Liàn Hua e Ju Hua

di Assassin Panda
(/viewuser.php?uid=87360)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1-Il fratellone promette... ***
Capitolo 2: *** Il fratellone combatte ***
Capitolo 3: *** il fratellone sorride di nuovo ***



Capitolo 1
*** 1-Il fratellone promette... ***


Titolo: //
Rating: Arancione
Personaggi: Cina (Yao Wang), Giappone (Kiku Honda), Corea del Sud (Im Yong Soo), Taiwan, Inghilterra (Arthur Kirkland), Francia (Francis Bonnefoy), Russia (Ivan Braginski)
Pairing Cina/Giappone
Genere: Guerra, Drammatico, Angst
Avvertimenti Non per stomaci delicati
Note:
1.Il primo capitolo è a tutti gli effetti un introduzione. Ho deciso di mettere la narrazione in prima persona solo a questo capitolo per dare più enfasi, ma già dal secondo userò la terza. E' così, sono fatta alla rovescia e non ci posso fare niente U_U
2. Il titolo è composto da due parole cinesi che rispettivamente significano 'Fiore di loto' e 'Crisantemo'. Mi é sembrato un paragone perfetto per rappresentare Cina e Giappone. D'altronde Cina chiama Kiku Crisantemo (Kiku significa, appunto, Crisantemo)
3. Aniki in coreano credo significhi fratello maggiore
4. Per le informazioni sulla guerra Sino-Giapponese ho preso spunti dalla pagina dedicata su Wikipedia, che vi consiglio di leggere per una migliore comprensione della storia
buona lettura

Il Fratellone Promette...


Corri, fuggi, non ti fermare.
Non voltarti indietro, non guardare.
Ci sono morti dietro di te, case incendiate, soldati che ti sparano contro, cadaveri ovunque.
Non permettere che loro vedano questo scempio.

“Aniki...” Ti chiama la lieve voce spaventata del tuo fratellino minore.
“Non ti fermare Corea, corri, aru!” Sibili stringendo la sua piccola mano nella tua, piena di ferite, continuando a correre, i muscoli che ti cedono, che chiedono di fermarti e lasciarli riposare, di avere pietà per le tue gambe. Ma tu le ignori. Non puoi permettere che te li portino via. Non ancora, no. Sono ancora troppo piccoli.
Reggi Taiwan sulla tua spalla, reggendola forte a te, mentre con l'altra mano tieni quella di Im Yong Soo e lo tiri con forza per incitarlo a correre, a non fermarsi.
Non è più il tempo dei giochi, dei tentativi del piccolo di palparti il seno, della risata argentina di Meimei che ti rasserena il cuore.

Corri, fuggi, non ti fermare.
Non voltarti indietro, ignora i loro lamenti, ignora i muscoli doloranti. Ma non puoi ignorare le grida della tua gente che soffre e che muore mentre tu stai vigliaccamente fuggendo.

No non stai fuggendo, in realtà vuoi solo metterli al sicuro. Vuoi che, almeno loro, non vedono ciò che li circonda.

Non vedano ciò che vostro fratello sta facendo alla vostra terra.

Finalmente eccola, la casa dove saranno al sicuro per un po'.
“Forza sbrigatevi! Dentro, aru!” Li inciti, mentre Yong Soo ansima piegandosi in due e reggendosi sulle ginocchia dalla stanchezza, e appoggi Taiwan delicatamente sui tatami, per quanto la rabbia che hai in corpo ti permetta di rimanere lucido.
“Perchè siamo qui?” domanda la ragazza, non più tanto bambina. Com'è cresciuta.
“Dovete rimanere in questa pagoda. Qui i nemici non verranno. Siete al sicuro, e non vi faranno del male”
“E' Kiku?” Chiede Corea, titubante, ma con tanta rabbia in quel suo corpo ancora troppo giovane per conoscere sentimenti come l'odio. “E' Kiku che sta facendo tutto questo! Lui ha distrutto la nostra terra!” Le sue parole non hanno più nulla di interrogativo, sono affermazioni, e per quanto tu cerchi di convincerti che no, non è vero, sono soltanto bugie, più sai che quella è la verità. Cruda e amara, fredda. Il tuo Ju Hua, il tuo Crisantemo, il tuo piccolo Kiku, ha mosso guerra contro di te.
Ha cercato di conquistare il piccolo Yong Soo pochi mesi fa, ma tu lo hai strappato via dalle sue mani che già erano convinte di averlo in pugno e lo hai portato in Mancuria insieme a Taiwan, dove pensi sia ora al sicuro. Ma nessun posto è al sicuro dall'avanzata Giapponese, e lo hai testato sulla tua pelle, con tutte le sconfitte della tua armata, che era ancora provata dalle guerre contro gli Europei.

Hai miseramente perso anche quelle.

“Yong Soo... sono certo che Giappone ha qualche motivo per...”
Ricevi una botta negli stinchi non appena pronunci il nome dell'altra nazione asiatica, proprio dal piccolo Corea, che ti guarda con astio. Senti il sangue ferroso in bocca, quella piccola botta è solamente il colpo di grazia dopo le innumerevoli ferite da battaglia, ma sai che in fondo te lo meriti.
“Kiku... Kiku non ci vuole più bene! Ci odia! E tu continui a dire che c'è un motivo, Aniki!”
Taiwan è in un angolo, inginocchiata, piange disperata con le mani nei capelli.
“Io... continuo a credere che Kiku ci voglia ancora bene, aru!”
“E allora perchè! Perchè ha fatto questo alla mia terra, perchè ha fatto questo al mio Aniki!”

