Everything and nothing

di miseichan
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Ossimoro ***
Capitolo 3: *** In rosso ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


prologo

Tutto e niente

 

Prologo

 

- Perché tu mi odi?-
Lui non si girò, ignorando il grido che gli era arrivato alle spalle.
Non aveva intenzione di rispondere, né tanto meno di fermarsi: continuò a scendere le scale, raggiungendo il pianerottolo immerso in un buio quasi totale.
Sentì i passi veloci dietro di sé: quelli di qualcuno che scende di corsa, facendo gli scalini due a due.
Si girò giusto in tempo: proprio quando lei inciampò, scivolando sull’ultimo scalino, quello più umido degli altri. Lei gli volò fra le braccia, spingendolo senza volere a sbattere con la schiena contro il muro. Eppure lui sembrò non farci caso: strinse ancora un po’ il corpo della ragazza fra le braccia, contento in parte di averle evitato la caduta. Dopo pochi istanti la allontanò però, chiudendo gli occhi e smettendo di ascoltarla: la domanda era sempre la stessa, quella a cui non avrebbe risposto. Avrebbe potuto dire che non era vero: che non la odiava. Ma avrebbe mentito.
Riaprì gli occhi, tornando ad osservarla: lei lì davanti a lui, tremante dal freddo, con indosso solo un reggiseno ed un paio di slip rossi coordinati. Cercò di non pensare a quel tremore, ma per quanto volesse fingere che non gliene importava, non poteva certo non fare niente: si tolse la giacca, con un movimento lento e deciso, per poi poggiarla sulle spalle di lei.
Mentre avvolgeva l’indumento attorno al corpicino di lei i loro occhi tornarono a fondersi: gli uni negli altri, quelli dolci e verdi di lei in quelli blu e profondi di lui. Ma nulla cambiò, e nessuno dei due si sarebbe aspettato il contrario: era troppo tardi, anche solo per sperare.
Lui mosse piano il capo verso le scale, facendole segno di tornare di sopra, per poi girarsi e stringere le dita attorno alla maniglia della porta.
- Danny, perché?-
Le nocche di lui sbiancarono tanta la forza che usò su quel piccolo pomo d’ottone, mentre quella voce gli giungeva di nuovo alle orecchie: ora non c’era più ostinazione solo tristezza nel tono di lei.
Era un modo per sfogarsi il suo, per cacciare un po’ di rabbia: avrebbe potuto fare a pezzi il piccolo oggetto che stringeva tanto il risentimento ed il dolore che provava in quel momento.
Che avrebbe dovuto rispondere?
Perché non è per me che sei vestita così.
Perché è colpa tua se sto soffrendo.
Colpa tua se ora anche solo respirare mi è doloroso.
Colpa tua se la storia si ripete.
Avrebbe dovuto ricominciare, ancora una volta, e non riusciva a farsene una ragione.
Aprì la porta, uscendo sotto la pioggia scrosciante e richiudendosela veloce dietro, senza guardarsi indietro. Non lo avrebbe fatto. Ed era giusto così: la storia si sarebbe ripetuta, ma solo fino ad un certo punto.
Alzò il viso per accogliere meglio le gocce d’acqua: sentendole scorrere con piacere sulle palpebre, lungo le gote, giù per il collo… gli davano un senso di vita, di appagamento.
E ad occhi chiusi si avviò lungo il marciapiedi, con le mani scese nelle tasche e i vestiti già fradici incollati addosso.
Ma non gli importava. Niente più aveva senso.
L’unica cosa a cui riusciva a pensare era che non aveva risposto alla domanda, nemmeno con sé stesso: perché sapeva che era doloroso anche solo pensarlo. Non poteva mentirsi da solo però.
La verità era che si sarebbe vergognato a rispondere, perché in quel modo avrebbe solo dimostrato ancora una volta come tutto fosse sbagliato, e come lui fosse in realtà solo un grandissimo stupido… perché lo era, niente da ridire.
Non credeva possibile che ancora una volta, la risposta giusta fosse:
“Perché ero innamorato”
E invece era proprio così: la dura, orrenda, atroce verità.
La stessa che non aveva voluto ammettere, né a se stesso né con lei.
La verità e la risposta che non aveva dato e che non avrebbe più dato.
Mai.

