Who's my son's father?

di PattyOnTheRollercoaster
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** The escape of freedom ***
Capitolo 2: *** The countdown ***
Capitolo 3: *** Return to school ***
Capitolo 4: *** Nightmare and snowman ***
Capitolo 5: *** A punk T-shirt ***
Capitolo 6: *** The question ***
Capitolo 7: *** The last kiss ***
Capitolo 8: *** Nine years later ***



Capitolo 1
*** The escape of freedom ***


Who’s my son’s father?


1.The escape of freedom

Non mi ero mai chiesto cosa le fosse successo dopo averla lasciata ed essermene andato via. E i vari messaggi a cui non avevo risposto erano stati decisamente fatali. Chissà cosa sarei ora se invece avessi risposto.
Dana mi aveva mandato quei messaggi poco dopo che mi fui trasferito a Londra, ma io non le avevo risposto semplicemente perché avevo paura. L’avevo appena lasciata, dopo due anni che stavamo assieme, perché ero dovuto trasferirmi con i miei e le mie sorelle. E dopo appena un mese non avevo la forza di risentirla. Se a quel tempo avessi saputo perché mi voleva contattare probabilmente avrei risposto. O forse sarei stato così terrorizzato che sarei fuggito in un altro stato pur di non vedere cos’era successo.
Per fortuna sono ancora qui. Se fossi fuggito non l’avrei mai conosciuto.

Quando, improvviso come una fitta intercostale, piombò nella mia vita, io ero placidamente steso sul divano a leggere un libro, lanciando di tanto in tanto qualche occhiata all’orologio perché dovevo andare in palestra. Ad un tratto qualcuno suonò alla porta. Non mi piace mai alzarmi dal divano per aprire a qualcuno, mi aspetto sempre che siano testimoni di Geova o venditori porta a porta. Quando aprii, invece, ebbi una sorpresa.
“Ciao!” esclamò una ragazza nel vedermi. Aveva i capelli corti sparati in tutte le direzioni di un colore rosso acceso e dei piccoli rasta che le sbucavano da dietro il collo. Portava un giubbotto blu e dei larghi jeans che ricadevano flosci sulle gambe.
“Dana?” chiesi incredulo. Lei annuì. Non era cambiata quasi per niente. “Cosa … che ci fai qui? E’ passato un sacco di tempo … mio Dio. Ma chi ti ha dato il mio indirizzo?” chiesi leggermente traumatizzato. La gente non poteva venire a sapere così facilmente il mio indirizzo, pensavo: qualcuno avrebbe mandato un kamikaze ad uccidermi!
“Gerome, l’ho incontrato lo scorso sabato e abbiamo fatto una specie di … rimpatriata fra ex compagni di classe. Ma scusa, dopo tutto questo tempo nemmeno mi saluti?” chiese.
“Scusa” dissi abbracciandola. “Meglio?” chiesi, mentre ci dondolavamo goffi sulla soglia.
“Abbastanza” rispose lei. Ci sciogliemmo e la invitai ad entrare. “Sai, ti ho visto al cinema” disse guardandosi attorno.
“Ah, che schifo” dissi io.
“Non lo definirei uno schifo, più che altro strano” disse guardandosi attorno all’ingresso, con le mani in tasca. L’accompagnai in salotto e le offrii un caffè, che accettò volentieri. “Allora …” disse dondolandosi sul posto come un’autistica e guardando ovunque tranne che nella mia direzione.
“Dana c’è qualcosa che non va?” chiesi sospettoso.
“Perché me lo chiedi?” chiese lei, colta in fallo.
“Perché mi ricordo come sei. Hai fatto la stessa espressione e gli stessi identici gesti quando hai distrutto la macchina di tuo padre, quando avevi perso i biglietti del concerto che aspettavamo da tre mesi e …” ci pensai un secondo, “quando siamo finiti davanti al preside per quella storia della scritta in palestra”.
“Cavolo … non mi aspettavo che ti ricordassi tutte queste cose” disse stupita.
“Ho una memoria di ferro” dissi compiaciuto. “Comunque, parla. Mi metti in ansia se fai così, dì qualcosa”.
“Posso … chiederti una cosa prima?”.
“Si”.
“Perché quando ho cercato di chiamarti, un sacco di tempo fa, tu non c’eri? Voglio dire … per quale motivo hai deciso di ignorarmi, forse io dovevo dirti qualcosa d’importate. Sai, ho passato due mesi interi a cercare di chiamarti. Ma tu niente, nemmeno una minuscola risposta” la sua voce era andata in crescendo. Stava cominciando ad incazzarsi di brutto e la cosa era davvero preoccupante. “Alla fine ho lasciato perdere, ho perso le speranze perché, sai, tutto quello che avevo voglia di fare era buttarmi sotto un camion, ma alla fine avevo paura anche di quello!”.
“Dana ma che cosa dici?” chiesi allarmato. Non potevo credere che fosse tornata dopo degli anni per dirmi che non avevo risposto alle sue chiamate.
Dana riprese fiato, sembrava sull’orlo di un collasso nervoso. “Devo fare un viaggio, ci metterò un paio di settimane, non di più. Io non vedo più i miei genitori per … diversi motivi e non posso permettermi di pagare una persona che gli stia dietro. Sono disperata, e tu sei la mia ultima possibilità. In più abitiamo relativamente vicini, a qualche kilometro c’è la scuola, e …”.
“Aspetta. Tu mi stai scaricando un bambino?” chiesi incredulo. Mi stavo arrabbiando. Ma era diventata pazza?! Cioè, questa qui arriva tutta tranquilla dopo anni che non ci vediamo e vuole che badi a un bambino?! A parte il fatto che ho mille cose da fare, ma poi non si può fare così! E’ eticamente scorretto.
Dana sospirò. “Ok, hai ragione. E’ stata … una cosa stupida” borbottò a testa bassa alzandosi e stringendosi nel giubbotto. “Devo andare. Io … mi dispiace per essere venuta a casa tua in questo modo” disse con voce tremante.
Capii che il vero problema non era quello, così mi alzai e l’abbracciai. Era sull’orlo delle lacrime e quando si strinse a me scoppiò a piangere. Credevo di capire la situazione: Dana aveva un figlio e, a quanto pare, nessuno con cui lasciarlo. Mi chiesi che cosa avesse fatto della sua vita dopo che me n’ero andato. Evidentemente si era cacciata nei guai. Chissà, forse, se fossi rimasto, a quest’ora non sarebbe successo niente, pensai al momento.
Feci sedere Dana sul divano e la strinsi ancora più forte. Mi dispiaceva in modo incredibile vederla in quello stato. Da quel che mi ricordavo lei aveva una personalità forte, non l’avevo quasi mai vista piangere, al massimo arrabbiarsi. Era una persona speciale, per questo mi piaceva quando andavamo alle superiori. Ci avevo messo dei mesi a dirle anche solo che la trovavo carina, poi alla fine la dichiarazione me l’aveva fatta lei.
Questo si chiama essere veri uomini!
“Robert” biascicò lei. “Tu non rispondevi, e io avevo paura che non t’importasse più niente di me, quindi che senso aveva cercare ancora di incontrati?” disse fra le lacrime. Si sciolse dal mio abbraccio e si asciugò il viso, prendendo larghi respiri. Quando si fu calmata disse: “Non prendertela con me. Quando ho smesso di chiamarti ho pensato che probabilmente, anche se te lo avessi detto, non ti sarebbe importato. Poi non ci siamo più sentiti e io non ho avuto l’occasione, ne il tempo per cercarti e …” aveva iniziato a parlare più velocemente così cercai di calmarla.
“Dana, aspetta, con calma. Ormai è passato tanto tempo, non è più un problema” dissi, senza nemmeno capire bene di che cosa parlasse.
“Robert io non avrei mai voluto chiamarti, tutti e due avevamo preso una via diversa. Non avrei mai voluto una relazione a distanza, non era per quello che ti cercavo”, prese a tormentarsi le mani con lo sguardo basso. “Dopo circa un mese dalla tua partenza … ho fatto un test di gravidanza che è risultato positivo”.
“Come?” chiesi  alzando le sopracciglia.

Non appena Dana pronunciò quelle parole mi crollò il mondo addosso. Sentivo talmente tante cose che non sapevo quale fosse la peggiore, o la più importante. Ero incredulo, dopo tutti questi anni ti si presenta la tua ex e ti dice che hai un figlio, insomma, è strano. Poi avevo paura, no anzi, ero terrorizzato a morte! Io avevo un figlio? Già non sapevo badare a me stesso, figuriamoci a qualcun altro che dipendeva del tutto e per tutto da me! Infine ero curioso, e provavo una certa pena per il bambino, anche se ancora non lo conoscevo. Nella mia mente non aveva ancora né un volto né un nome, ma la sua sola esistenza era per me motivo di preoccupazione. Forse, pensai, è così che si sente sempre un padre, poi scacciai quel pensiero: se la mia vita doveva essere un’ansia continua sarebbe stato terribile. Era un po’ come quando ti rendi conto di aver dimenticato qualcosa di importante e, improvvisamente, ti ricordi che cos’è ma non hai la possibilità di tornare a casa a prenderlo: era esattamente così che mi sentivo.
“Dana …” dissi preoccupato, siccome nessuno dei due diceva nulla.
Forse quello era tutto uno scherzo di cattivo gusto, un brutto sogno. Ma certo! Fra poco mi sarei svegliato, avrei guardato l’orologio, avrei detto cazzo!, perché ero in ritardo, e sarei uscito di corsa. Ora rimaneva solo la parte più difficile, e cioè svegliarsi.
“Scusami” disse Dana.
Questo sogno insisteva …
“So che avrei dovuto dirtelo prima, ma davvero, ero spaventata, non sapevo nemmeno se … se sarei riuscita a prendermi cura di lui, o se mi sarei buttata da una finestra prima che nascesse. Io …” le scappò uno sbuffo, “io andavo al liceo, non avevo idea di come crescere un bambino. Poi tu non c’eri, chissà cos’avresti fatto tu, mi chiedevo sempre. Ero sicura che avresti avuto una risposta”.
“Io?” chiesi scettico. “L’unica cosa di cui so prendermi cura è un cane” dissi con orrore crescente. Cazzo, davvero! Non ero capace di fare niente!
“Può anche darsi” disse lei con un leggero sorriso, “ma mi piaceva pensare che fossi più preparato di me. O mio Dio” disse sospirando. “E’ stata la peggiore idea che ho mai avuto” disse massaggiandosi gli occhi. Dana si alzò e fece per andarsene.
“Aspetta!” dissi alzandomi. Non volevo che andasse via. Sembrava che, se se ne fosse andata, con lei sarebbe sparita persino l’idea di un figlio. “Come si chiama?” chiesi con voce strozzata.
Dana sorrise. “Si chiama Jonathan, ma tutti lo chiamano sempre, solo Johnny” disse. “Vuoi … vedere una sua foto? Ne ho una nel portafoglio, sembra una tradizione che i genitori si portino una foto del loro bambino sempre appresso” disse frugandosi in tasca. Prese una piccola fotografia e me la passò. Con mano leggermente tremante la presi e la voltai. Non si vedeva bene, era molto piccola. C’era un bambino dai capelli rossastri, come quelli di Dana, ma leggermente sul marrone, era chino su un tavolo a disegnare e aveva un espressione concentrata. “Qui non si vede bene” cominciò Dana, “ma avete gli stessi occhi. Vi somigliate in un modo allucinante”.
“Quanti anni ha?” chiesi fissando la foto, ancora in trans.
“Ne farà sette fra un po’ di giorni. Mi dispiace un sacco non poter passare il suo compleanno con lui”. Rimasi in silenzio a guardare la fotografia. “E’ meglio che vada” disse Dana allontanandosi, “Quella la puoi tenere se vuoi, magari un giorno mi chiami, Gerome ha il mio numero. Magari vieni a trovarmi dopo che sono tornata. A trovarci … a noi” disse.
“Che cosa farai?” chiesi con voce greve, dopo aver finalmente alzato al testa da quella fotografia.
“Non lo so, vedremo” disse stringendosi nelle spalle.
Stava andando via. Forse non l’avrei più rivista, perché di sicuro non avrei avuto il coraggio di chiamarla. In un impeto di pazzia raggiunsi la porta e la presi per un braccio. “Dana aspetta”.
“Si?” chiese lei voltandosi.
Deglutii. “Posso tenerlo io” dissi in un sussurro appena udibile.
Il volto di Dana s’illuminò d’incredulità e felicità. Mi gettò le braccia al collo e mi strinse, mentre io me ne stavo come un perfetto imbecille fermo impalato, e reggevo la foto di mio figlio fra due dita, come se sgualcirla o strapparla avrebbe significato fare del male a lui. A quel bambino della foto che nemmeno conoscevo.
“Grazie Robert” disse Dana. “Grazie mille!”.
“Non è niente” dissi. Poi ci ripensai: “Cioè, non è vero, è proprio un casino”.
Dana si slacciò da me e sorrise. “Io parto Lunedì prossimo, dimmi quando posso portartelo, quando va bene a te. Ti devo spiegare un po’ di cose”.
Guardai l’orologio. Al diavolo la ginnastica! “Hai ancora un po’ di tempo? Magari puoi raccontarmi un po’ … un po’ di quelle cose che mi devi dire” dissi appoggiandomi con il braccio alla porta.
“Si, è prestissimo. La scuola finisce al pomeriggio”.
“D’accordo entra”.
Così rientrò. E, al posto suo, sentivo che una buona parte della mia libertà stava uscendo dalla porta di casa mia, anzi stava letteralmente scappando, spaventata a morte, per non tornare mai più. Sarei stato capace di lasciarla andare così facilmente?





E salve! Eccomi di ritorno con un'altra storia sul prode Robert Pattinson. Mamma mia, ogni volta che leggo store su di lui non posso fare a meno di pensare che, se le leggesse, o si rotolerebbe a terra dalle risate, o ci farebbe causa. Robert, semmai leggessi questo (anche se non credo) non fami causa. Bene, dopo questo sclero, qualcosa sulla fic.
Allora, era già pronta da un bel po' questa storia, tanto che l'ho pubblicata anche su un'altro sito, ma fra tutte le cose che ho da fare ho deciso di pubblicarla qui su EFP solo oggi. Ma questo probabilmente non v'interessa. La cosa che v'interessa è: ero stufa di tutte le storie in cui Robert trova una singolare ragazza, che fa i mestieri più elementari (fotografa, ballerina, truccatrice) e si scopre pazzamente innamorato di lei alla prima occhiata. E lei non appena lo vede si scioglie, le luccicano gli occhi e roba del genere. E già dal primo capitolo Robert ci prova, e lei fa una simbolica resistenza, mentre invece lo trova un figo, e... vabè, avete capito, no? Ovviamente dicendo questo non voglio sminuire le fic su Robert, le leggo io stessa (anche se mi trovo a selezionarle con cura), voglio solo dire che molte si possono facilmente riassumere con la stessa frase.
E dunque, dopo questa tiritera vi lascio, spero di non avervi annoiati. Ma se siete giunti fino alla fine del capitolo, meritate un premio. XD Mi raccomando, lasciate un piccola recensione! Anche per dirmi che la storia vi fa schifo! :) B'è, comunque sia, un saluto by...
Patty.

