sua voce, di solito tranquilla e gentile, si alzò di parecchie ottave, “Mi avete capito?” chiese severa, “Cosa diavolo vi prende?!” ripeté.

I due evitarono testardamente il suo sguardo.

“Allora ve lo dico io cosa vi succede, in tanti anni che vi conosco non avete mai litigato tra di voi, e il fatto che vi siate svegliati adesso indica una sola ragione possibile.“ decretò con tono rabbuiato, “non vi fidate più l’uno dell’altro. Siete spaventati,” incalzò, “e il periodo che avete passato separati non ha fatto altro che aumentare quel divario che vi aveva diviso quando siamo stati tutti riassegnati. E parlo soprattutto per te, Pavel.” disse seria Uhura, fissando coi suoi occhi d’onice quelli più chiari e sfuggenti del compagno, “in questi anni, sei come scomparso. Noi, più o meno, eravamo ancora tutti assieme, tu invece no, non ci sei mai più stato. Sei diventato totalmente un’altra persona e non mi importa nulla della carriera!” sbottò la donna, anticipando la scusa bislacca che il russo, lo sapeva, stava per propinargli.

Sulu si ritrasse istintivamente, intimorito da una simile reazione da parte di Uhura.

“Dove è finito il Pavel Chekov che conoscevamo? Il guardiamarina fifone e sbruffone che mi ha accompagnato su Deep Space K-7, che quando gli ho raccontato di ciò che avevo visto nell’altra dimensione ha riso così tanto da strozzarsi e mi ha preso in giro per settimane? Dove è finito?” chiese lei, prendendo la sua cetra e allontanandosi.

I due restarono in silenzio.

“Io sono qua fuori, quando avrete finito di scannarvi e avrete ripensato alle mie parole, forse rientrerò.”.

Il silenzio si fece più pressante.

Il giapponese era andato a sedersi alla postazione tecnica, lontano da quella che, di solito, divideva con l’amico di sempre.

Per la prima volta, si erano volontariamente separati.

“Nyota ha ragione,” disse improvvisamente Sulu, “Sei cambiato.” notò rammaricato; Chekov ruotò lentamente la poltrona, i loro occhi si incrociarono nuovamente, il più giovane provò una sorta di brivido e imbarazzo, in fondo al cuore sapeva che ciò che l’amico stava dicendo corrispondeva alla verità.

Ma cosa poteva dirgli?

“Siamo tutti cambiati,” cercò di mantenere un tono freddo e distaccato, “Sono passati tanti anni da allora, e io non sono più il ragazzino impulsivo di un tempo.” spiegò a bassa voce, ma perché quelle parole sembravano assurde anche a lui?

“La verità è che ti sei fatto fregare…” borbottò l’asiatico, “la Flotta ti ha trasformato in una pedina, un cane da guardia. Ci ha provato anche col capitano, ma non ci è riuscita. Speravo che anche tu non fossi caduto nella sua trappola, ma mi sbagliavo…” mormorò, facendo per alzarsi.

“NON È VERO!” gridò improvvisamente il tenente, balzando in piedi e stringendo i pugni, “IO NON SONO UNA PEDINA DELLA FLOTTA!” replicò con voce strozzata; tranquillo, Hikaru poggiò il viso sul palmo della mano, puntellandosi con il gomito sul ginocchio: “Dimostramelo, e mi rimangio tutto quello che ho detto.” concluse, socchiudendo gli occhi, in attesa.

Pavel si guardò tremante le mani, come avrebbe potuto?

In un attimo, un esplosione di colori, ricordi e pensieri avvolse la sua mente, il ricordo di tutte le difficoltà che avevano superato nel corso degli anni lo fece sprofondare nel tepore della nostalgia, in ogni ricordo, si vedeva sempre con qualcuno, non era mai stato da solo.

Si sentiva così invincibile quando era con loro, quando era al fianco dei suoi amici di sempre; un ricordo stupido gli era balzato alla mente, quando, assieme a Scott e ad alcuni altri, si era beccato una sgridata dal capitano per aver fatto rissa con dei Klingon su una vecchia stazione spaziale, si rivide giovane, tirando su col naso per far sparire il rivoletto di sangue, regalino di uno degli aggressori. Eppure, aveva provato una vera e propria gioia quando aveva colpito sul muso il klingon che aveva osato insultare la loro nave e il loro capitano.

Il suo servizio sulla Reliant non gli era sembrato mai così cupo e triste, al confronto con l’Enterprise.

Al contrario, lì era solo.

Era semplicemente il primo ufficiale, il suo compito era dare ordini, quello dei suoi sottoposti di obbedirgli.

Nient’altro.

Aveva sbagliato.

Si era fatto fregare come il guardiamarina che, in fondo, sarebbe sempre stato.

“Cos’è, il tribolo ti ha mangiato la lingua?” la voce seria di Sulu lo riscosse dai suoi pensieri; Chekov scosse la testa, alzando finalmente lo sguardo, uno sguardo fiero e scanzonato.

“D’accordo, ammetto di essermi fatto fare fesso come un pivello,” disse rassegnato, strappandosi i gradi di dosso e gettandoli a terra, “Su questa nave non c’è posto per un cagnolino fedele, da questo momento sarò un cane randagio!” esclamò con gran serietà e un risolino a stento trattenuto, quella farsa ebbe l’effetto di far sorridere il giapponese, “Ora ti riconosco!” esclamò allegro l’amico, alzandosi per stringergli la mano, “Baka, bentornato!”.

 

ANGOLO DEL LEMURE VIOLETTO

OK, è necessaria una spiegazione ^^’’’

 

Chiedo scusa, ma la fic non è più di due soli capitoli…

Ma di tre.

