SEGRETI DI FAMIGLIA

di Farrah Wade
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10 ***
Capitolo 11: *** Capitolo 11 ***
Capitolo 12: *** Capitolo 12 ***
Capitolo 13: *** Capitolo 13 ***
Capitolo 14: *** Capitolo 14 ***
Capitolo 15: *** Capitolo 15 ***
Capitolo 16: *** Capitolo 16 ***
Capitolo 17: *** Capitolo 17 ***
Capitolo 18: *** Capitolo 18 ***
Capitolo 19: *** Capitolo 19 ***
Capitolo 20: *** Capitolo 20 ***
Capitolo 21: *** Capitolo 21 ***
Capitolo 22: *** Capitolo 22 ***
Capitolo 23: *** Capitolo 23 ***
Capitolo 24: *** Capitolo 24 ***
Capitolo 25: *** Capitolo 25 ***
Capitolo 26: *** Capitolo 26 ***
Capitolo 27: *** Capitolo 27 ***
Capitolo 28: *** Capitolo 28 ***
Capitolo 29: *** Capitolo 29 ***
Capitolo 30: *** Capitolo 30 ***



Capitolo 1
*** capitolo 1 ***


                                   

Segreti di Famiglia


                                                                                     

Capitolo 1


La porta della biblioteca si spalancò all’improvviso e i tre occupanti si girarono per vedere cosa stava succedendo.
Qualche attimo prima, da dietro la porta chiusa, avevano udito delle voci alzarsi in un alterco, poi la porta si era aperta e i toni della diatriba si erano smorzati.

Philip Price, chirurgo e primario del Western Maine Medical Center, era in riunione da quel pomeriggio con altri due luminari della sua clinica, il dottor Greenway, neuro psichiatra e il dottor Sage del reparto pediatria.
Stavano dando un aggiornamento completo agli schedari, lavoro che durava ormai da due giorni, a causa dei nuovi macchinari che erano stati installati da poco: un nuovo e complicatissimo apparecchio per i raggi X, un’ala completamente rimodernata al reparto Neonatale, due nuove e super attrezzate sale operatorie, computer,monitor, cercapersone, interfoni in ogni stanza e per finire un supplemento di barelle per il pronto soccorso.
Si erano portati a casa di Phil buona parte del lavoro, in modo da poter essere operativi nel più breve tempo possibile. Più tardi li avrebbe raggiunti anche John Reynolds, vice primario e miglior amico di Phil dai tempi in cui studiavano medicina al College.
Si trovavano appunto a casa del primario in quel momento, a lavorare alacremente. Per questo motivo Philip aveva chiesto a Gwendalina, loro governante da anni e donna di fiducia, di non lasciare entrare nessuno che potesse recare loro disturbo e si era caldamente raccomandato che quando fossero rientrati in casa, i gemelli non avrebbero dovuto cercarlo finché non avesse finito. Era stato categorico su questo. L’unica persona che attendevano con impazienza era il dottor Reynolds, ma essendo ormai di casa, era impensabile che andasse a litigare proprio con la domestica e in un momento così delicato per giunta!
Impossibile che fosse Johanna, perché la moglie era impegnata in un tour de force con i nuovi giovani avvocati che si erano associati al suo studio legale quindi era più che plausibile che fosse ancora al lavoro e non sarebbe rincasata se non in tarda serata. Inoltre, nemmeno lei avrebbe osato discutere con Gwen.
Quindi, a maggior ragione, Philip s’infastidì per quell’inattesa intrusione.
Aveva appena versato per sé e per i suoi colleghi un generoso bicchiere di scotch quando udì le voci e si era appena riseduto al lungo tavolo di mogano pieno zeppo di carte, di fronte ai suoi colleghi, quando la porta si era aperta.
Le voci concitate si erano spente di colpo e Philip, il dott. Greenway e il dott. Sage avevano fatto tintinnare i cubetti di ghiaccio dei loro drinks per voltarsi a vedere cosa stava succedendo.
Philip si alzò appena in tempo per vedere suo figlio entrare precipitosamente nella stanza, lottando con la domestica che cercava di trattenerlo.
Il ragazzo si liberò con uno strattone furioso ed entrò in biblioteca, violando così uno dei Dieci Comandamenti, quello appunto, che impediva ai gemelli di mettere piede nel Sancta Sanctorum dei genitori: la biblioteca. Là ci potevano andare solo se erano i genitori stessi a volerlo.
In casa Price, quando c’era da discutere di qualcosa come lavoro, scuola, pagelle o prendere decisioni importanti, tutta la famiglia veniva riunita nella biblioteca. Allora e soltanto allora i gemelli potevano accedervi e questo caso specifico non era contemplato nei loro lasciapassare. Era ancora in vigore il Divieto Assoluto, perciò Benji stava deliberatamente disubbidendo al padre e, cosa peggiore, lo stava facendo alla presenza di alcuni suoi colleghi di lavoro.
Gwendalina lo sapeva bene e aveva cercato in tutti i modi di fermarlo. Ecco dunque il perché della discussione.
Ma il ragazzo non aveva sentito ragioni. Pareva ci fosse qualcosa di molto urgente e grave che lo turbava e pretendeva spiegazioni dal padre su qualcosa di cui non era stato messo al corrente.
Philip si alzò quindi dal tavolo spingendo all’indietro la sedia a scranno con il lungo schienale intagliato.

-Ma che diamine sta succedendo, qui?!- chiese posando il bicchiere su alcuni fogli.

Guardava suo figlio con un misto di curiosità e molta irritazione provocata da quell’improvvisa e alquanto strana intrusione.

-Non ti avevo detto che …

-Mi perdoni senor Price, perdoni! E’ tutta colpa mia … io non ho saputo trattenere el nino, perdoni! Perdoni!

La governante era apparsa sulla soglia in tutta la sua rispettabile mole e si stava prodigando in esagerati inchini, fregandosi nervosamente le mani nel grembiule bianco che indossava quando era in cucina. Qualche ciocca di capelli le era sfuggita, ricadendole disordinatamente sulla faccia che era tutta rossa e congestionata, segno che aveva avuto il suo bel da fare per impedire che il suo padrone venisse importunato.

-Non ti scusare, Gwen, è tutto a posto - le disse benevolo Philip. - Vai pure adesso, ci penso io a lui.

 -Gracias senor!- disse lei di rimando e si eclissò richiudendosi la porta alle spalle.

Quando era su di giri, indignata o preoccupata, la sua grammatica diventava capricciosa, perciò finiva con l’esprimersi nella sua lingua madre, sicura che i signori avrebbero comunque capito.
Philip tornò a guardare il figlio, che stava a pochi metri da lui, al di là del massiccio tavolo di quercia e lo guardava con occhi pieni di collera.
Il dott. Sage e il dott. Greenway, tuttora seduti nelle loro scranne altissime, fecero così conoscenza con uno dei gemelli di Phil. La bambina doveva essere da qualche parte in quell’immensa casa e con tutta probabilità non sapeva della bravata del fratello. Avrebbe quantomeno cercato di dissuaderlo e se non ci fosse riuscita, sarebbe venuta lì con lui.
Sage e Greenway non gli staccavano gli occhi di dosso. Avevano visto qualche foto dei figli di Phil quando lui ne portava qualcuna in ospedale, mostrandole con orgoglio ai colleghi, ma constatarono che quelle immagini, benché belle, non rendevano giustizia ai gemelli.
Tuttavia, quello che videro in quel momento, negli occhi del bambino, occhi di un azzurro quasi trasparente, aveva ben poco di bello. I tratti del viso erano perfetti, come scolpiti nella porcellana; i capelli di un nero corvino, quasi con dei riflessi blu, erano in netto contrasto con quegli occhi straordinari. Le iridi chiarissime erano di un azzurro quasi bianco, contornate da una riga di azzurro più scuro a fare da contrasto; le ciglia folte e arcuate erano nere come i capelli. Erano occhi che inquietavano e chi non lo conosceva, poteva benissimo pensare che quel ragazzino così bello fosse cieco.
In realtà Benji ci vedeva benissimo e proprio in quel momento stava fissando il padre con quegli occhi stranissimi, le pupille dilatate per la collera.
I due medici notarono che era alto per la sua età. Indossava un paio di jeans scoloriti, una maglietta da baseball bianca e azzurra con la scritta 36 GORDON sulla schiena e le sue inseparabili Adidas.
Dalle foto che Phil mostrava loro, oltre che bello, poteva sembrare uno di quei rompiscatole viziati come lo sono il più delle volte i figli dei benestanti, piagnucolosi, con la erre moscia, e quell’aria da frocetti indifesi.
“Questo qui invece” pensarono Sage e Greenway che ormai viaggiavano sulle onde della telepatia, “ non ne ha per niente l’aria.” Anzi, sembrava sapere il fatto suo, ostentava sicurezza e determinazione, nonché una punta di scaltrezza, tutti caratteri dominanti che aveva, senza ombra di dubbio, ereditato dal padre, al quale il codice genetico aveva fatto trasmettere al figlio anche quegli occhi straordinari.
Ma l’espressione, la collera e il terrore che vi lessero, li rendevano inquieti.
Benji distese gli angoli della bocca in un sorrisetto enigmatico, come se fosse consapevole delle sensazioni che aveva suscitato in loro, poi tornò a concentrare la sua attenzione sul padre, che aveva girato intorno al tavolo ed ora gli stava di fronte, con le mani piantate sui fianchi ed il cipiglio poco rassicurante di un genitore che ha appena subito un affronto dal figlio.
Non sembrava affatto il buon medico che ogni giorno salvava numerose vite umane e si prodigava amorevolmente con i suoi pazienti, riservando ad ognuno di loro una parola dolce o un incoraggiamento. Sembrava solo un genitore stanco, alle prese con l’ennesimo problema quotidiano.
Essendo il dottor Sage e il dottor Greenway entrambi scapoli, assistevano con maggior interesse a quello scontro generazionale.

-Mi sembrava di essere stato molto eloquente sul fatto di non voler essere disturbato per nessuna ragione, Benjamin, ma tu come al solito …

-Che cosa significa questa, papà?- lo interruppe Benji venendo subito al sodo e con uno scatto preciso del polso, di chi è abituato a lanciare, fece arrivare sul tavolo la busta bianca che teneva in mano, la quale atterrò con precisione sul monticello di fogli che i tre medici stavano esaminando.

-Di qualsiasi cosa si tratti, ora non ho tempo.

-Ooh, si che ce l’hai! Dimmi che cos’è.

Phil guardò i colleghi per un attimo, come imbarazzato per quello a cui stavano assistendo, quasi a volersi scusare, come se fosse uno studentello al primo anno e non il primario di un ospedale, per giunta loro capo!

-Benji, sto lavorando. Inoltre non mi piace per niente il tono con cui ti stai rivolgendo a me. Ma se proprio vuoi saperlo, in quella busta c’è la vostra iscrizione al Saint Peter’s College che è appena stata accettata. Ora, per cortesia, sali in camera tua e non appena avrò finito qui termineremo questo discorso a quattr ’occhi.

Phil avrebbe voluto mollargli un ceffone. Sapeva bene che non tollerava che le questioni familiari fossero udite da altre orecchie, anche se erano quelle di colleghi e amici come Sage e Greenway.
Sembrava che lo avesse fatto apposta, ed era questo a mandarlo in bestia. Parlargli in quel modo poi. E in presenza dei suoi collaboratori.

-Mettitelo bene in testa: non ci andrò mai in quella scuola!-

Philip scosse la testa e fece un gesto di diniego, prese il figlio per un braccio e sospingendolo verso la porta, si voltò verso i colleghi.

-Vogliate scusarmi un attimo e perdonare questo inconveniente. Porto questo discolo di sopra e vi raggiungo subito.-

-Non preoccuparti Phil, non è successo niente. Credo sia piuttosto normale quando si hanno figli.- disse Greenway parlando per entrambi, ma era chiaro che quel faccia a faccia li aveva un po’ scossi. Doveva avere proprio un bel caratterino se osava parlare al padre in quel modo. Altro che rompiscatole viziato! Aveva inchiodato al muro il suo illustre padre, il primario e chirurgo del Western Maine Medical Center. Mica roba da poco!

Tuttavia non si lasciò sviare. Il comportamento del figlio di Phil nascondeva qualcosa, una specie di turbamento profondo che a lui, rinomato psichiatra, non era sfuggito. Ne avrebbe parlato con Phil a tempo debito.

-Accidenti!- commentò Sage colpito.

Phil scortò Benji fuori dalla biblioteca e sempre tenendolo saldamente per il braccio lo trascinò su per lo scalone centrale, svoltò a sinistra e dopo un breve corridoio aprì una doppia porta bianca ed entrò, portandosi dietro il figlio.
Era molto in collera e ora che l’aveva riportato là dove avrebbe sempre dovuto essere, cioè nella sua stanza, non poté evitare di esplodere.

Scrollò il suo ragazzo per le braccia, poi lasciandolo andare, gli sibilò:- Si può sapere che cosa diavolo ti è preso, eh? Ho fatto la figura dell’idiota con i miei colleghi perché tu ti sei permesso di interrompere una sessione di lavoro decisiva. Ora esigo una spiegazione. Subito!!-

-Mi hai ingannato!- gli urlò di rimando e per nulla pentito - Avevi detto che ci avresti almeno pensato e invece avevi già spedito le iscrizioni!-

-Benji, io sono tuo padre. Esigo rispetto da te come da Rachel. Sono io che ho l’obbligo di decidere per voi cosa è meglio, e se ho scelto quella scuola piuttosto che un’altra, il motivo c’è.

-Ma non hai nemmeno chiesto se noi eravamo d’accordo!!  Sai bene che cosa ti ho detto di quel posto …

-Sì, lo so. Un mucchio di fesserie per non studiare, come al solito. Ma ti avverto Benji, che questa volta non ci casco. Hai proprio passato ogni limite.-

-Tu non mi ascolti!! Tu non vuoi capire!!- gli gridò Benji - Tu pensi che io menta per il mio beneficio, ma sai che non è così. Quel posto ha qualcosa che non va, qualcosa di malvagio, lo sento! Non ve ne siete accorti anche voi?-

-BASTA!!- urlò Phil - Non sono più disposto ad ascoltarti! Per te ogni luogo dove ci sia un po’ di disciplina e studio ha qualcosa che non va!

Benji guardò incredulo suo padre, ansimando vistosamente, dato che doveva urlare molto più di lui per farsi sentire.

-Tutto questo è pazzesco!

-Puoi ben dirlo figliolo. Sto qui a discutere con te di un argomento che ormai considero chiuso quando ho del lavoro arretrato che mi aspetta di sotto.

-Questo argomento non è affatto chiuso! Non finisce qui, stanne certo!- minacciò Benji in un tono così furente che Philip non si era mai sentito rivolgere da nessuno prima d’ora.

-Non ti permettere mai più di minacciare tuo padre!!

Philip lo afferrò per le spalle e lo scrollò con forza fino quasi a fargli battere i denti.

-Mi hai sentito? - tuonò Phil - Mai più. E ora chiedi scusa.

-Non toccarmi! Lasciami! Lasciami andare!

Benji sembrava in preda ad una crisi isterica che preoccupò Phil. Invece di scusarsi, si divincolò abilmente dalla stretta del padre che lo tratteneva ancora per le spalle, mantenendosi a distanza di sicurezza. La reazione del figlio era stata violenta e inaspettata. Cercò tuttavia di non dare a vedere quanto fosse rimasto sbigottito.

-Sai, vedendo come ti comporti, non posso che pensare di aver fatto la cosa giusta, ogni giorno sempre di più.

-Certo, la cosa giusta per te - lo schernì Benji.

-No, mio caro, è qui che ti sbagli. Lo faccio per voi due, per te e per tua sorella, perché non si dica in giro che non vi ho tirati su come si deve.-

-Appunto. Lo fai per te. Per non perdere la faccia con i tuoi colleghi …
 
Philip gli rise in faccia, cosa che ferì Benji più di una coltellata.

-Smettila di affrontarmi di petto. Non è così facendo che tornerò sulle mie decisioni. Mie e di tua madre. Impara ad accettare una sconfitta per una volta, e vienine fuori a testa alta. E’ così che va la vita, ricordatelo.

Benji fece un verso sprezzante. - Perché non lo vai a dire alla mamma che una sconfitta ogni tanto non è poi così grave! Te lo dico io perché se un avvocato perdesse, non lo vorrebbe più nessuno! La gente assume gli avvocati per vincere. E tu? Se perdessi, in sala operatoria, il paziente morirebbe! Credi che sia così stupido da non saperlo?

-E’ proprio perché penso che tu non sia stupido che il tuo comportamento mi fa arrabbiare. Tu non hai rispetto per nessuno, non ascolti nessuno, non vuoi essere contraddetto e vuoi sempre avere ragione. Dimmi se ti sembra logico comportarsi così. Io sono molto stanco di dover combattere con te per ogni cosa, Benji, cerca di capirlo in fretta o d’ora in poi sarà peggio per te.

Benji lo guardava di traverso, i pugni stretti in un atteggiamento di sfida.
-Se tu mi stessi a sentire, qualche volta, non dovresti più combattere con me e con Rachel. Voi non ci considerate per niente quando c’è da decidere qualcosa che ci riguarda! Se questo è il comportamento di voi adulti, beh, credo che ci sarà ancora molto per cui dovremo lottare.

Fu il turno di Phil di stringere i pugni.

-Ora basta. Finiscila qui, per favore. Non cambierò la mia decisione e tu non dirai di non averci provato. Come vedi, sono molto tollerante, anche se una bella punizione non te la toglierebbe nessuno e lo sai.

-Oh, certo. Scusa tanto se ti ho rubato del tempo prezioso, ma non ti aspettare che ti chieda scusa. Non su questo argomento. Tu ci hai tradito …

-E’ così che la pensa anche Rachel? Sono curioso di sentire anche la sua, di campana. E non parlerei di tradimento, Benji, piuttosto di educazione, parola che tu forse ancora non hai conosciuto. Ma ti assicuro che, da oggi in poi, le cose cambieranno! Sai, anche io odio essere contraddetto, specialmente da mio figlio e su cose che sono più grandi di lui!-

-Maledizione! Perché, perché ti ostini a non crederci?!-

-Perché quello che dite non è sensato! E’ da pazzi dire che in quella scuola qualcuno o qualcosa sta cercando di manipolarvi! E ti garantisco che, nel mio lavoro, ne vedo di gente con le rotelle fuori posto! Inoltre non voglio che si dica in giro che ho due figli visionari. Ti basta come spiegazione?-

-Come quella di medico basta e avanza, ma come padre, non saprei che farmene di una spiegazione simile! Tu vuoi che io sia come te, ma non ti accorgi che io non lo voglio essere! Per il semplice fatto che tu non stai dalla parte dei tuoi figli. Né tu, né John, né la mamma! Quello che veramente t’interessa è salvare le apparenze! E’ vergognoso!!-

-Te lo dico io cosa è vergognoso, dolcezza! Il tuo comportamento strafottente, tanto per cominciare, e l’arroganza con cui mi stai parlando. Da un po’ di tempo a questa parte sto notando questo e non mi piace per niente. Siamo molto aperti come genitori e disponibili a qualsiasi tipo di dialogo; sta a voi decidere se parlarne o meno, non è la prima volta che te lo dico. Se c’è un problema o qualcosa che vi turba, ne possiamo parlare.

