Silver Screen.

di Jo_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Il dolore è per sempre. ***
Capitolo 2: *** Il sonno della ragione genera mostri. ***
Capitolo 3: *** Skin Deep. ***
Capitolo 4: *** Anime Salve. ***



Capitolo 1
*** Il dolore è per sempre. ***


 

That's why it's vulgar, that's why it's blue.

 


 

1.

In Italia c’è un cantautore, molto famoso, che in una canzone dice di ricordare “quattro ragazzi con la chitarra, e un pianoforte sulla spalla.”

Mi sono sempre chiesto come riuscissero a portarsi dietro un pianoforte, visto che riesco appena a far stare il mio violino nello scompartimento del treno.

Una volta ci sono stato, in Italia.

Due settimane a Firenze. Elettrizzante.

Sembra che tutte le bellezze del mondo si siano concentrate in pochi metri quadrati.

Era divertente guardare il David bianco, poi Salvo, fare paragoni e poi dimenticarli.

Un giorno siamo anche andati a Roma.

“Vedi il Cristo?” mi dice, davanti al Giudizio Universale “era l’amante di Michelangelo. Ci pensi? Un ragazzo qualsiasi che diventa il Salvatore della specie umana grazie all’amore di un artista. È grandioso.”

Si, Salvo aveva una strana ossessione per Michelangelo.

E si ostinava a chiamarmi Fede, al posto di Fréderic.

Fede e Salvo. Un po’ eccessivo, per i miei gusti.

Comunque, è acqua passata.

L’Italia è stata solo una brevissima parentesi nella lunga dieghesi della vita.

Si dice “dieghesi” in francese?

Quasi non lo so.

Non ricordo l’ultima volta che ho usato la mia lingua per…parlare di letteratura.

Viaggiare per l’Europa in treno è anti- moderno, lo so, ma io ho ancora una visione un po’ romantica della vita.

Solo, spero non ci voglia troppo ad attraversare la Manica, perché ho una paura matta delle gallerie.

 

2.

Londra è esattamente come l’immaginavo.

Fredda e caotica.

Molto fredda e molto caotica.

È appena autunno, ma qui l’inverno già reclama il suo spazio.

I miei ultimi anni di vita sono rinchiusi in due borsoni di tela e nella custodia del violino.

Che devo farci, sono anti- moderno.

La gente corre, io cammino.

La gente vola, io vado in treno.

La gente lavora, io viaggio.

La gente si agita, io aspetto.

Posso, e lo faccio.

Esco dalla stazione di King’s Cross e inizio a girare per il quartiere.

Mi ritrovo a passare davanti alla British Library.

Attratto da chissà quale forza magica, mi spingo al suo interno.

La hall è gremita di gente, un manifesto annuncia il “Ritorno del Messia dell’Incubo.”
La signorina al banco informazioni è così gentile che mi fa lasciare le valigie dietro al bancone e mi riempie di opuscoli.

Strana gentilezza, per essere inglese.

Nella “Sala dei Tesori”, così si chiama, dove sono conservati decine di manoscritti dalle provenienze più disparate, non c’è quasi nessuno. Così, posso tranquillamente incollarmi al vetro della teca contenente l’originale di Alice’s Adventures Under Ground.

Ad un certo punto mi sento degli occhi puntati sulla nuca.

Mi stacco dal vetro e un…uomo? Ragazzo? …un tale mi squadra con fare tra il divertito e l’inquisitorio.

Ha un cappotto nero e la barba rasata male.

Mi allontano imbarazzato.

Torno nella hall, ringrazio in franglese la signorina e riprendo la mia roba.

Sono le sei di sera e non ho ancora un posto dove dormire.

 

3.

No vacancy, I’m sorry.”

“Com’è possibile che non ci sia neppure una camera libera in tutta Londra?”

“E lo chiede? È da cinque anni che Forster non si fa sentire né vedere, vogliono tutti assistere al suo ritorno.”

“Forster…?”

“Lo scrittore!”
”Ne conosco solo uno con questo cognome, ma credo sia morto un centinaio di anni fa.”

“Non conosce Charles Forster? Non credo sia sconosciuto, in continente.”

“Un titolo?”

La tua fine è il mio inizio. Non può non conoscerlo. Ha guadagnato di più lui con quel libro che la Rowling in tutta la sua vita.”

Si, che lo conosco.

Ma, in effetti, in “continente” non è così mitizzato.

“E dov’è che farebbe il suo ritorno sulle scene?”

“Presente la British Library? C’è gente che fa la fila davanti all’ingresso dell’auditorium da due giorni. Siamo tutti, me compresa, in febbrile attesa di nuove rivelazioni geniali.”

La ringrazio ed esco fuori al freddo.

Ora come ora non posso fare a meno di assistere alla presentazione.

 

4.

La hall è ancora più piena di prima. La signorina del banco informazioni mi riconosce, mi sorride e mi tiene ancora da parte le borse.

Devo risultarle particolarmente simpatico.

Intravedo una troupe della BBC, subissata dal mare di folla.

Sono a Londra da poche ore e già mi sento stretto, tra gli inglesi.

Nell’auditorium, ovviamente, non ci si entra tutti.

Riesco a scivolare in avanti, portandomi nei pressi dell’ingresso.

Davanti  me c’è un gruppo di ragazzine in calore, neanche si trattasse di un divo di Hollywood.

Qualcuno mi spinge da dietro e precipito nella cavea.

La gente è seduta sulle scale, sulle finestre, sui corrimani, ovunque.

Trovo un posticino in cima alle scale e mi siedo.

Non vedo quasi nulla, ma il telone bianco e argento e le telecamere puntate sul microfono mi fanno pensare che forse l’intervento verrà ripreso e proiettato per consentire anche alle ultime file di assistere.

Sento dei ragazzi parlottare con un forte accento scozzese.

“Ho sentito dire che si è sposato.”

“No, no, non è possibile. Uno come lui lo odia, il matrimonio.”

“Uno come lui pur di scopare farebbe di tutto.”
”Anche questo è vero.”

Il brusio è fastidiosissimo, e rimbomba in un’eco assordante.

Ad un certo punto cala il silenzio assoluto.

Si sente perfettamente il suono delle suole che rimbombano sul legno.

Sullo schermo non compare ancora nulla.

Batte con un dito sul microfono, un fischio acutissimo.

La folla è silenziosa e ipnotizzata da un uomo che non riesco neppure a vedere.

“Con tutti i diavoli che ci sono qua, potrebbe quasi sembrare l’Inferno. Mi manca solo di trovare Lucifero.”