Una bomba, esplosa poco lontano, ti fa ricordare che fuori si sta ancora combattendo una guerra.
Una guerra a cui loro non devono assistere.
Ma tu la devi combattere.

“Corea, Taiwan. Voi rimanete qui, ok? Quando riuscirò ad allontanare i giapponesi dalla Mancuria cercherò di mandarvi da Vietnam o da Thailandia, aru...”
“Ma noi non vogliamo andare da Vietnam! Vogliamo rimanere con te, ge-ge!” Esclama in lacrime la piccola Meimei aggrappandosi ai tuoi pantaloni, laceri e sporchi di fango e sangue, tuo e quello dei tuoi nemici.

Sai che se rimani ancora un po' in quella stanza piangerai anche tu.
Ma non devi versare lacrime, non in questo momento in cui devi sembrare forte davanti al tuo popolo, davanti a Kiku.

Vorresti rimanere lì sempre. Eppure sai che il tuo posto non è al sicuro, al caldo, ma al freddo tra la gente, a cercare di salvare il più alto numero di persone innocenti possibili, tra fiamme, macerie e cadaveri.
Non riusciva ancora a concepire perchè il suo fratellino gli avesse dichiarato guerra.

“Prometto che tornerò, aru! Voi dovete solo rimanere al sicuro...”
Le loro piccole braccia ti cingono vita e schiena. Non vogliono che tu te ne vada, che li lasci soli, ma è inevitabile. Dopo avergli donato un amorevole carezza sulle loro teste, scompigliando ad entrambi i capelli sporchi e già spettinati, li spingi dentro e ti chiudi la porta scorrevole alle tue spalle.
Quella carezza per te era un gesto di amore, ma anche di speranza per loro, una promessa che saresti tornato prima possibile, che li avresti rivisti, coccolati ancora, e poi sareste di nuovo andati a giocare per le risaie e i boschi di gelso.
Una promessa che è quasi impossibile mantenere del tutto.



Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Il fratellone combatte ***


Titolo://
Rating: Arancione /N-15
Personaggi: Cina (Yao Wang), Giappone (Kiku Honda), Corea del Sud (Im Yong Soo), Taiwan, Inghilterra (Arthur Kirkland), Francia (Francis Bonnefoy), Russia (Ivan Braginski)
Pairing Cina/Giappone
Genere: Guerra, Drammatico, Angst
Avvertimenti Non per stomaci delicati
Note:
//

Il fratellone piange


Cina scavalcò un cumulo di detriti in fiamme, saltando con tutta la forza rimastagli in corpo, per cercare di raggiungere il campo di battaglia dall'altra parte, brandendo un fucile senza nemmeno sapere come usarlo.

21 Novembre 1894.

Era passato poco più di un mese da quando aveva messo in salvo i suoi fratellini, ma non era riuscito ad impedire che Kiku invadesse anche la Mancuria.
E ora si ritrovava a Port Arthur, porto che ironicamente aveva il nome dell'uomo che più detestava al mondo, a tentare ancora una volta di impedire l'avanzata del fratello coi pochi mezzi che aveva.
Era ferito ovunque, non un singolo lembo di pelle era senza lividi o graffi. Non mangiava da quanto? Non lo sapeva nemmeno lui. Era certo di essere dimagrito abbastanza da non riuscire più a sollevare nemmeno le bacchette per mangiare ancora. Certo era esagerato, era sempre stato abbastanza magro di corporatura, solamente che in quel momento poteva benissimo contarsi le costole sotto la lercia tunica gialla, macchiata di sangue, fango e chissà cos'altro.

Si fermò in mezzo alla piazza devastata della città, cercando di riprendere fiato, ansimando pesantemente e riprendendosi l'aria che si era negato fino a quel momento, e fare mente locale sulla sua situazione guardandosi intorno, anche se avrebbe mille volte preferito non farlo.

C'erano rimasti pochissimi uomini a difendere Port Arthur.
Troppo pochi.
Maledisse sé stesso per essere una nazione ancora così arretrata militarmente.
Sveglia! È il diciannovesimo secolo, aru! Non siamo più nel trecento, dove vivevi in pace ed armonia. Si sgridò mentalmente dandosi un pugno in testa. Già da quando Inghilterra e gli altri europei lo avevano indecorosamente sottomesso non era riuscito a difendersi perchè non era preparato ad una guerra che andava combattuta con fucili e cannoni, non con spade e frecce.
Di certo, quando si era arreso, l'ultima cosa che si era aspettato era quella di venire attaccato dal suo fratellino più grande.

Lo aveva trovato, solo tra i bambù.
Lo aveva cresciuto, nutrito, istruito come un figlio.
Era convinto che la grande famiglia dell'Asia sarebbe rimasta unita per sempre.
E invece...
prima Hong Kong, portato via con la forza da quel bastardo occidentale di Arthur Kirkland.
Poi il popolo di Corea, proprio grazie a Giappone, era riuscito ad ottenere un indipendenza.
No Im Yong Soo dipendeva ancora troppo da lui per diventare autonomo seriamente.
Poi, lo sapeva, sarebbe anche venuto il turno di Meimei.
Come Vietnam nel 1700 era riuscita ad espandersi e diventare una nazione a sé.
Come Thailandia nel 1298 lo aveva lasciato, indipendente e fiero, quando era ancora Siam.
Come Giappone...

Lo stavano lasciando tutti.
Si sentiva così incredibilmente solo.