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Capitolo 2
*** The countdown ***


2.The countdown

Quel pomeriggio scoprii diverse cose. Ad esempio come i genitori di Dana si erano arrabbiati a morte con lei quand’era rimasta incinta (come se si fosse messa incinta da sola) e, dopo aver finito il liceo, aveva trovato un lavoro e si era trasferita a Londra perché non sopportava di stare ancora a casa con loro. Di come aveva fatto un corso serale per avere un lavoro nell’editoria e di come doveva fare un viaggio nella sede centrale di un’agenzia per sostenere un esame. E, siccome doveva aspettare lì il risultato, doveva lasciare il bambino a qualcuno. Aveva chiesto ai suoi genitori, ma non c’era stato verso. Aveva provato a contattare una baby sitter ma costava molto più di quanto avrebbe potuto permettersi. Alla fine mi aveva scovato e raggiunto e a quanto pare aveva trovato la soluzione ideale.
Già, proprio ideale.
Lunedì Dana sarebbe partita, ma aveva deciso di lasciarmi Jonathan domenica sera, così non ci sarebbero stati troppi problemi alla partenza.
“Ascolta” dissi a Dana mentre ci stavamo mettendo d’accordo sulle modalità di consegna, come per un pacco, “magari possiamo uscire tutti assieme prima che tu parta”. La verità era che, prima di ritrovarmelo in casa, volevo vedere il bambino con i miei occhi e vedere come si comportava, e come si comportava Dana con lui.
“Mh, si ok. Tanto ho l’aereo all’una, quindi posso anche andare a dormire tardi. Prima posso passare da te per darti tutte le cose di cui avrai bisogno”.
“Tipo?” chiesi.
“Sembri schifato. Il periodo dei pannolini è passato da un pezzo, sai?” disse Dana, al che sospirai scoraggiato. “Hey … andrà tutto bene, scommetto che sei un bravissimo papà” disse posandomi una mano sulla spalla.
“Non ne sarei tanto sicuro” dissi angosciato.
“Io dico di si. Mi preoccuperei se non fossi spaventato. Così sei perfetto! Tutti i genitori hanno paura, almeno credo. Io ne avevo un sacco. Se è per questo ne ho ancora, sono tranquilla solo fuori”.
Nel guardarla mi scappò un sorriso. “Guardandoti non si direbbe per niente che hai un figlio”.
“Lo so” disse lei stingendo le labbra e annuendo, fissando il tavolino di fronte al quale eravamo seduti. “Sembra una cosa strana in effetti. Voglio dire, sono molto più da … rave party che da mamma con il suo bambino al parco giochi. Però devo dire che tu sembri molto più papà di me”.
“Chissà se è un bene” dissi appoggiandomi sullo schienale del divano e alzando la testa al soffitto.

Domenica, alle sette di sera, Dana bussò alla mia porta. “Ciao ti ho portato le cose” disse porgendomi un borsone da ginnastica.
“Ok” dissi sbirciando dietro di lei e prendendo il borsone. “Dov’è?” chiesi incerto.
“In macchina che ci aspetta”. Gettai il borsone vicino alla porta, presi la giacca e uscii. Fuori faceva molto freddo ed era già buio. Ci dirigemmo verso la macchina di Dana e lei mi porse le chiavi. “Vuoi guidare?” mi chiese. Io sbirciavo il sedile anteriore, dove c’era un bambino che faceva degli scarabocchi con le dita sulla condensa del finestrino e mi dava le spalle.
“Ok” dissi prendendo le chiavi. Aprii e mi sedetti al volante, voltandomi verso di lui. Nel momento esatto in cui mi girai lui fece lo stesso.
Trattenni il fiato, un calore mi invase e mi compresse le viscere in una morsa letale.
Era bellissimo. La cosa più bella e perfetta che avessi mai visto in tutta la mia vita. Se ne stava lì in silenzio, senza nemmeno accorgersi né immaginarsi di cosa mi stava facendo passare, di che tortura era guardarlo. E mi osservava con occhi così limpidi che quasi provai vergogna. Erano del mio stesso colore, e brillavano alla fioca luce che ancora c’era per strada. La morsa nelle mie viscere si faceva sempre più stretta e mi mancava il fiato. Mio figlio. Mio figlio. Ma avevo poi diritto a reclamarlo come mio in quel modo? Ad essere così possessivo? Osservai le sue guancie, piene, i suoi capelli un po’ castani, come i miei, e un po’ rossi, come quelli di Dana. Guardai le sue mani piccole, notai che aveva le unghie lunghe. Osservai il suo naso piccolo all’insù, dritto e perfetto. E come sembrava piccolo in quegli abiti! Una giacca verde e una felpa grigia, e dei jeans.
In quella non erano passati che uno o due secondi.
“Ciao” sussurrai.
“Ciao. Come ti chiami?” chiese, con voce squillante.
“Robert. E tu?” chiesi con il cuore in gola, anche se sapevo già il suo nome.
“Jonathan” disse.
In quel momento entrò Dana sul sedile posteriore, e mise la testa in mezzo ai due sedili davanti. “Questo è il mio amico Robert” disse a Jonathan. “Salutalo Johnny”.
“L’ho già fatto” disse lui voltandosi verso Dana.
“L’ha fatto” confermai, voltandomi verso di lei.
“D’accordo. Allora dove andiamo?”.
“Pensavo di andare a mangiare fuori” proposi.
“Andiamo a mangiare la pizza?” chiese Jonathan.
“Hey, basta pizza, capito?” disse Dana minacciandolo con un dito.
“Dai! Daaai” la pregò lui inclinando la testa di lato, mentre i capelli castano rossicci si muovevano con lui.
“Dai …” mi uscì detto, voltandomi verso Dana. Nemmeno fossi io il bambino!
“E poi basta fino all’ inizio della scuola dopo le vacanze?” chiese lei alzando un sopracciglio. Jonathan annuì convinto. “Allora andiamo” acconsentì. Guidavo, ma non vedevo la strada: Jonathan attirava il mio sguardo in un modo pazzesco. Come quando vedi per strada una persona vestita in modo strano, o come quando c’è qualcuno che non conosci che ha qualcosa sulla faccia e quindi non lo puoi avvisare: non puoi fare a meno di guardarlo.
Arrivammo in una pizzeria del centro, semplice ma abbastanza elegante, e la cameriera (oltre a sorridermi in modo osceno) ci diede un tavolino in un angolo.
Dopo aver ordinato Dana incrociò le dita sotto al mento e disse: “Johnny, ti sta simpatico Rob?”.
“Si, ma non mi piace il tuo nome” disse lui dondolando le gambe alla velocità della luce.
“Ma … tu puoi chiamarmi come vuoi” dissi preso alla sprovvista.
“Allora ti chiamerò Bob” disse convinto. Sorridendo, mi guardò dal basso verso l’alto. Era il sorriso migliore che avessi mai visto. Luminoso, sincero.
“Bene” riprese Dana. “Ti ricordi che ti ho detto che avrei dovuto lasciarti per qualche tempo da un amico?”. Jhonny annuì, guardandomi di sottecchi. “Starai con Robert. Io tornerò il ventinove, così passeremo il Capodanno insieme”.
“Ma io non voglio stare con lui” disse con voce lamentosa. Forse questo prima di vederlo mi avrebbe rallegrato, ma ora mi dava un po’ di tristezza. Mi sentivo inadatto, forse la persona meno adatta a tenere un bambino, un po’ come se Madre Teresa suonasse nei Kiss.
“Jonathan non essere maleducato” lo rimproverò Dana.
“Non importa, non importa” dissi io a voce bassa. “Vuole stare con sua madre, logico”. Dana mi guardò come se gli facessi pena, le labbra sottili rivolte all’ingiù.
“Non fa niente non si dicono queste cose” disse rivolta a Jonathan.
“E’ vero” aggiunsi io, “quando parli male di una persona devi farlo solo quando lei non c’è” mi raccomandai. Dovevo pur insegnargli qualcosa, no? Johnny sorrise.
“Robert!” esclamò Dana divertita. “E’ questo l’insegnamento che gli dai?”.
“Tutti parlano male delle altre persone, almeno una volta nella vita. E’ giusto che sappia prima che gli succeda qualcosa” dissi alzando le spalle come se fosse logico. Dana scosse la testa e alzò gli occhi al cielo.
“Ma quando arriva il ventinove?” chiese Johnny. Tirai fuori il portafoglio e uno di quei calendari tascabili. Vidi una cameriera e le chiesi di portarmi una biro.
“Guarda,” dissi a Johnny, avvicinandomi a lui, “noi ora siamo qui” dissi facendo un cerchietto sul quattordici di Dicembre. “Quando arriviamo qui” dissi cerchiando il ventinove, “tua mamma torna”.
“Quanti giorni sono?” chiese lui prendendo in mano il calendario.
“Quattordici. Facciamo così: ogni sera faremo una x sul giorno passato e faremo il conto all’indietro, ok?”.
“Ok”.
“Quello puoi tenerlo” dissi indicando il calendario.
“Grazie” disse lui sorridendo ed esaminando il retro del cartoncino plastificato.
Dana mi guardò mordendosi un labbro, sorridente. Non potei fare altro che ricambiare. Probabilmente fare il padre non comportava solo regalare calendari formato francobollo a tuo figlio, però mi sentivo realizzato.
Dopo la pizzeria passammo davanti ad un cinema e Dana propose di vedere un film. Devo ammettere che mai un cartone animato della Disney era stato così emozionante per me. Non guardavo più i cartoni da quando avevo undici anni, più o meno … ora so che Il Re Leone, in quanto a inventiva, non era nulla in confronto a quello che abbiamo visto. I cartoni di oggi lo fanno sembrare di una banalità incredibile.
Quando il film finì e noi stavamo tornando a casa Johnny si addormentò sul sedile posteriore dell’auto, comodamente allungato lungo tutti e tre i posti.
“Nella borsa c’è il mio regalo di Natale barra compleanno, non è che glielo potresti dare tu?”.
“Certo.” risposi guardando la strada, “Quand’è il suo compleanno?”.
“E’ a Natale” rispose Dana. “Lui odia essere nato a Natale”.
“In effetti anche a me darebbe fastidio che tutti ricevano dei regali al mio compleanno”.
“Già … dimmi, hai molti impegni in questi giorni?” mi chiese Dana preoccupata.
“No, non molti in realtà. Solo … dovrò dire ai miei che porterò a casa un bambino per le feste”.
Dana abbassò lo sguardo. “Scusa, come al solito non penso alle conseguenze di quello che faccio”.
“Se è per questo nemmeno io. Non è che è nato solo per tua volontà” dissi alludendo a Johnny.
“Si ma non è nemmeno completamente giusto portartelo così senza preavviso” disse sospirando.
“Hey non preoccuparti” dissi, cercando di tirarla su di morale. “Andrà tutto bene, non sarò un caso così disperato”. In realtà cercavo di rassicurare più me che lei.  Restammo un po’ in silenzio, poi mi venne in mente una domanda da fare: “Dana, lui non sa che sono suo padre, vero?”.
“No”.
“Voglio dirglielo” dissi lanciandole un’occhiata per vedere che faccia avrebbe fatto.
“Forse è meglio che glielo dici quando torno. Glielo diciamo assieme” propose lei.
“D’accordo. Mi sono divertito stasera, è … è perfetto. Ma non voglio diventare una cosa del tipo lo zio o cose del genere, da vedere solo quando hai voglia di divertirti”.
“Lo zio?” chiese Dana divertita.
“Si, hai capito, no?”.
“Certo. Non preoccuparti. Te l’ho detto, io volevo dirtelo fin dal principio, poi le cose … sono sfuggite un po’ di mano” disse a bassa voce.
“Capisco …” mi fermai di fronte a casa e Dana si voltò a guardare Johnny che dormiva.
“Non ci siamo mai separati per più di otto ore fin da quando è nato” disse con sguardo sofferto.
“Io …” deglutii, “ti prometto che ci penserò io. A tutto” dissi seguendo il suo sguardo. Johnny dormiva beatamente, non dava segno di poterci sentire e per questo ringraziavo il cielo, non volevo che sapesse quanto ero inetto.
Dana uscì dalla macchina e fece tutto il giro, poi aprì la portiera posteriore e prese in braccio il bambino che, come se nulla fosse, continuava a dormire. Cercando di essere il più silenzioso possibile la condussi in casa e le indicai la stanza per gli ospiti che, avevo deciso, sarebbe stata la sua camera. Chissà se gli sarebbe piaciuta? Dana scostò le coperte e vi infilò delicatamente Johnny. Non ho idea di come fece, ma riuscì a mettergli il pigiama mentre lui dormiva, e senza nemmeno svegliarlo.
Avevo davvero molte cose da imparare …
Quando Dana ebbe compiuto la complicata missione tornò in salotto e chiuse la porta della stanza di Johnny. “Allora vado” disse esitante. “Grazie mille Robert, non so davvero cosa dire”.
“Figurati. Sono contento che tu sia così sprovveduta, almeno sei venuta fino a qui. Non avrei mai pensato che fosse capitata una cosa del genere” dissi spostando il peso da un piede all’altro.
“Ti prometto che quando tornerò cambieranno un sacco di cose. Potrai vederlo quando vorrai, e ci metteremo d’accordo … magari per le vacanze, così sta un po’ con me e un po’ con te, e …”.
“Hey” dissi alzando le mani, “di questo parleremo con più calma. Vediamo prima se riesco a gestire la cosa per un paio di settimane, altrimenti significa che non c’è futuro”.
“Credo che nessuno sia davvero preparato a crescere un figlio. Voglio dire, per quanti libri uno abbia letto o quanti corsi abbia fatto, i bambini non li puoi imparare. Però vedi, tu sei così … così bravo, non so come descriverlo. Si vede lontano un miglio che te le la stai facendo nei pantaloni dalla paura, però vuoi ancora continuare”.
“Non so se questo mi rincuora” dissi corrugando la fronte. Dana rise e io mi unii a lei. “Comunque anche tu sei stata brava, non ti sei tirata indietro”.
“Grazie” disse Dana incamminandosi verso la porta. “Allora ci vediamo fra un po’. Non mi odiare se telefono ogni giorno”.
“Ma va, la tua chiamata sarà la mia ancora di salvezza” dissi aprendole la porta. La abbracciai sulla soglia di casa.
Improvvisamente fu come tornare a quel giorno: quel giorno in cui la lasciai. Ero ancora un adolescente senza problemi, senza un pensiero che fosse uno.
Senza il minimo sospetto che, in quel momento, mio figlio stava cominciando a crescere in lei.
“Grazie” fu l’ultima cosa che dissi a Dana prima di sciogliere il nostro abbraccio.





Mamma mia. A quanto pare Robert è colpito dal fatto di avere un figlio. Mah... chissà come mai? Dopotutto capita ogni giorno, no? XD Comunque, adesso che abbiamo messo le cose in chiaro, e Dana lascierà la città, adesso inizia il vero calvario di Robert! XD Tutto solo con un bambino da accudire!
...cavolo. A volte mi chiedo come ho fatto a fare una fic del genere. Io detesto i bambini piccoli, quelli dai 5 agli 11 anni circa. Vabè, non è questo il punto. Quello che volevo dire, è che ho scelto un'età precisa per Jonathan: non volevo che fosse troppo piccolo, ma non poteva nemmeno essere tanto grande. Spero di essere riuscita a prendere un'età giusta. O.o

Enris: grazie mille per la recensione! Sono felice che la storia t'interessi. Purtroppo il personaggio di Dana non comparirà molto, verrà solo citato di sfuggita a volte, ma la sua personalità si chiarirà più avanti. Anche a me sarebbe piaciuto trattarlo meglio, come personaggio è interessante, ma volevo che Robert e il bambino stessero assieme senza interferenze. Grazie ancora e al prossimo capitolo! ^^

A tutti gli altri che seguono la storia: grazie mille! ^^
Patty.