La gente ride e applaude divertita. Sullo schermo ancora nulla.

“Com’è facile intrattenervi, marmaglia. Comunque, se siete tutti qui, è per un motivo. Che sarei io. Siete accorsi in massa per qualcuno che vi odia profondamente, e che con il vostro odio s’è comprato un’Aston Martin.”

Ha una voce profonda e sicura, ferma.

Sembra giovane. Un giovane invecchiato a sigari e caffè.

“Potrei vivere tranquillamente altre dieci vite, con i soldi de La tua fine è il mio inizio, ma non ne ho voglia. Questa nazione ha bisogno di essere violentata. Questa…marmaglia, che non siete altro, ha bisogno di sentirsi le fiamme sotto al culo, perché ormai non ha più nulla per cui vivere. Io vi porgo uno specchio, e voi ridete di voi stessi. Siete ridicoli. Siete ridicoli e penosi, e vi ringrazio per questa vostra…pochezza. Vi ringrazio perché, grazie a voi, io sono un Dio. Io sono il vostro Dio, crudele e disumano, che vi trovate ad adorare con tutte le vostre forze. Mi adorate perché so mostrarvi quanto siete inutili.”

Il telone si illumina. Fondo rosso e una scritta nera, in stampatello maiuscolo.

PAIN.

Dolore.

Ma chi è questo folle?

La folla è nelle sue mani, completamente smarrita.

Ipnosi collettiva.

“Dolore. Non fate altro che lamentarvi per quanto soffriate, per quanto siano miserabili le vostre vite. Beh, mentite tutti. Se siete qui, con tutto il vostro corpo, vuol dire che non state veramente soffrendo, che il vostro non è vero dolore. Voi non avete idea di cosa sia il vero dolore, perché ne avete paura. Non sapete essere umani perché siete troppo impegnati a far trascorrere la vostra vita del cazzo. Arrendetevi. La vita, senza dolore, senza dolore vero, non è vera vita. L’amore è chimicamente uguale ad una scorpacciata di cioccolato. L’amicizia tradisce. L’affetto, ti trascura. Il piacere, è temporaneo.”

Sullo schermo compaiono altre parole, a formare la frase PAIN IS FOREVER.

Il dolore è per sempre.

“Vi ringrazio per la vostra stupidità. C’è qualcuno che non sia un giornalista che voglia fare delle domande?”

Una bella ragazza bionda si alza.

“Dimmi, dolcezza.”

“Ce l’hai una fidanzata?”
”Tranquilla, tesoro, c’è abbastanza Charlie per tutti. Qualche domanda un tantino più intelligente?”

“Cosa ne pensa dell’attuale gestione della crisi da parte del Primo Ministro?”

“Penso che il mio cane potrebbe farlo meglio. E ha senza dubbio un colorito migliore. Altri?”

“Non è troppo giovane, a ventott’anni, per essere così vecchio?”

“Non è troppo vecchia, lei, per fingersi così giovane? Altri?”

“Quanto c’è di autobiografico nei suoi racconti?”

“Quanto c’è di autobiografico, in Lolita? …altri?”

Mi alzo in piedi e alzo la mano.

Lo intravedo appena da lontano.

Un punto nero con un maglione nero e i capelli neri e i pantaloni neri e le scarpe nere.

“Eccolo, l’ho trovato, il nostro Lucifero!” arrossisco “ qualche domanda illuminante da porre?”

Mi si impuntano le parole sulle labbra. Non mi ricordo più come si parla in inglese.

“Cos’è, sei timido? Hai paura che ti mangi? Tranquillo, ho già cenato.”
”Lei…non si sente usato, dal suo pubblico?”
Tutti si voltano a guardarmi.

“Spiegati, Rosso.”

“Beh, tutta questa gente ama essere insultata da lei, perché lo trova divertente, stimolante, non so. Ma lei non si sente mai umiliato per il lato di sé che è costretto a mostrare?”

Resta un attimo in silenzio.

“Beh, ci sono delle domande che non troveranno mai una risposta. Ad esempio, cos’hanno in comune un corvo ed una scrivania?”
”Ma c’è una risposta, la dà lo stesso Carroll.”

“E tu la trovi soddisfacente?”

“Beh…”

“No, esatto. Alcune risposte non sono adeguate alle domande cui rispondono. A volte, è meglio restare nel dubbio. Vado ad ubriacarmi in qualche pub, tra sette giorni esatti Il dolore è per sempre sarà nelle librerie. Buona serata.”

Applausi, applausi, applausi a non finire.

Io sono stato schedato come Colui Che Ha Osato Mettere In Discussione L’Autorità

Esco il più velocemente possibile, sebbene le uscite siano praticamente bloccate.

Sono costretti ad aprire le uscite d’emergenza.

Esco e rientro, per riprendere le mie cose.

Sta anche iniziando a piovere, e io non ho un ombrello.

Mi tiro il cappuccio sopra la testa e vado alla ricerca di un posto in cui passare la notte.

 

5.

Passo davanti ad un pub di nome “The White Rabbit”.

L’insegna dice “Open until 2 p.m.”

Beh, a quanto pare la mia giornata è scandita dalle avventure di Alice.

Almeno ho un posto in cui trascorrere gran parte della nottata.

Entro.

Il locale è spoglio, semivuoto.

Ci sono solo un pugno di mosche da bar, come si suol dire.

Mi siedo su uno sgabello al bancone.

Il barman sembra sorpreso della mia presenza.

Forse serve solo clienti abituali.

“Dica.”

“Mezza pinta di birra rossa e un hot dog.”

“Salse?”

“Mostarda, grazie. Ah, e una porzione di patatine fritte.”

“Ho solo la senape.”
”Va benissimo lo stesso.”

Mentre ingurgito le patatine strafritte e straunte entra un uomo, con un cappotto nero e un berretto calcato in testa che gli scopre appena gli occhi grigi.

“Giornataccia, eh Charlie?” dice il barman rivolto all’uomo.

“Lascia stare, Hank. Sto maturando un odio sempre più forte nei confronti del genere umano. Se non mi servisse per vivere…sono riuscito a scappare solo ora. Preparami un whiskey doppio, và. Senza ghiaccio. Non mi piace il brodo allungato.”

Mi guarda.

“E tu che ci fai qui? Ciao, Lucifero!” si sfila il cappello dalla testa.

Lo riconosco appena.

“Sono così fortunato da avere lo scrittore più desiderato del Regno Unito seduto accanto a me?”

“Già, sei proprio così fortunato.”