“Cina! L'abbiamo cercata ovunque!”
La voce affannata di un soldato interruppe i suoi pensieri. Che stava facendo? Non era quello il momento da dedicare ai sentimentalismi.
Il soldato, non sapeva se faceva parte dell'armata Cinese o di quella Mongola, ma sapeva che era stremato quanto lui, gli si avvicinò velocemente, spaventato.
“Sono qui ora. Fa rapporto, aru”
“E'... è uno sterminio, signore. L'intera città è stata rasa al suolo”

Le braccia di Yao ricaddero senza forze lungo i fianchi, lasciando cadere con un tonfo il fucile sul terreno brullo e secco, incendiato dal fuoco, mentre le parole nessun sopravvissuto gli arrivarono fioche alle orecchie come un sospiro.
Cadde sulle ginocchia, davanti a quello che probabilmente era l'unico sopravvissuto rimasto.
Non riusciva a trattenere le lacrime per la sua gente, innocenti e combattenti, tutti morti. Perchè? Per quale scopo? A che servivano e a che sarebbero servite tutte quelle morti atroci? Non aveva il coraggio di guardare meglio intorno a sè e vedere i corpi senza vita e martoriati delle vittime, tra le fiamme che li bruciavano donando loro una macabra cremazione. Gli venne da vomitare, ma si doveva dimostrare forte, ancora una volta, nonostante le lacrime.


Si ricompose, per quanto le forze e la debolezza glielo consentissero, e si resse in piedi rigido davanti al soldato, che sembrava scosso quanto lui, se non peggio.
“Come ti chiami, aru?” domandò con un fil di voce.
“Xue Xing. Vengo da Kaipeng” rispose lui, porgendogli una mano insanguinata senza due falangi.
La strinse facendo attenzione a non fargli male, Yao.
“Sai per caso dov'è ora l'Armata Giapponese, aru?”
“Dietro l'altura che circonda il paese. Probabilmente quei bastardi stanno festeggiando brindando col nostro sangue!”
Un tempo addietro avrebbe difeso Kiku, anche nel torto. Ma ora, per quanto facesse male, non più.
“Che ne dici? Vieni con me, aru?”
“Vuole patteggiare con loro, signore?” Chiese il soldato incredulo, con astio nella sua voce.
“No. Voglio solo tentare un ultima volta di far rinsavire Giappone,aru. Questa guerra non ha senso. Corea è stata resa Nazione indipendente. Ora non ha motivo di combattere, aru. Non riesco a capire...” trattenne un altro singhiozzo di isterico pianto, avviandosi a palpebre serrate verso l'accampamento giapponese, seguito da un tremante Xue che voleva essere altrove, e invece si stava gettando in pasto al nemico.




“Signor Honda”
Un soldato della ronda si intromise nella sua tenda, interrompendo un tattico discorso di uno dei migliori generali di Giappone, colui che lo aveva condotto alla vittoria fino a quel momento.
“Sì?” “C'é Cina in persona che chiede di lei. Lo faccio entrare?”
Giappone sussultò dal cuscino su cui era comodamente seduto.
Non sapeva che anche il suo onii-san fosse in mezzo alla gente, lo pensava al sicuro da Thailandia insieme a Taiwan e Corea.
Esitò, lasciando il soldato ad attendere sulla porta.
Che gli avrebbe detto? Quanto tempo era passato dall'ultima volta in cui l'aveva visto? Con che coraggio l'avrebbe guardato negli occhi?
Non lo sapeva. Era arrivato vittorioso fino a quel punto e ora che aveva l'occasione di trovarsi faccia a faccia col nemico non sapeva come comportarsi. Perchè quella Nazione, prima di essere sua nemica era stata suo fratello maggiore.
“Signore?”
“Fallo entrare. E lei può cortesemente uscire e lasciarci da soli, Arimoto-san?”
Il generale non disse nulla ed uscì dalla tenda con rigorosa austerità.

Al suo posto entrò suo fratello.
A vederlo a prima vista non lo riconobbe.
Di certo i lineamenti del viso erano quelli. I capelli sporchi erano comunque ordinati in un codino che ricadeva sulla schiena, come usava sempre tenerli. I vestiti erano sempre i soliti che indossava, tuniche colorate anche in mezzo ad una battaglia.
Eppure era così dimagrito e sciupato che sembrava un altra persona; se non fosse vissuto così tanti secoli insieme a lui probabilmente non l'avrebbe mai riconosciuto.

“Ciao, dì dì” gli sorrise.
A Kiku sembrò la cosa più assurda del mondo.
Eppure gli stava sorridendo, e lo aveva chiamato fratellino.
“C...ciao Onii-san” Balbettò incerto. Non sapeva come comportarsi, stava completamente tentennando dinnanzi alla forza d'animo senza pari della Cina, paragonabile solo alla bontà del suo cuore.
“Possiamo parlare, dì dì? O forse la guerra ti ha reso troppo megalomane, aru?”
“No. Siediti pure” rispose tornando in sé, riacquistando fermezza.
Poi notò dietro le sue spalle un soldato cinese dell'armata, ferito ad una mano e con occhi colmi di rancore. Dovette abbassare lo sguardo di fronte a tanto odio.
“Lui deve uscire” “Non voglio perdermi questa riunione di famiglia” Sibilò il soldato, ma i castani occhi di Cina, seppur segnati da occhiaie profondissime, lo fecero tremare appena e, obbediente, uscì dalla tenda lasciando i due soli.