Col prossimo sono sicura di concluderla; purtroppo mi sono accorta che certe scene non potevo tagliarle né saltarle e perciò  è necessario dividere la fic in tre, di modo da dare spazio a tutto e a tutti.

Come avete visto, abbiamo fatto una carrellata su tutti, anche su Saavik e Amanda.

Piccole precisazioni: la prima scena, credo, non ha bisogno di spiegazioni, è sufficientemente chiara così. Seconda scena, partiamo dal presupposto che io sono dell’idea che Saavik abbia avuto una breve relazione con , per questo è rimasta sconvolta quando è morto, Amanda lo sapeva e per questo cerca di convincerla a non abbandonare la Flotta.

Terza scena, uno spaccato di vita a bordo del Bounty, con la famosa decisione da parte di Bones del nuovo nome da dare allo Sparviero. Quarta e ultima scena, beh, non può sempre andare tutto bene, no? Qualche litigio rafforza l’amicizia, soprattutto quella di vecchia e lunga data.

Nella prossima, rivedremo Amanda, Spock, Jim e Bones.

RINGRAZIO I MIEI FIDATI RECENSORI, MAYA, EERYA, ROWEN, ABDULLA E PERSEFONE, *inchino* SONO CONTENTA DI ESSERE RIUSCITA A DARE VOCE A TUTTE LE EMOZIONI COME VOLEVO^*^

 

GRAZIE DI CUORE

 

SHUN

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Capitolo 3
*** Vulcan Dawn ***


F

DAWN

CAPITOLO 3

VULCAN DAWN

Le stelle splendevano alte nel cielo nero e scuro, vegliando sul sonno degli abitanti del pianeta.

Un silenzio riflessivo e pacifico aveva avvolto il deserto, rotto di quando in quando dal canto umano e passionale dell’ufficiale della Flotta Nyota Uhura, seduta su una cassa vuota a pochi metri dallo Sparviero. Lo sguardo era perso tra le dune argentate in lontananza, catturato dalle ombre della notte, dai richiami degli animali in caccia che popolavano le distese sabbiose di Vulcano.

Il continuo ciclo della vita e della morte che si ripeteva attorno a lei, la fece riflettere, per la prima volta, in quel lungo esilio.

Tempo non c’era stato, nemmeno per pensare o respirare, tutto era accaduto troppo in fretta e lei non riusciva ancora a capacitarsene.

Suonava meccanicamente, sfiorando piano le corde, beandosi del suono dolce che spandevano a macchia d’olio per ogni dove: non aveva paura! Gli anni nello spazio le avevano insegnato a non averne, ma la sua mente era affollata di pensieri su di sé e sui suoi compagni, e piena di incertezza per il futuro.

L’Enterprise non esisteva più, e loro?

Erano morti con lei, o avrebbero trovato il modo di ritrovare quello che avevano perso?

Il cuore si riempì di dolcezza e affetto pensando a quella sera di pochi mesi prima: il vento che s’alzava sul deserto, la sabbia rossa negli occhi, e il ritmico rumore delle trombe vulcanite che componevano il corteo che era andato ad accogliere i suoi compagni. Che grande emozione che aveva provato nel vederli scendere, assieme, stretti attorno alla barella su cui avevano disteso il corpo privo di sensi di Spock, c’era anche Saavik, erano tutti lì, mancava solo lei.

Aveva abbracciato il suo comandante, sollevata di rivederli tutti vivi e anche se sentiva che doveva essere accaduto qualcosa di brutto per averli fatti viaggiare su quello Sparviero, la presenza di Saavik non era prevista ed erano quindi molte le domande che sorgevano spontanee, Uhura le ignorò, concentrandosi unicamente su quell’ultima parte del viaggio.

Avevano messo in gioco tutto, ormai era andata.

Le mani si erano saldamente strette attorno alla leggera asta metallica che componeva la portantina, il suo passo si era uniformato a quello degli amici e lentamente avevano seguito la solenne processione che si avviava su per l’impervio declivio del monte Seleya, - il cuore pulsante della spiritualità Vulcan -; la donna ne aveva percepito distintamente il respiro e la voce che gli sussurrava parole antiche all’orecchio ma a lei incomprensibili.

E che gioia quando finalmente si erano riuniti, il suo corpo si era mosso istintivamente e tutti si erano stretti attorno al comandante e a Spock mentre il sole si alzava infuocato oltre le cime aguzze dei monti attorno, sentendo calde raffiche che li colpivano in viso.

La notizia della distruzione dell’Enterprise le aveva lasciato l’amaro in bocca, ma si era imposta di non piangere, anche se – come tutti - ne sentiva il bisogno. Scotty tratteneva a stento le lacrime mentre glielo raccontava, ma la donna sapeva che non avevano avuto scelta.

O loro o i Klingon.

Aveva cognizione di quanto doveva essere costato all’amico il dare la morte alla sua nave, "alla sua bambina" come l’aveva sempre affettuosamente chiamata: si era preso cura di lei per anni, l’aveva amorevolmente accudita, proprio come una figlia, e distruggerla con le proprie mani… Doveva essere stato tremendo per lo scozzese.

Ma l’ingegnere era riuscito a riprendersi, concentrando ogni briciola di forza e volontà disponibile sul Bounty e sulle riparazioni, come aveva sempre fatto, mettendoci tutta la passione che poteva ed aveva, vincendo sul dolore e il dispiacere.

E lei?

Uhura strinse i pugni, smettendo di suonare, non era riuscita ad accettare interamente la morte dello scienziato, aveva sempre pensato che sarebbero morti tutti assieme, in qualche battaglia tra le stelle oppure su qualche pianeta lontano nella galassia, o ancora in qualche missione.

Ma sempre assieme.