Hank gli porge il bicchiere e lui ringrazia con un cenno della testa.

“Eri tu oggi pomeriggio nella Sala dei Tesori, vero?”

“In carne, ossa e cinismo. Mi piace passare inosservato sotto gli occhi della gente che mi aspetta.”

“Come hai fatto a riconoscermi, in mezzo a tutta quella…quantità di persone?”
”Quando vedo qualcosa di interessante non me lo lascio sfuggire.”
Indica i miei bagagli.

“Cosa fai per vivere?”

“Indicativamente due cose: l’artista di strada e il mantenuto.”

“Quale rende di più?”

“Dipende dai periodi. Ora come ora direi il secondo, l’ultimo mi ha lasciato in eredità un appartamento a Barcellona. Ma non sono avido, non mi interessano i soldi. L’ho regalato a mia madre e sono partito di nuovo.”

“Dove sei nato?”

“In un paesino della Provenza. Non so perché ti racconto tutte queste cose, io non…”

“Provenza? Quindi sei francese. Ecco perché hai un accento così strano- pensavo fossero le mie orecchie.”

“No, tranquillo. È già tanto che riesci a capire quello che dico.”

“Se vuoi parliamo in francese. Mi piace, il francese. È molto musicale. Conosco anche un sacco di poesie, in francese.”

“Ah si? Quali?”

“Beh, una che si adatta bene alla serata è Chanson d’Automne.”
”Recitamela.”

Si schiarisce la voce.

Les sanglots longs /des violons de l'automne /blessent mon coeur /d’une langueur /monotone./ Tout suffocant /et blême, quand /sonne l'heure...* e poi non me la ricordo più. Sai che le prime frasi vennero utilizzate da Radio Londra per comunicare in Francia lo sbarco in Normandia del 6 giugno del ’44?”

“Quindi voi inglesi usate sempre Verlaine, per abbordare i francesi.”
”Già. Dov’è che stai?”

“Dici stasera? In strada, credo. Gli alberghi della città sono stati presi d’assalto- sai, oggi c’è stato il gran ritorno in pubblico del Messia dell’Incubo.”

“Si, ho saputo. Mi permetti di mantenerti, almeno per stasera?”

“Solo se sei in Aston Martin.”

“Non avevi detto di fregartene, dei soldi?”

“Infatti. Però non ci sono mai salito, su un’Aston Martin con la guida a destra.”

“Ragazzine, siete tutte uguali.”

Paga la mia cena e il suo whiskey prendendo delle banconote alla rinfusa dalla tasca.

Mi carico i borsoni in spalla ed usciamo dal pub.

 

 

 

*I lunghi singhiozzi/dei violini autunnali/mi feriscono il cuore/d'un languore/monotono./ Tutto ansimante /e smorto, quando / rintocca l'ora...

 

 

 

Alllllllora.

Ho deciso di cimentarmi ancora con una ff lunga e tortuosa. Lo faccio perchè, al di là del mio masochismo, mi diverte da matti.

Spero di potervi ancora intrattenere. Per ora, non vi rivelo altro.

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Capitolo 2
*** Il sonno della ragione genera mostri. ***


Grazie a chi ha letto l'inizio e a chi ha aggiunto la storia alle seguite o alle preferite.

Ci vorrà del tempo, ma la storia prenderà forma, ad un certo punto, lo prometto.

 

 

6.

Guida come un folle.

Non c’è altra definizione più adatta.

Questi gingilli inglesi andranno pure veloci, ma non hanno l’autoradio.

O almeno, questo non ce l’ha.

Guida come un folle silenzioso.

Usciamo dalla città, alla mia sinistra iniziano a scorrere file ordinate di casette di mattoncini rossi.

Fa un effetto strano stare in auto così, sembra un mondo all’incontrario.

Svolta ad un incrocio semi nascosto dagli alberi.

Casa sua è niente più di una tenuta vittoriana immersa in un bosco fittissimo.

Parcheggia l’automobile sotto ad una tettoia di fianco alla “casa”.

“Scendi.”

Dentro, è ancora più incredibile.

L’ingresso monumentale porta al salone centrale attraverso due scalinate di marmo.

Tutto ciò è terribilmente inglese.

Un enorme cane nero mi assale.

“Sirius! Cuccia!”

Il cane si dirige diligentemente dal suo padrone e si sdraia ai suoi piedi.

“Figlio d’una cagna, che sei.”

Si abbassa per grattargli la pancia.

“Perché Sirius?”
”Perché ti importa? Dovresti imparare a fare meno domande, sai.”

“Perché è un nome strano.”

“E perché? Sirio è la stella più luminosa della costellazione del Cane. Mi sembrava adatto, per un randagio nero. Quando l’ho trovato a girovagare per il bosco era un cumulo di sangue rappreso e ossa rotte. Adesso è un bestione.”

“Quindi anche tu hai dei sentimenti.”

“Ripeto: troppe domande.”
”Non era una domanda, era una constatazione.”
”Era una constatazione interrogativa. Vieni, ti mostro la stanza.”
Il secondo piano della tenuta è composto da sole stanze dal letto, ciascuna con il proprio bagno.

Ne apre una.

“Prego, tutta tua.”
”Tu dove dormi?”
”In camera mia, dove devo dormire?”
”…no, credo di non aver capito.”
”Sai, non è difficile. Tu dormi qui, io dormo di là, in fondo al corridoio. Non c’è un granché  da capire- perfino per un continentale.”

Poso i bagagli a terra.

Esce dalla stanza e sento i suoi passi rimbombare sul pavimento di legno.

Mi guardo intorno.

C’è un letto a baldacchino, delle tende pesanti, uno scrittoio, un armadio intarsiato.

Non so perché, ma non mi sembra il suo stile.

In bagno ci sono anche gli asciugamani, sembra il Grand Hotel.

Senza dubbio un’ottima alternativa alla strada, considerando che non vedevo un letto da…49 ore, considerando il fuso orario.

La doccia è probabilmente l’esperienza più libidinosa della giornata.

Ho le ginocchia arrossate per il freddo.

Avvolto dall’asciugamano di spugna torno in camera e apro una delle borse.

Prendo una maglietta e un paio di mutande pulite.

Sollevo le pesanti coperte e mi metto a letto.

Spengo la luce e chiudo gli occhi.

Non capisco perché mi stia facendo dormire qui.

È un controsenso, no?

Non mi piace dormire da solo.

Si sa, il sonno della ragione genera mostri.

Questo luogo è inquietante.

Forse era meglio restare in giro fino al mattino e cercare un alloggio più adatto.

