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- Perché tu mi odi?-
Lui non si girò, ignorando il
grido che gli era arrivato alle spalle.
Non aveva intenzione di
rispondere, né tanto meno di fermarsi: continuò a scendere le scale,
raggiungendo il pianerottolo immerso in un buio quasi totale.
Sentì i passi veloci dietro di
sé: quelli di qualcuno che scende di corsa, facendo gli scalini due a due.
Si girò giusto in tempo: proprio
quando lei inciampò, scivolando sull’ultimo scalino, quello più umido degli
altri. Lei gli volò fra le braccia, spingendolo senza volere a sbattere con la
schiena contro il muro. Eppure lui sembrò non farci caso: strinse ancora un po’
il corpo della ragazza fra le braccia, contento in parte di averle evitato la
caduta. Dopo pochi istanti la allontanò però, chiudendo gli occhi e smettendo
di ascoltarla: la domanda era sempre la stessa, quella a cui non avrebbe
risposto. Avrebbe potuto dire che non era vero: che non la odiava. Ma avrebbe
mentito.
Riaprì gli occhi, tornando ad
osservarla: lei lì davanti a lui, tremante dal freddo, con indosso solo un
reggiseno ed un paio di slip rossi coordinati. Cercò di non pensare a quel
tremore, ma per quanto volesse fingere che non gliene importava, non poteva
certo non fare niente: si tolse la giacca, con un movimento lento e deciso, per
poi poggiarla sulle spalle di lei.
Mentre avvolgeva l’indumento
attorno al corpicino di lei i loro occhi tornarono a fondersi: gli uni negli
altri, quelli dolci e verdi di lei in quelli blu e profondi di lui. Ma nulla
cambiò, e nessuno dei due si sarebbe aspettato il contrario: era troppo tardi,
anche solo per sperare.
Lui mosse piano il capo verso le
scale, facendole segno di tornare di sopra, per poi girarsi e stringere le dita
attorno alla maniglia della porta.
- Danny, perché?-
Le nocche di lui sbiancarono
tanta la forza che usò su quel piccolo pomo d’ottone, mentre quella voce gli
giungeva di nuovo alle orecchie: ora non c’era più ostinazione solo tristezza
nel tono di lei.
Era un modo per sfogarsi il suo,
per cacciare un po’ di rabbia: avrebbe potuto fare a pezzi il piccolo oggetto
che stringeva tanto il risentimento ed il dolore che provava in quel momento.
Che avrebbe dovuto rispondere?
Perché non è per me che sei
vestita così.
Perché è colpa tua se sto
soffrendo.
Colpa tua se ora anche solo
respirare mi è doloroso.
Colpa tua se la storia si ripete.
Avrebbe dovuto ricominciare,
ancora una volta, e non riusciva a farsene una ragione.
Aprì la porta, uscendo sotto la
pioggia scrosciante e richiudendosela veloce dietro, senza guardarsi indietro.
Non lo avrebbe fatto. Ed era giusto così: la storia si sarebbe ripetuta, ma
solo fino ad un certo punto.
Alzò il viso per accogliere
meglio le gocce d’acqua: sentendole scorrere con piacere sulle palpebre, lungo
le gote, giù per il collo… gli davano un senso di vita, di appagamento.
E ad occhi chiusi si avviò lungo
il marciapiedi, con le mani scese nelle tasche e i vestiti già fradici
incollati addosso.
Ma non gli importava. Niente più
aveva senso.
L’unica cosa a cui riusciva a
pensare era che non aveva risposto alla domanda, nemmeno con sé stesso: perché
sapeva che era doloroso anche solo pensarlo. Non poteva mentirsi da solo però.
La verità era che si sarebbe vergognato
a rispondere, perché in quel modo avrebbe solo dimostrato ancora una volta come
tutto fosse sbagliato, e come lui fosse in realtà solo un grandissimo stupido…
perché lo era, niente da ridire.
Non credeva possibile che ancora
una volta, la risposta giusta fosse:
“Perché ero innamorato”
E invece era proprio così: la
dura, orrenda, atroce verità.