Giappone fece il possibile per non distogliere lo sguardo da quello freddo del cinese, che sembrava rimasto senza emozioni e sentimenti, e la cosa gli fece paura.
“Perchè hai fatto questo alla mia terra e la mia gente, aru?” domandò in un soffio addolorato, e fu in quel momento che Kiku fissò un altro punto della stanza, mortificato.
“Dovevo farlo...”
“Che fine ha fatto il mio fratellino? Quello che ha compiuto questo massacro non sei tu, aru! Dimmi che ti hanno costretto, ti prego”
“Dovevo farlo, Chugoku. Se volevo veramente diventare indipendente, forte come e più di te”
“Io non ci credo, aru!” gridò Yao stringendo la stoffa dei pantaloni, cacciando indietro le lacrime.
“Che ti è successo? Chi ti ha cambiato in questo modo? Sono stati gli europei, aru?!”
L'altra nazione riprese fervore e fissò furioso gli occhi del fratello.
“Perchè pensi che non me la sappia cavare da solo?! Pensi che senza di te io debba andare a chiedere aiuto agli occidentali?!”

Cina non aveva mai visto Giappone con così tanta rabbia in corpo. Se lo ricordava sempre tranquillo e sorridente, a giocare con gli animaletti di casa e i suoi fratelli, un ottimo studioso e un bravo ragazzo, ben educato, ma mai arrabbiato. E invece in quel momento... davvero, non gli sembrava lui.
“Che considerazione hai di me, Onii-san!?”
“Non lo so. Non lo so più, aru. Non dopo che avete ucciso gente innocente”
“E' una guerra. Hai mai sentito parlare di guerre dove non ci sono state morti di contadini?”
“Parli proprio come uno di loro. Non ti ho insegnato questo, aru” Yao cominciò ad alzare i toni, stanco di quella guerra e stanco per il comportamento schifoso di Giappone.
“Non sono più un bambino. E non sono più a casa tua da ubbidire a tutto ciò che mi ordini di fare” mormorò l'altro serrando i denti. Ancora, anche in quel momento, Cina lo trattava come un bambino. “Sono Nihon, e ti ho dichiarato guerra. Non siamo più fratelli seduti a un tavolo a cercare di risolvere i problemi. Siamo nazioni rivali che stanno combattendo per i propri ideali, per delle terre e per un paese. Se la cosa non ti va bene allora ti conviene arrenderti” decretò il moro alzandosi e guardando il fratello più grande dall'alto al basso, con gli occhi fiammeggianti di ira, collera e odio. Per la prima volta fu il cinese a distogliere lo sguardo.
“Se la metti così...”
Si alzò dal cuscino dov'era seduto, ma anziché uscire a testa bassa come il giapponese aveva previsto, con un improvviso scatto fulmineo, immaginabile per uno in quelle condizioni, e afferrò una katana che Kiku aveva tenuto fino a quel momento al suo fianco.
Indietreggiò spaventato, ma anziché puntargli la lama alla gola Yao prese l'elsa ricamata finemente con fiori magenta e gliela porse.
“...Se sei una vera nazione allora per te non ci sarebbero problemi ad uccidermi ora, o no, aru?”
Giappone deglutì, sentendo il pomo d'adamo scendere e risalire la faringe facendogli quasi male, guardando lo tsuba della katana rivolto verso la sua mano.
“Che aspetti? Hai ucciso così tante persone che dovrebbe essere facile per te fare fuori anche me, aru. Non sono più tuo fratello dopotutto, almeno così mi hai detto”
Non rispose, e non afferrò nemmeno la katana, potè soltanto spostare il suo sguardo incredulo e tentennante dall'elsa agli occhi spenti del fratello, che forse desideravano davvero la morte.
E lui poteva donargliela, semplicemente.
Porre fine alla guerra, smettere di avere tutte quelle morti sulla coscienza, eliminandolo semplicemente conficcandogli la lama nel petto.
Poteva trapassargli la carotide, poteva dilaniargli lo stomaco, c'erano infiniti modi per assassinarlo.
Era così semplice, eppure quando alzava la mano per afferrare l'arma le immagini di Cina che lo accoglieva in casa come un figlio, di quando lo abbracciava e coccolava, facendolo sentire amato come nessun altro lo bloccavano.
Non poteva uccidere quello che per lui era stato più un padre che un fratello maggiore.

“Yao-nii-san. Non posso farlo”
“Perchè no, aru? Sono per caso diverso dalla gente di Port Arthur?”
Ancora una volta Kiku non rispose, e Yao abbassò l'arma, guardandolo con malinconia. Per certi versi era rimasto il ragazzino di sempre, e per questo un po' si rallegrava.
“Sappi solo che diventerai uomo quando la lama della tua katana avrà trapassato la mia carne, aru. Se è l'indipendenza da me che vuoi, allora devi dimostrarmi che la meriti. Ma non coinvolgere più gente innocente tra me e te, dì dì”
Poi, lentamente, uscì dalla tenda senza lasciargli altre spiegazioni, lasciandolo come inerte ancora spaventato e confuso.
“Al diavolo! Ho deciso di conquistare queste terre e lo farò! Gli farò vedere che grande nazione sono diventato!”

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** il fratellone sorride di nuovo ***


Titolo://
Rating: Arancione /N-15
Personaggi: Cina (Yao Wang), Giappone (Kiku Honda), Corea del Sud (Im Yong Soo), Taiwan, Inghilterra (Arthur Kirkland), Francia (Francis Bonnefoy), Russia (Ivan Braginski)
Pairing Cina/Giappone
Genere: Guerra, Drammatico, Angst
Avvertimenti Non per stomaci delicati
Note: //

Il fratellone sorride di nuovo

Yingkou, una piccola città sulla costa, nella penisola del Liaoning, la stessa penisola dove proveniva anche Xua.

Xua era morto quasi un mese dopo il massacro di Port Arthur, nella sua città natale. Yao Wang lo seppellì personalmente, tra il fango, evitando di gettarlo in una qualche fossa comune o lasciare che le fiamme lo divorassero.

