Eyes - Fumo di china di Oducchan (/viewuser.php?uid=6095)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1- ***
Capitolo 2: *** 2- ***
Capitolo 3: *** -3 ***
Capitolo 1 *** 1- ***
eyes 1
Premessa (sì, ormai è un'abitudine):
Volevo
scrivere una storia con kisame e Itachi protagonisti da una vita: amare
tanto una coppia e non riuscire a scriverci è una tortura. Ho
scoperto che riuscire a non sconfinare nell'OOC è
complicatissimo, e che il risultato non è che sia dei migliori,
volevo dire tante cose ma molto ho dovuto tagliare.. Credo che di tutto
questo mi garbino soltanto un paio di scene.
Tuttavia, in
sede di giudizio è saltato fuori che è un lavoro migliore
di quanto credessi (ditemi, come faccio ad aver acchiappato il premio
dell'IC? XD). Ringrazio Rei Murai e Iaia86 per la valutazione a dir
poco lusinghiera, e ne approfitto per congratularmi con tutte le altre
partecipanti <3
Piccola nota ancora, anche se non so se passerà di qui (XD), ringrazio di tutto cuore meg89. Per fortuna che ci sei <3
Eyes – fumo di china
1]
Non andava bene.
Non andava bene per niente. Kami solo sapeva cosa ne sarebbe
scaturito.
Deidara si ravviò la chioma
bionda sulle spalle, fissando nervoso la coppia di studenti appena formata al
primo banco: no, non andava per niente bene che Kisame Hoshigaki fosse stato
costretto da un professore ormai stufo a sedersi accanto alla silenziosa figura
di Itachi Uchiha: uno, perché in quel modo metà della sua visuale della lavagna
andava beatamente a farsi fottere; due, e non meno importante, perché da quella
convivenza forzata non ne sarebbe nato un bel niente di buono, se lo sentiva.
Oh, se lo sentiva.
Quei due erano troppo diversi, ed
era bene che stessero seduti in punti diametralmente opposti della classe come
avevano giustamente fatto fino a quel momento: perché diavolo l’insegnante non
capiva, che per mantenere un minimo di salute mentale in entrambi era vitale
che non s’incontrassero?
Perché da un qualsivoglia tipo di
contatto, che fosse fisico, mentale o vocale, tra Kisame Hoshigaki e Itachi
Uchiha, potevano nascere due cose: o una carneficina, o un qualcosa che Deidara
si rifiutava categoricamente di definire.
Figlio di una delle più
importanti famiglie del borgo di Konoha, Itachi Uchiha era considerato a buon
ragione quello che si poteva tranquillamente definire genio. Nel senso più alto
del termine. La sua mente aveva un nonsochè di alieno, per i suoi coetanei, dal
momento che era in grado di giungere a una conclusione molto prima, molto
meglio e molto più approfonditamente dei suoi compagni: poco aiutava che i suoi
processi mentali fulminei, che mandavano in solluchero i professori di ogni
scuola frequentata, non fossero abbinati a un carattere aperto e socievole, che
avrebbe quantomeno aiutato la sua integrazione. Itachi non parlava. Né coi
ragazzi con cui frequentava scuola, né con eventuali conoscenti esterni, né
tantomeno con la famiglia: le sue sole funzioni vocali erano ridotte alle forme
minime di comunicazione per evitare fraintendimenti, o alle esaurienti
interrogazioni cui era sottoposto per regime scolastico.
Col passare degli anni attorno a
lui era fiorito un gran numero di superstizioni e di pregiudizi; e alla fine, i
ragazzi e le ragazze avevano deciso di comune accordo, dopo mille tentativi
andati a vuoto, di lasciar perdere l’idea di provare quantomeno ad instaurare
un rapporto socievole. Loro ignoravano lui, assistendo con muta soggezione ad
ogni sfoggio della sua cultura; lui ignorava loro, comportandosi come se
all’universo non esistesse altri che lui stesso, la lavagna e l’insegnante di
turno. Se lo facesse per boria o per altro, nessuno lo sapeva.
Kisame Hoshigaki, invece, aveva
una fama del tutto diversa. Il ragazzo difficile, dal carattere rissoso, più
inclinato a passare le sue giornate nelle strade dei quartieri dissestati
piuttosto che dedicarsi attivamente allo studio. Storia complessa e
problematica, con un’infanzia catalogata come delicata, il ragazzo aveva
sviluppato un interesse neanche tanto celato verso le armi bianche* e da
qualche tempo, era entrato a far parte di una banda di scavezzacollo
altrettanto scapestrati che si faceva chiamare i Sette Spadaccini. O, come li
definiva qualche maligno, i Sei più Uno, in quanto l’ultimo acquisto del
gruppetto non era nemmeno in odore di pubertà.
Nelle aule scolastiche, l’atteggiamento
di Kisame rasentava la schiva aggressività. Non concedeva amicizia a nessuno,
guatando l’aria come un cane rabbioso quando s’invadevano troppo i suoi spazi,
e aveva l’abitudine di fissare i suoi eventuali interlocutori con uno sguardo
tagliente da squalo, che faceva passare a tutti il desiderio di rivolgergli il
saluto. I professori avevano tentato più volte di convincerlo che, per il suo
bene, era assai più indicato trascorre qualche ora con un libro in mano invece
che in un vicolo oscuro a prendere contatti con la malavita; ma ogni sforzo era
risultato vano, giacché erano stati completamente snobbati, e se il ragazzo era
riuscito ad arrivare fin lì era dovuto semplicemente al fatto che l’intero
consiglio docenti era terrorizzato all’idea di cosa sarebbe accaduto
nell’ipotetica eventualità di una bocciatura.
Da queste premesse si poteva
facilmente dedurre perché la prima fila di banchi del lato destra fosse
occupata unicamente dalla genial persona di Itachi Uchiha; e perché invece
Kisame Hoshigaki trascorresse le ore di lezioni, quei giorni in cui risultava
presente, imbucato nell’ultimo banco in fondo a sinistra, incuneato tra il
davanzale della finestra e la parete di fondo.
Ma si sa, l’Umanità è
rappresentata da un’accozzaglia di anime inquiete. E dopo essersi lagnato per
quasi cinque anni per la condotta assolutamente inaccettabile, per il
rendimento che s’avvicinava pericolosamente allo zero e per l’attenzione
inesistente dello studente meno brillante di tutte le quinte, il professore di matematica,
tal Iruka Umino, aveva raggiunto il limitare della sua infinita pazienza:
trattenendo a stento una reazione isterica, aveva intimato a Kisame Hoshigaki
di fare armi e bagagli e di trasferirsi al desco immediatamente davanti alla
cattedra, chiosando che una migliore compagnia gli potesse giovare. Poco
importava che tutti gli altri ragazzi della classe fossero ammutoliti
inorriditi, poco importava se Itachi Uchiha avesse avuto, in quell’istante, la
prima reazione apparente della sua vita sollevando di scatto il capo con
un’occhiata tagliente da dietro le lenti trasparenti degli occhiali, poco
importava se Kisame stesso avesse manifestato il suo disappunto con un ringhio
feroce e una sequela di imprecazioni più o meno colorite nell’alzarsi in piedi:
il dado, ormai, era tratto, e Iruka Umino fu l’artefice della paventata
Apocalisse.