-Sì, qualcosa c’è, papà, ma l’argomento Saint Peter’s non è molto ben tollerato da nessuno di voi! E questo è il nostro unico problema.

-Se non vuoi che sfili la cinghia, non dire un’altra parola!
Benji tacque, fissando Phil come se lo odiasse.

-Ti ho già detto che devi imparare ad incassare. Il Saint Peter’s è la tua prima lezione. Con questo ho veramente chiuso l’argomento.

Benji era furente. In quel momento, provò un moto di odio cieco per suo padre che gli fece paura. Lo aveva ferito, e gli aveva riso in faccia.
 
-Ti odio!!- gli sibilò piccato e Phil lasciò che si sfogasse.

-Odiami pure, se ti fa stare meglio, ma impara a perdere. A volte succede.

-Io non sono un perdente!!- urlò Benji e gli si fece contro minaccioso.

Phil decise che aveva tollerato abbastanza e cercò di abbrancarlo. Gli riuscì di afferrare un lembo di stoffa della maglietta, e fu sufficiente. Il suo braccio scattò all’indietro, e in rapida successione, lasciò partire due schiaffi che colpirono Benji in pieno viso, facendolo cadere a terra.
Per un attimo rimase bocconi sul pavimento, rintronato dai ceffoni che si era preso. Quando si rialzò, Philip vide che aveva le guance arrossate e un rivoletto di sangue gli scendeva da un lato del labbro inferiore, ma nei suoi occhi non c’erano lacrime!

Quei ceffoni avrebbero fatto lacrimare chiunque, che diamine, pensò Phil, ma non lui, non suo figlio! Le lacrime avrebbero significato la resa, e da quanto si erano detti, aveva tutta l’intenzione di dare battaglia! Poteva avere la faccia un po’ malconcia, ma i suoi occhi erano perfettamente asciutti.
Phil si passò una mano tra i capelli, un po’ scosso, ma continuò ad attendere quella normale reazione che tutti i bambini avrebbero avuto in una situazione analoga; era sicuro che persino Rachel avrebbe pianto, ma le lacrime non vennero.
Mosse un passo verso Benji che, per istinto, indietreggiò preparandosi ad una seconda razione di botte. Era raro che il padre perdesse le staffe a tal punto, ma quando se lo meritavano, voleva che la lezione venisse imparata una volta per tutte. Benji era andato troppo oltre e lo sapeva, e in fondo era giusto così. Philip aveva perso il controllo perché era da molto che quella storia andava avanti e, sinceramente, non ne poteva più. Aveva deciso di mettere i sigilli a quell’argomento e passare oltre, ma Benji gli si opponeva testardamente ogni volta che la questione veniva sollevata. Affrontarlo di petto davanti a tutti come aveva fatto prima, era stata la classica goccia che aveva fatto traboccare il vaso. Era la cosa peggiore che potesse fare, e lo sapeva. Proprio per questo Philip era così arrabbiato con il figlio. Di solito, era molto più tollerante, severo ma giusto, anche se non erano mancate in passato punizioni esemplari, forse anche peggiori di quella, ma adesso sembrava che i suoi figli stessero prendendo una brutta piega, come se lui non fosse più in grado di mantenere la sua autorità di genitore. Andava ristabilita la gerarchia, ecco il perché di quella scuola. Lo riteneva necessario per il bene dei suoi figli, anche se non pretendeva di essere capito. Lui stesso, a suo tempo, aveva contrastato suo padre per la stessa cosa, ed eccolo ora, brillante primario e chirurgo a capo di un’intera equipe medica. E lo doveva proprio a suo padre, alla fermezza con la quale aveva saputo mantenere la sua decisione.
Si avvicinò ancora a suo figlio, che lo osservava con occhi vigili, attenti, non sapendo bene che cosa aspettarsi.

-Piangi, Benjamin, so benissimo che ti ho fatto male. Chiunque altro avrebbe pianto anche tua sorella. Le lacrime non significano la resa, impara anche questo. A volte fa bene piangere, sfogarsi. Fallo, ti sentirai meglio dopo, vedrai.

Benji fissò nuovamente il padre con quegli occhi indomiti, ben deciso a mantenere fermamente la sua posizione. Con voce un po’ incerta ma ostinata, ribadì: - Tu non mi ci manderai in quella scuola, perché io non ci andrò!

Certo che ci voleva un bel coraggio per essere così determinati in un momento simile. Phil non capiva il motivo di tanta determinazione e ostilità. Quando parlò il suo tono era gelido.

-Oh, si che ci andrai.

-No, mai!- urlò Benji stringendo i pugni.

-Bene - Phil parlò con voce calmissima, anche se gli tremavano le mani - dal momento che con te le parole non servono, considerati in punizione da questo istante fino a quando non deciderò che può bastare. Non hai il permesso di vedere Rachel e di lasciare la tua stanza finché non avremo chiarito questa cosa. Ti do tempo fino a questa sera per riflettere sul tuo comportamento e chiedere scusa. Per quanto riguarda il Saint Peter’s non voglio più sentirne parlare.

Nonostante suo padre avesse appena emesso quella pesante sentenza, la sua mente sconvolta si rifiutava cocciutamente di accettare quella decisione, riuscendo soltanto a formulare quell’unica frase che tanto faceva infuriare suo padre:- Non mi rinchiuderai mai in quel collegio!

-Credo proprio di averlo già fatto, testa dura. Impara la lezione: a volte si deve incassare. Non si può sempre vincere. Prima lo capirai, meglio sarà per tutti! Riflettici sopra.

Ciò detto, Philip uscì dalla stanza, chiudendosi la porta alle spalle. Per evitare che il figlio gli corresse dietro un’altra volta e ripetesse la sceneggiata davanti ai colleghi, pensò bene di chiudercelo dentro a chiave.
Benji rimase a fissare la porta chiusa come un cane bastonato.

-Io non perdo mai!!-  gridò - Mi hai sentito?! Non andrò in quel collegio. Non ci andrò mai!!

Si avvicinò alla porta, aspettandosi che il padre lo sentisse e tornasse indietro, ma non ottenne risposta. Con rabbia picchiò i pugni sulla porta, accasciandosi contro di essa, le braccia allacciate intorno alle ginocchia piegate.
Nascose il capo in grembo, e finalmente, nell’intimità della sua stanza, non visto né sentito, diede libero sfogo a quelle lacrime che il padre non aveva avuto la soddisfazione di vedere.
Erano lacrime brucianti di sconfitta, rabbia, odio e risentimento, sentimenti che provava per non essere stato creduto da suo padre. C’era anche una punta di delusione.
Pensò a Rachel, ignara di tutto quello che era appena accaduto. Avrebbe voluto tanto parlare con lei, sfogarsi, ma era confinato in quella stanza improvvisamente troppo piccola per il suo attuale stato d’animo.
Velocemente, come se si vergognasse di averlo fatto, di aver finalmente pianto, si passò una mano sulla faccia, asciugandosi gli occhi e si alzò in piedi. Andò alla finestra, scostò le tende gialle e la spalancò …
Aveva sempre il suo olmo, la cosa che più lo calmava quando non aveva nessuno con cui parlare. Chiuse gli occhi, inspirò l’aria fresca e si mise in ascolto …
Le foglie dell’olmo frusciavano dolcemente, mosse dal vento, e i rami che toccavano il tetto come dita protese, iniziarono a tamburellare sulle tegole e sulla grondaia.
Benji ascoltava quel suono ritmico e ne traeva conforto.  Gli piaceva addormentarsi ascoltando quel suono, e al mattino lo ritrovava puntualmente al suo risveglio.
Il vecchio olmo, che troneggiava nel giardino posteriore della casa, era molto alto e aveva rami fittissimi. Ad una quindicina di metri da terra, i rami erano ancora abbastanza robusti da poter sostenere il peso di una persona. Alcuni di questi si protendevano fino al tetto della casa, proprio sotto la finestra di Benji. Se avesse voluto, infatti, gli sarebbe bastato salire sulla scrivania, scavalcare il davanzale della finestra, e percorsi solo tre passi sulle tegole del tetto avrebbe potuto, con tutta tranquillità, sedersi tra i rami del grande olmo. Era molto pericoloso, certo, poiché le tegole erano in pendenza e in alcuni giorni, il grosso ramo, benché fosse robusto e praticamente appoggiato al tetto, oscillava spostato dal vento. Inoltre, c’erano a dir poco una quindicina di metri buoni che lo separavano dal suolo, e in caso di caduta … beh, era molto pericoloso.
In realtà, Benji lo faceva da quando aveva otto anni. Ovviamente, i genitori non ne sapevano nulla, altrimenti avrebbero preso provvedimenti. Le uniche persone ad esserne al corrente, erano sua sorella e suo cugino Devon, che ogni estate veniva in visita con la madre, Patricia, sorella di Phil.
Era più che certo che con loro il suo piccolo segreto era al sicuro, anche se Rachel a volte aveva paura di quelle prodezze da circo del fratello, ed era tentata di dirlo ai genitori, ma fino ad ora non lo aveva fatto, ed erano passati già due anni da quella prima volta, quando Benji era uscito dalla finestra ed era andato a sedersi in mezzo ai rami, in un comodo incavo del tronco, a godersi il suo trionfo, guardando le facce terrorizzate di Rachel e di Devon.
Il signor Alexander era sparito già da un pezzo, quando la zia Trisha veniva a passare qualche giorno a Portland, nella casa di suo fratello Philip. Di solito era in estate che si fermava di più ma quella volta era Dicembre, vicino a Natale. Benji se lo ricordava perché Devon, di due anni più grande di loro, gli aveva detto che i suoi genitori non stavano più insieme, e che il suo ex padre, così lo chiamava, si rifiutava di pagare gli alimenti alla mamma, così quell’anno non avrebbe nemmeno avuto i suoi regali di Natale.
Era stato allora che Devon, che all’epoca aveva dieci anni mentre i gemelli otto, si era fissato con l’olmo del giardino.
Ne era sorta una controversia, e Devon, imprudentemente, aveva sfidato il cugino, dicendogli:

-Perché non scavalchi la finestra e ci provi, piccoletto. Se non te la senti… dirò in giro che ho un cugino codardo!!

-Devon sei uno stupido!- l’aveva sgridato Rachel - Ma che idee ti vengono in mente?! Non vedi che è tutto ghiacciato, lì sopra?

Si riferiva al tetto, ovviamente, ma anche il ramo era carico di neve ghiacciata.
Ma la sua vera paura era che il fratello accettasse la sfida. Benji, infatti, si era alzato in piedi di fronte al cugino, e seriamente, gli aveva detto: - Okay, io lo faccio. Ti dimostro che non sono un cacasotto, ma tu bada di tenere la bocca chiusa con i miei, perché se lo vengono a sapere, mi uccidono, e poi tu ed io facciamo i conti.

Devon si era sentito a disagio, anche perché lui era il più grande. E se gli fosse successo qualcosa? In fondo, era stato uno stupido. Sapeva bene che suo cugino, anche se più piccolo di lui, era un tipo tosto. Non avrebbe dovuto costringerlo. Benji non lasciava mai cadere una sfida, lo sapeva, per questo si sentiva un idiota.

-Okay, finiamola qui cugino. Ti credo sulla parola. Rachel ha ragione, è troppo pericoloso.

-Ormai è troppo tardi per tirarsi indietro …

Benji aveva spalancato la finestra e una folata di aria gelida li aveva investiti, facendoli rabbrividire dalla testa ai piedi.

-Benji, no! Vado a chiamare papà se lo fai!- gridò Rachel.

-Non lo farai, e non mi succederà niente, sta a vedere.

Prima che i due potessero trattenerlo, era già sgusciato fuori. Sul tetto ghiacciato rischiò di scivolare, ma con agilità raggiunse il tronco e come promesso non successe nulla, né allora né poi.
Quando rientrò, Rachel si mise a piangere, e Devon, con il terrore ancora dipinto sul volto, gli disse che, secondo lui, non aveva proprio tutti i venerdì a posto.
Lo sguardo di Benji scintillò, e la risposta che diede convinse Devon a lasciarlo in pace. In futuro, nelle visite successive, si sarebbe guardato bene dal proporre qualcosa di pericoloso.

-Devi stare attento a quello che chiedi, cugino, perché potresti ottenerlo.

Era chiaro che, già allora, Benji prendeva tutto sul serio e non lasciava nulla al caso. Era più piccolo di lui di due anni, ma non era uno stupido.
Quella volta a Devon convenne tenere la bocca chiusa su quanto era successo, altrimenti le avrebbe prese di santa ragione, e lo stesso doveva aver pensato Rachel, perché a distanza di due anni da quell’episodio, nessuno sospettava di nulla. Tanto meglio.
Benji ascoltò ancora quel fruscio e il tamburellare dei rami sul tetto, poi si ritrasse dalla finestra, andando a buttarsi sul letto.  Gli bruciavano ancora le guance e gli doleva la testa. Non se la sentiva di arrischiarsi là fuori in quelle condizioni.
Le discussioni con il padre erano sempre molto aspre e gli svuotavano la mente, impedendogli di concentrarsi. Nemmeno il suo adorato olmo avrebbe potuto confortarlo, quindi era del tutto inutile andare là fuori.
Preferì buttarsi sul letto e, chiudendo gli occhi, riflettere su tutta quell’assurda situazione.
Il fruscio dei rami in sottofondo, finì col farlo addormentare. Scivolò nel sonno senza rendersene conto, e il tamburellare lontano dell’olmo diventò a poco a poco il rumore di passi pesanti in un corridoio …



… I passi si fermarono all’altezza della sua stanza, e Benji che nel sogno stava leggendo un fumetto di quelli che gli passava Rachel, staccò lo sguardo dal giornaletto e lo posò sulla porta, terrorizzato, sperando che quei passi non fossero reali, sperando che avrebbero proseguito oltre, senza badare a lui. Era strano, sapeva che era un sogno, che non era reale, eppure …
Percepiva una strana sensazione di deja-vù, e non poteva fare nulla per fermare il corso degli eventi …
La porta si stava aprendo lentamente, con un lieve cigolio, come nei film dell’orrore. La luce sembrava essersi affievolita, e sulla soglia della stanza apparve la figura di un uomo dal cranio completamente calvo.
Le orecchie spuntavano ai lati della testa come due manici di scopa. Il resto di quella faccia era in penombra, e non si riusciva a scorgere altro.
Benji tremava e stava sudando. Evidentemente conosceva quell’uomo e ne aveva il sacrosanto terrore. Era nervoso e si alzò di scatto. Il fumetto gli scivolò tra le mani e cadde per terra. Le pagine frusciarono e il libro rimase aperto a metà sul pavimento.
Nel sonno, Benji si agitò convulsamente, cercando di svegliarsi da quel brutto incubo. Aveva la pelle d’oca ed era coperto di sudore. L’uomo calvo rise, gettando indietro il capo.

-Io controllo la tua mente, non mi puoi sfuggire, io sono il padrone della tua mente! Non cercare mai di fare il furbo con me, potresti pentirtene, lo sai bene!!

 Improvvisamente, dei dolori fortissimi gli attanagliarono la testa come una morsa crudele, e Benji, spaventato, tornò in sé con un grido. Balzò giù dal letto e barcollò fino alla porta del bagno che c’era nella sua stanza.
I dolori erano fortissimi e Benji, gemendo, si appoggiò al lavabo con la testa china e gli occhi chiusi. A tastoni cercò la manopola del rubinetto e la girò. Un getto d’acqua iniziò a scorrere nel lavandino, ne sentiva il rumore, ma era troppo terrorizzato per aprire gli occhi e guardarsi intorno. Aveva ancora la pelle d’oca e quel dolore improvviso e acuto non si accingeva ad affievolirsi.
Si spruzzò un po’ d’acqua fresca sulla faccia e si costrinse a farsi coraggio. Aprì gli occhi e si guardò intorno. Era la sua stanza, il suo bagno. Da dove era, vedeva il letto tutto sfatto, la finestra ancora aperta, con le tende che oscillavano al vento, la scrivania con appeso sopra il muro, il poster di Tom Gordon, il lanciatore di chiusura dei Red Sox, il suo idolo.
Se si fosse sporto ancora un po’, avrebbe visto l’armadio e la porta della stanza. Non c’era nulla di strano, tutto era esattamente dove avrebbe dovuto essere.
Ma allora perché quell’incubo lo aveva così spaventato? E quell’uomo? Aveva così paura perché nel suo incubo sapeva benissimo chi era.
E che dire di quel dolore così acuto e devastante? Aveva forse a che fare con l’Uomo Calvo e le strane parole che questi gli aveva detto?
Come se lo avesse evocato di nuovo, una fitta lancinante gli trapassò la testa.  Il terribile dolore gli strappò un altro grido, ma stavolta era ovattato, come se venisse da lontano. La vista gli si offuscò e si accorse che stava perdendo la presa sul lavabo. Le sue dita semplicemente scivolavano via, e i muscoli delle gambe non lo sorressero più.
Cadde all’indietro, sbattendo la testa contro lo stipite della porta. Dalla ferita che si era procurato sul lato sinistro della tempia, prese ad uscire del sangue.
Giacque svenuto, ma prima di perdere completamente i sensi, cercò di fare un’ultima cosa: chiamò Rachel ma non una parola uscì dalla sua bocca. L’aveva chiamata col pensiero, come aveva fatto con lui l’uomo calvo del suo incubo. Gli venne naturale, quasi spontaneo, come se lo avesse fatto da sempre, come se lui e sua sorella fossero soliti comunicare in quel modo. Ed era più che certo che lei lo avrebbe sentito. Ne era sicuro perché c’era di mezzo quello strano uomo.

Aiutami Rachel. Non so cosa mi sta succedendo! Aiutami solo tu puoi farlo …
 
L’ultima cosa che udì prima di perdere i sensi, fu la terrificante risata di quell’uomo che non conosceva ma che al tempo stesso sapeva chi era, dato che nel suo incubo ne aveva avuto paura.
Era di sicuro qualcuno che gli avrebbe procurato dei guai.