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Capitolo 3
*** Return to school ***


3.Return to school

Stavo facendo i miei piani per le prossime due settimane. Riguardo agli impegni avevo mentito di brutto: avevo un sacco di cose da fare.
Per fortuna la prima settimana, almeno fino a venerdì, Johnny sarebbe andato a scuola, quindi avevo tempo dalle nove di mattina fino alle quattro di pomeriggio. Perfetto. Avrei potuto tralasciare le cose meno importanti. Dissi al mio agente di annullare tutte le cose che non fossero urgentissime delle prossime due settimane, dando come scusa qualsiasi cosa risultasse credibile, come che dovevo partecipare alle lotte clandestine di galli, o che mi avevano trovato una pallottola nel cervello, cose così.
Alla fine la lista delle cose da fare era diminuita di molto, le uniche giornate che mi preoccupavano erano: uno, una presentazione di New Moon a cui dovevo per forza partecipare, e che si sarebbe tenuta il ventiquattro Dicembre; due, il ventotto dovevo andare ad una festa a cui, mi avevano chiaramente detto, era richiesta la mia presenza. Nel senso che, se non mi presentavo, sarebbero venuti a prendermi a casa.
Avevo calcolato che ci avrei messo circa quaranta minuti a portare Johnny fino a scuola, così, mezz’ora prima di uscire, lo svegliai. Entrai piano nella stanza, lui dormiva ancora come un ghiro. Mi dispiaceva svegliarlo. Mi avvicinai cautamente e mi sedetti sul bordo del letto. Lo scossi delicatamente, chiamandolo per nome. Lui si svegliò subito, quasi avesse soltanto gli occhi chiusi.
“Buongiorno. Cosa mangi di solito per colazione?” chiesi.
“Un toast, oppure i cereali” disse stropicciandosi gli occhi e aprendosi in un formidabile sbadiglio.
“Ti preparo un toast allora, tu intanto cambiati” gli dissi alzandomi.
“Ok” disse alzandosi dal letto, che in confronto a lui era enorme.
Preparai alla svelta un toast. Cercai di farlo buonissimo, per quanto le mie capacità culinarie non siano poi ‘sto granché. E poi, per Dio, era un toast! Pane, formaggio e prosciutto caldi! Come si faceva a renderlo buonissimo? Lo misi su un piatto e lo lasciai sul tavolo.
In quel momento crollai. Mi sedetti su una sedia e mi cacciai le mani nei capelli. Dio santo! Ancora mi chiedevo come fosse possibile! Per fortuna arrivò Johnny a distrarmi (più o meno) da quei pensieri. Si sedette e prese a mangiare il toast.
“Vuoi del succo? Del latte?” chiesi alzandomi.
“Succo” disse subito lui.
La cosa positiva dei bambini è che ti dicono subito cosa vogliono, così è più facile farli contenti, anche con stupidaggini come succo o latte. Non sono come noi adulti, che giriamo attorno alle cose mille anni prima di arrivare al punto. Odio l’adolescenza: è a quell’età che cominciano a venire le inibizioni.
Dopo aver finito la colazione osservai Johnny che prendeva libri e quaderni e li metteva in uno zaino che era grosso il doppio di lui. Sconcertato dal peso e dalla mole di quella cosa la caricai in macchina e partimmo.
“Allora …” cominciai, “che cosa fai di solito a scuola?”.
“Faccio inglese, matematica, storia …”.
“E non ti annoi mai?”.
“No. Facciamo sempre tantissimi disegni, e poi li coloriamo. E abbiamo imparato i numeri e le lettere. Vuoi sentire l’alfabeto?”.
“Si, certo” dissi corrugando la fronte, stranito. Mentre recitava l’alfabeto a memoria lo osservai bene. Avevo paura di essere diventato un maniaco: non riuscivo assolutamente a toglierli gli occhi di dosso.
“Guarda!” disse improvvisamente facendomi vedere i denti e dondolandosi un dente da latte con la lingua. Da piccolo lo facevo sempre anch’io: quando un dente da latte cominciava a dondolare continuavo a giocherellarci per giorni, finché non si staccava.
“Wow!” dissi, guardando il dente danzante. “Quando si staccherà devi metterlo sotto al cuscino, così il topo dei denti lo trova e ti lascia dei soldi al posto del dente”.
“E perché li ruba?” chiese lui.
“Perché … lui colleziona denti”.
“E perché?”
“Pe-perché ha un castello enorme fatto solo di denti. Però denti non cariati, perché non gli piacciono i denti neri, è per questo che ti devi sempre lavare i denti”.
“Quindi ha un castello tutto bianco?” chiese.
“Esatto”.
“E cosa usa per tenere i denti incollati?”.
“Il dentifricio” dissi prontamente. Mi stupii della mia inventiva, ero un grande inventore di balle.
A quanto pare avevo calcolato male il tempo per arrivare a scuola, e ci arrivammo con ben un quarto d’ora di anticipo. B’è, almeno adesso avrei potuto regolarmi. Parcheggiai la macchina, presi lo zaino, presi Johnny per mano e, mettendoci più attenzione del solito, attraversai. Ero responsabile della vita di un bambino, questo è vero, ma se stavo in ansia pure quando dovevo attraversare la strada ero nella merda fino al collo!
“Dove ti lascia di solito Dana?” chiesi. Non è così semplice come sembra, le possibilità erano molte: potevo lasciarlo davanti a scuola, o dentro, o potevo addirittura accompagnarlo in classe. Insomma, so che è ridicolo, ma non avevo idea di che cosa fare. Cosa diavolo faceva mia madre quando mi accompagnava a scuola?!
“Va bene qui” disse fermandosi appena dentro al cancello.
“Va bene. Tieni” dissi togliendomi lo zaino dalle spalle e passandoglielo. Se lo mise con fatica non indifferente: ma quanti cavolo di kili fanno portare a scuola ai bambini? E se gli fosse venuta la scogliosi?! Non dovevo pensare troppo, rischiavo seriamente di perdere l’ultimo neurone che avevo.
“Ciao” disse agitando la mano e avviandosi verso il portone principale, dove stava una donna in un completo marrone e dall’aria severa.
“Ciao! Torno a prenderti, eh?” gli gridai dietro. Quando arrivò al portone la donna si chinò a dirgli qualcosa e mi indicò. Non riuscivo a sentire che cosa dicevano, ma la donna mandò dentro Johnny e poi si diresse verso di me.
“Buongiorno, sono la maestra di Johnny” disse tendendomi una mano. Non poteva avere più di trent’anni, sembrava sobria e paziente. Ok, aveva passato la mia acutissima analisi visiva: ora poteva essere l’insegnante di Johnny. Nel caso non l’avesse passata avrei messo a frutto i miei tanti anni di karate e con una mossa l’avrei … no non è vero, non ho mai fatto karate in vita mia.
“Salve” dissi stringendole la mano.
“Dana mi ha avvertito in anticipo che Jonathan sarebbe stato con qualcun altro. Lei è suo padre?”.
“Sembro suo padre?” chiesi a metà fra il preoccupato e il sollevato.
“B’è non proprio ma Dana è molto giovane, quindi ho pensato che, insomma …” disse leggermente imbarazzata.
“Hm, comunque si, a quanto pare”.
“Bene” disse la donna sorridendo e prendendosi una mano nell’altra. “E’ la prima volta che tiene Johnny?”.
“Si, in realtà l’ho incontrato solo ieri sera. Per la prima volta in … tutto questo tempo”.
“Oh” fece lei, probabilmente era incerta sul da farsi. “B’è … nel caso le servisse qualcosa può sempre contattarmi in qualsiasi momento. Le do il mio numero, venga” disse conducendomi verso l’interno della scuola.
Appena superato il portone c’era un grande atrio e, in fondo, delle scale. Alcuni bambini si stavano dirigendo in classe, sempre con quegli zaini grossi quasi quanto loro. Una scrivania stava incastrata fra la parete e la prima rampa di scale e, da un cassetto, la donna tirò fuori un pezzo di carta e una biro, sulla quale cominciò a scrivere nome e numero.
Stavo tranquillamente aspettando quando sentii qualcosa che mi tirava la giacca. Mi voltai e scorsi una bambina dotata di lunghe trecce bionde e un vestito rosa.
“Tu sei Edward del cinema?” mi chiese. La maestra alzò lo sguardo.
“Judy non disturbare il signore. Sarà già abbastanza spaventato dai bambini” disse sorridendo da dietro un paio di occhiali dalla montatura spessa che aveva indossato.
“No, si figuri non importa” dissi lasciandomi scappare un sorriso. Me ne vergogno, ma devo ammettere che aveva ragione da un certo punto di vista.
“Quindi?” chiese la bambina.
“Hem … si”.
“Ma non sei bianco come nel film”.
“Perché ho fatto la lampada” dissi stupidamente.
“I vampiri possono?” chiese facendo una faccia strana, come se fosse sicura che le stessi mentendo.
“Si, certo. Ma solo se nessuno li guarda, sennò vengono scoperti”.
“Lo sai che sto leggendo Twilight insieme a  mia mamma? Sono già a pagina trenta” disse orgogliosa.
“Bravissima” dissi io. “Io nemmeno l’ho letto quello. Ho letto l’altro, quello che deve ancora …”.
“Va bene, ora basta” disse la maestra aggirando la scrivania. “Vai in classe Judy, fra poco arrivo”.
“Ok” disse lei, e si allontanò. “Ciao Edward” disse prima di sparire nel corridoio.
“Ecco il mio numero” disse la maestra porgendomi il foglietto. Il suo nome era Amanda Swarts.
“Grazie” dissi tirando fuori il portafoglio e mettendoci dentro il bigliettino.
“Di nulla” parve esitare, poi mi chiese: “Mi scusi se glielo domando, ma lei lavora nel cinema?”.
“Si, sono un attore”.
“Ah, capisco. B’è, se per caso le serve qualcosa mi chiami pure. Ah, a proposito, non so se Dana glielo ha detto, ma Jonathan è un bambino molto bravo. E’ svelto, impara le cose in fretta, fa sempre i compiti. Non so se sia sua madre a farglieli fare, o ad aiutarlo a casa, ma è molto bravo ed educato”.
“Non credo che Dana abbia tutto questo tempo per aiutarlo” dissi, esprimendo ad alta voce un pensiero che mi preoccupava.
“Immaginavo, ma non si sa mai. Tutti trovano un po’ di tempo per stare con i loro figli. Comunque Dana è davvero premurosa, sono felice che abbia deciso di aiutarla”.
“Si … ora vado. Torno alle quattro allora” dissi incamminandomi verso l’uscita.
“D’accordo. Arrivederci, signor …?” chiese lei.
“Pattinson. Mi chiamo Robert Pattinson”.
Perfetto. La mia vita si può riassumere in pochi concetti: mi chiamo Robert, faccio l’attore, ho una prole di cui non sapevo l’esistenza e ho il brutto vizio di spargere per casa le mie calze come se qualcuno prima o poi le raccogliesse.
Faccio schifo … sul serio.

Quel pomeriggio cercai di organizzarmi per la presentazione del film. Telefonai a Kristen, che era l’unica persona con la quale mi sentivo di parlare in quel momento. Non le dissi proprio che dovevo portare mio figlio, appena spuntato come un fungo nella mia vita da ventitreenne, alla presentazione di un film, però le chiesi alcune cose.
“Pronto Kristen? Sono Robert” dissi, sedendomi al tavolo della cucina.
“Ah ciao, come va?”.
“Bene, bene grazie. Volevo chiederti una cosa, per la presentazione di mercoledì”.
“Dimmi”.
“Secondo te posso portare una persona? Dovremmo fare interviste, o solo foto? O … che ne so”.
“Credo che sarà una di quelle cose dove possono venire anche i fan. Quindi dovremmo parlare un sacco, mi sa. Durerà circa un ora mi hanno detto. Perché, volevi portare qualcuno? Chi?”.
“No, nessuno. Però se porto qualcuno vorrei che stesse in un posto dove posso controllarlo, dove non possa … che ne so, scappare via!” esclamai, passandomi una mano sulla fonte.
“Scappare via? Sembra che devi portare il tuo cane. Devi portarla?” mi chiese incredula.
“Mh … più o meno” mi sentii davvero una merda per aver paragonato Jonathan ad un cane, però non volevo ancora dire a nessuno di avere un figlio. “Ci saranno un sacco di addetti alla sicurezza, vero?”.
“Si, certo”.
“Ok perfetto”.
“Robert, che cosa succede?” mi chiese Kristen vagamente preoccupata, ma più che altro curiosa credo.
“No niente. Ci vediamo mercoledì”.
“Sicuro che vada tutto bene?”.
“Si, non ti preoccupare. Ciao” dissi, cercando di chiudere al più presto quella conversazione compromettente.
Finché non chiarivo questa situazione con Dana, quindi finché lei non tornava e Johnny avesse saputo del fatto che io ero suo padre, non volevo che nessun’altro lo sapesse. La cosa negativa di fare l’attore era che, probabilmente, se la gente avesse saputo della mia prematura paternità non mi avrebbe lasciato in pace per diverso tempo. Forse avrebbero perfino fatto fotografie a Jonathan o a Dana, il che non è molto bello.
Restavano ancora altre due persone da chiamare: “Ciao mamma” dissi con il sorriso sulle labbra e l’ottimismo che volava alto. Doveva essere alto, avevo troppa paura che mia madre me lo facesse abbassare troppo. Con lei è un po’ come con la pressione: rischiavo di svenire.
Inutile dire che i miei genitori ebbero reazione totalmente opposte. Spesso mi chiedevo come facessero a stare assieme. Secondo mio padre era una notizia fantastica, non capiva perché ancora non avevo detto a Johnny di essere suo papà, e non vedeva l’ora di conoscere il suo nipotino. Al contrario, mia madre mi aveva gridato addosso per mezz’ora. Mi aveva detto che ero un irresponsabile, che avrei dovuto stare attento eccetera. E, vi assicuro, parlare di certe cose con la propria madre non è piacevole. La parte peggiore venne quando mi disse: “La prossima volta che devi fare bum-bada-bum con una ragazza vedi di prendere le dovute precauzioni!”. A quel punto pretesi di parlare con papà. Mia madre che parla di sesso chiamandolo bum-bada-bum è una cosa che mette i brividi. Alla fine della conversazione ero spossato, come se avessi corso per kilometri.
Mi ero trattenuto anche troppo quel pomeriggio fra telefonate, la spesa, la ricerca di un regalo per Johnny e il cercare di scoprire che cosa le aveva comprato Dana senza strappare la carta da regalo. Così, mezz’ora prima delle quattro, uscii di casa. Guidai come un pazzo: credo di aver avuto la fobia di arrivare in ritardo e lasciare mio figlio lì da solo, ad aspettarmi, come in certi film per famiglie, mentre i genitori degli altri bimbi arrivavano puntuali e se li portavano a casa, felici come tanti dementi.





Scusatemi per il ritardo! Il fatto è che ho risolto problemi con internet da poco e, fra tutto quello che ho avuto da fare in questi giorni, questo è il primo attimo che ho per postare. ^^ Comunque... qua le cose iniziano ad andare con un po' di calma, insomma, non possiamo fare impazzire subito il povero Robert (poi mi denuncia! XD).
Un grazie a tutti coloro che leggono e che hanno pazientato così tanto per questo terzo capitolo! Grazie mille davvero, siete fantastici!
E ora... recensioni:

romina75: sono felice che la storia ti piaccia, è una situazione un po' diversa per Rob, e mi piace concentrare la narrazione soprattutto su cosa pensa lui di quella faccenda! Ovviamente non so cosa penserebbe in un caso del genere XD, ma è il risvolto psicologico che m'interessa più di tutti. Grazie mille per la recensione, ciao! ^^

Enris: grazie per i complimenti allo scorso capitolo! Mi spiace deluderti ma, fin'ora, il bambino si è dimostrato tranquillo come un angioletto. Il fatto è che non volevo che questa storia si trasformasse in una specie di commedia per famiglie, che poi vanno irrimediabilmente a finire nel banale. In questo capitolo, poi, vengono introdotte diverse 'montagne' che Robert dovrà scalare, ossia gli amici e i genitori, prima di tutto, e poi la responsabilità che ha adesso. Non per nulla il titolo, tradotto, sarebbe: chi è il padre di mio figlio? Un modo molto complicato per chiedersi: Chi sono io? Domanda secolare filosofica che non smetteremo mai di farci! XD Be', al prossimo capitolo, ciao!

Un saluto e Buone Feste a tutti!
Patty.

