Yami no Hikari di baka_the_genius_mind (/viewuser.php?uid=52954)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Why don't you get out of my life? ***
Capitolo 3: *** It sounds selfish, but I still need you. ***
Capitolo 4: *** I can't see. Did you forget it? ***
Capitolo 5: *** How can I help you? ***
Capitolo 6: *** AVVISO ***
Capitolo 1 *** Prologo ***
•
Prologo
•
-
Uruha -
La
vista di quel volto fu come una lenta e pacata sinfonia che comincia
con deboli strumenti a fiato, timidi pizzicati di violini, un appena
accennato borbottio di contrabbasso.
Il
volume di quella sinfonia crebbe pian piano; le labbra furono
l'introdursi vivace dei flauti traversi, gli zigomi alti un deciso
cambio di carattere nelle viole e nei violini, la prorompente cascata
dei suoi folti capelli neri l'entrata delle percussioni.
Il
cosiddetto colpo di grazia si presentò a me come il paio d'occhi più
magnetici in cui fossi incappato nella mia esistenza.
Un
prorompente attacco di trombe e tromboni, violini impazziti, flauti
rapiti dal ritmo serrato delle percussioni, i tamburi rombanti, m'era
perfino sembrato di sentire delle chitarre acustiche che mi
riempivano la mente delle loro pentatoniche, le loro doriche e
aeloie.
L'ultima
nota aveva vibrato nell'aria, incidendo il silenzio con la sua densa
e grave corposità.
«Mi
perdoni, non l'ho vista.»
In
realtà l'avevo visto fin troppo bene. Era decisamente...complicato
non vederlo, anche se faceva di tutto per passare inosservato. Nel
delicato paesaggio color pastello di Kyoto lui spiccava come un'oasi
in mezzo al deserto: vestito di nero da capo a piedi, se ne stava
immobile come una statua, mentre il mondo girava attorno a lui. Era
troppo incredibile per non
essere notato.
Quando
lo urtai barcollò leggermente, e quegli occhioni guizzarono rapidi
come saette in mille direzioni.
Non
avevo mai visto occhi del genere.
Le
sue iridi erano di un azzurro stupefacente; un azzurro-grigio quasi
trasparente, che si piegavano al volere di un paio di pupille color
inchiostro, grandi ed ingenue.
Mi
sembrò di vedere in quegl'occhi un cielo piovoso d'autunno.
«Oh,
non si preoccupi. Neanche io avevo visto visto lei.»
La
sua voce fu un imprevedibile colpo di grazia.
Mi
parlò con voce tranquilla e pacata.
L'inquietudine
di quegl'occhi s'era placata e ora essi erano vuoti e spenti, come
scollegati dalla spina che li aveva resi tanto fulgidi pochi attimi
prima.
«Sì,
mh, okay. Beh, mi scusi ancora.»
Lui
mi fece un grazioso cenno col volto, lo sguardo incollato alla mia
spalla.
Perché
non mi guardi in volto angelo?
Cercai
rapidamente qualche scusa che mi costringesse a rivolgergli
nuovamente la parola, nella speranza di vedere il suo sguardo nel
mio. Avrei potuto chiedergli se si fosse male, quando il suo
improvviso cambio d'espressione mi bloccò le parole in gola.
Mi
allontanai in fretta da quella creatura, quasi spaventato da tanta
bellezza.
Mi
ero svegliato col mal di testa quella mattina: il dolore sordo mi
pulsava nelle tempie, martellando come la grancassa di una batteria.
Ultimamente
capitava molto spesso. La notte sognavo Maiko, sognavo quello sguardo
da bambina, sognavo le sue labbra carnose e il suo corpo magro e la
mattina mi svegliavo con il cranio attraversato da milioni di schegge
gelide.
Maiko.
La
mia Maiko se n'era andata, mi aveva lasciato indietro e solo,
e io dovevo ancora rendermene conto.
Mi
infilai sotto una doccia gelida senza neanche togliermi il pigiama e
quello mi si incollò alla pelle. Il lento martellare crebbe
d'intensità, fino a raggiungere livelli insopportabili, prima di
scemare veloce com'era aumentato.
Quando
entrai in cucina avvolto da un accappatoio bianco, il telefono
accanto al frigo lampeggiava.
«Kouyou,
sono Yasuko, chiamami.»
«Sono
Kawada. Chiamami quando puoi.»
«Kouyou,
sono io...» una pausa lunga un sospiro inframmezzò il terzo
messaggio in segreteria «...tuo padre chiede tue notizie. E le tue
sorelle...» altra pausa «...chiamaci. Ti prego, Kouyou,
chiamaci.»
«Shunsuke.
Manoscritto.»
Ridacchiai.
Il mio manager era sempre molto avaro di parole, in particolar modo
al telefono: a taluni poteva sembrare un essere viscido e mellifluo,
ma era un uomo eccezionale, professionale e totalmente dedito al suo
lavoro, che svolgeva con impeccabile precisione.
Era
stato l'unico, e di questo non avrei mai smesso di ringraziarlo, ad
ignorare la mia perdita. Semplicemente mi aveva inondato di una così
gravosa mole di lavoro che non avevo quasi avuto tempo di pensarci.
E
ciò mi era stato di fondamentale importanza.
Sommerse
il mio vile piano -di cui molto probabilmente aveva sentito il fetido
odore solo a guardarmi in faccia la prima volta che mi aveva visto
dopo la Sua scomparsa- con interviste, apparizioni in tv e
alla radio locale; sapeva che non mi sarei mai permesso di fare
brutta figura in pubblico e sfruttò questa mia vanità per togliermi
dalla testa quel tarlo maledetto.
Il
suo successo fu palese.
La
prima ed unica volta che ripensai al suicido, dopo quella folle
settimana, rimasi talmente spaventato che ingollai tanti calmanti da
rimanerne quasi stordito, riuscendo quasi a raggiungere l'obiettivo
che mi ero prefissato giorni prima e che solo quella sera avevo
totalmente abiurato.
Solo
Shunsuke aveva capito che il reale
motivo di quel mio gesto era stato dettato dal bisogno di spegnere il
mio cervello e smettere di pensare almeno per qualche ora, e non
dalla voglia di togliermi la vita.
Ciononostante
bastò rivedere il Suo volto in una foto, una domenica mattina
in cui, preso dall'impeto dell'ispirazione, cercavo dei fogli bianchi
in un cassetto, perchè mi accorgessi realmente
di averla persa per sempre.
E
così era cominciata quell'atroce serie di incubi, quelle emicranie
da flebo, i pomeriggi prigioniero delle violente fitte che sembravano
squarciarmi il cervello in due, rannicchiato sul mio letto in
lacrime, le apatiche giornate passate a camminare silenzioso e cupo
come un'ombra nel mio appartamento.
Il
cielo era nuvoloso quella mattina.
Lo
osservai con indolenza dalla finestra della cucina, prima di rendermi
conto che erano giorni che non facevo la spesa e che gli spuntini
della rosticceria sotto casa che Shunsuke mi portava quotidianamente
non sarebbero bastati a lungo.
La
carcassa del mio ultimo pranzo rendeva ancora più desolante la mia
cucina.
Con
una flemma che io stesso trovavo snervante
mi spogliai dell'accappatoio e indossai degli abiti puliti,
sciacquandomi poi accuratamente il volto e pettinando con indolenza i
mie lunghi capelli scuri.
A
Maiko erano sempre piaciuti corti.
Io
li avevo fatti crescere dopo la sua partenza.
Febbraio
quell'anno era freddissimo.
Mi
infagottai in un'ingombrante serie di magliette e maglioni, che
coprivano a stento il mio corpo magro e uscii nel gelido abbraccio
invernale.
Sulla
via del ritorno capitai nel parco.
Quel
posto non aveva mai rappresentato altro per me, se non un semplice
giardino pubblico, verde e pulito come lo erano migliaia di altri
luoghi del genere.
Tuttavia
ne conoscevo a memoria la sommità della grande fontana che
troneggiava nel mezzo di quei folti ciliegi. Si vedeva così
nitidamente dalla finestra del mio salotto, anche nei giorni di
nebbia, che avevo perso pomeriggi interi a guardare l'acqua che ne
sgorgava incessantemente; il resto della struttura era coperto dalle
fronde degli alberi, ma la cima era impressa a fuoco nella mia mente.
Mi
prese l'incredibile voglia di vedere la base di quella sorgente;
abbandonai la spesa in mezzo al marciapiede e mi diressi ad ampie
falcate verso l'interno del parco, con la gioia malcelata di un
bambino a Natale.
L'interezza
della fontana era così semplice e sobria da lasciarmi senza fiato.
Feci
qualche piccolo passo indietro, quasi folgorato da quella comune
visione e inciampai nella svolta decisiva della mia esistenza.
-
Aoi -
Ebbi
un attimo di folle smarrimento, quando mi venne addosso.
Abituato
com'ero a camminare costantemente sul filo del rasoio, anche il
minimo colpo di vento mi faceva trasalire, come fossi una timida
fogliolina ancora tenacemente attaccata al suo ramo ma destinata a
venir sopraffatta dal mondo.
«Mi
perdoni, non l'ho vista.»
La
sua voce fu il calore dolcissimo di un fraterno abbraccio.
Cercai
di voltarmi verso dove avevo sentito provenire quella dolce e roca
melodia. Non era sempre molto semplice questo trucchetto per
nascondere la mia natura, ma per qualche istante di convenevoli
bastava largamente. Bastava fingessi di essere distratto, o freddo, o
indifferente, o un cinico bastardo che se ne frega di chi ha appena
urtato e il contatto visivo veniva a mancare. A mio vantaggio.
Perchè
ora non funzionava?
L'avrei
pregato di continuare a parlare finché non avessi indovinato
l'esatta collocazione dei suoi occhi.
Erano
vent'anni che sfioravo timidamente il mio corpo con lo scopo di
costruirmi un mentale modello di essere umano (avevo continuato a
toccarmi timorosamente anche quando mi ero messo con Ryo e lui mi
aveva lasciato libero di servirsi di lui per i miei esperimenti) e
sapevo approssimativamente dove stavano le cosiddette porte
dell'anima.
Ryo
diceva che i miei occhi erano impenetrabili lastre di ghiaccio,
gelose guardiane della mia anima.
«Oh,
non si preoccupi. Neanche io avevo visto visto lei.»
Riusciva,
quell'affascinante e misterioso sconosciuto a cogliere l'ironia nella
mia voce?
Stetti
in ascolto per qualche secondo, pregando gli dei affinché lo
facessero parlare ancora.
«Sì,
mh, okay. Beh, mi scusi ancora.»
Feci
un debole cenno col capo, imponendomi di placare il mio interesse.
Non
si poteva restare affascinati da una voce,
non in quel mondo meschino e corrotto. L'essere umano era una razza
ancora troppo violenta ed egoista perchè ci si potesse fidare
ciecamente del
prossimo.
Ero
arrivato a questa conclusione per esperienza, e l'ultima cosa che
volevo era infatuarmi di una voce come uno sciocco adolescente.
Lo
sconosciuto non mi interessava, per quanto la sua voce
fosse...particolare, graffiata e roca, non me ne importava niente
di lui.
Allora
perchè sentire i suoi passi sulla ghiaia rigare la calma piatta del
parco mi fece così male?
Il
mondo quel giorno era buio.
Di
un buio denso e corposo, come una guaina sigillata che chiudesse al
suo interno ogni cosa.
Il
vento mi sferzava il viso, freddo come l'aria che mi penetrava nelle
ossa. Sentivo i capelli sul volto.
Ryo
mi aveva detto milioni di volte che i miei capelli avevano il colore
dell'inchiostro e la stessa densa consistenza. Dell'inchiostro io
sapevo solamente che era liquido come l'acqua e che aveva lo stesso
colore delle tenebre.
Colore,
anche questo concetto mi era piuttosto astratto.
Ryo
diceva che il nero era il colore del buio.
Avevo
i capelli dello stesso colore del buio in cui ero avvolto? O Ryo
stava minimizzando? Conosceva veramente Il Buio? Quello che
lui chiamava “buio”, quando il suo Sole
tramontava, era lo stesso in cui la luce non era mai e mai sarebbe
arrivata? Era la stessa campana di piombo che mi avvolgeva da ormai
ventotto anni?
Avevo
smesso da mesi, ormai, di fidarmi di lui.
Per
quanto la cosa mi rendesse partecipe del mio triste, doloroso e
completo isolamento, non
potevo, non riuscivo a fidarmi di lui.
Sentire
la sua voce distorta in quella maniera dopo un anno mi aveva
semplicemente annientato.
Fu
l'unica volta in tutta la mia vita che ringraziai gli dei di avermi
fatto nascere cieco. Sarei morto di dolore se li avessi visti
abbracciati. Morivo ogni giorno a sentire
le loro mani intrecciarsi, le loro pelli sfregarsi; non so quante
volte avevo pregato di tornare indietro nel tempo, di tornare al
giorno in cui avevo timidamente chiesto a Ryo di accompagnarmi in
clinica per rimediare al mio errore: non gli avrei chiesto di
accompagnarmi e l'avrei lasciato prima di entrare nei melmosi
acquitrini di sofferenza in cui ero invischiato da circa due anni.
Sentirli
sospirare l'uno nelle labbra dell'altro, sentirli gemere l'uno il
nome dell'altro...mi stupivo io stesso di non essere svenuto dal
dolore.
Appena
fuori casa, tirai un respiro profondo. Tesi la mano verso sinistra,
dove sapevo -sapevo,
non vedevo- esserci lo steccato e lo afferrai, gioendo nel sentire le
schegge in rilievo solleticarmi il palmo.
Una
serie di fortunate coincidenze mi condusse al parco quella mattina.
Il
semplice afferrare lo steccato alla mia sinistra non fu così banale
come si può supporre: sarebbe bastato non trovarlo perchè tutta la
sicurezza che provavo si accartocciasse sotto il peso del terrore
che provavo verso il buio che popolava la mia vita fin da quando
avevo memoria.
Un
particolare modo di aver paura che avrebbe cancellato in un sol colpo
tutta l'angoscia che mi opprimeva; non ci avrei messo niente a
tirarmi indietro, appoggiare la schiena alla porta e aspettare al
buio che qualcuno si accorgesse della mia mancanza.
Era
la prima volta che uscivo di casa senza qualcuno. La prima in
ventotto anni.
Beh,
certo, se non si contava quella volta in cui avevo raggiunto il parco
assieme ad Aiko.
Scesi
gli scalini con una lentezza che chiunque avrebbe definito
esasperante, ma che nessuno avrebbe mai riconosciuto come panico.
Mi
sforzai infine di richiamare alla memoria l'esatta collocazione delle
strade, la sequenza di destra-sinistra-dritto
che avevo percorso assieme ad Aiko quasi undici anni prima. Non mi
era molto difficile. Non avendo la mente ingombra di milioni
e milioni di immagini giornaliere, potevo vantare un ottima memoria
anche per i dettagli più insignificanti, che conservavo gelosamente
fino all'ultimo.
Riconobbi
immediatamente il parco dove avevo incontrato Ryo la prima volta.
L'odore
di ciliegi era quello e ricordavo alla perfezione lo scrosciare
dell'acqua della piccola e muschiata fontanella.
Sorrisi.
Undici
anni che non mettevo piede in quel luogo e mi sembrava di averlo
visto solo il giorno prima.
Chissà come mai io e Ryo non
ci eravamo più tornati dopo quel giorno.
«Hai
davvero un bellissimo cane!»
Ryo,
perchè mi hai abbandonato?
«Cos'hanno
i tuoi occhi?»
Io
mi fidavo.
Eri
l'unica persona alla quale potevo chiedere aiuto senza temere che
questa mi ingannasse. Neanche della mia famiglia mi fidavo tanto.
«Lascia
che sia la tua luce.»
Ricordavo
la presenza di alcune panchine nel parco, e quando avvertii il loro
corpo metallico sotto alle dita quasi piansi dalla commozione.
Le
circumnavigai con attenzione, una mano tesa nel vuoto: non avevo
paura, ero certo che ci avrei trovato la nostra casa.
Il nostro albero era lì, la sua corteccia ruvida e dura non aveva
ceduto alle lusinghe del tempo.
Avevo
diciannove anni quando Ryo ci aveva scritto sopra i nostri nomi,
prendendomi una mano e facendomi sentire coi polpastrelli l'intaglio
nei nostri ideogrammi.
Gli
unici che avevo mai imparato in tutta la mia vita.
Se
mi avessero dato in mano una penna, avrei tracciato al buio i nostri
nomi come lui li aveva incisi sulla corteccia di quel vecchio albero.
Posai
le dita su quella ferita d'amore.
Poi
gli voltai caparbiamente le spalle, aggirai la panchina e venni
travolto in pieno dalla svolta decisiva della mia esistenza.
Continua...
Note
di Mya:
Due
paroline su questa nuova creaturina le devo assolutamente spendere.
Innanzitutto
devo scusarmi con BlackAngel.
Non
so se lo sapete, ma aveva
(...ha? Sta? °-°) scritto una fic con una tematica molto simile (si
chiama “Taste - Il suo sapore” e la trovo semplicemente
meravigliosa); personalmente la considero una scrittrice come poche,
semplicemente eccezionale, perciò mi sentivo quasi in colpa a
scrivere questa fic.
Anyway,
voglio sperare che nessuno consideri questa Fiction un plagio. È
stata partorita dalla mia mente, non ho fregato idee a nessuno,
solamente gli argomenti sono simili a quella scritta da BlackAngel.
Le avevo anche scritto una mail per avvertirla/chiederle il permesso,
ma forse non l'ha ricevuta. O forse la leggerà dopo. Sarebbe stato
più corretto attendere una sua risposta, ma non stavo più nella
pelle, spero mi perdonerai anche questo ^^
Ad
ogni modo, spero che non la infastidisca: la considero una fra le
migliori scrittrici del fandom (e non sono tante le persone iscritte
all'albo delle eccellenze, qua dentro) e non vorrei mai
che la prendesse come
un'offesa.
Anche
perchè, rileggendo quell'unico e doloroso capitolo, non credo di
essere capace di raggiungere un livello simile e quindi veramente
competere con quella meraviglia.
In
secondo luogo, la dedica.
Bene,
questa long è e sarà, dalla prima all'ultima virgola, di proprietà
di Aelite.
Ma
andiamo con ordine. Ricordate vero, quella piccola meraviglia di
“Snow Scene”?
Questa
è la sua controparte.
Dal
momento che se aspettiamo la shot Aoi-Uruha che mi aveva chiesto lei
stiamo freschi come surgelati, le offro in ringraziamento (come se
davvero sperassi di poterla far bastare) quest'idea che è lì da
mesi e che prima era destinata ad un altro fandom e che poi, dopo
aver adottato questo fandom
come secondo famiglia, avevo associata ad un gazepairing diverso.
Insomma, l'idea c'era, il resto l'ho costruito attorno ad Aelite,
tenendo conto dei suoi gusti e delle sue preferenze.
Per
quanto sia convinta che si scriverà praticamente da sola, visto che
è quasi un anno che sogno di scriverla, non prometto nulla riguardo
le tempistiche di aggiornamento. Al contrario di qualcuno
a caso
che scrive come un fulmine, io già sono lenta di mio, figuriamoci
con la catastrofica situazione scolastica che mi si para davanti al
naso. Quindi, in ultima analisi, abbiate pazienza.
Un'ultima
cosa.
Io
considero Uruha una persona inscrittibile.
Aelite sa di cosa parlo.
Non
sono capace, niente da fare. Ogni volta che devo scrivere di lui o
dal suo punto di vista mi viene il panico, al contrario di Ruki che
ormai ho adottato come protagonista-tipo delle mie fics (infatti era
lui l'iniziale protagonista di questa long).
E
ci sta che me le vado pure a cercare, dal momento che in questa
Fiction gli ho affibbiato un carattere a dir poco contorto.
Devo
ancora capire cosa esattamente in quell'uomo mi crei tanta
difficoltà, ma prometto di cercare di rimediarci. Nel frattempo,
abbiate pazienza (e due).
Il
titolo, Yami no
Hikari,
significa
letteralmente “La Luce dei Buio”.
Ringrazio
affettuosamente Jo-hime per l'aiuto *strizza*
Un'ultima,
microbica cosina.
Se
andate a vedere (magari utilizzando un documento di testo e non
contando ogni singola parolina come stavo facendo io prima che chichi
mi illuminasse sui miracoli di OpenOffice) vi accorgerete che in
questo prologo ci sono 1180 parole per Uruha e 1180 parole per Aoi.
Non
c'è nessun significato particolare, era solo uno sfizio che volevo
togliermi e che mi impegnerò per tramandare anche ai capitoli
successivi, per i quali prevedo la stessa divisione in due PoV.
Non
dico altro, altrimenti finisco con lo svelare metà della trama: mi
conosco anche fin troppo bene u.u
Fatemi
sapere che ne pensate.
Un
bacio,
Mya
|
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Capitolo 2 *** Why don't you get out of my life? ***
•
Capitolo
Uno •
Why
don't you get out of my life?
-
Aoi -
Ryo
era, come al solito, silenzioso come una tomba.
Non
che fosse una persona particolarmente fredda e scontrosa; chi lo
conosceva bene -e io potevo vantarmi di ciò- sapeva perfettamente
che aveva un cuore immenso, il più grande che un essere umano
potesse vantare.
Ma
aveva questa insopportabile preponderanza al silenzio.
Io
odiavo il silenzio.
«Dimmi
perchè l'hai fatto.»
La
sua voce mi colpì con la forza di uno schiaffo.
La
suoneria del mio cellulare aveva cominciato a suonare nell'esatto
momento in cui i passi dello sconosciuto sulla ghiaia si erano fatti
così deboli da sfuggire anche al mio udito finissimo.
Quando
avevo risposto, Ryo era rimasto in silenzio per una lunga manciata di
minuti.
«Dimmelo,
Yuu. Esigo sapere perchè l'hai fatto.»
Non
avrei saputo dire quanto tempo era passato prima del suo arrivo, ma a
me erano parse ore.
Il
freddo aveva cominciato ad aggredirmi non appena mi aveva chiuso la
chiamata in faccia, congelando tutto ciò che aveva trovato fino al
midollo. La sua rabbia mi aveva mortificato a tal punto che le gambe
avevano cominciato a tremarmi ed ero stato costretto a sedermi.
La
sua improvvisa morsa al mio gomito e la sua voce furiosa che mi aveva
intimato di muovermi avevano avuto su di me il potere di una doccia
calda.
«Yuu.»
Sospirai,
chiudendo gli occhi. Nel corso degli anni mi ero accorto di un
impercettibile cambio di sfumatura dal buio che avvolgeva la mia
vista normalmente alle tenebre
in cui mi chiudevo serrando le palpebre. Un piccolissimo grado di
scuro, un'infinitesimale tonalità più opprimente.
Il
mio rifugio era chiudere quegli occhi ch'erano stati fin dalla
nascita la mia dannazione.
Mi
sembrava che niente potesse scalfirmi se li chiudevo.
«Vi
ho sentiti.»
Se
ebbe una qualsivoglia reazione, non fui così accorto da registrarla.
«Tu
e Yutaka stavate facendo l'amore.»
L'auto
inchiodò improvvisamente. Lo sentii uscire sbattendo la portiera e
pochi istanti dopo mi trascinò giù dalla vettura molto rudemente.
Era furioso.
Credetti
che mi rifilasse anche uno schiaffo (e io, in fin dei conti, l'avrei
accettato senza fiatare), ma tutto ciò che sentii furono le sue
braccia, chiudersi una attorno alla mia vita e l'altra cingermi le
spalle.
«Sei
uno stupido, Yuu.»
Accennai
un sorriso contro la sua spalla.
Non
era arrabbiato con me.
Risposi
al suo abbraccio, sollevato.