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


Capitolo 2

Philip ridiscese lo scalone e tornò in biblioteca. Era ancora furente e gli ci volle tutta la sua buona volontà per calmarsi. Ricorse anche alla sua professionalità di medico, ma si rese subito conto che non gli sarebbe servito proprio a nulla. Si vedeva lontano un miglio quanto era fuori di sé e gli ci sarebbe voluto un po’ di tempo per riacquistare l’abituale calma.
Accadeva talvolta anche in ospedale e i colleghi lo conoscevano bene; sapevano che era fiato sprecato tentare di calmarlo e farlo ragionare. Avrebbero dovuto aspettare che gli fosse sbollita l’arrabbiatura.
Arrivò alla porta della biblioteca con il sangue che ancora gli ribolliva.  Cercò di darsi un contegno e si passò una mano nei capelli, gesto che faceva spesso quando era nervoso. Si schiarì la voce e girò la maniglia. Inutile indugiare oltre, lo sapeva benissimo.
Entrò in biblioteca e si schiarì di nuovo la gola, cercando di darsi un tono ma quando alzò lo sguardo verso i colleghi, non poté non rallegrarsi. Mentre lui era via, era arrivato Reynolds.
Proprio una manna dal cielo. Con John tutto sarebbe stato più facile, pensò Philip, e accennò un sorriso, nonostante il suo collerico stato attuale.
Reynolds e i colleghi sembravano sapere perfettamente quanto lui fosse arrabbiato. Evidentemente lo conoscevano meglio di quanto credesse!
Gli diedero il tempo di sedersi e versarsi da bere, prima di aprire bocca.

-Vi prego di scusarmi per quanto è accaduto. Ultimamente sembra che in questa casa io non riesca a mantenere il controllo così bene come in ospedale … Forse sto invecchiando!

Greenway, che era il più vecchio al Western Maine, quasi sulla cinquantina ma arzillo come un ventenne, gli batté una mano sulla spalla.

-Coraggio, vecchio mio, ne ho viste parecchie di cose in tutta la mia vita e  nella mia  professione. Posso solo dirti che il bello comincia adesso! Avrai un bel da fare negli anni a venire, quindi coraggio! Un bel goccio di whisky è quello che ci vuole per risollevare lo spirito. E … Phil, un’altra cosa, per favore: smettila di scusarti con noi, non è successo nulla di grave, in fondo.
E non abbiamo nemmeno perso tempo perché con John siamo riusciti a finire tutto l’arretrato, non c’è rimasto più nulla, quindi bisogna brindare!

-A noi e alla Western Maine!- brindarono insieme.

Philip sembrò riaversi un poco. Alla notizia del lavoro terminato, gli si illuminò il volto.

-Davvero? Oh, mi sembra magnifico. Grazie John, grazie a tutti. Senza di voi e della vostra preziosa collaborazione il mio ospedale non sarebbe così com’è.

Il dottor Sage levò in alto il suo bicchiere e invitò tutti a fare altrettanto.

-Questo brindisi è dedicato al dottor Price, genio del bisturi, medico incomparabile, ottimo collega e amico - disse.

Fecero tintinnare i bicchieri. John, che era seduto vicino a Phil, gli strinse un braccio e Phil avvicinò l’orecchio alla bocca di John, che gli bisbigliò: - Qualunque cosa sia che ti preoccupa, la risolveremo insieme, come sempre. Ora pensa solo a calmarti.

Philip annuì. Era commosso per quanta stima avessero di lui i suoi colleghi. Era così compiaciuto che per un po’ non riuscì a dire nulla. La loro comprensione lo fece stare meglio.
I documenti erano tutti catalogati, impilati con ordine e riposti nelle cartellette azzurre nei rispettivi schedari, quindi i quattro uomini si attardarono un po’ parlando di lavoro, ma soprattutto di frivolezze.
Phil, che era ancora pensieroso, sentì il bisogno di confidarsi con i suoi collaboratori. C’era tra loro abbastanza intimità in quel momento e Phil sapeva che era quello giusto.
Doc Greenway, cogliendo l’occasione, gli diede lo spunto per iniziare.

-Il tuo ragazzo è un tipo in gamba, Phil. Sono sicuro che da grande diventerà un tuo degno sostituto. Già adesso ti sta dando del filo da torcere!

Risero tutti, anche Philip.

-Ah, non me ne parlare Doc. - Fece un gesto di diniego con la mano. - Hai toccato un tasto dolente! I gemelli hanno il sacrosanto terrore di tutto quello che la parola “ospedale” racchiude! Fatti raccontare da John tutti i sotterfugi a cui devo ricorrere per riuscire a somministrargli qualche medicina o fargli un vaccino!

John rideva e annuiva con vigore. Viveva nella dependance di casa Price da quando l’anno prima aveva perso la madre, infarto del miocardio. Ormai, per tutti, era  uno di famiglia, come se fosse il fratello minore di Philip.
Era stato lui a proporgli di venire a vivere da loro. Era successo subito dopo il periodo della morte della madre. Reynolds era piombato in depressione. La donna con cui stava l’aveva mollato perché lui era sempre al lavoro, si massacrava di lavoro per non dover affrontare la solitudine.
Philip e Johanna ne avevano parlato a lungo, prima tra loro, poi a John.

-Sai, Phil, mi dispiace vedere John in quello stato … Siete amici da tanto … Perché non gli proponi di stare qui, almeno per un po’, questa casa è così enorme …

-Ne sei sicura, Jo? –
 
-Certo, non te lo avrei detto altrimenti. Dai Phil, a cosa servono gli amici?

Sembrava sincera, tuttavia non la voleva costringere.

-Va bene, cara, proverò a parlargliene oggi al lavoro. E … grazie per la tua disponibilità.-

Lei lo zittì con un bacio. - Vai, Primario, hai un dovere da compiere.

Philip era contento che la moglie avesse dato l’okay. Era sinceramente preoccupato per John, e il pensiero che tutti i giorni dopo il lavoro tornasse a casa tutto solo, non gli piaceva per niente.
Così gli aveva proposto di venire a stare da loro, ma quella volta John aveva cortesemente rifiutato, spiegando che non voleva dare fastidio a nessuno. E poi lui aveva famiglia.
Fu quando lo trovò in ufficio che dormiva con la testa sulla scrivania, la barba di due giorni e il camice tutto spiegazzato, che Phil gli rifece la proposta. Senza pretese, disse, e Reynolds promise che ci avrebbe pensato.
Fu proprio quella sera, dopo un doppio turno massacrante al pronto soccorso, che John accettò la proposta di Philip. Lo trovò alle macchinette del caffè che dava direttive ad un’infermiera, bevendo un caffè nero e quando John gli aveva chiesto se quella sua proposta fosse ancora valida, Philip non si trattenne dall’abbracciare l’amico, confidandogli: -  Sai, temevo che avresti rifiutato, ma sono felice che ti sia deciso. Saremo tutti felici di averti con noi!-

-Sei davvero sicuro che a Jo non dia fastidio?

-Scherzi? E’ stata lei che ha insistito.

-Beh … io …. Non …. Grazie.

-Smettila di balbettare! Sei il mio vice e non voglio vederti così - gli disse Philip energico. E corse via, aggiungendo: - Devo chiamare a casa e dirlo a Jo, o mi spellerà vivo! Da stasera si cambia vita!

Reynolds aveva quasi pianto e per una settimana non aveva più smesso di ringraziare l’amico.


Greenway, Doc, per i colleghi, si stupì di quanto aveva detto Phil dei figli e la loro paura degli ospedali.

-Ma dai, al vederlo, poco fa, sembrava che nulla potesse spaventare tuo figlio e tu ora mi vieni a dire che lo spaventa l’ospedale?

-Sì, Doc. I miei ragazzi non faranno mai i dottori! Se c’è una cosa che Benji non sopporta, sono proprio aghi e punture.  Non so da dove gli venga questa sua fissa, fatto sta che quando maneggio i miei ferri del mestiere mi sta a debita distanza. Se poi gli devo fare qualcosa, tipo medicargli qualche ferita o che so io, apriti cielo. Devo sempre farmi aiutare da John e tante volte anche da Gwen per acchiapparlo, tenerlo fermo e medicarlo.

-E tua moglie cosa dice?

-Mah, Johanna pensa che sia piuttosto normale. Dice che tutti i bambini a quell’età hanno paura dei dottori. E, certo, averne uno per padre …

-Sì, immagino il disagio che può provare.

-E non ti dico cosa è successo quando John si è trasferito qui!

Greenway ascoltava divertito, ma attento. - Immagino qualcosa di simile ad un sesto grado sulla scala Richter o un’eruzione vulcanica!

-Ci sei andato molto vicino, Doc. Ora ha imparato ad accettarlo, ma credimi, ci sono voluti mesi perché gli riuscisse di avvicinarlo!

-E tua figlia?

-Beh, anche lei è testarda, in effetti, ma con lei è diverso. Lei vuole bene a John e gli si è affezionata … ma sai, per nulla al mondo tradirebbe suo fratello.

-Posso immaginare - rispose Greenway - anche se prima non credevo ai miei occhi, lo ammetto. Io stesso non avrei mai trovato il coraggio di parlare a mio padre in quel modo. Vero che i nostri erano anche altri tempi, ma mi ha molto colpito la determinazione del suo rifiuto nei confronti della tua decisione. E credo che ci sia dell’altro, sotto. Che mi piacerebbe scoprire, se me lo permetterai, ovviamente …

Philip sorrise. - Deformazione professionale, vero Doc? Te ne avrei parlato io comunque, perché ci sono cose che ti devo chiedere. Credo che siano importanti.

Doc annuì, facendo segno a Philip di proseguire.

 -In effetti, nemmeno io riesco a capire questa sua ferrea opposizione. E’ una lotta che sta andando avanti dall’inizio della primavera, quando siamo andati a vedere questa nuova scuola. Credo che tutto inizi da qui. Johanna ne è rimasta entusiasta ed io, dopo un colloquio con il direttore, ho condiviso l’entusiasmo di mia moglie.  Ma subito abbiamo dovuto scontrarci con Benji e Rachel. A loro quel posto non era piaciuto per niente.
Non era una novità, dato che di solito sono in contrasto con tutto quello che a me e Jo va bene, ma non li biasimo. Non è una qualunque scuola pubblica come la Sanford Middle, dove gli insegnanti hanno appena superato gli esami di laurea e non sanno bene che farsene di una classe piena di mocciosi urlanti. Qui non è così. Ci sono persone altamente qualificate, capaci di dare un  profilo psicologico e una valutazione professionale su ogni singolo allievo. Sono persone che sanno insegnare, mi segui? Sanno quali sono le lacune e come colmarle, sono in grado di disciplinare una classe. Insomma, ditemi quello che volete, ma per me una scuola così merita.

Philip fece una pausa, bevendo un sorso del suo drink, prima di continuare.

-Quando sono andato a parlare con il preside della Sanford Middle School per l’ennesima nota di demerito di Benji, ho visto il caos più completo! Grida, corridoi pieni di bambini di tutte le età, ripetenti e non, vestiti nelle maniere più diverse, insegnanti isterici che non sapevano nemmeno mantenere l’ordine in classe … E questo preside che mi diceva che non ce la faceva più, che mio figlio non studiava, litigava in continuazione, che si azzuffava con i compagni e che se continuava così sarebbe stato costretto a sospenderlo.
Gli ho risposto che forse non era mio figlio che non si impegnava, ma loro che non sapevano insegnare! Quando mi ha mostrato le pagelle dell’ultimo trimestre non ho più avuto dubbi. Quel posto era assolutamente inadatto. Riconsegnai le pagelle al preside e gli dissi che alla fine dell’anno non avrei riconfermato le iscrizioni dei miei figli. Ci è rimasto un po’ male, ma non saprei dire se fosse sollevato o dispiaciuto, ma non me ne importava granché. Il giorno stesso mi sono messo alla ricerca di un istituto privato, serio e competente.

-Così hai trovato questa scuola privata e sei subito andato a vederla.

-Esatto.

-Come hai detto che si chiama? Devo averla già sentita.

-Saint Peter’s College. Si trova a Fillmore, Maine Meridionale, a circa tre ore di macchina da qui.

Greenway ci pensò su. Poi sembrò aver capito. - E’ per caso quella scuola inglese con quel grande parco che si vede dalla cancellata del muro di cinta? –

-Proprio quella - confermò Philip e si appoggiò allo schienale del divano di pelle nera con un’espressione di evidente soddisfazione dipinta sul viso.

-Sì, ne ho sentito parlare Phil. Dicono che è molto valida come scuola, ma anche molto diversa. Sei sicuro che i gemelli riusciranno ad adattarsi ad un ambiente così … uhm, rigido? Se lo vogliamo chiamare in questo modo.

Philip sospirò e si tirò nuovamente vicino al bordo del divano.

-Doc, tu stesso hai visto come si è comportato Benji poco fa. Ti sembra una cosa normale? Per non parlare della reazione violenta che ha avuto di sopra. Ti dico che è arrivato addirittura a minacciarmi e l’ha fatto ben sapendo che con il suo comportamento irriverente avrebbe ricevuto una dura punizione. Ma non è bastato a fermarlo, ha insistito fino all’ultimo e credimi se ti dico che non si era mai spinto fino a questo punto, prima d’ora.
So benissimo che l’impatto iniziale potrà essere molto traumatico e forse anche doloroso ma non si può certo continuare così. Già di natura hanno un’indole ribelle, tutti e due, io non sto molto tempo a casa e nemmeno Jo e Gwen ormai è sull’orlo della crisi di nervi. Ci vuole qualcuno che abbia polso con loro, che li segua e li aiuti a cambiare. Se non faccio così, Doc, non sarò più in grado di educare i miei figli. Hanno bisogno di controllo costante e regole ferree. Devono essere più disciplinati. Sono più che convinto che questa scuola sia il posto gusto.

Greenway sorrise. - Certo, hai perfettamente ragione, Phil, non ti sto biasimando ma i tuoi ragazzi sono molto svegli e intelligenti, non lo sopporteranno tutto questo e cosa peggiore arriveranno ad odiarti per la decisione che hai preso. Tu sai che ti sto parlando come amico ma soprattutto come psichiatra. Se la cosa dovesse prolungarsi molto, potrebbero esserci delle conseguenze anche a livello psicologico. Ti consiglio di non calcare troppo la mano, soprattutto all’inizio. Procedi per gradi, è la cosa migliore.

-In effetti era proprio quello che temevo all’inizio, ma poi ho parlato a lungo con questo direttore il giorno che siamo andati a vedere il posto.

-E che cosa ti ha detto?

-Le stesse cose che mi stai dicendo tu, Doc. Ha anche aggiunto che sono affiancati da un’equipe specializzata di psicologi che intervengono in caso di bisogno con gli alunni che hanno problemi e difficoltà caratteriali o di apprendimento.

Greenway sembrava soddisfatto. - Allora mio caro collega ti avevo sottovalutato. Sono sicuro che hai fatto la cosa migliore. E anche se i tuoi figli non lo capiranno, non subito almeno, è possibile che un giorno ti ringrazieranno e sapranno il perché delle tue decisioni. Solo non aspettarti che lo facciano subito. Passerà molto, molto tempo … Forse quando prenderanno la laurea!

Fu il turno di Philip di sorridere. E quel sorriso e il discorso di Doc dissiparono finalmente i dubbi e le incertezze che lo assalivano quando ripensava alla decisione non facile che aveva dovuto prendere nei confronti dei suoi figli.

-Lo spero Doc … Lo spero davvero.

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


Capitolo 3

Rachel era nella sua stanza. Stava riposando dopo un pomeriggio passato all’aperto ed era molto soddisfatta. Non c’era scuola, quindi niente compiti, ed era rientrata in casa esausta per il tanto ridere e per il moto fatto in un limpido pomeriggio estivo. Avevano fatto una partitella a baseball, lei e Benji, e naturalmente aveva vinto lui. Era diventato troppo bravo, ma non era dispiaciuta. Adorava il suo fratellino ed era contentissima quando lui le insegnava qualche nuovo lancio che aveva appena imparato. Poi, quando segnava un nuovo punto, faceva quella cosa che Rachel adorava: puntava il dito al cielo e indicava, imitando in questo il suo giocatore preferito dei Red Sox, Tom Gordon.
Lo aveva fatto anche quel pomeriggio e Rachel era andata in visibilio. Si era proprio divertita un sacco e dopo uno spuntino preparatole da Gwen era salita di sopra e si era addormentata col sorriso ancora stampato sulle labbra, a ricordo della meravigliosa giornata appena passata.
Era del tutto ignara del fatto che Benji e suo padre avevano discusso di nuovo e che lui ora era in castigo nella sua stanza. Non era al corrente degli ultimi sviluppi. Ricordava solo che mentre era in cucina a fare merenda, con Gwen che iniziava a preparare la cena, qualcosa aveva attirato l’attenzione di Benji.
Era una busta bianca, posata sulla mensola in alto, accanto al frigorifero, fuori dalla portata di occhi indiscreti. Il posto dove la domestica era solita tenere la corrispondenza importante prima di consegnarla ai signori Price.
Rachel aveva visto l’espressione di Benji farsi pensierosa. Rapidamente, non visto da Gwen, aveva preso la busta ed era sgusciato fuori dalla cucina prima che la domestica si accorgesse della sparizione del documento.
Rachel non l’aveva più visto né gli aveva più parlato da quel momento. Aveva finito la sua merenda con tutta tranquillità, senza curarsi di andarlo a cercare per curiosare dentro quella busta. Sapeva che se fosse stata una cosa importante glielo avrebbe fatto sapere lui stesso.
Così era salita nella sua stanza e, appena toccato il letto si era addormentata beata, spossata da tutte le avventure vissute quel pomeriggio.
Ma all’improvviso qualcosa turbò il suo sonno, così tranquillo fino a quel momento.
Era come se una nuvola nera avesse oscurato un cielo azzurro e limpido, minacciando pioggia.
Si mosse nel sonno, cercando di scacciare quella sensazione sgradevole che aveva disturbato la quiete del suo riposo, ma non riuscì a riportare la calma di poco prima. Si agitò di nuovo, cercando di emergere da quel sogno buio e spaventoso, quando improvvisamente udì una voce.
Era una risata maligna, terrificante, che le fece accapponare la pelle. Poi udì la voce di suo fratello. Era spaventato almeno quanto lei e le stava chiedendo aiuto.
Rachel si spaventò ancora di più per questo. Significava che Benji era in pericolo se chiedeva aiuto a lei! Cercò di non perdere la testa e di stabilire un nuovo contatto con Benji. Era strano, ma era come se avessero comunicato davvero. Non era nel suo sogno, non era immaginazione, era nella sua testa che avevano parlato!
Non seppe come spiegarselo, ma cercò nuovamente il contatto con la mente di Benji. Le venne spontaneo, come se lo avesse fatto da sempre, ed era convinta che anche per lui fosse lo stesso.

 Aiutami Rachel! Non so cosa mi sta succedendo … Aiutami ti prego, solo tu puoi farlo!

Di nuovo la voce di Benji le riempì la testa. Era un’invocazione disperata ma Rachel trovò il coraggio di rispondere.

-Resisti, fratello. Ora vengo ad aiutarti, vengo da te!

Sentì ancora quella malefica risata e si svegliò di soprassalto con un gemito, rizzandosi a sedere sul letto. Aveva ancora la pelle d’oca ed era sudata, segno di quanto quell’incubo fosse stato reale.
Si guardò intorno smarrita, cercando di fare mente locale su quanto era accaduto.
Era nella sua stanza, cosa che la tranquillizzò parecchio. Si era addormentata coi vestiti ancora addosso, dopo una splendida giornata, ed ora si risvegliava terrorizzata da un incubo surreale, dove suo fratello le chiedeva aiuto. Sembrò riaversi dal suo turbamento e si alzò di scatto.