Fiamme e fuoco, non aveva visto nient'altro dall'inizio della guerra. Anche in quel momento la piccola cittadina sulla cosa stava ardendo come un fiammifero.

“Dannazione! Ritiriamoci sul promontorio e spariamo da lì a vista, aru!” gridò con quanto fiato aveva ancora in corpo, alzando in aria il fucile come una bandiera di cui andare orgogliosi.

“Wang! Non ce la faremo mai a raggiungerlo prima che i giapponesi riprendano a spararci addosso!” “E allora correte come non avete mai corso prima, altrimenti vi ritroverete la schiena crivellata di proiettili!” Senza nemmeno finire la frase prese a correre all'impazzata verso un alto promontorio che sorgeva sul mare in tempesta, e che forniva ampi ripari rocciosi dietro cui nascondersi e sparare contro i nemici.

Pioveva, ma non bastava a spegnere le fiamme o far indietreggiare gli altri soldati. C'era un odore disgustoso nell'aria, un orrido miscuglio tra carne bruciata, polvere da sparo e ferro. Non riusciva ancora a capire come le sue gambe potessero ancora correre, provate com'erano, piene di ferite e senza un briciolo di forza. Non ne poteva più di quella guerra. Sarebbe impazzito se non fosse finita la più presto. E una volta finita... no, quella volta non bastava una tirata d'orecchi.

Si sarebbe arreso tempo prima, se il suo capo e il suo orgoglio non glielo avessero impedito.

Si buttò a capofitto sulla ghiaia, sbucciandosi le ginocchia, ma quel dolore non era niente, accucciandosi dietro ad una roccia e puntando il fucile verso il luogo dove aveva previsto l'arrivo dell'Armata Giapponese.

I pochi soldati rimasti imitarono il suo gesto, e come tigri pronti ad attaccare attesero con impazienza l'arrivo del nemico, che di sicuro non si sarebbe mai aspettato, o quasi, un attacco dall'alto.



Chissà se Kiku è tra loro...

Da quel giorno non l'aveva più rivisto.

Ma era certo che tutte le sue parole erano state vane e non erano servite a nulla, se non a farlo imbestialire di più.

“Eccoli là, i puttanieri giapponesi”

“Guarda come se la tirano, passeggiando sulle nostre spiagge sporche di sangue!”

“State zitti e sparate, aru!”



I colpi di proiettili partirono, con un gran rumore, e da lontano videro due giapponesi accasciarsi al suolo, inerti. In altri contesti avrebbero esultato, ma due soldati erano troppo pochi rispetto all'intera armata che aveva individuato la loro posizione e avevano cominciato a rispondere al fuoco.

Forse era stato quasi un suicidio, o una pazzia sparare contro di loro, ma a Yao non importava. Non importava più niente. Ormai anche le grida di dolore, per quanto lo raccapricciassero, arrivavano ovattate alle proprie orecchie. Era stanco, voleva solo che la disperazione e la guerra finissero al più presto.

Continuò a sparare, mentre il suo sangue e quello dei suoi alleati gli schizzava sul viso provato e sui vestiti laceri.

Un proiettile gli sfiorò la spalla, lasciando un taglio di striscio che gli bruciava, ma continuò a sparare come un robot. Una divisione giapponese cercò di risalire il promontorio, ma lui fu più svelto, e sfilata una bomba a mano dalla cintura e levata la sicura coi denti, la lanciò verso lo sventurato gruppo, che saltò in aria tra il fumo e le grida di dolore, il fango e il sangue che schizzavano ovunque.

L'odore del grasso bruciato era nauseante, e brandelli di membra, carne organi e vesti, schizzavano ovunque, disgustosi, ma ormai Cina non ci faceva più caso. Era orribile da dire, ma ormai ci aveva fatto l'abitudine, e davanti a questi massacri ci aveva fatto l'abitudine. Poi la notte vomitava tutta la bile che gli era rimasta, dormiva poco e aveva gli incubi.



“Forza! Non dobbiamo permettere che ci raggiungano, aru!” gridò con quanto fiato aveva in corpo, facendosi male al diaframma. Si voltò, ma ormai della decina di uomini solo tre erano rimasti in vita, ed erano feriti. Gli altri avevano fori di proiettile ovunque, soprattutto in mezzo al cranio, e Yao sospettò che avessero preferito il suicidio alla voglia di continuare a combattere.



“Maledizione, aru! Maledizione!”

Tornò sui suoi passi, mentre altri giapponesi stavano per raggiungerli. Corse veloce verso i sopravvissuti, incitandoli ad alzarsi, prendendoli e scrollandogli le spalle, invano: quelli non ne volevano sapere di fuggire, anche a costo di rimanere uccisi.

“Dai scappate! Mettetevi in salvo almeno voi, aru!” Gridò disperato, scuotendo un soldato che stava per perdere i sensi tanto l'emorragia ad un braccio era forte e non riusciva a fermarla.

Uno sparo stavolta lo colpì tra le scapole, bruciando forte e sanguinando come un fiume in piena. Faceva male, ma stringeva i denti evitando di gridare di dolore. Non avrebbe mai permesso ai giapponesi di sentire le sue urla.

“Cina, ci è stato ordinato da Giappone stesso di catturarlo vivo. La prego di non opporre resistenza” sentenziò freddo un soldato nemico puntandogli la canna del fucile contro.

“Al diavolo, aru!” Velocemente si puntellò al terreno con le mani e le braccia e calciò il polso del soldato, che mollò la presa sull'arma che venne scaraventata lontano.

Non potè nemmeno riprendersi che altri fucili gli vennero puntati contro, e due mani possenti gli bloccarono le braccia, ritrovandosi su di sé almeno una decina di giapponesi che tentavano di tenerlo fermo.