Puntualmente
quando mi dava dello stupido era incazzato con se stesso con la forza
di un vulcano in eruzione. Oramai ci avevo fatto il callo.
«Non
volevo farti preoccupare, Ryo.»
«E
io non volevo ferirti. Maledetto il giorno in cui ti sei innamorato
di uno stronzo come me.»
Maledetto
il giorno in cui ti ho fatto conoscere Yutaka.
Mi
tenni i miei pensieri per me, ma fui certo che li avessi indovinati.
Lo sentii sospirare e poi allontanarmi lentamente da sé.
Da
quando ci eravamo lasciati, Ryo mi teneva lontano come fossi una
bestia repellente.
Fin
dal primo, goffo bacio che ci eravamo scambiati, nessuno dei due era
stato capace di allontanarsi dall'altro per più di qualche minuto;
mio fratello ci prendeva spesso in giro perchè ci sfioravamo con
ogni più piccolo pretesto. E quando realmente non esisteva una scusa
plausibile o non, ci toccavamo per il semplice gusto di sentire
l'altro vicino.
Il
fatto che lui cercasse sempre un contatto, che fosse sempre
preoccupato di farmi sentire
la sua presenza, mi sembrò all'epoca la cosa più gentile che
qualcuno avesse mai fatto per me.
Poi
ci eravamo lasciati e avevamo interrotto quel delicato ingranaggio
fatto di carezze e sfioramenti.
Rettifico.
Poi
io l'avevo lasciato e
lui aveva
semplicemente smesso di toccarmi, anche solo per passarmi un
bicchiere d'acqua.
Certo,
se mai avessi avuto bisogno lui sarebbe sempre stato più che pronto
a tendermi una mano (avevamo condiviso troppo perchè non fosse
così), ma i bei giorni in cui mi vedevo costretto a chiedergli
gentilmente, e con un certo divertimento, di lasciarmi per poter
andare in bagno erano finiti e di loro non rimaneva che uno splendido
ma opaco ricordo.
Sentirlo
nuovamente così vicino mi diede un'effimera sensazione
d'appagamento.
Ma
non ero assolutamente pronto a ciò che fece dopo.
Le
sue labbra mi aggredirono rudemente, catturandomi in un bacio
improvviso quanto desiderato.
«Sì!
...mnh, sì, Yutaka...»
Lo
scostai da me bruscamente, respirando a pieni polmoni come se mi
avessero tenuto la testa sott'acqua fino a quel momento. Cercò di
riavvicinarsi a me, afferrandomi il gomito, tirandomi verso di lui.
Mi
divincolai con la forza di una bestia in gabbia, ringhiando quasi,
brancolando nel mio buio.
«Lasciami,
Ryo, lasciami!»
sussurrai, improvvisamente terrorizzato
dalla sua presenza. Il suo corpo perse istantaneamente il suo dolce
calore e diventò freddo come un pezzo di ghiaccio.
Mi
afferrò entrambe le spalle con le mani, scuotendomi come una bambola
di pezza.
«Perchè
non vuoi uscire dalla mia vita, Yuu? Perchè?»
No,
no, no!
Diedi
un forte strattone urtando col collo del piede il primo degli scalini
che portavano al nostro appartamento, terminando così la mia folle
corsa a terra. Non vidi certo a cosa andavo incontro, ma mi sentii
scivolare dentro un folle oblio e non feci nulla per evitarlo.
Non
cercai neanche di gettare le mani avanti per proteggermi; mi lasciai
cadere sulla scalinata, colpendo con violenza il fianco contro lo
spigolo del gradino e graffiandomi le mani e la guancia. Avevo la
testa colma di milioni di fischi e scoppi, la mente invasa da rumori
indefiniti, i sensi offuscati da un leggero tremore che aveva
soggiogato ogni singolo muscolo di cui disponevo. Compreso il cuore.
Perchè
non vuoi uscire dalla mia vita, Yuu?
La
padronanza dell'udito che mi permetteva di orientarmi in quel mondo
buio mi abbandonò all'improvviso lasciandomi solo nel mio
confusionario terrore. Credetti di morire.
«Yuu?»
La
voce di Yutaka fu la scarica di amore che riportò ordine nel mio
cervello. Il ronzio andò quietandosi, il dolore al fianco
affievolendosi. In compenso, una densa cascata di lacrime bollenti mi
rigò le guance, sommandosi alla pazza vergogna che mi aveva invaso
quando ero inciampato.
«Yutaka...»
Quasi
piansi il suo nome, pregando gli dei meschini di portarlo da me.
Sentii
le sue dita fra i capelli, leggere come la prima volta che mi avevano
accarezzato, quel maledetto giorno
di anni e anni prima. Scivolò lentamente al mio fianco, avvolgendomi
con le sua braccia. Mi abbandonai al suo calore singhiozzando.
Il
suo profumo.
Quel
profumo delicato e umano non l'avrei mai dimenticato.
Avevo
dimenticato l'odore acre della lacca di mia madre, quello dolce delle
canne di mio fratello; avevo dimenticato l'odore delle lasagne,
quello dell'abbraccio di mia sorella. Avevo dimenticato l'odore dello
sgabuzzino dove, da ragazzo, mi nascondevo a piangere lacrime amare
dai miei orrendi occhi vuoti.
Col
tempo avrei dimenticato anche il profumo di Ryo.
Ma
quello di Yutaka era una guida, come una guida era la sua voce, le
sue mani, la sua esistenza.
Era
la mia bussola, il mio Nord, il mio Sole e la mia Luna e nulla
avrebbe cambiato ciò.
Neanche
il fatto che si fosse innamorato, ricambiato, dell'uomo che amavo.
«Quando
ti deciderai a parlare?»
Sospirai.
Yutaka
stava cercando di disinfettarmi i polsi che ero in ogni modo riuscito
a sbucciarmi.
Il
lungo graffio che sentivo
rigarmi la guancia pulsava fastidiosamente.
Ryo
era entrato in salotto silenzioso come un'ombra, aveva poggiato sul
divano l'occorrente per la mia medicazione e se ne era andato senza
un fiato.
Io
odiavo
il silenzio.
«Non
c'è nulla da dire.»
«Ti
adora, Yuu. Stravede per te. Voglio sapere cosa l'ha fatto infuriare
a tal punto.»
Aveva
senso dirgli che li avevo sentiti amarsi appassionatamente? Che Ryo
era venuto a prendermi e che aveva tentato di baciarmi? Che mi aveva
supplicato di uscire dalla
sua vita?
«Niente.»
Il
suo sospiro mi sfiorò la fronte.
Ero
appoggiato di schiena al suo torace, il cuore mi batteva lento e
rassicurante contro la colonna vertebrale. Se prestavo sufficiente
attenzione riuscivo a cogliere il flemmatico tu-tum
che scandiva la sua vita.
«Dove
sei stato?» mormorò dolcemente al mio orecchio.
Dei
maledetti, perchè avete creato il più acerrimo dei miei nemici così
incredibilmente angelico e amabile?
Mi
ero sentito dire di tutto in clinica.
Mi
era stato detto che in pochi anni il disturbo si sarebbe evoluto fino
a togliermi anche udito e olfatto.
Mi
era stato detto di rassegnarmi (da persone che, ovviamente,
vedevano ogni giorno il Sole nascere).
Mi
era stato detto che la cecità da incidente era mille volte peggio e
che dovevo ritenermi fortunato.
Fortunato.
Yutaka
aveva solo venticinque anni quando era rimasto cieco da entrambi gli
occhi.
Anche
per lui, come per me, qualsiasi complesso e delicato intervento
sarebbe stato inutile. I suoi nervi ottici erano fasci di fibre
morte, come morta era tutta una zona del suo cervello che fino a quel
maledetto giorno aveva lavorato instancabilmente per garantirgli la
vista.
Mi
era stato detto che coloro che rimanevano ciechi dopo aver visto le
meraviglie del mondo di dividevano in due categorie.
Coloro
che non ne sarebbero usciti. Coloro che avrebbero rifiutato ogni
aiuto, tagliato i ponti col mondo e deciso che la vita senza vista
non valeva la pena di esser vissuta. Il più alto numero di suicidi
fra i malati cronici si concentrava, allora, su questa grande
percentuale di persone che avrebbero, prima o poi, smesso di
desiderare la vita.
Il
secondo gruppo era un infimo numero di persone la cui forza interiore
avrebbe potuto scuotere la Terra dalle fondamenta con un fragore tale
da far sobbalzare gli dei nel cielo.
Yutaka
apparteneva a quest'ultimo gruppo.
L'incidente
aveva come spazzato via ogni più piccolo difetto di cui -dubitavo
anche a crederci- doveva essere
stato dotato anche lui.
Yutaka
era perfetto.
«Da
nessuna parte.»
Fece
passare le mani sul mio ventre, intrecciandole l'una con l'altra.
«Yuu.»
soffiò piano.
«Yutaka
mi prometti una cosa?»
Cercai
faticosamente di voltarmi nel suo abbraccio, prestando un'immensa
attenzione al corpo che sentivo vivere
sotto di me.
Neanche
una settimana prima Yutaka era caduto nuovamente
dalle scale. Il fianco sinistro gli era molto dolorante e cercavo di
evitargli ogni più piccolo fastidio. Soprattutto perchè comprendevo
come fosse stato mio l'avvilimento che doveva aver provato.
«Cosa?.»
Nascosi
il volto nell'incavo del suo collo, riempendomi le narici del suo
profumo.
«Non
sentirti mai in colpa per me. Non ne vale la pena.»
«Dimmi
tutto, Yuu. Ma non tollererò che tu ripeta una seconda volta una
cosa del genere.»
Talvolta,
molto spesso durante quel limbo di pensieri che confusi che
rappresentava il mio riemergere dal sonno, mi ero ritrovato a
chiedermi cosa sarebbe successo se non avessi mai conosciuto Yutaka.
«E
tu me lo fai un favore, Yuu?»
Un
sorriso sciolse la tristezza del mio volto; con le dita sfiorai il
suo braccio nudo, percorsi con lenta calma il polso e il gomito,
scivolando sulla sua spalla. Raggiunsi il suo viso e mi fermai a
accarezzargli la guancia con l'indice.
«Qualsiasi
cosa, Yutaka. Lo sai che tirerei giù il cielo per te.»
Sentii
il suo sorriso, le fossette che gli solcavano dolcemente le guance
solleticarmi i polpastrelli.
«Mi
suoni il piano?»
Quasi
piansi dalla gioia.
Scattai
in piedi, cercando alla ceca le sue mani, stringendole tanto che
pensai per un attimo di avergli fatto male.
«Anche
il cielo per te...» mormorai rapidamente.
Dovetti
proprio impormi di fare con calma per evitare qualsiasi colluttazione
e quando sentii sotto alle dita il sellino ridacchiai sottovoce. Quei
tasti lisci era al loro posto, fedeli al loro padrone. Li sfiorai
come una madre avrebbe sfiorato il volto del suo bambino.
Poi
tesi una mano fino ad incontrare la marca incisa nell'ebano. Sfiorai
le lettere che componevano quel nome: giusto sotto quell'intricato
intreccio di segni che Ryo mi aveva spiegato essere una a
occidentale, sapevo di
trovarci il do centrale.
Improvvisamente,
una malvagia serie di voci mi sconvolse l'udito e ritrassi le mani
dal piano come se questo scottasse.
«Perchè
non vuoi uscire dalla mia vita, Yuu?»
Suonai
quasi per sbaglio un'unica e desolante nota, che riconobbi
all'istante come la più malinconica di tutta la scala.
«Yuu?»
«Perdonami
se puoi, Yuu. Altrimenti dimenticami.»
Come
se pensasse davvero che sarei stato in grado di dimenticarlo.
«Mi
odio, Yuu.»
Non
ci avevo mai creduto. Nessuno avrebbe mai potuto odiare un
angelo come Yutaka, nemmeno lui stesso.
«Vivi,
Yuu. Ti supplico, fallo per me.»
Trattenni
un muto singhiozzo, lasciando che solo una lacrima (l'ennesima,
stanca e vuota lacrima che avevo versato da quel maledetto
giorno) scivolasse sulla mia pelle per cadere poi nel buio che mi
avvolgeva.
Perchè
non vuoi uscire dalla mia vita, Yuu?
-
Uruha -
Takanori
era seduto sull'ultimo scalino della gradinata che portava al mio
attico.
Stava
sgranocchiando qualcosa, molto assorto nella lettura di non so che
giallo americano. Gli occhiali continuavano a scivolargli sul naso e
lui se li risistemava con flemma, quasi con indifferenza.
Mi
piantai davanti a lui, qualche scalino sotto quello su cui era
seduto. Sospirò lentamente, rimettendo il libro e quello che
riconobbi come un sacchetto di noccioline nella tracolla. Si tolse
poi gli occhiali, rivelando così un paio d'occhi per il quali, fino
a qualche minuto prima, avrei invertito l'ordine delle stagioni.
Non
riuscivo a togliermi dalla mente quelle iridi color temporale.
Possibile
che un minuto scarso d'incontro fosse riuscito a spodestare quelli
che in assoluto ritenevo gli occhi più splendenti della mia
esistenza?
«Ti
fai desiderare, eh, Kou?.»
Un
blocco di granito gelidamente vischioso mi piombò nello stomaco.
«Vieni
qui.»
Si
alzò con una malinconica lentezza.
L'avevo
escluso dalla mia vita per l'ennesima volta e lui ne soffriva
enormemente. Avrebbe voluto che gli confidassi ogni più intimo
pensiero come facevo al tempo del liceo, quando io e Maiko ci eravamo
appena conosciuti e lui non era ancora incappato nella sua anima
gemella.
Sorridevo
molto in quel periodo.
La
scrittura non mi aveva ancora possessivamente rapito il cuore e
ancora non l'aveva fatto neanche Maiko.
Si
alzò con lentezza, e i suoi occhi grandi mi sfiorarono da lontano
con la dolcezza di un bacio d'amore.
Strinsi
quel piccolo corpo fra le braccia, accogliendo con gioia il
famigliare solletico dei suoi capelli sul mio collo.
La
prima mattina in cui mi ero svegliato
senza Maiko, Takanori era lì.
Quando
avevo scoperto di non essere capace di esternare il mio dolore, lui
l'aveva fatto al mio posto.
Avevamo
passato una notte intera abbracciati, io muto come una tomba, lo
sguardo vuoto, il corpo anestetizzato, lui tremante, scosso da
singhiozzi che avevano proseguito per ore prima di sfociare in un
flebile lamento e poi in un sonno tormentato.
Il
suo silenzio era stato il balsamo che aveva fermato l'urgente
emorragia; ma se i danni permanenti non si erano manifestati
immediatamente, l'avevano fatto non appena Takanori aveva messo piede
fuori dal mio appartamento. Le ferite che mai sarebbero guarite
avevano vanificato il suo sforzo con disprezzo ed indifferenza.
Ci
aveva messo l'anima nell'intento di esorcizzare i miei ricordi, ma mi
rincresce dire che aveva fallito miseramente.
«Perchè
non chiami sciagurato?»
Non
gli risposi, stringendolo con più forza al mio torace.
Non
avrebbe avuto senso dirgli che le ultime due settimane non avevo
rivolto parola ad anima viva. Non avrebbe avuto senso raccontargli la
pena assoluta del mio ultimo
attacco, il buio
totale che mi era calato addosso come una maschera. Non avrebbe avuto
senso raccontargli che avevo passato un pomeriggio intero a fissare
la scatola dei tranquillanti come se contenesse la risposta ad ogni
mio problema.
E
forse era così...
Ma
la codardia mi aveva impedito di porre fine a tutta quella
sofferenza.
Non
ricordavo neanche la causa scatenante di quell'opprimente strazio.
Forse
qualcosa nelle parole che mi ero azzardato a scrivere dopo mesi di
ispirazione zero mi aveva ricordato la sua presenza, la sua voce, i
suoi occhi.
I
suoi occhi che in quel momento mi parvero insignificanti
se confrontati alle iridi dello sconosciuto del parco.
Quante
volte avevo cercato le parole giuste per descrivere una particolare
sfumatura del cielo di settembre? E quante volte avevo rinunciato,
limitandomi a rappresentarlo come un banale azzurro-grigio?
Quante volte ci avevo provato, mentre gli occhi di quel ragazzo
avrebbero rappresentato l'essenza, la sostanza, la natura di quel
colore così malinconico?
Avrei
fissato quegli occhi per ore in cerca delle giuste parole per
scrivere di quel tripudio di cenere e celeste e se queste fossero
state troppo in alto per poter essere raggiunte da un diavolo
peccatore come me, mi sarebbe comunque rimasta la gioia di aver
assaporato per qualche attimo l'angelico tormento nascosto da quel
pezzo di cielo autunnale.
Mi
sforzai di distogliere i miei pensieri da quella creatura.
Il
fatto che gli occhi fossero solamente l'apice
di una serie perfetta di incastri e lineamenti
meravigliosi...preferii non considerarlo nemmeno.
«Mi
manchi sempre da morire
quando scompari così.»
«Avevo
bisogno di silenzio.»
Si
scostò appena da me, il suo volto da ragazzino costretto a crescere
troppo in fretta mi apparve in tutta la sua canzonatoria bellezza. Il
Ruki del mio primo
romanzo portava il suo volto, i suoi occhi fulgidi e brillanti, la
sua voce, la sua storia e la sua forte personalità.
«Rispetto
il tuo dolore, ma non essere egoista. Lo sai che vivo per lenire le
tue sofferenze e che starei ore accanto a te anche in silenzio.»
Chi
altri avrebbe avuto il coraggio di rinfacciarmi i miei sbagli?
Tutti
oramai mi consideravano come una pericolosa pentola a pressione
costantemente sull'orlo dell'esplosione; perfino mia madre aveva
paura a parlare in mia presenza. Avrei potuto esigere la Luna che
chiunque si sarebbe fatto in quattro per farmela trovare sul tavolo
della cucina: le mie reazioni erano considerate imprevedibili come le
azioni di un folle.
«Volevo
rimanere solo.»
«Finchè
avrò anche solo un respiro in gola non sarai mai solo. Te lo
prometto.»
Quando
Takanori Matsumoto apriva il suo cuore, il mondo intero si fermava ad
ascoltare le poesie della sua anima.
Mi
afferrò improvvisamente per il colletto del maglioncino, tirandomi
all'altezza del suo volto.
«Mi
hai promesso di non morire, Kouyou. Vedi di rispettare le tue
promesse.»
Uccidermi
per perdere così anche l'ultimo affetto che mi teneva in vita? No,
grazie.
«Cosa
ci fai a Kyoto?» gli domandai facendolo entrare.
«Hanno
ingaggiato Shiro-chan in teatro. Siamo momentaneamente dai suoi.»
Shiroganè.
Attuale,
unica e -prevedevo- eterna detentrice del cuore di Takanori.
Non
esageravo quando pensavo che lui aveva votato se stesso
a quella meravigliosa creatura.
Se
in un primo momento il fatto che il mio migliore amico passasse con
lei buona parte del tempo che solitamente passava con me mi aveva
irritato alquanto, attualmente consideravo quel gingillino di donna
dal cuore leonino come una sorella minore.
«Ti
saluta tanto.»
«Mh.»
Avevo
imparato ad amare il silenzio.
Quando
si rifiuta ogni genere di contatto col mondo esterno, egli diventa la
tua ombra, il tuo braccio destro e il tuo migliore amico. Potevo
stare ore steso anche per terra, le orecchie e la mente vuote, per
poi accorgermi di aver perso cinque ore della mia vita in quelli che
a me erano sembrati cinque minuti.
«Hai
preso le medicine?»
Silenzio.
«Non
mi servono le medicine. Io non sono malato.»
Takanori
mi guardò con quei suoi occhioni enormi. Sapevo cosa sarebbe
accaduto. Avrebbe regalato al mondo una delle sue solite perle,
fermando il tempo per qualche istante e riducendo ad un amorfo
mucchietto di avvilimento e vergogna il mio orgoglio.
«Prima
ti renderai conto che hai un grave problema, Kou, prima il tuo
mondo ricomincerà a girare nel verso giusto. Fino ad allora ti posso
giurare che troverò anche il più spregevole metodo per farti
prendere quelle pastiglie.»
Il
suo sguardo era affilato come la mala di una sciabola.
La
sua rabbia era simile all'onda d'urto prodotta da una bomba
all'idrogeno. Distruttiva.
Ingollai
le due compresse che mi aveva passato senza emettere un fiato.
Io
non ero malato.
Takanori
sospirò.
Ci
eravamo conosciuti al liceo; era bastato che passassi per caso
davanti all'aula dove si teneva un piccolo corso di canto perchè mi
accorgessi di lui; in mezzo ad una ventina di voci perfettamente in
sincronia, la sua spiccava come un diamante in mezzo al carbone.
Quando
ancora non era caduto in quella spirale di depressione e folli
pensieri, chiedergli di cantare per me era quasi quotidiano e le
poche volte in cui metteva da parte la timidezza per intonare una
qualsiasi canzone, il mio cuore danzava a festa sul ritmo di quella
voce portentosa.
«Kouyou?»
«Cosa?»
«Vivi,
Kou, vivi.»
Abbassò
lo sguardo al pavimento, improvvisamente avvilito.
«Ti
prego.»
Un
desiderio innocente si fece all'improvviso spazio a gomitate dentro
la mia mente, mentre sorseggiavamo in silenzio i nostri tea.
Balzai
in piedi come una molla e raggiunsi l'enorme vetrata del salotto con
una fretta che non avrei potuto mascherare neanche con tutta la buona
volontà di questo mondo: sembrava mi avessero punto con uno spillo.
L'acqua
sgorgava incessantemente, scivolando vivacemente sul marmo chiaro
della fontana; cercai con lo sguardo la panchina davanti la quale
avevo investito quel ragazzo.
Perchè
non riuscivo a togliermelo dalla testa?
Mi
chiesi che effetto facesse scrivere di uno tale umano splendore, mi
chiesi se mai sarei riuscito a rendere la bellezza triste e
straziante di quel viso a parole, se mai sarei riuscito a
rappresentare il colore di quegli occhi angelici.
I
contorni delicati di quel volto meraviglioso si tramutarono
immediatamente in centinaia di lettere, lettere sparse e confuse che
viaggiavano dentro di me con la potenza di un tuono.
Si
aggregavano per pochi attimi, formando parole la cui banalità mi
colpiva come uno schiaffo, per poi disgregarsi come fumo: avrei
potuto tentare di afferrarle, di sottometterle, di domarle al mio
volere, di afferrarle con le dita e di piegarle in forme che
avrebbero delineato l'essenza di quell'...angelo.
Angelo.
«Kouyou,
ti senti bene?»
Takanori
aveva delle iridi molto particolari per un giapponese. Un
verde-azzurro molto scuro, che pareva quasi illuminarsi quando il
proprietario di quegli occhi era preso da forti emozioni: luccicavano
quando questi era felice, sfolgoravano quando l'ira se ne
impossessava.
Il
pianto tramutava i suoi occhi in distese di mare calmo, buio ed
avvolgente.
L'antitesi
di ciò che erano le iridi dello sconosciuto, fredde, chiare, delle
iridi stronze e sprezzanti.
Aoi.
«Kou?»
Gli
presi lentamente il volto fra le mani, portandolo a pochi millimetri
dal mio.
Amavo
alla follia quegli occhi, avrei portato sulla Terra la stella più
luminosa del cielo solo per vederli brillare di una luce più
sfavillante.
Perchè
allora mi parevano così...inadeguati?
Non
erano ciò che cercavo.
Ma
quando non si ha nulla da cercare, ogni cosa va bene.
Lo
sconosciuto non c'era più. Era scomparso e si era portato dietro il
cielo d'autunno dei suoi occhi.
Quando
Takanori se ne andò mi misi davanti alla macchina da scrivere.