La morte di Spock era stato un durissimo colpo per tutti, ma soprattutto per l’Ammiraglio e il dottor McCoy. Nyota aveva passato più di metà della propria vita con loro a vagabondare nello spazio, affrontando pericoli; aveva combattuto al loro fianco, aveva sofferto con loro, aveva gioito con loro, ma non li aveva mai visti così abbattuti, così… spenti.

Più volte Christine gli aveva confidato, durante quel ritorno così triste e cupo, di aver sorpreso il medico seduto in poltrona, lo sguardo vacuo e assente mentre borbottava qualcosa di incomprensibile, gli occhi azzurri come il mare fissi insistentemente sui vecchi rapporti delle missioni che avevano affrontato e concluso con successo; cosa stava cercando? Forse un conforto che non poteva avere, che non poteva trovare?

Una spessa coltre di nubi livide aveva circondato i loro spiriti, nascondendo la luce alla vista.

I due ufficiali si erano gettati in quella missione suicida senza pensarci un attimo, avevano seguito l’istinto e il cuore, cercando disperatamente di rimettere insieme i pezzi di quella che era stata un’amicizia meravigliosa, seppur con alti e bassi, che aveva attraversato la Galassia, un’amicizia preziosa che era stata distrutta dalla Morte: ma non per questo si erano dati per vinti; avevano perso tanto, forse troppo, eppure erano rimasti aggrappati a quell’esile speranza di riavere l’amico più importante al proprio fianco, anche nel momento più drammatico. Erano anche loro morti con Spock in quel reattore, Uhura lo sapeva benissimo, erano morti tutti quel giorno, anche se respiravano ancora, anche se potevano sentire il proprio cuore battere.

Ma quando il sole aveva illuminato gli occhi di nuovo vivi del Vulcan, anche Kirk e Bones sembravano essere rinati con lui, un nuovo sorriso al limite delle lacrime aveva rischiarato i visi dei due inseparabili amici, per un attimo anche lei si era lasciata sopraffare dalla gioia, rideva e piangeva con loro, per loro.

Ora il futuro la metteva davanti a una scelta.

Avrebbe avuto il coraggio di andare fino in fondo oppure…

La musicista scosse violentemente la testa, scacciando via quei pensieri come se fossero stati una mosca molesta; non si sarebbe fatta tentare dalla strada più semplice, non era nella sua natura rinunciare e certo non avrebbe lasciato in un momento simile: "ma cosa sto facendo?" si disse, respirando profondamente, "mi fa male pensare." decretò, socchiudendo gli occhi, "non abbandonerò l’Ammiraglio e gli altri." decise il comandante, poggiando con cura lo strumento accanto a sé.

"Ehi, Uhura-chan!"

Il tono allegro e scanzonato di Sulu la fece voltare di scatto, sorpresa, nella luce fioca della passerella vide i due amici di sempre avvicinarsi a lei, un braccio del giapponese cingeva amichevolmente le spalle del sovietico, la testa poggiata contro quella del compagno: "Avete fatto pace, vedo." esclamò, sollevata per la situazione e felice per quel soprannome, "Pavel, dove hai messo i gradi?" chiese poi curiosa, notando la mancanza delle decorazioni sulle spalline; Chekov si scambiò un’occhiata con Hikaru, sogghignando, "non sono più un cagnolino fedele." replicò serio lui, "non so come andrà a finire questa storia," continuò poi, cingendo col braccio libero le spalle di Uhura e stringendola affettuosamente a sé, "ma so che non vorrei affrontare ciò che mi aspetta senza di voi, senza l’ammiraglio, senza il signor Spock e il dottor McCoy." dichiarò il più giovane.

La donna rise, lasciandosi abbracciare: "E a cosa dobbiamo questo tuo improvviso rinsavimento?" domandò l’ufficiale, ricambiando il gesto con trasporto, "al mio migliore amico, Hikaru Sulu!" decretò il russo con uno dei suoi soliti e caldi sorrisi, "non dire cavolate." rispose subito dopo il giapponese, dandogli un pugno scherzoso sulla spalla, "ti ho solo dato una scrollata, ci saresti arrivato tranquillamente da solo, baka!" gridò, incespicando nei propri piedi.

L’orientale scivolò rovinosamente sulla sabbia, trascinando con sé i due amici tra le risate.

Ma c’era qualcuno che non riusciva a trarre sicurezza e tranquillità da quella familiare situazione.

Una figura alta e snella osservava neutra il rotolarsi e i giochi dei tre amici sulla sabbia, dall’alto della rupe che dominava la conca naturale in cui lo Sparviero aveva trovato rifugio, un muro invalicabile per chiunque; Spock si era ritirato lassù ormai da mesi, a malapena la madre riusciva a vederlo, era come un’ombra sfuggente, un fantasma etereo.

L’orlo della tunica veniva smosso dal vento freddo, sollevandosi leggermente sino a mostrare le caviglie pallide e ossute.

Lo scienziato era spaventosamente dimagrito in quegli ultimi mesi, ancora più del solito, come se un fuoco invisibile lo divorasse dall’interno, consumandolo lentamente, come se la morte volesse portarselo via un’altra volta.

Il viso affilato e pallido, simbolo stesso di un’austerità che pensava ormai di essersi lasciato alle spalle da anni, e che aveva quasi del tutto ripreso possesso su di lui, era simile più a quello di una bambola di porcellana che a quello di un essere vivente.

Un brivido freddo gli percorse la schiena, facendolo involontariamente tremare, ma restò lì, fermo, ad osservare i giochi di quelli che un tempo avrebbe potuto chiamare, senza ombra di dubbio, compagni; ma ora, erano semplici volti appartenenti a ricordi che non riusciva a riconoscere del tutto come propri.