Non lo so cosa ci stia facendo qui.

Charles è un tipo davvero strano, potrebbe accadermi di tutto.

Ma non voglio restare qui.

Le tenebre sono abitate da fantasmi che voglio dimenticare.

Accendo di nuovo la luce ed esco dal letto.

Attraverso scalzo il corridoio, cercando di fare il minor rumore possibile.

Mi ritrovo davanti alla porta della sua camera.

Sopra, c’è inchiodata una targhetta con il numero 217. [1]

Che tipo simpatico.

Abbasso la maniglia.

La camera è buia, non si vede nulla al di fuori degli occhi lucidi del cane raggomitolato, con tutta probabilità, in fondo al letto.

Mi saluta con un guaito e si rimette a dormire.

Procedo a tentoni fino al bordo del letto. Inizio ad abituarmi al nero dominante.

Charles dorme sul lato sinistro, in posizione raccolta, fetale.

Mi distendo accanto a lui, sotto le coperte.

Emette un grugnito di dissenso.

Lo cingo con un braccio. Ha la carne tiepida, dorme senza niente addosso.

Porta dei boxer di cotone- molto macho.

Gli carezzo l’addome- ha il ventre gonfio per il troppo alcool, ma non è grasso.

Poso le labbra sulla sua nuca- ancora versi di disappunto.

Sfioro l’elastico di cotone, mi avventuro al di sotto.

Mentre lo sto toccando, Charles si sveglia di soprassalto.

Mi strappa via il braccio, mi tira una gomitata in piena pancia.

Sirius si sveglia e si allontana il più possibile da noi.

Mi assale, come una furia nera. Inizia a colpirmi come un cane rabbioso.

Mi ritrovo schiacciato sotto al suo peso, con le braccia bloccate.

Avvicina il suo volto al mio e mi scruta con gli occhi vivi di fantasmi.

Inizio a tremare, ho paura di quello che potrebbe farmi.

Non ho mai visto uno sguardo così.

Sta ansimando.

Mi stringe una mano al collo, come se volesse strangolarmi.

Si avvicina ancora di più- potrebbe strapparmi via un labbro o baciarmi, da qui.

“Non ci provare mai più, hai capito? Non ci provare mai più.”

Annuisco, sfiorandolo quasi.

Si alza di colpo e va in bagno.

Lo sento colpire le mattonelle che si frantumano al suolo, mentre mi si gonfiano gli occhi come non accadeva da tempo.

 

7.

Quando mi risveglio al mattino, il letto è vuoto, le tende spalancate.

È la sua camera, e si vede.

L’arredamento è minimo.

Tende di velluto, rosse.

Letto senza testiera, né baldacchino. Lenzuola, rosse.

Pavimento, nero e lucido.

Un solo comodino, dalla sua parte. Sopra c’è una sveglia, una di quelle con i campanelli, una confezione di aspirine, un tomo gigante di cui non riesco a leggere il titolo, da qui.

Mi sposto sul suo lato, e mi sembra di attraversare un campo elettromagnetico.

Proust, la Recherche. 

Sì, è decisamente un pazzo.

Sopra al letto c’è un enorme specchio.

Mi alzo in piedi, a fatica, e mi do una guardata.

Ho due segnacci violacei all’altezza del collo, una macchia nera su uno zigomo e, sotto la maglietta, una bozza all’altezza del fianco.

Tutto sommato, sono ancora intero.

Faccio per scendere, qualcosa mi lecca i piedi.

Accarezzo la testa del grosso cane, e lui si allontana per andare a scodinzolare davanti alla porta.

Insomma, mi tocca seguirlo, ancora dolorante.

Appena apro la porta Sirius corre giù per le scale e mi conduce, per un dedalo di corridoi, fino ad una stanza che scopro essere la cucina.

Charles è seduto al tavolo con una tazza fumante in una mano e un libretto nell’altra.

Alza lo sguardo quando mi vede arrivare, e lo riabbassa repentinamente.

Sirius corre dal suo padrone per farsi grattare la testa.

Figlio d’una cagna.

In the pot c’è del tea già pronto anche per te.”

Sobbalzo debolmente; parlando, mi sorprende.

“Non so dove sono le tazze e lo zucchero.”

“Le tazze sono dentro lo sportello sopra la tua testa; lo zucchero, nella madia. Fai come se fossi a casa mia.” mi risponde, senza staccare gli occhi dal libro.

Mi verso un’abbondante tazza di tea, e mi siedo sopra al tavolino davanti a lui, con le gambe a penzoloni.

Posa un braccio e il mento sopra al mio ginocchio, con la tazza ancora in mano.

“Scusa.”

I suoi occhi grigi hanno dentro tutto il cielo d’Inghilterra.

“Non ti preoccupare. Sono abituato ad essere trattato come una puttana.”

“Non è mia intenzione, trattarti come una puttana.”

“Cosa c’è nel tuo tea? Ha un odore strano.”

“Un giorno finirò le risposte ironiche da darti, sai? Ma, se vuoi ritenerla una fortuna, quel giorno è ancora lontano. È gin, comunque. Serve per farmi iniziare bene la giornata.”
”Finirai per ammazzarti da solo, sai?”
”Cose che capitano. Almeno conosco il mio assassino.”

“Che cosa atroce hai detto.”

“No, affatto. È che voi continentali non avete il senso dello humor.”

“Sì che ce l’abbiamo, solo che si chiama spleen.”

“Lo spleen e lo humor non sono la stessa cosa.”

“Si invece. Cosa vuol dire spleen in inglese?”

“Beh, milza. Quindi?”

“Quindi. Cosa fa la milza?”
”Un male cane quando corri?”

“Anche. Ma, soprattutto, secerne umori. Chiaro, no? Umori, humor. È la stessa cosa.”

“Che c’entra. Se io ho un cane e il cane ha le pulci, non significa necessariamente che anche io abbia le pulci. Non funziona così.”

Una donna con dei tacchi vertiginosi e un mini abito nero entra di corsa in cucina.

Ha le gambe sottilissime.

“Buongiorno, tesoro. Dove vai di bello?”

“Buongiorno, carogna. A scopare con qualcuno che non vada dietro a dei culetti bianchi. Dove sono le mie calze?”

“In frigo, dove le hai lasciate.”

Mi passa davanti sfrecciando.

“Perché in frigo?”

“Così non si smagliano.”

Si siede e si infila le autoreggenti davanti a noi.

Non indossa biancheria intima.

“Vado, ci si vede.”