Benji ha bisogno di me devo aiutarlo, anche se non so come.

Questo pensiero bastò per farla muovere. Aprì la porta e corse fuori nel corridoio, in cerca di qualcuno che potesse aiutarla.
Svoltò l’angolo delle scale e letteralmente finì tra le braccia di Reynolds che, colto alla sprovvista dal suo slancio, si sbilanciò all’indietro.

-Rachel, tesoro. Dove vai così di fretta? Hai quasi placcato il tuo quarterback!

Lei sorrise e gridò il suo nome con sollievo. - JOHN! Mi devi aiutare, è importante.

Prese a tirarlo per un braccio, sospingendolo nella sua direzione.
Lui si fece serio e la osservò. La bambina sembrava spaventata sul serio. Era scalza, notò. Indossava i suoi adorati jeans a zampa d’elefante ed una magliettina rosso fuoco che le metteva in risalto i lunghi capelli corvini, ora trattenuti da una coda di cavallo che le arrivava alla vita.
Negli occhi chiarissimi, identici a quelli del fratello, tremolò una lacrima e John si rese conto di quanto fosse sconvolta.

-Cosa è successo tesoro. Vuoi che chiami papà?

Rachel scosse il capo con vigore, facendo danzare i lunghi capelli.

-No. No, John aiutami tu, per favore. Benji sta male ha bisogno del mio aiuto ma io non so che cosa devo fare.-

John si sorprese. - Come sarebbe a dire che Benji sta male? Che cos’ha?

-Non lo so, John non perdiamo tempo. Presto, vieni!

Rachel continuava a tirarlo per un braccio ma Reynolds si chinò all’altezza dei suoi occhi e la prese delicatamente per le spalle.

-Tesoro, calmati ora. Guardami: Benji non sta male. Ha solo fatto arrabbiare di nuovo tuo padre per la storia della scuola, e lui l’ha punito. Non sta male, hai capito? Ora andiamo da Phil e gli chiediamo il permesso di vederlo, così ti renderai conto da sola che sta bene, okay?

Rachel cercò di divincolarsi da John mettendosi a piangere e urlare.

-No! No. Non è vero. Non capisci. Lui ha chiesto aiuto a me, mi ha chiesto aiuto come io ora lo chiedo a te! Aiutami John, aiutami per favore.

Reynolds la prese in braccio e andò verso il ballatoio, affacciandosi di sotto per vedere se Phil era ancora in giro, vicino alla biblioteca.
Dopo la riunione aveva detto di volersi ritirare per un’oretta nella sua stanza. Voleva riposare un po’ prima di cena e a quanto pare aveva tenuto fede alle sue parole, perché la biblioteca era deserta.
Reynolds sentiva di dover fare subito qualcosa. La bambina sembrava seriamente turbata. Poteva anche essere veramente successo qualcosa e loro non lo sapevano. Come medico non se la sentiva di sottovalutare quel particolare legame che avevano i gemelli in situazioni analoghe. Come amico non voleva certo mettersi in mezzo a Phil in decisioni che non lo riguardavano. Non voleva mettere in dubbio la sua autorità di padre, e il comportamento di Rachel lo metteva un po’ a disagio. Sembrava che in quel momento lei preferisse che ad aiutarla fosse lui e non suo padre.

-Va bene tesoro, ora stammi a sentire, vuoi? Andremo da Benji, ma dobbiamo avvertire tuo padre. Non vorrei che si arrabbiasse di nuovo, okay?

Rachel annuì, nascondendo la testa nell’incavo del collo di John. Sempre tenendola in braccio, la portò proprio dinanzi alla porta della stanza di Benji. La depose con delicatezza per terra, e rimasero in ascolto. Da dentro non arrivava nessun rumore. Provarono a girare la maniglia, ma era chiusa a chiave.

-Forse sta dormendo - azzardò Reynolds, ma era chiaro che a quel punto voleva esserne sicuro anche lui. Provò a bussare, dapprima leggermente, chiamando Benji per nome. Ancora nessuna risposta.

-Hai visto? Se stava dormendo ci avrebbe già risposto! - osservò Rachel.

-Magari è offeso e non vuole vedere nessuno dopo la lite con vostro padre.

-A me parlerebbe lo stesso, John, lo sai anche tu. Ti dico che c’è qualcosa che non va.

-Okay, vieni, andiamo a dirlo a tuo padre.

John la prese di nuovo su e imboccarono il corridoio per salire di sopra, alla camera da letto padronale di Philip e Johanna.


Philip, conclusa la riunione e accomiatatosi dai colleghi, aveva deciso di stendersi un po’ prima di cena, dato il terribile mal di testa che gli era costato quello scontro con il figlio.
Fece scorrere le doppie porte a scomparsa della camera da letto padronale e con stupore vide che la moglie era già tornata.
Sedeva dandogli la schiena, indaffarata alla toeletta. Aveva già fatto la doccia, poiché indossava una vestaglia da camera di raso bianca. I capelli ancora umidi, erano sciolti sulle spalle; erano di un bel castano scuro, con dei riflessi rossi, cosa che lei detestava ma che Phil adorava, per questo non se li era ancora tinti. Aveva solo fatto dei colpi di sole, e si sentiva un po’ meglio.
Il viso era un ovale perfetto, cosparso di lentiggini, a fare da cornice a due occhi di cerbiatta azzurro intenso.

-Jo. Che bella sorpresa. Non sapevo che fossi già tornata - disse richiudendosi la porta alle spalle che scivolò nelle guide senza rumore.

-Eri ancora in riunione, non volevo disturbare. Un momento solo, caro, sto lottando da dieci minuti con queste maledette lenti a contatto.

Armeggiò un altro po’ con lo specchio, mise il disinfettante e la soluzione salina nel cassetto insieme alle lenti e finalmente si voltò verso il marito. Phil ridacchiava divertito.

-Non rida di me, dottore. Le costerà caro ridersela alle spalle di un avvocato penalista in difficoltà! A proposito: Telefoni domani al suo oculista e dica che la moglie del primario ha delle difficoltà a tollerare quegli affari. Opterà per un bel paio di occhiali, ma solo per lavorare, intesi?

-Agli ordini, Vostro Onore!

Risero e si abbracciarono.

-Che giornata faticosa oggi, non ce la faccio più.

-Non dirlo a me, cara, sono distrutto ed ho un’emicrania in piena regola.

-Vieni qui, dottore, magari un po’ di coccole ti rimetteranno in sesto.

-Lo spero. Ne ho bisogno.

-Che è successo? Hai una faccia terribile.

-Abbiamo concluso i preventivi con John, Sage e Greenway, oggi e come se non bastasse ho di nuovo discusso con tuo figlio.

-Non dirmi che avete litigato ancora per il Saint Peter’s.

-Sì, di nuovo. Ma questa volta è andato troppo oltre. Mi ha fatto proprio uscire di senno! Pensa che è venuto in biblioteca di fronte ai miei colleghi e ho dovuto letteralmente trascinarlo di sopra a viva forza.

-Uh. Immagino quello che è successo poi.

-No, Jo, davvero. Mi ha persino minacciato, ti rendi conto? Era in preda ad una crisi isterica vera e propria.

-Oh Santo Cielo! Ora come sta?- si preoccupò Jo.

-Sta bene, a parte il suo orgoglio ferito. Non preoccuparti, lo lascerò sbollire ancora un po’, poi andrò a parlarci.

Jo sollevò un sopracciglio. - Non riesco a credere a quello che mi hai detto. Perché avrebbe fatto una cosa tanto stupida?

-E’ quello che voglio scoprire. Anche se credo che dipenda tutto dal fatto che non vogliano andare in quella scuola.

-Non credi allora che forse dovremmo rivedere le nostre decisioni? Se quel posto li mette così a disagio …

-Sei troppo indulgente, tesoro, ti dimentichi perfino che sei un avvocato quando ci sono di mezzo i tuoi figli. Non hai pensato invece che è tutta una messinscena per farci cambiare idea? Un capriccio, chiamalo come vuoi, ma resta il fatto che hanno architettato tutto per mandare a monte la nostra decisione.

-Pensi che sarebbero capaci di arrivare a tanto?

-Si Jo. Li stai sottovalutando troppo. Dimmi: hai visto forse qualcosa che non andava il giorno che siamo stati a vedere la scuola?

-Beh ... No. Anzi, mi sembrava tutto fin troppo perfetto, se proprio lo vuoi sapere.

-Ecco, quindi dammi solo un valido motivo per ritrattare le nostre decisioni.

-Sai? Saresti perfetto per rappresentare la pubblica accusa, avvocato Price! Forse hai ragione tu, non ho nessun valido motivo. Mi preoccupo troppo ecco tutto. In fondo sono, oltre che una donna in carriera, anche una madre, no?

-Una brava madre - la zittì Phil con un bacio. Johanna ricambiò con entusiasmo, e finirono sul letto ancora abbracciati.

-Finalmente un po’ di tempo per noi - farfugliò tra un bacio e l’altro.

-Non mi sembra vero!- rise Jo togliendosi la vestaglia da camera.

Scompigliò i capelli neri del marito, affondando i polpastrelli nel cuoio capelluto e massaggiandogli la testa.
Philip si rilassò gemendo per il piacere che quel massaggio gli procurava. Solo la moglie sapeva calmarlo con uno di quei suoi massaggi speciali.

-Va un po’ meglio, dottore?

-Infermiera la prego non smetta, non smetta finché non mi sarà passato questo mal di testa.

Johanna fece finta di indignarsi.

-Ma guarda! Dovrei essere io quella da coccolare e invece …

Philip tornò alla carica, tempestandola di piccoli baci su tutto il corpo.

-Oh, dottore, così va molto meglio …

-Ne è proprio sicura? Posso fare di meglio, sa?

-Beh, si dia da fare, allora! E’ così che tratta le sue pazienti? Non vorrà che il mio mal d’amore peggiori!

-Oh, no di certo! Vediamo, vediamo …

Improvvisamente furono disturbati da un insistente bussare alla porta. Philip dapprincipio non si lasciò distrarre da quel bussare incessante, ignorandolo completamente, ma Johanna si tirò su e lo bloccò.

-Vai a vedere, tesoro, magari è importante.

Phil riemerse tutto scompigliato. - Oh, No. Proprio adesso che iniziavo a rilassarmi. Magari è Gwen che chiama per la cena. Lasciala attendere un po’.

-Phil, tesoro, Gwen non bussa mai quando siamo qui da soli, lo sai.

-Okay, mi arrendo. Vado a vedere chi è - sentenziò Phil e si avviò verso la porta, rimettendosi la camicia nei pantaloni mentre Jo si rimetteva la vestaglia da camera e lo seguiva.

Da fuori bussarono di nuovo, con insistenza. - Insomma, chi è?- chiese Philip un po’ infastidito da tutta quell’insistenza. Aprì la doppia porta scorrevole e immediatamente l’espressione del suo viso cambiò. Ora, vedendosi dinanzi Reynolds con Rachel in braccio non si sentiva più infastidito. Sapeva che John era molto discreto e se era arrivato a tanto, il motivo era più che valido.

-John, scusa … Io pensavo che fosse Gwen che avvisava per la cena …

Reynolds arrossì un poco. - Scusami tu, Phil, se ti ho disturbato, ma vedi … è successa una cosa.

Philip ridivenne subito serio e capì che qualcosa non andava.

-Che cosa c’è, John? Che è successo?  

Phil posò lo sguardo su Rachel, tuttora avvinghiata al collo di Reynolds. Fece un cenno con il capo come per chiedere se era Rachel che stava male, ma John scosse la testa.

-Ho incontrato la bambina di sotto, nel corridoio, era sconvolta. Continua a ripetere che Benji sta male, che ha bisogno di aiuto, e sinceramente sono un po’ preoccupato. Volevo che tu lo sapessi e venissi a dare un’ occhiata, almeno per calmare la piccola.

Philip sorrise a Rachel e le tese le braccia per farla venire da lui. Lei lo osservò, poi tornò a nascondere il capo nel collo di John. Phil riabbassò le braccia e accarezzò i capelli di Rachel.

-Tesoro va tutto bene. Tuo fratello non sta male, hai solo fatto un brutto sogno e hai visto cose non vere.

Rachel si voltò verso suo padre, furente, e per un attimo Philip si ritrovò di fronte lo stesso sguardo di Benji, quando prima non gli aveva creduto su quanto sosteneva sulla scuola.

-Tu non mi credi, papà, ma è la verità! - disse Rachel, ma ‘ tu non mi ascolti, tu non vuoi capire’ furono le parole che il cervello di Philip registrò mentre ripensava alla discussione avuta con Benji.
Ora Rachel aveva usato lo stesso identico tono, e anche le parole erano molto simili, tanto che gli sembrò davvero di aver riascoltato le parole del figlio.

-Benji sta male, ha bisogno di me! - insistette lei.

-Come fai a dire che sta male?- volle sapere suo padre.

-Me l’ha detto lui, mi ha chiamato, papà … - Qui Rachel si bloccò. Vedeva l’espressione del viso di suo padre. Non le credeva.

-Senti, Rachel, è stata una giornata infernale per tutti, credimi. Non vedo il motivo di disturbare anche John per i vostri capricci.

-Non sono capricci!!- urlò Rachel fuori di sé - Vieni a vedere se non mi credi! Da dietro quella porta non viene alcun rumore!!

Philip guardò Reynolds, un po’ preoccupato, cercando conferma di quello che stava dicendo la figlia.

-E’ vero. Abbiamo bussato e chiamato, ma niente. Per questo mi sono fatto coinvolgere e ti ho chiamato. Non volevo disturbarti, ma …

-John, nessun disturbo, davvero. In quanto a te, signorina, se è tutta una macchinazione perché vuoi stare con tuo fratello quando sai che gliel’ho proibito, faremo i conti più tardi.

Phil parlò puntando minaccioso l’indice verso Rachel.
 
-Non mi fare pentire di quello che sto facendo, perché oggi proprio non è giornata. Ci ha già pensato Benjamin a farmi andare fuori dei gangheri. Non lo fare anche tu, perché ti prometto che ce n’è anche per te! Andiamo.

Si affrettarono per il corridoio, poi lungo lo scalone. Phil iniziava ad essere preoccupato, specialmente perché John non aveva smentito il racconto di Rachel. All’inizio era convinto che fosse una bugia, ma ora erano entrambi imbarazzati e preoccupati allo stesso tempo. Sembrava si fossero fatti coinvolgere in chissà quale intrigo.

-Non avete sentito nulla prima probabilmente perché starà dormendo, cosa che ritengo molto probabile, visto lo sfogo di nervi che ha avuto.

-Anch’io ho detto la stessa cosa a Rachel quando siamo stati qui poco fa, ma a questo punto, se tu sei d’accordo, vorrei esserne sicuro.

-Certo, anch’io.

Sia Phil che John erano entrambi ottimi medici, si fidavano ciecamente l’uno del parere dell’altro. Entrambi sapevano che c’era qualcosa da chiarire, ma prima, giustamente volevano accertarsene.
Arrivarono tutti, John, Phil, Johanna con Rachel in braccio davanti alla stanza di Benji al piccolo trotto. Si fermarono solo il tempo necessario ad aprire la serratura, poi si ritrovarono tutti all’interno della camera. Quasi si aspettavano di vedere Benji correre fuori e farsi beffe di loro, ma la stanza sembrava deserta. Per un momento, che sembrò durare all’infinito, la finestra ancora aperta catturò l’attenzione di tutti. Rimasero pietrificati ad osservare le tendine che oscillavano al vento, mentre la mente, a differenza dei loro corpi, correva veloce, immaginando il peggio.
John si riebbe più in fretta di tutti e correndo verso il bagno, ne spalancò la porta, poi si chinò ad osservare qualcosa.
A prima vista, dopo la loro confusa irruzione, la stanza sembrava deserta. Ora erano tutti in preda ad una febbrile agitazione ma Rachel, che era l’unica che poteva saperlo, pensò che Benji fosse andato semplicemente al suo rifugio segreto quando voleva pensare: l’incavo del tronco dell’olmo.
E per arrivarci, ovviamente, doveva passare per la finestra. Era quasi tentata di dirlo ai genitori e a John, quantomeno per tranquillizzarli, ma si bloccò in tempo. Non era quello il momento giusto. Il padre era già abbastanza fuori di sé e avrebbe solo peggiorato la situazione, spaventando a morte la mamma.
Phil si avvicinò alla finestra, si sporse fuori e guardò giù, poi si ritrasse con un sospiro di sollievo e richiuse la finestra. Johanna era ancora in piedi vicino alla porta, con le mani premute sulla bocca come per impedirsi di urlare, in attesa di una risposta.
Incrociò lo sguardo del marito che scosse il capo, tranquillizzandola.

-Dio, ti ringrazio!- riuscì a dire Jo prima che la voce di John li fece voltare tutti verso la porta del bagno. Nessuno aveva pensato di guardare subito là, scioccati com’erano alla vista della stanza vuota e della finestra spalancata.

-Presto, Phil, qui, l’ho trovato!

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


Capitolo 4

Trovarono Benji riverso sul pavimento del bagno, privo di sensi e completamente madido di sudore.
I capelli bagnati gli stavano appiccicati sulla fronte a mazzetti, coprendo parte della ferita sulla tempia, da cui usciva ancora un rivolo di sangue. Qualche goccia aveva imbrattato la maglietta, finendo poi sul pavimento a formare una piccola pozza.

-Mio Dio aveva ragione la bambina! - esclamò Phil chinandosi sul figlio per esaminarlo.

-Presto, John, la mia borsa.

Reynolds tornò quasi subito con la borsa del pronto soccorso che lui e Philip avevano sempre appresso. Si chinò a fianco di Phil iniziando a esaminare Benji.
Rachel, abbracciata alla madre, piangeva in silenzio, osservando John e suo padre chini sopra il corpo del fratello come due avvoltoi su di una carcassa. Quel macabro paragone la fece piangere ancora più forte e la madre, che osservava con occhi sgranati la scena, la prese in braccio tranquillizzandola come meglio poteva.

-Va tutto bene, tesoro, ora ci sono papà e John: loro sanno cosa fare.

-Mamma! Perché Benji non si muove?

-Credo sia svenuto, Rachel, non è niente di grave.

In quel momento Rachel vide suo padre trasformarsi in quello che era: il bravo medico che tutti conoscevano. Le fece impressione, era la prima volta che lo vedeva in veste di medico e non di genitore. Al suo fianco, anche John le sembrava diverso.
Stava elencando a Phil tutti i sintomi, con voce priva di inflessione, professionale, efficiente e distaccata, come se si trovassero in sala operatoria invece che a casa.

-Polso irregolare. Battito cardiaco accelerato. Sudore copioso e pelle fredda, viscida al tatto. Ferita superficiale alla tempia sinistra, probabilmente dovuta alla caduta contro lo spigolo della porta. Da un rapido esame sembrerebbe proprio uno shock nervoso.

-Okay - disse Phil - voglio subito un calmante. E fermiamo questa emorragia.