I suoi occhi scuri saettarono nell’oscurità, attratti come le falene da quel punto luminoso che era lo Sparviero nel suo nido di sabbia e roccia, attratti da quelle figure che ridevano nella notte, squarciando come un coltello quel gelo che sentiva dentro di sé: era una sensazione curiosa, mai provata, o almeno, non ricordava di averla mai provata.

Razionalmente, quelle memorie che gli vagavano nella mente dovevano appartenergli, ma gli ci sarebbe voluto ancora del tempo prima che tutti i tasselli del puzzle andassero al loro posto.

In quel momento, Sulu alzò lo sguardo e lo notò, Spock poté quasi giurare che stesse sorridendo, aveva perfino alzato un braccio in segno di saluto; tutti lo imitarono, Chekov pure si stava sbracciando, gridava qualcosa che il Vulcan non capì, non era né inglese né vulcaniano, doveva essere, a rigor di logica, russo.

E così Uhura, giunse fino a lassù perfino il suono di qualche nota dolcissima strimpellata sull’arpa.

Volevano che scendesse giù?

Goffamente, lo scienziato alzò a sua volta il braccio, ma si ritrasse subito dopo, sentiva i battiti del cuore risuonargli sin nel petto da quanto erano intensi; l’alieno sparì tra le pieghe della notte, rifugiandosi contro la parete di roccia alle sue spalle: cosa gli stava accadendo?

"è inutile che si nasconda, tanto l’ho vista comunque!"

La voce del medico risuonò calda in quell’aria fredda che permeava ogni cosa.

Lentamente, Spock riemerse dal buio, il suo volto aveva riacquistato quella compostezza che gli era propria: "Non mi ero nascosto da lei, non ne avrei avuto motivo. È stato solo un giramento di testa improvviso a spingermi a cercare appoggio contro qualcosa di solido." spiegò con tono distaccato, poteva distinguere bene la figura del dottor McCoy in piedi davanti a sé; Bones scoppiò sonoramente a ridere, "Cos’è? Ha cominciato a dire bugie?" sogghignò, avvicinandosi ulteriormente.

Poi però lo vide pallido, insanamente pallido, più del solito, e si preoccupò: "Forse non ha tutti i torti." dichiarò l’americano serio, tirando fuori il tricorder ed esaminandolo, i dati che vi leggeva erano decisamente preoccupanti; McCoy ripose infine l’analizzatore, guardando lo scienziato con aria dura, "Non le avevo detto di stare a riposo?" lo rimproverò, afferrandolo per il braccio e passandoselo dietro le spalle, "testardo più di un mulo." brontolò, poggiando la mano sul fianco del compagno e portandolo verso il piccolo edificio che ormai da mesi era il rifugio del Vulcan.

Varcarono la porta e gli occhi di McCoy si ritrovarono immersi nell’oscurità.

A tentoni, cercò con la mano un interruttore sulla parete rocciosa, ma nulla.

Leonard sospirò, frugandosi in tasca fino a trovare quello che cercava: la stanza venne debolmente illuminata da un fascio di luce proveniente da una torcia tascabile; si guardò attorno, scorgendo una brandina sfatta nell’angolo più remoto del piccolo edificio.

Sbuffando seccato, trascinò di peso il Vulcaniano sino al giaciglio, era incredibilmente leggero, troppo; come aveva fatto a dimagrire a quella velocità? Maledicendosi, il medico lo depositò tra le lenzuola, esaminandone il colorito malaticcio con una punta d’ansia, non che fosse mai stato grasso, ma così era esagerato: trasse da tasca una iposiringa e ne iniettò il contenuto nel collo sottile e biancastro dell’amico. Questi ebbe un sussulto, si irrigidì, spalancando gli occhi arrossati e spenti: "Non ti muovere." gli soffiò, prendendo una piccola boccetta dalla taschina interna della giacca; in pochi minuti, una flebo sgocciolava il proprio contenuto dentro il braccio e il corpo di Spock.

L’alieno si riaddormentò stremato.

Il medico teneva il ginocchio poggiato sul materasso scuro, alla luce della torcia da tasca esaminò con attenzione l’espressione sofferente del compagno, anche nel sonno sembrava essere roso da qualcosa che, benché la temperatura fosse normale, Bones avrebbe giurato trattarsi di febbre; pensieroso, gli mise addosso la propria giacca, poi si allontanò verso il tavolino al centro della piccola stanza quadrata, un angolo era debolmente illuminato dal riverbero degli schermi di un certo numero di computer e apparecchi elettronici di ogni genere che stavano ammassati lì, senza una ragione apparente.

Si avvicinò a quello più vicino, attirato dal riflesso blu come il mare delle luci.

L’improvvisa luminescenza lo accecò per un istante, strappandogli un gemito di dolore; sentì un paio di lacrime scivolargli giù dalle pupille ma la mano passò subito ad asciugarle, si sfregò gli occhi per qualche momento, riacquistando una visione d’insieme abbastanza dignitosa.

Ma ciò che vide lo lasciò perplesso e allo stesso tempo con una sensazione di disagio e tristezza a stringergli lo stomaco, le mani si mossero istintivamente a sfiorare lo schermo del computer, come a volersi sincerare che fosse vero e non un sogno.

"COME TI SENTI?"

Erano queste le parole che si stagliavano, placide e lampeggianti nel loro blu intenso, sullo sfondo nerastro dello schermo, una domanda che non aveva ancora avuto risposta e, forse, non l’avrebbero avuta mai; il dottore restò imbambolato dinanzi a quell’aggeggio per un tempo interminabile, anche se dovevano essere passati pochi minuti: apriva e richiudeva la bocca, cercando di trovare qualcosa da dire e ripensandoci all’ultimo momento.