La stessa che non aveva voluto
ammettere, né a se stesso né con lei.
La verità e la risposta che non
aveva dato e che non avrebbe più dato.
Mai.
Ossimoro
Scorse con gli occhi la pagina
che aveva davanti finché non trovò la definizione che cercava: “Figura retorica
che consiste nell’accostare due parole dal significato opposto”.
Con un sospiro tornò a prendere
in mano il cellulare per rileggere il messaggio arrivatole pochi minuti prima,
ancora aperto al centro dello schermo:
“Ehy, dolce ossimoro mio, siamo
tutti al bar. Ci raggiungi?”
Non ebbe bisogno di controllare
il mittente per capire che ad inviarglielo era stato Roberto: era l’unico
capace di fare una cosa del genere, l’unico per altro con cui era necessario
avere un dizionario alla mano per seguire una conversazione.
Era il suo genietto preferito, il
suo migliore amico. Il tipico ragazzo che nessuno prenderebbe mai per un
cervellone, almeno finché non lo sente parlare. E lei lo sentiva parlare
sempre, ogni giorno,da più di quattro
anni, ma la cosa non la disturbava anzi: molte, troppe volte si era chiesta
come avrebbe fatto senza di lui.
Non era il caso di pensarci ora
però, come non avrebbe dovuto pensare che nel “tutti” era incluso anche lui. Lo sapeva: era certa che in quel
bar ci sarebbe stato, e non era difficile arrivare a quella conclusione quando
il bar è in realtà l’unico bar.
Con un gesto nervoso chiuse il
vocabolario, alzandosi dal letto e prendendo un bel respiro.
Era sabato sera: non sarebbe
rimasta chiusa in camera, nemmeno se nell’unico posto in cui sarebbe potuta
andare, quello dove inoltre avrebbe anche incontrato tutti i suoi amici, c’era
lui.
Afferrò rapida il giubbino di
jeans appeso ad un gancio sulla porta e iniziò a scendere le scale, dopo
essersi brutalmente chiusa la porta alle spalle. Si ritrovò davanti alla porta
del locale quasi senza rendersene conto: in fondo le capitava spesso, abitando
nella casa direttamente sopra, di arrivare a destinazione così rapidamente da
rimanerne pressoché spiazzata. Si specchiò per un attimo nel vetro della porta,
portando la lunga ciocca di capelli rossi dietro l’orecchio: era la sola che
avrebbe potuto sistemare, l’unica che stonava, il resto dei capelli erano neri,
tagliati in un caschetto scalato.
Adorava la sua ciocca rossa, come
adorava ogni sua più piccola parte trasudante originalità: dai numerosi buchi
per orecchio, ai tatuaggi piccoli e discreti, al modo di vestire, per finire
con la ciocca colorata.
Non avrebbe potuto fare a meno di
nessuna di quelle cose, perché erano parte di lei: parte di Irene.
Era una ragazza particolare, ma
non di per sé: a prima vista appariva anzi troppo normale, statura nella norma,
magra, capelli neri. A farla rientrare ancora più nella normalità c’era poi una
quasi eccesiva timidezza, che la confinava in un mondo piccolo e tutto suo.
Irene però odiava la normalità,
così come odiava la propria riservatezza ed introversione.
Non sopportava di conformarsi
alla massa, senza alcuna possibilità di distinguersi. Perciò aveva deciso di
uscire dal gruppo, cambiando l’aspetto esteriore, pitturando i capelli, bucando
i lobi, tatuandosi… indossando capi che attirassero l’attenzione. Perché lei
non era come tutte le altre e quello che la timidezza le toglieva, lo avrebbe
compensato la sua originalità.
O almeno così la pensava, questo
era quello a cui aveva bisogno di credere.
Aprì la porta ed espirò
pesantemente al tempo stesso: la sala che le si aprì davanti la conosceva
benissimo. Era la sala di ritrovo del suo paese: quella dove ogni pomeriggio,
ogni sera, e naturalmente ogni fine settimana si ritrovavano tutti gli under
quaranta di quel buco di città.