Yao continuò comunque a dimenarsi, scalciandoli colpendoli al mento e al petto, alcuni schizzi di sangue lo colpirono in viso, ma nonostante la foga con cui si difendeva i giapponesi erano troppi, e lo immobilizzarono anche se non troppo facilmente, immergendogli la testa nel fango.



“Branco di vigliacchi schifosi, bastardi, aru”

“Che ti succede, onii-san. Non è da te usare questo linguaggio. Che ti è successo?”

La voce canzonatoria di Giappone gli violentò le orecchie, ma non potè guardare in faccia il fratello, spinto con forza a terra dai soldati che gli impedivano di vedere al di là del suo naso.

“Kiku!”

Uno schiocco di dita e tutti i soldati lo liberarono immediatamente, lasciandogli grossi lividi violacei sulle braccia e sulle spalle, la scapola, ancora perforata dal proiettile, che gli mandava al cervello violente scosse di dolore atroce.

Era lì, davanti a lui, che si mostrava in tutta la sua magnificenza e superbia. Lindo e pulito lo guardava dall'alto al basso. La giacca bianca ricadeva sulle spalle e le maniche vuote ondeggiavano al vento di salsedine e polvere da sparo, mentre le braccia erano incrociate al petto.

Sì, gli sembrava veramente un occidentale di tutto punto.



“Alzati” gli ordinò secco.

Cina ubbidì silenzioso, digrignando i denti, per via del dolore e del orgoglio ferito.

La pioggia continuava a battere sulle loro teste, ma nessuno dei due sembrava farci troppo caso.

“Quanti mesi sono passati dall'ultima volta, Chugoku?”

“Troppi. E questa guerra sta durando da ancora più tempo, aru”

“E' ora di finirla, con una tua incondizionata resa, non trovi?”

“Avevi promesso che avresti lasciato fuori da questa storia i civili...”

“Proprio allora non capisci, Chugoku. Non è una lite familiare questa!”

“Allora perché?”



Giappone non rispose, anzi. Lentamente mise la mano all'elsa della katana e la sfilò dal fodero con un solo colpo secco.

Yao sapeva cosa lo aspettava. E fu felice che in quel momento stesse piovendo. Così mantenendo il volto impassibile poteva piangere senza far vedere le lacrime al fratello.



“Oggi finalmente sarò un uomo, no, onii-san?”

“Sì. Oggi sì”



Non si accorse del fratello che con un unico movimento gli fu alle spalle.

Non si accorse della lama che gli tagliò la schiena, squarciandola, lacerandola, il sangue che colava e schizzava via, macchiando la candida giacca del giapponese.

Si lasciò andare. Ormai non sentiva dolore, tutta la stanchezza aveva preso il sopravvento, e si era lasciato andare. Cadde sulle ginocchia, e poi lasciò che anche il petto si immergesse nella melma, insieme al viso. Il sangue continuava a scorrere sulla schiena, copioso. Quanto mancava alla morte?

Quanto ancora doveva passare prima di smettere una volta per tutte di soffrire. Sarebbe rinato prima o poi. Ora non voleva fare altro che addormentarsi, in pace con se stesso.

Era triste, ma al contempo felice che il suo fratellino, come aveva previsto, avesse avuto finalmente il coraggio di staccarsi da lui, ferendolo. Era la prova che non era più dipendente da lui, che era cresciuto, che era degno di venire chiamato Nazione.



Delle voci giunsero alle sue orecchie. Gli sembravano allarmate e vagamente familiari. Ma non gli importava nulla. Nulla. Chiuse gli occhi e si lasciò andare.



Com'era dolce la morte.











...







“... ma se sei tu l'idiota qui, Francia!”

“Senti chi parla, Arthur! Almeno io non me ne vado in giro per l'Asia sventolando l'oppio ai quattro venti!”

“State zitti. Yao si è svegliato!”



Cina aprì lentamente gli occhi. Si ritrovò davanti la faccia felice e sorridente di Russia, a pochissimi centimetri dal suo viso. Troppo vicino! Non gli interessava sapere come fosse arrivato lì e cosa fosse successo, voleva solo scrollarsi Ivan di dosso.

“Levati di dosso, aru!” gridò, ma appena le parole cercarono di uscire violente dalla gola, la voce gli uscì fioca e debole, e sentiva dolori dappertutto.

“Ivan alzati! Non lo fai respirare, povero petit fleur”

La Russia si alzò dal futon dove Yao era adagiato. Era tutto così candido e pulito che non gli sembrava vero. Si sentiva riposato, e dolore alla schiena a parte stava relativamente bene.

Francia si avvicinò ai due, sedendosi dalla parte opposta a Ivan attorno a quello che era simile ad un capezzale.

Inghilterra invece si teneva a distanza, con le braccia incrociate al petto e il viso arcigno.

Per lui, Cina poteva benissimo andarsene a morire da solo come un cane in mezzo ad una prateria.

Se la cosa non avrebbe tratto vantaggi anche per lui non avrebbe mai sacrificato ore di ozio per andare a salvare il cinese.



“Ch... che è successo?” domandò rivolto a Ivan e Francis, piuttosto confuso.

“Ivan ti ha trovato morente su un promontorio, e ti ha salvato la vita” Affermò il francese, sorridendogli amabilmente, per donare un po' di affetto a Yao, che da tantissimo tempo non ne riceveva. “Che ci facevate voi lì, aru?” “Ma che domande! Siamo venuti a salvarti” “Siete venuti di nuovo a prendermi delle terre, non é così, aru?”



I due europei e il russo abbassarono lo sguardo imbarazzati.