Era una situazione delicata e assolutamente surreale.

Il medico si voltò verso la figura distesa sul lettino, nell’oscurità quasi poteva vedere la pelle insanamente diafana dello scienziato brillare di luce propria, tale era il colore così simile a quello della Luna.

Con uno sbuffo seccato e doloroso, il dottore si poggiò con entrambe le mani contro il macchinario mentre la fronte si poggiava delicatamente sul monitor, le pupille saldamente fisse sulla scritta lampeggiante.

"Idioti…" ringhiò Leonard, stringendo i pugni con foga, le unghie si affossarono nei palmi e sentì distintamente la sensazione del sangue che scivolava viscido lungo la sua pelle; ma quasi non ci fece caso, la rabbia era tale da ottenebrare anche le percezioni del dolore.

Il vecchio brontolone si voltò di scatto, muovendosi nell’oscurità con l’agilità e la capacità di un gatto ma il suo volto, alla fioca luce dei macchinari in funzione, era trasfigurato in una smorfia di rabbia e cupa tristezza; velocemente, raggiunse la lettiga e armeggiò qualche istante con il contenitore che stillava goccia a goccia il proprio contenuto nel corpo prostrato di Spock.

"Abbiamo sbagliato tutto…" mormorò il dottore con aria colpevole, staccando la flebo improvvisata e deponendola con cura sul tavolino, "E a pagare è sempre chi non c’entra nulla." borbottò, caricandoselo in spalla con estrema facilità, un tempo nemmeno sarebbe stato in grado di batterlo a braccio di ferro, figuriamoci sollevarlo.

Strinse i pugni, avrebbero pagato anche quello.

Con cautela, Leonard si mosse verso la porta, deciso più che mai a porre fine a quella storia assurda e priva di qualunque logica, quella logica di cui il compagno e amico andava così fiero, non riusciva a vederla in tutto quel confusionario stato di cose.

"Dottore… Mi lasci… Per favore…"

Il tono debole e affaticato di Spock fece trasalire Bones, colto alla sprovvista, ma egli non si fermò e continuò imperterrito la propria marcia, ignorando le chiamate dello scienziato: "ma neanche per sogno!" esclamò a un certo punto il chirurgo, con tono esasperato, "Lei non resterà quassù un momento di più, prossima fermata, Bounty! E poi, Pianeta Terra!" esclamò, vagamente isterico.

Il Vulcan inarcò elegantemente un sopracciglio, ma era troppo debole per tenere dritta la testa; esausto, si poggiò alla schiena del medico: "Cosa vuole fare…?" sussurrò appena, affossando il viso contro il tessuto della giacca di cuoio del compagno, le braccia abbandonate attorno al collo del dottore, "E lo chiede anche?" soffiò, "da adesso in poi, si consideri agli arresti in infermeria. È disidratato, denutrito e Dio solo sa quant’altro, come medico, e come amico soprattutto, non la posso lasciare quassù, isolato come uno stambecco; Jim mi spellerebbe vivo." sorrise appena, cercando di mostrarsi rassicurante.

L’alieno sospirò, era inutile tentare di far ragionare il medico di bordo, Spock aveva imparato ormai da tempo che non era possibile una simile impresa: il dottore quasi non dava retta nemmeno all’Ammiraglio, figuriamoci a lui.

Il Vulcan si limitò ad annuire, da quello che poteva distinguere attorno a sé, stavano scendendo dalla rocca attraverso l’unico sentiero un poco praticabile; ragionò per un attimo, o almeno cercò di ridurre a più miti consigli la sua mente del tutto indisciplinata, ma non ebbe molto successo in un tale tentativo.

I suoi occhi vennero feriti da una luce improvvisa, strappandogli un lamento di dolore, udibilissimo; egli percepì l’aumento del ritmo del passo di Leonard, che aveva quasi il sapore di una corsa, poi distinse chiaramente il cicaleccio delle voci dei compagni farsi sempre più vicino.

"Pavel, Hikaru, Nyota!" abbaiò McCoy, richiamando l’attenzione dei tre ufficiali; i due uomini alzarono di scatto la testa, sorpresi e spaventati per quell’arrivo improvviso, "Doktor!" esclamò il più giovane, correndogli incontro, "Cosa è successo?" domandò, aiutandolo a tenere su il corpo semisvenuto del loro ex primo ufficiale, "Ne parleremo dopo…" mormorò sollevato il chirurgo, "Forza Sulu-chan, portiamolo in infermeria!" disse agitato il sovietico, portando Spock sottocoperta.

§§§

"Ammiraglio."

Jim si voltò di scatto, notando la figura eterea e quasi impalpabile di Lady Amanda percorrere lentamente il corridoio per avvicinarsi a lui.

"Amanda, cosa ci fa in giro a quest’ora?" chiese Kirk sorpreso, "Cercavo lei." disse la donna, sorridendo appena, "Devo parlarle. So che è molto occupato coi preparativi per la partenza, ma è una cosa importante." proseguì la moglie dell’ambasciatore, tormentandosi le mani inguantate, "non le ruberò più di dieci minuti." lo rassicurò.

Il comandante dell’Enterprise fece un inchino e le dedicò un baciamano, "Lady Amanda, non si preoccupi, abbiamo ancora parecchie ore prima di partire. Sarò felice di ascoltare quello che ha da dirmi." replicò Jim.

L’ufficiale della Flotta si sentì improvvisamente inquieto, vedeva le spalle della donna sussultare per il nervosismo e più ci pensava, più non riusciva a comprenderne il motivo: "prego, mi dica…" esordì l’uomo, nel tentativo di rompere il ghiaccio; lei chinò leggermente il capo, come a voler raccogliere le idee, poi alzò di scatto la testa, gli occhi grigi e fieri ardevano di una strana luce, familiare.