Era
una fedele compagna, un'amante che non mi avrebbe mai tradito, che
tuttavia trascuravo senza pietà.
Sedetti
davanti a lei, accarezzandone lentamente ogni tasto.
Me
l'aveva regalata la mia nee-san, Aya. In dieci anni non ci avevo
scritto mezza pagina (prediligevo i più tradizionali pennello ed
inchiostro), ma ormai quel gingillino occidentale era divenuto parte
di me.
Sospirai
gravemente, preparando con cura il foglio. Lo feci passare nel rullo,
prestando una maniacale attenzione affinché fosse perfettamente
diritto. L'avevo fatto un milione di volte, per poi lanciarmi in
quelli che Takanori definiva come “sfoghi alfabetici ”: premevo
con lentezza ogni singolo tasto, partendo da destra, e la velocità
cresceva a dismisura fino a diventare un maniacale pigiar di tasti;
riempivo un intero foglio di lettere che per me non avevano alcun
significato.
Quando
finivo lo spazio, preso da un euforia quasi malata, ciò che il mio
piccolo amico chiamava “schizofrenia linguistica”, mettevo da
parte la macchina, arraffavo un qualsiasi foglio e il mio fedele
inchiostro e lo riempivo esattamente come il suo predecessore.
Così
nascevano e si sviluppavano i miei romanzi.
Sospirai,
improvvisamente svuotato da ogni volontà.
Le
dita sospese sopra la tastiera, mi chiesi cosa avessi voglia di
scrivere.
Volevo
scrivere di una vita; volevo scrivere di un cammino tortuoso che alla
fine aveva visto la sua luce; volevo scrivere di dolore, di morte, di
sofferenza; volevo scrivere di speranza, di gioia, di vita.
Aoi.
Non
avevo mai imparato a padroneggiare del tutto le lettere dell'alfabeto
occidentale, ma quell'unico, denso nome si stampò sulla carta quasi
da solo.
Non
capivo cosa mi stesse succedendo.
Mi
sembrava che ogni singola frammento di anima si tendesse verso
l'esterno, alla ricerca di quel colore.
Abbandonai
la mia fedele amica all'improvviso e senza l'ombra di un
risentimento.
Maiko
mi aveva promesso che non mi avrebbe lasciato solo.
Me
l'aveva promesso alla fine di quella penosa settimana che aveva
sancito definitivamente la mia appartenenza a quella orrida cerchia
di malati cronici che i medici chiamavano psicolabili
e la gente schizofrenici.
Ma
se nei primi mesi mi era stata accanto fedele e devota, perdonando
con indulgenza la mia apatia, coinvolgendomi in qualsiasi attività
che mi risvegliasse da quella torbida e costante indolenza, c'era
stato un momento, doveva
esserci stato un momento, in cui aveva deciso di non essere in grado
di mantenere la sua promessa.
Mi
aveva mentito. E mi aveva abbandonato.
Finchè
avrò anche solo un respiro in gola non sarai mai solo. Te lo
prometto.
Anche
tu mentivi, Takanori?
Continua...
Note
di Mya:
2100
parole per Aoi, 2100 parole per Uruha.
Ebbene
sì, ormai quasi al tramonto del Primo Capitolo mi sono decisa ad
informarmi un po' sulle disgrazie che avevo deciso di affibbiare a
quelle due povere anime in pena....accorgendomi così che ciò che
avevo in mente di scrivere è, in poche parole, scientificamente
impossibile.
Ciò
ha portato all'intera -o quasi- ristesura del capitolo.
Per
fortuna sono circondata da persone i cui talenti si dimostrano anche
nel rimediare ai miei errori e sono quindi riuscita a dare
un'aggiustata generale alla trama, che porterà come diretta
conseguenza un bel po' di capitoli in più °-° (e c'è qualcuno che
osa
definirsi più masochista di me).
Ad
ogni modo, qualche velocissima informazione.
La
malattia di cui soffre Uruha si chiama depressione
maggiore
e tendenzialmente comporta:
Un
persistente umore triste o irritabile,
Importanti
variazioni nelle abitudini del dormire, dell'appetito e del movimento,
Difficoltà
nel pensare, della concentrazione, e della memoria,
Lentezza
dei movimenti o agitazione,
Mancanza
di interesse o piacere nelle attività che invece prima
interessavano,
Sensazione
di colpevolezza, di inutilità, mancanza di speranze e senso di
vuoto,
Pensieri
ricorrenti di morte o di suicidio,
Sintomi
fisici persistenti che non rispondono alle cure come mal di testa,
problemi di digestione, dolori
persistenti.
(http://www.consumerstar.org/resources/pdf/Resources%20in%20other%20Languages/Italian/LaDepressioneMaggiore(Italian).pdf)
Per
quanto riguarda Aoi invece, la cecità dalla nascita può verificarsi
semplicemente per una malformazione del nervo ottico o dell'encefalo.
Non ho trovato nulla di particolarmente specifico; se avrò bisogno
di altre informazioni ve le riferirò.
Sperando
di aver attinto alle giuste fonti -e soprattutto di averle adoperate
nella maniera più idonea-, concludo dicendo che qualora qualcosa non
quadrasse mi affiderò a quella bella cosina chiamata licenza
poetica
e senza la quale io non avrei mai neanche cominciato
a pensare di produrre una fic. Giusto per dire.
Dopotutto
il mio scopo non è di scrivere un trattato scientifico, ma solo di
tormentarmi l'anima e dedicare le mie parole ad Aelite, quindi...
Parlando
del bannerinò lassù...non sarà sto granchè, ma io ne sono
orridamente fiera.
Sono
in assoluto quanto di più lontano ci sia dall'essere un esperta
di grafica,
infatti per mettere assieme due immagini a sfondo bianco ci ho messo
come minimo un pomeriggio intero, escluse le rifiniture, ma ci ho
messo del mio.
Poi
la proprietaria di questa long ha gentilmente espresso il suo voto a
favore e mi ha altrettanto gentilmente fatto capire che se comincio
con le seghe mentali mi sbrana quindi...cercherò
di limitare le lamentele ammazza-autostima.
Jo,
piccola Hime innamorata, grazie mille volte sia per avermi insegnato
a mettere le immagini, sia per avermi aiutato col titolo del
capitolo, sia per essere sempre così...così Hime.
Grazie.
Aelite,
anima mia, tutto ciò che dovresti sapere lo sai.
Vorrei
poter trovare le parole giuste per ingraziarti, ma sai che io e
Salvatore non ci riteniamo così in gamba.
Sappi
solo che ti ringrazio, di
tutto.
Grazie,
Angelo.
Recensioni:
Jo:
Che tu abbia definito ciò che
scrivo arte
e motivo di gran vanto da parte mia.
E
che io ti adori semplicemente ormai lo sanno anche i muri.
Mi
fa piacere che ti piaccia l'inizio, la metafora con la musica, l'ho
curata particolarmente quel pezzo.
E...non
ti preoccupare. Anche se la trascuro, io amo alla follia la tua
nipotina, non la abbandonerei mai, per tutto l'oro di questo mondo.
Grazie.
Aelite:
Se credi che riuscirò a
trovare altre parole per esprimerti tutto il bene che voglio, sappi
che caschi male. Non sono abbastanza fantasiosa per trovarne altre.
Ti
chiedo solo una cosa, Aelite...non lasciare mai la Terra, ti prego.
Grace:
*abbraccia* La tua shot arriverà...non disperare, arriverà u.u
Nel
frattempo, ti ringrazio infinitamente per i complimenti.
Grazie
mille.
Haha
Deneb: Haha un abbraccio
fortissimo. Arigatou.
Guren:
Io sto ancora aspettando la
shot GactkxKai...e anche la long ReitaxKai °-° ...non vorrai far
aspettare la tua povera e vecchia mamma in eterno *labbro tremulo*,
vero? °-°
Yoake:
cuor (mi hai contagiato!)
Per
me Uruha è...assurdo, povero! Ma mi risulta proprio complicato! °-°
Un
abbraccio, carissima!
Perdona
la...come dire, povertà dei ringraziamenti, ma vado proprio di
fretta *china la testina*
Gente,
vi adoro,
Arigatou.
Mya
|
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Capitolo 3 *** It sounds selfish, but I still need you. ***
•
Capitolo
Due •
It
sounds selfish, but I still need you.
-
Uruha -
Improvvisamente
spalancai gli occhi, trovandomi sveglio e lucido.
Il
soffitto della mia camera, fedele e devoto compagno delle mie crisi,
era debolmente illuminato dalla luce che penetrava dalle veneziane.
Doveva essere appena sorto il sole, e l'alba filtrava attraverso le
stecche in sfacciati raggi rosa e rossi.
Mi
alzai lentamente a sedere, portandomi una mano alla fronte.
Nulla.
Emicrania
zero, zero dolori articolari. Niente labbra secche, niente bruciori
alle palpebre, niente complessiva stanchezza che mi intorpidiva i
muscoli. Poi mi accorsi della totale assenza dell'unica cosa di cui
veramente odiavo
l'esistenza, e la sorpresa fu tale da esigere come minimo una
sgranata d'occhi degna di un bambino a Natale e...dei, non lo facevo
da quanto?, un sorriso.
Ero...sereno.
Il
fatto che Maiko mi avesse abbandonato al mio destino, il fatto che
Aya fosse morta e che io dovessi ancora rendermene conto, il fatto
che ormai non ricordassi nemmeno il volto delle mie oi, il fatto che
Takanori si fosse trasferito fuori città...tutto questo
improvvisamente non mi sembrò poi così catastrofico.
Neanche
la consapevolezza che la mia malattia mi avesse pian piano isolato
dal mondo mi pesava così tanto; sembrava che la morsa allo stomaco
che solitamente provavo nel vedere quel dannato flaconcino di
pastiglie si fosse sciolta.
Pochi
minuti più tardi avrei gioito come un bimbo nel vederlo cadere con
un tonfo pregno di pathos dentro al cestino.
Il
mio sorriso lievitò come il pane.
Balzai
in piedi, arzillo come non lo ero almeno da qualche settimana.
Dopo
una doccia veloce, mi infilai rapidamente dei vestiti puliti e mi
preparai ad uscire.
La
cupa immagine riflessa allo specchio mi fece rabbrividire.
Evidentemente
non mi ero reso conto di quanto poco stessi mangiando durante
l'ultimo periodo di buio.
Avevo
le guance scavate, gli zigomi sporgenti e la fronte aggrottata; me la
spianai con le dita e azzardai un sorriso, che forse sarebbe anche
risultato convincente senza quelle occhiaie violacee sotto agli
occhi.
Pensai
con amarezza che era quel grottesco e spaventoso viso che avevo visto
Maiko uscendo da casa mia.
Era
stata lì, immobile nell'ingresso per parecchi minuti, fissando il
mio volto vuoto e freddo; avevo letto indecisione nei suoi occhi, ma
a quel tempo non avevo mosso un muscolo per fermarla.
Non
mi interessava, decisamente.
Sarebbe
solo stato un ulteriore, doloroso tassello da aggiungere all'ordinato
e desolante quadro che componeva la mia vita.
Solo
quando avevo ripreso coscienza di me, abbastanza giorni dopo perchè
Maiko fosse già arrivata a Sapporo dai suoi, la realtà mi era
balzata agli occhi, accecandomi. Una mattina mi svegliai...e al posto
di Maiko c'era il volto da bambino di Takanori, ancora rigato dalle
lacrime.
Tracciai
i contorni di quel viso così estraneo, scivolando coi polpastrelli
sulla fredda superficie dello specchio.
Sorrisi,
questa volta con un po' più di decisione. Ero tornato al mondo.
Kyoto
era immersa in una calma surreale: deserte erano le strade, eccezion
fatta per qualche anima sperduta e solitaria che vagava in cerca del
nulla. Più che altro nervosi lavoratori in viaggio verso una
massacrante giornata, o donne stanche di ritorno dal turno nel
piccolo policlinico vicino al mio appartamento.
Sembravo
l'unico follemente entusiasta della vita, in quella fredda ma solare
mattinata.
Non
avevo meta, ma non aveva importanza.
Quando
non sai dove vuoi andare, qualsiasi luogo va bene.
Aya
me lo ripeteva spesso quando era più piccolo.
Quando,
ogni mercoledì, i nostri genitori andavano al cinema e Ruriko ne
approfittava per uscire col fidanzato, Aya mi prendeva sulle
ginocchia e mi parlava. Cominciava col raccontarmi la sua settimana,
per poi passare a commentare tutto ciò che accadeva nel mondo e ogni
mercoledì sera mi dava la buonanotte sempre troppo presto.
Ogni
settimana aspettavo con ansia il mercoledì sera e anche quando
raggiunsi un età in cui mi era diventato impossibile sedermi sulle
sue esili ginocchia, continuai a stare ore ad ascoltarla parlare.
Pian piano quei momenti di mero e entusiastico ascolto si tramutarono
nei dialoghi che mi sarei portato dentro in eterno.
Quando
non sai dove vuoi andare, qualsiasi luogo va bene.
Ma
io sapevo dove volevo andare.
«Kouyou?»
Feci
un passo dentro all'appartamento, sollevandola di peso e facendola
volteggiare.
«Dei
del cielo, Kouyou, mettimi giù!» strillò lei, ridendo e
aggrappandosi alle mie spalle.
«Buongiorno
nee-chan!» sorrisi, baciandole la fronte. Avevo cominciato ad
affibbiarle quel nomignolo fino dalla prima volta
in cui avevo visto il suo sguardo timido. L'avevo immediatamente
adottata.
L'ingresso
era, come al solito, caotico come la camera di un adolescente. Il
disordine di Takanori era veramente complicato da arginare...se lo
trascinava dietro come un morbo: se entrava in una stanza,
puntualmente quella
assumeva una parvenza di caos. Anche se lui non spostava gli oggetti
che conteneva.
Ne
deducevo che i genitori di Shiroganè non fossero proprio entusiasti
di avere la coppia in casa.
«Non
avrò mica svegliato i tuoi?»
Shiroganè
sorrise, passandomi una mano sulla guancia.
«Gli
appartamenti non hanno lo stesso citofono, non ti preoccupare.»
La
abbracciai di nuovo e lei quasi affogò nel mio torace; sentii le sue
manine piccole e curate afferrare la stoffa del maglione.
«Dei
del cielo, sei tornato.»
«Perdonami,
nee-chan. Perdonami, se puoi.»
Si
allontanò con me e in quello vidi il suo volto rigato da una lacrima
cristallina. Gliel'asciugai col pollice.
Temevo
la furia di Takanori. Nessuno poteva far piangere la sua bimba,
nemmeno di commozione.
Shiroganè
era una persona forte.
Quando
si era messa assieme a Takanori, avevo visto in lei la candidata
ideale.
Avevo
passato molti anni addossandomi almeno parte di quel dolore sordo che
le piccole spalle del mio amico non erano più fisicamente in grado
di sopportare. Ero, per grazia degli dei, arrivato in tempo perchè
esse non si spezzassero sotto a quel gravoso macigno.
Avevo
aiutato Takanori a rialzarsi e l'avevo tenuto per mano finché
quegl'occhi verdastri si erano posati su di lei.
Come
un amorevole padre che consegna la figlia nelle mani dello sposo,
avevo affidato il suo fragile cuore nelle mani di quella graziosa
ragazza, la quale si era immediatamente dedicata alla cura di
quell'anima tormentata.
Il
dolore è più sopportabile, se si porta in due.
«Takachan
dorme.»
Shiroganè
era piccolina per i suoi quasi trentaquattro anni. Una cascata di
capelli neri e mossi e due occhi color nocciola, sopra un sorriso
caldo come il fuoco stesso.
«Non
si è svegliato?» domandai perplesso.
Inarcò
eloquentemente un sopracciglio. «Dovrai scardinare il campanello dal
muro, la prossima volta, se vuoi svegliarlo, Kouchan.»
Sorrisi.
Avevo
dormito con Takanori abbastanza per sapere perfettamente di cosa
stesse parlando.
Sarebbe
potuta scoppiare la Terza Guerra Mondiale, che lui non se ne sarebbe
accorto. O al limite si sarebbe svegliato sbraitando di fare
silenzio, azzittendo di colpo le truppe di tutte le nazioni
coinvolte; avrebbe borbottato, prima di rimettersi a dormire come se
niente fosse.
Mi
condusse nella loro camera. Mi sentii un po' in colpa, quando vidi
che indossava ancora la camicia da notte.
«Shiroganè?»
Non
usavo mai abbreviativi o suffissi dietro al suo nome. Amavo
pronunciarlo per intero e sentirne il suono scivolarmi sulla lingua.
Mi rispose con un cenno del
mento.
«Che
ore sono?»
«Neanche
le sei.»
Incassai
il volto nelle spalle, ma lei mi posò una manina aggraziata sul
braccio. Sembrava una bambina, accanto al mio corpo alto e ben
piantato. «Anche alle due di notte, Kou. Quella porta sarà sempre
aperta per te.»
La
stanza era avvolta nella penombra.
Takanori
dormiva spalmato sul letto e occupava -non mi chiesi come facesse con
quel corpicino microscopico- entrambe le piazze. Ridacchiammo
sottovoce.
«Mi
ruba sempre le lenzuola. Facciamo di quelle baruffe la notte.»
Ecco,
per me Shiroganè e Takanori rappresentavano la coppia perfetta. Ero
convinto che avrebbe continuato ad amarsi con la stessa imponente
intensità fino alla fine dei loro giorni.
Senza
pensare, mi sedetti sul lato sinistro, accanto al suo volto
addormentato.
«Taka?»
Mugugno.
Risolino di Shiroganè dalla porta.
Gli
afferrai dolcemente una spalla, scuotendolo delicatamente.
«Taka?
Takanori?»
Si
protrasse in un lungo mugolio, strizzando le palpebre e cercando -nel
sonno- di scacciare la mia mano.
«Ora
capisci a che teatrino devo assistere io ogni mattina.» bisbigliò
ironicamente Shiroganè.
La
guardai con un sorriso.
Mi
era mancato tutto ciò. Lei, Takanori, quella calda sensazione di
famiglia che mi aveva
avvolto quando aveva chiuso le sue braccia sottili attorno al mio
collo.
Famiglia.
Amore.
«Takanori?»
Mi
rispose con una sorta di indignato “gnnhh”, prima di voltarsi,
attorcigliarsi nelle lenzuola e sbuffare quasi contemporaneamente.
Poggiai
un gomito accanto al suo fianco, sporgendomi sul suo corpo. Poi
cominciai a soffiargli piano sulle palpebre.
Quasi
istantaneamente cominciò a pigolare come un pulcino,
accartocciandosi su se stesso.
«Taka,
svegliati.»
Socchiuse
gli occhi borbottando, sicuramente irritato dal risveglio. Gli ci
vollero parecchi istanti per mettere a fuoco la mia persona. Gli
sorrisi.
Poi
mi chinai, afferrandolo per le spalle e lo feci quasi scomparire in
un abbraccio. I suoi capelli deformati dal sonno, come al solito, mi
fecero solletico al collo.
«Arigato,
Taka. Arigato per tutto quel che hai fatto. Arigato per esserci,
arigato per esistere.» gli mormorai rapidamente con voce
roca. Temevo avrei perso il coraggio di dirglielo, se avessi
aspettato troppo.
Timidamente
fece scivolare le mani sulla mia schiena, afferrando quasi
convulsamente il mio maglioncino.
Quando
parlò, la sua voce era spaventosamente vicina ad un flebile gemito,
a metà fra un sussurro rotto dal dolore e un grido di speranza.
«Sei
tornato, Kouyou.»
Takanori
e Shiroganè erano quanto di più inconcepibile e contrapposto
potesse mai venire in mente di mettere assieme.
Tanto
lei era tranquilla e silenziosa, tanto lui era iperattivo e
chiassoso, lei era timida, lui irriverente, lei ordinata, lui il caos
fatto a persona. E l'elenco potrebbe continuare per molto.
Le
uniche cose che condividevano erano il loro amore, una preponderanza
all'apprensione degna di una mamma chioccia, un terrore quasi
ridicolo per la mia moto e la statura.
«Caffè
Kou?»
«Senza
zucchero, arigato.»
Lei
mangiava appena un cracker senza sale la mattina, lui sembrava
cercare di infrangere il record di più fette di pane fradicie di
marmellata in bocca. Contemporaneamente.
Li
adoravo. Senza nessuna riserva.
«Quando
potremo leggere qualche altra tua opera?»
Avevo
tessuta la trama del mio primo romanzo attorno a Takanori. Mi aveva
fornito lui stesso l'idea.
Una
notte, noi due soli, ci eravamo infiltrati fugacemente nel complesso
dell'università di Tokyo. Lui frequentava la facoltà di Ingegneria
Aeronautica, io un corso di Scrittura Creativa. Eravamo ancora due
scapoli d'oro, legati da un'amicizia che a molti sembrava quasi
insana, sereni, pieni di sogni ed ambizioni.
Avevamo
corso a perdifiato come due idioti nei corridoi deserti, ridendo per
nessun motivo in particolare. Avevamo poi raggiunto il tetto
dell'edifico e ci eravamo messi a guardare il cielo. Non c'erano
stelle -troppo inquinamento luminoso- ma quell'enorme tappeto di
oscurità ci aveva lasciato senza fiato.
All'improvviso
Takanori mi aveva afferrato una mano.
«Scrivi
su di me.»
Non
avevo capito bene cosa mi stava chiedendo.
«Scrivi
un libro su di me. Sulla mia storia.»
E
così avevo fatto.
Il
mio romanzo era uscito solo un anno dopo. Non aveva scalato le
classifiche, ma aveva ottenuto un discreto successo fra il pubblico e
la critica letteraria.
Ne
ha di strada da fare, ma sa scrivere e le sue idee sono impetuose.
Ero
diventato uno scrittore moderatamente famoso e lo dovevo tutto a
Takanori.
«Appena
mi verrà un briciolo di ispirazione. Fra poco vedrò Shunsuke
rincorrermi con una baionetta.»
Ridacchiarono.
«E
se scrivessi su di me?»
Lo
guardai con un sorriso.
«Ho
scritto tutto ciò che c'era da scrivere su di te, Taka.»
Esibì
un broncio sorridente.
Sicuramente
le parole più soddisfacenti, i complimenti che mi avevano reso più
orgoglioso di me e del mio operato, erano state quelle di Takanori.
Quel
libro sono io. Aveva mormorato
dopo aver letto l'ultima parola, con due occhi immensi e liquidi.
«Che
fate oggi?»
Avevo
voglia di passare del tempo con loro. Volevo sperare ancora di non
aver distrutto con la mia apatia quanto di meraviglioso avevamo
condiviso noi tre.
Il
mio migliore amico, compagno di mille notti tormentose, fedele
alleato e feroce guardiano della mia salute e serenità, mi guardò e
quegli occhi si imposero con prepotenza sullo sguardo color cielo
dello sconosciuto. Di Aoi.
Furono
pochi istanti.
Quegli
occhi verdastri che tante volte mi avevano convinto ad amare la vita,
mi promisero il loro appoggio e il loro amore fino alla fine dei miei
giorni e io li ringraziai con il sorriso più luminoso che fossi
capace di fare.
Pochi
istanti, e poi quelle iridi autunnali spinsero da parte quelle del
mio amico, si affermarono nuovamente -e con pochi sforzi- sullo
sguardo da bambino di Takanori.
Il
mio sorriso tentennò.
«Porto
Shiroganè in teatro e poi sono tutto per te.»
Chissà
dov'erano adesso quegl'occhi, chissà su cosa -o su chi- erano
puntati come fari in mezzo all'oceano notturno.
Takanori
mi afferrò improvvisamente la mano e io ebbi la reminiscenza di
quella notte di quasi dieci anni prima, della sua voce e del cielo
notturno che ci copriva come un manto di buio.