Phil spostò i capelli bagnati di Benji, osservò attentamente la ferita e medicò con mano esperta, mentre John preparava l’iniezione.
Rachel si agitò in braccio alla madre, terrorizzata e contrariata e Jo se ne accorse.

-No, no! Non la puntura. Benji ha … lui non vuole … - diceva nell’orecchio della madre.

-Ssth, tesoro non è niente, tuo padre sa quello che fa. Vedrai che dopo Benji starà bene.

Reynolds strinse il laccio emostatico e con due dita cercò la vena; strofinò il braccio con un po’ di cotone e fece l’iniezione.
Rachel terrorizzata si voltò da un’altra parte. Le faceva impressione guardare. Benji ebbe un lieve sussulto.

-Su, portiamolo sul letto, ora - disse Phil.

Quando lo sollevarono, Rachel vide le braccia ricadere inerti, penzoloni. Doveva stare proprio male se non si era nemmeno accorto che John gli aveva fatto una puntura.
Lo adagiarono sul letto e Jo si avvicinò con Rachel.

-Phil? - si azzardò a chiedere con un filo di voce - va tutto bene? Che cos’ha?

-Credo abbia avuto uno shock nervoso. Ha perso i sensi cadendo e si è ferito, ma le condizioni generali sono buone. Presto, tesoro, portami della biancheria pulita e un asciugamano: dobbiamo togliere questa roba bagnata.

Jo aiutò il marito ad infilargli i vestiti asciutti e puliti, mentre Rachel si era accasciata per terra.

Benji parlami! Perché non mi dici nulla? Mi fai paura. Svegliati. Per piacere.

Aveva nuovamente stabilito quel contatto mentale, senza saperlo e senza nemmeno rendersene conto.

Mi senti fratellino? Sono qui con te. Ti ho aiutato! Rispondimi. Svegliati. SVEGLIATI !!

Le dita della mano ebbero un fremito, poi Benji aprì gli occhi. Sbatté le palpebre per un attimo, cercando di mettere a fuoco, ma tutto gli ruotava intorno in un turbinio indistinto di suoni e colori. Sentiva le voci, ma molto lontane, voci che lo chiamavano, poi chiuse nuovamente gli occhi e non si mosse più.

Philip gli sentì il polso - Ora è regolare.

-Papà! Perché non si sveglia? Si era mosso poco fa, perché non si sveglia?!

-Rachel va tutto bene ora. Si è svegliato, è rinvenuto, ed ora dorme tranquillo perché gli abbiamo dato un calmante. Era troppo nervoso, capisci? Era necessario.

Rachel scosse la testa, facendo segno di no.

-No, non capisco!- pianse - perché dorme? Non deve dormire! Avrà di nuovo quei brutti incubi, se dorme, come è successo a me.

-Non ora, piccola. Ora dorme senza sognare nulla, per l’effetto della medicina. Più tardi, quando si sveglierà, potrai parlargli. Ora non ti può sentire.

-Ma sta bene?- chiese tutta preoccupata - ho visto il sangue.

-Sta bene. Il sangue che hai visto era solo un taglietto sulla tempia che si è fatto quando, cadendo, ha sbattuto contro lo stipite della porta.

Rachel sembrò risollevarsi. Gli credeva. Se suo padre, il medico, le diceva che andava tutto bene, lei gli credeva.
Gli si arrampicò in braccio, cosa che non faceva da giorni per via della decisione di mandarli in quella scuola. Erano ai ferri corti, ma in quel momento sentiva di dovergli esprimere gratitudine per aver salvato il suo prezioso fratello. Gli stampò un bacio sulla guancia.

-Grazie, papà.

Lui annuì, uscendo dalla stanza con Rachel in braccio e con la borsa nera del pronto soccorso nell’altra mano.
Reynolds e Jo chiusero la porta e in silenzio la piccola processione si diresse nella sala da pranzo.
Johanna era ancora molto scossa e parlò poco per tutta la durata della cena. Mangiò ancora meno, cincischiando con il cibo nel piatto e Phil cercò di rassicurarla.

-Non riesco a spiegarmi perché sia potuto accadere tutto questo - disse al marito mentre spostava il cibo nel piatto con la forchetta senza toccarlo - tu stesso mi hai detto che oggi pomeriggio stava bene, prima della vostra discussione.
 
-E’ vero. Ma ho notato anche che ha avuto una reazione esagerata; era molto alterato e il suo fisico, con tutta probabilità, non ha retto a quell’accumulo di tensione. Sarebbe successo comunque, prima o poi, anche se non avessimo discusso. Quello che non mi spiego io, invece, è come facevi tu, signorina, a sapere che stava male.

Philip aveva rivolto la sua attenzione a Rachel, che abbassò lo sguardo nel piatto, fingendosi troppo occupata a mangiare per rispondere.

Reynolds si pulì col tovagliolo e bevve un sorso di vino - Ci sono stati casi di persone - disse - molto unite tra loro, in grado di percepire se uno dei due stava male o se era in pericolo, ma mai con la matematica certezza con cui la bambina insisteva nel chiedermi aiuto.

-John, io sono un avvocato, non un medico, ma suppongo che dei gemelli abbiano qualcosa in più dei semplici fratelli; non so, tipo delle sensazioni, essendo così legati tra loro magari percepiscono meglio di altri quando uno di loro, come dicevi prima tu, sta male o corre serio pericolo.

-Quello che dici è vero, tesoro - aggiunse Phil - ma qui c’è qualcosa di più su cui vorrei far luce. Per prima cosa quando John è venuto di sopra a chiamarci, ho chiesto a Rachel come faceva a sapere che Benji stava male, ricordi?

Jo annuì e anche John. Rachel tacque.

-Bene. E lei cosa ha risposto? Che lo sapeva perché Benji glielo aveva detto. Ora: se lui era svenuto, come faceva a parlare o a chiamarla? A meno che non fosse tutta una finzione architettata da loro due, come spesso succede, ma anche qui: come avrebbe fatto Benji a fingere così bene di stare male? Avrebbe potuto facilmente procurarsi la ferita sulla tempia, e altrettanto dicasi per il sudore e il battito cardiaco accelerato; gli sarebbe bastato fare un po’ di moto nella stanza per ottenere l’effetto desiderato, ed è abbastanza scaltro da saperlo fare, altroché. Ma in questo caso la pelle sarebbe stata calda, non fredda e viscida, come accade invece a chi è in stato di shock. Inoltre, conoscendolo, non si sarebbe mai spinto a tal punto da farsi fare un’iniezione così docilmente. A meno che non stesse male per davvero, e come medico ti confermo che lo shock, lo svenimento, e tutto quanto non era certo una finzione. Allora resta la domanda che non riesco a spiegare: come faceva lei a sapere che stava male?

Phil aveva parlato senza staccare gli occhi da Rachel, anche se era rivolto sia a Johanna sia a Reynolds. Sapeva che la figlia nascondeva qualcosa, qualcosa che forse non voleva o non poteva dire a nessuno perché nemmeno lei lo poteva spiegare.
John e la madre ora, dopo l’arringa di papà, aspettavano che lei dicesse qualcosa. Sempre tenendo gli occhi bassi, con un filo di voce, Rachel parlò: - Io … io stavo riposando - iniziò a dire, torcendo nervosamente il tovagliolo tra le mani - quando ho avuto un incubo terribile che mi ha fatto svegliare subito …

-Ti ricordi questo incubo? Riesci a fare una descrizione? - le chiese John dolcemente.

Rachel non lo guardò. Scosse la testa, debolmente, poi la voce le si incrinò e quando parlò di nuovo era vicinissima alle lacrime.

-Io … non mi ricordo molto, ma credo che a spaventarmi sia stata … non so … una voce che rideva in modo cattivo; era la risata di qualcuno che voleva … farci del male.

-Rachel, nessuno vuole fare del male a te o a Benji, mettitelo in testa, e comunque questo non spiega come sei arrivata a sapere in modo così preciso che Benji stava male; ti prego di aiutarci a capire.

Phil guardò la figlia con impazienza. Se c’era qualcosa che lo infastidiva, era il non riuscire a capire il perché delle cose. In campo medico, nulla poteva sfuggirgli, ma intuiva che ciò che stava apprendendo dalla figlia avrebbe potuto interessare molto anche a Doc Greenway; in fondo, era il suo campo, quello.

Rachel proseguì con una voce appena udibile. - Dopo aver sentito quella terribile risata io ho …  ho sentito Benji che mi chiedeva aiuto … mi parlava proprio qui, nella testa, non era solo nel sogno, lo udivo perfettamente; mi implorava di aiutarlo perché solo io lo potevo fare e questo mi ha spaventato a morte perché Benji non mi chiede mai aiuto; sono io che di solito lo chiedo a lui, così mi sono presa una strizza! Ma il bello è che gli ho risposto allo stesso modo, ed ero più che certa che mi poteva sentire. C’era un contatto tra noi, papà, ma non so davvero come metterlo in parole, come … - Si bloccò, alzando gli occhi dal piatto, fissando prima i genitori, poi John.

-Come se steste comunicando col pensiero - finì il padre per lei.

Rachel annuì - Credo che sia successo davvero, non me lo sono sognato, papà. Lo abbiamo fatto per davvero! E non credo nemmeno che fosse la prima volta. Tutto è iniziato al ritorno dal Saint Peter’s … e nei sogni c’è sempre uno strano uomo calvo che ci minaccia e dice cose cattive, ma non riusciamo mai a vederlo … e quel dolore. E’ quasi insopportabile. Ne parlai più volte a Benji ma lui mi disse sempre di stare zitta e non dire niente a nessuno. Credo non volesse passare per un pazzo che vedeva le persone che non esistevano …

John, Philip e Johanna si guardarono.

-Esiste un termine preciso per definire questo fenomeno, ma non credo rientri nei miei parametri di avvocato - disse Jo sentendosi un po’ inquieta per le cose dette da sua figlia.

-Se ti riferisci al fatto di comunicare con la mente si dice telepatia ed è considerato un fenomeno extrasensoriale, ma anche in campo medico se ne sa pochissimo - aggiunse John a beneficio di Jo.

-Anche se qui credo ci sia dell’altro che dovremmo analizzare. Forse dovremmo parlare con Doc.

Philip annuì, rimuginando tra sé. Jo fissò stupita Reynolds.

-Doc? Intendete forse il dottor Greenway, lo psichiatra? - Fu il turno di John di annuire.

-Ma cosa c’entra Doc Greenway con quello che è successo? Lui si occupa di malati di mente, non di fenomeni extrasensoriali o come vogliate chiamarli.

-Jo, Doc è prima di tutto un ottimo neurologo, nonché caro amico, non si occupa solo di malattie mentali, ma anche di come funziona il cervello umano, e se c’è una persona qualificata per parlare di queste cose … beh, quello è certamente Doc Greenway - la informò Philip.

-Una volta - proseguì Jo - mi capitò un caso di un ragazzino che poteva spostare gli oggetti con il pensiero … ma poi si scoprì che soffriva molto e cercava di attirare su di sé l’attenzione, facendo credere di saper fare quelle cose con la mente, invece usava dei trucchetti da prestigiatore; venimmo a sapere che era tutto un inganno. Ci rimasi molto male. Ora non so quanto questo abbia a che fare con quello che è successo qui oggi, ma non mi sembra di ricordare di aver mai visto o sentito i gemelli parlare con qualche “amico immaginario”. Queste cose mi spaventano un po’.
   
-Non so cosa dire, sono sinceramente sorpreso da tutto questo - si difese John.

 Philip non parlò, ma era perplesso dallo scetticismo della moglie. Forse era solo una madre preoccupata in quel momento.
Rachel s’inquietò non poco per la piega che stava prendendo quella conversazione. Non le piaceva per niente il modo in cui suo padre pensava e pensava. Non le piaceva il muto assenso di Reynolds e ancor meno le piaceva la storia tirata fuori dalla madre! Forse erano loro i matti!

-Sentite - parlò per farsi coraggio e per mettere in chiaro che ne aveva abbastanza - forse me lo sono sognata, ho immaginato tutto, non è successo niente e la mamma ha ragione.

Si odiò a morte. Non riusciva ad essere convincente e lo sapeva. Aveva pasticciato tutto. Non doveva assolutamente aprire bocca! Ora avrebbero pensato che loro due potessero avere un qualche genere di problema mentale e la madre temeva che potessero diventare dei fenomeni da baraccone. Oh, come avrebbe voluto che Benji fosse lì con lei. Avrebbe saputo di sicuro cosa dire.

-Sono stanca, vorrei ritirarmi, se non vi dispiace - piagnucolò.

Di solito non aspettava mai il permesso di alzarsi da tavola, ma lo fece per placare quella scintilla che aveva notato negli occhi di suo padre. Sembrava lui il fenomeno da baraccone adesso, e questo la spaventava.

-Non ancora, Rachel - disse Philip - vorrei chiederti un’ultima cosa, prima.

-Ma papà … - si lamentò lei.

-Dimmi, Rachel, poi te ne puoi andare, se vuoi, ma prima dimmi: è mai successo altre volte, prima d’ora ? Non vi è mai capitato di farlo in altre occasioni?

-Fare che cosa papà?

-Di comunicare col pensiero, di sentire o vedere persone … come è successo stasera. Magari ci sono stati momenti in cui …

-Papà ?- Lo interruppe lei alzandosi da tavola - Non è mai successo, se è questo che vuoi sapere.

-Ti prego, tesoro, pensaci un attimo, è importante.

Rachel odiava l’insistenza con cui suo padre la stava torchiando; sembrava un bambino che aveva appena scoperto un giocattolo nuovo.
Finse di pensarci su, più che altro perché voleva andare nella sua stanza, al sicuro dai loro occhi indagatori. Desiderò che Benji fosse li, a proteggerla; lui avrebbe di sicuro saputo destreggiarsi meglio di lei in una situazione del genere.

-Mi dispiace, papà, non ricordo nessun’altra occasione prima d’ora, mentì. Adesso vorrei andare a riposare …

-Ma certo, tesoro, certo, e mi raccomando, se dovessi avere ancora dei brutti sogni non esitare a chiamarci.

-Okay.

-Vengo più tardi a rimboccarti le coperte, tesoro, buonanotte - la raggiunse la voce della madre e le soffiò un bacio dal palmo della mano. Rachel fece lo stesso e prese a correre su per lo scalone, fino a raggiungere la sua camera.

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Capitolo 5
*** Capitolo 5 ***


Capitolo 5

Corse a perdifiato, scappando soprattutto da suo padre, da quello sguardo indagatore, da tutte quelle domande che la mettevano a disagio. La cosa non sarebbe finita lì, ne era certa. Suo padre voleva vederci chiaro, come al solito, e non appena Benji fosse stato meglio, avrebbe messo sotto torchio anche lui per farsi dire quello che voleva.
Non appena Rachel uscì dalla sala da pranzo, i tre adulti si fecero portare il caffè e l’amaro, rimanendo a discutere fino a notte fonda.

Johanna, un po’ più serena, ora, chiese al marito e a John: - Che ne pensate di tutta quanta la faccenda?

Era chiaro che voleva un parere medico. Il brillante avvocato penalista dello studio associato Law & Co di Park Avenue, New York, voleva sapere senza giri di parole se i suoi figli avevano dei disturbi mentali. Voleva sentirselo dire dal marito, illustre primario e chirurgo di chiara fama. Non avrebbe accettato di saperlo da altri medici. Sapeva che di Philip poteva fidarsi.

-Non ti nascondo che sono seriamente preoccupato. E’ da un po’ di tempo che noto degli atteggiamenti strani da parte di entrambi, ma non ho detto niente prima perché ho pensato che fosse tutta una scusa per farci cambiare idea sulla scuola, ne abbiamo già parlato di questo. Ora però, sentendo quello che ha detto Rachel poco fa, temo che il discorso scuola non c’entri affatto. Ha mentito dicendo che era la prima volta che succedeva. Sicuramente esiste una spiegazione medica e razionale a tutto ciò, e quello che sosteneva prima John sul legame particolare dei gemelli in situazioni analoghe non è infondato, tuttavia vorrei saperne di più e intendo sottoporre il fatto all’attenzione di Doc, sempre se non hai nulla in contrario, Jo.

Johanna finì di bere il suo caffè, prima di rivolgersi nuovamente al marito - No, non ho nulla in contrario che ne parliate al dott. Greenway, anche perché se i bambini hanno un problema, è giusto che debba essere risolto. Sono solo preoccupata per loro e temo delle ripercussioni; sono ancora piccoli, e noi siamo sempre distanti per il lavoro …

Philip le sorrise, indulgente - Le ripercussioni temo siano inevitabili, purtroppo, ma è giusto affrontare il problema; hai visto tu stessa cosa può succedere se certe cose vanno trascurate - Si riferiva al fatto che il figlio si era fatto del male.

-Credi l’abbia fatto apposta?

-Non sono sicuro, ma non escluderei l’ipotesi. Voglio fare degli accertamenti e del mio staff posso fidarmi ciecamente. Non permetterò che ai nostri figli venga fatto del male, credimi.

-Ne sono sicura. E so che farai la cosa giusta, come sempre. Ora, se volete scusarmi, è stata una giornata molto lunga e faticosa, e credo che domani mi aspetti un’altrettanto lunga e faticosa giornata in tribunale. Ho bisogno di riposarmi.

Johanna si accomiatò sbadigliando, mentre John e Philip si trattennero ancora un po’, discutendo animatamente su quanto avevano visto, poi anche loro decisero di ritirarsi, d’accordo che il giorno seguente avrebbero parlato al dottor Greenway.


Nel cuore della notte, quando ormai tutti dormivano, Benji si mosse nel sonno. Probabilmente cercando di svegliarsi, ma il farmaco che il padre gli aveva somministrato glielo impediva; gli avevano rifilato una bella dose massiccia, che non gli permetteva nulla di più di un vago e confuso dormiveglia. Tuttavia, Benji cercò di tornare in sé; lottò con tutte le sue forze e riuscì a malapena a socchiudere gli occhi. Il medicinale era davvero troppo forte e lui era così stanco … ma tentò comunque di mettere a fuoco la stanza. Gli doleva la testa e nonostante non fosse del tutto cosciente, capì che tutta la stanza era immersa nella penombra.

Notte, deve essere notte, pensò.
 
Sentiva il corpo pesante, e non riusciva a muovere neppure un muscolo; non poteva nemmeno girare la testa o roteare gli occhi. Questo lo spaventò e cercò di nuovo di avere un po’ più di lucidità. Riuscì a sbattere le palpebre, tanto che in tutto quel buio, gli sembrò che un’ombra più scura fosse china su di lui. Se fosse stato cosciente, con tutta probabilità sarebbe saltato giù dal letto, avrebbe impugnato una delle sue mazze da baseball che teneva in una cesta a fianco all’armadio, e l’avrebbe brandita contro l’intruso, magari gridandogli:- Fatti sotto, avanti!
Ovviamente, drogato com’era, non poteva nemmeno muoversi, ma gli sembrò veramente che al suo fianco ci fosse qualcuno. Sentì qualcosa sfiorargli il polso sinistro e, farmaco o no, ebbe un sussulto. In un ultimo sforzo sovrumano che gli costò tutte le energie che aveva, irrigidì il braccio, cercando di liberarlo da quell’uomo malvagio che lo perseguitava. All’improvviso un bagliore luminoso ruppe le fitte tenebre e Benji ebbe la certezza di non essere solo in quella stanza.
Intravedeva qualcuno muoversi alla sua sinistra. Purtroppo le pupille dilatate dal farmaco e ferite dalla luce improvvisa, non lo aiutarono a mettere a fuoco; tuttavia gli sfuggì un gemito quando sentì nuovamente quella pressione sul polso. D’istinto cercò di ritrarre il braccio e ancora una volta quel qualcuno glielo impedì. Il panico lo assalì di nuovo, come un’ondata, ed ebbe un altro sussulto.
 