Il comandante ebbe un tuffo al cuore.

"Sono venuta qui a pregarla di portare Spock via con voi." disse secca, riacquistando il suo sangue freddo, "non voglio che resti ancora qui.".

Le parole della madre del suo migliore amico lo lasciarono del tutto spiazzato, per un attimo non seppe cosa rispondere, semplicemente il suo cervello aveva deciso di prendersi una pausa e staccarsi.

Quando tutti i collegamenti neurali tornarono a funzionare più o meno normalmente, rimase comunque scosso dalla richiesta della donna.

"Lady Amanda, se Spock volesse tornare indietro con noi, io sarei il primo ad accoglierlo a bordo e sono sicuro anche gli altri. Ma la scelta sta a lui, non possiamo intrometterci, se non vuole…" il suo tono si era improvvisamente incupito. Spezzando a metà la frase che stava per dire; si morse le labbra.

Ci fu un attimo di silenzio pesante, un silenzio quasi insopportabile.

"Ammiraglio, lei vuole bene a mio figlio?" chiese con tono duro la donna, battendo ritmicamente il piede sul marmo del corridoio; Jim sgranò gli occhi, boccheggiando come un pesce fuori dall’acqua, sentiva il suo cuore saltare alcuni battiti.

"Signora…" sussurrò, nel tentativo di riprendersi, "Ho passato una vita con suo figlio nello spazio, abbiamo lottato assieme sui più remoti pianetucoli del quadrante. Mi creda se le dico che Spock è quanto più vicino a un fratello io abbia al mondo e gli sono profondamente legato, è il mio migliore amico." disse con una punta palpabile di orgoglio nella voce, il suo sguardo s’addolcì un poco, illuminandosi.

Amanda sospirò sollevata: "Allora, la prego, esaudisca il desiderio di questa povera madre. Portatelo con voi indietro, ha bisogno di stare con voi per ritornare quello che era… Deve ritrovare la sua parte umana, la parte vulcaniana lo sta sopraffacendo. La prego!" esclamò con le lacrime agli occhi, afferrandogli le mani, "Solo stando con voi Spock potrà tornare a essere quello di prima. Sa," singhiozzò lei, asciugandosi una lacrima fuggiasca, "Mio figlio non è mai stato affettuoso come un bimbo umano, l’educazione Vulcan non gli ha mai permesso di esserlo, e in un certo senso, sino al momento della sua entrata in Accademia, ne ero fiera, vedevo una sorta di orgoglio malcelato negli occhi di Sarek per quel nostro figlio. Solo dopo, quando ho rivisto Spock a bordo dell’Enterprise, durante il viaggio verso Babel, ho capito davvero…".

La donna si interruppe, prendendo fiato.

"Cosa ha capito?" chiese con voce tremante il comandante, curioso e inquieto, la moglie dell’ambasciatore era una persona davvero particolare.

"Spock non può vivere senza sentimenti." dichiarò con un tenero sorriso dipinto sul volto, un sorriso di mamma, "Per quanto si sia sempre impegnato a fondo per reprimerli, prova sentimenti umani, come li posso provare io o lei, forse anche più intensi, lo vedevo durante l’operazione a Sarek; non staccava gli occhi dal viso del padre… Ma dopo il Fal-Tor-Pan, qualcosa deve essersi spezzato… La prego ammiraglio, le chiedo solo questo, mi restituisca mio figlio.".

§§§§

Dovresti riposare anche tu, o domani crollerai, il viaggio è lungo e hai bisogno di dormire un po’." osservò critico Scotty, poggiando una mano massiccia sulla spalla di Uhura; la donna rise sommessamente, strimpellando distrattamente qualche nota sulla lira: "non ci riuscirei," ammise, "Sono troppo nervosa.".

L’ingegnere le si sedette goffamente accanto, scoccando un’occhiata rassegnata ai due compagni profondamente addormentati a poca distanza da loro, le loro buffe posizioni strapparono un risolino divertito allo scozzese: "Quando si sveglieranno, il torcicollo è assicurato!" esclamò gioviale, "Oh beh, poco male. Problemi di Len!" concluse, tracannando una generosa sorsata di scotch dalla personalissima fiaschetta.

La donna fissò con affetto i due amici appisolati con le teste sulla console, il braccio del giapponese faceva da cuscino al russo, un’espressione beata illuminava il viso del sovietico.

"Come procede di sotto?" chiese il tenente, alzandosi per preparare un caffè al compagno, "Bene, questa piccolina non è da buttare in effetti è stata solo sfruttata e soprattutto progettata male, i Klingon non sanno apprezzare le cose belle della vita, su questo non si discute." brontolò, "i Tubi di Jeffrey non sanno manco cosa siano quei barbari…" si lamentò; l’ufficiale ridacchiò, passandogli una tazza piena di caffè nero, scuro e dal profumo forte: "hai fatto un ottimo lavoro, come sempre!" si complimentò lei, "grazie!" replicò platealmente, baciandole con galanteria la mano, "piuttosto, ho sentito un bel po’ di trambusto prima, cosa avete combinato?" domandò con tono curioso l’uomo.

Uhura s’incupì, stringendo la tazza con forza: "Pavel e Hikaru hanno portato di sotto il capitano Spock, adesso il dottor McCoy è con lui;" replicò laconicamente lei, "non era messo molto bene." aggiunse con aria triste.