“Non mangiare troppo sperma, che ti ingrassa.”
”Potrei rivolgerti lo stesso invito.”
”Ciao, tesoro.”

“Ciao, carogna.”

La donna esce così com’è entrata.

“…qui è quella?”

Quella è Constance, mia moglie. Adorabile, vero?”

“Quindi sei davvero sposato!”

“Un matrimonio di puro amore, non si vede?”

“Anche la moglie di Oscar Wilde si chiamava Constance.”

“E mia madre è irlandese. Pensa te.”

“Ma…dov’è stata finora?”
”Nella stanza accanto alla tua. Se ci avessi dormito te ne saresti accorto.”

Posa la tazza ormai vuota e mi prende in mano un piede.

Qua dentro è talmente caldo che sono ancora in mutande e maglietta.

“Guarda, hai il secondo dito più lungo del primo.”
”Si, lo so.”
”Allora non sei Lucifero, sei Venere. Hai anche i suoi stessi capelli.”

“Io li porto più corti.”

“Sei anche maschio, se è per questo.”

“Una volta l’ho vista, la Venere di Botticelli.”

“Oh, bello. E com’è?”
”Grassa.”

“Supponevo. Le donne italiane sono tutte grasse.”

“No, non è vero. Solo quelle dipinte lo sono. Sai che la donna rappresentata era l’amante di Giuliano De’ Medici? Doveva amarla molto, per volerla come dea della bellezza.”

“Magari era solo molto accondiscendente a letto.”

Rifletto un istante.

“Perché l’hai sposata, se non la ami?”

Inizia a solleticarmi sotto la pianta del piede. Cerco di trattenere le risate.

“Lascia stare, non è interessante, come storia. Imparerai a fare le domande giuste, prima o poi.”

“Cosa leggi?”
”…ecco, per l’appunto. Manon Lescaut, comunque. Conosci?”

“No, mai letto.”
”Male. Ti piacerebbe. Ti si addice perfettamente.”[2]

“Certo che sei strano, eh.”

“Era una domanda o una constatazione?”

“Una constatazione-“ “fai progressi allora” “ Stanotte stavi per uccidermi, e adesso mi tratti come un semidio.”
”So che c’è una domanda sottintesa, in tutto questo.”

“Perché?”

“Perché sei prevedibile.”

“No, intendo dire perché mi tratti così.”

Il suo sguardo si rabbuia e abbassa la fronte sulle mie ginocchia.

Non riesco a resistere dall’accarezzargli i capelli.

“Charlie.”
”Si.”
”Tu non sai come mi chiamo.”
”No, infatti.”

“Non vuoi saperlo?”
”No.”

“Perché?”

“Perché gli uomini chiamano per nome solo le cose che appartengono loro. Tu mi appartieni?”

“Beh…”

“Appunto.”

Gli sollevo la testa e ci guardiamo ancora negli occhi.

“C’è una domanda che devo ancora farti. È da un giorno intero che me la tengo dentro.”

“Spara.”

“Posso baciarti?”

 

 

 

 

 

 


[1] 217 è il numero della camera “stregata” in Shining, di Stephen King. Nell’omonimo film, il numero diventa 237. In questo senso, Charlie tiene fede al suo nomignolo di Messia dell’Incubo, così come King è il Re del Brivido.

[2] La protagonista del romanzo è una donna scaltra che non si fa problemi nel tradire l’amato pur di vivere in condizioni più agiate. Ironia a go-go, insomma. Tra l’altro, ho appena scoperto che viene citato anche nel Ritratto di Dorian Gray, mentre Dorian è in attesa di Lord Wotton. Quando si dice i casi della vita.



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Capitolo 3
*** Skin Deep. ***


L'altro giorno, leggendo il De Profundis, mi sono imbattuta in queste frasi:

"Non può esistere verità paragonabile al Dolore. A volte il Dolore mi pare essere l'unica verità. Altre cose possono essere illusioni dell'occhio o del desiderio, ma con il Dolore sono stati creati i mondi, e alla nascita d'una creatura umana come di una stella presiede il Dolore."

"...Il Piacere che vive per un attimo deve creare l'immagine del Dolore che dura per sempre."

Se questa fic deve nascere sotto al segno di Wilde, chi sono io per impedirlo?

Grazie a chi sta seguendo questa storia, spero di non deludervi.

 

 

 

8.

“Ripeto: tu, di domande, non sai proprio farne.”

Scosta la sedia dal tavolo e si alza in piedi.

I nostri volti sono alla stessa altezza.

Attira la mia testa verso la sua e si inclina leggermente a destra.

Ha le labbra sottili, come una ferita tagliente.

Mi apre le gambe per avvicinarsi di più.

Sa di alcool, ma non è sgradevole.

Ha la lingua ruvida, come se gliel’avessero raschiata con la carta vetrata.

Si avventa sulla mia gola, ancora segnata dalle sue dita, come a lenire le ombre violacee.

Quante labbra hanno già assaggiato, le nostre labbra?

Mi prende una mano, delicatamente, e la guida sotto al suo maglione a rombi.

Scivola dentro ai suoi pantaloni- mi stringe l’indice e attraverso un solco, lunghissimo, spesso, che si snoda lungo tutto l’inguine. La cicatrice è seminascosta, ma profonda.

“Che…che cos’è?”

“A sette anni ho provato ad auto-evirarmi.”

“Co-COSA?”

Tira un sospiro profondo.

“All’epoca io e i miei genitori condividevamo l’appartamento con mio zio e mia cuginetta. Io e lei avevamo un letto a castello, e mio zio dormiva in una brandina accanto a noi. Lui… era ubriaco, la maggior parte delle volte. Ma a volte accadeva anche quando era perfettamente lucido. I miei erano sempre fuori per lavoro, lavoravano come matti, anche di notte… Io…io mi sentivo disgustoso. Mi sentivo in colpa- non potevo dirlo a nessuno perché pensavo, non lo so, di essere una delusione. Ma a mia cugina non…lei non…lei no, a lei non accarezzava neppure i capelli, perché era una bambina, e io credevo che se fossi stato una bambina anche io forse…non lo so, era un gesto disperato, speravo di salvarmi in qualche modo. Io…tremavo come un filo elettrico, con quel coltello in mano. Ho trovato a…non lo so, estirparlo come si fa con un’erba cattiva, ma faceva troppo male, sono svenuto dal dolore. I miei mi hanno ritrovato immerso in un lago di sangue più morto che vivo. Sono stato in ospedale per tre settimane. A quanto pare le mie abilità di chirurgo mi avevano salvato la pelle- in tutti i sensi. È un miracolo che funzioni ancora tutto, là sotto.”