Era vero, avevano fermato l'avanzata giapponese, ma si erano presi i terreni conquistati e li avevano reclamati come propri. Ma alla fine avevano posto fine a quella guerra senza senso, no?

“Preferivo farmi ammazzare piuttosto che farmi aiutare da voi sanguisughe, aru”

“Chérie! Cerca di essere ragionevole! Noi ti abbiamo salvato, abbiamo rimandato Giappone a casa e stipulato alleanze! Abbiamo svolto tutto il lavoro sporco per te. Ci siamo presi solo una piccola ricompensa...”

“Voi e Giappone avete rovinato la mia terra!”

“Sì, e allora?” Intervenne brusco il Regno Unito, fulminandolo con lo sguardo. “Tanto morto o meno ci saremmo presi lo stesso quei porti. Quindi ringraziaci se invece di farti uccidere per mano del tuo little brother ti abbiamo salvato!”



Ci fu un lunghissimo silenzio.

Non avevano il diritto, quei due stupidi ingordi europei, di rubargli la terra. Eppure non poteva negargli di dovergli la vita.

Stinse violento le lenzuola e fissò con le lacrime che gli pungevano gli occhi Russia, uno strano ultimo appiglio.

“Anche tu? Anche tu hai fatto come loro, aru?”

Ivan sorrise amabilmente, un sorriso che Cina aveva imparato a riconoscere come falso.

“Sì. Ma io posso vendicarti, Yao. Se solo tu me lo chiedi, attaccherò Giappone!”

“NO! Basta guerre!” gridò Cina disperato guardandolo supplichevole.

“Hai sofferto molto ultimamente. È meglio che ti riposi ancora un po” Sussurrò Francia accarezzandogli la testa cercando di calmarlo.

“Che è successo a Corea e Taiwan?” domandò febbrilmente.

“Che vuoi che gli sia successo? Giappone continuava ad attaccarti solo per avanzare verso Meimei. Ne ha preso il controllo. E adesso anche lei non è più con te. Non abbiamo potuto impedirgli di portarsela a casa!” rispose Inghilterra freddo, quasi sbeffeggiatore, mentre anche l'ultimo barlume di speranza di Yao si spense.

“Ah... ho capito...” mormorò lasciando cadere la testa sul cuscino, con un tonfo, in preda all'angoscia, mentre sentiva il caldo delle coperte del futon avvolgerlo.

Sentiva Francia e Russia vicini, il primo che gli accarezzava la testa e il secondo che gli stringeva la mano, entrambi, per la prima volta, senza doppi fini.

“U...un ultima cosa. Voi c'entrate qualcosa col cambiamento di Kiku, aru?”

“Sì” Ammise Francis. “Siamo stati noi ad insegnargli le tattiche militari e ad aiutarlo a creare un esercito. Pensavamo che l'usasse solo in caso di difesa”



Cina smise di parlare, lasciandosi coccolare dalle carezze del biondo, fissando il vuoto.

Inghilterra sbuffava, stanco di quella situazione. Era annoiato e nascondeva ai tre davanti a lui che aveva sempre sostenuto Giappone in quella guerra, e non provava nessuna pietà per Yao.

Si appoggiò alla finestra, fissando fuori il giardino della casa di Cina, dove si erano stabiliti finchè il padrone non si fosse ristabilito. E per sua immensa sfortuna ciò non sarebbe accaduto molto presto.

Intravide un cavallo avvicinarsi alla pagoda, un bellissimo destriero bianco. Curioso, Arthur allungò il collo per poter vedere meglio quel ragazzo che sembrava simile ad uno dei suoi cavalieri medievali da come cavalcava, e riconobbe sotto la giacca bianca l'esile figura di Kiku Honda.

“Ehi! We have guests” sogghignò rivolto a Francis e Ivan, ma anche Yao alzò lo sguardo sorpreso, non capendo però ciò che l'inglese aveva appena detto.

Il russo aggrottò le sopracciglia, arrabbiato, sorridendo maligno e alzandosi verso la porta afferrò un piccone, di cui Cina ignorava l'esistenza in un angolo della sua stanza.

“Ci penso io a lui, non ti preoccupare Yao!”

“No aspetta! Fatelo entrare, aru!” Lo bloccò il cinese alzando la voce.

“Perché?” Domandò ingenuamente il russo, afferrando il piccone con due mani “Ti ha fatto del male e adesso viene da te come se nulla fosse. Ed è la quinta volta da quando sei qui!”

“Fallo entrare. Per favore Ivan, aru” ripetè supplicante ed atono, mentre qualcuno bussò lievemente, come se avesse paura di ciò che lo attendeva al di là di quella porta. Russia fissò senza capire lo sguardo vuoto della persona che desiderava di più al mondo, in quel momento di debolezza. Poi aprì la porta, trovandosi faccia a faccia con un Giappone spaventato della sua vista.

“Ciao, Giappone!” Sorrise digrignando i denti e fissandolo minaccioso, brandendo il piccone con forza.

“K-k-konicchi wa, Rosshia-san” balbettò spaventato, intimorito dalla presenza inquietante del russo. “Cina si è svegliato?”

“Sì. E se fosse per me ti farei passare tutto quello che hai fatto subire a lui. Forse anche di peggio! Ma ritieniti fortunato del fatto che tuo fratello è molto più comprensivo e di buon cuore di quanto non lo sia tu, Kiku” E così dicendo si scostò dalla porta, facendogli segno di entrare indicandogli la via con l'attrezzo.



Il giapponese entrò timoroso seguito da Russia come se fosse un carcerato fino nella stanza di Yao.