Scotty sgranò gli occhi: "Cosa è successo?" incalzò stupito, "Credevo che Len fosse andato a cercarlo per convincerlo a tornare con noi, non dirmi che sono passati alle mani!" esclamò quasi orripilato, "Ma figurati!" lo zittì lei, cercando di riprendere il controllo di sé stessa, "ci ha spiegato che gli è svenuto praticamente in braccio," disse lentamente, "ora sta facendo degli esami, ma chiunque capirebbe che è dimagrito in modo spaventoso in queste ultime settimane, il dottore è preoccupato per questo motivo, vuol dire che non mangia da almeno un mese." concluse, ritornando a suonare.

Lo scozzese sospirò: "Maledetto Khan…" ringhiò, "ne ha fatte troppe, spero che stia marcendo nel più profondo e disgustoso degli Inferi." lo maledisse, battendo poi la propria mano sulla spalla della collega in un gesto rassicurante, "Non preoccuparti per Spock, quello lì ha sette vite più dei gatti e poi, Leonard è il migliore medico di Starfleet. Torneremo indietro assieme, non credo che l’ammiraglio voglia lasciare qualcuno di noi indietro. Abbiamo giurato e andremo sino in fondo!" affermò serio.

La donna rispose con un abbraccio forte e affettuoso.

L’ingegnere glielo lasciò fare, ricambiando a sua volta la stretta.

Lontano, il canto morente di un selhat annunciava l’alba imminente.

§§§

"Cosa voleva fare, eh? Razza di pazzo!"

Le imprecazioni colorite e le grida furiose del dottore riecheggiarono forti sotto le volte metalliche della navicella, rompendo il pigro silenzio scandito dal soffuso ronzio delle macchine.

Spock non rispose, era troppo debole anche solo per muoversi, così si limitò a scuotere impercettibilmente la testa e a poggiare la guancia sul cuscino della lettiga, respirando appena.

McCoy sbuffò, armeggiando con la flebo che aveva approntato per ovviare alla situazione pessima in cui versava il compagno, pensieroso, ne osservò lo sgocciolio, assicurandosi che lavorasse al meglio; poi, seccato, si voltò verso il tavolino, cercando di dare una parvenza di ordine a quel luogo ingombro di bende, boccette vuote, siringhe utilizzate e quant’altro.

Con una manata, buttò tutto dentro un saccone che aveva preso in un angolo della stanza, senza controllare minimamente se ciò che stava eliminando senza pietà servisse o meno, era visibilmente scosso.

Un rumore improvviso alle sue spalle lo fece trasalire, seguito da un gran chiasso metallico, come di qualcosa che s’infrangeva a terra: "Ma che diavolo..?" imprecò, voltandosi, "SPOCK!" gridò di nuovo, gettandosi in avanti e afferrando l’alieno per la manica, "Dove diavolo pensa di andare, eh??" lo rimbeccò severo, spingendolo verso il letto, "non si muoverà di qui, è un ordine!" esclamò duro, facendolo finire sul materasso con il viso premuto contro il cuscino.

Ma il Vulcan oppose resistenza, rialzandosi: "Devo andare dall’ammiraglio…" bofonchiò debolmente, artigliandosi il petto con una mano adunca e scheletrica, "devo parlare all’Ammiraglio, è importante." proseguì con voce arrochita, "Ci penso io ad avvertire Jim, ma lei stia giù! E non si muova!" lo rimproverò, facendo per afferrare la giacca.

Ma una forte presa sul braccio lo bloccò, costringendolo a fissare negli occhi l’alieno: "Non riuscirai a convincermi, dannato elfo…" bofonchiò il dottore, divincolandosi dalla presa, "fino a prova contraria, sono ancora l’ufficiale medico di questa nave ed esigo che lei se ne stia buono e tranquillo sino all’alba." borbottò, frugando in uno dei cassetti, "o mi vedrò costretto a legarla al letto." sogghignò, estraendo le sue temute bande metalliche, "anche se in questo momento, non è la follia generata dallo spazio tholiano il nostro problema, bensì un Vulcaniano testardo e rompiscatole!" ridacchiò, riponendole subito dopo.

"Desidero ripartire con voi…" sussurrò debolmente Spock, cercando di mettersi seduto, "devo chiedere all’Ammiraglio il permesso di rientrare sulla Terra con voi." replicò serio, "la partenza è fissata tra quattro ore punto cinque e, come dovrebbe esserle chiaro, non ho molto tempo." concluse, cercando di scendere dalla lettiga; ma il dottore fu irremovibile: "Non ci pensi neppure!" esclamò, "Ci penso io ad avvertire il comandante, lei resti qui tranquillo. E comunque," sorrise, "non credo abbia bisogno del permesso per unirsi a noi." replicò con aria sorniona, cercando di spostarsi per raggiungere la porta.

Ma i suoi movimenti furono bloccati da una morsa ferrea sul suo polso, il medico sentì il braccio torcersi e subito dopo incespicò nei propri piedi, cadendo a terra rovinosamente; sbatté la testa dolorosamente contro la struttura metallica e percepì un peso considerevole sul proprio petto.

"Dannazione!" imprecò, "Ehi, s’è fatto male?" domandò l'americano, aiutando l'amico a rialzarsi, "ma si, non ascoltiamo il medico, tanto quello che dico io sono solo cavolate. Se le ho ordinato di stare buono a letto un motivo ci sarà!" sbottò, sollevandolo per le ascelle; ciò nondimeno, un tremolio improvviso del terreno gli fece nuovamente perdere l’equilibrio, tra le imprecazioni colorite del povero chirurgo.

Ci fu un rapido sfiorarsi di corpi, di mani, appena percettibile per entrambi, eppure così nitido e chiaro da essere stato quasi un dono del cielo.