Con un tonfo secco, Kisame depositò lo zaino poco ricolmo
accanto alla sedia che avrebbe dovuto ospitare la sua persona durante l’orario
scolastico, e con stizza gettò un’occhiataccia al suo nuovo vicino. Itachi non
lo stava fissando, impegnato invece a mantenere fissa l’attenzione
sull’insegnante che, finalmente calmatosi, aveva ricominciato la lezione da
dove l’aveva abbandonata; così il giovane si concesse trenta secondi per
studiare approfonditamente quel viso che non aveva mai avuto occasione di
osservare così da vicino: la pelle chiarissima, pallida, talmente nivea da
sembrare a tratti traslucida, il naso proporzionato e sottile, e i capelli
serici e lunghi che incorniciavano il voto in una carezza d’ebano. Ma quello
che lo colpì maggiormente furono quegli occhi neri che si aprivano come due
pozzi di nero petrolio a fagocitare la luce esterna, brillando delicatamente al
chiarore mattutino filtrato dalle finestre: c’era un qualcosa di non ben
definito, forse nel colore o nella forma, che attirava l’attenzione impedendo
di distogliere immediatamente lo sguardo, e che pareva richiamare
insistentemente l’attenzione. Potevano dei normali bulbi oculari brillare in
quel modo, dietro a un paio di occhiali così spesso…?
-Hoshigaki-
Riscuotendosi dalla contemplazione, Kisame si accorse di
essersi sporto verso di lui per osservarlo meglio, invadendo di gran lunga
qualunque confine di cortesia una persona potesse avere. Itachi si era voltato
al suo indirizzo, permettendogli sì di avere una miglior visuale del suo viso,
ma rivolgendogli al contempo un’espressione di impassibilità statuaria che
avrebbe scoraggiato chiunque dal perseguire nella sua opera di disturbo
silenzioso. E come avrebbe fatto chiunque, anch’egli si voltò rapidamente,
prima che un insolito pensiero lo cogliesse.
-Uchiha. Tu….hai appena aperto bocca o mi sbaglio?-
-Hoshigaki- la voce di Itachi aveva un timbro basso, adatto
a qualcuno che non ne usufruisse abbastanza spesso, con una sfumatura fredda e
impersonale che aggrediva l’udito similmente a una sferzata di lame appuntite
–Stai zitto-
Punto sul vivo, Kisame reagì con rabbia, digrignando furioso
i denti: un’occhiata soltanto al professore impegnato a scribacchiare un
esercizio, e si chinò verso di lui strattonandolo per il davanti della divisa.
-Non osare dirmi
cosa devo fare, razza di secchioncello bastardo, chiaro?- sbraitò con foga,
tanto che l’intera classe sobbalzò e il professore si voltò immediatamente,
allarmato. Qualche metro più indietro, Deidara scosse la lunga chioma dorata.
Che aveva detto lui? Niente di buono, ed erano solo al primo contatto.
Purtroppo per lui, le cose non sarebbero procedute come
previsto.
Con diffidenza,
Kisame gettò un’occhiata al di sopra del gomito sinistro, tentando di sbirciare
nel quaderno aperto la fine ed elegante scrittura del compagno di banco. Non ne
era assolutamente certo, ma dal momento in cui il professore di letteratura si
era messo a riempire la lavagna di geroglifici complicati intimando loro di
copiarli pari pari, anche la penna di Itachi si era unita allo sfreghìo
convulso della tra scrittura, ma con un ritmo completamente diverso. Le iridi
scure saettavano rapide, da dietro le spesse lenti degli occhiali, seguendo l’andamento del gesso, ma la mano
trasmutava quello che leggevano in un andamento assente; a volerlo studiare con
attenzione, pareva anzi che non stesse seguendo affatto la costruzione del
periodo, lasciando spesso e volentieri delle zone bianche sul foglio. Perché
mai un secchione come Itachi avrebbe dovuto saltare di proposito intere frasi?
Probabilmente accorgendosi di
essere osservato, il soggetto delle sue supposizioni, spostò con decisione il
proprio taccuino lontano dalla sua vista, arricciando contrariato il naso al
suo indirizzo.
-Hoshigaki- sibilò – segui la
lezione-
-Non provare a farmi la
paternale, Uchiha, tu per primo te ne stai fregando- soffiò in risposta,
irritato
-Fatti gli affari tuoi e scrivi-
-Non osare dirmi cosa fare, razza
di…-
-Vedo qualcuno particolarmente
volenteroso di tradurre questa versione, uhn? Vuoi provare tu, Uchiha? Così
magari tu e Hoshigaki chiarite i dubbi che vi sono sorti-
La voce aspra e tagliente del
professore interruppe il piccolo litigio sul nascere, richiamandoli alla realtà
in un battibaleno: Kisame si raddrizzò immediatamente sulla propria sedia, come
se fosse stato punto da uno scorpione; Itachi diede un piccolo colpetto agli
occhiali per sistemarli meglio sul naso mentre si schiariva la voce, e concentrò
tutta la sua attenzione sulla lavagna, quasi avesse intenzione di inglobarla
nella sua mente con la sola imposizione della vista.
-Io…io ho quasi…- la voce, per
quanto ferma, si fermò quasi subito, allarmando non poco il vicino. Kisame gli
gettò immediatamente un’occhiata inquieta, e per poco non rimase a boccheggiare
come un pesce fuor d’acqua: Itachi tentava disperatamente di mettere a fuoco
qualcosa, battendo a più riprese le palpebre, arrivando quasi a tremare per lo
sforzo che impiegava nel farlo. Si mordeva il labbro inferiore, scorrendo
febbrile le righe, gettava un’occhiata al quaderno e di nuovo serrava gli occhi
a più riprese.
Itachi non vedeva quel che stava
leggendo.
Colto da un’irrazionale ondata di
panico, Kisame tornò a rivolgersi verso il professore in attesa e la lavagna
con un movimento secco del busto; e il suo cervello iniziò a scervellarsi
freneticamente su come rimediare all’essere stato colto alla sprovvista. Non
poteva essere vera una cosa del genere, non poteva stare capitando lì, in quel
momento, a quella persona in particolare. Itachi era perfetto, non poteva avere
un problema così grave in grado di tangerlo a tal punto. E il professore si
stava spazientendo, Itachi non riusciva ad arrivare in fondo alla frase, e le
sue dita iniziavano a battere furiosamente sul bordo del banco in preda a un
nervosismo crescente. Deglutì a vuoto, torturandosi le dita.
Itachi non vedeva quel che stava
leggendo. Però, poteva pur sempre ascoltare…
E il suo istinto decise per lui
sul comportamento da seguire.
-I have almost forgot the taste
of fears- mormorò pianissimo, attento a non farsi udire da nessun altro,
mantenendo contemporaneamente lo sguardo puntato sulle parole che, stampate sul
libro, parevano bruciargli sulle labbra.
Itachi interruppe istantaneamente
il suo disperato tentativo di completare la lettura, battendo le palpebre
un’ultima volta in un moto d’esitazione. Poi, con sicurezza, abbassò lo sguardo
-Ho quasi dimenticato il sapore
della paura-
- The time has been, my senses
would have cool’d- proseguì l’altro, cercando di nascondere il moto del suo
labiale all’insegnante
-C’è stato un tempo, in cui i
miei sensi sarebbero raggelati….-
-To hear a night-shriek, and my fell of hair-
-Nell’udire un grido nella notte,
e i miei capelli…-
-Would at a dismal treatise rouse and stir as
life were in’t-
-…si sarebbero rizzati come
animati da vita propria a un macabro racconto.-
-I have supp’d full with orrors-
-Sono sazio d’orrori…-
-Direness, familiar to my slaughterous
thoughts, cannot once start me-
-La ferocia, compagna di tutti i
miei pensieri di massacro, più non riesce a farmi trasalire-**
Un silenzio assoluto seguì il
termine della declamazione, lasciando molto tempo ai ragazzi raggelati dal
sentire la voce metallica impersonare alla perfezione il ruolo di Macbeth, di
ritrovare un minimo di calma, prima che il professore si considerasse
soddisfatto e riprendesse a scrivere serratamente. Kisame, riuscendo a stento a
controllare il tremore che gli attraversava le mani, strinse la matita talmente
energicamente da sbiancare le nocche, ordinandosi di non voltarsi, per nessuna
ragione e per nessun motivo, verso il viso che – di sicuro – lo stava finemente
analizzando.