Se città si poteva definire la
sua, no probabilmente no: era un paese, di quelli vicinissimi al mare, pieni di
odore di salsedine, con un clima bellissimo e un panorama ancora più bello. Di
quelli in cui il numero degli abitanti è così basso che inizi a temere siano
tutti parenti. Per fortuna non era così, e il fatto che si conoscessero tutti
non implicava un legame di sangue.
Irene prese un bel respiro,
aspirando il miscuglio di salmastro ed alcol che impregnava il luogo:
ricoprendo velocemente con lo sguardo tutti i tavoli, le pareti beige, i
tappeti colorati. Accolse felice il mormorio di sottofondo, il rumore di
bicchieri che si scontravano, le risate provocate per lo più dalla birra: era
il suo ambiente, una seconda casa.
Una mano nell’angolo in fondo a
destra attirò la sua attenzione: individuò subito in mezzo ad un gruppo di
teste quella del suo Rob, in pochi passi lo raggiunse, sedendosi al suo fianco.
Il viso di lui si illuminò
vedendola, e dopo averle scoccato un veloce bacio sulla guancia iniziò uno dei
suoi soliti monologhi: tipico di Rob, cominciare immediatamente a parlare,
senza prendere mai fiato; forse per questo erano tanto amici: si compensavano,
il silenzio di lei e la parlantina di lui.
Irene si accomodò per bene sul
divanetto, facendo aderire la schiena e allungando le gambe: non era necessario
ascoltare Rob, bastava annuire di tanto in tanto. Mentre lo osservava, prese
fra le dita i capelli di lui: erano lunghi e biondi, li portava legati in una
coda e Irene adorava giocherellarci, lo trovava rilassante. Annuì sentendolo
incepparsi un po’ con le parole, poi però il discorso tornò a scorrere veloce e
fluido: lei gli sorrise, senza ancora aver capito di cosa stesse parlando
veramente.
Lasciò vagare lo sguardo, non
indugiando su nessuno in particolare, senza soffermarsi su alcun discorso in
particolare, sorridendo in risposta ai numerosi saluti che le venivano rivolti,
e poi lo vide. Fu quando i suoi occhi si fermarono su di lui che capì di starlo
cercando: era seduto al tavolo dirimpetto al suo, dal lato opposto del locale.
E rideva. Come solo lui sapeva fare.
Irene si pentì di essere scesa,
di aver raggiunto Roberto, di stare lì: perché guardandolo si faceva solo del
male, ma non poteva farne a meno. Le era impossibile non fissare lo sguardo su
di lui.
Perché lui era Daniele.
Daniele Venturi.
Anche solo pensare al suo nome
era come una doccia fredda.
Daniele… non era un ragazzo
bellissimo, di quelli che si associano ai semidei, con il fisico scolpito e il
viso d’angelo. No, lui era normale ed al tempo stesso assolutamente speciale.
Il suo essere unico non derivava
dalla bellezza, alquanto nella norma, ma dal fascino che aveva: come si
muoveva, come parlava, come rideva, anche semplicemente come ti guardava.
Tutto di lui era eccezionale. Era
quel tipo di ragazzo che sprizza carisma da ogni poro, quello che trascina le
folle con una sola parola, quello che avrebbe potuto diventare presidente un
giorno.
Perché Daniele era simpatico,
intelligente, dolce, perspicace, comprensivo, empatico, tutto. Era
semplicemente tutto. Il ragazzo perfetto.
Ed era stato il suo ragazzo: un
tempo era di Irene, lo era stato per più di un anno. Suo, unicamente suo. E lei
non riusciva a capacitarsi che ora non lo fosse più.
- L’hai capito il mex?-
Aveva sentito la voce, ma ci
aveva messo un po’ a capire che ce l’aveva con lei e che era quella di Roberto:
si voltò a guardarlo incontrando il suo sguardo interrogativo.
- Come scusa?-
La voce di lui divenne divertita
mentre ripeteva la domanda:
- Il messaggio, lo hai capito?-
- No, perché mi dai
dell’ossimoro?-
Chiese lei sorridendogli e
lasciando andare i capelli di lui per prendere la sua birra e berne un sorso.