Guardava
fisso davanti a sé.
Shiroganè
era appena scesa, lasciando una scia di profumo delicato, una carezza
sulla mia guancia e un bacio sulle labbra di Takanori.
«Mi
sei mancato da morire.»
Mi
chiusi dentro al mio silenzio, arrossendo.
«Ti
vedevo...come spento, come morto e non potevo farci niente.»
abbassò lo sguardo sul volante, incupendosi «Non mi sono mai
sentito così inutile.»
Gli
posai una mano sul braccio.
Takanori
era stato sfortunato.
Gli
dei erano stati impietosi e spietati con lui e fin dal primo istante
in cui avevo visto quelle iridi sul punto di spegnersi, avevo giurato
che mai avrei permesso che nessuno anche solo cercasse di ferirlo.
Ne
aveva passate abbastanza.
Crudele
scherzo del destino, alla fin fine ero stato io la causa di ulteriori
tormenti.
«Perdonami.»
Mi
rispose con uno strano sorriso.
Eravamo
stati in giro per tutto il giorno. Non ero in grado di spiegare la
gioia che avevo provato nel capire che per lui non era cambiato
niente, e che non sarebbe mai cambiato niente; avrebbe continuato a
volermi quel bene che sfiorava l'amore anche se l'avessi ucciso con
le mie mani.
Se
tu mi uccidessi, morirei sorridendo e dicendoti che ti voglio bene.
A
volte mi chiedevo cosa ci stava a fare in quell'ufficio, quando ogni
volta che apriva bocca fermava il tempo.
«Non
hai fatto nulla che meriti le tue scuse, perciò sorridi, Kou.»
Gli
ubbidii.
Non
lo meritavo, e lo sapevo perfettamente.
O
forse era lui che meritava di meglio, chi lo sa.
Takanori
era un miracolo, una stella un po' offuscata che aveva deciso di
sprecare quella poca luce fioca per illuminare la mia vita. Io dal
mio canto, demone peccatore ed avaro, non facevo altro che bearmi del
calore di quella luce, esigendone sempre di più e dando per scontata
la sua presenza.
L'inferno
non era il regno delle fiamme, come tutti pensavano.
L'inferno
era freddo, ventoso, una perenne burrasca, una costante tormenta di
schegge di neve.
Mi
riaccompagnò a casa mentre il sole cominciava pigramente a calare,
assumendo quel colore rossiccio che tanto amavo.
«Mi
prometti una cosa, Kou?»
Infilai
nuovamente la testa dentro la macchina.
«Qualsiasi
cosa.»
«Un
messaggio, uno solo al giorno. Lo capisco se non vuoi parlare, ma ti
chiedo un solo messaggio. Ti prego.»
Sorrisi,
sedendomi nuovamente al sedile del passeggero; poi mi sporsi oltre il
cambio, lo afferrai per una spalla e me lo strinsi al corpo.
«Mi
stai strizzando come un orsacchiotto.»
Sghignazzai.
«Arigato,
Taka. Te lo prometto.»
Kyoto
era immersa nella flemma.
Era
la fotocopia del patinato giorno prima e ogni dettaglio era al suo
posto, identico al paesaggio color pastello che avevo fotografato
meno di ventiquattrore prima.
C'era
tutto.
Compreso
lui.
Era
seduto sulla panchina davanti alla quale l'avevo investito, vestito
nuovamente di nero.
Mi
prese un folle batticuore, che mi rimbombava nelle orecchie come un
tamburo.
Erano
lì.
Quegli
occhi e l'intensa bellezza che li circondava erano lì, quasi
splendenti nel rossiccio tramonto appena accennato.
Dei
del cielo, l'avevo ritrovato. Avevo ritrovato Aoi.
-
Aoi -
Non
avevo sognato nulla quella notte.
Non
che fosse strana la cosa. Io non sognavo mai.
Percepivo delle presenze, dei sapori, dei suoni, degli intimi e
caotici pensieri, ma non avrei mai potuto riprodurre a parole ciò
che vedevo.
Avevo
paura di svegliarmi, e ogni sera andavo a dormire con l'intima ansia
di non riuscire ad alzarmi la mattina dopo. In fondo, come avrei
potuto accorgermene? Come, se la vista del Sole e delle cose terrene
mi era preclusa?
Avrei
potuto credere di dormire per sempre...o di essere sempre sveglio. A
parte un offuscamento generale della mia mente, che mi faceva
confusamente capire che ero sprofondato in un oblio più scuro di
qualsiasi buio che mi avesse mai avvolto, raramente riuscivo a
carpire la sottile linea fra sonno e realtà.
Complice
di ciò, il dolore che mi attanagliava sordo il petto, mi allietava
come una terribile e suadente fiera.
A
che pro svegliarsi ed affrontare la dolorosa consapevolezza di essere
solo, quando potevo rimanere immerso nei miei sogni informi
colmi di una piacevole quanto apparente pace?
«Yuu?»
Se
ogni mattina Ryo non si fosse preoccupato di riportarmi al mondo,
temevo che i contorni di tale linea si sarebbero pian piano
offuscati, fino a perdere nitidezza. Spesso avevo il terrore
che si dimenticasse semplicemente di venire a svegliarmi. Sarei
rimasto ore in uno stato di veglia, sospeso in un limbo che non era
né vero né fittizio, incapace di capire dove mi trovassi, finché
piccole cose (uccellini che cinguettavano, macchine in strada che
rombavano) si sarebbero affermate con arroganza nella mia mente,
facendomi capire che c'ero.
«Yutaka?»
«Sei
sveglio?»
«Hai.»
La
porta cigolò famigliarmente e sentii i suoi passi leggeri sul
parquet.
Si
stese lentamente accanto a me, cercando il mio corpo con le mani. Mi
accoccolai fra il calore delle sue braccia, appoggiando la fronte
sotto al suo mento. Respirò piano fra i suoi capelli.
Gli
dei erano stati crudeli con me.
Mi
avevano fatto un dono raro e prezioso, ma nello stesso tempo mi
avevano dotato dell'impossibilità di goderne.
Mi
avevano concesso di poter vedere al di là del concreto, ma mi
avevano anche corredato di un egoismo e di un'avidità senza pari.
Erano
stati molto ingiusti con me.
«A
cosa stai pensando?»
Odiare
Yutaka mi era stato da subito impossibile.
Era
impossibile non amarlo, impossibile non innamorarsi della sua voce
calda e del sorriso che spesso e volentieri mi concedeva di tracciare
con la punta delle dita. La forma di quel sorriso c'era sempre,
quando ne avevo bisogno.
Non
biasimavo Ryo se se ne era innamorato così sfrenatamente.
Ammetto
che se non fossi stato già completamente votato ad un altro essere
vivente avrei rischiato anche io di cadere in quella dolcemente
vischiosa trappola; Yutaka si faceva amare anche stando in silenzio e
fermo al suo posto.
Era
qualcosa che sfiorava il paranormale, ma tutti si rendevano conto di
avere a che fare con un Angelo, non appena gli passavano accanto.
«A
niente in particolare.»
Non
mi faceva mai pesare le mie bugie. Sapeva quando insistere e sapeva
quando lasciare perdere.
Sapeva
quando il silenzio diventava così opprimente da soffocarmi e quando
era l'unico rifugio sicuro in cui potevo raccogliermi a leccare le
mie ferite sanguinose. Ed era abilissimo, nel primo caso, a riempire
quella cortina minacciosa con parole intrise di amore ed affetto e
dolcissimo, nel secondo, a lasciarmi ai miei pensieri.
«Cosa
fai oggi?» gli chiesi in un bisbiglio.
«Sono
in clinica.»
«Mh.»
Avevo
smesso di andare in clinica mesi prima. Oramai padroneggiavo
perfettamente il Braille.
I
fondatori dell'associazione mi avevano fornito dei contatti con varie
aziende specialistiche che avrebbero potuto offrirmi un lavoro, che
avrebbero potuto offrirmi la parvenza di una vita normale. Ma non ne
avevo chiamato neanche uno.
Non
sarei riuscito a lavorare neanche se l'avessi veramente voluto.
Nessuno
aveva mai capito il motivo, ma, a differenza di quelle centinaia di
individui cechi dalla nascita che semplicemente prima o poi trovavano
il modo di convivere con quella mancanza, io non ci avevo mai, mai,
fatto il callo. Non appena ero stato abbastanza grande (intorno ai
sette anni) per capire che il buio che vedevo non era la normalità...
Da lì era cominciata la mia fine. Ero diventato voglioso di sapere,
di vedere ciò che mi
era precluso.
Lo
sapevo di essere avido, troppo avido. Volere tutto e subito non mi
portava e non mi avrebbe portato da nessuna parte.
Ero
conscio del fatto che la mia bramosia mi avrebbe condotto solo
all'autodistruzione, ma era un ingranaggio fin troppo ben levigato
per pretendere che smettesse di funzionare da un giorno all'altro.
Avrei
dovuto essere determinato, volenteroso e coraggioso per lasciarmi
alle spalle le convinzioni di anni e anni di dolore, ma era fin
troppo facile arrendersi e pensare che se non fossi stato cieco Ryo
sarebbe stato ancora mio.
«Yuu...?»
Trasalii.
La voce di Ryo, di nuovo calda e avvolgente come lo era sempre stata
e non furiosa e glaciale come la scarica che mi aveva ferito il
giorno prima, mi accarezzò senza sfiorarmi.
«H-hai?»
Yutaka
mi lasciò un bacio sulla guancia, prima di alzarsi lentamente. Lo
sentii sussurrare qualche parola a Ryo (parole che mi guardai bene
dall'origliare) e il rumore del bacio che si scambiarono mi diede la
nausea.
Quando
Yutaka si richiuse la porta alle spalle, mi alzai lentamente a sedere
sul letto, tastando con indifferenza il mucchietto ordinato di
lenzuola; gettai i piedi giù dal letto, sfiorando con le piante il
parquet.
Ryo
mi aveva spesso detto, scherzando e scompigliandomi i capelli con una
risata sulle labbra, che quando dormivo sembravo un morto. Stavo
immobile, se mi addormentavo in una posizione raramente mi svegliavo
spostato anche solo di pochi centimetri. Con amarezza pensai che fino
a pochi anni prima la mia immobilità scendeva a patti con la sua
assoluta irrequietezza notturna: non ero capace di lasciarlo neanche
quando dormivamo (e quindi quando lui ingaggiava quelle pseudo
battaglie contro il suo cuscino) e mi spostavo attorno a lui come un
satellite attorno al suo pianeta.
Si
avvicinò con passi lenti e prese posto poco lontano da me,
affossando leggermente il materasso.
«Hai...dormito
bene?»
«Come
al solito.»
Cadde
il silenzio, un silenzio che, stranamente, mi rilassò. Sentivo il
suo respiro accanto a me e se avessi teso una mano l'avrei trovato.
Non era proprio ciò che volevo, ma avrei saputo accontentarmi.
«Ti
devo delle scuse, Yuu, ma dubito di essere capace di trovare le
parole adatte.»
Sorrisi
amaramente. Non erano le sue scuse che volevo. Né la sua
compassione.
Volevo
solo che tornasse a toccarmi, a cercarmi, a farmi sentire la sua
presenza.
Non
era proprio ciò che volevo, ma avrei saputo accontentarmi.
«Preferisco
una promessa.»
«Qualsiasi
cosa, Yuu. Qualsiasi.»
«Sono
due anni che mi eviti, Ryo. Giurami che non lo farai più.»
Rimase
in silenzio per qualche istante. Quando finalmente parlò, la sua
voce era timida.
«Ma
io...» lasciò cadere la frase. Si potevano dare diverse
interpretazioni a quel tono timoroso, e io scelsi accuratamente
quella che avrebbe piegato la conversazione in modo da darmi
finalmente l'occasione di sputar fuori ciò che anelavo di dirgli da
almeno due anni.
«No.
Ci siamo lasciati Ryo, non è l'amore quello che ti chiedo.»
Feci
una pausa, accompagnandola con un gran sospiro.
C'era
una possibilità di salvare il salvabile? O stavo portando i fragili
resti di quel rapporto dritti verso la distruzione totale?
«Cosa
desideri, Yuu?»
«Te...
La tua amicizia.» aggiunsi in fretta, sentendo le guance avvampare
«Tutto, tranne che l'indifferenza con cui mi hai trattato. Voglio
che mi parli come facevi prima, voglio che scherzi con me, voglio
sentirti ridere anche quando entro io in una stanza,
voglio...voglio...» annaspai, improvvisamente in difficoltà «...ti
prego, Ryo...» mormorai con la
voce sottile.
Non
dovevo piangere.
Volevo
solo tornare a vivere una parvenza di vita normale
e senza Ryo non avrei potuto compiere neanche un minimo tentativo.
Avevo
bisogno di lui. Senza nessuna via d'uscita.
Il
mio cuore cominciò a dare di matto non appena le sue braccia si
chiusero protettive sulle mie spalle. Due abbracci in due giorni
erano decisamente troppo
per quell'informe globo di carne, per quell'inutile muscolo ormai
putrefatto dal tempo e da lui
che, nonostante tutto il dolore, assolutamente contro ciò che la
ragione ordinava e contrastando ferocemente ciò che io
volevo, continuava a considerare Ryo come l'unica cura, l'unico dio e
l'unica ragione della sua vita.
Rimanemmo
abbracciati per parecchi minuti.
Calore,
finalmente. Sorrisi.
«...non
ti azzardare ad uscire dalla mia vita, Yuu. Non lo fare mai. È
egoista da dire, ma ho ancora bisogno di te.»
Non
sei l'unico, Ryochan.
Il
mio sorriso lievitò come il pane.
Non
sarei stato capace di fargli del male neanche se avessi voluto.
«Te
lo giuro, Ryo.»
«Vuoi
che ti porti da qualche parte?»
Alzai
il viso dalla mia tazza di caffè, smarrito.
Dove...?
«Sono
qui.»
Ryo
mi prese il volto con delicatezza, facendo una leggera pressione
perchè mi voltassi. Potevo sentire il suo sguardo scavarmi l'anima
ed arrossii impercettibilmente.
Mi
ricordavo come se fosse stato il giorno prima quando, appena
ventenne, gli avevo pregato di...indirizzare
il mio viso verso il suo ogni qualvolta mi avesse parlato ed io
avessi sbagliato orientamento. Mi sembrava di poter vedere i suoi
occhi sottili e sensuali da
pantera in caccia.
«Dove
mi dovresti portare?»
Gli
avevo poggiato una mano sulla spalla, l'altra me l'aveva presa lui,
così lo sentii fare spallucce.
«Dovunque
tu voglia.»
Sentii
un risolino, evidentemente Yutaka era in ascolto.
«Dei,
vi adoro.»
Solo
Yutaka era capace di fermare il tempo così.
«Rimanete
sempre così, vi prego.»
Stupido
cuore.
Sentii
Ryo sbuffare una risata. Non era mai stato così sereno, da quando
avevo memoria di lui.
«Allora,
vuoi andare da qualche parte? Porto Yutaka in clinica, poi vado a
lavorare...ti passo a prendere più tardi dove vuoi, che ne dici?»
Avrei
voluto fare visita a mio padre, a mio fratello Minoru, a mio sorella
Shiroganè... Magari anche andare a posare qualche fiore sulla lapide
di mia madre. Da quando era morta non c'ero andato una sola volta.
«Tieni
conto che starò via fino alle diciotto.»
C'era
un solo posto al mondo dove avrei potuto stare in pace e sereno per
dieci ore, un posto dove avevo trovato la ragione della mia vita, che
avevo desiderato poter risentire
centinaia di volte, un unico posto dove mi sarei per sempre sentito a
casa.
«Al
parco.»
«Aspetta
un attimo.»
Avevo
già la mano sulla maniglia.
La
sua voce aveva un nonsochè di...malinconico, quasi di colpevole.
«Cosa?»
Sentii
le solite due dita sotto al mento girare il mio volto verso il suo.
Ero stato capace di svicolare da un suo bacio (solo pochi mesi prima
l'avrei giudicata una follia), ma niente avrebbe potuto darmi
la facoltà di decidere di non seguire quell'invito.
Era
capace di piegare la mia volontà con sole due dita.
«È
per quello che ti ho detto stamattina.»
Inghiottii
a vuoto.
D'un
tratto sentii il frenetico bisogno di avere Yutaka accanto a me. A
volte, scherzando noi due soli distesi mollemente l'uno sopra
l'altro, gli dicevo che lui era il mio oppio.
Mi
calmava i nervi, mi distendeva i muscoli e mi svuotava la mente; era
capace, e l'avevo sempre ammirato per questo, di evitare abilmente
tasti dolenti, come io cercavo di schivare un si stonato del
piano, il cui martelletto era stato rovinato dal tempo e dal suo
precedente padrone.
Non
parlava mai di Ryo, come raggiravo quel si. E quando ne
parlava faceva in modo che il dolore che mi tormentava la mente e il
cuore fosse represso e lenito da una sua carezza. Esattamente come io
soffocavo quel si dentro ad un accordo o ad un abbellimento.
Inutile
dire che ad un ascoltatore attento come Yutaka era, quel si
stonato e malvisto dai suoi compagni strideva come gesso su di una
lavagna, nonostante tutti le giravolte musicali che compievo per
sottometterlo.
«Volevo
solo mettere in chiaro una cosa.»
Lo
sapevo che era troppo bello per essere vero.
«Non
ho di certo la presunzione di pretendere che tu mi perdoni in due
minuti.»
Non
capivo dove volesse arrivare; le sue dita scottavano quasi quando
scivolarono leggere sulla mia guancia, in una carezza che pareva
incendiarmi la pelle.
«Credevo
che la cosa migliore per entrambe fosse uscire l'uno dalla vita
dell'altro, ma mi accorgo che non è possibile.»
Mi
baciò di nuovo, nell'arco di ventiquattrore. Le sue labbra furono
pure fiamme sulle mie, bruciarono il mio respiro e conseguenzialmente
ogni singola cellula del mio corpo.
«Perdonami
se puoi, ti supplico. So che non è giusto nei confronti di Yutaka,
sto solo scegliendo il male minore.»
Il
male minore.
Essere
trafitto da milioni di schegge di vetro gelide come le nevi
perenni...era il male minore?
«Per
chi? Per te?»
Lo
sentii sospirare.
«Tu
ami Yutaka...» mormorai incredulo.
Loro
si amavano, si completavano e si appartenevano. Erano...erano loro,
non più due entità diverse, erano una cosa sola.
«Sì,
lo amo. Ma non posso lasciarti solo...»
Sbuffai
una risatina amara. L'hai già fatto, Ryochan.
«Lo
stai facendo per me? Non ho bisogno della tua compas-»
Mi
chiuse le labbra con due dita. Sempre due, maledettissime dita.
«Yuu,
io non sono una brava persona, non sono generoso, non sono altruista.
Lo sto facendo per me.»
Sorrisi.
Una coltellata di gelido dolore mi squarciò il torace.
«È
egoista anche questo, Yuu...ti prego, cerca di capirmi.»
Non
solo lo capivo, io lo capivo perfettamente.
Lui
amava Yutaka.
E
Yutaka amava lui, alla follia.
Lo
sto facendo per me.
Dei
del cielo, non ero arrabbiato con lui. Perchè cazzo non riesco a
odiarlo?
Un
secondo sospiro mi sfiorò le labbra.
«Se
il prezzo per averti è» deglutii «ferire Yutaka...non ti voglio,
Ryo.»
Ferire
Yutaka.
Mi
aveva dato la vita, aveva preso fra le mani il mio cuore malconcio e
l'aveva curato con amore e dedizione, lenendo le sue ferite e
aiutandolo a cicatrizzare.
Non
si morde la mano che ti nutre.
Mi
scostai da lui. Non riuscivo ad odiarlo.
Avrei
voluto stare con lui più di qualsiasi altra cosa al mondo; questo
desiderio era più intenso della bramosia di vedere,
più potente del timido e surreale sogno di poter riabbracciare mia
madre, più radicato dell'istinto di sopravvivenza.
Volevo
lui oltre ogni limite possibile. E mentire mi feriva, ma non potevo
fare altro.
Yutaka
mi aveva tolto tutto.
Con
le lacrime agli occhi, solidale al mio dolore e portatore di un senso
di colpa nei miei confronti che mai nella sua vita l'avrebbe
abbandonato, ma mi aveva tolto tutto.
Ciononostante
ero del tutto incapace di rendergli il gesto.
«Non
ti voglio.» mormorai con un sorriso d'amarezza, prima di afferrare
la maniglia e scendere dalla vettura.
Col
senno di poi, affievolitasi l'eccitazione, ripensai moltissimo a
quell'incontro.
Quella
voce roca e bassa mi confondeva, il rumore basso e pacato del suo
respiro mi rendeva ostico concentrarmi su ciò che mi circondava.
Il
mio mondo era fatto di voci, di suoni e rumori, ma lui mi
faceva perdere il senso delle cose; ottenebrava il mio mondo e mi
rendeva capace di ascoltare solo quel particolare vibrare di
corde vocali.
Mi
portai quasi inconsciamente una mano alla gola.
«Scusa...»
Già
dal primo, fioco bisbiglio mi resi conto di averlo ritrovato.
Io
non sognavo, ma quella voce aveva riempito la mia notte con il suo
timbro basso e roco.
«Hai?»
«Mi
chiedevo se...potessi sedermi.»
Aggrottai
le sopracciglia.
Cosa...?
«Certo.»
Le
suole delle sue scarpe scricchiolarono sulla ghiaia, mentre lui si
abbandonava accanto a me con un profondo sospiro.
La
sua voce.
Avrei
potuto mettere una mano sul fuoco e giurare agli dei che quella era
la sua voce. La notte prima mi ero addormentato colmo d'angoscia,
perchè non ero riuscito a riportare alla mente il suono delle sue
parole, ma non appena aveva aperto bocca mi ero reso conto che era
lui.
Ma
era...diversa. Più...fresca, più limpida, il sordo dolore che avevo
sentito pulsare il giorno prima era scomparso.
Era
lui.
Sorrisi.
Avevo
ritrovato la voce dei miei sogni.
Continua...
Note
di Mya:
Buon
compleanno, Aelite.
2660
parole per Uruha e 2660 parole per Aoi.
Questo
capitolo...mi è costato tanto.
Ammetto
di essermi sentita un po' spaesata quando mi sono resa conto di
essermi lanciata in un progetto che mi tiene sul filo di un
rasoio...questo, ovviamente, dopo aver già postato prologo e primo
capitolo.
Ma
questo è un altro paio di maniche. Piuttosto strette e fastidiose,
ma decisamente altre maniche.
Parliamo
di Ruki:
Aelite:
Per me “imprevedibile”, associato a chiuso, taciturno e serio, è
Takanori. Ruki invece è perversione e voce che fa tremare il sangue.
E sanguinare il cuore.
Mya:
Allora, Takanori è un bel mistero. Ruki è...pervertito fino al
midollo, sensuale, con una voce che potrebbe spaccare il mondo in
due. Takanori...è diffidente, asociale e assolutamente terrorizzato
di perdere i GazettE. Se ci pensi, da quando i suoi l'hanno
disconosciuto quei 4 sono la sua famiglia. Certe volte me lo immagino
che si sveglia nel cuore della notte in un bagno di sudore, nel
panico, pensando che tutto sia solo un sogno.
Una
conversazione estremamente interessante direi.
Ed
è venuta fuori giusto perchè io mi stavo lamentando di quanto Uruha
sia inscrivibile e inscrittibile e Aelite ribattevo che
è tanto spontaneo e umile, caro...
Dovrei
scrivere tante cose, qui di seguito, ma aspetto il momento in cui ce
le avrò chiare in testa, prima di esporle.
Di
nuovo, mi accorgo che quelli che credevo divinità dalla vita
perfetta sono, alla fin fine, umani.