 

*

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Capitolo 2
*** Ossimoro ***


ossimoro

Tutto e niente

Ossimoro

 

Ossimoro
Scorse con gli occhi la pagina che aveva davanti finché non trovò la definizione che cercava: “Figura retorica che consiste nell’accostare due parole dal significato opposto”.
Con un sospiro tornò a prendere in mano il cellulare per rileggere il messaggio arrivatole pochi minuti prima, ancora aperto al centro dello schermo:
“Ehy, dolce ossimoro mio, siamo tutti al bar. Ci raggiungi?”
Non ebbe bisogno di controllare il mittente per capire che ad inviarglielo era stato Roberto: era l’unico capace di fare una cosa del genere, l’unico per altro con cui era necessario avere un dizionario alla mano per seguire una conversazione.
Era il suo genietto preferito, il suo migliore amico. Il tipico ragazzo che nessuno prenderebbe mai per un cervellone, almeno finché non lo sente parlare. E lei lo sentiva parlare sempre, ogni giorno,  da più di quattro anni, ma la cosa non la disturbava anzi: molte, troppe volte si era chiesta come avrebbe fatto senza di lui.
Non era il caso di pensarci ora però, come non avrebbe dovuto pensare che nel “tutti” era incluso anche lui. Lo sapeva: era certa che in quel bar ci sarebbe stato, e non era difficile arrivare a quella conclusione quando il bar è in realtà l’unico bar.
Con un gesto nervoso chiuse il vocabolario, alzandosi dal letto e prendendo un bel respiro.
Era sabato sera: non sarebbe rimasta chiusa in camera, nemmeno se nell’unico posto in cui sarebbe potuta andare, quello dove inoltre avrebbe anche incontrato tutti i suoi amici, c’era lui.
Afferrò rapida il giubbino di jeans appeso ad un gancio sulla porta e iniziò a scendere le scale, dopo essersi brutalmente chiusa la porta alle spalle. Si ritrovò davanti alla porta del locale quasi senza rendersene conto: in fondo le capitava spesso, abitando nella casa direttamente sopra, di arrivare a destinazione così rapidamente da rimanerne pressoché spiazzata. Si specchiò per un attimo nel vetro della porta, portando la lunga ciocca di capelli rossi dietro l’orecchio: era la sola che avrebbe potuto sistemare, l’unica che stonava, il resto dei capelli erano neri, tagliati in un caschetto scalato.
Adorava la sua ciocca rossa, come adorava ogni sua più piccola parte trasudante originalità: dai numerosi buchi per orecchio, ai tatuaggi piccoli e discreti, al modo di vestire, per finire con la ciocca colorata.
Non avrebbe potuto fare a meno di nessuna di quelle cose, perché erano parte di lei: parte di Irene.
Era una ragazza particolare, ma non di per sé: a prima vista appariva anzi troppo normale, statura nella norma, magra, capelli neri. A farla rientrare ancora più nella normalità c’era poi una quasi eccesiva timidezza, che la confinava in un mondo piccolo e tutto suo.
Irene però odiava la normalità, così come odiava la propria riservatezza ed introversione.
Non sopportava di conformarsi alla massa, senza alcuna possibilità di distinguersi. Perciò aveva deciso di uscire dal gruppo, cambiando l’aspetto esteriore, pitturando i capelli, bucando i lobi, tatuandosi… indossando capi che attirassero l’attenzione. Perché lei non era come tutte le altre e quello che la timidezza le toglieva, lo avrebbe compensato la sua originalità.
O almeno così la pensava, questo era quello a cui aveva bisogno di credere.
Aprì la porta ed espirò pesantemente al tempo stesso: la sala che le si aprì davanti la conosceva benissimo. Era la sala di ritrovo del suo paese: quella dove ogni pomeriggio, ogni sera, e naturalmente ogni fine settimana si ritrovavano tutti gli under quaranta di quel buco di città.
Se città si poteva definire la sua, no probabilmente no: era un paese, di quelli vicinissimi al mare, pieni di odore di salsedine, con un clima bellissimo e un panorama ancora più bello. Di quelli in cui il numero degli abitanti è così basso che inizi a temere siano tutti parenti. Per fortuna non era così, e il fatto che si conoscessero tutti non implicava un legame di sangue.
Irene prese un bel respiro, aspirando il miscuglio di salmastro ed alcol che impregnava il luogo: ricoprendo velocemente con lo sguardo tutti i tavoli, le pareti beige, i tappeti colorati. Accolse felice il mormorio di sottofondo, il rumore di bicchieri che si scontravano, le risate provocate per lo più dalla birra: era il suo ambiente, una seconda casa.
Una mano nell’angolo in fondo a destra attirò la sua attenzione: individuò subito in mezzo ad un gruppo di teste quella del suo Rob, in pochi passi lo raggiunse, sedendosi al suo fianco.