La risposta non si fece
attendere, cogliendola di sorpresa:
- Perché la tua vita è un
ossimoro, tesoro-
Irene avrebbe voluto
controbattere, dicendo di non aver ancora capito, e giungendo alla fine ad
avere la completa spiegazione da parte dell’amico. Ma nonribattè, per colpa di uno stupido errore che
aveva fatto: si era girata di nuovo in direzione di Daniele, accorgendosi solo
in quel momento del braccio di lui stretto saldamente attorno ai fianchi di
un’altra.
Fu come ricevere una coltellata:
fredda e dritta fra le costole. Mentre osservava meglio la scena poi fu come se
la lama le venisse lentamente girata dentro, provocandole un dolore sordo e via
via sempre più grande e profondo.
Aveva sentito dire che si era
messo con un’altra: non aveva ancora visto con i suoi occhi però.
Osservò lei: bionda, occhi blu,
gambe lunghe. Perfetta, come lui. Per qualche assurdo motivo si ritrovò a
pensare che avrebbero avuto dei figli stupendi e quel pensiero riuscì solo a
farle venire la nausea. Sentì la mano di Roberto accarezzarle il viso, provando
a farglielo girare, per farle smettere di guardarli: di vedere lui che baciava
lei, stringendola a sé, mangiandosela con gli occhi.
Non era sicura di cosa stesse
provando: gelosia, invidia… qualunque cosa fosse faceva male: tanto, davvero
tanto male.
Irene però non era come le altre:
voleva sempre distinguersi, uscire dal gruppo. Non avrebbe mai accettato di
soffrire come fanno tutte le ragazzine, lasciate dal ragazzo che piangono
vedendolo sbaciucchiarsi con la barbie di turno.
No, lei non avrebbe pianto, non si
sarebbe compatita.
E poi, anche questa volta lei era
diversa: se soffriva non era perché lui l’aveva lasciata.
No, questa volta era diverso: in
qualche modo si sarebbe distinta almeno.
La colpa infatti era unicamente e
totalmente sua.
- Buongiorno, scricciolo!-
Irene strinse ancora di più il cuscino a sé, nascondendoci il volto
all’interno e tirando le coperte fin sopra la testa. Aveva già sentito la
sveglia, ora ridotta quasi in fin di vita ai piedi del suo letto, adesso non
sarebbe certo stato Roberto a convincerla ad alzarsi.
Eppure il suo coinquilino non era il tipo che si arrendeva tanto facilmente:
Irene sentì il materasso inarcarsi a causa del peso di un nuovo arrivato, e poi
due mani forti tirarono via il piumone con un movimento deciso. Lei in risposta
si raggomitolò a riccio, cercando di mantenere un po’ del calore che
aveva, ma ben presto il freddo ebbe la meglio, costringendola a mettersi a
sedere.
Roberto ricambiò il suo sguardo omicida con un sorriso, per poi offrirle con
espressione candida un bicchiere di caffè fumante; a quel punto Irene non
riuscì più a tenergli il broncio e preso il caffè gli concesse un minuscolo e
fugace sorriso.
- Sono passati tre giorni-
Disse lui con voce seria, guardandola di sottecchi, pronto a studiarne ogni
reazione.
Ma lei rimase indifferente: sapeva a cosa si riferiva, e proprio per questo
faceva finta di niente. Erano passati tre giorni dalla sera in cui aveva visto
Daniele con la sua nuova ragazza, tre giorni da quando lo aveva visto baciarsi
con un'altra, tre giorni da quando si era sentita il cuore andare letteralmente
in frantumi.
Non le andava di pensarci, non le andava di commentare né tantomeno di
parlarne.
Si sentiva da schifo, e quelle settantadue ore passate quasi totalmente a letto
non le avevano giovato più di tanto. Si era rifiutata di far entrare Roberto
fino a quella mattina, in cui non era riuscita più ad opporsi, e ora lui era
lì, seduto di fianco a lei, tutto sorridente e comprensivo.
Irene scosse la testa ad un suo tentativo di iniziare a parlare, con fare
perentorio gli ingiunse di non proferire nemmeno una parola. Lui allora annuì
convinto, porgendole semplicemente una lettera.