-Non farmi del male … non … ti prego … - farfugliò senza rendersene conto. Gli sembrò che qualcuno lo chiamasse per nome, ma ormai il suono era lontano e indistinto. Il farmaco ebbe il sopravvento e lo riportò nell’oblio dal quale aveva cercato di uscire. Non si mosse più e non udì più nulla.


Philip, accomiatatosi da John aveva deciso di dare un’occhiata a Benji prima di andare a dormire.
Per essere tranquillo, anche se era impossibile che si potesse svegliare durante la notte, con tutto il tranquillante che aveva in corpo.
Ciononostante, quando gli prese il polso per sentire il battito, gli sembrò che avesse un sussulto; tentò addirittura di irrigidire il braccio come per liberarlo dalla sua presa. Phil, convinto che si stesse svegliando, accese la luce sul comodino per un esame più accurato. Il polso era regolare. Benji sussultò nuovamente quando Phil lo strinse per la seconda volta. Cercò di parlare, ma Phil non riuscì a capire bene. - Possibile? Benji? Mi senti, sono papà, sei sveglio, riesci a sentirmi?

Udiva il suo respiro regolare, ma non si mosse più, nemmeno quando lo chiamò per nome.

Probabilmente ha avuto solo un attimo di lucidità poi il medicinale lo ha riportato nel mondo dei sogni, pensò Phil.

Vedendo che era tranquillo, spense la luce e andò a dormire. Per le scale, ripensò alle parole che gli aveva sentito farfugliare; gli sembrava avesse detto qualcosa come “fare del male”, o forse “non farmi del male”. Poteva darsi che stesse sognando, ma ne dubitava alquanto, imbottito di tranquillante com’era; tuttavia, trattandosi di Benji, non se ne sarebbe meravigliato affatto.
Oggi gli aveva dimostrato che non si sarebbe fermato di fronte a niente. Aveva quasi calpestato la sua autorità di padre, e questo non andava bene.

Va fermato. Quel ragazzo va fermato, o chissà cosa mi combinerà in futuro.
Aveva bisogno di vedere Doc al più presto.


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Eccomi qui. Vorrei iniziare a ringraziare le persone che stanno leggendo e recensendo questo mio romanzo, scritto all'età di 15 anni nel difficile periodo del liceo....
Un grazie ad Arte: mi hai scritto cose davvero lusinghiere. Ho imparato a conoscere e apprezzare le precise recensioni che hai lasciato alla nostra comune amica ( ed ottima scrittrice) Kellina, e ritrovarti qui a recensire quello che scrivo io è per me un piacere immenso e un onore!
Kellina: cosa dirti, senza di te forse oggi non sarei nemmeno qui!! Grazie del supporto che mi hai sempre dato e per i continui incoraggiamenti e i preziosi consigli che non manchi mai di farmi avere... è grazie a te che ho preso fiducia, superando le perplessità di pubblicare o meno una storia cosi drammatica. Ma ho visto il sincero interesse e quindi...ecco qui!! Spero di non annoiarvi nei prossimi capitoli di questa non facile avventura. A proposito, avrei bisogno di un consiglio: Ho scelto un titolo provvisorio...ero indecisa sul da farsi e non  sono del tutto convinta della mia scelta....qualche suggerimento?
Un grazie ancora a chi mi legge. A presto, LADY FAITH.

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Capitolo 6
*** Capitolo 6 ***


Capitolo 6

Il risveglio fu lento e difficile. In parte era colpa di quella medicina che gli avevano iniettato in corpo; si sentiva lento, goffo e maldestro. Aveva la testa pesante e i riflessi offuscati.
Ma il motivo vero della sua paura era un altro. Era la voce che lo spaventava, la voce dell’uomo calvo che gli parlava nella testa. E le fitte di dolore che questi poteva procurargli solo se gli girava storta al mattino o se lui gli avesse disobbedito.

In fondo tutto si riduceva a questo, pensò Benji, e non era nemmeno molto lontano dalla verità.

Gli bastava il ricordo di quello che era accaduto la sera prima per atterrirlo di nuovo. La discussione avuta con suo padre, era ben poca cosa in confronto; l’uomo calvo era meschino e crudele, sapeva bene dove faceva più male colpire, a differenza di Philip, che si comportava invece come un normale genitore. Era una grossa differenza.
Inoltre Benji, non sapeva se l’uomo calvo che gli parlava nella testa esisteva realmente o meno.
L’unica cosa di cui era certo, era che tutto era cominciato il giorno in cui i genitori li avevano portati a vedere la nuova scuola; la sera stessa erano iniziati gli incubi, ma mai fino a ieri sera l’uomo gli aveva parlato con la mente; non ne aveva avuto bisogno, aiutato anche dal pugno di ferro di Philip. Si era limitato ai brutti sogni, e per un po’ aveva avuto tutto sotto controllo, fino a ieri appunto, quando la situazione gli era sfuggita di mano. La ribellione di Benji non era prevista, o meglio, non era previsto che arrivasse a tanto.
E se Phil avesse ceduto? Se avesse cambiato idea a causa del comportamento del figlio? Forse sarebbe intervenuta anche la madre, che aveva già espresso le sue perplessità al riguardo. Finora era andata bene perché Philip non aveva ceduto di un millimetro, incoraggiato anzi dal comportamento ostile dei figli ma ieri sera, aveva avuto un attimo di cedimento nell’affrontare suo figlio; la sua autorità di padre aveva vacillato, e lui, l’uomo calvo, era dovuto intervenire in modo drastico per evitare che il ragazzo avesse la meglio sul padre.
In fondo non aveva fatto nulla di male, se non aiutare un genitore in difficoltà. Ma sapeva bene che le cose ora avevano preso una piega diversa; non poteva più seguire i suoi propositi originali. Il ragazzino era astuto e testardo, aveva fiutato il pericolo quel giorno a scuola, e anche la sorella. L’unica cosa positiva era che i genitori e il dottore che viveva con loro non gli avevano creduto, convinti che fosse l’ennesimo capriccio di testardaggine.
All’uomo calvo non restava che una scappatoia: continuare a manifestarsi, terrorizzando il ragazzo, facendolo sembrare agli occhi della sua famiglia un pazzo visionario che sentiva le voci nella sua testa, e che aveva coinvolto anche la sorella.
Purtroppo, l’uomo calvo era stato costretto ad usare la telepatia, trasmettendo così ai bambini la capacità di usarla a loro volta, ma poco male comunque. Ci avrebbe pensato il padre a quello; era già riuscito a spaventare la piccola con i suoi vaneggiamenti da strizzacervelli sul paranormale; lui non avrebbe fatto altro che assistere allo spettacolo. Il padre gli avrebbe mostrato tutta la sua gratitudine dal momento che, finalmente, sarebbe riuscito a farsi obbedire a bacchetta da quel figlio ribelle che aveva. Rise forte, gettando indietro il capo, rise con la sua ormai nota risata malvagia …


Benji si svegliò di soprassalto, improvvisamente sveglio e conscio, nonostante l’oblio del farmaco lo avesse cullato in una specie di dormiveglia, prima che si svegliasse del tutto. Sbatté gli occhi un po’ prima di avere una visione abbastanza nitida. Era nella sua stanza, solo, non c’era nessuno con lui, cosa che lo sollevò dopo gli orrori della notte appena trascorsa.
Almeno non doveva rispondere a nessuna domanda, che era sicuro il padre avrebbe voluto fargli; dopo tutto quello che era successo …
Restò in ascolto in silenzio, i rumori della casa gli rivelarono che era già in piedi; forse stava bevendo caffè in biblioteca. Era più che certo che di li a poco sarebbe salito per vedere come stava, e avrebbe preteso dei chiarimenti sull’intera faccenda. Benji si ritrovò a pensare, non senza stupore, che in quel momento aveva paura di suo padre. Non era la prima volta che discutevano, e di sicuro non sarebbe stata l’ultima, ma lo stesso dentro di se sapeva che c’era qualcosa di sbagliato.
In fondo, se ci pensava, gli era andata anche bene. Se l’era cavata solo con un paio di ceffoni e la temporanea segregazione nella sua stanza, quando a volte, per molto meno, suo padre aveva sfilato la cinghia dai calzoni, lasciandogli per giorni i segni sulle gambe. Ma lo stesso, sapeva che ora era diverso. Mai, nemmeno dopo la più dura delle punizioni aveva permesso alla paura di intaccare il suo spirito indomito; rigava dritto per qualche giorno, forse, ma nulla di più. Ora invece, c’era qualcosa che era cambiato a livello psicologico; inconsciamente lo sapeva e temeva suo padre perché lui era un medico e se ne sarebbe accorto. Avrebbe pensato a lui come a un pazzo e questo non andava bene; Ci sarebbero state conseguenze spiacevoli, e questo lo atterriva. Un’altra cosa che lo terrorizzava era l’uomo calvo con la voce che parlava dentro la sua testa; era quasi certo che si trattasse di telepatia, ma perché la sentiva solo ora? E perché riusciva a comunicare con Rachel nello stesso modo, se prima non c’erano mai riusciti? E poi, quel dolore fortissimo, che lo costringeva a prendersi la testa fra le mani e piangere tanto faceva male.
E tutto era cominciato il giorno in cui avevano visitato il Saint Peter’s; e suo padre non gli credeva; anzi, ora che sapeva di questa “voce” lo avrebbe creduto matto, e non c’era cosa peggiore al momento, dato che ieri aveva già avuto una crisi e si era pure ferito per non sentire nessuna voce nella testa.
 
Accidenti!

Forse Reynolds, anche lui ottimo medico, lo aveva già convinto a richiedere una serie di esami! Ed era più che certo che Philip lo avrebbe ascoltato.



Benji si rizzò a sedere sul letto col cuore che gli martellava fin dentro le orecchie per la paura.

No, non è possibile, pensò. Non l’ho sentita veramente, mi sono solo fatto suggestionare dai miei pensieri! Che mi prende, accidenti! Quella voce non esiste, non è reale!

 Ma la risata, quella risata, era inconfondibile. Benji si sporse dal letto, in preda al panico, e afferrò il bicchiere pieno d’acqua che qualcuno gli aveva lasciato sul comodino durante la notte. Aveva la gola secca e un po’ d’acqua era ciò che voleva per calmarsi.
Tese l’orecchio, in ascolto, per captare qualche altra frase della voce. Niente. Bevve un altro sorso e si allungò di nuovo verso il comodino per posare il bicchiere. All’improvviso un dolore simile ad una scarica elettrica gli attanagliò la testa, strappandogli un gemito di dolore e spavento; le dita tremarono e il bicchiere, in bilico per un attimo sul bordo del comodino, andò a frantumarsi sul pavimento con un tintinnio di vetri rotti che si ripercosse nella sua testa all’infinito.

Chi è che non esiste, ragazzino ipocrita? Sta attento a non fare l’insolente con me, o te la faccio pagare!

Benji gridò di nuovo e si mise le mani sulle orecchie, scuotendo il capo - No, no, no! Non esisti, non ti sento, lasciami in pace, vai via.

Di nuovo la risata folle.

Benji tolse le mani dalle orecchie, buttò indietro le lenzuola, e scese dal letto. O meglio, cercò di scendere dal letto, ma la voce lo bloccò di nuovo.

Non fare lo stupido. Guarda! Guarda che casino hai combinato! Vetri dappertutto. Tuo padre sarà qui a momenti e che bello spettacolo troverà. Stavolta si arrabbierà di brutto, ragazzo, e non si limiterà certo a pensare che suo figlio sia squilibrato!

Quelle parole bastarono a bloccarlo. Accidenti! La voce aveva ragione. Se si fosse tagliato alzandosi dal letto solo per un altro incubo, che cosa sarebbe successo?
 
-Maledizione!- imprecò e con un’abile capriola che nemmeno l’uomo calvo, doveva riconoscerlo, sospettava potesse fare in quel momento ancora lento di riflessi e maldestro a causa della medicina che non aveva ancora smaltito del tutto, scavalcò il letto e si ritrovò dalla parte sicura, quella dove non c’erano cocci di vetro per terra. Ebbe, infatti, un lieve capogiro e si accasciò a terra, ma fu solo un attimo di sbandamento; si rimise in piedi e girò intorno al letto; se era vero che suo padre stava arrivando, non poteva vedere tutto quel casino. Sua intenzione era di raccogliere tutti i pezzetti di vetro e gettarli via prima che arrivasse, così non si sarebbe accorto di quanto era sconvolto, o che sentiva ancora quella voce; avrebbe dato la colpa al farmaco, e …
 
Sei scaltro, ragazzo, devo ammetterlo, ma ormai è troppo tardi. Lui sta arrivando! Ti taglierai, e la situazione peggiorerà. Dammi retta, lascia le cose come stanno.

- Sta zitto - sibilò Benji - tu sei un’allucinazione!

La sua voce era stridula per la paura, ma si concentrò lo stesso su quello che stava per fare. Aveva addosso solamente una t- shirt immacolata e i pantaloni della tuta di cotone, anch’essi bianchi con una striscia rossa ai lati; era scalzo, e questo non giocava a suo favore, ma non aveva il tempo di vestirsi; sapeva che di lì a poco suo padre sarebbe venuto a vederlo, ed era proprio incasinato alla grande. - Accidenti, assomiglio a mio cugino William il cacasotto!- disse quasi senza accorgersene, e con molta cautela avanzò a piedi nudi tra i cocci del bicchiere frantumato.
Il cuore che martellava nel petto, la fatica per non perdere di nuovo i sensi, dannazione a quel farmaco, e la concentrazione per non ferirsi, erano spasmodiche ma almeno la voce stava zitta.
Cautamente, si mise in ginocchio e poggiò le mani a terra, stando molto attento ai pezzettini più piccoli. Ce n’erano ovunque, e lui voleva sbrigarsi; suo padre poteva arrivare da un momento all’altro. Senza contare che la voce avrebbe potuto spaventarlo all’improvviso e …
No, no. Quei pensieri non andavano bene; lo rendevano nervoso e gli facevano perdere la concentrazione. Non gli erano di nessun aiuto. Chiuse gli occhi per un attimo, sgombrando la mente. Quando li riaprì, sembrava che andasse un po’ meglio. Attese di sentire qualche rumore da basso, ma tutto pareva tranquillo; beh, tanto meglio. Si concentrò su quello che voleva fare. Iniziò a riunire i cocci in un unico punto, di modo da poterli facilmente raccogliere con una rivista; finora era andato tutto bene, non si era deconcentrato e lavorava veloce, con metodo.
Ma di colpo, tutto cambiò. Si era chinato per guardare sotto il letto con la testa oltre la traversa, sicuro che ci fosse qualche frammento anche la sotto, e aveva allungato il braccio per raggiungere una grossa scheggia che era finita quasi al centro del letto; sporse la testa sotto la traversa, un pochino ancora e l’avrebbe raggiunta; ma così facendo, la luce del sole che entrava dalla finestra, non illuminava più le schegge, che divennero opache e difficili da localizzare. Benji tastò il pavimento con le dita, alla ricerca del coccio, senza accorgersi che il suo braccio era andato oltre e che il frammento appuntito ora era vicinissimo al suo polso; se si fosse tagliato lì, pensò, avrebbe perso tantissimo sangue … No. No, accidenti, non devo pensare a queste cose.

Chiuse di nuovo gli occhi e si bloccò per paura di incontrare qualche pezzetto mentre non guardava. Il frammento stava li, con le punte scheggiate crudelmente rivolte all’insù, come se aspettasse che Benji commettesse un errore. In men che non si dica, accadde il peggio. Benji stava per riprendere la sua esplorazione dopo l’attimo di esitazione che l’aveva bloccato, quando gli sembrò di udire rumori in corridoio, vicino alla sua stanza, dei passi e qualcuno che parlava forse, non ne era sicuro … poi lo scalpiccio si fece più forte, e Benji, atterrito dal panico, scattò all’indietro. Nel ritrarre il braccio, la scheggia gli si conficcò proprio nel polso, dove scorreva tutto il delicato intrico delle vene; non percepì altro che l’acuto dolore della lacerazione e sentì il sangue caldo che iniziava ad uscire dalla ferita …
 
-Ah! No. Dannazione, no!

Si era tagliato, e ora stava arrivando veramente suo padre. Uscì da sotto il letto e si alzò in piedi, stando attento a non calpestare schegge almeno coi piedi. Guardò il suo povero polso martoriato, e con un gemito di terrore vide che la scheggia era ancora lì conficcata nella sua carne; il sangue rosso scuro usciva e usciva, scorrendo giù per il braccio, fino al gomito, e poi su fino alla manica della maglietta; il bianco si stava velocemente tingendo di rosso; si sentì mancare, ma si fece coraggio, afferrò le punte della scheggia con le dita della mano destra e tirò con forza; la scheggia uscì insieme ad un copioso fiotto di sangue; Benji gemette di nuovo, sedendosi per terra per non svenire. Si strinse il braccio al petto e gettò via la scheggia insanguinata; la vista gli si oscurò e per un attimo che gli parve infinito, temeva che sarebbe svenuto per davvero.
Il davanti della maglietta, immacolato fino a poco prima, ormai era tutto rosso; anche i calzoni erano macchiati di sangue. Doveva fare subito qualcosa o sarebbe morto dissanguato.
Gli venne la nausea, ma fece uno sforzo sovrumano per dominarsi.

Avanti. Avanti, resisti ce la puoi fare, non guardare il sangue! Non svenire o è finita!
 
Voleva raggiungere il bagno; lì avrebbe trovato di sicuro qualcosa per fermare l’emorragia. Si avviò gattonando verso il bagno, procedendo tutto storto; non voleva usare il braccio ferito, così camminava sulle ginocchia e sui gomiti; non osava alzarsi in piedi per paura di svenire. Così facendo, lasciava dietro di sé una scia rossa gocciolante …
Si fermò a metà percorso, ansimando, per aspettare che gli passasse la nausea e i puntini davanti alla vista, quando la dannatissima voce si fece sentire di nuovo.

Non impari mai eh ragazzo? Non ti avevo detto che andavi in cerca di guai, eh? Beh, ora li hai trovati i guai, sicuro!

La folle e insana risata che seguì, gli fece arruffare di nuovo le penne. Strinse i denti e sibilò seccato: - Ascoltami bene, ho già abbastanza casini, al momento senza che ti ci metti anche tu; perché non mi fai il piacere di andartene all’inferno?!