E
la cosa non è sempre molto piacevole.
Per
quanto riguarda Takanori credo che oramai sappiano tutti la sua
storia.
E
non credo di essere l'unica a credere che quell'uomo è terrorizzato
dall'idea di perdere i GazettE.
Beh,
dal momento che questa è una AU, trasportate questo concetto al solo
Kouyou. Capirete almeno in parte ciò che lega quei due.
Per
quanto riguarda, invece, Shiroganè...
Non
so nemmeno se è realmente un nome femminile giapponese. L'ho letto
da qualche parte su Internet, non ricordo neanche riguardo a cosa, e
me ne sono subito innamorata. Ha un suono molto elegante e un pizzico
occidentale, e mi piace molto.
Effettivamente
non so se sia presente l'accento finale...ne dubito, perchè da che
mi risulta la lingua giapponese con ha accenti grafici ma...boh.
Prendetelo con le molle, quel nome.
Mi
sono accorta che potrebbero sorgere delle incomprensioni al
riguardo...Kouyou non è affetto da bipolarismo.
Il
bipolarismo è molto più grave della depressione maggiore e si
manifesta con sintomi molto più violenti.
Tuttavia,
come il bipolarismo, anche la depressione maggiore colpisce in
determinati periodi; si continua a condurre una vita normale, ma ci
sono dei periodi più o meno lunghi in cui il malato presenta i
sintomi elencati nel capitolo precedente.
Mi
sono accorta che poteva risultare poco chiara la cosa.
Gli
affetti da questa patologia assumono dei farmaci, alcuni con nomi
anche molto complessi (la pagina che ho citato nel capitolo
precedente ne spiega molto chiaramente l'uso e l'effetto), ma ho
preferito parlarne molto generalmente.
Per quanto riguarda Aoi, invece, il Braille è quel codice di...non so come definirli senza risultare un'ignorante, puntini in rilievo.
Mi sarà utile nella stesura dei prossimi capitoli, quindi riferirò ogni notizia interessante.
Aelite,
gioia mia, auguri.
E,
cazzo, grazie, grazie mille volte.
Prossimi
progetti, così mi faccio un po' di pubblicità:
Dunque!
Postato questo terzo capitolo di Yami no Hikari,
mi darò alla stesura della parte finale di una shot che aspetta di
venire alla luce da...uhm, più o meno quando ho conosciuto Jo,
quindi...luglio?
Di
seguito alla shot cercherò
di portare avanti le altre due figliuole in crescita, ovvero Sekai
wa Mawaru e La Lista
dei Desideri.
A
poi c'è anche la piccolina etero che devo scrivere per Riot,
e ultimamente una figliola a caso mi ha fatto venir voglia di
scrivere una shot sporcella (Guren, è tutta colpa tua ndt).
Ah,
poi...beh, c'è un mezzo progetto (una mezza verità...in realtà il
progetto è intero e già completo, praticamente) per una raccolta
che sarà legata a Miseinen
(sempre detto che non sarei mai riuscita a staccarmene), una raccolta
di spin off di quelle shots.
È
qualcosa a cui tengo tantissimo, un progetto che vorrei riuscisse nel
migliore dei modi, perciò ho deciso di dedicarmici quando avrò
completato almeno due delle long.
Infine,
ho in progetto un'altra raccolta, questa volta non a tema come
Miseinen, ma che
egualmente mi entusiasma molto.
Questo
progetto potrebbe venire alla luce molto prima del suo gemello.
In
realtà non ho molto altro da dire.
Strano,
di solito le mie note finali si protraggono all'infinito, annoiando a
morte gli sventurati lettori...ma per questo capitolo posso farne a
meno.
Quindi
passo subito ai ringraziamenti, magari mettendoci un po' più di cura
dell'ultima volta (perdonatemi ero di fretta e di cattivo umore!):
Aelite:
Non
odiare Reita, gioia mia, ti ho detto che si
riscatterà...probabilmente dopo questo capitolo lo odierai il
doppio, ma...non farlo.
Non
se lo merita, povera stella. (Oh,
io starò benissimo!
-.-”)
Beh,
che dire, il cinque le abbiamo passate tutte. Tutte.
Fra
Cristoforo Colombo, i piccioni che sono molto molto Aoi, la matita
che...che fine ha fatto la matitina?
Ad
ogni modo.
Spero
di riuscire...non so come dire, te lo devo dire su msn, che non trovo
le parole.
Grazie
per la recensione, per il supporto e per aprirmi sempre gli occhi,
anche solo con una frase.
Guren:
Nooo,
che tristezza...persa persa?
Io
mi ricordo ancora quella telefonata fenomenale...mi hai fatto tanto
ridere che non hai un'idea xD
Oh,
a proposito...la tua ultima flash mi ha conquistato, sappilo. È una
piccola meraviglia, la amo.
Ad
ogni modo...la scena del volto di Aoi scomposto in lettere mi ha
lasciata perplessa. Io che l'ho scritta *si spadella la testa*
Grazie
per la recensione, grazie per tutta la dolcezza e tutte le risate che
mi susciti.
Grazie
piccolina <3
Ayachan:
Grazie
per i bei complimenti, grazie davvero ^^
Sono
contenta ti piaccia...spero che anche questo capitolo sia stato
all'altezza,
un
abbraccio!
Jo:
Dove
sarei se non ci fossi tu? Dove sarei?
Dio,
ti voglio così tanto bene. Ma così tanto.
Se
non ci fossi tu non saprei cosa fare. Sul serio.
Aspetto
con ansia quest'estate. Giuro sulla mia Angie che quest'estate vengo
da te e ti abbraccio per venti minuti si seguito solo per cercare
di ringraziarti per quella serata.
Grazie,
mia piccola Hime, grazie.
Grace:
Madre,
tu a volte dovresti essere censurata.
Ma
dico davvero. A volte sei...assolutamente assurda.
Dei,
ma mi fai così ridere! E ti voglio così tanto bene!
Con
chi, se non con te, sarebbero venuti fuori i Gaze/Village People? Se
non sono morta allì'immagine di Aoi indianon, non morirò più xD
Ma
sai che, adesso che ci penso, io Kouyou operaio sporco e sudato l'ho
già descritto in Bitches&Queen?
Accontentati, per Diana!
Un
giorno di questi vengo veramente giù a Bari ad abbracciarti...
Un
bacio!
Narah:
Una
luuuuunga fase di stallo * si nasconde*
Mi
spiace. Sekkai...ha bisogno di una pausa. È stampata tutta in testa,
ma ho bisogno di allontanarmene per un po'.
Beh,
che dire, imprevedibile,
mi piace. Dal momento che neanche io sono alla perfezione dove andrà
a finire questa long (se non in linee molto generali)...sarò
doppiamente imprevedibile.
Oh,
non ti preoccupare...e non ti preoccupare di disturbare,
assolutamente :)
Un
abbraccio, felice di risentirti.
Yoake:
*cuor*
xD
Non
ti preoccupare per il ritardo, assolutamente!
E...beh,
grazie per i complimenti. Da una che scrive come te, sicuramente mi
rendono molto fiera!
Grazie
*abbraccia* grazie mille!
E
per finire, vi lascio con un consiglio spassionato.
Figliuoli,
siate Aoi.
Mata
ne.
|
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Capitolo 4 *** I can't see. Did you forget it? ***
•
Capitolo
Tre •
I
can't see. Did you forget it?
-
Uruha -
Aoi
scoppiò a ridere, di un riso cristallino e contenuto.
«Sono
solito ricordarmi delle persone che mi investono.»
Arrossii,
ma per fortuna lui guardava da un'altra parte. Dal momento in cui
avevo preso posto accanto a lui, non mi aveva degnato di un solo
sguardo. Aveva continuato a fissare il nulla davanti a sé, negandomi
la vista di quegli stralci di cielo.
Chissà,
forse era timido.
Anche
Takanori era timido. Una timidezza quasi patologica, che prendeva la
forma di una maschera di ghisa che appesantiva i suoi lineamenti da
ragazzino rendendoli sciupati come un foglio stropicciato.
Gli
osservatori meno attenti la scambiavano per superbia o alterigia.
Takanori
era così timido ed insicuro che non appena si era reso conto della
mia impulsiva ed irruenta curiosità nei suoi confronti, si era
spaventato da morire, fuggendo come si trovasse di fronte al demonio.
Mi
ci erano voluti anni di appostamenti clandestini e di pazienza per
conquistare la fiducia di quel ragazzo che diffidava e disprezzava
perfino la sua ombra, e quei continui attacchi di abulica
indifferenza rischiavano ogni volta di farmela perdere.
«Mi
chiamo Kouyou.»
«Yuu,
molto piacere.»
Mi
stupii che possedesse un nome così... terreno.
Non
che fosse inadeguato. Dei, l'aveva pronunciato e subito mi era
sembrato che non potesse chiamarsi in altra maniera e che qualsiasi
diverso appellativo sarebbe risultato banale e sgradevole.
No,
Yuu gli calzava a
pennello.
Solo
mi stupii stupidamente del fatto che ne possedesse uno umano.
Yuu
e Aoi si sovrapposero
all'interno della mia mente, formando un nome nuovo che aveva il
suono di una nota, malinconica come l'azzurro dei suoi occhi. Ne
conoscevo così poco di musica (quel poco che sapevo risaliva alle
disastrose lezioni di piano che avevo preso a dodici anni) che non
seppi neanche riconoscere vagamente di quale nota si trattasse.
Amavo
la musica, di un passione sfrenata, ma se mi fossi fermato a cercare
di afferrarne il senso, l'ordine in mezzo a quell'intreccio preciso
di note e strumenti, mi sarei perso.
Non
riuscivo a distinguere la linea del basso in una canzone, ma
percepivo la mancanza preponderante di un sostegno sulla quale
chitarre e voce potessero appoggiarsi, quando quella mancava; sapevo
che c'erano delle regole alla base, ma non capivo come certe
combinazioni di accordi mi dessero le lacrime agli occhi da quanto
erano perfette, non capivo, semplicemente.
Mi
abbandonavo al piacere, senza pensare.
Non
mi tese la sua mano per stringerla, non fece neanche l'abbozzo di un
cenno col mento.
Cominciai
seriamente a pensare che la mia compagnia gli risultasse sgradevole.
Arrossii
senza riuscire ad impedirmelo.
Nel
periodo in cui mi ero messo in testa di pedinare Takanori anche in
bagno, non mi era mai passato per la testa che il mio tormento
potesse in qualche modo infastidirlo. C'ero io, c'era lui e in mezzo
a noi una cinta di paura e timidezza, che io avevo cominciato ad
abbattere, senza preoccuparmi che lui, dall'altra parte, potesse in
qualche modo essere seccato o impaurito dalla mia esuberanza.
Lanciai
una fugace occhiata a Yuu.
Non
mi ricordavo una così perfetta armonia di lineamenti, dal giorno
prima, forse perchè, nel mio stato di apatia, avevo notato solo gli
occhi, che brillavano come due stelle in mezzo al petrolio.
Portava
i capelli lunghi, lisci e scuri come sottili fili d'inchiostro; gli
sfioravano leggeri gli zigomi alti, le guance magre e quelle labbra
carnose e morbide. Non si poteva intravedere molto sotto allo spesso
cappotto nero e alla sciarpa di lana grossa, ma aveva nell'insieme un
fisico snello ed aggraziato.
La
ciliegina sulla torta di quel corpo erano le mani; appoggiato
pigramente in grembo erano affusolate, bianco latte, dalle dita
lunghe e slanciate.
Mi
ricordarono le mani piccole da pianista di Maiko.
Il
suono del suo cellulare si fece sobbalzare entrambi
contemporaneamente; accennai uno sguardo verso di lui, magari per
incrociare i suoi occhi e sorridere divertito assieme a lui, ma non
si voltò.
Si
scusò con un breve cenno del capo.
«Moshi
moshi?» rispose portandosi il cellulare all'orecchio, senza neanche
controllare chi l'avesse chiamato.
Emise
un flebile sospiro. Lo vidi socchiudere gli occhi per un attimo.
«Sono
alla panchina.»
Fissandolo
con la coda dell'occhio mi resi improvvisamente conto che sembrava
seccato.
Pregai
gli Dei che lo fosse nei confronti del suo interlocutore e non nei
miei confronti.
«Quella
panchina.» borbottò astiosamente.
La
sua fronte si increspò in un'espressione irritata; chiuse il flip
del cellulare con un sospiro.
«Mi
dispiace tanto.» mormorò chinando lo sguardo a terra «Ma ora devo
andare.»
Riuscii
ad emettere sono un flebile e deluso “oh”.
Guardandomi
intorno mi resi conto che effettivamente stava calando la sera e che
il sole rossastro era quasi già sparito oltre l'orizzonte, ma mi
trovai a sperare ardentemente che si fermasse ancora, anche solo per
qualche minuto.
Non
avrei comunque saputo cosa dirgli, ma la sua presenza mi dava la
sensazione di essere in pace col mondo.
Non
mi accorsi del suo arrivo se non quando si fermò davanti a noi.
Indossava
un animino cappotto grigio, dei jeans scuri e scarpe da ginnastica.
Era
indubbiamente un bell'uomo, ma tale bellezza era offuscata da
un'espressione severa, quasi irritata; le labbra erano serrate e
formavano un'austera linea, gli occhi socchiusi, diffidenti, scuri e
ombrosi.
Mi
salutò inarcando eloquentemente un sopracciglio e io gli resi il
gesto con un secco movimento del mento.
Mi
stava già, irrimediabilmente antipatico.
«Yuu.»
mormorò, con voce atona.
Cadde
un silenzio soffocante.
«Eccomi.»
sussurrò il mio Aoi, un'espressione di incomprensibile
colpevolezza in volto. Si alzò con lentezza, lisciandosi il
cappotto sul corpo.
Non
appena fu in piedi, il nuovo arrivato gli passò una mano attorno ai
fianchi, stringendoselo addosso e guardandomi con un moto di sfida
negli occhi. Sembrava mi stesse consigliando caldamente con lo
sguardo di star lontano dalla sua proprietà privata.
Odiai
intensamente quel modo possessivo di trattare Yuu.
Come
si permetteva di trattare un angelo del suo calibro, una creatura del
suo livello come fosse un lezioso cagnolino da compagnia?
Mi
alzai con il disgusto negli occhi e nello stomaco.
«Mi
dispiace aver interrotto la nostra conversazione, Kouyou. Passa una
buona serata.»
Non
riuscii a rispondere a quel flebile arrivederci che aveva lo stesso
malinconico suono di un addio, mentre entrambi si voltavano e
si allontanavano assieme.
Rimasi
immobile ed inerte a fissare la ghiaia, con la pesante e tetra
consapevolezza di star perdendo di nuovo
quello stralcio di cielo settembrino.
Non
potevo sopportare nuovamente una sua scomparsa.
La
prima volta che l'avevo visto me ne ero andato prima di rendermi
conto di aver trovato un tale miracolo e quel secondo incontro era
stato una coincidenza straordinaria, me ne rendevo perfettamente
conto.
Non
potevo guardarlo sparire come se niente fosse.
Dannazione,
mi aveva affascinato come la luce affascina le falene e mi stavo
avvinando tanto da rischiare di fulminarmi.
Non
potevo lasciarlo andare, non prima di trovare il modo di rivederlo.
«Scusa!»
esclamai, risvegliandomi di scatto come se mi fosse piovuto in testa
un secchio d'acqua gelida.
I
due si fermarono quasi di botto e il biondo mi guardò come se fossi
uno strano insetto. Non mi era piaciuto per niente il modo brusco con
cui si era affiancato al mio angelo, ancora meno la possessività con
cui gli aveva cinto la vita.
Ma
più di tutto mi aveva ferito l'indolenza con cui Yuu gliel'aveva
permesso.
Probabilmente
stavo per fare la sciocchezza più monumentale della mia esistenza,
in quanto quella gelosia negli occhi dell'uomo avrebbe dovuto farmi
chiaramente intendere una relazione più che intima fra i due.
Ma
il pensiero non mi sfiorò che parecchie ore dopo.
Avevo
il torace agitato da un ingiustificato fiatone, il cuore in libera
uscita, irrequieto e trafelato come non lo era mai stato, neanche con
Maiko.
«Possiamo
rivederci?»
Gli
occhi scuri del biondo divennero due lame, così sottili da sembrare
socchiusi.
Yuu
si voltò con uno scatto e finalmente rividi quegli occhi che mi
avevano tolto il sonno.
Erano
fulgidi come me li ricordavo, forse di più. Più consistenti di
quelle che io ricordavo come autentiche lastre di ghiaccio, avevano
quell'azzurro macchiato di grigio chiaro che mi aveva tanto colpito
il giorno prima.
Mi
accorsi improvvisamente di essermi pian piano dimenticato le
centinaia di sfumature che componevano quel colore; di tutto
l'insieme di sfaccettature mi era rimasto impresso solo il fatto che
rappresentassero quella particolare tonalità che spesso cercavo di
descrivere ma che io stesso non avevo ben in mente.
Nel
momento stesso in cui lui accennava un timido “hai” con un
abbozzo di sorriso sulle labbra, mi resi conto di un dettaglio
fondamentale che non avevo colto, di quegli occhi meravigliosi che mi
fissavano senza vedermi.
Era
cieco.
Un
mattone gelido e vischioso mi cadde in mezzo allo stomaco, dandomi un
forte senso di nausea.
«Oh,
non si preoccupi. Neanche io avevo visto lei.»
Ogni
singolo, stupido dettaglio del totale del tempo che avevamo passato
assieme andò a collocarsi nel suo giusto spazio; ogni stupida
domanda che mi ero posto adducendo a quella sfuggevolezza una
timidezza accentuata, trovò la sua risposta in quello sguardo vacuo,
perso e leggermente confuso.
«Domani
mattina qui?» bisbigliai, mortificato e imbarazzato.
Ripercorsi
con la mente tutti gli istanti passati accanto a lui e mi chiesi
sgomento se la mia apparente indifferenza verso il suo difetto
l'avesse in qualche modo ferito.
Non
potevo credere di essere stato così superficiale.
«Domani
mattina, qui.» rispose lui, arricciando l'angolo delle labbra in un
sorrisetto che mi mandò sulla Luna in un viaggio di sola andata.
La
sua mano si tese timorosamente in quella che lui doveva vedere come
un'immensa distesa di buio.
Buio.
Mi
ricordò la mano di un bambino, così timida, così incerta; gliela
afferrai con dolcezza, cercando di dargli, in quella stretta, un
senso di sicurezza, di solidità.
Non
riuscivo neanche ad immaginare lo smarrimento che doveva provare
quotidianamente nel muoversi costantemente sul filo di un rasoio.
Mi
sentii quasi in colpa.
«Arrivederci,
Yuu.» mormorai con un sorriso «A domani.»
«A
domani, Kouyou.»
Ero
chiuso nell'abitacolo della mia auto, i gomiti poggiati sul volante e
la testa fra essi.
Non
riuscivo ancora a scrollarmi di dosso le sensazioni di
quell'incontro.
Avevo
un appuntamento. Un appuntamento con quelle iridi da angelo.
Dopo
che Aoi era sparito dietro la prima curva, avevo aspettato al parco
ancora qualche minuto, forse sperando stupidamente di vederlo tornare
correndo da me.
Mi
ero poi diretto come un automa verso l'ingresso del mio palazzo,
salutando con un cenno il portinaio e dirigendomi verso le scale.
Davanti al bivio che si divideva fra la gradinata che portava agli
appartamenti e quella che portava ai garages, avevo puntato alla
seconda, salendo sulla mia Mercedes e stupendomi di trovarla intatta
e funzionante dopo mesi che non la adoperavo.
Alzai
il volto e poggiai il mento sulla sommità del volante, guardando il
monotono paesaggio di periferia che mi si presentava di fronte agli
occhi.
Non
sapevo perchè ero lì.
All'idea
di rimettere piede nel mio attico, solo,
mi aveva preso un terrore selvaggio, indomabile.
Il
condominio era esattamente come me lo ricordavo, coi muri esterni
giallo spento e le aiuole sempre in fiore, vecchio ma ben tenuto.
Quando coi miei romanzi avevo guadagnato una somma che le avrebbe
permesso di vivere in un luogo più dignitoso, mia madre aveva
rifiutato di lasciare la casa dove aveva partorito tre figli.
Sorrisi
senza volerlo.
La
targhetta era scolorita, ma qualcuno doveva aver ripassato
recentemente il cognome Takashima
con un pennarello. Una delle mie oi, a giudicare dal tratto incerto e
traballante.
Mi
aprì Ruriko.
Non
portava quasi i segni di quei quindici anni, era rimasta la
diciottenne che approfittava delle uscite dei genitori per incontrare
quel fidanzato che poi l'aveva sposata: gli occhi erano sempre
brillanti come gemme, i capelli sempre in ordine, il volto
leggermente truccato così simile a quello di Aya che molti si erano
chiesto se non fossero gemelle.
Rimase
a guardarmi con le labbra socchiuse, fino a quando una piccola
lacrima fece capolino dall'angolo del suo sguardo caramello,
scendendo in picchiata sulla sua guancia e morendo sul colletto della
camicetta.
«Kouyou...»
esalò in un singhiozzo, prima di gettarmi le braccia al collo.
La
abbracciai quasi sollevandola da terra.
«Gomen
ne, piccolina. Perdonami se puoi.»
Non
ero stato presente al suo matrimonio, nè alla nascita delle mie oi.
Dubitavo
che le piccoline conoscessero il mio viso.
Tutto
era cambiato in quella casa.
Mia
madre si era fatta più piccola, meno sorridente e più malinconica;
mio padre più silenzioso e cupo. Le pareti che io ricordavo essere
piene dei quadretti a punto croce cui mia madre si era dedicata per
una vita intera erano scomparsi.
Dai
muri del corridoio mi sorrideva felicemente Aya.
Non
mi ero reso conto fino in quel momento dell'effetto devastante che la
sua morte doveva aver avuto sulla mia famiglia: in casa aleggiava una
cappa densa e silenziosa.
«Ti
assomigliava tanto Kouyou.»
Furono
le prima parole che sentii mormorare da mia madre. Stavo guardando
una foto di una Aya quindicenne, i capelli lunghi e castani le
svolazzavano attorno al viso in un turbine vivace e lei rideva.
«Ci
manca moltissimo.» bisbigliò
con un sorriso e accarezzò il bordo della foto con la punta delle
dita.
«Manca
anche a me.» le risposi in un sussurro, cingendole le spalle con un
braccio. Mi chinai poi fino a sfiorarle un orecchio con le labbra «Un
giorno di questi andiamo a trovarla, mh?»
Lei
mi guardò a lungo e quegli occhi uguali ai miei divennero liquidi
come tazze di caffè d'orzo.
Mi
sistemarono nella cameretta che occupavo quando ero adolescente.
I
miei libri, i miei CD, i miei poster... Tutto era uguale al giorno in
cui l'avevo lasciata, con uno zaino in spalla e
la mente piena di sogni.
Anche
la foto che Aya mi aveva regalato prima di partire per Sapporo con
suo marito era lì.
Ci
eravamo sentiti molto spesso per telefono, anche durante le mie crisi
lei era l'unica persona alla quale rispondevo e con la quale mi
sentivo a mio agio anche a stare due ore in silenzio.
Ma
quando aveva lasciato Kyoto era stata l'ultima volta che l'avevo
vista.
«Ti
ricordi di Maiko?» mormorai una volta chiusa la luce e infilatomi
sotto le coperte «Credo di averti mandato delle foto, ma non ne sono
sicuro.»
Feci
una pausa e riuscii ad immaginarmi il suo sorriso comprensivo
incitarmi a continuare.
«Mi
ha... lasciato. Una mattina mi sono alzato e lei era sulla soglia di
casa con una valigia in mano. Chissà quando è riuscita a svuotare
tutti gli armadi...»