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Capitolo 4
*** Nightmare and snowman ***


4. Nightmare and snowman

“Judy mi ha detto che tu sei un vampiro” disse Johnny quando tornammo a casa.
“Oh. E tu ci credi?” chiesi posando lo zaino vicino alla porta della sua stanza.
“No. Io gli ho detto che non è possibile, perché i vampiri mangiano la gente, e hanno i denti lunghi per succhiare il sangue alle persone. E che se tu avessi voluto mangiarmi lo avresti fatto stamattina a colazione” disse con fare saccente. Mi scappò una risatina. Andammo in salotto e ci sedemmo sul divano.
“Hai ragione. Credo che Judy mi abbia visto al cinema. Io faccio l’attore”.
“E che film hai fatto?”.
“Harry Potter” dissi senza pensarci troppo.
“Davvero? Quale?!” chiese Johnny entusiasta tirando i piedi sul divano e mettendosi a gambe incrociate.
“Il numero quattro … si, quello”.
“Harry Potter e il Calice di Fuoco” disse lui. “Io l’ho già visto quattro volte! Lo vediamo? Dai!”.
“Hem … d’accordo. Però dobbiamo andare a noleggiarlo, perché io non ce l’ho”.
“E perché no? Non te lo possono regalare se ci sei anche tu nel film?”.
“No, non sono così gentili” dissi alzandomi. C’era un negozio per noleggiare film a pochi isolati, così andammo a piedi, ma me ne pentii subito, perché faceva molto freddo.
“Devi fare i compiti oggi pomeriggio?” chiesi a Jonathan mentre eravamo per strada.
“Si” disse lui letteralmente saltando da una striscia pedonale all’altra, cercando di restare sempre nella striscia bianca. Con la coda dell’occhio vidi che il semaforo stava per cambiare, così per gli ultimi tre salti afferrai Johnny da sotto le braccia, lo sollevai, e lo trasportai fino al marciapiede.
“Che cosa devi fare?” chiesi prendendolo per mano, nel caso avesse deciso di rifarlo.
“Devo leggere una fotocopia e rispondere a delle domande”.
“Vuoi che ti dia una mano? La mamma lo fa?”.
“A volte si” disse lui. “A volte invece ha da fare”.
“Che lavoro fa Dana?”. Mi venne in mente all’improvviso che non sapevo più nulla di lei.
“Pulisce le case delle persone ricche” disse. Quando sentii quelle parole trasalii, mi si gelò letteralmente il sangue nelle vene.
Dana che puliva? Mi ricordavo che al liceo era bravissima, fra le prime della classe. Continuava a dirmi che voleva studiare storia dell’arte e diventare archeologa o restauratrice. Non aveva potuto sicuramente per via di Johnny.
Forse se fossi rimasto le cose sarebbero andate diversamente. Forse i nostri genitori avrebbero preso la cosa in un modo … non dico buono, ma per lo meno migliore. Avremmo continuato gli studi e magari a quest’ora saremmo vissuti tutti assieme … in riva al mare, con due cani, un gatto e un porcellino d’India, e poi la sera accanto al fuoco ...
Un porcellino d’India?
Mi riscossi da queste fantasie stupide e guardai Johnny.
“Oggi ti aiuto io a fare i compiti” gli dissi.
“Ok. Cosa c’è per merenda?”.
“Quello che mangi di solito” risposi io esitante. “Che cos’è?” aggiunsi poi.
“Quello che c’è a casa”.
“Perfetto” dissi soddisfatto.
Prendemmo il film e tornammo a casa. Credo che il commesso mi avesse riconosciuto, e forse mi ha considerato un po’ sfigato dato che stavo noleggiando un film nel quale avevo lavorato.
Preparai una veloce merenda a Johnny e dopo lo aiutai a fare i compiti. Non credevo di essere un così bravo cuoco, papà, attore e maestro delle elementari tutto assieme. Con una certa difficoltà in alcune parole particolarmente lunghe Jonathan lesse ad alta voce una fotocopia. Senza quasi nessun problema rispose alle domande e poi fece anche grammatica.
Lo osservavo senza capire una mazza di quello che succedeva attorno a me, era come se assorbisse tutte le mie attenzioni senza fare nulla di particolare. Cercai di riconoscere in lui qualche segno distintivo che svelava il mio DNA. Forse i capelli, non so. Non sono mai stato bravo a cogliere le somiglianze in una famiglia, e poi, a dirla tutta, ero un po’ stordito. Però mi piaceva Johnny: con la sua parlantina veloce, il dente davanti che dondolava follemente … e quegli occhi così profondi e intensi, così innocenti, limpidi, espressivi.
Mi riscossi quando vidi, fuori dalla finestra, l’albero del parco che c’è di fronte a casa mia, piegarsi sotto i colpi forti del vento. Fra tutto si erano fatte le sei di pomeriggio, ed era già molto buio. In quel momento squillò il telefono.
“Pronto?”.
“Ciao Robert, sono Dana” disse una voce.
“Dana!” esclamai. “Come va? Com’è stato il viaggio?”.
“Tutto bene, sono appena tornata dal primo incontro con i direttori. Penso che sia andata bene. Tu com’è andata?”.
“Tutto perfetto, si. E’ stato tranquillo tutto il giorno. Ci siamo noleggiati un film, fra un po’ ce lo guardiamo”.
“Ah, ok”.
“Aspetta te lo passo” dissi andando in cucina. Mi spostai il telefono dall’orecchio e lo porsi a Johnny, dicendo: “E’ Dana”.
“Mamma!” esclamò lui prendendo il telefono e portandoselo all’orecchio.
Mentre parlavano, per curiosità, presi i compiti di Johnny e li guardai. Erano quasi tutti giusti. Parlarono per diverso tempo, tanto che mi chiesi come avrebbe fatto Dana a pagare la telefonata. Negli hotel un minimo decenti le telefonate te le facevano pagare un sacco. Quando si salutarono chiesi ancora a Johnny di passarmela.
“Pronto Dana. Ascolta.” dissi rinchiudendomi nella mia stanza e abbassando la voce. “Che cos’hai regalato a Johnny per il suo compleanno?”.
“E’ un gioco di quelli con le macchinine e le piste. L’aveva visto in tv e gli piaceva tanto”.
“Ah ok … c’è per caso qualcos’altro che vuole?” chiesi cercando di usare un tono neutro.
“Non hai idea di cosa prendergli vero?”.
“No. Ce l’ha la bici?”.
“Robert per favore, niente regali costosi. Potresti finire in un brutto giro” disse lei.
“Il giro degli spacciatori di tricicli? No, perché ho sentito dire che è davvero brutto” dissi cercando di essere serio.
“Scemo!” disse lei ridendo. “Quello che dicevo è che poi, forse, lui comincerà a vederti solo come uno che gli fa regali costosi. E poi non voglio che cresca viziato. Uno le cose se le deve guadagnare!”.
“Ma una bici ce l’hanno tutti. E poi si sta separando da sua madre per quasi mezzo mese, direi che dopo di questo un premio se lo merita”.
“Ha un triciclo a casa” ribatté Dana.
“Ha quasi sette anni, deve imparare ad andare in bicicletta” dissi acidamente.
“Come vuoi” sbuffò lei alla fine. “Ma solo la bici, ok? Poi basta”.
“Perfetto”. Tornai in salotto, trionfante dopo la mia clamorosa vincita sul problema bici. “Johnny, ti piacerebbe una bicicletta?”.
“Si. Però non ci so andare” disse lui voltandosi verso di me, appendendosi alla spalliera del divano.
“Ah, quello lo impari al volo” dissi. “Ti insegnerò io”.
“Ok. Ne voglio una velocissima, come quelle delle corse. Il mio amico Frank ne ha una così, e va velocissimo”.
Ci guardammo il film e, circa alla fine, quando ero ormai morto, Johnny pretese delle spiegazioni: “Ma perché se lì muori sei ancora qui? Sei un fantasma?”.
Così cercai di spiegare in modo semplice che i film erano cose registrate. Fu complicato. Alla fine presi la digitale e feci un filmino. Anche Johnny registrò qualcosa, ma per lo più erano riprese all’altezza delle ginocchia che si muovevano tutte e non si capiva un tubo. Finimmo di guardare il film, cenammo e misi Johnny a letto.
Decisi di farmi una doccia. L’acqua calda che mi scivolava addosso era rilassante in una maniera incredibile. Quando uscii dal bagno ero completamente calmo, e annusandomi scoprii che avevo usato il bagno schiuma che Dana aveva portato per Johnny. Poco male, al posto di puzzare come un adulto avrei avuto il profumo di un bambino.
Andai a letto e mi addormentai subito. Era stata una giornata stancante, però a modo suo mi era piaciuta.

“Bob! Boob!” chiamò una voce con tono disperato. Mi svegliai di scatto. Mi alzai, srotolandomi le coperte di dosso e correndo verso la stanza di Johnny. Una cosa stupida che mi venne in mente in quel momento era che dovevo iniziare a mettere il pigiama, almeno d’inverno. Perché alzarsi così, di notte, in mutande, era stato traumatizzante.
“Che c’è?” chiesi senza fiato, entrando in camera e accendendo la luce.
“Ho fatto un brutto sogno” si lamentò Johnny chiudendo gli occhi per l’improvvisa luce. Stava con le coperte tirate fin sotto il mento e si era raggomitolato in posizione fetale. Tirando un sospiro di sollievo mi avvicinai al letto e mi sedetti.
“Che cos’hai sognato?”.
“Ho sognato che c’era qualcuno che mi seguiva, e poi mi prendevano e facevano degli esperimenti”. Fece una pausa, poi disse, con sguardo supplicante: “Posso venire a dormire con te?”.
“Certo” dissi alzandomi e prendendolo in braccio, sorridendo. Lo portai fino in camera mia e lo misi a letto. “Vuoi che lasci una luce accesa?” chiesi. Lui annuì, così andai ad accendere la luce del corridoio. “Ve bene così?” chiesi tornando indietro. Annuì di nuovo. Mi sdraiai accanto a lui, il volto rivolto al soffitto. Dopo pochi minuti si era riaddormentato e, muovendosi nel sonno, mi si avvicinò. Senza pensarci, riflettendo per i fatti miei, lo chiusi in un semi abbraccio.
Non sarebbe mai più andato via da me.
Restai sveglio fino al mattino dopo. Verso le sei aveva iniziato a nevicare e non aveva ancora smesso quando svegliai Johnny. Come l’altro giorno lo portai a scuola e poi andai in cerca di una bici. Ne trovai una piuttosto costosa e le misi in garage. Avrei sorvolato sul prezzo con Dana, però era simile a quelle bici da corsa, solo in formato mignon.
Per tutto il giorno non aveva fatto altro che nevicare. La neve era altissima e sui bordi della strade si erano formati dei cumuli di neve marrone e grigiastra, a causa dello spazzaneve che passava ogni due minuti. Il risultato fu che non si poteva assolutamente camminare sui marciapiedi, ma in macchina ci si poteva muovere.
Con largo anticipo andai a prendere Johnny. Avevo fatto bene, perché ci misi circa un’ora, se non di più. Quando uscì da scuola la maestra mi venne incontro, sotto un grande ombrello marrone.
“Salve” disse. “Volevo avvisarla di persona che domani non ci sarà scuola a causa della neve. Molti genitori hanno problemi a portare i bambini, così il comune ha deciso che la scuola resterà chiusa per un paio di giorni. Forse tre, se la neve è ancora troppo alta”.
“Ah d’accordo” dissi prendendo dalle spalle di Johnny lo zaino. Notai che la maestra sembrava molto più professionale di me con quell’ombrello. Glielo invidiai: anche io volevo avere un ombrello per portarci sotto Jonathan!
“Questi” disse porgendomi un foglio, “sono i compiti delle vacanze natalizie”.
“Ah. Ok, grazie mille”. Presi il foglio dalle sue mani, poi, assieme a Johnny, m’incamminai verso la macchina. La neve era molto alta in certi punti e, siccome già a me arrivava quasi alle ginocchia pensai che Johnny stesse arrancando nella neve come uno scalatore sull’Everest, così lo presi in braccio e lo portai fino in macchina.
Tornammo a casa e, una volta dentro, Johnny disse: “Che cos’è la neve?”.
Non sapevo che per fare il padre si dovesse anche essere un fisico. “I fiocchi di neve sono acqua fredda. Talmente fredda che si trasforma e diventa … un po’ ghiaccio e un po’ acqua”. Per me era una spiegazione fantastica, ma Johnny non parve pensarla allo stesso modo.
“Si, ma che cos’è? La pioggia sono le lacrime degli angeli, me lo ha detto la mamma. Loro piangono quando succede qualcosa di brutto” disse. Queste invenzioni filo-cristiane! Io non sono per nulla bravo in queste cose, mi adatto meglio agli dei pagani e ai topi dei denti … niente religione di mezzo.
“B’è la neve … viene quando … gli angeli fanno una torta” dissi. “Hai presente lo zucchero a velo?”. Lui annuì. “Ecco la neve è come lo zucchero a velo degli angeli” dissi soddisfatto.
“Ah” disse lui guardando fuori dalla finestra. “E quanto è alta la neve?”.
“Troppo” dissi sbirciando anch’io fuori. Johnny corse verso lo zaino e prese un righello.
“Voglio andare fuori a misurarla!”.
“Allora andiamo” dissi prendendogli la giacca.
Dopo che qualche anima coraggiosa l’aveva spalata mentre eravamo in casa era ridiventata alta più di sedici centimetri. E non aveva intenzione di fermarsi. Il commento di Johnny fu: “Magari gli angeli stanno facendo una festa, e devono preparare tante, tante torte”.
“Può darsi” dissi io sorridendo. “Ti va di fare un pupazzo di neve?” chiesi.
“Si!” esclamò lui.
Ci mettemmo all’opera. Prima costruimmo la pancia e poi, con un po’ di difficoltà perché continuava a cadere, la testa. Ma alla fine ci riuscimmo. Non era un granché, era basso e rachitico, e più che un sorriso sembrava stesse ghignando. Però scattai diverse foto di Johnny accanto al mostro di neve.
Quella sera mi chiamò il mio agente e mi disse che la presentazione di New Moon non era stata per nulla spostata a causa del maltempo. Poco male, non importava. Il giorno dopo sarebbero venuti a prendermi alle due del pomeriggio, anche se la presentazione sarebbe cominciata alle cinque.
“Andiamo a dormire presto, che domani ho da fare, ma ti porto con me” dissi a Johnny rimboccandogli le coperte.
“Cosa devi fare?”.
“Devo andare a parlare con alcune persone. Non ci metteremo molto, tu però puoi portarti qualcosa da fare”.
“Posso portare il mio album per colorare?” chiese.
“Certo” dissi. In quel momento avrei avuto una voglia pazza di dirgli che ero suo padre. Avevo passato una giornata bellissima. Però mi era anche sorto il dubbio che forse Dana gli aveva raccontato qualcosa di strano su suo papà, sul fatto che non vivesse con loro come invece facevano i padri degli altri bambini. “Johnny, dov’è il tuo papà?”.
“Il mio papà abita lontano. Perché lui è molto impegnato” rispose.
“E tu non lo vuoi conoscere?” chiesi, tremando al pensiero della risposta.
“Si, però la mamma mi ha detto è molto impegnato in questo momento e non può venire a trovarmi. Che lui vuole però”.
“Probabilmente è così. Ma tu lo sai, vero, che lui ti vuole bene?”.
“Ma lui non me lo ha mai detto”.
Mi venne un groppo in gola. “Ehm … ma io so che è così. Ti vuole bene, e vuole che tu lo sappia, capito?”. Johnny annuì.
Dopo essere uscito dalla stanza mi appoggiai al muro e deglutii, chiudendo gli occhi. Sentivo il battito cardiaco molto veloce che mi rimbombava nelle orecchie, più forte di quanto fosse mai stato.





Quarto capitolo postato! Yeah!
In questo capitolo non succede nulla di che, è vero, ma volevo dare a Robert qualche scorcio di vita da papà! XD
Mi piace particolarmente l'ultima scena, ma avrei voluto renderla ancora più emotiva. Però non volevo farci sopra tanti ragionamenti, perchè poi poteva perdere d'intensità. Insomma, volevo una cosa veloce e dolorosa (povero Rob)! XD Insomma, Robert si sta affezionando a suo figlio, sta imparando a conoscerlo un po' meglio, e già sente un forte legame con lui, quindi il sapere che questo bambino pensa che suo padre sia lontano e non abbia tempo per lui lo fa star male.
B'è, a proposito del prossimo capitolo, vi dico solo che vedremo comparire le star di Twilight! Yeah! XD
E ora, recensioni:

romina75: wow! Grazie mille per la lunga recensione! Hai ragione per quanto riguarda i bambini, possono essere terribili quanto dolci! Tu di sicuro lo saprai meglio di me dato che sei mamma ^^ Robert, hai ragione, se la sta cavando bene, anche se è molto giovane e del tutto inesperto con i bambini, questo perchè volevo che la storia fosse più che altro incentrata su come si sente Robert, e fargli passare troppe disavventure mi sembrava esagerato! Poveraccio! XD Comunque grazie per gli auguri, passa anche tu buone feste! Ciao! ^^

Enris: prima di tutto grazie per aver recensito! ^^ Sono felice che tu abbia notato che la storia non va verso una strada scontata, insomma, la solita storiella allegra. Sono d'accordo con te, essere genitore dev'essere complicato all'inizio, e strano, forse uno si sente inadatto a volte, non saprei. Quindi non mi sembrava giusto continuare la storia 'alla leggera', insomma, è una situazione complicata non volevo buttarla troppo sul ridere. Comunque sia... spero che questo capitolo, anche se non vi sono grandissimi avvenimenti, ti sia piaciuto. Buone feste, ciao! ^^

_Miss_: grazie mille per i complimenti! Sono felice che la storia ti piaccia, anche se è un po' diversa da quelle che solitamente si leggono su Robert. Per quanto riguarda il mio modo di scrivere... caspita, grazie! <3 Spero che la storia continuerà a piacerti, ciao e buone feste! ^^

winnie poohina: grazie per la recensione! Eh, la parte con la mamma di Robert è stata troppo divertente anche da scrivere! XD Sono contenta che ti abbia fatta ridere! Mhuahahah! Nel prossimo capitolo vedremo anche: gli amici di Robert! Come reagiranno? Hmmm! XD B'è... alla prossima, ciao! ^^

Ringrazio tutti coloro che hanno messo la storia fra Preferiti o Seguite! Grazie mille davvero ragazzi! ^^ Mi raccomando, passate bene questi ultimi giorni di festa! Ciao!
Patty.