Contatto che s’interruppe però quasi subito per l’improvviso alzarsi di Spock, che si andò a risistemare sulla lettiga, tranquillo e docile, anche se Bones, lo poteva giurare, aveva scorto l’ombra di un sorriso indisponente, uno di quelli che per anni lo avevano tormentato e che era quasi certo di non vedere più, sul viso dell’alieno.

Il dottore si rialzò a sua volta, reggendosi al bordo metallico del letto; egli guardò per un lunghissimo istante il compagno, poi gli diede un buffetto scherzoso sulla spalla: "Ora però non si muova di qui, vado a cercare Jim." sorrise, uscendo di volata dalla stanza, il volto visibilmente arrossato.

§§§

"Ben svegliati!" esclamò allegra Uhura, porgendo ai due amici un paio di tazze fumanti di caffè, "Datevi una sistemata!" sorrise lei, "l’Ammiraglio sarà qui tra poco, la partenza è ormai imminente." annunciò, sparendo sotto la propria console per gli ultimi controlli del caso.

Pavel sbadigliò sonoramente, stiracchiandosi: "Ouch.." mugolò, massaggiandosi la base del collo, "Che dolore, non ho mai dormito così male!" scherzò, sorseggiando parte del contenuto della propria tazza; Sulu scivolò dalla sedia, ancora mezzo assonnato, dirigendosi lentamente verso il piccolo bagno all’angolo, il russo poteva quasi sentire il rumore dell’acqua corrente che scivolava sui capelli e sul viso intorpidito dell’asiatico. Qualche minuto dopo e il compagno uscì dai servizi, asciugandosi con un logoro ma pulito straccio; con rapidi movimenti, sfregò il cuoio capelluto, sino ad asciugarlo: "ben tornato tra i vivi!" lo canzonò Chekov, passandogli il contenitore, "Sembravi uno degli spiriti evocati dalla Baba-Jaga!" ridacchiò, sfregandosi gli occhi e sbadigliando nuovamente, "parla lo yokai uscito dal bosco," replicò, abbandonandosi contro la poltrona.

"Ehm, bambini, non per interrompervi," la voce allegra di Scotty risuonò dall’interfono sul bracciolo della postazione di comando, "Che ne dite di cominciare a lavorare?" propose ironicamente l’ingegnere, "la giornata si prospetta lunga e non vorrei prendermi una ramanzina dall’ammiraglio per non aver concluso i preparativi. Quindi, al lavoro!" decretò, chiudendo la comunicazione.

"D’accordo," sbuffò falsamente contrariato il russo, andando a rimettere la propria tazza accanto a quella degli altri, "Sulu, avvia le scansioni e cerchiamo di rientrare a casa tutti interi, non ho voglia che questa carretta Klingon ci esploda sotto i piedi!" gemette, sedendosi alla propria postazione.

Il giapponese gli diede uno scappellotto sulla nuca: "Sono un tuo superiore," inarcò un sopracciglio, "con chi credi di parlare?" ghignò; Chekov sospirò rassegnato, "Niente più gradi, ricordi?" gli agitò sotto il naso l’indice, per poi sospingerlo all’indietro con una semplice pressione del dito indice sulla fronte dell’asiatico, per poi alzarsi, "Vado a sciacquarmi il viso, avvia le scansioni intanto." concluse ridendo, eclissandosi in bagno.

§§§

Tutto era finalmente pronto per la partenza.

I cinque compagni di sempre erano ognuno al proprio posto in plancia, gli occhi fissi sul grande schermo ancora oscuro, in attesa di ordini da parte di Jim, Scotty attendeva a sua volta nella sala macchine un qualunque cenno di vita da parte del suo comandante.

Eppure, sentivano una sorta di nostalgia prenderli, anche se non si erano nemmeno sollevati dal polveroso suolo desertico: sapevano che, molto probabilmente, non sarebbero più tornati? Oppure era altro?

Nessuno voleva rispondere alla domanda.

Tutto quello che avrebbero fatto sarebbe stato andare avanti, senza guardarsi indietro.

Senza rimpianti, era giusto così.

"Un quarto di potenza d’impulso," ordinò improvvisamente Jim, sorridendo appena, "Signor Sulu, ci riporti a casa…".

E il Bounty decollò, alzando un gran polverone; Amanda Grayson osservò con orgoglio la piccola navicella allontanarsi, portandosi via il figlio; Saavik le stava vicino, in silenzio: "Sai, ho fatto un sogno stanotte." disse la donna, con una sfumatura di gioia nella voce, "Non è finita per loro… Non finirà…" le sue labbra s’incresparono come il mare smosso dalla brezza dell’alba, "Li ho visti assieme sul ponte dell’Enterprise…" mormorò Saavik, osservando la nave Klingon, ormai ridotta a un puntino nel cielo infuocato di Vulcano.

"è solo un nuovo inizio." concluse Amanda e la sua risata argentina giunse sino alle stelle.

Si, sarebbe stato un nuovo, meraviglioso inizio.

 

ANGOLO DEL LEMURE:

Buongiorno!! Con questo, si conclude la mia fic^^

Come avete visto, ho fatto qualche piccola modifica alla storia originale, dando più spessore alla figura di Amanda, personaggio che, personalmente AMO (Non a caso è riuscita a far breccia nel cuore di Sarek e non dimentichiamo che è la madre di Spock^^)

Che dire, ringrazio tutti voi, miei fedeli lettori, da Eerya e Rowen ad Abdulla, da Persefone Fuxia a Maya, grazie veramente di tutto, carissimi^^

Qui si conclude Dawn, ma non le vicende rocambolesche degli Enterprise 7 ^^

Quindi, invito tutti voi a continuare a scrivere, per far vivere ancora le storie e i sogni di questi nostri beniamini^^

AUGURI PER TUTTO^^

CHARLIE

 

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