Il viso di lui si illuminò vedendola, e dopo averle scoccato un veloce bacio sulla guancia iniziò uno dei suoi soliti monologhi: tipico di Rob, cominciare immediatamente a parlare, senza prendere mai fiato; forse per questo erano tanto amici: si compensavano, il silenzio di lei e la parlantina di lui.
Irene si accomodò per bene sul divanetto, facendo aderire la schiena e allungando le gambe: non era necessario ascoltare Rob, bastava annuire di tanto in tanto. Mentre lo osservava, prese fra le dita i capelli di lui: erano lunghi e biondi, li portava legati in una coda e Irene adorava giocherellarci, lo trovava rilassante. Annuì sentendolo incepparsi un po’ con le parole, poi però il discorso tornò a scorrere veloce e fluido: lei gli sorrise, senza ancora aver capito di cosa stesse parlando veramente.
Lasciò vagare lo sguardo, non indugiando su nessuno in particolare, senza soffermarsi su alcun discorso in particolare, sorridendo in risposta ai numerosi saluti che le venivano rivolti, e poi lo vide. Fu quando i suoi occhi si fermarono su di lui che capì di starlo cercando: era seduto al tavolo dirimpetto al suo, dal lato opposto del locale. E rideva. Come solo lui sapeva fare.
Irene si pentì di essere scesa, di aver raggiunto Roberto, di stare lì: perché guardandolo si faceva solo del male, ma non poteva farne a meno. Le era impossibile non fissare lo sguardo su di lui.
Perché lui era Daniele.
Daniele Venturi.
Anche solo pensare al suo nome era come una doccia fredda.
Daniele… non era un ragazzo bellissimo, di quelli che si associano ai semidei, con il fisico scolpito e il viso d’angelo. No, lui era normale ed al tempo stesso assolutamente speciale.
Il suo essere unico non derivava dalla bellezza, alquanto nella norma, ma dal fascino che aveva: come si muoveva, come parlava, come rideva, anche semplicemente come ti guardava.
Tutto di lui era eccezionale. Era quel tipo di ragazzo che sprizza carisma da ogni poro, quello che trascina le folle con una sola parola, quello che avrebbe potuto diventare presidente un giorno.
Perché Daniele era simpatico, intelligente, dolce, perspicace, comprensivo, empatico, tutto. Era semplicemente tutto. Il ragazzo perfetto.
Ed era stato il suo ragazzo: un tempo era di Irene, lo era stato per più di un anno. Suo, unicamente suo. E lei non riusciva a capacitarsi che ora non lo fosse più.
- L’hai capito il mex?-
Aveva sentito la voce, ma ci aveva messo un po’ a capire che ce l’aveva con lei e che era quella di Roberto: si voltò a guardarlo incontrando il suo sguardo interrogativo.
- Come scusa?-
La voce di lui divenne divertita mentre ripeteva la domanda:
- Il messaggio, lo hai capito?-
- No, perché mi dai dell’ossimoro?-
Chiese lei sorridendogli e lasciando andare i capelli di lui per prendere la sua birra e berne un sorso.
La risposta non si fece attendere, cogliendola di sorpresa:
- Perché la tua vita è un ossimoro, tesoro-
Irene avrebbe voluto controbattere, dicendo di non aver ancora capito, e giungendo alla fine ad avere la completa spiegazione da parte dell’amico. Ma non  ribattè, per colpa di uno stupido errore che aveva fatto: si era girata di nuovo in direzione di Daniele, accorgendosi solo in quel momento del braccio di lui stretto saldamente attorno ai fianchi di un’altra.
Fu come ricevere una coltellata: fredda e dritta fra le costole. Mentre osservava meglio la scena poi fu come se la lama le venisse lentamente girata dentro, provocandole un dolore sordo e via via sempre più grande e profondo.
Aveva sentito dire che si era messo con un’altra: non aveva ancora visto con i suoi occhi però.
Osservò lei: bionda, occhi blu, gambe lunghe. Perfetta, come lui. Per qualche assurdo motivo si ritrovò a pensare che avrebbero avuto dei figli stupendi e quel pensiero riuscì solo a farle venire la nausea. Sentì la mano di Roberto accarezzarle il viso, provando a farglielo girare, per farle smettere di guardarli: di vedere lui che baciava lei, stringendola a sé, mangiandosela con gli occhi.
Non era sicura di cosa stesse provando: gelosia, invidia… qualunque cosa fosse faceva male: tanto, davvero tanto male.
Irene però non era come le altre: voleva sempre distinguersi, uscire dal gruppo. Non avrebbe mai accettato di soffrire come fanno tutte le ragazzine, lasciate dal ragazzo che piangono vedendolo sbaciucchiarsi con la barbie di turno.
No, lei non avrebbe pianto, non si sarebbe compatita.
E poi, anche questa volta lei era diversa: se soffriva non era perché lui l’aveva lasciata.
No, questa volta era diverso: in qualche modo si sarebbe distinta almeno.
La colpa infatti era unicamente e totalmente sua.