Feci
un sospiro, chiudendo gli occhi.
«Mi
manca. Mi manca lei e mi manchi te.»
Assomigliavo
ad Aya -e Ruriko con me- anche nella preponderanza a piangere
faticosamente una sola lacrima alla volta.
Scivolò
lentamente sulla mia tempia, perdendosi fra i capelli.
Aya
era morta poco meno di un anno prima. Una leucemia non diagnosticata
se l'era portata via in appena un mese.
Io
non c'ero al suo funerale. Non avevo neanche realizzato che la mia
oneesan non ci fosse più. Avevo recepito la notizia con gelida
indifferenza.
«Un
giorno di questo ti vengo a trovare con haha, così ti raccontiamo
tutto. Ruriko ha avuto un'altra bambina, sai?» sorrisi, intenerito
dal ricordo delle smorfiette che la mia oi più piccola mi aveva
regalato «È un amore e ha i tuoi occhi.»
La
guardai un'ultima volta, guardai quel volto sorridente e arrossato
dal sole per poi posarlo sul comodino.
«Ti
porterò delle rose. Bianche se le trovo. E se non le trovo le
ordino.»
Mi
sembrò di vedere quel volto minuto chinarsi in un piccolo inchino di
ringraziamento.
«Oyasumi
nasai, Aya.»
Mi
voltai, nascondendo la rottura degli argini contro il cuscino. Piansi
in silenzio tutte le lacrime bollenti che avevo in gola dalla
partenza di Maiko, piansi per lei, per me, piansi per Aya.
Mi
addormentai esausto dopo un bel po' e l'ultimo pensiero che volsi al
mondo fu rivolto agli occhi color del cielo di Yuu.
-
Aoi -
Che
gli Dei mi fulminassero, se quella non era la voce più suadente che
avessi mai ascoltato.
Sembrava
scivolarmi sulla pelle, percorrendo le gambe, le braccia, il collo e
dandomi tiepidi brividi che raggiungevano ogni singolo muscolo; si
arrampicava poi dentro le orecchie, fluendomi direttamente dentro al
cervello.
Fino
a pochi mesi prima avrei giurato che non esisteva, per me, suono più
dolce e appagante dei larghi e corposi sospiri di Ryo, o della sua
risata o di qualsiasi forma prendesse la sua voce, e l'avrei giurato
con sincerità.
Era
una consapevolezza che avevo raggiunto dopo mesi, se non anni,
passati assieme a lui, ogni giorno.
La
voce di Ryo era l'unico pilastro, l'unico chiarore in mezzo al mio
buio caotico e aveva ottenuto questo posto il giorno in cui mi si era
avvicinato al parco, per lodare la bellezza di Aiko; l'unico problema
è che me ne ero accorto solo quando la sua luce si era spenta,
lasciandomi solo e al freddo.
Il
destino era stato crudele con me e di un'ironia che ritenevo quasi
sadica.
La
voce di Kouyou non avrebbe mai potuto prendere il posto di quel faro,
mai.
Somigliava
piuttosto ad un intenso temporale, costellato da fulmini, da quelle
scariche luminose che illuminavano la notte, come Minoru mi spiegava
sempre durante le tempeste, tentando di placare una fobia innata per
quel rumore assordante che mi è rimasta incollata allo stomaco fino
alla fine dei miei giorni.
Erano
brevi flash, lampi effimeri che mi davano fittizie sensazioni di
calore, per poi svanire senza che io potessi afferrarli e trattenerli
a me.
Non
si era accorto che ero cieco.
La
mia cecità spesso dava a intendere a chi non mi conoscesse una
verità errata sul mio carattere; potendo leggere i pensieri delle
poche persone con cui dialogavo che non fossero a conoscenza della
mia infermità, non mi sarei stupito di trovarci un'idea del tutto
sbagliata di me.
Credevano
che fossi arrogante.
Presuntuoso.
Altero.
Superbo.
Tolleravo
questa consapevolezza per un unico motivo.
Se
avessi spiegato ad ogni persona in cui incappavo che se non la
guardavo in volto era perchè non capivo dove fosse, questa avrebbe
provato nei miei confronti un sentimento che mi era molto più
ripugnante dell'antipatia: la compassione.
Ne
avevo ricevuta così tanta in ventotto anni che sentirla nella voce
di chi mi rivolgeva parola mi dava un voltastomaco fisico.
Si
chiamava Kouyou.
Un
nome semplice ed elegante, come il suo proprietario.
Si
era seduto accanto a me, presentandosi con una tale dose d'innocenza
da farmi sorridere: forse neanche se ne era accorto, ma il tono delle
sue parole aveva lanciato segnali quantomeno palesi, concretamente
traducibili con un certo interesse nei miei confronti.
Non
capivo se mi desse più fastidio l'idea che mi reputasse uno stronzo
patentato o che mi commiserasse.
L'idea
che la gente mi ritenesse un altezzoso pallone gonfiato solitamente
non mi irritava più di tanto, ma scoprii spiacevolmente che mi era
intollerabile l'idea che lui mi considerasse tale.
Il
suono del mio cellulare mi fece sobbalzare come se mi avessero punto
con uno spillo.
Gli
unici che avevano quel numero erano i miei coinquilini e la mia
famiglia. Cinque persone in tutto.
Cercai
a tatto il tasto per rispondere e mi portai il telefonino
all'orecchio, dopo essermi scusato con Kouyou.
«Moshi
moshi?»
«Dove
sei?»
Ebbi
un tuffo al cuore così repentino e violento che mi parve di sentire
una scarica elettrica attraversarmi il torace.
Ryo.
Doveva essere appena uscito dal lavoro.
«Sono
fuori dal parco, dove ti ho lasciato questa mattina. Ma tu non ci
sei.»
La
sua apatica affermazione suonava anche troppo come un'accusa.
Pretendeva forse che avessi passato otto ore fermo immobile dove mi
aveva lasciato? Fedele come Hachiko che aspetta il suo padrone alla
stazione?
Fui
investito da un'onda di bruciante irritazione.
«Sono
alla panchina.» sbottai seccato.
«Quale
panchina?»
«Quella
panchina.»
Lui
rimase in silenzio, ma in sottofondo sentì lo scatto secco della
portiera della sua auto. Mi chiuse il telefono in faccia senza alcuna
esitazione e non capii se la cosa mi desse più fastidio o più
dolore.
Riposi
con un sospiro il cellulare nella tasca della giacca e mi sforzai di
fare una sottospecie di sorriso.
«Mi
dispiace tanto.» pregai perchè notasse la disperata sincerità
nella mia voce «Ma ora devo andare.»
Calò
un breve silenzio, interrotto da un flebile “oh”.
Lo
stomaco mi si annodò su sé stesso, quando riconobbi nei passi
pesanti sulla ghiaia la camminata secca e nervosa di Ryo.
Ryo
non era sempre stato così scorbutico e chiuso.
Quando
ci eravamo incontrati ero rimasto quasi accecato dalla sua
esuberanza, dalle sue risate, da quel suo spasmodico e festoso amore
per la vita. Viveva con l'intensità di una trottola dalle giravolte
inarrestabili e mi aveva trascinato nelle sue piroette con una frase
sola.
Spesso
pensavo che senza di lui non avrei mai potuto aspirare ad una
rinascita; ma mi rendevo anche conto che se mi fosse rimasto
affianco, non sarei mai riuscito a raggiungere una parvenza di
normalità nella mia vita.
Avevo
bisogno di lui, e nello stesso tempo la sua vicinanza mi era
insopportabile.
«Yuu.»
Cadde
un silenzio soffocante.
«Eccomi.»
sussurrai con voce fioca, intimidito e mi maledissi mentalmente per
aver adoperato un tono così... remissivo, così docile, che
avrebbe potuto concretizzarsi nello sguardo avvilito di un cane
sgridato dal proprio padrone.
Mi
alzai con lentezza e sentii Ryo cingermi possessivamente la vita con
un braccio.
Chiusi
lentamente le palpebre: avrei voluto appoggiarmi al suo torace e
sfogare in lacrime tutta quella densa bolla di frustrazione mista a
dolore che mi portavo dentro lo stomaco da almeno due anni.
Ma
la sua mano sul fianco era simile ad un tizzone ardente in diretto
contatto con la mia pelle; se mi fossi avvicinato maggiormente a lui
mi sarei ustionato.
«Mi
dispiace aver interrotto la nostra conversazione, Kouyou. Passa una
buona serata.»
Non
ricevetti risposta alcuna.
Mormorai
un “arrivederci” che aveva il suono di un “addio” e mi
incamminai con decisione nel buio, attendendo che il mio cammino
venisse corretto con una piccola stretta alla vita o con una dolce
spinta.
Sembravo
destinato a perdere tutti coloro che amavo.
Aiko,
mia madre, Ryo.
Ora
anche quella voce di velluto, quell'intenso terremoto che aveva
scosso la mia apatica vita, quel timbro basso e roco e i brividi che
Kouyou riusciva a darmi solo chiedendomi timidamente se mi ricordassi
di lui. Avrei voluto rispondergli che trovavo immensamente difficile
anche solo desiderare di dimenticarlo.
Quello
scontro accidentale con cui ci eravamo conosciuti aveva portato con
sé la nascita di un desiderio spasmodico che non provavo ormai da
quasi dieci anni, una voglia folle e sottile che mi correva eccitata
sottopelle, rapida e irrequieta come un cavallo scalpitante.
Provavo
l'irrefrenabile tentazione di tornare da lui e tendere una mano al
buio, verso il suo viso, di accarezzarglielo con la punta delle dita,
così lentamente e intensamente da stamparmene in mente ogni più
piccolo ed insignificante particolare; volevo a tutti i costi
conoscere i lineamenti che racchiudevano quella voce portentosa.
Nascosi
mento e labbra dentro la sciarpa e infilai le mani in tasca.
Il
volto di Ryo lo conoscevo a memoria ed ero certo che se mi avessero
dato in mano una palla di plastilina sarei riuscito a riprodurne
fedelmente il naso dritto, gli zigomi magri ed eleganti, la linea
decisa della mascella e quelle labbra ironiche e carnose.
Avrei
saputo raffigurare perfettamente i tendini nervosi tesi sul suo
collo, le clavicole, il torace magro e asciutto, le spalle
leggermente incurvate e quella miriade di muscoli guizzanti e
vertebre che componevano la sua schiena.
Il
viso di Yutaka era molto più morbido; le guance paffute, le piccole
fossette, le labbra carnose, i capelli morbidi. E quel corpo magro,
forse più magro di quello di Ryo, ma decisamente più accogliente e
materno nei suoi abbracci.
Chinai
il capo, improvvisamente triste.
«Scusa!»
Divenni
di ghiaccio e Ryo mi imitò al mio fianco; lo sentii muoversi con uno
scatto rabbioso e capii che si era voltato per incenerire Kouyou.
Lo
odiai per quello, con tutte le mie forze.
«Possiamo
rivederci?»
Era
la stessa sensazione che avevo provato immergendomi in un bagno caldo
dopo aver passato una giornata sotto la neve con Minoru: mi sentii
improvvisamente in una teca di vetro, al riparo dal rancore frustrato
di Ryo, al riparo da quelle dita bollenti e dal vento gelido di
febbraio. Al sicuro, protetto.
Quella
voce stava riuscendo dove quella di mia madre e dei fratelli, quella
di Ryo e Yutaka avevano fallito.
La
voce di Kouyou aveva il potere di farmi sentire come se avessi
trovato il mio posto nel mondo.
Mi
voltai, gli occhi spalancati nel buio.
Dovetti
trattenermi per non tendere un braccio in sua direzione.
«Hai...»
mormorai quasi sottovoce; temetti che non mi avesse sentito, ma non
riuscii a ripetere neanche quella corta sillaba, quando sentii i suoi
passi veloci fermarsi a mezzo metro da me.
Dei,
era lì. Era vicino, sentivo il suo respiro. Avrei potuto protendere
un braccio e probabilmente l'avrei urtato.
«Domani
mattina qui?» propose e quasi sussultai quando mi resi conto che
quella voce si era trasformata di un sussurro pieno di colpevolezza e
amarezza.
Cos'era
successo? Cos'aveva visto?
Mi
si strinse il cuore in una morsa di collera.
Cosa
gli avevano detto le iridi affilate di Ryo?
«Domani
mattina, qui.» confermai.
Deglutii
a vuoto, poi, e con l'audacia nel sangue tesi una mano in avanti, il
cuore in subbuglio.
La
prima cosa che pensai fu che era molto calda, ma di un calore non
fastidioso, quando incredibilmente confortante.
La
seconda che aveva la mano più grande della mia.
La
terza che, di quel calore breve e momentaneo, avrei potuto viverci
anni.
«Arrivederci,
Yuu.» mormorò, con un tono che sembrò dirmi questo
è un arrivederci «A domani.»
«A
domani, Kouyou.»
«Chi
è quello?»
Sbuffai
mentalmente, serrando gli occhi.
Non
ero in grado di sostenere fisicamente e mentalmente quegli stupidi
attacchi di gelosia ingiustificata.
Avrei
dovuto io essere geloso, io fargli scenate, invece di
tenermi tutto dentro fino a farmi marcire il cuore, perchè non
capiva? Perchè non cercava di venirmi incontro almeno da quel
punto di vista?
«Perchè
vuoi saperlo?»
Non
aveva neanche messo in moto l'auto, segno inequivocabile del fatto
che ero di fronte ad una conversazione che avrebbe preso inutilmente
tanto tempo e i cui unici effetti sarebbero stati compiacere il suo
egoismo e mortificarmi maggiormente.
«Non
mi piace. Ti guarda come se ti volesse mangiare.»
«Davvero?
Non l'ho notato.» ribattei ironico, incrociando le braccia al petto.
Si
chiuse in un silenzio astioso. Riuscivo a sentire il suo respiro
irritato e a carpire la sua collera come fosse una bolla densa e
palpabile.
La
rabbia di Ryo mi aveva sempre spaventato.
Forse
perchè lo ritenevo l'unico, incrollabile punto di luce della mia
esistenza, nonostante brillasse per un altro uomo, o forse perchè
quand'era giovane era difficile offuscare o placare il suo entusiasmo
bambinesco e io mi ero assuefatto a questo lato del suo carattere,
anche se oramai erano due anni che mostrava al mondo solo il retro di
quella medaglia luminosa.
O
forse perchè la sua collera era devastante, dolorosa e avvilente
come poche altre cose al mondo.
Improvvisamente
sulle mie labbra bruciarono quei due ultimi baci selvaggi, con
l'intensità di un incendio sopra la benzina.
Me
le sfiorai con le dita, facendo forza sulla mia volontà per rimanere
fermo nella mia convinzione di non aver fatto nulla di male e non
lasciarmi influenzare dall'amore cocente che provavo per lui.
«Ti
è bastato così poco?»
Socchiusi
le labbra, non capendo a cosa si stesse riferendo.
«Ti
son bastati due occhioni da cerbiatto per cadere ai suoi piedi?»
Ebbi
la concreta sensazione di ricevere un pugno in pieno stomaco: chiusi
gli occhi, accecato dall'arroganza delle sue parole.
Avrei
voluto gridare, picchiarlo fino a farmi sanguinare le mani, gettargli
in faccia tutto ciò che avevo provato fin dall'istante in cui aveva
ammesso di essersi innamorata di Yutaka, ma mi limitai voltare il
capo, nascondendomi da quello sguardo bruciante.
«Io
non posso vedere i suoi occhi.» mormorai.
Lo
sentii sussultare come se gli avessero dato la scossa.
«Io
non vedo. L'hai dimenticato, Ryo?»
Sentivo
il naso pizzicare fastidiosamente e dei singhiozzi in gola che non
aspettavano altro che uscire all'aperto; non capivo dove trovassi il
bisogno di piangere, quando le lacrime le avevo esaurite tempo prima.
Evidentemente
mi sbagliavo.
Ne
cadde una sola, silenziosa come una brezza estiva, calda, bollente.
«Io
amo te, Ryo.» sussurrai con la voce ridotta ad un flebile bisbiglio
che, non contenta della sua imbarazzante fragilità, pensò bene di
spezzarsi in un singulto proprio sul suo nome.
Mi
afferrò per il gomito, strattonandomi verso di lui, in una
rudimentale quanto dolorosa imitazione di ciò che aveva fatto solo
il giorno prima.
Bramavo
il bacio che, lo sentivo da come mi stringeva, mi sarebbe piovuto
sulle labbra come una diluvio di lava di lì a pochi istanti, lo
desideravo. Dei, non volevo altro che incatenarmi a lui fino alla
fine dei miei giorni e avrei accettato qualsiasi cosa, perfino
l'umiliante ruolo di amante clandestino, di giochino con cui
divertirsi, di bambolina da abbandonare all'alba e da trattare
freddamente alla luce del Sole.
Da
lui avrei accolto qualsiasi cosa, qualsiasi contatto, qualsiasi
sentimento.
Ma
non potevo.
Non
potevo abbandonarmi a quel bacio e godermi il suo calore effimero,
non potevo ricoprire la parte dell'altro, non potevo amarlo
ancora dopo tutto il male che mi aveva fatto, non potevo decidere di
essere egoista come lui.
Chinai
il capo fino a sfiorarmi il torace col mento, cercando, terrorizzato
dal buio e dai miei stessi desideri, una via che mi impedisse di
distruggere la vita dell'unica persona di cui ricordassi senza alcun
indugio il profumo.
Tentò
di alzarmi il volto con quelle due dita maledette, ma si cristallizzò
sul posto quando sentì la mia voce fioca pregarlo.
«Devi
uscire dalla mia vita. Ti prego.»
Mi
lasciò, allentando lentamente la stretta alle mie braccia; tentai di
rintanarmi il più lontano da lui, accucciandomi quasi sul sedile del
passeggero.
L'unico
suono che emise fu una sottospecie di sospiro strozzato.
«Yutaka,
come sono i temporali?»
Non
capitava spesso che gli chiedessi notizie sul mondo reale.
Dal
un lato perchè temevo di spolverare suoi vecchi ricordi dolorosi,
dall'altro perchè le sue risposte, per quanto esaurienti e
dettagliate fossero, mi lasciavano ancora più avido e assetato di
prima.
Gli
avevo sommariamente spiegato che io e Ryo avevamo avuto una
discussione, ma non erano bastati i miei balbettii sconclusionati a
placare la sua curiosità.
«I
temporali?»
«Hai.»
Rimase
in silenzio per qualche istante.
Una
volta gli avevo chiesto come fossero le nuvole ed ero rimasto basito
nel sentirmi rispondere che non se le ricordava; allora le sue
lacrime di sconforto mi avevano tanto impressionato che avevo deciso
di placare la mia sete di sapere, riducendola ad un silenzio quasi
totale.
«I
temporali sono... splendidi e terribili nello stesso tempo. Non
biasimo la gente che ne è spaventata.»
Sentii
la sua mano sfiorarmi delicatamente una spalla e mi lasciai avvolgere
in un abbraccio, poggiando la schiena contro il suo torace. Yutaka
diceva sempre che avere un contatto fisico con le persone era l'unico
goffo ed impreciso strumento a sua disposizione per carpirne le
reazioni.
«Il
buio viene improvvisamente rischiarato da questi scoppi di luce, così
forti che anche se sono lontani illuminano chilometri e chilometri.»
Affondò
una mano fra i miei capelli, respirando piano sul mio collo.
«Siamo
pieni di problemi che condizionano la nostra intera vita, ma che sono
briciole di fronte a tanta imponenza. E ci si sente piccoli,
insignificanti.»
Emise
un sospiro un po' malinconico.
«Perdonami,
non so spiegare molto bene...»
Voltai
la testa fino a riuscire ad incastrarmi nell'incavo del suo collo.
«Non
è vero.»
Avevo
indovinato, allora, a descrivere la voce di Kouyou come un temporale.
In
quello, il rombo lontano di un tuono mi fece rabbrividire.
«Arigato,
Yutaka.»
Continua...
Note
di Mya:
2650
parole per Uruha, 2650 parole per Aoi.
Tanto
per provare che la colonna sonora in una fan fiction è tutto...
L'intero
capitolo, tolte forse quattro o cinque righe che avevo scritto
settimane fa con l'intenzione di riprenderle quando l'ispirazione
fosse tornata e le revisioni, è stato scritto di getto sulle note di
Prisoner of love di
Utada Hikaru, artista j-pop che sto rivalutando.
Diciamo
che il pop non è decisamente
il mio genere, ma lei e poche altre voci spettacolari come la sua
fanne parte dell'eccezione.
Io
personalmente ho lasciato il cuore in Simple and Clean
la quale fa anche da sigla al videogioco Kingdom Hearts.
Jo-hime,
mi ha fatto giustamente notare un paio di settimane fa, che Shiroganè
non è un nome proprio di persona, quanto il nome di una stazione o
anche un cognome. È come se avessi chiamato quella povera ragazza
Trenitalia, per intenderci.
Mi
spiace per l'errore, devo averlo letto come cognome da qualche parte,
chissà.
Beh,
rimane Shiroganè, perchè mi piace come suona.
Archiviata
anche questa nel mio magazzino personale di licenze poetiche, che
oramai vanta una quantità di nomi/concetti/situazioni invidiabile.
Recensioni:
Aelite:
Punto
uno. Bene, così, meglio che ti stia indifferente piuttosto che me lo
odio alla follia u.u (io sì, starò malissimo già lo so,
insensibile che non sei altro!). Sì, la pagherà, la pagherà e si
riscatterà u.u
Lo
sapevo che ti avrebbe colpito quella frase, me lo sentivo.
Te
l'ho già spiegato (o perlomeno, ci ho provato) quanto mi hai dato
domenica. (L'uomo focaccina che vive nella farina! xD)
Ti
voglio bene.
Faccio
pena nel rispondere alle recensioni, ultimamente sto scendendo a
patti con questo mio lato da fanwrtiter xD
Però
sappi che è sentito e sincero.
Ti
voglio bene
Shin:
Sorpresa
è dir poco.
Ci
stiamo perdendo, forse ci siamo già perse.
Già
allora ci eravamo allontanate. Non stiamo decisamente passando
un'estate come quella scorsa ^^
Quello
che dovevo dirti te l'ho scritto nell'ultimo capitolo di Sekkai, non
so se l'hai letto.
Ti
voglio bene.
Jo:
Innanzitutto
grazie ancora per la dritta sui titoli dei capitoli.
Ti
voglio bene piccola.
Un
bene, assurdo. Te lo dico ora così la chiudiamo: sei una delle
persone più importanti della mia vita.
Grazie,
grazie, grazie, la tua approvazione e i tuoi complimenti, soprattutto
per questa
fiction mi danno le lacrime agli occhi.
Grazie,
piccola, t'amo e non sai neanche quanto ♥
Guren:
Tu.
Tu, tu e ancora tu.
Grazie,
piccolina. Significa molto che questa fiction finisca fra le scelte.
*abbraccia*
E
io sono una fan degli abbracci. Secondo me sono una delle più grandi
dimostrazioni d'affetto che una persona può dare.
*strizza
di abbracci*
Mi
spiace risponderti a tutti questi complimenti con un semplice e
banale “grazie”, ma sono un po' a corto di parole.
Tu
mi lasci senza parole.
Grazie,
piccolina, grazie, grazie, grazie, grazie.
Ti
voglio bene, ti adoro ♥
Haha
Deneb:
Haha
adorata, spero che nel frattempo l'influenza ti sia passata
*abbraccia*
Ma
figurati se ti scarico, che cavolo, dove la trovo un'altra haha come
te? Che toglie le maglietta a Kai durante i concerti? *sospiro*
Non
ti scarico, haha, anche perchè non ho capito bene in
che momento hai pensato
“ah, ok, tanto sta con Kai” °-°
E
da notare che io non ho la febbre, ma solo un fottutissimo ciclo che
fra poco strozzo.