Silenzio da parte della voce. Benji, sempre più spaventato, sull’orlo della crisi, pensò che la voce gli avesse già concesso di rispondergli male troppe volte; la prossima non sarebbe stato tanto fortunato, ne era sicuro. Gliel’avrebbe fatta pagare. Ormai gli sembrava di conoscere i suoi “metodi educativi!”

Oddio, pensò poi con orrore, Sto parlando e pensando di questa follia come se fosse vera! Non è possibile.
Si scosse, cercò di farsi coraggio, e riprese a trascinarsi verso il bagno, lentamente. Il braccio ferito gli faceva male. Si fermò un attimo per riprendere fiato e calmare l’ennesimo conato di nausea; con un gesto puramente istintivo, si passò il dorso della mano sana, la destra, sulla faccia, scansando i capelli bagnati di sudore sulla fronte, senza rendersi conto che, così facendo, si era imbrattato di sangue anche la faccia. Chi l’avrebbe visto ora, si sarebbe preso un infarto come minimo; sembrava reduce da un incidente. Finalmente, a fatica, riuscì a toccare lo stipite della porta del bagno; le dita sporche di sangue vi lasciarono sopra un’impronta rossa ben visibile. Si trascinò dentro con uno sforzo supremo dettato dalla disperazione; toccò il lavabo e anche li lasciò tracce rosse del suo passaggio. Raggiunse la vasca da bagno e si accasciò contro di essa, poggiandovi la schiena per non svenire. Incrociò le gambe per avere maggiore stabilità; sembrava, in quella posizione, un piccolo buddha votato al sacrificio, tutto coperto di sangue com’era; solo qua e là, ora si intravedeva sotto tutto quel rosso il bianco di maglietta e calzoni. La faccia poi era un disastro; sembrava un indiano sioux pronto per la caccia.
Si concesse un attimo di riposo, poi aprì gli occhi e cercò in giro qualcosa per fasciare il polso. Il flusso era molto diminuito ora, ma il sangue usciva ancora; iniziava a sentirsi debole per l’emorragia prolungata e lottava per non perdere i sensi.

Un ultimo sforzo ormai è fatta, si incoraggiò. Staccò il braccio ferito dal petto, dove lo aveva tenuto premuto per evitare ulteriori guai, e tremando lo allungò verso la salvietta che stava appesa a fianco del lavabo.
 
Andiamo, non guardare, è solo il tuo sangue, non svenire proprio ora, forza, un ultimo sforzo. Si costrinse a continuare nonostante il dolore. Allungò ancora il braccio fino allo spasimo e con l’indice e il medio afferrò un lembo della salvietta, iniziando a tirarla verso di se. Il gancio non voleva saperne di mollare e Benji ormai era stremato.

-Maledetto, molla, accidenti!- disse con voce leggermente stridula. Gli sembrò di udire in quel momento la risata malvagia di Calvo, ma non ci fece caso. Ridesse pure, e andasse al diavolo! Lui aveva un enorme problema al momento, che esigeva priorità assoluta.

Il riso denigratorio ora si fece udire ben chiaro e distinto e Benji, che era terrorizzato e furioso allo stesso tempo, gridò alla voce: - Chi sei, bastardo, che cosa vuoi da me, eh? Ti piace lo show? Ti piace?? Eh? Vai all’inferno, okay, farabutto, vattene e lasciami in pace!!

Benji ansimò; non riusciva a prendere quella dannata salvietta e la voce continuava a spaventarlo quando più aveva bisogno di calmarsi. Il braccio gli pulsava dolorosamente e all’improvviso un’ acutissima fitta di dolore da oscurare le precedenti, gli trapassò la testa. Urlò di nuovo, con quanta voce gli era rimasta, e si portò tutte e due le mani alle tempie, come per impedire loro di esplodere. Il braccio sinistro, completamente rosso e grondante sangue, gli imbrattò tutto il lato sinistro della faccia, capelli e orecchie compresi.

-No! No, basta, basta, vattene!

Non sei altro che un piccolo scavezzacollo piantagrane e frignone! Mi hai disubbidito e insultato. Ora sei in guai grossi e solo per colpa tua! Se mi avessi ascoltato, ti saresti risparmiato tutto questo dolore, per non parlare di ciò che ti aspetta nei giorni a venire! Ma tu no! Figurati! Ubbidire sarebbe stato troppo per te, e allora, eccoti servito. Tuo padre penserà che sei pericoloso e te ne starai buono buono sotto chiave per un po’. Questo è il duro prezzo della tua insolenza, ragazzo. Non dirmi che non ti avevo avvertito. E poche storie. Più urli e ti ribelli a me, più forte sentirai il dolore. E’ il solo modo per farti imparare. Capirai, prima o poi capirai che io faccio sul serio e che con me non si scherza.

Benji gemette forte, e il suo urlo gli morì in gola. Quel dolore alla testa … era devastante; le mani premute con forza sulle tempie, a placare quell’emicrania che gli spaccava in due il cervello, gli occhi chiusi e le lacrime che rotolavano giù dalle guance sporche di sangue. Quando il dolore fu meno intenso, poté udire di nuovo l’uomo calvo parlare.

La mia è una scuola dura, ragazzo, dura ma efficace, e prima lo capirai, meglio sarà per te.

Questa volta, Benji odiò quella voce. La odiò tanto che, benché stesse per svenire, non poté fare a meno di urlare: - Io non sono pazzo, tu non sei reale, io non sono pazzo, okay? Vattene all’inferno, quello è il tuo posto, non andrò alla tua scuola, non tormentarmi più! Non esisti. Tu non esisti, tu sei un’allucinazione!

Stava ancora gridando, con le mani sulle tempie, ora strette a pugno e gli occhi serrati e non s’avvide che suo padre era entrato nella stanza.

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Capitolo 7
*** Capitolo 7 ***


Capitolo 7

Philip, che dal corridoio aveva sentito le sue urla, si era precipitato nella stanza convinto che Benji si fosse svegliato con un incubo, quindi per nulla preparato a ciò che lo attendeva. Quando spalancò la porta, ciò che vide lo paralizzò. Guardò il letto vuoto, i cocci di vetro sparsi ovunque.

-Oh mio Dio, ma cosa è successo qui?- Si voltò verso il corridoio. - John! John!! chiamò - Vieni qui, presto!- Poi rientrò nella stanza.
Sul pavimento c’erano una scia di gocce di sangue che conducevano al bagno. Philip si precipitò in quella direzione e ciò che vide e udì lo terrorizzò non poco.
Benji era in bagno, proprio davanti a lui, appoggiato alla vasca con la schiena, le ginocchia piegate davanti a sé, gli occhi serrati e le mani premute sulle tempie, coi pugni chiusi che stringevano ciuffi di capelli insanguinati; Philip vide sangue ovunque. La faccia, le braccia, le mani, i vestiti, il pavimento, tutto era insanguinato. E stava urlando qualcosa che Philip udì solo allora:

-Io non sono pazzo! Lasciami stare! Tu non esisti! Non sei reale! Ahia, la mia testa, mi fa male … mi fa male … Vai via, vattene! VATTENE!!

-Oh cielo, Benjamin!

Philip lo chiamò dalla soglia, ma le sue urla erano più forti di tutto. Corse verso di lui e gli si chinò di fronte. - BENJAMIN!- urlò per farsi sentire, e afferratogli i polsi glieli allontanò dalle tempie, tenendoli davanti a sé.
Benji spalancò gli occhi, con evidente terrore, e cercò di liberare le braccia bloccate.

-Lasciami!- urlò - tu non sei che un’allucinazione … io non sono pazzo …  

Strattonò Phil con la forza della paura e della disperazione, indebolito com’era dalla perdita di sangue. Philip gli urlò di nuovo: - Benjamin, guardami, sono io, sono tuo padre, sono reale e sono qui con te. E’ tutto finito, ora, guardami! Mi riconosci? Ma che diavolo hai fatto? Che cosa hai fatto?

Solo allora Benji parve riconoscerlo; sbatté le palpebre un paio di volte, come per vederci meglio, e un nuovo terrore lo assalì; sussultò e cercò di parlare, quando Reynolds comparve sulla soglia del bagno, dietro a Philip. I suoi occhi si spostarono febbrili da John a suo padre, poi si posarono nuovamente su Reynolds. Entrambi avevano un’espressione preoccupata e Benji sapeva che non era certo la vista di tutto quel sangue a inquietarli; erano abituati, lavorando in sala operatoria. No, quella preoccupazione era per il suo stato di confusione mentale, ne era certo. Ed era proprio ciò che temeva.
Posò gli occhi colmi di paura sul padre, che gli stava inginocchiato di fronte; il cuore martellava come impazzito.

-Non … non è come pensi … io non sono … io non … la testa … la mia testa …

-Va tutto bene, sta calmo, ci siamo qui noi ora, è tutto okay.

 Perché suo padre gli stava parlando così?

-Fammi dare un’occhiata al braccio, da bravo; voglio vedere dove sei ferito.

Mentre gli parlava, Philip tirò verso di se il braccio sinistro del figlio; era tutto coperto di sangue ormai rappreso, ma il taglio sull’interno del polso si vedeva ancora chiaramente; era profondo e leggermente in diagonale, come se il braccio fosse stato appoggiato su qualcosa di appuntito e poi premutovi in modo da far penetrare l’oggetto nella carne.
Benji cercò di ritrarre il braccio prima che suo padre lo toccasse, ma Phil fu più svelto di lui, e trovato un fazzoletto di fortuna, lo premette forte sulla ferita e lo legò per arrestare l’emorragia.
Benji, già molto provato dalla perdita prolungata di sangue, lottava per non perdere i sensi, ma quando Phil toccò la ferita aperta, ecco che i puntini neri tornarono a offuscargli la vista e le orecchie gli fischiarono. Questa volta svenne per davvero. Si accasciò contro la vasca da bagno come una bambola di pezza.
Subito Philip e John si trasformarono nei due efficienti medici che erano. Non volevano che Benji intuisse quanto era grave la situazione e non volevano agitarlo più di quanto già non fosse, ma era necessario che agissero in fretta; in un certo senso era un bene che fosse svenuto.

John era accanto a Phil - Presto, John, dobbiamo portarlo subito in ospedale; voglio attaccarlo al più presto a una flebo; ha perso molto sangue e voglio controllare bene quella ferita.

John annuì e prese in braccio Benji. Phil si guardò un attimo intorno, poi staccò un grande asciugamano azzurro e lo usò per coprire il figlio. John guardò Phil come per chiedergli a cosa servisse il suo gesto.

-Non voglio che Rachel veda tutto quel sangue; si spaventerebbe a morte.

-Dovremo dirglielo, Phil, non possiamo lasciarla qui da sola, e se non vede suo fratello, capirà comunque.

-Sì, certo.

Scesero in fretta lo scalone, uscirono e si diressero verso l’auto di Phil parcheggiata nel vialetto.

Rachel era in giardino che giocava da sola, con una vecchia palla da baseball. Non appena li vide, corse loro incontro. Vide suo padre aprire la portiera di dietro e aiutare John a salire; John portava in braccio un fagotto molto ingombrante. Si avvicinò curiosa, e non appena suo padre la vide, le fece cenno di avvicinarsi. Sembrava avere molta fretta. Rachel trotterellò verso suo padre, con i lunghi capelli corvini ondeggianti al vento.
 
Quando fu abbastanza vicina, percepì che qualcosa non andava - Papà?- chiese come per tastare il terreno.
 -Presto, tesoro, sali in macchina - Lui le aprì la porta anteriore, cosa che la allarmò ulteriormente, dato che questo era contrario alle sue abitudini. Si affrettò a obbedire, prima che cambiasse idea, e quando fu seduta, la sensazione che qualcosa andasse storto si intensificò.

-Metti la cintura, Rachel - Papà aveva la faccia seria, preoccupata.
 
Deve essere successo qualcosa, pensò - Gwen arriva più tardi, oggi. La mamma le ha chiesto di sbrigare alcune commissioni in centro e …

-Lo so- la interruppe Philip.

Rachel aveva parlato con una vocina appena udibile, ed era un po’ spaventata dal brusco modo di guidare di suo padre; faceva così quando era preoccupato.
Radunò lo scarso coraggio e gli domandò:- Papà? Dove stiamo andando?

-In ospedale.
 
-I … in ospedale? Perché?

-Rachel, tesoro, devo dirti una cosa, ma ho bisogno che tu mi ascolti attentamente, mi segui?-

Lei annuì col capo. Ormai era spaventata a morte. Il cuore prese a battere forte.

-Sei una bambina coraggiosa, e so che capirai. Vedi …

 Phil lanciò a Reynolds un’occhiata nello specchietto retrovisore, e John annuì col capo.

- … stamattina Benji è stato male di nuovo …

Grosse lacrime silenziose presero a rigargli le guance. - Ha avuto una specie di … di incidente e si è tagliato con un pezzo di vetro.- A questo punto i singhiozzi di Rachel erano incontrollabili.

-Come sta, papà? E’ tanto grave? Ti prego, non mentirmi!- disse tra un singhiozzo e l’altro - Avevo capito, sai, che qualcosa non andava.

- Non credo sia tanto grave, piccola, ma devo visitarlo bene e a casa non posso farlo.

All’improvviso, Rachel capì. Il fagotto che John teneva in braccio … Si voltò di scatto, tanto che il meccanismo della cintura di sicurezza si azionò. - John!-
 
Guardò il corpo inerme del fratello, abbandonato tra le braccia di Reynolds, ma era quasi interamente coperto da un asciugamano azzurro; riuscì a intravedere soltanto un ciuffo di capelli impiastricciati; sembrava sangue e un braccio che sbucava fuori da quella specie di sudario. Anche la mano era sporca di sangue, notò Rachel, e nuove lacrime le offuscarono la vista.

-E’ ancora svenuto?- chiese a John, che con un sorriso le rispose di si.

-E allora perché non lo fate rinvenire?-

-Meglio di no, per ora piccola; sai, se fosse in sé si spaventerebbe proprio come te adesso; invece se dorme è tranquillo e non peggiora la situazione; guarirà presto, vedrai. Ti fidi ancora del tuo vecchio amico John?-
 
Rachel si ritrasse, tornando a sedersi diritta. - Oh, John, perché ci sta succedendo tutto questo?-

I singhiozzi tornarono a farsi sentire e Rachel nascose il capo tra le mani.

Philip staccò il cellulare dal suo supporto, digitò un numero e attese che dall’altro capo qualcuno rispondesse. Avvenne al terzo squillo. - Western Maine, pronto soccorso, parla Brian Thorne –

-Brian, sono Philip.

-Ah, dottor Price, non l’avevo riconosciuta, mi dica.

-Brian sto arrivando lì da te, ho un’urgenza. Mio figlio è ferito; arriverò tra una decina di minuti. Ho bisogno che ti faccia trovare nell’atrio esterno; porta una barella. Ah, chiamami il dottor Greenway e digli di venire appena può, ho bisogno di parlargli.

-E’ già qui. E’ di turno su da Doreen.

-Bene, avvisalo che sto arrivando. E dì anche a Doreen di preparare la stanza azzurra, potrei averne bisogno.

-Si dottore, nient’altro?
 
-Sì, un’ultima cosa: la barella, portamela con le cinghie.

-Va bene, l’aspetto dottore.

- Sì, grazie Brian.

Phil riattaccò il cellulare al supporto. Rachel lo guardava con il terrore negli occhi. Phil se ne accorse.

-Non temere piccola, Benji ha una fibra di ferro. Te lo rimetteremo in sesto, vedrai.

Phil allungò una mano, accarezzandole i capelli e asciugandole le lacrime.

-Dovrà restare lì stanotte?

-E’ probabile; è più sicuro se passa la notte in osservazione.

Rachel tacque, strofinandosi le mani sui jeans. Se lui stava li, ci sarebbe rimasta pure lei. E avrebbe cercato di nuovo di stabilire quel contatto mentale.


Qualche minuto più tardi, il Dodge Ram di Philip si fermava bruscamente davanti all’entrata del pronto soccorso del Western Maine.
Dalle doppie porte stavano uscendo in quel momento un uomo e una donna, probabilmente marito e moglie; lui aveva un braccio ingessato appeso al collo e con quello sano, abbracciava la moglie, che ora gli rivolgeva un pallido sorriso, anche se gli occhi non avevano ancora del tutto cancellato lo spavento di poco prima.
 
Dietro di loro, in uno svolazzare di camice bianco, apparve Brian Thorne, l’infermiere del pronto soccorso. Philip stava aiutando Reynolds a scendere quando Brian li raggiunse.

-Dottore! Cos’è successo? Poco fa al telefono mi ha quasi spaventato.

-Te lo spiego dopo, Brian ora devo spostare l’auto da qui.

-Non preoccuparti dell’auto, ci penso io. Porto Rachel di sopra e vi raggiungo - lo interruppe John, mentre Philip e Brian prendevano Benji dalle sue braccia e lo adagiavano sulla barella lì a fianco.
 
-Ok John, ci vediamo dentro.

Reynolds fece un cenno col capo, salì in macchina e imboccò la discesa del parcheggio sotterraneo più in fretta che poteva. In realtà, avendo l’auto di Phil i contrassegni dei medici, avrebbe potuto tranquillamente parcheggiare nei posteggi riservati ai dipendenti dell’ospedale, ma non voleva che Rachel vedesse Benji in quelle condizioni. Prendendo il parcheggio sotterraneo avrebbe perso più tempo, ed era esattamente ciò che voleva. La bambina, infatti, protestò.

-John! Voglio andare con loro. Voglio stare con mio fratello! Ha bisogno di me …

-Tesoro, non puoi andare li, lo sai. Lo aspetteremo di sopra.
 
-Perché? Voi non volete farmelo vedere! Io posso aiutarlo!

-Ora ha urgente bisogno di cure. Non ti vedrebbe comunque. Quando uscirà dal pronto soccorso, probabilmente avrà già ripreso i sensi e allora si che potrai stare con lui.

-Me lo prometti? Non è che dopo v’inventate altre scuse, perché giuro che mi metto a urlare.
 
-No, niente scuse. Anche perché sono sicuro che la tua presenza sarà indispensabile; il dottor Greenway vorrà farti alcune domande.

-Domande?- Rachel si sentì a disagio. Tutti i suoi sensi erano all’erta.
 
- Sì, tesoro, domande. Ci sarà bisogno di spiegare quello che è successo; non ti preoccupare, Doc adora le chiacchiere, specialmente quelle con i bambini. Sarai tu a dover ascoltare lui per tutto il tempo!

Rachel guardò John dritto in faccia. Lui era occupato a pagare il ticket del parcheggio. Quando la sbarra si sollevò e ripresero la discesa, John ricambiò il suo sguardo.

-Ho paura. E’ questo posto che mi mette i brividi. Anche Benji ha paura. Lo sento. Cosa gli faranno John? Almeno questo puoi dirmelo?

-Non dovere avere paura. E’ solo un ospedale. La gente ci viene per essere curata.
 
-John!
 