-Hoshigaki- la voce di Itachi gli
arrivò smorzata, come se stesse facendo violenza a sé stessa per uscire dalle
labbra pallide – Perché l’hai fatto?-
-Non fare il coglione, Uchiha. E
scrivi, cazzo-
L’insegnante gettò al loro
indirizzo una nuova occhiataccia, cosicché Itachi parve voler desistere dal suo
intento, raddrizzandosi sulla sedia e riprendendo tra le dita affusolate la
penna nera; tuttavia, osservandolo di quando in quando con la coda
dell’occhio, avrebbe potuto giurare che sulle guance solitamente pallide faceva
nota di sé un’accennata nota di colore.
Constatare che, però, altrettanto
doveva essere per la propria pelle, Kisame non riuscì a tranquillizzarsi
minimamente.
*armi bianche: sono
considerate armi bianche tutte le armi dotate di lama, lunga o corta (quindi,
spade, pugnali, coltelli, kriss, ecc)
** Shakespeare:
Machbeth, atto V, scena quinta (traduzione by my prof XD)
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Capitolo 2 *** 2- ***
eyes2
Eyes – fumo di china
2]
Dannazione.
Matematica non era mai stata il
suo forte, figurarsi la trigonometria: tutti quei numeri già si mescolavano da
soli, se poi si aggiungevano seni, coseni e tangenti, i triangoli che gli
passavano sotto il naso parevano totalmente incomprensibili. Intanto, però,
l’orologio continuava ticchettare frenetico, segnalandogli che il tempo passava
e le due ore di verifica concesse erano lì lì per terminare, con conseguente
ritiro del foglio. Attualmente, talmente poco scritto da risultare bianco.
Un fruscio che gli sfiorò un
braccio lo distrasse da ragionamenti ciechi circa l’ipotenusa di un triangolo
isoscele, e con suo sommo stupore si ritrovò con un foglietto strappato e
ricoperto da una fine calligrafia a lui nota poggiato in bilico appena oltre il
suo braccio. Alzò di scatto la testa, meravigliato, e poté così incontrare la
fugace occhiata che Itachi gli rivolse nel momento stesso in cui consegnava,
prima che si abbassasse a scambiare qualche parola con l’insegnante,
distraendolo il tempo necessario per garantirgli di sistemare meglio i
suggerimenti per evitare di farsi scoprire, prima di uscire dall’aula.
Incredulo, Kisame non poté che
osservare il suo tesoro celato in posizione strategica sotto l’astuccio,
essendosi ritrovato tra le mani ben quattro dei cinque problemi proposti, tutti
perfettamente svolti, risolti e dimostrati: certo non era tipo da farsi troppi
scrupoli e pur maledicendo l’aver avuto necessità di quel damerino, controllando
di tanto in tanto che “l’ufficiale giudiziario” non fosse minimamente
interessato alla sua persona, iniziò a copiare il tutto alacremente, terminando
appena in tempo prima dello squillo finale della campanella e il ritiro forzato
dell’insegnante. E per la prima volta, depositare il compito scritto tra le
mani del sensei Umino non fu fonte di alcuna vergogna.
Fuori, il suo salvatore attendeva
paziente il termine dell’intervallo, poggiato distrattamente alla parete
scrostata del corridoio con una spalla ed intento a fissare con particolare
interesse i tasselli del parquet. Accelerando l’andatura, Kisame gli si
avvicinò, fermandosi a qualche passo dalla sua persona.
-Uchiha…senti, non dovevi
sentirti in debito, per l’altro giorno…vabbè, comunque, grazie- borbottò,
cercando di non suonare troppo acido in quella che avrebbe dovuto essere una
risposta cortese. Itachi lo fissò per qualche istante, battendo un paio di
volte le palpebre, prima di annuire assente e volgere altrove la propria
attenzione. A quel punto, notando come questa non riuscisse a focalizzarsi su
un qualcosa di particolare, non riuscì a zittirsi.
-Senti…se è un problema di
diottrie, perché non cambi occhiali?-
Vide distintamente come, alle sue
parole, tutto il corpo s’irrigidì, ponendosi immediatamente in una posizione di
rabbiosa difesa: scuotendo unicamente il capo, Itachi lo fulminò aggressivo,
una silenziosa minaccia nello sguardo brillante.
-Non ho alcun problema. Finiscila
di starmi addosso-
Se c’era qualcosa che ancora lo
tratteneva – fosse disinteresse, rancore o fastidio- dal cercare un contatto
diretto che gli chiarisse tutti gli interrogativi che Itachi celava, scomparve
nel preciso istante in cui, osservandolo allontanarsi a passi rapidi e nervosi,
si costrinse a forza a distogliere lo sguardo dai suoi fianchi.
A qualunque costo, avrebbe
scoperto cosa nascondeva.
-Pein? Che sai dirmi su Itachi
Uchiha?-
Seduti sui gradini appena esterni
alla’uscita d’emergenza, a fianco della scala antincendio, Kisame si chinò per
accendere la sigaretta del ragazzo dagli accesi capelli arancio accomodato al
suo fianco; la fiamma dell’accendino risplendette per qualche secondo sui
numerosi piercing che decoravano insolitamente il pallido viso, prima che
questo venisse oscurato da una nube di fumo chiaro.
-Uchiha, eh?- iniziò,
strascicando appena le parole a causa della sottile stecca che ondeggiava al
movimento delle labbra – Tipo difficile. Il padre è proprietario di
un’industria informatica, la madre è presidente di una decina di associazioni filantropiche…
ha un fratello minore, che però frequenta ancora le scuole inferiori. Se la passa
bene-.
-Non si direbbe- commentò
l’Hoshigaki, avvolgendo a coppa le mani attorno all’estremità della sigaretta
che tentava d’accendere. Pein emise una sorta di sbuffo che doveva passare per
una risata, inclinando le labbra in una smorfia divertita.
-Parli della sua loquacità? Sono
in molti a credere che sia uno spostato o abbia qualche problema…in realtà è
parecchio intelligente, solamente non ama molto la gente.- concluse con una
punta d’ironia. Al suo fianco, Kisame annuì atono, ricollegando una serie di
fili sparsi: per raccogliere informazioni su una certa persona senza doverle
estrapolare dalla stessa, non c’era al mondo nessuno come Pein. Come facesse ad
essere in possesso di dati riguardanti mezzo emisfero non lo sapeva – e non era
del tutto sicuro di voler venirne a conoscenza-, l’importante era sganciare,
per ogni ragguaglio ricevuto una mancia adeguata. Fece per alzarsi, ma le
parole successive del ragazzo lo trattennero dal completare il movimento.
-C’è però una cosa che molti non
sanno: lo zio materno, è dentro per omicidio-.
Il silenzio che seguì
quest’affermazione sparata a bruciapelo fu colmato solamente dal frusciare delle
foglie degli alberi smosse dalla brezza gelida che si alzò in quel momento.
Kisame si era irrigidito, annichilito: non avrebbe mai potuto immaginare che
nascosto sotto la cerea patina indifferente di quel viso pallido e affilato si
celasse un dolore tanto simile al proprio. Continuando a rimuginare, gettò a
terra il mozzicone rimastogli tra le dita e lo pestò sotto le suole delle
scarpe per spegnerlo.