Continuo a percorrere la cicatrice col dito, incredulo.

“Al mio ritorno a casa mio zio e mia cugina erano scomparsi. Non ne abbiamo mai più parlato, con i miei. Spero solo che a mia cugina non sia accaduto nulla di brutto.”

Lo abbraccio e sento il suo volto bagnato sulla spalla.

“ ‘fanculo, dieci anni di terapia sprecati. Dovevo rimuoverlo per sempre.”

“Sono il primo a cui lo racconti?”

“A saperlo siete tu e Constance. Quindi si, sei il primo.”

“E agli altri cosa dici?”

“Operazione, qualcosa. Spesso non ci fanno neppure caso.”

“Perché lo hai detto proprio a me?”

“Perché ritieni interessante saperlo?”

“Perché è strano, che tu racconti il Fatto della tua vita ad un perfetto sconosciuto.”

“Forse è proprio per quello che te l’ho raccontato.”

“E Constance come l’ha notato?”

“Gliel’ho detto io. Faceva parte della cura.”

“Cura?”

“Constance è la mia analista.”

“…scusa, non mi tornano i conti.”

“Non farti ingannare dal suo aspetto, ha 42 anni.”

“EH?”

“Il freddo mantiene giovani. È come le sue calze.”

Questo posto è il regno del paradosso.

“Come ti è venuto in mente di sposare la tua analista?!?”

“Era una scommessa. All’epoca di La tua fine è il mio inizio, credevo che non avrebbe venduto neppure dieci copie. Lei invece era convinta che avrei superato qualsiasi cifra mai raggiunta nella storia della letteratura anglosassone. Così, le promisi che se avessi superato il milione di copie, l’avrei sposata. Insomma, m’è andata bene. Se le avessi promesso qualcosa per ogni milione, chissà come mi ritroverei ora.”

“Che storia assurda.”

“Lo so, è il mio lavoro.”

Nel frattempo gli accarezzo la pancia, buffa, gonfia.

“Che facciamo oggi, Chuck?”

“Che vuoi fare tu, Lucifero?”

“Beh, è la prima volta che vengo a Londra…avevo in programma di fare un giro per la città.”

“Giro panoramico, negozi o musei?”

“Cosa consiglia la Guida Britannica?”

“La Guida Britannica…beh, direi il British Museum. È una specie di tappa obbligatoria: è impossibile stare a Londra per più di 24 ore senza esser stati al British. C’è gente che c’è morta, per una cosa del genere.”

“Ah beh, e allora cosa aspettiamo?”
”Che tu ti metta addosso qualcosa, ad esempio.”

 

9.

“Non ci ho pensato prima ma…non hai paura di esser riconosciuto?”

“La gente ti riconosce solo quando hai il tuo nome scritto sotto alla faccia. E poi hai idea di quante persone visitino il British al giorno?”

Parcheggia l’automobile in un posticino striminzito lungo una strada secondaria.

“Non hai paura che la rubino?”
”Non me ne può fregar di meno, in tutta sincerità. È solo un’automobile, non ha valore in sé.”

Mentre lo dice chiude la vettura e si sistema gli occhiali da sole sul naso.

“E cos’ha valore?”

“Beh, l’amore ad esempio.”

“Ieri hai detto che l’amore non esiste.”
”Appunto.”

“Non riesco a capirti.”
”Qualità di voi continentali, non capire il nonsense.”

Attraversiamo la strada. Uno di quegli enormi autobus rossi rischia di tirarmi sotto.

“Ma sono sempre così spericolati gli autisti da queste parti?”

“E pensa che oggi è anche festa.”

“Quale festa?”
”Guy Fawkes Day.”

“Parlamene.”

“Per farla breve, qualche centinaio di anni fa dei tizi, tra cui tal Guy Fawkes, hanno provato a far saltare in aria il Parlamento. Ovviamente li hanno beccati e prontamente giustiziati. Così ogni anno, il 5 novembre, si fanno i fuochi d’artificio per festeggiare la congiura sventata.”

“Che cosa macabra.”

Remember, remember, the fifth of November!”

“Ho il timore che quest’aria umida vi dia alla testa. Forse vi fa crescere la muffa nel cervello.”

“Non è da escludersi, sai.”

Arriviamo davanti ad un edificio con la forma di un tempio greco, circondato da un’altra recinzione nera.

Davanti c’è un carretto con un omino che prepara hot dog.

Alle undici del mattino.

Et voilà, chèrie.”

“Tutto qui?”

“...cosa ti aspettavi ? ”

“Beh, non è il Louvre. È piccolo. ”

“Non è piccolo, è ben proporzionato.”

“…né i Musei Vaticani, né l’Hermitage…”

“E’ perfetto così. Nei musei troppo grandi va a finire che non si vede nulla. E poi al Louvre ci sono una marea di sezioni inutili. Qui, invece, c’è solo il meglio. Come si dice, all killer no filler.”

“Non è mica un CD.”

“Il principio è lo stesso.”

“Non ti facevo così nazionalista.”
”Non sono nazionalista, sono elitario. È diverso.”
”Non ti facevo così elitario.”
”Lo divento solo per le cose importanti.”
”Quindi esiste qualcosa di importante.”

“Dipende dall’ora in cui me lo chiedi.”

L’ingresso ha una copertura di vetro e acciaio e un’enorme costruzione di marmo al centro.

“Perché c’è ovunque il sigillo reale?”

“Perché zia Betta è così gentile da regalare a tutti i suoi sudditi- ed ospiti- la possibilità di visitare i suoi musei senza l’obbligo del biglietto. È una specie di pubblicità occulta.”

“Che donnina adorabile.”

Entriamo nella sezione greca ed egizia.

“E’ buffo.”

“Cosa?”

“Che ti chiami Forster.”

“Se sapessi il tuo cognome, potrei dire altrettanto.”

“No, no, per il cognome in sé.”

“Riesci ad esprimerti in inglese corrente o devo leggerti nella mente?”

“L’hai mai letto Maurice?”

Entriamo nella sezione persiana.

“Certo che l’ho letto.”

“Beh, c’è un capitolo che è ambientato proprio qui.”
”Sinceramente? Non me lo ricordo. Ero troppo occupato a detestare Maurice, durante la lettura.”

“Perché?”
”Perché è uno sciocco. Si lascia condizionare troppo dalla società e non sa gestire la sua omosessualità in maniera coerente. È una patetica donnetta.”

“A me piace, come personaggio.”

Nihil sub sole novum.”