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Capitolo 5
*** A punk T-shirt ***


5.A punk T-shirt

Il giorno dopo un autista ci venne a prendere, si fermò sotto casa e suonò il campanello.
“Arrivo” dissi al citofono. “Preso tutto?” chiesi a Johnny. Lui annuì. “Devi andare in bagno?”. Scosse la testa. “Bene, allora andiamo”.
Non mi fiderò mai più quando un bambino dice che non deve andare in bagno, infatti eravamo in macchina da mezz’ora, stavamo in mezzo all’autostrada, quando cambiò idea.
“Boob” disse esitante.
“Si?”.
“Devo fare pipì”.
“Oh”. Mi sporsi verso il conducente, che era rimasto non poco stupito del fatto che mi portassi dietro un bambino di sette anni, alla presentazione di un film. “Scusa, a quanto dista il prossimo autogrill?”.
“Fra una quarantina di kilometri”.
“Ci dobbiamo fermare”.
“Certo” disse guardando la strada.
“Fra venti minuti c’è un autogrill. Ce la fai a tenerla?” chiesi preoccupato.
“Si, però facciamo in fretta” disse lui.
“Facciamo in fretta” dissi all’autista. Lui annuì. Era proprio bravo, in poco tempo eravamo già arrivati. Scesi dall’auto e mi trascinai dietro Johnny fino in bagno. Per fortuna non era l’ora di punta e non c’era molta gente, così non dovette aspettare troppo.
Dopo altri quaranta minuti di viaggio arrivammo. Il luogo dove si sarebbe tenuta la presentazione era pieno di gente che aspettava di entrare. Per fortuna non dovevo fare le foto, altrimenti sarebbe stata una tortura, sia per me che per Jonathan. Oltretutto se avessi dovuto posare non avrei avuto idea di dove lasciarlo. Passammo in macchina davanti alla folla e alcune persone presero a gridare e a fare foto.
“Perché ci fanno le foto?” chiese Johnny. “Perché hai fatto un film?”.
“Si”.
“Com’è essere famosi?”.
“E’ bello perché mi piace recitare, però a volte è brutto perché la gente ti dà fastidio”.
“E perché lo fanno?”.
“Perché sono curiosi”. Caspita forse avevo ragione. Avevo trovato il vero motivo che spingeva la gente a comprare riviste scandalistiche!
Con la macchina arrivammo sul retro e, prendendo Johnny per mano, entrai nell’edificio. Spuntammo dietro ad un palco e raggiunsi
la saletta dove di solito c’erano anche gli altri.
In lontananza vidi la mia agente, che appena mi scorse aprì la bocca in una smorfia di orrore e mi raggiunse, quasi correndo. “Cos’è questo?” mi chiese indicando il bambino.
“E’ Jonathan” dissi solo. Per quanto riguardava Johnny lui non disse una parola, ma si limitò a fissarla.
“Ciao ciccio” disse Hanna sorridendo falsamente. “Perché è qui?”.
“Dobbiamo parlarne ora?” chiesi infastidito.
“In questo istante” disse lei annuendo. Sbuffai e presi Johnny in braccio, incominciando a camminare più velocemente.
“No, ne parliamo dopo” dissi aprendo la porta del camerino ed entrando. Mi voltai: dentro c’erano già Nikki, Kellan, Kristen e Taylor, e tutti quanti mi osservavano. Chi stranito, chi curioso, chi sconvolto. “Ciao, questo è Jhonatan” dissi con un vago sorriso.
“Ciao” disse lui agitando una mano.
Calò il silenzio.
“Ciao, io sono Nikki” disse lei sorridendo e avvicinandosi. Le sarò grato per l’eternità per aver rotto il giaccio. Posai Johnny a terra e gli tolsi il giubbotto. Posai le giacche sull’appendiabiti e lo zaino a terra. Quasi come se nulla fosse tutti si presentarono.
A un tratto mi ritrovai preso da parte da Kristen. “Robert ma chi è quel bambino?”.
“Un bambino, appunto. Non vedi?” risposi vago.
“Vuoi dire che è un bambino che hai trovato per strada, no? Sei diventato un filantropo e vai a raccattare tutti gli orfani alla Oliver
Twist che ci sono in giro per Londra, vero?”.
“Se vogliamo metterla così” dissi osservando Kellan e gli altri che cercavano di costruire un castello di carte.
“E’ tuo?” chiese Kristen con voce greve.
“Possiamo anche metterla in quest’altro modo” dissi abbassando lo sguardo e passandomi una mano fra i capelli. “O anche dobbiamo … dato che è così” borbottai.
“Ah!” esclamò Kristen voltandosi verso il tavolino e osservando Jonathan. “Porca troia!” esclamò.
Taylor la guardò male e le lanciò qualcosa addosso. “Hey!” disse indicando Johnny.
“Scusa” disse lei andando a sedersi accanto agli altri.
Li raggiunsi, e mi beccai un sacco di sguardi che chiedevano spiegazioni. “Questo è il figlio di Dana” dissi indicandolo, “la mia ragazza del liceo” sussurrai dopo. Kellan mi guardò alzando le sopracciglia in uno sguardo incredulo e così fece anche Taylor. Nikki invece osservò Johnny.
Fino alle cinque restammo lì a parlare poi, quando mancava poco ad entrare misi la testa fuori dalla porta e fermai la prima persona
che vidi. “Hey” dissi ad una ragazza prendendola per un braccio. “Devi controllarmi il bambino, se qualcuno ti chiede qualcosa dì che
te l’ho detto io”. Lei sbirciò dentro la stanza. “Dai, se vuoi ti pago!” esclamai al culmine della disperazione.
“Ok” disse lei scrollando le spalle ed entrando con me in camerino.
Mi sedetti accanto a Johnny, me lo misi sulle ginocchia e dissi: “Adesso devo andare a parlare con quelle persone di cui ti dicevo ieri. Non ci metto tanto. Tu se vuoi puoi guardare, o puoi restare qui, come vuoi. Starai con …” mi girai verso la ragazza.
“Fiona” disse lei.
“Con Fiona” ripetei.
“Va bene. Lo sai che il dente si sta staccando?” disse facendo dondolare ancora il dente, che si muoveva molto più dell’altro giorno.
“Oh si, fra poco cadrà” dissi guardandolo con occhio critico. “Stai segnando i giorni sul calendario che ti ho dato?” chiesi, ricordandomene improvvisamente.
“Si, guarda”. Dall’astuccio prese il calendario tascabile e mi fece vedere che aveva già tracciato delle x rosse.
“Bravo! Ora vado, ci vediamo fra un po’” dissi e, senza pensarci, gli diedi un bacio sulla fronte prima di depositarlo di nuovo sul divano. Mi fermai un secondo, stupito da quello che avevo appena fatto, che non era proprio da me, poi uscii.
Raggiunsi le quinte del palcoscenico, dove avevano messo un lungo tavolo dietro al quale ci saremmo seduti. Una voce ci annunciò
al microfono e cominciammo ad entrare, sommersi dal boato della folla. Appena prima di uscire incrociai lo sguardo di Kristen, appoggiata alla parete con le braccia incrociate e un’espressione corrucciata in viso.
Ci misi quasi due ore purtroppo. Ad un certo punto sbirciai alla mia destra e, oltre il palco, vidi Johnny e Fiona, la ragazza con cui l’avevo lasciato, che ci osservavano. Volevo fare un saluto, ma stavo rispondendo ad una domanda, così mi sforzai di distogliere lo sguardo e osservai la massa di persona davanti a me. Forse in un altro momento non l’avrei pensata così, ma in quell’istante credevo che nessuna di quelle persone valesse abbastanza da competere con Johnny. Non c’era alcuna speranza per nessuna di loro, per quanto fossero meravigliose, di essere alla sua altezza.
Alla fine, dopo i saluti e le foto, feci per tornare al camerino ma qualcuno mi bloccò. “Robert, ti posso parlare?” mi chiese Kristen.
“Certo”. Così ci dirigemmo verso un punto isolato dietro al palco e lì, come avvisandomi che la conversazione non era nulla di buono, Kristen mi guardò con aria di rimprovero.
“Robert, so che non sono affari miei, ma cosa pensi di fare con quel bambino?”.
“Per ora lo terrò, poi quando tornerà sua madre vedremo. Senti,” aggiunsi vedendo la sua espressione incredula ,“lo so che non sono proprio la persona adatta a badare ad un bambino ventiquattr’ore su ventiquattro, però … non lo so, a me va che stiamo insieme. E poi non mi sembra di andare così male finora”.
“Robert tu esci tutte le sere, alcune volte ti ubriachi, hai mille impegni, devi viaggiare. Che cosa pensi di fare precisamente? Portartelo appresso dappertutto?”.
“Ma Dana tornerà il ventinove!” esclamai stringendomi nelle spalle.
“Si, ma come farai poi? Un figlio è impegnativo, il tuo lavoro è impegnativo … dovrai rinunciare a qualcosa” concluse.
“Un uomo impegnato non può avere figli, è questo che stai cercando di dire?”.
“No, ma …” Kristen sospirò, alzando gli occhi al cielo.
“Senti, ce la farò, non ti preoccupare. E so che ci saranno sacrifici da fare, so che sarà difficile, ma” sospirai, “… non puoi capire finché non lo provi. E’ mio figlio, è … la cosa più fantastica che ho mai visto in vita mia” dissi allargando le braccia e stringendomi nelle spalle.
Kristen abbassò la testa. “Io … sono solo preoccupata. Non so a quali cose vai incontro, ma credo che quel bambino rischia di crescere con un padre più lontano da lui di quanto non sia ora”.
“E si può sapere quale sarebbe la soluzione secondo te?” sbottai.
“La soluzione è che quando arriva sua madre tu glielo ridai e basta. Robert hai ventitré anni, mille cose a cui pensare e vuoi pure metterti a badare ad un bambino? Per cosa poi? Per vederlo buttato di qua e di là prima con te, poi con sua madre, poi di nuovo qui?”.
“Io sono suo padre.” dissi con voce dura indicandomi e avvicinandomi a Kristen, “Tu invece non sei nessuno per dirmi cosa devo fare!”.
“Robert …” cominciò lei, ma io non la volevo sentire.
Me ne andai, ero incazzato come una belva! Preoccupata, e per cosa? Fatti gli affari tuoi! Mi sedetti su una sedia che trovai lì e mi misi la testa fra le mani. Non ero mai stato peggio in vita mia.
In quel momento cominciò ad insidiarsi un dubbio dentro di me: e se davvero fossi stato un cattivo padre? Se non avessi avuto tempo? Se questa decisione di entrare prepotentemente nella vita di Jonathan fosse sbagliata, e non fosse servita a dargli una vita normale, con un padre e una madre come si deve?
No, queste non erano buone ragioni per non vederlo più. Il casino l’avevamo combinato in due, e Dana si era presa le sue e le mie responsabilità per troppo tempo ormai. Inoltre, come facevo a dimenticare? Potevo fare come se nulla fosse successo? Jonathan era lì, con i suoi sogni, le sue idee, era una persona in formato mini ma aveva tutte le caratteristiche per diventare qualcuno. Non dico qualcuno d’importante, ma qualcuno e basta. Una persona, non c’è altro modo per dirlo. E, cazzo, mio figlio! Non potevo scordarlo, come si fa quando lasci la macchina parcheggiata in seconda fila (promemoria per Robert: non devo più fare paragoni fra Johnny-cose o Johnny-animali).
Qualcuno mi riscosse dai miei pensieri toccandomi una spalla. Alzai la testa e vidi Jonathan. “Che cos’hai?” mi chiese.
“Niente, sono stanco” dissi alzandomi. “Ti sei annoiato, vuoi andare?”.
“Non mi sono annoiato. Guarda: ho fatto un disegno. Ci sei anche tu, poi ci siamo io e la mamma” disse facendomi vedere un foglio di carta.
“Che bello” dissi prendendolo in mano. Stavamo tutti su quella che poteva essere neve, ed eravamo stranamente slungati. Io praticamente ero tutto gambe e, ovviamente, come nei disegni di ogni bambino, avevo gli occhi che erano delle palline e un sorriso enorme. “Perché Dana ha queste cose sulla testa?” chiesi notando delle righe nere che partivano dal centro della sua testa e andavano verso il basso.
“Sono i rasta” disse Johnny come se fosse ovvio.
“Oh”. Mi sedetti, sollevai Johny e lo feci sedere sulle mie ginocchia. “Che cosa vuoi fare domani?”.
“Voglio fare un altro pupazzo di neve” disse lui.
“Un altro?” chiesi sconcertato. Basta pupazzi! Erano maligni, inquietanti e stronzi, perché quando cominciavano a piacerti si scioglievano.
“Non vuoi? Allora …”. In quel momento passò Kristen.
Mi dispiaceva essermi arrabbiato con lei, non volevo litigare. Quando passò mi osservò con sguardo triste, ma io le sorrisi. Non volevo ci restasse male per quello che le avevo detto. Fra parentesi, credo di non aver mai perso la pazienza al lavoro, forse vedermi così deve essere stato strano. La vidi esitare, poi venne verso di noi. Si abbassò sulle ginocchia e arrivò alla stessa altezza di Johnny.
“Ciao” disse. “Io mi chiamo Kristen, e tu?”.
“Jonathan. Perché sulla tua maglietta c’è un teschio con delle punte sulla testa?”.
“Perché i teschi vanno sempre in giro così” disse Kris guardandosi la maglia.
“E perché vanno sempre in giro così?”.
“Perché gli piace così. Anche tu se vuoi puoi andare in giro così”.
“Hey,” protestai “non convertirmelo al punk”. Al che Kristen rise.
“Io so cos’è il punk, ma non mi piace. Perché i punk vanno sempre in giro con i capelli strani e a me non piacciono. Una volta Mitch voleva farmi diventare punk”.
“Chi è Mitch?” chiesi sospettoso.
“Mitch era l’amico di mia mamma. Veniva sempre a casa nostra e suonava la chitarra elettrica. E una volta siamo andati a vederlo suonare, ma siamo tornati subito a casa perché c’era gente stupida in quel posto. Poi però mamma non lo ha fatto più venire, perché dice che era … uno stronzo. Lui voleva farmi i capelli da punk però né io né la mamma volevamo, perché sono brutti”.
“Uno stronzo” ripeté Kristen. “Sai cosa vuol dire?”.
“E’ una parolaccia e significa che una persona è cattiva. Ma la mamma mi ha detto che non devo dirla a nessuno”.
“Bravo!” esclamai. Appena Dana tornava le avrei chiesto di questo Mitch. Ma chi era un tipo che voleva pettinare un bambino da punk?! “Comunque, domani facciamo che …” cercavo di farmi venire in mente qualcosa, ma con la neve per strada non era proprio una giornata comoda.
“Se non avete niente da fare domani possiamo andare a fare un giro” intervenne Kristen.
“Come?” chiesi stupito. Si stava sforzando di essere gentile o voleva davvero uscire con me e Johnny?
“Dovremmo andare a bere una cioccolata calda siccome c’è la neve”.
“Si!” disse Johnny. “Andiamo?” chiese voltandosi verso di me. Cavolo, avevo un sacco di potere, mi accorsi in quel momento. Io potevo decidere cosa far fare a Johnny e cosa non fargli fare … inquietante.
“Certo” dissi.