-Niente problemi di occhi, che tu
sappia?-
-Occhi?- per un istante spaesato,
Pain aggrottò le sopracciglia – Porta gli occhiali, mi sembra palese-
-No, intendo…va bene, lascia
perdere- balzato in piedi con un rapido moto delle gambe, gli gettò al volo un
paio di pacchetti di sigarette ancora intatti che vennero acchiappati al volo
con un mugugno entusiasta
-Ci si vede, Pain, grazie per le
informazioni-
-Di niente, amico. Vedrò di
informarmi maggiormente... odio non sapere le cose-
L’uscita di massa degli studenti
delle medie era un momento della giornata che Itachi, dentro di sé, odiava con
tutto il cuore: avrebbe volentieri fatto a meno di riaccompagnare a casa il
fratello minore e il suo migliore amico se questo non avesse significato
infinite rimostranze, bronci indignati e occhiate di presunto rancore al suo
indirizzo; pertanto, si prestava quotidianamente al suo quarto d’ora di tortura
senza battere troppo ciglio, attendendo paziente nel branco circolante delle
madri appostate al di fuori dei cancelli, e prendeva puntualmente in consegna i
due ragazzini, che altrettanto puntualmente sbucavano fuori dall’edificio tra
gli ultimi. Come se volessero fargli uno scherzo.
-Nii-san-
Il saluto di Sasuke, più i giorni
passavano, più si faceva secco e risentito, quasi distante: d’altronde, il
rapporto d’affetto che vi era tra i due si era pian piano inaridito col passare
del tempo, man mano che il maggiore cresceva, si faceva carico delle
aspettative di famiglie e si chiudeva nel suo mutismo inaccessibile, barricato
in esso come in una trincea. E il piccolo otouto, che non comprendeva le radici
di quel cambiamento, aveva imparato che struggersi e assillarlo per ottenere
attenzioni non facevano altro che allontanarlo sempre di più, irritando
contemporaneamente il padre; così, alla fine erano giunti a quel rigido – e
gelido- compromesso. A nulla servivano le infinite chiacchiere squillanti che Naruto spandeva
nell’aria per colmare quel silenzio di ghiaccio: a parte quel misero saluto, e
il cenno ottenuto in risposta, dai due Uchiha non si sarebbe ottenuto altro.
Ma all’improvviso, proprio quando
il piccolo Uzumaki si ritrovava a metà del racconto di un’improbabile scenetta
avvenuta all’ora di pranzo, narrata a un Sasuke poco interessato con un piede
già alzato per entrare nel caldo abitacolo dell’auto, con un’Itachi che,
impassibile, aspettava che anche l’ospite facesse altrettanto, dal piccolo cortile
della scuola si udì un trambusto. Urla, grida indignate, proteste, il suono di
un paio di schiaffi e la nota stridente di un pianto femminile sul nascere.
Anche se non coinvolti, i tre ragazzi non poterono esimersi di voltarsi curiosi
verso la fonte del disagio.
A pochi passi da loro, un
ragazzino infilato in una felpa con cappuccio grande due volte il suo corpo
smilzo, aveva buttato a terra un altro bambino, sotto gli occhi di un misero
gruppetto di coetanei rimasti a giocare fuori orario; e, forte della
superiorità acquisita, incombeva su di lui, minacciandolo agitando un pugno
sotto il suo naso. Itachi lo squadrò solo per pochi attimi, prima che la sua
attenzione venisse deviata da un secondo gruppo di spettatori, composto però da
ben altro genere di elementi: ben piazzati e di spalle larghe, dei ragazzi di
età superiore sogghignavano incitando il piccolo prepotente, lanciando, a
seconda delle sue mosse, grida di entusiasmo o pesanti insulti. Tra di essi,
non ci mise molto a riconoscere la chioma dall’insolito colore e gli occhi blu
del suo compagno di classe.
Kisame.
E quindi, quello doveva essere la
sua “cricca di delinquenti”, come li aveva definiti il professor Umino.
-Itachi-san?-
Venne distolto dal fumoso
ragionamento dalla mano che aveva iniziato a strattonare la sua manica, e
chinando il capo incontrò gli occhi spaventati di Naruto che, trattosi in
disparte con un pallidissimo Sasuke, aveva avuto il coraggio di provare a
richiedere un intervento. – Itachi-san? È…è un coltello, quello?-
In un attimo, Itachi comprese che
il pugno chiuso, in realtà, non stringeva solamente l’aria calda del
pomeriggio; che quel ragazzo non stava solo facendo lo sbruffone davanti ai
suoi amici; e che quel che i suoi occhi intravedevano foscamente non era
solamente del comune bullismo giovanile. Tornò a guardare il bambino steso a
terra che, ormai terrorizzato, aveva rinunciato a provare a mostrarsi
coraggioso scoppiando in un pianto copioso. E istantaneamente, il suo cervello
immaginò una scena identica, dove però a trovarsi al posto di quel ragazzino di
cui a stento riusciva a distogliere il volto, si trovava Sasuke. Il suo otouto.
-Piantatela!-
Al suono della sua voce, tutti i
presenti si voltarono all’unisono verso di lui, avanzato di qualche passo verso
il tipo con la felpa. Alcuni degli spettatori più adulti sghignazzarono,
additandolo, e uno del gruppo, con degli improbabili capelli verdi, fece una
smorfia, ridendo sguaiatamente.
-Ehi, ragazzi, è arrivato l’eroe!
Aiuto, sto tremando di paura!-
-Finiscila, Raiga- la voce di
Kisame si levò secca, mentre spintonava indietro l’amico e faceva un passo
verso Itachi. I due si fronteggiarono, guardandosi fisso negli occhi per qualche
secondo. Nero nel blu, rabbia nell’indecisione.
-Portali via- sussurrò lo
Spadaccino, con un cenno del capo rivolto ai due ragazzi che, rimasti
pietrificati dallo svolgersi degli eventi, erano incollati all’auto come se
questa fosse la loro unica via di salvezza
-Lasciate in pace quei bambini-
Itachi non ebbe alcun cedimento, mettendo tutta la decisione di cui era capace
nello sguardo. L’altro sbuffò, con finta esasperazione, roteò gli occhi e poi
si allontanò imprecando, afferrando per un braccio il tipo che aveva reguardito
prima.
-Forza, ce ne andiamo-
-Eeeeh? Samehada, ma che ti sei
bevuto il cervello? Che cazzo…-
-Raiga, quando dico una cosa, è
quella. Che gusto c’è a dar fastidio a dei mocciosi pisciasotto?- aggiunse, con
aria di annoiata arroganza, perseguendo a trascinarlo mentre faceva cenno al
ragazzino incappucciato di lasciar perdere ed allontanarsi – e piantala di
usare quel soprannome da ricchione, idiota-
Rimostranze, imprecazioni,
bestemmie si levarono dal gruppetto di scavezzacollo, attenuandosi solamente
quando si furono sufficientemente allontanati dal piccolo parco giochi da non
essere più nemmeno identificabili. Itachi, che era rimasto rigido e immobile
dov’era, si portò una mano al viso con un gemito di dolore, facendo allarmare
sia Sasuke che Naruto.
-Nii-san?-
-Ragazzi, oggi andiamo a piedi…la
macchina resta qui-
L’intervallo pareva
interminabile, quella mattina. Itachi si sistemò meglio gli occhiali,
procedendo poi con la risoluzione di una nuova funzione, e iniziò a
scribacchiare i passaggi sul quaderno degli esercizi; si distrasse tuttavia
quando il consueto strascichio della sedia gli annunciò il ritorno di Kisame al
suo posto, con fracasso e fastidio conseguente.