Lei la prese curiosa e aprì il foglio per capire di cosa si trattasse, dovette
rileggere diverse volte prima di accettare e realizzare cosa c’era
scritto: secondo quella pagina non avevano pagato le bollette, nessuna, e se
non avessero provveduto al più presto si sarebbero ritrovati senza corrente né
acqua né altro. In poche parole erano in rosso.
Irene sgranò gli occhi, fissando Roberto davanti a lei che continuava
stranamente a sorridere:
- E’ uno scherzo?-
- No-
Rispose lui innocentemente, prima di scoppiare a ridere e continuare a parlare:
- Siamo senza il becco di un quattrino, scricciolo-
Irene sentì il cuore rallentare i battiti paurosamente mentre assimilava per
bene quell’ultima informazione.
Com’era possibile?
Avevano sempre avuto i soldi. Avevano sempre pagato in tempo.
Come aveva fatto a non rendersi conto di come la situazione finanziaria fosse
drasticamente peggiorata?
Rialzò lo sguardo sul giovane che aveva davanti: fissò gli occhi in quelli blu
di lui, resi ancora più chiari dalle spesse lenti degli occhiali, non
trovandoci alcun accenno di presa in giro, passò alla bocca, aperta in un ampio
sorriso, che lasciava intravedere la macchinetta argentata fatta di stelline
posta sui denti bianchi, ma anche lì non trovò alcun conforto. Con un movimento
quasi involontario quanto dovuto tirò la coda dell’amico, rimproverandolo
prima con lo sguardo e poi a parole:
- Perché non mi hai avvertita del disastro in cui ci stavamo andando a
cacciare?!-
L’altro fece spallucce, come se la cosa non fosse poi così importante,
per ribattere successivamente con voce calma e pacata:
- Non è così drastica la situazione, Ire! Hai presente dove abitiamo vero?-
Lei strinse gli occhi cercando di capire dove volesse andare a parare, e lui
allora preso un bel respiro riprese il discorso, andandole in aiuto:
- E’ un bel palazzo, e il nostro appartamento si trova direttamente sopra
il bar più frequentato del paese. La casa è grande: ci sono niente meno che
altre tre camere oltre le nostre, e se mi lasci venire a dormire qui con te,
possiamo mettere anche la mia a disposizione e…-
Irene aveva capito le intenzioni dell’amico e spalancato gli occhi a
quella rivelazione. Lo interruppe di botto, non lasciandogli terminare la
frase:
- Vuoi subaffittare?! Ma sei pazzo? A parte il disagio che si creerebbe ma a
chi vuoi che interessi?-
Roberto sbuffò infastidito prima di rispondere lentamente, come se stesse
parlando con una bambina:
- E’ un posto strategico questo e lo sai: con dieci minuti di treno si
arriva all’università. Non credi che tantissimi nostri compagni di corso
ucciderebbero per essere fortunati come noi? E per il disagio pazienza Irene!
Vuoi mangiare e tutto il resto, o no? Se la cosa non ti interessa…-
La ragazza iniziò a mordersi nervosamente la ciocca di capelli
rossa mentre lui con un sorriso ancora più smagliante lasciava la stanza. Irene
si lasciò andare all’indietro, cadendo di peso sul materasso che rimbalzò
al forte impatto, ma lei non ci fece caso.
L’unica cosa a cui in quel momento riusciva a pensare era che la sua
bellissima casa: quella che fino a quel momento aveva diviso solamente con un
genietto maniaco della pulizia, presto sarebbe stata profanata da niente di
meno che altre quattro persone!
L’ultima consolazione era che probabilmente nella baraonda caotica che ne
sarebbe venuta fuori avrebbe avuto ben poco tempo per pensare a lui.
*
E’ una storia pazza questa, partorita dalla mia mente
contorta durante le ore di scuola: deve ancora ingranare, ma la situazione si
movimenterà e non poco xD
Non è granché e lo so, probabilmente sa di già visto, ad ogni
modo mi diverte, e spero farà sorridere anche altri **