Ti
voglio bene, haha ♥
Grace:
Ahahahah,
vedi che ti contagio con la mia mania di recensire il primo capitolo
sempre e comunque? xD
Ti
avevo spiegato no, tutti i punti non chiari, vero?
Scusa,
eh, ma solo tu ti attizzi col maglioncino di Uruha xD E per la scena
di nudo... Mmh, non lo so, ci devo pensare. E non sto scherzando, ma
ci devo pensare veramente. Vedrò u.u
Awnh,
ti voglio bene anche io mammina ♥
(e prima voi ci vengo veramente a Bbbbbbbbbari xD)
cucciola81:
Innanzitutto
grazie per la recensione.
Anche
io seguo in silenzio molte fictions *si piastra le mani* e spesso non
trovo mai il tempo di recensire.
*abbraccia*
Finalmente qualcuno che non mi odia Reita! *patta il povero bassista
infascettato*
Siate
fiduciose, ragazze, si riscatterà! u.u
Eeeeesatto,
è la stessa Shiroganè u.u
Oooooh,
ma che care *stampa bacioni in fronte alle sorelle*
Aya:
Sei
omonima della sorella di Uruha, me ne rendo conto solo ora °-°
Spero
nel frattempo ti sia passata la malinconia, mi avevi scritto che eri
un po' giù *abbraccia* Stai su, ti prego, non riesco sapere delle
persone tristi e non poter fare nulla.
Mata
ne fandom,
siete
sexy ♥
Mya
|
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Capitolo 5 *** How can I help you? ***
•
Capitolo
Quattro •
How
can I help you?
-
Aoi -
«Portami
là.»
La
mia voce era ridotta al sibilo minaccioso di un serpente. Se avessi
potuto reincarnarmi in tale bestia, avrei spalancato le fauci,
facendo scattare nervosamente la coda, pronto a colpire a morte.
«No.»
Un
tuono squarciò i miei pensieri e io trasalii violentemente.
«Me
l'hai proposto tu. Tu. Non
rimangiarti le tue parole per una stupida...» la parola
gelosia mi si strozzò in
mezzo alla gola. Yutaka ci stava ascoltando da quando Ryo si era
voltato con uno scatto verso di me, urtando qualcosa di ceramica che
era andato in frantumi contro il pavimento di marmo.
Io
non potevo dirgli che
l'avevamo tradito. Non potevo.
«Non
ti lascio otto ore sotto al diluvio.»
«Ho
un ombrello.»
Mi
rispose con uno sbuffo ironico.
Dei
del cielo, quanto odiavo l'accondiscendenza con cui mi trattava; la
sensazione che mi dava era simile a quella scaturita dalla
compassione che la gente comune provava nei miei confronti.
Proveniente
da lui, poi...
Sembrava
che si fosse improvvisamente dimenticato delle mie richieste.
Fin
dai primi timidi giorni della nostra relazione, l'avevo supplicato
affinché non provasse pena per me, l'avevo implorato perchè mi
trattasse normalmente, l'avevo pregato di non considerarmi come una
preziosa bambolina di cristallo, così fragile e delicata da
rischiare di andare in frantumi con una carezza, ma come un uomo
fatto di carne e sangue, del tutto uguale a lui
Mi
aveva dato ascolto, si era sforzato di vedermi come un essere
umano e non come una rosa pregiata da mettere sotto una teca di
vetro. Ma tutti i suoi sforzi si erano esauriti e spenti nel giorno
in cui aveva conosciuto Yutaka.
«No.
Ed è la mia ultima risposta.»
A
volte trovavo complicato comprendere le innumerevoli facce della
bolla di sentimenti che mi esplodeva nel petto ogni qual volta mi
azzardassi a rivolgergli un pensiero. Riconoscevo una devozione
simile a quella di un fedele per il suo dio, l'amore sacro di una
madre per i figlio, il desiderio carnale di una bestia in calore,
l'amarezza, il dolore e la rabbia cieca di un tradimento.
Ma
c'era qualcos'altro di intrinseco al pugno allo stomaco che mi
raggiungeva ad ogni sua parola, un qualcos'altro che, nonostante
tutto, non riuscivo a ricondurre a nulla di conosciuto. Come se non
fosse abbastanza penoso amare follemente senza essere corrisposti.
«Bene!»
ringhiai, così furiosamente che sentivo l'illusione di un fischio
portare disordine nel precario equilibrio del mio udito.
Mi
voltai camminando alla cieca, evitando per pochi millimetri i mobili
dell'ingresso di cui conoscevo l'esatta posizione.
Avevo
passato mesi, anni, in quella casa, una quantità infinita e
spaventosa di occasioni per imparare a muovermi con la lenta e pacata
scioltezza di un fluido. Yutaka abitava con noi da due anni, eppure
quell'appartamento era per lui ancora un enigma di difficile
soluzione. Casa sua, il suo nido, il luogo dove avrebbe dovuto
proteggerlo e abbracciarlo gli si rivoltava contro con rabbia,
ferendolo, umiliandolo.
«Bene!»
ripetei, sempre più furibondo man mano che passavano i secondi.
Mi
aggrappai allo stipite dell'arco che portava in corridoio e il rumore
che feci sbattendo la spalla contro la mensola non riuscì a coprire
neanche parte del sussurro di Yutaka che chiamava spaventato il mio
nome.
«Ryo...»
mormorò poi, chiamando in aiuto proprio la causa della mia ira.
Sentii
i suoi passi pesanti raggiungermi e quasi sperai in un suo tocco,
nella sua mano sul mio braccio, non importa se violenta e brutale. Ma
fin dal primo passo che avevo compiuto scendendo dalla sua auto il
giorno prima era stato palese che aveva preso seriamente le mie
parole.
«Yuu,
cosa stai facendo?»
Di
nuovo quell'odioso pugno allo stomaco, quella disgustosa sensazione
di paura. Ebbi improvvisamente voglia di sfogare la mia rabbia
suonando.
«Ci
vado da solo.»
-
Uruha -
La
pioggia mi cadeva affianco, scivolando sull'ombrello e sfiorandomi le
scarpe.
Lui
non era venuto.
Non
era venuto e non sarebbe venuto. Stavo in piedi accanto a quella
panchina da due ore, e per due ore non avevo fatto altro che
aspettare, l'intestino arrotolato come una spirale, cercando scuse
plausibili e illusorie che giustificassero la sua assenza.
«Domani
mattina, qui.»
Me
l'aveva detto lui, me l'aveva promesso.
Potrebbe
non essere mattiniero come te, Kouyou, e magari aver pensato di
venire più tardi.
Quella
mattina mia madre aveva cercato di dissuadermi dal partire. Lo
stesso, intenso desiderio di vicinanza con cui io avevo cercato di
farla traslocare nelle nuove villette che avevano costruito accanto
al mio condominio aveva fatto tremare la sua voce. Per rafforzare le
sue richieste aveva addotto la partenza di Maiko -non riuscendo a
pronunciare il suo nome senza intingerlo nel disprezzo-, le mie
condizioni di salute. Mio padre ci aveva guardato bisticciare
affettuosamente: i suoi occhi avevano fatto spola dal mio volto a
quello della moglie lentamente; aveva elargito a me sguardi stanchi e
sorridenti, quasi scusandosi per quella materna e apprensiva
invadenza, e a lei sorrisi comprensivi e malinconici. Aveva chiuso il
discorso dandomi una pacca sulla spalla e cingendo le spalle ricurve
di mia madre.
Ero
uscito dalla casa in cui ero nato con la promessa di rifletterci, ma
con la convinzione di averle mentito.
Piove
l'ira degli dei, Kouyou, non puoi pretendere che venga.
Takanori
mi aveva chiamato, durante il tragitto di ritorno verso il centro di
Kyoto. Con la voce sottile mi aveva avvisato della sua prossima
partenza: il contratto di Shirogane era stato annullato, lo
spettacolo teatrale che avrebbe dovuto costringerli a rimanere per
almeno un mese cancellato. Sarebbero rimasti ancora per qualche
giorno, nella flebile speranza di ottenere per lei un altro ingaggio,
poi sarebbero ripartiti alla volta della camaleontica Tokyo, con la
certezza di trovare là un parte.
Avevo
cercato di mentire anche a lui, di tranquillizzarlo riguardo la mia
salute, ma lui non aveva voluto sentire storie. La sua voce avvilita
che si scusava per aver illuso entrambi di poter passare un mese
assieme aveva dato i natali ad un nodo di disagio, nel mezzo del mio
stomaco, duro e contratto.
Perchè
dovrebbe fidarsi di un estraneo, Kouyou? Perchè dovrebbe voler
incontrare nuovamente una persona con cui ha scambiato solo qualche
parola?
Scossi
l'ombrello solo per vedere una cupola di gocce d'acqua unirsi alla
pioggia e cadere attorno alle mie scarpe; poi cambiai mano, infilando
quella ghiacciata nella tasca del mio cappotto.
Gli
ultimi chilometri li avevo percorsi col piede incollato
all'acceleratore.
Dopo
aver respirato nuovamente dopo mesi l'odore di famiglia
-spaventosamente intriso e simile a quello di Aya-, dopo essermi
strappato a forza dalle sue catene, dolci, rassicuranti, calde e
amorevoli, ma pur sempre catene, dopo l'avvicinarsi rapido di un
altro, involontario abbandono, tutto ciò che volevo era perdermi
dentro l'oblio ghiacciato di quelle iridi, staccare la spina e
spogliarmi della realtà per immergermi nelle inquiete acque gelide
degli occhi di Aoi.
Perchè
dovrebbe voler rivederti? Solo perchè tu ti sei scioccamente
infatuato di quello sguardo glaciale e smarrito, credi sia lo stesso
per lui?
A
distanza di due giorni, ancora non riuscivo a capire cosa mi avesse
tanto affascinato in lui. Era bello, indubbiamente, ma quell'aura
angelica che la mia mente ottenebrata di buio gli aveva attribuito,
era risultata essere circoscritta solo a quegli occhi miracolosi.
Quelli di Takanori erano naturalmente più accesi, indubbiamente
più vivi, ciononostante non riuscivo a comprendere il meccanismo
secondo cui venivano costantemente surclassati a favore di quelli di
Yuu.
Un
goccia forzata dal vento si scontrò contro sul mio naso, scivolando
fino alle labbra.
Ebbi
improvvisamente voglia di sfogare la malinconia scrivendo.
-
Aoi -
«Yuu...»
Se
Ryo riusciva a piegarmi al suo volere con solo due dita, Yutaka ce la
faceva con un sussurro. Gli dei solo sanno quanto avrei voluto essere
così forte da non subire le persone che amavo.
«Yuu,
ti prego...»
Finii
di abbottonarmi i pantaloni, facendo poi scorrere le mani sulle gambe
alla ricerca di una piega storta, di uno strappo o di qualsiasi cosa
che potesse attirare l'attenzione e i pettegolezzi della gente;
repressi il pensiero molesto che mi si era formato, ma quello scivolò
sinuoso fra le mie barriere come l'acqua fra le dita.
Era
Ryo che pensava a me.
Era
Ryo che si preoccupava che fossi in ordine quando uscivo di casa, di
avvertirmi che avevo una scarpa slacciata, era lui che mi sistemava i
vestiti sul corpo, barattando queste piccole attenzioni con un bacio
quando stavamo insieme, con un timido sorriso da quando non eravamo
più una cosa sola.
Sospirai
gravemente. Non trovando nulla di anormale in quei jeans, affondai le
mani nel cassettone, afferrando a casaccio uno dei numerosi
maglioncini neri che lo riempivano.
Shirogane
in persona si era premurata di descrivermi con estrema dovizia ogni
singolo capo d'abbigliamento che aveva varcato la soglia del mio
armadio. Era lei che pensava al mio look, le avevo lasciato carta
bianca.
L'unica
condizione irremovibile che avevo posto era stata il colore.
«Yuu,
mi ascolti?»
Emisi
un secondo, profondo sospiro.
«Ti
ascolto.»
Sentii
i suoi passi felpati sul tappeto e poco dopo avvertii il calore della
sua mano poggiarsi a metà schiena; il rumore della pioggia era
fastidioso per me, ma col tempo avevo imparato ad isolarlo. Tuttavia
i tuoni che squarciavano l'aria improvvisamente erano come fruste per
la mia mente e dopo ventotto anni ancora non avevo trovato una
maniera per placare il terrore folle che mi prendeva il cuore ogni
volta che sentivo il cielo rombare in lontananza.
«Non
ti ho mai chiesto nulla, Yuu. So di non averne il diritto.» la sua
mano si mosse lentamente fino a raggiungere il gomito e da lì
scivolò agilmente sul braccio «Ma... ti prego... ho bisogno
di sapere cos'è successo fra te e Ryo. Ne ho bisogno.»
Credimi,
Yutaka, non lo vuoi sapere.
«Niente.»
Lo
sentii trattenere il respiro, frustrato, ma di una delusione appena
accennata; diceva di non avere su di me nessuno diritto, nemmeno
quelli che si sviluppano col nascere di una profonda amicizia. Avrei
preferito che si arrogasse quei diritti, che fosse convinto della
loro giustezza e che, in nome di quelli, mi prendesse per una spalla,
mi scrollasse, mi costringesse a reagire, a parlare.
Volevo
che mi desse il via libera per accusarlo di tutto il dolore che
covavo nello stomaco; ero certo che l'avrebbe accolto tutto fino
all'ultima goccia, sorridendo e invitandomi a continuare a sputargli
addosso veleno, ma l'ironia del destino voleva che la persona che
indirettamente mi aveva frantumato il cuore fosse anche quella che mi
aveva salvato, ricucendo ogni piccola ferita, accarezzandola e
baciandola per accelerarne la guarigione.
«Yuu,
ti prego, ho bisogno di-»
«Vi
ho sentiti, Yutaka.» capitolai interrompendolo, e lo feci con un
sospiro stanco e con l'amaro in gola.
Le
sue parole vennero inghiottite dalla mia frase dal tono rassegnato.
«Io...
non capisco, Yuu...»
«Vi
ho sentiti mentre facevate l'amore.»
Mi
illusi di poter sentire la sua gola chiudersi, rifiutando il flusso
d'aria ai polmoni.
Scostai
con delicatezza la sua mano e, cercando a tatto l'etichetta,
individuai il verso giusto del maglioncino per indossarlo; ne lisciai
accuratamente ogni piega, tendendolo sopra il torace.
Sospirai.
«Yutaka,
non è colpa tua.»
Quando
trovò la forza di mormorare, la sua voce era flebile, il suo respiro
spezzato.
«Sì,
invece. Non avrei mai dovuto essere così... egoista.»
Sbuffai
una risatina. «Ryo si era innamorato di te; anche se tu avessi
compiuto una grandissima opera di altruismo e carità» sputai
fuori questa parola velenosa con astio «ciò non sarebbe cambiato.»
Mi
prese di nuovo il braccio, timorosamente, temendo quasi che potessi
scrollarmelo via di dosso. Sorriso intenerito.
Credi
davvero che riuscirei a starti lontano, Yutaka?
Sentii
il suo volto posarsi sulla mia spalla e le lacrime bagnarmela.
«Perdonami...»
bisbigliò fiocamente, stringendo la presa sulla mia pelle a tal
punto che mi parve di sentirla bruciare sotto le sue dita «Io non...
non avrei mai dovuto, mai... Lui ti ama, non dovevo
intromettermi...»
Lo
zittii, trovando le sue labbra dopo avergli accarezzato una guancia
con la punta delle dita.
«Ha
smesso di amarmi tempo fa, Yutaka. Ora come ora mi considera
solamente un intralcio che non gli permette di-» mi interruppi prima
di pronunciare delle parole dolorose che non avrei mai potuto
rimangiarmi.
Respirai
a fondo più volte, cercando un modo che mi impedisse di dare di
matto. Sentivo la rabbia salirmi nel petto, montare e sciabordare
come una marea.
«Yuu...»
«Lascia
stare.»
Chiusi
definitivamente il discorso, scrollandomi la sua mano -divenuta così
calda e accogliente da farmi quasi male- e imboccando la porta.
Sospirai di nuovo, facendo mente locale per ricordarmi dove avevo
lasciato le scarpe il giorno prima.
«Cosa
cerchi?»
Stronzo.
Maledetto
stronzo.
«Niente.»
Sbuffò,
seccato, come se avesse mille e più motivi per avercela con me, come
se mi reputasse un bambino che fa i capricci. Cercai di ignorarlo, di
ignorare la collera che solo il suo pensiero mi dava.
«Lo
sai vero che non ti permetterò di uscire di casa?»
Troppo.
Era
decisamente troppo.
Ripetei
mentalmente come un mantra che non serviva a nessuno arrabbiarsi, che
dovevo solo mantenere la calma e forse saremmo riusciti a risolvere
la questione civilmente.
«Non
ho dubbi sul modo con cui ci proveresti, Ryo, appurato come ti riesce
facile alzare le mani su di me.»
Non
mi importava più nulla, né di lui, né di Yutaka che molto
probabilmente mi aveva seguito fino in corridoio, non mi importava
neppure del sordo rombare dei tuoni. Volevo solo uscire da quel caldo
soffocante e appiccicoso, tuffarmi nel gelido e piovoso febbraio e
raggiungere Kouyou. Nutrivo l'infantile convinzione che lui avrebbe
potuto trovare una soluzione a tutto.
Indossai
le scarpe immerso in un silenzio bollente e fradicio.
Afferrai
un ombrello a caso e uscii, sbattendomi la porta alle spalle e
godendo dell'acqua ghiacciata sul mio viso.
-
Uruha -
Apparve
all'improvviso alla fine della strada; sotto la pioggia sembrava
quasi avvolto da un aura luminosa, sembrava quasi essere immune da
tutta quell'acqua. Camminava con una sorta di fretta prudente, lo
sguardo chino a terra, la concentrazione sul suo volto visibile
perfino a metri e metri di distanza.
Arrivato
in prossimità della fontana sdrucciolò sulla ghiaia bagnata e nello
sforzo di restare in piedi fece cadere l'ombrello.
Mi
misi in moto prima ancora che questo toccasse il suolo. Gli corsi
incontro per aiutarlo, ma all'ultimo mi ricordai di avvertirlo
dolcemente della mia presenza.
«Yuu,
sono... io.» mormorai sconclusionatamente, afferrandogli dolcemente
un braccio e premurandomi di coprirlo. Le sue pupille guizzarono come
lampi cercando di individuarmi.
«Kouyou?»
sibilò, gli occhi accesi di timore.
«Sono
io.» lo tranquillizzai, avvicinandomi ancora per ripararlo dalla
pioggia. Arrossii nell'accorgermi della vicinanza fra i nostri visi,
arrossii intensamente e senza riuscire a impedirmelo.
Si
sciolse in un sospiro sollevato, mentre quelle iridi assumevano toni
dolci, pastosi.
«Ciao...»
bisbigliai senza fiato.
Il
suo respiro si quietò lentamente, e con altrettanta flemma una fila
di denti bianchi fece capolino fra le sue labbra per regalarmi un
sorriso generoso, radioso. Mi assicurai che fosse in equilibrio,
prima di chinarmi a raccogliere il suo ombrello; feci il tutto molto
rapidamente, per perdere il meno possibile di quel sorriso.
«Sei...
tutto bagnato.» mormorai dopo qualche istante, sovrastando a
malapena lo scrosciare della pioggia.
Lui
sbattè le palpebre per qualche istante, confuso, toccandosi il
cappotto. Poi accennò un sorrisetto.
«Mi
ha urtato qualcuno prima.» ebbi un violento ed infondato tuffo al
cuore «Mi è caduto l'ombrello.»
«Hai
freddo?»
Subito
dopo avergli posto quella domanda mi stupii della scioltezza con cui
riuscivo a parlargli, e arrossii ancora. Nelle ore precedenti
all'incontro avevo pensato spesso a cosa avrei potuto dirgli, ma mi
resi conto che mi riusciva facile conversare con lui, come
altrettanto semplice mi riusciva preoccuparmi per la sua salute.
«Un
po'.» quel sorrisetto finì inghiottito in un piccolo morso alle
labbra «Ma non ti preoccupare.»
Mi
chiesi per caso se fosse in possesso di uno strano potere capace di
stringermi il cuore ogni due per tre.
Improvvisamente
mi tornò in mente uno dei tanti problemi relativi al mio
atteggiamento nei suoi confronti, di cui mi ero riempito la mente
durante l'attesa.
Lui
sembrò quasi notare il cambiamento del mio umore.
«C''è
qualcosa che non va?»
Mi
sembrava oltremodo surreale e nello stesso tempo intimo
parlare sotto ad uno stesso ombrello, così vicini che riuscivo a
sentire il suo respiro condensarsi sulle mie labbra, mentre attorno a
noi imperversava il diluvio.
«Devo
chiederti una cosa...»
«Sono
tutto orecchi.»
Lo
guardai, incuriosito e sorrisi inconsciamente. Pareva che tutta la
sorda malinconia che la sua voce esprimeva il giorno prima fosse
stata soppiantata da un sorriso spontaneo, fresco. Mi sembrava
dovesse mettersi a ridere allegramente da un momento all'altro ed ero
certo che l'avrei seguito di gusto.
«Ecco...»
presi a balbettare, cercando nello stesso tempo di organizzare un
discorso compiuto e di trovare delle parole che non l'avessero offeso
«... ehm, io, volevo... sì, riguardo a... non voglio offenderti o
ferirti in nessuna maniera ma...»
Il
mio desiderio si avverò in una risata franca e rigogliosa. Durò
pochi istanti, il tempo che gli occorse per portarsi una mano alle
labbra e cercare di nascondere quello scoppio di ilarità.
«Perdonami
se rido, Kouyou.» sussultai nel sentire il mio nome fluirgli in gola
«Non avevo mai sentito nessuno usare tanti balbettii per porgermi il
suo aiuto.»
Ridacchiò
ancora, ma così genuinamente che la piccola presa in giro che mi
centrò in pieno, ebbe il solo effetto di un leggero e piacevole
solletichino al torace. Mi unii alla sua risatina, leggermente
imbarazzato.
«E
dire che con le parole dovrei saperci fare.»
«Sei
uno scrittore?» chiese con una curiosità ardente negli occhi.
«Sì.»
Sorrise,
raggiante.
«Un
giorno dovrai leggermi qualche tuo libro.»
La
richiesta così schietta e naturale mi fece sorridere.
«Senz'altro.»
I
suoi occhi, che il giorno prima mi erano sembrati così statici e
immobili, erano inquieti, ma di un inquietudine curiosa; volevano
conoscere tutto, illudersi di poter vedere e assorbire tutto ciò che
li circondava. Guizzavano sul mio volto, mentre parlavo, mi
accarezzavano le labbra fuggendo via un battito di ciglia più tardi,
sfioravano il mio sguardo -e la mia anima-, andandosene senza sapere
di averlo trovato.
Il
rumore di un tuono rese istantaneamente quelle iridi terrorizzate.
Lui
si avvicinò impercettibilmente.
«Hai
paura?»
Accennò
un sorriso colpevole, per nulla toccato da quella che, subito dopo
essere stata pronunciata, mi era parsa una domanda fin troppo
indiscreta.
«Molta.»
Con
un dito percorsi attentamente una piega del suo cappotto, fino
sfiorargli la mano gelida.
«Come
posso aiutarti?»
Chinò
il capo, assumendo un'espressione ancora più colma di gratitudine
dei sorrisi che mi aveva donato. Poteva risultare errato, ma mi
sembrava di essere privilegiato e che non fosse da tutti riuscire a
ricevere tanto da lui.