-Hoshigaki – lo reguardì, con
tono rassegnato – evita di fare casino-
-Tu non rompere, Uchiha, e io
vedrò di non rompere-
-Oh, certo. Quindi i ragazzini di
ieri devono aver rotto parecchio, per
aver necessità di essere terrorizzati- insinuò, alzando lo sguardo dal foglio,
avendo per la prima volta durante la giornata l’occasione di ritornare sui
fatti del giorno precedente. Ma il ringhio sommesso emesso dal vicino, passò
inosservato, allorquando si accorse che questi era impegnato in una diversa
attività. Appoggiato un blocco sul banco, Kisame stava tratteggiando una figura
dai tratti ancora foschi con l’ausilio di una matita, lasciando Itachi alquanto
spiazzato.
-Hoshigaki- chiese, incerto – che
fai?-
-Disegno, talpa. Non si nota?-
-Questo mi pareva abbastanza
apparente. Cosa stai disegnando... Samehada?-
Kisame sollevò immediatamente il
capo, lo sguardo serio – Quello è il nome della mia arma, vedi di non usarlo
con leggerezza. Comunque… avanti, dimmi. Cosa vuoi che ti disegni?-
Concentrandosi sul blocco di
pagine bianche, Itachi corrugò la fronte per qualche secondo, prima di
riportare la propria attenzione alle operazioni che stava svolgendo.
-Un gatto-
Kisame non replicò alcunché,
preferendo invece impugnare la matita con più energia ed iniziare alacremente a
lavorare. Da lì a qualche minuto, con una lieve gomitata al fianco sottile
richiamò di nuovo la sua attenzione, mostrandogli il lavoro ultimato: il profilo
di un felino appallottolato in un cestino faceva capolino, con grazia e
delicatezza, dalla risma di fogli. Itachi lo contemplò per qualche secondo,
prima di sorridere sornione.
-Né meglio, né peggio rispetto a
mio cugino. Sei bravino, Hoshigaki. Però ora ti chiedo una cosa che mio cugino
non sa disegnare…disegnami l’amore-
Kisame lo fissò per qualche
secondo, quasi colpito dalla domanda insolita, però non si scompose né rifiutò
di sottoporsi alla prova: vedendo anzi, che, voltata la pagina e lisciato il foglio
con il palmo della mano, si preparava a riprendere a disegnare, Itachi lo
lasciò nel suo brodo proseguendo a risolvere le sue brave equazioni.
Nel bel mezzo del calcolo di una
derivata, un delicato colpetto sul braccio gli fece perdere il filo dei calcoli,
facendogli alzare il capo per vedere cosa avesse prodotto la vena artistica del
ragazzo al suo fianco. Ma non poté mentire a se stesso dichiarando di non
essere rimasto sconvolto, allorquando un paio di occhi neri e profondi
ricambiarono lo sguardo dalla sua destra
-Ecco….- asserì Kisame, in piedi
alle sue spalle – per me è questo, il volto che ha l’amore-
E qualcosa, da qualche parte
nelle profondità del suo animo, si ruppe definitivamente andando in mille
pezzi.
ed ecco il secondo capitolo ^_^
Sì, lo so, la scena finale è un po' stucchevole, ma dopotutto è da lì che sono partita
Ringrazio con tanto, tanto
affetto - perdonatemi, sono di fretta ç_ç - miyuk, slice,
sweetkonan per le loro bellissime recensioni. grazie, davvero <3
see you next time
wolvie
|
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Capitolo 3 *** -3 ***
Devo chiedere immensamente
perdono.
Non ho trascurato volontariamente questa storia. Solo, il mio pc si è
infettato, ho dovuto rimuovere NVU, poi mi sono dimenticata
d'installare il programma nuovo e alla fine ho avuto mole di cose da
studiare.
Quindi chiedo scusa, gomen, gomn e ancora gomen
Bene, ora vi fornisco l'ultimo capitolo. quello che dovrebbe risolvere
un po' di dubbi, ma che credo ne fornirà altrettanti.
buona lettura
Eyes - Fumo di china
3]
-Pein. Che sai dirmi su Kisame Hoshigaki?-
Esalando una sottile nuvola di fumo perlaceo, il ragazzo dagli insoliti
occhi grigi studiò con attenzione il suo interlocutore, prima di
fissare la sigaretta che stringeva tra indice e medio come in cerca
d’ispirazione.
-Itachi Uchiha che viene a cercare informazioni… su un tipo simile,
poi. Che sta succedendo?- chiese, vagamente curioso, prima di aspirare
a fondo un’altra boccata. L’interlocutore non rispose, limitandosi ad
accentuare l’aria gelida e imperturbabile che lo contraddistingueva,
cosicché al giovane metallaro altro non restò che iniziare a
snocciolare le sue informazioni.
-Dunque, vediamo… viene da una famiglia difficile. Il padre è dentro
per spaccio, la madre tira avanti a stento… lui non è uscito un
granché, anche come cervello. Ha fama di essere un attaccabrighe coi
fiocchi, e di essere alquanto suscettibile. Va in giro con un gruppo di
altri ragazzi dei quartieri bassi, si fanno chiamare i sette
spadaccini, magari li hai già sentiti nominare…non hanno una bella
nomea. Ne fa parte anche Zabuza Momochi, quello che è stato espulso in
prima. Ah, e se si applicasse sarebbe il miglior quarterback della
scuola-
Itachi corrugò le sopracciglia, osservando poco convinto un misero
lichene che cresceva solitario ai suoi piedi.
-Quarterback?-
-Beh, sai com’è…è bello grosso. Comunque frequenta raramente gli
allenamenti, quindi dubito che lo vedremo mai al Sei Nazioni. Poi…beh,
a scuola fa schifo, ma questo lo saprai anche tu-
-Altro?-
-Non che io sappia- ennesima boccata, prima che l’aria venisse
offuscata dal puzzolente odore di nicotina.
Annuendo tra se e sé, l’Uchiha non fece una piega, cavando di tasca un
paio di banconote mal arrotolate e allungandole al fumatore. Ma prima
che potesse allontanarsi, questi lo fermò, buttando a terra il
mozzicone della sigaretta consumata.
-Uchiha, senti, questo è un consiglio spassionato, e te lo do’
volentieri gratis. Stai alla larga da quel tipo: non è il genere di
persona che è bene farsi amica-
Itachi non fece una piega, serio come al solito. Si limitò ad annuire
distrattamente, risistemando una ciocca ribelle dietro l’orecchio.
-Non sarà un problema- mormorò, assente – non è mia intenzione,
diventare… suo amico-
Lo squillo della campanella che annunciava il termine delle lezioni
venne accolto con enorme sollievo dai ragazzi sottoposti alla tortura
scolastica: in ogni aula della scuola il trambusto delle sedie
spostate, del vociare tra compagni e i colpi degli zaini che venivano
riempiti e spostati si levarono all’unisono, mentre le centinaia di
ragazzi sciamavano fuori dalle classi fino al cortile d’ingresso come
formiche operaie in fuga dal formicaio pericolante. Con calma, Itachi
terminò di infilare gli ultimi libri nella sua tracolla, prima di
infilarsela sulla spalla e sistemare la sedia al suo posto, tenendo
blandamente sotto osservazione con la coda dell’occhio i movimenti del
suo vicino. Attese che gran parte dei compagni di classe uscissero,
permise che Deidara gli si avvicinasse come al solito, sommergendolo di
chiacchiere non richieste mentre si sistemava la capigliatura, annuì
anche alcune volte alle sue domande retoriche: ma quando venne il
momento di incamminarsi, notando con un rapido moto del capo che non
era rimasto nessuno all’infuori di loro due e del terzo incomodo, prese
la palla al balzo, interrompendo sul nascere un discorso insensato.