Lo vide, sdraiato sul letto, bendato da capo a fondo, con diverse fasce che gli coprivano la schiena, così fragile che sarebbe bastato poco per ucciderlo definitivamente. Francia gli era accanto e lo guardava con disprezzo, mentre Inghilterra sembrava totalmente indifferente alla scena.

Pensare che era stato lui a ridurre il fratello maggiore in quel modo gli faceva salire i conati di vomito in gola. I rimorsi e i sensi di colpa lo avevano assalito la stessa notte in cui l'aveva ferito a morte alla schiena e l'aveva abbandonato a sé stesso senza donargli nemmeno un primo soccorso. Se Russia e gli europei non fossero intervenuti forse il suo onii-san non sarebbe mai stato lì davanti a lui.



“Potreste lasciami solo con Giappone per favore?” Domandò Cina mettendosi seduto sul futon compiendo un notevole sforzo fisico, la schiena gli bruciava come se fosse in fiamme.

“Non se ne parla! E se poi ti fa ancora del male?” Ribattè Francis contrariato aggrottando un sopracciglio biondo.

“Non mi farà nulla, aru. E ora potete cortesemente uscire dalla mia stanza per un po'?”

L'ordine secco fece sussultare il francese, che anche se a malincuore si trovò costretto ad uscire, mentre il Regno Unito aveva accettato felicemente l'invito, e Ivan tentennava sulla soglia sorridendo stringendo ancora il piccone.

“Tutti e tre” aggiunse sorridendo amabilmente, e Russia ubbidì, rimanendo comunque dietro la porta chiusa pronto ad assalire il giapponese se solo avesse sentito un lamento o un grido del suo Yao.







“Ciao, onii-sama”

“Nihao, Giappone”

Nonostante Cina stesse -ancora una volta- sorridendo, Kiku rimase sorpreso dalla freddezza con cui gli aveva rivolto la parola.

“Volevo... chiederti scusa. So che magari ti sembrerò... crudele. Prima ferirti e poi domandare il tuo perdono. Ma mi sono sentito... così in colpa. Pensavo di averti perso per sempre.

Sono stato uno sciocco. E se vorrai punire la mia colpa, accetterò qualsiasi punizione”

Kiku si inginocchio al fianco del cinese, chinando il capo in segno di umiliazione.

Yao glielo accarezzò, sorprendendolo una seconda volta. Si aspettava pugni, insulti, schiaffi e chissà cos'altro. Ma mai carezze.

“Dice il saggio; L'uomo che fa il male e ne ha vergogna ha nell'anima la possibilità di redimersi. L'uomo che fa il bene e vuol farlo sapere a tutti ha nell'anima la possibilità di perdersi, aru”

sospirò sorridendo, contento che, in fondo, il suo fratellino era rimasto in fondo al cuore sempre lo stesso. Non avrebbe di certo dimenticato tutto ciò che Giappone gli aveva fatto durante quella guerra, a Corea e a Taiwan. Però il fatto che era venuto da lui significava già moltissimo, e Cina era troppo morbido per permettersi di provare rancore verso una persona amata.



“Il saggio dice anche; colpisci te stesso prima, per capire il dolore che daresti. E io...”

“La guerra è finita. Sei diventato una nazione vera e propria, ed un uomo. Quello che è stato ormai non si può cancellare, aru” lo strinse a sé in un abbraccio. Non era più il suo fratellino, era un uomo che non aveva più bisogno di lui. Ma a quanto pareva aveva ancora bisogno delle sue coccole.

Kiku singhiozzò appena sulla manica di Yao, per poi asciugarsi velocemente le lacrime, troppo orgoglioso per mostrare la sua debolezza.



“Come va la schiena? Fa male?” Domandò fissando un altro punto della stanza.

“Un po', ma va tutto bene ora, aru” Rispose Cina sincero continuando a coccolarlo.

Sembrava sinceramente pentito.



Dopo pochi minuti Kiku si rialzò, incamminandosi velocemente verso l'uscita.

“Te ne vai di già, Giappone?” domandò il cinese adagiando le mani bendate sulla coperta.

“Questa é stata la mia ultima visita, Chugoku. D'ora in avanti io e te siamo nazioni rivali”

“Ostinato come sempre, eh Ju Hua?”

Il giapponese si fermò sulla soglia, rabbrividendo a sentire quel soprannome con cui lo chiamava il cinese quando era piccolo, e ancora giocava insieme a lui.

“Vorrà dire che aspetterò il giorno in cui smetteremo di essere rivali con ansia, aru!”

Kiku non rispose, e piangendo dentro l'animo diede un addio silenzioso al suo Liàn Hua, prima di uscire dalla stanza.

Il peso nel suo petto era diminuito, e l'aver ottenuto il perdono da Cina aveva affievolito il suo senso di colpa. Ma le mani erano ancora macchiate del suo sangue. Suo e quello di tutto il popolo cinese.

Ne sarebbe passato ancora di tempo, prima di redimere tutti i suoi peccati come aveva detto Yao poco prima.

Ma sapeva che il suo onii-san stava bene, che era sopravvissuto anche a lui, che si era comportato come un mostro. E che lo aveva perdonato.

Avrebbero combattuto ancora, e ancora, nei corso dei secoli. Ma non avrebbe mai più deluso il suo fratellone. Non gli avrebbe più fatto del male, nemmeno durante la più sanguinosa delle guerre. Non l'avrebbe più permesso.

E in cuor suo anche lui sperava che il giorno in cu si sarebbero seduti nuovamente ad un tavolo a giocare a mahjong, a ridere e scherzare insieme ai loro fratelli come un tempo arrivasse il più presto possibile.



“Sayonara, onii-chan”

“Zàijiàn, dì dì”







l

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=470237