“Perché sai il latino?”
”Perché l’ho studiato, che domande inutili fai.”

“Al liceo?”
”Macchè, da autodidatta. Non si studia mica il latino, qui. A scuola ti insegnano solo a rollare una canna con una sola mano e a scopare comodi in bagno. Adesso che ci penso, non è mica poco.”

“Ti sei messo a studiare il latino da solo.”
”Ho avuto un sacco di tempo libero, da qualche anno a questa parte.”

Ci ritroviamo nella sala dei marmi del Partenone.

È più fredda, rispetto alle altre.

Una bimbetta bionda con un ciuffetto in testa corre da un capo all’altro della sala canticchiando una filastrocca in tedesco.

“Guarda quel cavallo, sembra vivo.”

L’animale di marmo mi guarda con un occhio vuoto, colmo di terrore per la morte imminente.

“Non pensavo potesse essere così inquietante, da vicino.”
”Un sacco di cose sono inquietanti, viste da vicino.”

Busti di filosofi, mummie egizie, porcellane, marmi.

Due ragazze parlottano tra di loro e ci indicano di soppiatto.

“Le conosci?”
”No, ma temo loro conoscano me. Infatti.”

Le ragazze si avvicinano con una fotocamera in mano.

“Fa il disinvolto.”

“Cioè?”

Mi attira a sé per il bavero della giacca e mi soffoca la risposta con le sue labbra.

Avverto il flash della fotocamera sul volto.

Apro un occhio e le ragazze sono scomparse.

Una signora impellicciata si allontana indignata.

“Complimenti, Rosso, hai appena vinto la tua prima copertina del Sun.”

“EH?”
”Quanto tempo credi impiegheranno per rivendere la foto ai tabloid? Adoro il voyeurismo degli inglesi, mi fa sentire importante.”

“Ma…tu sei completamente svitato.”

“Potevi pensarci prima di farti rimorchiare in un pub da quattro soldi, Afrodite.”

La mummia decomposta dietro al vetro ci osserva perplessa.

Ho un brontolio allo stomaco.

“Complimenti, non è da tutti farsi venir fame in un frangente del genere.”

“Non ho mangiato un gran che, ieri.”

“Beh…” estrae il portafoglio “ …io ho venti sterline in tutto, riesci a trattenere gli appetiti più forti fino a stasera?”

“Mi sforzerò. Ma tu non eri quello fantamiliardario?”

“Certo. Il problema è che i soldi li gestisce la mia agente.”

“Chi è la tua agente?”

“Prova ad indovinare.”

“…no.”

“Si.”

“…no, non è possibile.”

“Si, invece.”

“No.”
”Si. Avanti, dillo.”

“…Constance.”

“Esatto.”

“Quella donna ti tiene per le palle.”
”Diciamo che glielo permetto. Ripongo più fiducia in lei che in me, ho grandissima stima di lei-“ “non si direbbe da come vi trattate” “-siamo come due orsi, ci dimostriamo affetto azzuffandoci. Comunque, oggi è giorno di paga.”

“A questo punto non so davvero cosa dire.”

“Io propongo una vasta gamma che spazia tra “Mi andrebbe tantissimo un hot-dog”, “Tutto quel che vorrei è un panino del Pret” e “Salto volentieri il pranzo in vista di una cena luculliana.” ”

“Fish’n’chips? Non si potrebbe avere?”

Stiamo già scendendo le scale bianche, alla ricerca dell’uscita.

“Turisti, siete tutti uguali. Pensate che qui ci si nutra solo di tea e fish’n’chips.”

“Non è così?”

“Dimenticate spesso il pudding. E il gin.”

Fuori è freddo, come c’era da aspettarsi.

Sembra quasi che la brina sia sospesa in aria; una nebbia solida che ti scuote quando la attraversi.

Mi tira per mano.

“Vieni, da questa parte. Conosco il posto perfetto.”



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Capitolo 4
*** Anime Salve. ***


Chiedo scusa per questa lunghissima assenza dalle scene, ma la mia Musa è sembrata abbandonarmi per un po', e non credo si sia di nuovo del tutto stabilizzata.

Sta a voi deciderlo, insomma.

E' un vero piacere sapere di esser seguita con tanto affetto.

 

 

 

 

10.

È buffo, non m’era mai capitato di esser condotto per mano.

Ma lui sembra non farci caso.

“Perfino Virgilio guida Dante per mano, nei passaggi più ardui.”

“Virgilio…?”

“Che diamine ci sei stato a fare in Italia “ dice “ se non conosci neppure la Divina Commedia?”

“Ci sono stato per lavoro, non è colpa mia. Non ho avuto modo di studiarla approfonditamente.”

“Sai almeno di cosa parla?”

“Di Dante che attraversa i tre regni dell’oltretomba fino ad arrivare alla Visio Dei?”
”Oh, almeno quello. E saprai anche che in questo viaggio viene guidato da varie figure.”

“Beh, suppongo di si.”

“Non puoi supporre di sapere qualcosa. O la sai, o non la sai.”

“Si, lo so.”

“Ottimo. La prima di queste guide è Virgilio. Eneide, Bucoliche, Georgiche… presente?”

“Si, si, certo.”

“Virgilio incarna per Dante il modello della Sapienza umana ed è destinato a guidarlo attraverso Inferno e Purgatorio, facendosi strada con il lume della sua Ragione. Procedendo avanti a Dante, gli rischiara il percorso e gli permette di depurare il suo animo- sebbene sia egli stesso costretto all’Inferno.”

“Quindi Virgilio salva Dante pur essendo dannato?”

“In un certo senso. Lo conduce, ecco tutto. Il resto sta a Dante.”

“Illuminante.”

Le stradine appaiono tutte uguali ai miei occhi, ma Charles sembra districarle abilmente.

Sembra di esser dentro ad uno di quei racconti di Dickens.

Manco a dirlo, arriviamo di fronte al Dicken’s Pub.

“E’ uno dei primi pub di Londra. Fanno un fish’n’chips che è la fine del mondo.”

Dentro c’è un buon numero di turisti, assemblati sui tavoli al centro del locale.

“Vieni, dietro c’è una saletta riservata ai londinesi. Avrai questo grandissimo onore, oggi.”

La stanzetta è più buia rispetto al resto del locale, ed è semi vuota.

Le tende sono semi tirate.

Caravaggio, Vocazione di San Matteo.

Mi rincresce non averlo visto di persona, a Roma.

Avrei qualcosa di cui parlare, ora come ora.

Charles è silenzioso.

Non si direbbe, ma è uno che parla poco.