-Perdonami, Deidara. Purtroppo oggi ho un impegno, vai avanti senza di
me. E salutami Sasori-
Il biondo ragazzo spalancò gli occhi, esterrefatto. Dell’intera
popolazione maschile che componeva il gruppo di studenti della loro
quinta, era, dacché avesse memoria, l’unico che ancora si sforzava di
essere quantomeno civile nei confronti della figura di Itachi, se non
altro perché era uno dei pochi che lo conosceva dai tempi in cui
entrambi erano alti poco più di un soldo di cacio. Ogni giorno, quindi,
Iwa si sforzava di mantenere la calma, accantonare qualunque malevola
espressione frutto delle ore di tensione, e improvvisava su due piedi
un discorso, magari senza capo né coda, per riempire il silenzio
tombale che li scortava dalla porta dell’aula fino al parcheggio di
fianco al cortile, dove le loro strade si dividevano. Lo faceva per
spirito di dovere e sacrificio, ma mai, mai Itachi gli aveva rivolto la
benché minima parola; soprattutto, mai gli aveva dato buca in maniera
così spudorata! Salutargli Sasori, poi… era incredibile il solo fatto
che si fosse ricordato il nome del suo migliore amico, figurarsi se gli
mandava anche il buongiorno. Studiò con sospetto il viso pallido e gli
occhi scuri, quasi vi cercasse una risposta insita: ma, notando che le
pupille nere continuavano a dardeggiare sulla schiena di Kisame, ancora
intento a litigare con la cerniera del suo zaino, increspò le labbra in
uno sbuffo risentito, ruotò i tacchi borbottando qualcosa
d’incomprensibile e marciò fuori dalla classe, rimuginando fra sé e sé
se fosse meglio allertare la polizia per un probabile omicidio o
chiudere a chiave la stanza. Niente di buono, non l’avesse mai detto…
Vedendolo sparire dietro l’angolo, Itachi trasse un sospiro più
profondo, prima di voltarsi verso l’unico altro presente per ottenere
la sua attenzione.
-Hoshigaki-
Con un sussulto, il ragazzo alzò il capo dalla sacca contro la quale
stava sfogando la sua rabbia.
-Uchiha- rispose, rigido, mantenendo un tono difensivo. Il moro,
invece, abbassò lo sguardo sul piano del tavolo vicino, poggiando un
palmo aperto su di esso e lasciandovi scorrere i polpastrelli,
sovrappensiero.
-Quello che è successo ieri….-
-Ieri? Ieri non è successo niente, Uchiha. Niente- e l’ultima
parola venne sottolineata con un’occhiata talmente gelida che,
nonostante non lo stesse direttamente fissando, l’interpellato non poté
non notarla. Si morse un labbro, avvertendo inaspettatamente quel gelo
scivolargli giù dalla bocca dello stomaco fino ai polmoni, ma si sforzò
di non rivolgergli ancora lo sguardo.
-Questo non è…-
-Non è cosa, Uchiha? Non è un bel niente. È inutile parlare di un
qualcosa che non è mai
accaduto-.
Stavolta, non poté frenarsi, e alzò il mento con un moto repentino del
capo, pronto a far fronte a qualunque cosa avesse trovato in quello
sguardo blu mare. Perché Kisame non poteva entrare nel suo universo
privato, non poteva accedervi, piantare le tende e poi andarsene
fracassando quel che trovava sulla sua strada. Non poteva arrivare
tanto vicino a infrangere gli infiniti strati di silenzio che aveva
eretto come protezione dal mondo e poi lasciarlo a vacillare sull’orlo
di essi. Non poteva fargli provare tutto quello – fastidio,
irritazione, sconcerto, nervosismo, sdegno, stupore, rabbia – e poi far
finta che non fosse successo niente.
-Hoshigaki- soffiò, la voce ridotta a uno stridore metallico. E quando
l’interpellato già stava per voltarsi per tornare ad ignorarlo, decise
di infrangere, lui stesso, con la sua sola forza, quegli strati, quello
scudo. Fece un passo avanti, lasciando cadere a terra la sacca con i
libri scolastici, afferrò tra le dita pallide la T-shirt stinta che
copriva il torace sviluppato dell’altro ragazzo e lo strattonò finché
non lo ebbe totalmente rivolto a sé; poi, alzandosi in punta di piedi,
posò delicatamente le labbra sottili su quelle secche e screpolate che
stavano vomitando ogni sorta d’insulto.
Tempo pochi secondi, giusto per sentire la propria mente andare in
black-out, che due mani lo strinsero con energia per le spalle,
sollevandolo quasi da terra, e lo sbatterono con foga contro il muro.
Poi, il fiato che accelerava, una lingua umida che si faceva strada a
forza nella sua bocca, la saliva calda che si mischiava quasi
convulsamente, la certezza che sì, stava succedendo qualcosa, che era
successo per davvero; e Kisame, quasi inorridito, si allontanò da lui
schizzando come una cavalletta, correndo fuori dall’aula lasciando come
segno tangibile del suo passaggio la porta sbattuta violentemente.
Itachi, ansante, seppe di aver appena perso.
Corse finché non iniziò a fargli male la milza, accecando la sua
irrazionalità con un pulsare sordo e costante, e i polmoni non
protestarono in maniera altrettanto insopportabile: allora rallentò
progressivamente l’andamento fino ad appoggiarsi ansante al primo
lampione trovato nel tentativo di riprendere fiato. E in quel momento,
fissando la macchia di metallo scuro che appariva appannata davanti
agli occhi mentre contraeva spasmodicamente i pugni chiusi cercando di
regolarizzare il ritmo cardiaco, che l’enormità di quello che era
successo gli apparve nella sua complessità.
Aveva baciato Itachi Uchiha.
No, meglio, era Itachi quello che l’aveva baciato, o aveva tentato di
farlo, o aveva fatto un qualcosa di semplicemente simile senza un
motivo apparente: no, lui gli si era letteralmente avvinghiato
addosso, neanche fosse una bestia in calore o un assetato in cerca
addosso. Gli era saltato addosso, dio, come se avesse atteso tutta la
vita quel momento, come se avesse trovato finalmente un motivo per
esistere, come se…
-Merda!- e un pugno si abbatté sul pilone ferreo risuonando secco
Per quanto tentasse di lottare per cancellare il ricordo, pregando
disperatamente che non fosse mai avvenuto, non poteva far nulla contro
il devastante tormento che gli si era avvolto addosso. Lo aveva sempre
riconosciuto, Dio, che Itachi era particolare, che aveva quell’aspetto
tanto fragile e tanto gelido in grado di attrarlo; lo aveva sempre
saputo che in sua presenza non era capace di mantenere un briciolo di
calma e che, invariabilmente, perdeva la pazienza ad ogni suo commento;
lo aveva sempre saputo, che c’era una scintilla, nascosta sotto tutti
gli strati d’indifferenza, che spettava solamente d’essere colta e che
lo incuriosiva, spingendolo a continuare a suscitare delle reazioni
differenti. Pensava di aver toccato il fondo, con quella dichiarazione
tanto stupida, ma Dio, non s’era mai accorto di quanto oltre s’era
spinto, di quanto fosse in realtà più complesso quella sorta
d’interesse, di quanto restasse coinvolto da quelle reazioni…. E,
cazzo, lo aveva baciato, Itachi lo aveva baciato, lui l’aveva baciato,
e cazzo, non poteva nemmeno dire che era stato orribile, no, cazzo, lui
gli si era gettato addosso, e lui, cazzo, cazzocazzocazzo,
lui non gli piaceva, lui non poteva piacergli, lui non doveva piacergli,
che cazzo stava succedendo?
Lentamente, si lasciò scivolare a terra, sul marciapiede gelido e
lercio, infilandosi le mani tra i capelli continuando a fissare a
terra, stralunato. Doveva restare calmo. Respirare, ed espirare, e non
divagare. L’aveva baciato, va bene, non significava un bel niente, non
significava niente, anche se Itachi era un ragazzo, anche se lo
detestava e anche se avrebbe dovuto vederlo ogni santo giorno da lì
alla fine dell’anno, anche se le sue labbra erano gelide e sapevano di…
cazzo.