Il giorno dopo smise di nevicare, per fortuna, però, per sicurezza, mi portai dietro l’ombrello. Ci incontrammo in centro città, dove la maggior parte della neve era stata già spalata. Quando seppero che Kris, Johnny ed io saremmo andati a fare un giro, anche Nikki, Taylor e Jackson vollero venire con noi. Sospettavo che fosse per vedere come mi comportavo con Johnny, forse solo Taylor era venuto senza doppi fini … o forse per la cioccolata.
“Ciao” ci salutò Jack quando ci vide arrivare.
“Ciao. Gli altri?” chiesi.
“Nikki e Kris sono andate un attimo a comprare le sigarette. Taylor boh, sarà in ritardo come al solito”.
“Ok”.
“Hey ciao!” esclamò Jackson rivolgendosi a Johnny. “Come va?”.
“Bene. Perché?”.
“Così” disse lui alzando le spalle.
“Non ti conviene che inizi a chiedere perché. Quando comincia non si ferma più” dissi.
“Ma va! E’ arrivato Lunedì e già credi di sapere tutto sui bambini” mi rimproverò Jack con un ghigno.
“Sempre meglio di te” lo rimbeccai. Lui sbuffò. In quel momento arrivò Taylor, incappucciato in una giacca marrone.
“Ciao” disse tirando fuori un attimo una mano dalla tasca per fare ciao e poi ricacciandola dentro per il freddo. “Ah, guarda” mi disse cercando qualcosa, “E’ da un po’ che ce l’ho a casa e non so che farmene … tieni, dallo a lui” disse tirando fuori una pacchetto e indicando Johnny con il capo.
“Cos’è?” chiesi prendendo il pacchetto.
“E’ un regalo. Tu prendilo”.
“Ok” dissi, e lo passai a Johnny. “Puoi anche aprirlo adesso se vuoi”.
“Non lo voglio aprire ora. Lo voglio aprire al mio compleanno. Così ho più regali da aprire” disse allontanando il pacchetto.
“Ok” ripetéi. Io da piccolo non avevo tutta questa pazienza. Passavo tutto Dicembre a cercare il nascondiglio dei regali, e se li trovavo cercavo di capire che cos’erano.
“Quand’è il tuo compleanno?” chiese Taylor.
“E’ il venticinque di Dicembre”.
“Ah, Natale”. Jhonny annuì.
Kristen e Nikki furono presto di ritorno e andammo a bere la famigerata cioccolata. Non che ne avessi proprio voglia, ma era per uscire. Siccome eravamo in una strada dove c’era il divieto di passaggio per le auto lasciai andare Johnny senza tenerlo per mano, come mi ero abituato a fare. Ad un tratto lo vidi correre verso il ciglio della strada e chinarsi sulla neve.
“No! Aspetta Johnny” dissi correndo verso di lui. Ma guarda che strano: mi sentivo addosso un po’ di sguardi. “Non toccare la neve sporca” gli dissi allontanandolo.
“Perché?”.
“Perché non è pulita, poi ti prendi qualcosa”.
“Ma …” lui fece per girarsi e tornare sul ciglio della strada.
“No” dissi io. Lo sollevai e tornammo verso gli altri, solo che Johnny era leggermente imbronciato. “Ehy mi fai il muso?” gli chiesi. Lui non rispose. Lo presi per la vita e lo sistemai sulle mie spalle. Sentii distintamente le sue piccole mani che si appoggiavano alla mia testa. “Com’è la sopra?”.
“E’ alto!” disse Johnny ridendo. Ci vuole poco per far felice un bambino. Veloci come si arrabbiano poi subito si calmano. Kristen sorrise vedendoci tornare e continuammo lungo la strada. Arrivammo dentro una cioccolateria e ci diedro un grosso tavolo rotondo. Ordinai un caffè per me e una cioccolata con la panna per Johnny. Dopo averla finita, ovviamente, aveva delle lunghe strisce di cioccolata ai lati e sopra la bocca.
“Vieni Johnny, andiamo a lavarci” disse Nikki alzandosi e prendendolo per mano. Poco dopo furono di ritorno, nel frattempo avevo pagato il conto. Quando Johnny e Nikki tornarono, uscimmo.
Non l’avessimo mai fatto.
Fuori due giornalisti con delle grosse macchine fotografiche ci accecarono con i flash e ci si assediarono tutto attorno. Non capii più niente. “Robert chi è quel bambino?” chiese un donna che era arrivata correndo in quel momento.
“Andiamo” disse Jackson mettendosi fra me e i fotografi e cominciando a camminare.
“Oh, forza, solo un paio di domande!” esclamò la giornalista seguendoci per un po’.
“Ho da fare” dissi prendendo in braccio Johnny. Cominciammo a camminare, ma vedevo solo flash luminosi davanti agli occhi.
“Bob chi sono?” chiese lui sporgendosi da sopra la mia spalla.
“Nessuno, lasciali stare” dissi velocizzando il passo. Camminammo finché non decisero di lasciarci perdere, poi rallentammo.
“Avvoltoi” borbottò Taylor.
“Che stronzi, non ti lasciano in pace nemmeno un minuto” concordò Kris.
“Ma è mai possibile che non dici una frase che sia una senza metterci dentro uno stronzi o un bastardi?”.
“Uff, scusa” disse Kris stringendosi nelle spalle. Feci un sorrisino.
Chissà se sotto la felpa portava ancora la maglietta col teschio?





Ecco qui! Capitolo cinque! Ovviamente non so se Kristen Stewart parla come uno scaricatore di porto, ma in questa fic va così! XD Ho pensato di darle una personalità mai vista prima in una fic, un po' da maschio forse... Vabè, spero che questa sboccata-version di Kris vi piaccia! XD
Per quanto riguarda la sua reazione, si, forse è un po' esagerata, ma si preoccupa sia per Robert che per il bambino in fondo, è una persona schietta e dice ciò che pensa. Vuole solo dare un consiglio, ma Robert ormai è totalmente succube di Johnny! :)
La parte dei fotografi la volevo assolutamente mettere! Trovo che sia una cosa vergognosa certe cose che fanno. Non lasciano in pace la gente nemmeno un minuto! Danno fastidio persino a me, e da me non verrebbero nemmeno se mi mettessi a ballare la hula in mezzo a Piazza Duomo! XD Oddio ma come mi è uscita? -.-'' Lasciamo stare...
Si. Lasciamo stare. Piuttosto, recensioni:

_Miss_: wow sono contenta che l'ultimo pezzo ti sia piaciuto! ^^ Ce ne saranno altri così, spero di riuscire ad emozionarti ancora! Sai, è un grande complimento, sono felicissima di essere riuscita a trasmetterti qualcosa. Grazie per la recensione! Ciao ^^

winnie poohina: gli amici tutto sommato hanno reagito bene mi pare. Anche Kris, che all'inizio era preoccupata, ha capito che per Robert, Johnny conta troppo per non rivederlo più, e ha cercato di essere gentile. B'è grazie per la recensione, al prossimo capitolo! :)

Enris: esattamente come hai detto tu! XD In questo capitolo ho cercato di rendere una situazione reale, se un mio amico avesse un figlio mi preoccuperei per tutti i pasticci che potrebbe combinare, cercherei di aiutarlo, probabilemnte anche io andrei in palla! XD B'è, grazie per aver recensito, ciao! ^^

E il prossimo capitolo sarà, tipo, stra-importante! Ci sarà il Natale, e accadrà una cosa importantissima! Oh, vi tengo sulle spine! Quanto sono cattiva! XD Vabè, ci vediamo al prossimo capitolo, un grazie a tutti per leggere e recensire, ciao! ^^
Patty.

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Capitolo 6
*** The question ***


6.The question


Dopo l’incidente con i giornalisti ero preoccupato. Forse avrebbero cominciato ad assediarmi di domande o cose simili su Johnny, e se mi avessero ancora beccato in giro con lui avrebbero dato fastidio come l’altra volta. Comunque le vacanze iniziarono in fretta e presto fu il ventiquattro. I miei genitori mi avevano detto tassativamente di andare da loro, che ci sarebbe stata anche mia sorella Lizzy. Ma in realtà era solo per vedere il bambino ricomparso. Mi ero già stupito che non fossero venuti prima a bussare insistentemente alla porta.
Tutte le sere Dana telefonava e parlava con Johnny, poi mi chiedeva come andava. Decisi di raccontarle tante mezze verità, ad esempio che avevo portato Johnny ad un impegno di lavoro durato non troppo tempo e che forse, ma forse, ci avevano scattato una foto.
“Ma probabilmente è sfocata e non si vede per niente” la rassicurai al telefono, ben sapendo invece che le foto erano molte ed estremamente nitide.
“Mh, vabbé” disse lei con una punta di preoccupazione nella voce.
“Senti, solo una curiosità: chi è Mitch?” chiesi la sera della vigilia.
“Ah nessuno, è il mio ex”.
“Dovresti sceglierteli meglio. Chi è uno che vuole fare la cresta a un bambino di sette anni?” chiesi.
“Ma che …? Robert, fa silenzio”.
“Chiedevo soltanto, l’importante è che ora l’hai mollato” dissi. Sentii Dana sospirare.
“Spero che Johnny non ti abbia raccontato tanti altri aneddoti sulla mia vita privata”.
“B’è comunque sia mi sembra giusto che io sappia con chi mio figlio passerà la metà del suo tempo” osservai.
“Certo, come no. Perché quando mi metterò con qualcuno verrò dritta a chiedere il permesso a te” la sentii dire con ironia.
“B’è … no, non in quel senso, però …”. Era una situazione strana: io volevo sapere con chi stava Johnny, ma sapevo anche che era sbagliato interferire nella vita di Dana. In fondo erano fatti suoi.
“Lo so, è una situazione un po’ strana” disse Dana.
“E’ la stessa cosa che pensavo io. Ti ricordi, anche quando stavamo assieme era come se ci leggessimo nel pensiero” dissi sorridendo.
“E’ vero! A proposito, indovina cosa sto facendo”.
“Allora, stando ai miei ricordi di come parlavi al telefono, sei stesa sul letto a pancia in su” azzardai. “E se il telefono è fisso allora stai giocando con il filo”.
“Hai ragione!” disse lei. “Lo sai, credo proprio che otterrò il lavoro. L’unico problema sarebbe se mi chiedessero di venire a vivere qui, ma sanno che ho un figlio. Di solito se hai famiglia non ti chiedono di spostarti”.
“Si, si giusto” dissi atterrito. Sarebbe stato un problema se Dana e Johnny si fossero trasferiti così lontano. Praticamente dall’altra parte dell’ Inghilterra!
“Non preoccuparti. Ah senti, mi sono scordata di dirtelo: torno il ventotto alle undici, non il ventinove ok? Quelli delle prenotazione avevano fatto un casino, però almeno mi hanno rimborsato il biglietto. Ah! Dillo a Johnny”.
Ecco, un altro casino: il ventotto c’era la festa alla quale dovevo assolutamente partecipare. “Non c’è problema” dissi fiducioso.

“Robert ciao!” esclamò mia madre aprendo la porta.
“Mamma!” dissi abbracciandola. Lei prese la borsa piena di regali che avevo in mano e ci condusse in salotto, dove c’era l’albero e sotto tutti i regali.
“Robert!” mio padre e mia sorella mi vennero incontro e mi abbracciarono, poi si dedicarono a Johnny.
“Hey ciao, io mi chiamo Lizzy. Tu sei Jonathan, vero?”. Lui annuì, forse era un po’ timido, con così tanta gente nuova, tutti adulti.
Dovete sapere che mia madre è una forza della natura, da sola aveva cucinato tutto il pranzo di Natale, che era, come tutti gli anni, una cosa esagerata. Quando vivevo a casa dei miei mangiavamo gli avanzi surgelati e poi ri-cotti di quel pranzo per almeno una settimana.
Tutti continuavano a parlare con Johnny, e mia madre, che probabilmente aveva cambiato idea su di lui, continuava a chiedergli quale fosse la sua pietanza preferita, e quindi lo riempiva di patate al forno.
“Ok, basta, è pieno” dissi io quando cercò di servirlo per la quarta volta. Un bambino non può mangiare così tanto!
“Oh, ma che dici?” disse mia mamma corrugando le sopracciglia.
“Clare, siediti” disse mio padre. Lei, stranamente, obbedì.
Quando arrivò l’apertura dei regali il più entusiasta di tutti fu Johnny. Credo che Dana non avesse la possibilità di fargli tanti regali, quindi quell’anno fu per lui il record dei regali ricevuti in tutta la sua vita. Scoprii anche che il regalo di Taylor era un regalo vero, comprato. Altro che disfarsi di cose vecchie! Quel ragazzo è di una gentilezza incredibile. Ovviamente non avevo portato la bicicletta a casa dei miei, e me la riservavo come sorpresa una volta tornati a casa. Restammo lì anche per cena, anche se, davvero, non vedevo l’ora di insegnare a Johnny ad andare in bici ora che la neve si era sciolta. Il tempo passò in fretta, fra telefonate di auguri ai parenti, tentare di capire come si usavano certi regali di Johnny, e conversazioni varie.
Verso le undici di sera mia madre servì il caffè. Johnny si era addormentato sul divano e noi stavamo seduti tutti attorno al tavolo. A quel punto sapevo che mi aspettava la paternale. E infatti, come ad avvisarmi, mia madre sospirò.
Ah! Il sospiro no! Il sospiro era come un’avvisaglia di qualcosa di terribile, di estremamente tedioso e, in questo caso, probabilmente imbarazzante.
“Robert, ma com’è possibile che sia successo?” domandò con uno sguardo che si sarebbe adattato meglio ad un funerale.
“Non ne ho idea. Non lo sapevo nemmeno io, te l’ho detto” sbuffai.
“Io un’idea di come è capitato ce l’avrei” disse Lizzy ridendo sotto i baffi.
“Ma come, Dana non ti ha mai avvisato?” chiese mia madre lanciandole uno sguardo di rimprovero. “Mi ricordo Dana, era una ragazza così carina, così educata”.
“Ma che centra scusa?” intervenne Lizzy. “Avrà avuto un sacco di motivi per non dirglielo. Quanti anni avevate Rob? Quindici? Sedici? Avrà pensato che questo babbeo sarebbe fuggito in Canada”.
“In realtà si può dire che è stata un po’ colpa mia” azzardai, attirando gli sguardi di tutti. “Lei mi voleva chiamare, ma io non ho risposto perché … pensavo che volesse rimettersi assieme a me”.
“Che scemo” disse mia sorella dandomi una gomitata.
Dopo diverse spiegazioni su come si era svolta la faccenda, e consigli sui bambini da parte dei miei, si era fatta mezzanotte passata e mia sorella e mia madre erano in cucina a chiacchierare, mentre io stavo mettendo i regali nelle buste per tornare a casa.
“Papà … secondo te sarò bravo a, insomma, a gestire la cosa?”. Ormai gestire la cosa era diventata una delle mie frasi preferite.
“Gestire le cosa?” chiese mio padre alzando un sopracciglio.
“Si, a fare tutte le cose che fanno i papà normali, quelli che tornano a casa alle cinque e hanno già … trent’anni e passa” dissi osservando Jonathan.
“Ah secondo me per queste cose farai schifo”.
“Cosa?!”.
“Però potrai fare altre cose con tuo figlio, forse non saranno cose tradizionali come al solito. Insomma, se ti aspetti di tornare alle cinque a casa sei molto lontano dalla verità. Lo sai meglio di me quanto sei impegnato. E sappi che non si fanno solo cose felici con i propri figli, ci sono anche cose spiacevoli da fare”.
“Ad esempio?” chiesi preoccupato. Cavolo, come se non lo sapessi! Con i miei ci avevo litigato parecchie volte, ma nella parte del figlio pensavo di potermi permettere addirittura un po’ di arroganza. Insomma, io ero quello immaturo che doveva ancora crescer,e loro invece i genitori che dovevo per forza opporsi (a quei tempi la pensavo così). Essere dall’altra parte mi sembrava innaturale, e mi terrorizzava.
“Devi insegnargli cos’è giusto e sbagliato, devi imporre delle regole perché non faccia scelte stupide. Dire di no a tuo figlio è una delle cose più difficili in certi casi: loro si arrabbiano, tu ti arrabbi, e sembra che tutto vada a puttane. Ma poi passa” disse con fare rassicurante che non mi tranquillizzò nemmeno un po’.
Dopo aver messo tutto in macchina salutai tutti quanti, presi Johnny in braccio e, ancora dormiente, lo misi in macchina. Una volta a casa lo misi a letto e poi mi buttai sul divano.
Avevo voglia di buttarmi giù dalla finestra, correre fino a Buckingham Palace e andare a svegliare la regina con un fischietto.
Si, a volte mi vengono in mente queste cose stupide.