 

*

 

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Capitolo 3
*** In rosso ***


in rosso

Everything and nothing

In rosso

 

- Buongiorno, scricciolo!-
Irene strinse ancora di più il cuscino a sé, nascondendoci il volto all’interno e tirando le coperte fin sopra la testa. Aveva già sentito la sveglia, ora ridotta quasi in fin di vita ai piedi del suo letto, adesso non sarebbe certo stato Roberto a convincerla ad alzarsi.
Eppure il suo coinquilino non era il tipo che si arrendeva tanto facilmente: Irene sentì il materasso inarcarsi a causa del peso di un nuovo arrivato, e poi due mani forti tirarono via il piumone con un movimento deciso. Lei in risposta si raggomitolò a riccio, cercando di mantenere un po’ del calore che aveva, ma ben presto il freddo ebbe la meglio, costringendola a mettersi a sedere.
Roberto ricambiò il suo sguardo omicida con un sorriso, per poi offrirle con espressione candida un bicchiere di caffè fumante; a quel punto Irene non riuscì più a tenergli il broncio e preso il caffè gli concesse un minuscolo e fugace sorriso.
- Sono passati tre giorni-
Disse lui con voce seria, guardandola di sottecchi, pronto a studiarne ogni reazione.
Ma lei rimase indifferente: sapeva a cosa si riferiva, e proprio per questo faceva finta di niente. Erano passati tre giorni dalla sera in cui aveva visto Daniele con la sua nuova ragazza, tre giorni da quando lo aveva visto baciarsi con un'altra, tre giorni da quando si era sentita il cuore andare letteralmente in frantumi.
Non le andava di pensarci, non le andava di commentare né tantomeno di parlarne.
Si sentiva da schifo, e quelle settantadue ore passate quasi totalmente a letto non le avevano giovato più di tanto. Si era rifiutata di far entrare Roberto fino a quella mattina, in cui non era riuscita più ad opporsi, e ora lui era lì, seduto di fianco a lei, tutto sorridente e comprensivo.
Irene scosse la testa ad un suo tentativo di iniziare a parlare, con fare perentorio gli ingiunse di non proferire nemmeno una parola. Lui allora annuì convinto, porgendole semplicemente una lettera.
Lei la prese curiosa e aprì il foglio per capire di cosa si trattasse, dovette rileggere diverse volte prima di accettare e realizzare cosa c’era scritto: secondo quella pagina non avevano pagato le bollette, nessuna, e se non avessero provveduto al più presto si sarebbero ritrovati senza corrente né acqua né altro. In poche parole erano in rosso.
Irene sgranò gli occhi, fissando Roberto davanti a lei che continuava stranamente a sorridere:
- E’ uno scherzo?-
- No-
Rispose lui innocentemente, prima di scoppiare a ridere e continuare a parlare:
- Siamo senza il becco di un quattrino, scricciolo-
Irene sentì il cuore rallentare i battiti paurosamente mentre assimilava per bene quell’ultima informazione.
Com’era possibile?
Avevano sempre avuto i soldi. Avevano sempre pagato in tempo.