Si ritrovò a prendere a pugni l’asfalto, mentre lacrime di frustrazione
gli rigavano il viso senza trovare freno.
-Che cazzo mi sta succedendo…?-
Il giorno dopo, Kisame non comparve a scuola, e neppure quello
successivo. Itachi si ritrovò a ragionare su come avesse preso la
notizia, se gli avessero detto che s’era definitivamente trasferito,
magari in un altro stato: per quanto si ripetesse che la presenza o
meno di un compagno di banco non avrebbe modificato di un millesimo la
sua vita, lo sgradevole groppo che stazionava alla bocca dello stomaco
da circa quarantott’ore pareva ricordargli che c’era un motivo per cui
aveva fatto quel passo accettando il flebile legame che correva tra
loro, seppur sottile e insicuro come una cima d’arrembaggio mal
assicurata da un misero rampino *.
Il terzo giorno, il ragazzo ricomparve, arrivando con un cospicuo
ritardo all’inizio della prima ora di lezione: ma il tonfo dello zaino
sul pavimento e lo strascichio della sedia non furono sinonimi di
gaudio. Attorno agli occhi blu, gonfi e iniettati di sangue, facevano
mostra delle marcate occhiaie, a simboleggiare parecchie notti insonni;
e l’espressione, tesa e rabbiosa, emanava un odio tale che nessuno dei
ragazzi si meravigliò nel vederlo scostarsi dagli altri, come volesse
stare lontano da tutti. Anche se Itachi sapeva benissimo, da chi in
particolare si stesse allontanando.
-Hoshigaki- soffiò, frenando a stento l’irritazione – non fare il
coglione-
Dal canto suo, il giovane non diede segno di averlo ascoltato,
iniziando ad armeggiare con il proprio zaino per iniziare ad estrarre
il materiale per la lezione. Vagamente risentito, Itachi si sporse
maggiormente verso di lui.
-Hoshigaki, mi hai sentito? Se stai…-
La frase venne interrotta dall’improvviso ringhiare inferocito di
Kisame, che con un celere movimento si voltò furioso verso di lui,
assalendolo e spedendolo contro la parete, le dita serrate attorno al
suo collo, in una presa ferrea, facendolo cozzare sonoramente col capo.
L’intera classe iniziò a strillare, terrorizzata; qualcuno si alzò in
piedi, cercando di fermare l’aggressore; il professore di turno,
urlando, si precipitò a dividerli; ma di tutto quel fracasso Itachi non
colse il minimo suono, essendo la sua attenzione risucchiata dagli
occhi inferociti e dalla voce furiosa del ragazzo che lo sovrastava.
-Sto cosa, Uchiha? Vedi di starmi lontano, non osare toccarmi, hai
capito? Sta lontano da
me!-
Poi, finalmente, qualcuno riuscì ad allontanarlo a viva forza, mentre
luce, suoni e colori parevano ritornare all’improvviso nella piccola
classe in contemporanea col suono della porta che si chiudeva alle
spalle di insegnante, alunni soccorritori e allievo uscito fuori
controllo. Immobile e attonito, Itachi non riuscì a rispondere alle
pressanti domande che la voce di Deidara continuava a porre
insistentemente. A mala pena, le dita salirono alla pelle nivea della
gola, dove erano rimaste impresse delle forme violacee, tastandola
attonite.
Aveva appena perso tutto.
Dopo una settimana, l’ospedale decise di aver eseguito sufficienti
controlli e di averlo rimesso sufficientemente in forma: il lieve
trauma cranico era del tutto rientrato, costringendo a far ammettere
anche la madre più ansiosa che non era più il caso di stare
ossessivamente in ansia per il suo adorato primogenito; sciolta la
prognosi, rassicurati genitori che il loro bambino non rischiava
assolutamente più nulla, il primario aveva firmato la cartella di
dimissioni, fissandole per l’indomani. Ma in quel momento, Itachi era
ancora seduto, rigido come una mummia, nel bianco e asettico letto, una
vestaglia linda sul corpo glabro e i residui di un inutile flebo
incerottati al braccio destro. Muto e silenzioso ancor più del solito,
ascoltava senza attenzione il resoconto sull’andamento scolastico di
Deidara, che quotidianamente veniva ad aggiornarlo su quello che
accadeva a scuola.
-Itachi? Mi stati ascoltando?-
Senza distogliere lo sguardo dalla finestra che stava contemplando,
l’interpellato ripose meccanicamente.
-Certo, Deidara. Certo…-
Con un sospiro rassegnato, il ragazzo chiuse il quaderno che teneva
appoggiato sulle gambe e si alzò dalla poltroncina su cui era
accomodato, afferrando il proprio cappotto.
-Va bene, ho capito. Per oggi ho finito- sbuffò, infilandoselo sulle
spalle, prima di soffermarsi ad osservarlo con un’occhiata molto
strana. Studiò con attenzione l’altero profilo del malato, prima di
azzardarsi a sospirare un: - È stato sospeso-.
Bingo. Gli occhi scuri di Itachi si allargarono di un micromillimetro,
mentre le narici venivano attraversate da un lieve spasmo. Sicuro del
fatto suo, proseguì, attento a calare la voce nei momenti più opportuni
del suo discorso.
-Sai? È da una vita che ti conosco. Eppure, di sicuro non siamo amici,
o almeno non quel tipo di amici che si possono definire confidenti.
Tuttavia, anche un cieco capirebbe che è successo qualcosa, tra voi
due... buona o brutta che sia, Itachi, dovreste parlarne. Insomma, uno
non arriva a tentare di ammazzare qualcun altro senza un valido motivo,
no? È un consiglio da amico, quello che ti do. Parlagli – si frugò per
qualche secondo nelle tasche del giubbotto, prima di allungargli un
bigliettino stropicciato, depositandolo sulle lenzuola bianche – Tieni,
questo è il suo numero e il suo indirizzo. Stammi bene, ci vediamo a
scuola-
Si voltò in uno svolazzo biondo, ma le sue dita erano ancora strette
sulla maniglia che una singola parola, giunta velata al suo udito, lo
fece piacevolmente sobbalzare, facendo fare una capriola al suo stomaco.
-Grazie-
Iwa annuì appena, con un sorriso, poi s’incamminò a passo rapido,
assaporando la soddisfazione che si riceveva a fare un favore da Itachi
Uchiha. Brutta o bella fosse stata la conclusione di quella storia, ne
sarebbe stato lieto comunque.
Kisame imprecò, al suono del campanello, e gettò malamente il libro di
storia giù dal letto per avviarsi, strascicando i piedi ad aprire. Si
pentì amaramente di non aver lasciato il disturbatore a morire
assiderato dal freddo, però, quando si vide spuntare davanti al naso il
viso pallido di Itachi uchiha e i suoi occhi neri.
Fece per richiudergli la porta in faccia, ma l’improvvisa opposizione
di un braccio magro e di un paio di iridi insolitamente brillanti lo
trattenne, facendolo comunque sibilare dalla stizza: mossosi in aventi
e mettendo un piede all’interno dell’abitazione, Itachi gli impediva
fisicamente di serrare l’uscio e di cacciarlo fuori dalla sua vita.
Prima che potesse valutare se eseguire un placcaggio e sbatterlo a
terra o meno, il ragazzo aprì bocca per primo.
-Non è semplicemente una questione di diottrie-
Nel sentire la sua voce bassa e melodica, appena appena rauca, Kisame
non poté evitarsi di sobbalzare. Era più forte di lui, da quel punto di
vista; ma riuscì abilmente a nascondere la reazione provocatagli,
annuendo con fare scocciato per invitarlo a continuare. Itachi serrò le
palpebre, prese un respiro profondo e iniziò a parlare a raffica, senza
nemmeno prendere fiato per respirare.