Pensa molto, ma parla poco.

Discorsi di tipo qualitativo, dice lui.

Arriva una ragazza, bionda, con una coda di cavallo alta.

Dietro la nuca ha allacciata una mascherina con il volto di Guy Fawkes.

Indossa un paio di pantaloni neri avvitati e una camicetta bianca un po’ sbottonata.

“Desiderate?”

“Due fish’n’chips e due pinte di birra, grazie.”

“Io non la voglio la birra.”

“Non è per te, è per me.”

“Torno subito.”

“Grazie, tesoro.”

Si allontana.

È giovane, è carina.

È chiara e delicata come un giglio.

Charlie tira fuori dalla tasca un taccuino nero e inizia a graffiarci dentro con una matita dalla punta smussata.

“Cosa scrivi?”

“Consonanti, vocali. Cose di poco conto.”

“Ispirazione?”
”No, noia esistenziale.”

“Ti annoio io?”
”Mi annoia il resto del mondo.”

“Sei sempre così negativo?”
”Solo nei giorni dispari.”

“Sai che non ho mai letto neppure una parola scritta da te?”
”Sei fortunato. Io le ho dovute legger tutte.”

“Non ti piace quello che scrivi?”
”Non mi interessano le cose che mi riguardano. Non hanno il gusto della novità.”

“Questa l’ho già sentita.”
”Si, è un tantinello famosa.”

“Comunque non capisco perché scrivi, se non ti piace.”

“Ma ti pagano o ti viene spontaneo?”
”Mi viene spontaneo.”

“Lo immaginavo.”

La ragazza torna con due boccali biondi e il conto.

Charlie paga e si prende il resto.

“Grazie, Chuck.”

“E di cosa. Ho detto che ti avrei mantenuto per un po’, isn’t it?”
”Sono una puttana educata.”
”Troppo. Rilassati. Non sto mica tenendo il conto di quante volte dici Grazie e Per favore. Non sono tua madre.”

“Sei un tipo strano.”

“Grazie, Rosso, finalmente l’ovvio è chiaro a tutti. E ti ho già detto che non ti considero una puttana. Non più di altra gente, almeno.”
”Tipo?”
”Beh, tipo me. Sai, io sono una puttana come e più di te. Guardami” si indica la faccia “sono un buffone che si danna l’anima per un po’ d’attenzione. Il mio ego menomato mangia più di quel che riesco a procurarmi svendendo il culo. Almeno la tua anima è salva.”

“Potresti smettere.”

“Di scrivere? Non posso. Finirei per andare ad ammazzare la gente per strada. Devo far sbollire la rabbia, in qualche modo.”
”Però detesti scrivere.”

“Si, lo so. Ma non posso farne a meno. Se smetto di scrivere, è finita-“

“- e se continui ti riduci ad un relitto.”

“Già. To be or not to be? Abbiamo la tragedia nel sangue, noi inglesi.”
”Però Amleto era danese.”

“Sempre a puntualizzare, eh?”
Arriva il cibo.

Il giglio mi sorride e si allontana di nuovo.

Charles spreme il tubetto di maionese sulle patatine.

“Vuoi?”

“No, grazie.”

È la prima volta che lo vedo mangiare.

Credevo si nutrisse di alcool.

Invece mangia proprio come vive: a tratti voracemente, come se rischiasse di dover morire da un momento all’altro, e a tratti con una calma ed una languidezza disarmanti.

“Secondo alcune teorie” gli dico, mentre ha in bocca un enorme pezzo di pesce “ si può capire com’è una persona a letto dal modo in cui mangia.”
”Le lesbiche patate e i finocchi uccelli?”
Come mangia, non cosa. Che battutaccia scontata che hai fatto.”

“Al momento sono concentrato su tutt’altro.”

“Ad esempio?”
”Preferisci Rame bruciato dal sole o Mare di papaveri?”
”Cosa dovrebbe voler dire?”
”Dai papaveri si produce l’oppio, che annebbia i sensi, quindi…no, facciamo Rame bruciato dal sole.”

Beve una sorsata e si ficca in bocca delle altre patatine.

Ha la faccia tanto rotonda che sembra quasi stia per esplodergli.

“Dove andiamo dopo pranzo, Chuck?”
”Vuoi continuare per musei o cosa?”
”Non so, sono un po’ stanco. Non ho dormito molto ultimamente.”

“I giovani d’oggi non hanno più neanche la forza di respirare. Però dopo usciamo a vedere i fuochi d’artificio. Non me li perdo per niente al mondo.”

 

11.

Ai bambini, quando mangiano tantissimo, si gonfia lo stomaco, come se fossero dei buffi palloncini rivestiti di pelle.

Così capita a me.

Sono sdraiato sulle lenzuola rosse e ho lo stomaco gonfio.

Charles s’è addormentato a faccia in giù sul cuscino.

Ha un’espressione corrucciata perfino quando dorme- mi ha preso tanto in giro perché ero stanco e appena ha visto il letto ci si è buttato a pesce.

Non si è neppure tolto le scarpe.

“Charlie.”
”Mh-m.”
”Dormi?”
”Si.”

“Non dormire, mi annoio.”
”Leggi qualcosa. Gioca con Sirius. Fatti una sega- basta che mi lasci dormire.”

“Dov’è finita la tua Forza per respirare?”
”In fondo al quarto boccale di birra. Pietà, Galata, lasciami dormire.”
ha una voglia triangolare color caffé dietro la nuca.

Stuzzicarlo è, ça va sans dire, immensamente divertente.

Solleva appena la testa e mi guarda con gli occhi umidi.

Si gira su di un fianco e si stropiccia la faccia.

“Sembriamo una coppia sposata da cent’anni- la mogliettina amorevole e il vecchio beone.”

“E non sai come mi chiamo.”

“I mariti non conoscono mai le proprie mogli- ma nel mio caso posso affermare tranquillamente l’esatto contrario.”

Allunga la mano e si mette a giocherellare con i miei capelli.

Mi avvicino e spreme la sua bocca sulla mia.

In un secondo sono di nuovo bloccato sotto al suo corpo robusto, come stanotte- ma stavolta non ho paura.

So perfettamente cosa accadrà, ora.

 

 


Chi mi conosce sa già che non riesco a scrivere nulla senza ficcarci dentro almeno una mezza dozzina di citazioni. Per chi non mi conosce, beh, ora lo sa.

Sono perseguitata da Oscar Wilde, non posso farci nulla.

Happy Birthday, Freds. Just Nineteen and Sucker's Dreams.

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