Come aveva fatto a non rendersi conto di come la situazione finanziaria fosse drasticamente peggiorata?
Rialzò lo sguardo sul giovane che aveva davanti: fissò gli occhi in quelli blu di lui, resi ancora più chiari dalle spesse lenti degli occhiali, non trovandoci alcun accenno di presa in giro, passò alla bocca, aperta in un ampio sorriso, che lasciava intravedere la macchinetta argentata fatta di stelline posta sui denti bianchi, ma anche lì non trovò alcun conforto. Con un movimento quasi involontario quanto dovuto tirò la coda dell’amico, rimproverandolo prima con lo sguardo e poi a parole:
- Perché non mi hai avvertita del disastro in cui ci stavamo andando a cacciare?!-
L’altro fece spallucce, come se la cosa non fosse poi così importante, per ribattere successivamente con voce calma e pacata:
- Non è così drastica la situazione, Ire! Hai presente dove abitiamo vero?-
Lei strinse gli occhi cercando di capire dove volesse andare a parare, e lui allora preso un bel respiro riprese il discorso, andandole in aiuto:
- E’ un bel palazzo, e il nostro appartamento si trova direttamente sopra il bar più frequentato del paese. La casa è grande: ci sono niente meno che altre tre camere oltre le nostre, e se mi lasci venire a dormire qui con te, possiamo mettere anche la mia a disposizione e…-
Irene aveva capito le intenzioni dell’amico e spalancato gli occhi a quella rivelazione. Lo interruppe di botto, non lasciandogli terminare la frase:
- Vuoi subaffittare?! Ma sei pazzo? A parte il disagio che si creerebbe ma a chi vuoi che interessi?-
Roberto sbuffò infastidito prima di rispondere lentamente, come se stesse parlando con una bambina:
- E’ un posto strategico questo e lo sai: con dieci minuti di treno si arriva all’università. Non credi che tantissimi nostri compagni di corso ucciderebbero per essere fortunati come noi? E per il disagio pazienza Irene! Vuoi mangiare e tutto il resto, o no? Se la cosa non ti interessa…-
 La ragazza iniziò  a mordersi nervosamente la ciocca di capelli rossa mentre lui con un sorriso ancora più smagliante lasciava la stanza. Irene si lasciò andare all’indietro, cadendo di peso sul materasso che rimbalzò al forte impatto, ma lei non ci fece caso.
L’unica cosa a cui in quel momento riusciva a pensare era che la sua bellissima casa: quella che fino a quel momento aveva diviso solamente con un genietto maniaco della pulizia, presto sarebbe stata profanata da niente di meno che altre quattro persone!
L’ultima consolazione era che probabilmente nella baraonda caotica che ne sarebbe venuta fuori avrebbe avuto ben poco tempo per pensare a lui.

 

*

 

E’ una storia pazza questa, partorita dalla mia mente contorta durante le ore di scuola: deve ancora ingranare, ma la situazione si movimenterà e non poco xD

Non è granché e lo so, probabilmente sa di già visto, ad ogni modo mi diverte, e spero farà sorridere anche altri **

Fatemi sapere che ve ne pare ^^

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