-è una malattia del bulbo oculare chiamata cheratocono**, che provoca
il progressivo assottigliamento e incurvamento verso l’esterno della
parte centrale della cornea. Le immagini mi appaiono distorte, sempre
più sfocate, sia che siano distanti sia che siano vicine; la luce mi
crea fastidio e irritazione, e il dolore aumenta gradualmente, ogni
giorno sempre di più. L’unico rimedio efficace, sarebbe sottoporsi a un
trapianto della membrana, solo che… che non voglio. Non voglio perché i
donatori sono estremamente pochi e mettersi in lista significherebbe
perdere anni e anni in attesa, perché mio zio è impazzito, in
quell’attesa, e ha ammazzato suo fratello nella vaga convinzione che le
sue cornee andassero bene per lui. Non voglio perché se mio padre lo
venisse a sapere s’infurierebbe dando la colpa a mia madre e ai suoi
geni, perché non sarei più il figlio perfetto che da lei esigeva e
perché vedrebbe distrutto il suo sogno di vedermi al vertice del clan.
Non voglio perché sposterebbe tutta la pressione su mio fratello, e gli
rovinerebbe l’esistenza così come ha fatto per me, e lo spezzerebbe,
perché, cazzo, Sasuke è così fragile… Non voglio, perché entrare in
quella sala operatoria con la consapevolezza che fuori non ci sia
nessuno ad aspettarmi è una cosa che non riesco a tollerare, per quanto
io mi sforzi di dirmi che provare terrore è una cosa da stupidi.-
Di tutta quella sfilza di parole mal incrociate tra loro Kisame non
comprese praticamente nulla, se non una soltanto: paura. Itachi, cazzo,
aveva paura. Aveva paura, paura, paura, paura, paura.
Cazzo, anche lui aveva paura
-Perché mi hai baciato, l’altro giorno?- chiese, all’improvviso,
tentando disperatamente di restare lucido.
-Io…non lo so. Ne ho avvertito la necessità, perché…tu sei entrato- e
di scatto, sollevò lo sguardo per incontrare il suo, con una vaga
disperazione ad incrinargli la voce – Ho tenuto tutti quanti fuori
dalla mia vita per anni, e tu adesso sei entrato, hai fatto disastri e
hai cambiato tutto. Non… non puoi andartene, non... non così-.
Lottando con se stesso, per mantenersi ancorato ai pensieri coerenti,
Kisame lo afferrò stretto per le spalle, scuotendolo appena.
-Io… non... non me ne vado. Non vado da nessuna parte. Se vuoi che
resti, io resto. Se vuoi che… che ti aspetti, io aspetto. Ma diventare
ciechi, non è una soluzione. Devi provarci. Devi… dobbiamo darci
un’opportunità. Ci vorrà tempo, ci vorrà pazienza, ci vorrà… calma. Mi
dovrai dare tempo, parecchio tempo. Ma posso farcela. Possiamo farcela.-
Itachi chiuse le palpebre, abbandonando il capo contro il suo petto,
sospirando appena mentre i suoi occhi si riempivano di perle salate.
-Mi va bene. Mi va bene qualunque cosa. Però, resta-
Con un sibilo forzato e
uno sferragliare assordante, il treno della metropolitana ripartì dalla
fermata, fagocitato dal buio tunnel che si apriva nelle profondità del
sottosuolo. Infilandosi in fretta sulle spalle la giacca blu che aveva
viaggiato ripiegata sotto il suo gomito, risalì in fretta i gradini
dell’uscita, proteggendosi il viso dai raggi solari che lo colpivano in
pieno viso man mano che risaliva in superficie.
-Sei in ritardo-
Kisame, suo malgrado,
sorrise, saltando l’ultimo gradino e fermandosi a un passo dal ragazzo
che lo stava aspettando poggiato contro il muretto laterale: camicia
bianca, a maniche corte per la temperatura primaverile; capelli neri,
raccolti in una coda bassa sulla nuca, e i ciuffi che ricadevano
scomposti sul viso creando un gioco di chiaroscuri sulla pelle nivea;
gli occhi neri, profondi e pensosi, che accarezzavano la sua persona.
-Chiedo scusa, mister
perfezione – ringhiò, fingendosi arrabbiato, mentre litigava con le
proprie dita per infilare correttamente al loro posto tutti i bottoni
neri – Il metrò era in ritardo, non io.-
-Certo, come al solito-
mormorò il ragazzo, in risposta, depositando a terra la cartella grigia
che portava con sé e avvicinandosi quel tanto che bastava per
completare al suo posto l’ardua operazione; Kisame, malizioso, ne
approfittò per afferrarlo giocosamente per la cravatta scura e alzargli
il viso, impossessandosi vorace delle sue labbra.
Non prima di aver
ammirato, grazie ai giochi di luce creati dal sole, il sottile disegno
arzigogolato che ritrovava immancabile delle iridi color pece.
Itachi si concesse
qualche secondo di tranquillità, prima di svicolare via dall’abbraccio
improvvisato per recuperare i suoi beni.
-Forza, lumaca.
Altrimenti facciamo tardi per davvero- chiosò, prima d’incamminarsi
verso la facoltà universitaria, osservando con fare svagato gli alberi
che costeggiavano il percorso. Kisame si affrettò a raggiungerlo,
imprimendo alle sue gambe lo stesso moto rilassato, beandosi di essere
al suo fianco e di essere riuscito, finalmente, ad arrivare fin lì.
Aver paura assieme, in
fondo, era assai meglio che restare soli.
*rampino: sorta di uncino
utilizzato, annodato in fondo a una cima, al momento dell’abbordaggio,
per unire tra loro due navi.
**cheratocono: malattia
del bulbo oculare, che produce i sintomi descritti. Tra l’altro, sono
sintomi anche gli occhi brillanti, e la forma conica del bulbo oculare.
Ah, sì. Il Sei Nazioni è
il maggiore torneo di rugby a quindici, che si disputa tra Irlanda,
Inghilterra, Scozia, Galles, Francia e Italia. Ovviamente qui pein lo
cita ironicamente XD
Grazie per le loro
recensioni a
slice: il
momento della smaltatura è sacro U_U Yatta, sono molto felice che ti
siano piaciuti è sempre il traguardo più importante *_*
Miharu Ozukawa:
ma guarda, a me va bene anche così *_* grazie davvero infinite <3
miyuk:
oscuro, oscuro, oscuro...aspetta, accendo la luce XD No, dai, spero si
sia chiarito molto di quanto non detto in precedenza, anche se ammetto
di aver raffazzonato il tutto. fortunatamente, no cancro
Amaerize:
Itachi ha disegnato il volto di Itachi - sì, lo so che non si capiva,
ma non so come nella redazione finale no tolto due parole chiave =_= -.
Spero che Ita-san continui a reggere anche qui ^^
sweetkonan:
non posso che darti ragione, mea culpa. Grazie mille per il commento e
i suggerimenti - per la questione Deidara : diciamo che avrebbe dovuto
essere presente solo nel primo paragrafetto, giusto per fare da
introduzione. Poi però mi è scappato di mano ed è spuntato qui e lì =_=
-. in ogni caso ti ringrazio davvero di cuore, e sono felice che ti sia
piaciuta - anche perchè, non si trovano fan della coppia facilmente,
oggidì **
bene. e con questo,
prendo congedo. grazie a chi ha letto, a chi l'ha inserita tra i
Preferiti e le Seguite e a tutti coloro che sono riusciti a reggere fin
qui. merci <3
besitos, vostra wolvie
|
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