Mi
tornò in mente lo sguardo austero del biondo che me l'aveva portato
via il giorno prima. Il solo ricordo della dolorosa pesantezza dei
movimenti di Yuu in quella occasione mi fece incupire. Non potevo
certo permettermi di chiedergli a bruciapelo quale e quanto intenso
fosse il rapporto che li legava, ma la sottomissione dei suoi gesti
mi faceva ipotizzare risposte che non volevo neanche lontanamente
concepire.
Scacciai
quei pensieri cupi e concentrai tutta la mia attenzione su quel viso.
«Guidami.»
mormorò arrossendo appena. Tese una mano e si urtò delicatamente
contro il mio braccio; ci si appoggiò con cieca sicurezza,
continuando a sorridere «Avvertimi se ci sono ostacoli, gradini o
cose così. Guidami nella strada giusta.»
Annuii,
sorpreso e travolto dalla sua spontanea fiducia.
«Andiamo
a casa mia? È qui vicino e...» feci una pausa, temendo di risultare
scortese «...i tuoni si sentono di meno.»
Abbozzò
una risata, spostandosi lentamente per mettersi al mio fianco.
«Sei
sempre solito preoccuparti tanto per gli altri?»
«No,
sei tu che mi fai quest'effetto.»
Rimasi
così sconvolto dalle parole che erano echeggiate nell'aria come
schiocchi di una frusta, che ci misi qualche istante per ricollegare
tale dichiarazione alla mia persona. Arrossii furiosamente, chinando
il capo.
Lui
ridacchiò, appoggiandosi per qualche istante alla mia spalla.
«Onorato
di essere l'unico.»
-
Aoi -
«Non
si sentono più molto, vero?»
Impiegai
più di qualche istante per capire a cosa Kouyou si stesse riferendo.
«No,
hai ragione. Arigato.»
Provai
ad immaginarmi come potesse essere un suo sorriso. Quello di Ryo era
secco, obliquo, disegnato dalla mano nervosa di un artista come una
scattante linea diagonale. Quello di Yutaka invece era aperto,
corposo, dolce in quelle fossette che gli solcavano le guance. Minoru
sorrideva come se stesse sogghignando, tendendo le labbra fino a
congiungersi le orecchie con un sorriso spropositato. Shirogane
sorrideva sempre a bocca chiusa; mi aveva raccontato che aveva preso
quest'abitudine nel periodo in cui aveva tenuto l'apparecchio ai
denti e che non aveva mai smesso di sorridere in modo così composto
e riservato.
«Ho
sempre avuto paura dei tuoni.» ripresi qualche istante dopo, mentre
cominciavamo l'ultima rampa di scalini; avrei potuto benissimo
lasciar cadere il discorso nel vuoto, ma sentivo il bisogno di
spiegare a qualcuno, di raccontare.
«La
mia famiglia ha sempre fatto molto per cercare di tranquillizzarmi,
ma senza troppi risultati. Anche quando sono cresciuto, morivo di
paura durante i temporali, se non avevo nessuno accanto.»
Mi
strinse impercettibilmente l'avambraccio, rimanendo in silenzio.
«Tutti
hanno le loro fobie.» mormorò poco dopo, sciogliendo la stretta.
«Tu
di cosa hai paura, Kouyou?» mi piaceva pronunciare il suo nome. Mi
piaceva arrotolarmi le sue vocali alla lingua e poi lasciarle
scivolare fuori.
«Della
solitudine. E dei ragni.» aggiunse, ridacchiando.
Continuammo
a salire lentamente le scale senza parlare.
«Gradino.»
mormorò ad un tratto con finta noncuranza e rallentò visibilmente.
Questa
sua totale e dedita concentrazione mi dava un senso di struggente
tenerezza, oltre a dare vita, nel mio stomaco, ad una prorompente
voglia di mettermi a ridere e a piangere assieme; più di una volta
dovetti impormi non alzare una mano verso il suo viso e ringraziarlo
con una carezza.
Superai
l'ennesimo ostacolo facilmente.
Mi
piaceva camminare accanto a lui. Era certo che se avessi provato a
sfiorargli la pelle l'avrei trovata bollente; emanava un calore
avvolgente e rassicurante anche attraverso il cappotto.
Quando
entrammo nell'ingresso del suo condominio, mi stava spiegando di
abitare in un attico all'ultimo piano. Scrollò entrambi gli ombrelli
con una fretta malcelata che si ripercosse sul braccio su cui mi
appoggiavo.
Mentre
salivamo le scale -Kouyou aveva indovinato la mia avversione profonda
verso gli ascensori- mi raccontò della sua famiglia, delle sue
nipoti e della sua infanzia.
Parlava
a macchinetta, lasciandomi appena il tempo per intercalare qualche
commento o qualche frase che subito gli dava spunto per raccontarmi
qualcos'altro. Sembrava che fossimo vecchi amici che si rincontrano
dopo anni di lontananza e che lui stesse cercando in pochi minuti di
raccontarmi ciò che mi ero perso.
«C'è
un piccolo gradino, nell'ingresso.» mi informò con voce allegra.
Non
c'era più imbarazzo nella sua voce, né esitazioni. I primi minuti i
suoi avvertimenti erano risuonati cauti, timorosi di suonare
presuntuosi o arroganti; l'avevo preso un po' in giro per questo e
nel giro di qualche passo ci avevamo riso su come amici di vecchia
data.
Io,
che era timido e riservato perfino con la mia stessa famiglia, ero
riuscito a intavolare una conversazione civile con un
semi-sconosciuto. Certo, questo prima che mi sommergesse di dettagli
sulla sua vita.
Arrivati
al suo palazzo, in tutti non più di cinque minuti di andatura lenta,
avevo già scoperto che era stato bocciato in giapponese al terzo
anno del liceo e che quando aveva cinque anni aveva portato Man, la
sua pesciolina rossa, a dormire nel suo letto, con tanto di boccia,
acqua e alghe artificiali; era un miracolo, aveva detto in mezzo alle
risate, che non gli si fosse rovesciata addosso e che la mattina dopo
lui e Man dormissero tranquillamente l'una accanto all'altro.
Mi
chinai a slacciarmi le scarpe e posai i piedi sul parquet tiepido
dell'ingresso.
Ero
dentro casa sua.
Rimasi
inizialmente smarrito e atterrito da questa consapevolezza.
Ero
in territori sconosciuti, estranei, forse ostili.
«Accomodati.
Fa pure come se fossi a casa tua.»
A
casa mia non dovrei stare attento perfino a come mi giro, Kouyou.
Domo arigato ugualmente.
Mi
affidai al mio udito per cercare di capirci qualcosa; dall'olfatto
non mi aspettavo più nulla. Fin dal primo istante in cui ero entrato
in casa sua, quello era stato catturato dal profumo che ci aleggiava.
Il suo profumo.
Mi
sfiorò una spalla col dorso della mano; mi appoggiai nuovamente al
suo braccio, teso gentilmente in mio aiuto. Gli donai, in cambio di
quel piccolo gesto di pura ed elegante cortesia, un sorriso quanto
più genuino potessi mai dargli.
Mi
guidò dentro ad una stanza profumata di incenso.
«Questa
è la cucina.» mi prese delicatamente una mano e, come avevo
previsto, sentii la sua pelle bruciare; la appoggiò delicatamente su
una superficie dura e sottile «Siediti pure. Vado a prenderti
qualcosa di caldo.»
Scostai
la sedia da sotto al tavolo e mi ci sedetti con cautela,
appoggiandomi allo schienale; con la punta delle dita sfiorai il
cuscino morbido, mentre sentivo i suoi passi allontanarsi
frettolosamente nel corridoio.
Non
ebbi altro preavviso che il rumore felpato della sua camminata scalza
e un allegro Eccomi qua!; sentii una stoffa calda e pesante
sulle spalle e subito dopo venni investito dal suo profumo.
«Spero
ti vada bene, forse è un po' grande...»
Ma
io già non lo ascoltavo più. Con quanta più indifferenza riuscissi
a mostrare, infilai le braccia nelle maniche del maglione, e
nell'alzare annusai piano il tessuto a trame spesse.
Rimasi
inebetito, il volto semi-affondato nel suo maglione e la mente piena
di lui.
-
Uruha -
Lo
guardai entrare discretamente in casa mia, chiedendomi se al mondo
esistesse qualcosa di più impalpabile ed etereo della timidezza con
cui aveva penetrato il mio rifugio e la mia vita.
«Accomodati.
Fa pure come se fossi a casa tua.»
Mi
ringraziò con un debole sorriso; sembrava intimorito, spaurito in un
ambiente che non gli era famigliare.
Non
riuscivo neanche ad immaginare come dovesse sentirsi, costantemente
sull'orlo del rasoio; la cosa più vicina al suo buio che potessi
trovare nei miei ricordi era lo svegliarsi nel mezzo della notte a
causa di un emicrania e trovarsi nella mia camera sigillata, nel buio
più denso e corposo che ci sia.
Ma
sentivo che le due cose non potevano essere neanche lontanamente
comparate. Era ingiusto, triste, quasi paradossale che due occhi di
tale incanto non potessero vedere.
Lo
vidi accennare un passo incerto; il piede scivolò lentamente sul
pavimento in cerca di ostacoli e il corpo lo seguì poco dopo, cauto,
prudente, come se dovesse aspettarsi di cadere in una trappola da un
momento all'altro.
Gli
sfiorai la spalla col dorso della mano, piano, per attirare la sua
attenzione; accettò l'aiuto che gli porsi assieme al mio braccio con
un gran sorriso.
Il
temporale era andato placandosi lentamente ed era rimasto solo il
debole rimasuglio di qualche rombo in lontananza. Più di una volta
avevo visto gli occhi di Yuu contorcersi atterriti in risposta al
fragore di un tuono e mi ero sempre premurato di stringergli
dolcemente un braccio, cercando di infondergli in qualche maniera un
po' di sicurezza.
Mi
seguì docilmente in cucina, gli occhi pacati e tranquilli di chi sa
di trovarsi al sicuro.
Lo
feci accomodare al tavolo, precipitandomi in corridoio per cercare
qualcosa di caldo dentro cui avvolgerlo; il riscaldamento che avevo
acceso appena entrati ci avrebbe messo qualche minuto per cominciare
a scaldare tutte le stanze e quando gli avevo preso una mano per
poggiarla sullo schienale della sedia, l'avevo sentita gelida sotto
le mie dita.
Davanti
al mio armadio mi presi qualche lezioso istante per decidere cosa
volessi vedergli addosso di mio: fu un pensiero fulmineo, tanto
allettante quando imbarazzante. Sentii le guance ardere di imbarazzo
mentre l'immagine di Yuu che si chiudeva un mio paio di jeans addosso
mi solleticava il torace.
Afferrai
a casaccio uno dei tanti maglioni che Aya mi aveva fatto ai ferri e
spedito da Sapporo, imponendomi di non pensare al fatto che l'avessi
sempre considerato il mio preferito. Era stato il primo tentativo di
mia sorella, era troppo lungo e un bottone era attaccato storto, ma
non c'era abito che cui fossi più affezionato.
«Eccomi
qua!»
Glielo
sistemai sulle spalle con cura, riconoscendo in quei gesti l'affetto
materno con cui mia madre mi sistemava la divisa scolastica ogni
mattina; ogni giorno nell'indossarla volutamente trascuravo un
bottone o allacciavo male la cravatta e ogni giorno lei mi
abbottonava meglio la camicia, o rifaceva il nodo alla cravatta,
costringendomi a piegare la schiena perchè lei ci arrivasse.
«Spero
ti vada bene, forse è un po' grande...» mormorai per colmare quel
silenzio.
«Va
benissimo, Kouyou. Domo arigato.»
Mi
chiesi come facesse, nonostante le ovvie difficoltà, a muoversi
costantemente con scioltezza, con eleganza; nessuno mai avrebbe
potuto pensare, guardandolo camminare, che rischiasse tanto ad ogni
passo.
«Mi
fai fare il giro della casa?»
Si
appoggiò nuovamente al mio braccio, sulle labbra un sorriso appena
accennato ma non per questo meno sincero.
Lo
condussi per il corridoio, descrivendogli con cura ogni dettaglio del
mio appartamento. Ebbi un violento tuffo al cuore quando, nel mio
studio, riservò alla macchina da scrivere di Aya una leggera
carezza. Riuscì ad individuare ogni centro nevralgico di quella
casa, ogni oggetto al quale per un motivo o per l'altro ero
particolarmente legato e ci si soffermò con noncuranza, sfiorandoli
o porgendomi delle domande su di essi: le sue dita sfiorarono come
piume il portacenere di mio padre, quello grande di cristallo, di cui
io da bambino seguivo le venature con lo sguardo fino a perdermi nel
loro intricato disegno, uno dei quadretti a punto croce di mia madre,
la cornice d'argento decorata che racchiudeva una foto mia e di
Takanori. Era come se ad una ad una avesse pizzicato con le dita ogni
singola corda del mio cuore.
«Questo
è il salotto...» mormorai quasi senza fiato, conducendolo
all'interno del salone con attenzione. Era sempre stato molto
caotico, vuoi perchè puntualmente lo adoperavo come pensatoio
personale, vuoi perchè coincideva con la mia piccola biblioteca
personale; c'erano libri dappertutto, sulla televisione -che ormai
fungeva solo da ulteriore ripiano, dal momento che non la utilizzavo
mai-, per terra, sul tavolino, sul pianoforte di Maiko.
«È
un po' in disordine... Occhio al piano.» gli feci cambiare
leggermente direzione, ma lui all'improvviso divenne rigido come una
statua.
«Hai...
hai un pianoforte?» bisbigliò, voltando il viso. Incrociai quelle
iridi pazze di euforia, quelle labbra che a stento riuscivano a
nascondere una risata di gioia. Pensai che fosse più bello che mai.
«Suoni?»
sussurrai in risposta.
Annuì
concitatamente, stringendomi una mano come se potesse trasmettermi
mille e più ricordi.
Non
aspettai neanche che mi ponesse la domanda che già vedevo affiorare
sulle sue labbra.
Lo
guidai verso lo sgabello, sgomberandolo degli innumerevoli libri
impilati sopra; sedette lentamente, accarezzandone il rivestimento
con i polpastrelli. Non ricordavo di aver mai visto quel pianoforte
chiuso; non avrei neanche saputo come fare per aprirlo, molto
probabilmente.
Accostò
le dita al piano, e credetti di vederle tremare. Poi quelle
affondarono nei tasti, dolcemente.
La
sua musica fu un imprevedibile colpo di grazia.
Continua...
Note
di Mya:
Auguri
Aelite.
Anche
se dire auguri in un'occasione simile mi fa strano.
2570
parole per Uruha, 2570 parole per Aoi.
Ho
terminato la stesura di questo capitolo (vedi, scritto
interamente) con gli Acid Black Cherry e i Versailles nelle
orecchie.
Ho
deciso di spezzare i due canonici punti di vista di Aoi e Uruha per
dare continuità alla storia e per procedere più velocemente. In
parole povere, non mi andava che, terminato di descrivere l'incontro
dal punto di vista di Aoi, ricominciasse da capo quello di Uruha;
credo che tale “frammentazione” verrà portata anche nei prossimi
capitoli.
Ho
ragione di pensare (grazie tante, sono l'autrice) che nei prossimi
capitoli potranno fare capolino anche altri punti di vista. In
particolare ci terrei tantissimo ad inserire Kai e Reita in modo da
spiegare meglio il loro rapporto e ho già appurato che per salvare
un capitolo dallo sfracello più totale sarò “costretta”, per
modo di dire, ad inserire anche Ruki e Shirogane.
Che
dire, spero vivamente di non fare macelli. Già in questo capitolo ho
dovuto farmi un post-it sullo schermo per ricordarmi dei dettagli *si
sotterra*
Sono
stata assente parecchio da EFP, e in generale dalla scrittura. Posso
dire di aver passato un periodo non propriamente buono riguardo a
ispirazione e fantasia, un periodo in cui persino pensare di buttare
giù due righe mi dava fastidio.
Grazie
a hide, persone meravigliose e buona musica fanno anche di questi
miracoli.
Ho
notato che ultimamente su questo sito c'è la possibilità di
rispondere privatamente alle recensioni (e Aya è stata la mia “prima
volta” xD). Probabilmente risponderò privatamente man mano che
riceverò recensioni, da oggi in poi, visto che con i ritardi che
faccio capita che debba rispondere a domande e questioni venute fuori
mesi prima.
Però
è anche vero che è molto piacevole rispondere alle recensioni prima
di pubblicare... mah, vedremo.
Recensioni:
Aelite:
con te parlo su msn, meglio. Ti adoro, sappilo ♥
Haha
Deneb: dal mio modestissimo
punto di vista, crepare Reita di botte, per un motivo o per l'altro,
non è mai qualcosa di grave u.u Ma questi sono pensieri miei u.u
Vedi?
Mi basta un tuo wow
a darmi i brividi.
Arigato,
e, ti prego, guarisci presto.
Guren:
l'errore era mio, avevo fatto un copia-incolla di troppo xD
Uuugh,
tu vuoi uccidermi. A dire il vero un sacco di gente vuole uccidermi
ultimamente (chi di complimenti, chi di botte), ciò non va bene. Ti
ho già detto che ti voglio un mondo di bene? E che ti
sorregerò-stampellerò tutta la vita? E che sei una delle persone
più buone e meravigliose che ho conosciuto in quest'ultimo anno?
Se
non te l'avevo ancora detto, sappilo u.u
Shin:
tu mi salti fuori ad intervalli casuali come un fungo xD Esempio
massimo sta nell'incontro al cinema, dove hai dovuto gridare in mezzo
al fiera per venti minuti prima che mi accorgessi che qualcuno stava
nominandomi invano u.u
Dovresti
conoscermi, cara e quindi sapere che non ho la più pallida idea di
quanti capitoli avrà questa fic. Diciamo che per ora stiamo
procedendo moooooolto a rilento (non so se do l'idea, ma sono passati
solo tre giorni T___T) e che non ho la benchè minima idea né di
quanto tempo passerà prima che le cose comincino a smuoversi, né
quando e soprattutto come terminerà. Diciamo che potrei farti
concorrenza ad Azzardo xD (a proposito, qui tutti attendono il
ventesimo capitolo... io a maggior ragione, visto che mi hai
raccontato che succede!)
Ci
sentiamo itoshii, vedi di liberarti almeno per le vacanze di Natale
^^
Hime:
uffa, ogni volta che arrivo a te, mi blocco. E sai perchè? Mh?
Perchè mi togli le parole e la mia tanto vantata ars
oratoria va a farsi un
giretto perchè alla fine non riuscirebbe a concludere nulla. Quindi,
se non riesco a spiccicare parola quando ci incontriamo a Lucca, se
non riesco a rispondere con un minimo di decenza ai messaggi, alle
telefonate e alle recensioni... diciamo che per un buon 80% è tutta
e solamente colpa tua. Ilo restante 20% è solo colpa della mia
timidezza, lo ammetto u.u
Aishiteru,
Hime, aishiteru da morire ♥
Cucciola_Suzuki:
bo-hooooo, ero stata così brava a imparare chi fra voi due era chi
;____; Purtroppo ho la memoria di un cucchiaino arrugginito ;_____;
Ad
ogni modo, tesoro mio, non sei assolutamente
monotona, e ammesso e non concesso tu lo fossi, adoro
la tua monotonia. Adoro te e le tue recensioni, e i tuoi complimenti.
Mi fanno bene all'anima ♥
Un
abbraccione!
Lain87:
sei troppo gentile. Troppo, hai capito? E poi qualcuno si lamenta se
mi inorgoglisco e se gongolo. Finchè continuate ad esseri così
spaventosamente gentili ovvio che mi monto la testa u.u
Tu
non sai che parto
assurdo
è stato Uruha in questo capitolo *picchia Urupon* Ovviamente sono
strafelice che tale difficoltà non si noti nella lettura... ci
mancherebbe solo che si notasse, accidenti a lui =_=
Per
quanto riguarda i capitoli delle altre long, ehm, coff coff, prima o
poi arriveranno. Prima o poi ò.o
Un
bacione!
Cucciola81:
che dici, sono migliorata, no? Ehm, dai, solo quattro mesi *si va a
impiccare*
Dal
mio punto di vista Reita ha tutte le colpe di questo mondo xD (e il
bello è che lo descrivo bastardo e poi mi faccio impietosire xD), ma
vedrai che si riscatterà anche lui, la smetterà di comportarsi come
il cinico stronzo che effettivamente è e farà il buono u_u
Parola
di autrice u_u (mai, MAI, fidarsi della promessa di una fanwriter,
MAI! xD)
E
io ogni volta che leggo una tua recensione mi viene voglia di
pigliare un treno, una motocicletta, una zattera, un triciclo o i
pattini a rotelle per venire a stritolare di abbracci te e tua
sorella ;____;
Un
abbraccione!
Mammina
Grace:
abbiamo già discusso (e lamentate) abbastanza dei nostri rispettivi
seni su msn xD Quindi propongo di passare avanti xD
Ribadisco
il concetto, mammina, tu mi fai M-O-R-I-R-E
xD “altro che voce profonda come una tempesta...Yuu dovrebbe dare
un'occhiata ai suoi piani bassi, e senti come ti sprofond-*la
abbattono*” tu non hai idea di quanto riso a suo tempo e di quanto
ho riso adesso rileggendola
xD Per non parlare degli insulti a Reita *muore*
Sto
cominciando anche io a pensare che la cose dello stesso numero di
parole sia stata una grande stupidata, ma ormai che sono dentro non
posso tirarmi indietro. Questo capitolo in particolare è stato un
incubo xD
Ti
adoro anch'io, Grace ♥
Papi:
tu e le tue seghe mentali riguardo alle recensioni. Ma quanto volte
dovrò ripeterti che va bene anche se mi dici che ti è piaciuto di
volata su msn? Mh? Già il fatto che tu legga e apprezzi mi fa un
piacere enorme, non ti angustiare riguardo alle recensioni.
Sei
la prima che non odia Ryo... e devo dirti che anche a me fa pena,
povero. Lo sto tartassando e martirizzando, però mi fa
un'incredibile malinconia.
Grazie
per la recensione, papi e per le uscite di testa al telefono xD
Un
bacione!
Aya:
ti ho già risposta privatamente, ma rinnovo i miei più sentiti
ringraziamenti per la recensione!
Un
bacione enorme, carissima ♥
Alla
prossima.
Grazie
a chiunque apprezzi questa ifc che procede a rilento, a chi paziente
tanto per i sudatissimi capitoli. Vi voglio bene.
Mya
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Capitolo 6 *** AVVISO ***
AVVISO:
Porca
troia (non c'è che dire, bell'inizio), sono due ore che cerco di
buttare giù qualcosa.
Qualcuno
dice che chi mi ama capirà ciò che voglio dire e non posso fare a
meno di aggrapparmi a questo, visto che non ho la più pallida idea
di come cominciare.
Ho
deciso di spostarmi su un altro sito, precisamente un blog di mia
creazione e contenente solo mie opere.
Dietro
questa mia scelta ci stanno più di qualche mese di riflessioni, non
mi sono svegliata questa mattina con quest'idea, perchè posso dire
con estrema certezza di aver conosciuto persone che ora sono pilastri
della mia vita qua dentro.
Non
intendo, inoltre, abbandonare la stesura delle mie tre long; mi sto
prendendo un attimo di pausa dai loro ritmi e dai loro limiti, ma non
le abbandonerò.
Per
chi volesse continuare a seguirmi, ecco il link al blog:
http://distortedmya.livejournal.com/
Per
ora è ancora scarno (è stato creato qualche giorno fa), ma spero di
riempirlo di tutte quelle fiction che ho in mente e che avevo
automaticamente associato a questo sito.
Avrei
voluto andarmene con qualcosa di meglio di queste quattro righe
spelacchiate, ma preferisco non aggiungere altro.
Solo
grazie infinite a tutte.
Grazie, siete state la mia vita in questi ultimi due anni.
Mya
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