“Bob come devo fare ora?”.
“Tu pedala, io ti tengo da qui” dissi reggendo la bici da dietro.
“E se cado di nuovo?”.
“Non puoi cadere, ci sono io dietro”. Era ormai il secondo giorno che provavo a far andare in bici Johnny, ma l’ultima volta ci aveva fatto una caduta  di culo colossale, e per quel giorno non volle più riprovare. Invece quella volta aveva fatto un paio di metri, solo che talmente lento che poi sentiva la bici che si sbilanciava e metteva giù i piedi. Quindi stavo provando con l’ultimo metodo che mi veniva in mente.
“Guarda che vado eh” disse cominciando a pedalare. Potevo seguirlo a passo lento.
“Ok, visto che non cadi?”.
“Per ora no”.
“Prova ad andare un po’ più veloce”.
“Sicuro?”.
“Si, si, ti tengo io”. E accelerò. Ora si che stava diventando difficile stargli dietro, mi sentivo un po’ un coglione. Senza dire nulla, lo mollai, tenendomi dietro di lui un po’ correndo, un po’ camminando a passo svelto. “Stai andando!” esclamai.
“No, non mi mollare!” esclamò lui.
“Stai andando benissimo, se vuoi fermarti schiaccia il freno!”.
“No ho paura!” esclamò. Intanto la stradina solitaria che avevo scelto come campo di apprendimento curvava, così lui girò il manico incerto. Rallentò talmente tanto che cadde. Si alzò, sorridente, e corse verso di me.
“Hai visto? Ce l’ho fatta!”.
“Bravissimo!” esclamai prendendolo in braccio. Provammo ancora un po’ di volte e poi tornammo a casa.
“Bob” mi chiese improvvisamente Johnny  quella sera a cena, “posso chiederti una cosa?”.
“Certo” gli dissi. “Però dovrai mangiare anche questi, altrimenti niente”. Gli misi un paio di verdure nel piatto. Le separava tutte e non le mangiava, ma non potevo tenerlo solo a pasta e carne, altrimenti sarebbe morto di colesterolo alto!
“Ma non mi piacciono” si lamentò.
“Prova a mangiarle assieme alla carne, il sapore non si sente” dissi. Lui provò e, senza quasi rendersene conto, continuò a mangiare. Ora ero curioso: se accettava di mangiare melanzane pur di chiedermi qualcosa allora doveva essere una domanda urgente. Sperai che non fosse la famigerata: come nascono i bambini? Potevo raccontare la storia della cicogna, o quella di Gesù Bambino, oppure potevo dire: sei troppo piccolo ancora!
“Ora posso chiederti quella cosa?”.
“Ovvio” dissi, soddisfatto delle mie capacità di persuasione.
“Tu sei il mio papà?”.
Mi andò di traverso un pezzo di qualcosa, e bevvi grossi sorsi d’acqua per calmare la tosse che mi era venuta. Quando mi passò chiesi: “Perché?”.
“Perché tutti i miei amici stanno, tutto il tempo, con il loro papà o con la loro mamma. Io sono sempre stato con la mia mamma, quindi il mio papà sei tu, per forza, perché sei il primo che sto con te tutto il tempo”.
Caspita, certo che come ragionamento non faceva una piega. E cos’avrei dovuto rispondere? Dovevo aspettare Dana per quello, però ormai me lo aveva chiesto. Non potevo dirgli ora di no e dopo di si. Non volevo nemmeno rimandare l’argomento. “Hem … se lo fossi a te farebbe piacere?”.
“Si! Tantissimo, tanto così!” disse allungando le braccia verso l’esterno. “Tu sei l’amico di mamma più simpatico di tutti” aggiunse poi.
“Ah grazie.” sussurrai, “B’è in realtà … si, io sono tuo papà” bisbigliai a mezza voce.
“Si!” esclamò lui scendendo dalla sedia e raggiungendomi. Mi saltò addosso e si sedette sulle mie ginocchia, stringendomi, per quando potesse stringermi con le sue braccia sottili. Con una specie di groppo in gola lo strinsi anche io. Mi venivano i brividi, era una sensazione quasi dolorosa, mi sentivo come se da un momento all’altro fossi dovuto esplodere. Ma il mio cuore era gonfio di sentimenti contrastanti. Amore. Paura. Tristezza, incertezza. Insiscurezza, felicità, amore. E ancora amore, amore, amore.
Ero lì in casa mia, senza alcun tipo di programma per la serata che comprendesse amici, feste o ragazze. Dovevo andare a dormire presto e probabilmente mi sarei svegliato altrettanto presto, con davanti una giornata senza troppi eventi come quella appena passata. Però ero felice.
Strinsi ancora un po’ più forte Johnny. Profumava di fresco …








Olè! Vi avevo detto che questo capitolo era importante. Adesso Johnny sa che Robert è suo papà, spero di essere riuscita a trasmettere un fondo di veridicità (che secondo me è la cosa più importante). La reazione del bambino in particolare mi è stata difficile da ricreare, perchè... come si fa in questi casi? Cosa sa quello che passa per la testa di un bambino di sette anni in una situazione come questa? Comunque, spero che abbiate notato i fantastici errori ortografici messi di proposito nella parlata di Johnny! XD
Vi avviso che fra due caitoli questa fic finirà. E' una storia un po' corta, ma a me va bene così, poi vedrete come si svolgerà la faccenda!
Mi spiace ma ora non posso proprio ripondere alle recensioni, vado di fretta! Mi scuso infinitamente, spero che questo capitolo vi sia piaciuto! :) Un bacione a tutti e grazie mille per leggere questa storia! ^^
Patty.

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Capitolo 7
*** The last kiss ***


7.The last kiss

“Johnny, perché non vieni qui? Ti faccio paura per caso?”.
“Certo che gli fai paura. E poi lui preferisce me”.
“Ma va, è solo per essere gentile che sta lì a farsi torturare”.
“Io non lo torturo, lui si diverte. Vero?”. Kristen osservò Johnny con sguardo talmente cattivo che lui annuì. “Visto?” disse poi lei facendo una smorfia a Taylor.
“Ma se l’hai traumatizzato” sbuffò lui poggiandosi sul sedile con le braccia allungate sullo schienale.
“Diglielo che ti diverti” disse Kristen a Johnny.
“Kris, Kirs” dissi attirando la sua attenzione, “dubito che qualunque bambino si diverta ad aiutarti a mettere i lacci alle all star”.
“Tzé …” disse lei. “Johnny!” esclamò poi, “Ti si è staccato il dente?”.
“Hai visto?!” chiese lui entusiasta sorridendo. “C’è già quello nuovo” disse aprendo la bocca e facendogli vedere la candida punta del nuovo nato.
“E’ venuto il topo a darti il regalo?” chiese Taylor.
“No, mi ha dato i soldi” disse Jonathan corrugando le sopracciglia.
“Il mio topo mi dava solo regali inutili” si lamentò Taylor.
“Così me lo confondi” dissi io.
“Pa!” mi chiamò Johnny. Non mi chiamava mai papà in modo intero, solo pa.
“Che c’è?”.
“Siamo arrivati?”.
“Fra un po’” dissi io. “Ci saranno tanti fotografi secondo te?” chiesi a Taylor a voce bassa.
Lui alzò le spalle. “B’è noi salutiamo, entriamo e basta, tanto ci sarà la sicurezza”.
Seguii il suo consiglio. Uscii e fui investito da una marea di flash e dal rumore delle foto scattate. Presi in braccio Johnny, sorrisi un po’ ai giornalisti e poi sparii dentro il locale. Dietro di me, poco dopo, arrivarono gli altri. Il posto era davvero grande e illuminato. Sul fondo c’era un lungo tavolo pieno di cibo e tanti tavolini rotondi attorniati da poltroncine. Probabilmente dovevo andare in giro a conversare, ma non potevo lasciare Johnny da solo. Tutti assieme occupammo un paio di tavolini e ordinammo da bere. Per passare quella serata mi serviva qualcosa di forte, così chiesi un Jack Daniels con ghiaccio.
Fatto sta che erano le nove di sera, e Dana mi avrebbe chiamato sul cellulare per dirmi quando arrivava, perché, come uno scemo, le avevo anche detto che andavo a prenderla assieme a Johnny. Quindi dovevo ad un certo punto fuggire dalla festa con lui e andare all’aeroporto, quando ci si aspettava invece che restassi lì tutta la notte a parlare con tutti quanti e bere alcolici a volontà.  Forse avrei potuto anche starci con gli alcolici, ma non avevo proprio voglia di una serata mondana.
“E a te porto qualcosa?” chiese il cameriere sorridendo verso Johnny.
“Ti va una coca?” gli chiesi.
“Con il ghiaccio” rispose lui.
“Perfetto, arrivano fra un minuto signori” disse il cameriere voltandosi e andando ad un altro tavolo. Quando arrivarono le ordinazioni bevemmo tutti assieme e, dopo aver finito la coca, Johnny si allungò verso Kris.
“Cosa bevi?”.
“Una cosa che potrai bere solo da maggiorenne” rispose lei.
“Perché?”.
“Perché la birra la possono bere solo i maggiorenni”.
“Che cos’è un maggiorenne?”.
“Uno che ha diciotto anni”.
Johnny prese a contare con le dita, infine trasse le sue conclusioni. “Ma mancano undici anni!” protestò.
“Ed è meglio così, fidati” dissi io ingoiando un sorso di Jack.
“Che fai, il papà intransigente?” chiese Taylor. “Lascialo un po’ stare che quando avrà l’età giusta proverà le cose giuste. Non diventarmi uno di quelli che fumano e vietano le sigarette ai figli”.
“Si dice ipocrisia” disse Kris. “E a proposito di sigarette …” aggiunse tirando fuori il pacchetto.
“Si vabbè ma io dicevo per dire. Così lo intossichi di fumo passivo” disse Taylor indicando Jonathan.
“E’ vero. Vado fuori” disse.
“Vengo anch’io. Vuoi venire?” chiesi a Johnny.
“Ma lo tengo io!” protestò Taylor. “Guarda che sono capace”.
“Ehm … d’accordo”. Mi alzai e, mentre passavo dietro a Taylor, gli diedi una manata sulla spalla e mi chinai su di lui dicendo: “Grazie per il regalo. Guarda so che l’hai comprato”.
Fuori, sul retro, c’era il cortile del locale. Faceva freddo, ma si stava abbastanza bene da fumare una sigaretta in pace. Aspirai il fumo e mi rilassai, finalmente.
“E’ da un po’ che non ti riposi, eh?” mi chiese Kris ghignando. Si vedeva così tanto che ero in un periodo di stress post-figlio?
“Già. Devo ammettere che è stressante … però non sarà così per sempre. Quando tornerà Dana Johnny starà la maggior parte del tempo con lei, e le volte che ho tempo andrò … a trovarli o verrà lui da me” dissi aspirando il fumo.                    
“Ma scusa non ti spiace nemmeno un po’?”.
“Che cosa?” chiesi stupefatto.
“Credevo che volessi vederlo il più tempo possibile, ma … quando avrò tempo è una cosa limitata” disse lei gesticolando con la sigaretta fra le dita.
“Però è tutto il tempo che mi posso permettere. E poi crescerà, potrei addirittura portarmelo dietro qualche volta, durante le vacanze, che ne so! Tutti vogliono viaggiare, io gli darò l’opportunità di farlo. Ci sono un sacco di vantaggi che uno può trarre da un padre attore”.
“E’ vero” asserì Kris.
Devo ammettere che le scorse settimane erano state dure, ma anche uno dei periodi più belli che avevo mai passato, non ci sono dubbi. Ma sono molto realista su certe cose, e sapevo che la mai vita era molto complicata da gestire, quindi mi dicevo sempre che, quando fosse tornata Dana, avremmo messo le cose in chiaro. Avrei sacrificato tutto pur di passare un po’ di tempo con Johnny, ma mi rendevo anche conto che lui aveva bisogno di stabilità, di crescere in un ambiente adatto. Non sapevo ancora come sarebbe continuata la storia, ma avrei fatto di tutto purchè succedesse.
Io e Kris restammo almeno mezz’ora a parlare e, verso le undici, rientrammo. Non appena fummo dentro Taylor ci venne incontro, con la mia giacca e con Johnny per mano, pronto e vestito.
“Ti sei scordato dentor il cellulare! Ha appena chiamato sua madre” disse indicando Johnny con la testa. “E’ appena arrivata all’aeroporto”.
“Bene, tanto non siamo lontani” dissi prendendo la giacca che mi porgeva. “Ehm … che ha detto Dana sul fatto che hai risposto tu?”.
“Oh niente, prima ha detto: chi sei tu? E allora io gli ho detto che ero un tuo amico e che ti eri scordato il cellulare dentro il bar, e lei ha chiesto: Robert è in un bar? E Johnny?”.
“Ah! Scemo! Magari mi prendo uno di quei culi pazzeschi per averlo portato qui!”.
“Ma va era tutta contenta” disse Taylor. “Ha detto: finalmente comincia a sciogliersi un po’”.
“Ah …”. Senza parole. Davvero. “Vabbè andiamo. E io che credevo di essere quello irresponsabile” dissi poi prendendo la giacca che Taylor mi porgeva e dando uan spinteralla a Johnny verso la porta.
Quella sera c’era l’autista a disposizione, così lo sfruttammo alla grande. Prima andammo a prendere Dana e poi dissi, tanto per parlare: “Perché non torniamo alla festa?”.
“Non lo so, ti va Johnny?” chiese Dana. Lui alzò le spalle. “Allora andiamo”.
Tornammo alla festa, ma questa volta non fummo investiti da flash e fotografie, perché ormai era tardi. Entrammo e, in poco tempo, incontrammo Taylor e Kris, così ci sedemmo al loro tavolo.
“Che fai ancora qui?” mi chiese Kris.
“Secondo te? Ah questa è Dana” dissi presentandola.
“Ciao”.
“Io sono Kristen”.
“Taylor. Ma scusa, lui non si annoia?”.
“Quando è stanco me lo dice” disse Dana alzando le spalle. “Hey, me lo porti qualcosa da bere?” disse Dana all’indirizzo del cameriere di prima.
“Che cosa ti porto?” chiese lui avvicinandosi con un mezzo sorriso.
“Il tuo cocktail preferito, ma che non costi troppo” disse lei.
“Ti sembro uno che si può permettere di spendere?” chiese allora lui.
“Hai ragione. Va’, lavora e guadagna!” fece Dana indicando il bancone con un gesto secco della mano. Poco dopo arrivò un drink dall’aria strana.
“E’ il mio preferito” disse lui servendolo.
“Mi chiedo se ho fatto bene … Simon” disse leggendo la targhetta appuntata sul petto del ragazzo.
“Infatti hai ragione, l’ho inventato io adesso. Però non dovrebbe essere male, l’ho assaggiato”.
“Fermo qui, dove vai?” chiese Dana prendendolo per la maglietta siccome lui stava andando via. “Finché non lo assaggio e lo accetto tu devi restare qui” disse picchiando la mano su una sedia vuota, facendo muovere i vari bracciali che aveva al polso.
“Ok” disse il cameriere sedendosi. Dana tolse la cannuccia e bevve due lunghi sorsi del liquido ambrato, poi cominciò a tossire.
“Cazzo quant’è forte!” esclamò portandosi una mano al petto. Simon rise di gusto.
“Ne vuoi un altro?”.
“No lascia stare. Però … è buono” osservò.
“Fa assaggiare” disse Kristen tendendo la mano. Assaggiamo tutti lo strano cocktail. Era forte sul serio, ma aveva anche un sapore niente male. Ad un tratto mi accorsi che Johnny non c’era più.
“Dov’è Jonathan?!” mi disperai guardandomi attorno. Senza fare una piega Dana mi indicò una figurina che chiacchierava con un attore di cui non sapevo il nome. “Ma … se gli succede qualcosa?”.
“Oh sta’ calmo. Sa che non deve andare fuori dalla mia vista. E’ da tutto il tempo che parla con quello. E’ un giocatore di basket?”.
“Non è un metodo tanto sicuro” borbottai.
“Ma si annoia se lo tieni qui tutto il tempo. Nei posti dove andiamo noi ormai lo conoscono tutti. Se ne sta sempre con qualcuno che me lo guarda” rispose lei fra i denti.
“B’è io preferisco essere sicuro che non gli succeda niente, non ho un occhio come il tuo” dissi alzandomi e andando a chiamare Johnny. Lo riportai al tavolo ma ad un tratto si alzò di nuovo. “No, Johnny …”. Lui si fermò, voltandosi verso di me. Lanciai un’occhiata a Dana.
“Perché non posso andare a fare un giro?” chiese.
“Perché c’è troppa gente qui” dissi. Lui si trascinò di nuovo verso di noi.
“Mamma il cameriere mi ha detto di darti questo” disse improvvisamente tirando fuori un pezzetto di carta e dandolo a Dana.
“Hai letto cosa c’è scritto?” chiese lei sbirciandolo.
“Si” disse lui.
“Bravo!” esclamò. “Ci hai messo tanto?”. Johnny scosse la testa. “Bravissimo! Quando vuoi ti compro qualcosa da leggere. Lo leggiamo insieme se ti va”.
Fu più o meno allora che mi resi conto di come, davvero, io mi fossi goduto la mia adolescenza, e di come invece Dana non aveva potuto viverla e all’età di ventitré anni volesse recuperare il tempo perduto. Mi sembrava paradossale, ma fra i due il più responsabile ero io. Nonostante questo Johnny aveva vissuto sette anni con lei, e non era venuto su niente male. Adesso che era un po’ più iperattivo, più grande, ci voleva solo, secondo il mio modesto parere di neo-genitore, un po’ più di disciplina. Che evidentemente Dana o non voleva, o non riusciva ad imporre. Perché far girare un bambino in un bar non è la cosa più sicura del mondo. Questo per fare un esempio, poi anche se su certe cose Dana era una buona madre, su altre si lasciava un po’ andare.
Invitai Johnny e Dana a casa mia e, appena fummo dentro, Johnny volle andare a dormire. Mi stupii che fosse durato fino a quell’ora. Erano già quasi le tre di mattina.
“Non so se hai da fare, mi rendo conto che sei impegnato, ma se vuoi puoi tenerlo ancora per un po’” disse Dana prendendo il bicchiere che le porgevo.
“Ah già … io volevo farlo quando tu fossi tornata, ma Johnny mi ha chiesto se ero suo padre … e io gliel’ho detto” dissi con un mezzo sorriso.
“Davvero? Com’è andata?”.
“Bene, benissimo” dissi grattandomi il mento cercando di reprimere l’espressione di beatitudine che mi si leggeva già in volto.
“Robert non so ancora come ringraziarti. Sei una delle persona più gentili che abbia mai incontrato in vita mia” disse allungandosi e abbracciandomi. La abbracciai anche io.
Ormai quello che avevamo era sbiadito da anni, ma condividevamo ancora qualcosa: era Johnny. Era solo per lui.
Quando Dana si scostò mi resi conto che una piccola lacrima le era scesa lungo la guancia. Accaldato e sotto l’effetto dell’alcol, senza nemmeno pensare a quello che facevo, la bacia sulla bocca, tremante. Inizialmente lei rispose, e le mie mani cominciarono a riprendere conoscenza del suo corpo. Non era cambiato in quegli anni, forse era solo un po’ più morbido in alcune parti, segno probabilmente della gravidanza passata, ormai le forme spigolose adolescenziali si erano ammorbidite. Misi una mano sotto la sua maglietta ma, improvvisamente, lei la tirò fuori e si staccò.
“No, aspetta Robert” disse mettendo le mani davanti a me.
“Hai ragione” dissi risoluto. “Questa volta prenderemo la dovute precauzioni: vado a prendere un preservativo”.
“No, che hai capito?” chiese lei scuotendo la testa. “Io non voglio”.
“A me prima non sembrava” dissi alzando un sopracciglio.
“Si ma lascia stare” disse allontanandosi.
“Ma che c’è che non va?” mi lamentai.
“Robert noi non siamo più fatti per stare assieme, si capisce dai” disse sistemandosi i vestiti. “Non vorrei che Jonathan si mettesse in testa strane idee”.
“Strane idee?” chiesi senza capire cosa diceva. Ero troppo ubriaco per un discorso del genere.
“Si, del tipo che io e te staremo ancora assieme. A vivere assieme e felici come quelle famiglie delle pubblicità”.
“Ah” dissi abbassando lo sguardo.
Effettivamente era giusto, Dana non era più una ragazza con la quale sarei potuto stare bene. Sarebbe stato diverso se non ci fosse stato Johnny: saremmo stati assieme per un po’ poi ci saremmo lasciati, capendo che non era una relazione da portare avanti. Ma ora non potevamo metterci assieme e mollarci come se nulla fosse, dovevamo tener conto anche dei sentimenti di Johnny, che magari in fondo desiderava che noi due stessimo assieme.
Dana cominciò a prendere le sue cose e a mettersi la giacca. Mise tutte le cose di Johnny in una borsa e poi entrò nella sua stanza.
“Che cosa fai?” chiesi alzandomi.
“Torniamo a casa” disse lei risoluta mettendo la giacca a Johnny che, mezzo addormentato, non capiva cosa succedeva.
“Ma è presto. Aspetta, non puoi andartene così!” esclamai.
“Se restassi … probabilmente farei cose di cui mi potrei pentire” disse lei senza guardarmi in faccia. Prese in braccio Jonathan e aprì la porta di casa.
“Aspetta. Johnny … !” dissi io cercando di fermarli.
All’ultimo momento Dana si voltò verso di me e mi sfiorò le labbra con un bacio.
Non c’era più niente da fare. Jonathan stava appoggiato sulla sua spalla e si era addormentato, la bocca semiaperta e il volto schiacciato contro la spalla di Dana.
Rimasi impalato sulla porta, incapace di fare alcunché. Mentre la mia vita, Jonathan, spariva per le strade buie di Londra.





Non perdete la speranza! Ancora la storia non è finita :)
Spero che questo capitolo sia piaciuto, perchè è stato un po' complicato da scrivere, soprattutto la parte di Dana. E' vero, in questo capitolo fa una magra figura, ma volevo rendere una situazione interiore abbastanza complicata. Dana non è una cattiva madre (per quanto certi suoi comportamenti possano essere negligenti delle volte), ma è come ha detto Robert: cerca di riguadagnare il tempo perduto, ed è anche molto confusa come persona. Non condannatela per questo, è uno dei personaggi più strani che abbia mai trattato! XD
Per sapere cosa succede poi, dovrete leggere il prossimo, e ultimo capitolo. E ora passo alle recesioni:

Enris: grazie mille per i complimenti ^^ Sono felice che la storia e lo stile ti piacciano, grazie mille! L'ultima parte è descritta dal punto di vista di Rob, ma non pensavo fosse un problema far capire anche come si sente Jonathan, dato che i bimbi sono così spontanei, e infatti è come hai detto tu, lui accetta Robert come padre. La parte della cena con i parenti è stata molto divertente da scrivere! XD B'è, grazie ancora per leggere la storia e recensire, al prossimo capitolo! :)

romina 75: grazie per la recensione ^^ Non sono una mamma, per ora solo una figlia! XD Ma mi fa piacere sapere di essere riuscita a descrivere decentemente un rapporto familiare. Anche a me è piaciuto scrivere la scena della bici, anche se forse è stato trasformato un po' in cliché, sembra una scena indispensabile nell'infanzia! ^^ Comunque grazie per la recensione e per i complimenti, al prossimo capitolo! ^^

Morneeng Yeah: grazie per i complimenti! Per la parlata di Johnny mi sono liberamente ispirata al mio cuginetto piccolo! XD Spero che questo capitolo non sia stato sconvolgente. E spero anche che il finale ti soddisfi! Grazie per la recensione, ciao! ^^

Al prossimo e ultimo capitolo a tutti quanti!
Patty.

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Capitolo 8
*** Nine years later ***


8. Nine years later

“No! Frena, frena!”. La macchina si ferma di botto e io mi accascio su sedile. “Ma sei scemo?!” esclamo.
“Avevo tutto sotto controllo” mi rimbecca lui picchiando le mani sul volante.
“Sotto controllo non vuol dire stare a due centimetri dal palo della luce”.
“Sono molti di più che due centimetri” dice Jonathan allungando il collo fuori dal finestrino.
“Spostati, guido io” dico togliendomi la cintura di sicurezza. “Il giorno che imparerai a guidare non ci sarò io su quella macchina”. Esco dall’auto e lo sento sbuffare. Quando apro la portiera del guidatore lui si arpiona al volante.
“Dai ancora un giro. Solo uno!” dice, cercando di restare seduto, ma io lo prendo per un braccio e lo alzo. “Papà!” esclama lui contrariato.
Tornando a casa mi viene in mente di come gli avevo insegnato ad andare in bici. Era stato molto più facile della macchina!
Quella mattina presto, dopo che Dana se n’era andata, ero rimasto tutto il giorno a fissare con sguardo piatto il pavimento. Allo squillo del telefono ero sobbalzato. Avevo la tentazione di non rispondere e di rimanere ancora un po’ in autocommiserazione con me stesso. Però per fortuna risposi e, dall’altra parte della cornetta, c’era Johnny.
Non ricordo esattamente come andarono le trattative, ma per un paio di anni io e Dana ci scambiammo Jonathan come se fosse una specie di merce. Poi abbiamo iniziato a vederci di nuovo senza alcun pericolo, anche perché Dana pochi anni dopo si era sposata.
La sera in cui Dana diede la notizia del fidanzamento a Johnny lui mi chiamò e mi chiese di andare a prenderlo. Aveva tredici anni. Passammo una notte intera a mangiare schifezze e parlare di niente. Voleva solo un periodo di tregua da tutti i cambiamenti repentini che stavano avvenendo nella sua vita, e aveva scelto di venire da me. Ero felice per quello.
“Scendi, arrivo subito” dico quando, verso le dieci, ci fermiamo davanti al locale. Parcheggio l’auto e raggiungo Taylor, Jackson, Nikki, Kris e Kim, la mia fidanzata. Più Michael, il ragazzo di Kris più o meno da quando sono nati (credo che siano destinati a stare assieme), e la fidanzata di Taylor.
Nulla è cambiato troppo da quella sera di quando Johnny aveva sette anni. Ancora stretti attorno al tavolo, ancora a dire a Jonathan che non posso comprargli gli alcolici perché ha ancora sedici anni. E ancora, ad un tratto si alza senza preavviso e se ne va.
“Vai a corrompere la cameriera?” chiede Kim. Lui, senza degnarla di risposta, continua per la sua strada. Siccome è passato un po’ di tempo e non torna mi volto a vedere che fa.
“Ma … !” esclamo quando lo vedo assieme ad un ragazza a chiacchierare. Tutti si voltano a guardare ma in quel momento Johnny si alza e viene verso di noi assieme alla ragazza. “Sei tornato” gli dico scoccando un’occhiata a lei. E’ molto graziosa, deve avere un anno più di lui, forse.
“Si, ma non t’illudere non resto per molto. Questa è Genevièv” dice indicando la ragazza. Lei ci saluta cortesemente tutti quanti sorridendo. “Me la presti la macchina?” chiede poi Johnny speranzoso.
“Scherzi? Nemmeno se non fosse la mia” dico.
“Per favore … pa!” esclama.
“Non andare mai in macchina con lui”. E’ giusto avvisare la sua ragazza, deve sapere a cosa va incontro. Lei sorride e Jonathan, per fortuna, desiste nel suo intento.
Li osservo mentre escono dal locale chiacchierando e improvvisamente mi ricordo di avere ancora in tasca le chiavi di casa di Johnny. Mi alzo e corro verso di lui. “Johnny!” lo chiamo.
Si volta. “Hai deciso di darmi le chiavi?” chiede speranzoso.
“Si, quelle di casa” dico passandogliele.
“Sempre meglio che niente” dice lui stringendosi nelle spalle.
“Hey … vieni qui” dico prendendolo per le spalle e chinandomi su di lui. “Tu … hai già fatto il discorso che ti sto per fare con tua madre, vero?” chiedo. “Di quando stai con una ragazza, e sai, magari l’atmosfera si fa …”.
“Co … no! Cioè, si! Lasciami in pace, so cosa fare!” esclama diventando tutto rosso.
“Sai anche cosa non fare, vero?”.
“Si, si. Calmo, e non parlare più di certe cose con me” dice mettendosi il cappuccio sulla testa. “Ci vediamo a casa. Credo che arriverò alla tua stessa ora, più o meno”.
“Ok, ciao” gli dico. Sto già tornando dentro quando Jonathan mi chiama.
“Hey guarda cos’ho trovato l’altro giorno” mi fa mostrandomi una cosa.
“Che cos’è?” chiedo avvicinandomi.
“E’ il calendario che mi avevi regalato un sacco di tempo fa”.
“Ma va! Fa vedere” dico prendendolo in mano. “Però dopo un po’ hai smesso di segnare i giorni”.
“Si, credo di aver smesso quando hai cominciato a starmi simpatico, o quando ho capito che eri mio padre. Non ci voleva poi molto” dice ghignando. “Ciao pa!”.
Si volta e corre verso Genevièv. Quando la raggiunge si prendono per mano e incominciano a camminare. Li guardo un secondo finché Kim non esce a vedere dove sono finito.
“E’ grande, eh?” mi chiede.
“Pure troppo” rispondo, mettendomi le mani in tasca. Kim mi abbraccia e mi dà un bacio sulla guancia.
“Non si può fermare il tempo. E poi scusa, vorresti negargli tutte le belle cose che gli possono capitare crescendo?”.
“Assolutamente no. Credo che lui sia una delle cose più belle che mi siano mai capitate”.
“Ecco … a proposito di questo” fa Kim grattandosi una guancia, “Penso che fra un po’ ne capiterà un’altra” dice a mezza voce posandosi una mano sul ventre.
“Che cosa?!” esclamo terrorizzato.



Fine


Questa fan fiction non è stata scritta a fini di lucro ma per puro divertimento. Non conosco Robert Pattinson e lui non ha dato l’autorizzazione per questa storia. Qualsiasi analogia con fatti realmente accaduti e persone reali (scomparse o in vita) è assolutamente casuale.





E... fine. Lo so, lo so, mi vorrete fucilare. E avete anche tutte le ragioni per farlo, vi capisco. Mi fucilerei da sola, è stato un ritardo imperdonabile. Non so davvero cosa mi è preso: avevo tempo, avevo la storia... ma mi mancava proprio la voglia ._. Eh, ormai è andata. Spero che il capitolo, e la storia in generale, vi sia piaciuta. Devo ammettere di esseremi particolarmente affezionata a questo racconto, forse per la tematica, forse per i personaggi, non saprei...
Passo alle (ultime) recensioni:

_Miss_: grazie mille per i complimenti e le recensioni che hai scritto! ^^ Mi scuso ancora per questo ritardo, comunque sono felice di sapere che la storia ti sia piaciuta. Ciao! :)

romina75: grazie mille per la recensione ^^ Mi ha fatto molto piacere leggerla, soprattutto perchè sono d'accordo con te su molte cose. I personaggi come Dana sono complicati da trattare, e per il loro carattere, se fossero veri, sarebbero continuamente giudicati dalla gente, quindi sono felice che, in qualche modo, 'giustifichi' il suo modo di fare. Non dico sia corretto, ma lo si può comprendere. Già dall'inizio pensavo che Dana e Robert non sarebbero tornati assieme, semplicemente perchè non si amano più, e sono persone con un po' di testa che non vogliono ferire il loro bambino per scopi puramente egoistici. Comunque, grazie per le tue recensioni, sono state davvero utili, sia per capire che ero sulla buona strada nei sentimenti e nelle azioni dei personaggi, sia per vedere la faccenda da un diverso punto di vista. ^^ Grazie, mille!

Enris: ciao! Grazie per i complimenti. Sono felice che il titolo, alla fine, sia stato notato. Penso che sia una domanda che un po' tutti si fanno, prima o poi: 'chi sono io?' E soprattutto in momenti della vita particolarmente difficili, quando si subiscono tanti cambiamenti, si cresce e si impara. E' proprio questo il cambiamento che volevo subisse Robert, sono felice che tu l'abbia notato :) Grazie mille per aver recensito, ciao! ^^

Morneeng Yeah: wow grazie mille per i complimenti! ^^ Spero che la storia ti sia piaciuta fino alla fine, io credo che sia un finale che lascia spazio a molta fantasia. Si capisce che Robert e suo figlio hanno un buon rapporto, a volte litigano, ma sono sereni, e penso che questa sia la cosa più importante. Insomma, il classico lieto fine (ma a me piacciono così tanto <3) XD Be' grazie ancora per la recensione, ciao! :)

Channy: eccomi di ritorno! Lo so, mi sono fatta aspettare, ma spero con questo ultimo capitolo di farmi perdonare. Sono felice che la storia ti piaccia, e capisco come mai tanta ostilità verso Dana (se non l'avessi inventata io starebbe antipatica anche a me! XD) Grazie mille per aver recensito, ciao ciao ^^

Allora, premettendo che, lo so, questo sarà un discorso da vera mediocre che non ha postato in tempo, ma voglio lo stesso ringraziarvi dal profondo del cuore. Sia che abbiate soltanto letto, che abbiate recensito, che abbiate solo dato un'occhiata veloce alla storia, ma vi sono davvero grata. Questa è una delle storie cui sono più legata, e sapere che anche a qualcun'altro è piaciuta, è davvero una grossa soddisfazione. Scalda il cuore, ecco...
Non sono parole prese a caso, sono davvero felice di aver postato questa fic, e di averla condivisa con voi. Siete stati tutti molto gentili a leggere e persino a recensire! ^^ Quindi...
Grazie mille
da
Patty

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