-Non temere, non gli faranno nulla di male. Ha bisogno di una flebo per ripristinare i liquidi che ha perduto, una fasciatura al braccio e molto riposo. Tutto qui.

-Vuoi dire che gli dovranno infilare un ago nel braccio? - Rachel sgranò gli occhi con orrore.

-Temo proprio di sì. Ma non è niente.

-Oh, no! E se poi succede come quella volta?

-Rachel, Benji non ha più cinque anni; quella volta è successo perché nessuno immaginava che avrebbe potuto strapparsi via l’ago da solo. Stavolta non succederà, prenderemo delle precauzioni, sta tranquilla.

Continuarono a scendere finché non trovarono posto al terzo livello. John andò avanti a rassicurare Rachel, ma più lui cercava di calmarla, più Rachel si sentiva turbata. Era spaventata. Voleva stare con suo fratello. Voleva parlare con lui della voce che turbava i loro pensieri … che lo aveva fatto finire in ospedale …


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Grazie ancora ad Arte e Kellina. Sono contenta che questo romanzo vi piaccia, vi "intrighi" a tal punto da farvi venire voglia di continuare, anche se più andiamo avanti e più le cose si complicano... L'Uomo Calvo è davvero cattivo e in un certo senso legato alla scuola, ma non voglio anticiparvi nulla... e le sue cattiverie Kellina, mi spiace, ma sono appena iniziate... Potrebbe anche "non essere reale", chi lo sa.... i gemelli avranno modo di rendersene conto molto presto. Anche avere a che fare con un padre così razionale porterà a conseguenze spiacevoli... Fare la "cosa giusta" sarà sempre più difficile, specialmente per un primario come lui, che deve saper mantenere il giusto distacco emotivo dai pazienti....anche se questi sono i suoi figli....
Vi avevo anticipato che sarebbe stata una storia forte e spiacevole ma spero che ciò non vi tolga la voglia di sapere cosa succederà.... Anche qui molte cose negli anni sono andate perse o necessitavano modifiche, quindi vi chiedo, fedeli lettori, la solita proverbiale calma....i lavori sono in corso, vediamo di procedere piano e bene....e acquisire lettori strada facendo....

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Capitolo 8
*** Capitolo 8 ***


Capitolo 8

-Accidenti, ora capisco perché John aveva fretta di portare via la bambina! Se avesse visto questo disastro …

Philip annuì. Si trovavano nella saletta del pronto soccorso; Brian aveva appena tolto di dosso l’asciugamano a Benji, scoprendo il corpo tutto sporco di sangue. Le due infermiere che assistevano il dott. Price avevano trattenuto il fiato per un attimo, riprendendo svelte il loro lavoro, seguendo alla lettera gli ordini del primario.
 
-Quando arriva il dottor Greenway? - chiese Philip a una di loro.

-E’ già stato informato; sarà qui a momenti, dottore.

-Bene. Procediamo.

Lo staff medico di Philip lavorava in fretta e con metodo. Erano un gruppo molto affiatato e stravedevano per il loro primario, non solo perché era un uomo affascinante, come sosteneva la metà femminile del personale, ma anche perché aveva prontezza di spirito ed era un ottimo medico. Tutti pendevano dalle sue labbra quando dava direttive, e nessuno si sentiva in soggezione a lavorare con lui.

-Kate, Jessie, Brian, un attimo solo prima di proseguire. Voglio che informiate tutto il personale su quanto sto per dirvi, è molto importante. Mio figlio è terrorizzato da aghi e punture, questo molti di voi lo sanno già. Quello che non sapete è che da piccolo ha rischiato di morire per una leggerezza che non si dovrà mai più ripetere. All’età di cinque anni si era dovuto ricorrere alla somministrazione di una medicina per via endovenosa, perciò era necessaria una fleboclisi. Non essendo cosciente, inserirgli l’agocannula nel braccio era stato piuttosto facile. Tutti conoscevamo l’avversione che già allora aveva per le punture, ma nessuno si aspettava che, essendo così piccolo, avesse il coraggio di fare quello che fece. Mi ricordo che passai un brutto quarto d’ora. Benji si strappò via l’ago da solo, con il rischio del caso che tutti voi conoscete bene. Perciò vi metto in guardia, onde evitare dei rischi inutili; ogniqualvolta si ritenga necessaria una somministrazione di medicine per endovena, sia essa una semplice iniezione, dovete assicurarvi che non si possa muovere o fare degli scatti improvvisi. In questo caso sarà necessario immobilizzarlo per impedire che si faccia del male da solo o che tenti di nuovo di togliersi l’ago. L’esperienza che ho avuto in passato, credetemi, basta e avanza. Può sembrare crudele quanto vi sto dicendo, ma è per la sua sicurezza. Non sottovalutatelo mai.

Mentre parlava, Philip gli legò polsi e caviglie con le apposite cinghie ai lati del letto, assicurandosi che fossero strette correttamente.
 
-Inoltre - continuò – non appena sarà terminata la somministrazione, è necessario rimuovere subito l’ago. Ripeto: in nessun caso va lasciata inserita la cannula che di solito lasciamo a tutti i pazienti per le future somministrazioni. No, assolutamente. Va tolto tutto. Se poi dovesse essere necessario un ulteriore dosaggio, l’operazione va ripetuta da capo; si provvederà all’inserimento di un nuovo ago. So bene che questo è scomodo e fa perdere del tempo, ma non ve lo direi se non lo ritenessi necessario. Ho fiducia in voi e so che siete ottimi medici, e voi conoscete me. Non ho altro da dirvi, è tutto chiaro?

Tre teste annuirono simultaneamente.

-Bene, informate tutto il mio staff di questo. Ora mettiamoci al lavoro.

Philip si occupò della ferita al braccio, lasciando al dott. Thorne il compito di inserire l’ago della flebo.

Quando tolse il laccio emostatico, a operazione conclusa, il sollievo di Brian Thorne era evidente. Aveva inserito l’ago senza nessun problema, era vero, ma aveva temuto che il ragazzo riprendesse i sensi proprio in quel momento e - legato o no - era sicuro che si sarebbe opposto con tenacia a quell’operazione. Se così non fosse stato, Philip non avrebbe fatto loro quel discorso. Sollevò lo sguardo incrociando quello di Philip.

-Ottimo lavoro, Brian.

-E’ stato facile. Immagino che sarebbe stato più complicato se tuo figlio fosse stato cosciente.

Philip sorrise. – Complicato? Direi piuttosto impossibile!

Le porte si aprirono e Doc Greenway apparve sulla soglia, in camice bianco e con lo stetoscopio intorno al collo.
Aveva la stessa espressione preoccupata del dott. Thorne quando aveva visto arrivare il primario di corsa col figlio ferito in barella.

-Philip. Brian.- salutò – scusate il ritardo, sono stato trattenuto a colloquio con i genitori di un paziente. Allora, cos’è successo? Come mai tutto quel sangue?

-Doc, ti stavamo aspettando- In breve, Philip informò Greenway degli ultimi sviluppi, dalla sera prima quando si erano parlati, all’epilogo, che vedeva suo figlio steso su un letto d’ospedale.

-Se hai un attimo, quando l’avremo portato in reparto, ti spiacerebbe passare nel mio ufficio?- chiese Philip, lasciando intendere a Doc che aveva ancora molte cose da dirgli. Greenway colse lo sguardo d’intesa di Phil e non disse altro in presenza delle infermiere.

-Certo che no, anche io ho delle cose da chiederti e un nuovo caso da sottoporti.

Tornarono a occuparsi di Benji. Le infermiere lo avevano ripulito da tutto quel sangue e gli avevano messo un pigiama pulito, stando attente a non sfiorare l’ago mentre lo vestivano. La flebo gli stava facendo bene. Sembrava che avesse già ripreso un po’ di colorito. I capelli corvini, ora non più imbrattati di sangue, risaltavano in maniera straordinaria contro il bianco immacolato di lenzuola e vestiti. Il tubicino della flebo scompariva sotto la coperta leggera che gli avevano messo addosso.

-Quando finisce la flebo mettine un’altra Brian, ma diminuisci il flusso. Vedo che la prima dose gli ha già fatto molto bene.

-Sì dottore.

-Avete controllato pressione e temperatura?- chiese nuovamente Phil.

-Tutti i valori si stanno stabilizzando nella norma.-

-Bene. Diamo un’ultima controllata al braccio poi potremo portarlo nella sua stanza.

- Sì dottore.

Philip e Doc si avvicinarono, scostando la coperta e scoprendo il braccio ferito. Doc non commentò vedendo che era legato. L’infermiere si affrettò ad informarlo, ma Doc alzò una mano come per arrestare il fiume delle sue parole – So tutto quello che c’è da sapere, Brian.

Thorne annuì e si affrettò a cambiare la flebo, diminuendone il flusso come il primario gli aveva chiesto.
Philip sciolse la fasciatura e insieme a Doc scrutò la ferita molto attentamente.

-No - confermò Doc – non sembra procurata. La lacerazione è molto profonda, ma non uniforme, come se la scheggia dopo aver scalfito la pelle, fosse penetrata nella carne, incastrandosi. Se avesse voluto tagliarsi di proposito la ferita sarebbe stata diversa, più omogenea.
 
-Confermi allora la mia versione?- chiese Philip alquanto sollevato.

-Sì - rispose Doc – Benji non si è ferito di proposito, è stato un incidente. Inoltre mi hai detto tu stesso che non è il tipo che si farebbe del male per poi finire in ospedale, se ciò lo terrorizza.

-Appunto. Però dobbiamo chiarire altre cose. Più tardi, quando sarà sveglio.

Doc annuì. Philip rifece la fasciatura, dopo aver nuovamente medicato la ferita. Stava terminando, quando le dita di Benji ebbero un fremito. Philip si affrettò a fermare le bende con gli appositi gancetti. Riadagiò il braccio sul fianco, legandolo di nuovo con la cinghia. Gli rimise a posto la coperta, lasciando scoperte le spalle e il petto. Bene, se anche Rachel l’avesse visto ora, non avrebbe notato nulla di preoccupante. Gli mise una mano sulla fronte, poi gli diede dei colpetti sulla guancia, incoraggiandolo a svegliarsi.

-Benji sei sveglio? Mi senti? Sono papà, va tutto bene, ora.

Per un po’ non accadde nulla. Gli occhi rimasero chiusi, ma all’improvviso emise un gemito soffocato, come se stesse sognando, ed ebbe un sussulto. Philip lo toccò di nuovo, parlandogli sommessamente.

-Potrebbe avere di nuovo quegli incubi?- era Doc. Si era avvicinato, parlando da sopra la spalla di Phil.

-E’ probabile. Senti Doc, se più tardi dovesse iniziare a dire cose strane, che so io, tipo: “ Non è reale, è un’allucinazione” o roba simile ed io fossi occupato in sala operatoria, ti prego di fargli somministrare subito un sedativo. Non vorrei che avesse un’altra crisi come quella di stamattina. E il fatto di trovarsi in ospedale non migliorerà la situazione. Se dovesse succedere, spediscilo nel mondo dei sogni per un po’, per favore.

-D’accordo, ma non starti ad angosciare troppo. Riusciremo a scoprire cos’è che lo spaventa.

-A parte il fatto di trovarsi in ospedale con un ago nel braccio?- gli ricordò Phil.

-Certo, anche quello è un problema - annuì Doc grattandosi la testa – una cosa alla volta. Ne verremo a capo, vedrai. Sono o no il tuo strizzacervelli migliore?

Philip gli restituì il sorriso, e tornò a concentrarsi sul figlio. Gli diede altri piccoli colpetti sulla guancia.

-Avanti piccolo apri gli occhi, svegliati. Di là c’è tua sorella che muore dalla voglia di vederti. Avanti, fa un piccolo sforzo. So che sei stanco, ma almeno provaci. Avrai tutto il tempo per riposarti, dopo.

Le palpebre tremolarono. Sembrò che Philip avesse toccato le corde giuste. Stava per parlargli di nuovo quando Benji, finalmente, aprì gli occhi. Li richiuse quasi subito, per la luce troppo forte, ma Philip seppe che era sveglio. Cosciente forse no, ma sveglio sicuramente. Era già qualcosa.

-Bentornato tra noi. Mi hai fatto preoccupare sai? Ora ti porteremo in camera, là potrai riposare. La luce non è così accecante come qui, non ti darà fastidio. Hey, mi senti? Sono papà, riesci a vedermi?

Benji aprì nuovamente gli occhi, sbattendo le palpebre a causa della luce troppo forte. Phil gli passò una mano davanti alla faccia, su e giù, ma Benji non seguì con lo sguardo il suo movimento.
 
-Probabilmente è ancora di poco sotto la superficie, Phil. E’ sveglio, ma non del tutto cosciente; diamogli un po’ di tempo.

- Sono d’accordo … - Stava per aggiungere qualcos’altro, quando Benji mosse le labbra.

-Sta cercando di parlare Phil.

Anche il primario se ne era accorto, e si chinò sul figlio. – Cosa, Benji, cosa vuoi dire?

Debolmente, lui riuscì ad articolare i suoni e a pronunciare due parole che Philip udì distintamente, nonostante la voce fosse poco più di un sussurro.

-Dove … sono …?  

-Sei al sicuro, figliolo, al sicuro. Ora riposati.

Sei in ospedale, dolcezza, legato al letto e con un ago piantato nel braccio, proprio come piace a te, e se ti può essere di conforto saperlo, tuo padre e il suo amico strizzacervelli stanno seriamente pensando che tu abbia qualche problema mentale che va risolto al più presto. Non fartene un cruccio, Benji, sei in buone mani. Avrai la tua bella stanzetta con le sbarre alle finestre e la serratura alla porta, la tua gabbietta dorata che ti sta aspettando, da dove griderai la tua innocenza, ma non ti sentirà nessuno. Però puoi parlare. Con me, tesoro. Io ti sto incollato addosso, non te lo dimenticare. Sono il tuo amico invisibile. Ce l’hanno tutti, sai, non lo dicono ma tutti ne hanno uno. Impazzirebbero senza, Ah ah ah!!! Sogni d’oro, campione.

Benji spalancò gli occhi e tentò di gridare. Ebbe uno scatto convulso ma le cinghie lo tennero fermo al suo posto.

-Ha capito Phil. Ha capito che c’è qualcosa che non va.

-No, Doc, sta avendo un incubo.

Quel verso da animale braccato che aveva sentito confermava ciò che pensava. Suo figlio stava cercando di sfuggire da qualcosa. Non capiva e non sapeva cosa fosse, ma se riusciva a spaventarlo così, era certamente qualcosa di brutto.
 
-Sei al sicuro, Benji, al sicuro. Non temere, ti aiuterò. Ora hai bisogno di riposo, okay? Tanto riposo.

Mentre gli parlava, continuava ad accarezzargli la testa, come si fa con un bimbo piccolo per rassicurarlo quando è in lacrime con le ginocchia sbucciate dopo una caduta. A dire la verità si sentiva un po’ strano in quel momento. Erano rari i momenti in cui Benji si mostrava vulnerabile, che permetteva ai genitori quei gesti puerili. Mal sopportava di essere toccato o accarezzato, e odiava essere trattato come un bambino piccolo. Al contrario di Rachel, che invece non disdegnava mai le coccole dei genitori e adorava quelle di Reynolds. L’unica che poteva toccarlo senza suscitare in lui alcuna reazione, era proprio Rachel. I gemelli si adoravano a vicenda, erano molto uniti tra loro anche se così profondamente diversi … ma in quel momento a Philip Benji sembrò così … indifeso che non poté fare a meno di accarezzarlo, un gesto che per lui era un po’ inconsueto. Si rivide nell’atto di mollargli due ceffoni, il pomeriggio precedente, quando era stato male la prima volta, e Rachel chissà come lo sapeva.

Non avevano fatto altro che litigare, ultimamente e Philip ricordò la fermezza e la tenacia con cui era solito tenergli testa. Sorrise, mentre gli sussurrava: - Tu non ti arrendi mai, non ti piace essere un perdente, allora aiutami a capire cos’è che ti spaventa tanto. Non soccombere, combatti.

Continuò a toccarlo e a fargli carezze, come se approfittasse del fatto che non fosse nelle condizioni di impedirglielo. Se fosse stato in sé, non glielo avrebbe mai permesso.

-Sembra si sia assopito di nuovo, Philip. Portiamolo su, ora. Starà più tranquillo.

-Sai Doc, vorrei tanto che fosse sempre così … così …

-Docile? – gli venne in aiuto Doc.

-Sì, in un certo senso. Come sua sorella. Lei anche ha il suo bel caratterino, intendiamoci, ma le piace da matti farsi coccolare da tutti. Lui, invece, se uno di noi si azzarda a toccarlo, si ritrae come un gatto selvatico. Non ho mai capito il perché, ho sempre pensato che si vergognasse. E’ mai possibile che due gemelli possano essere così diversi tra loro?  

Greenway sorrise. – Ti è capitato proprio un bel rompicapo, collega. Risolvilo, e ti daranno il premio Nobel per il tuo contributo alla medicina e alla psicologia.
 
-Oh, no. Quello spetta a te, non vorrei rovinarti la piazza. Dai, andiamo, voglio portarlo su da Doreen intanto che è tranquillo, perché quando si sveglierà del tutto, darà in escandescenze, e non voglio che la povera donna si trovi impreparata.

Il sorriso di Doc si allargò – Non ho mai sentito nessuno prima d’ora chiamare Doreen Jackson “quella povera donna”. Se non ricordo male, per tutti, è diventata “il Generale Jackson”. Da come dirige il reparto, si direbbe che invece di essere in un ospedale pensa di trovarsi in un centro di reclutamento dei Marines!  

-Pensa se fosse lei e non io a dirigere la baracca.

-Philip, ti prego. Darei subito le mie dimissioni. Temono di più lei di te, che sei il primario!

-Ah, è così? Dovrò essere più cattivo, allora.

-Bravo, così perderai tutte le tue ammiratrici.- Rivolse il pollice alle loro spalle, verso le due infermiere, che arrossirono all’istante.

-Non dirlo quando mia moglie è nei paraggi. Mi rovineresti la reputazione!

Risero entrambi silenziosamente. Greenway provò sollievo nel vedere che Philip era tornato quello di sempre. La preoccupazione era in parte scomparsa dal suo volto e dal canto suo, Phil era grato a Doc che riusciva sempre a rassicurarlo nei momenti peggiori. Sembrava quasi che volesse dirgli: non puoi mollare, tu sei il medico e i tuoi pazienti è in te che ripongono la loro fiducia. Se ti vedono vulnerabile, perderanno il loro pilastro e tutte le loro speranze crolleranno come un castello di carte. Il vecchio Doc aveva ragione. Philip lo sapeva e gliene era grato. A volte anche una persona nota ed importante come lui aveva bisogno di rassicurazioni.

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Capitolo 9
*** Capitolo 9 ***


Capitolo 9

Il corridoio e l’attigua sala d’aspetto del pronto soccorso brulicavano di gente. Chi urlava, chi piangeva, chi cercava un certo dottore, chi un altro. Alcuni telefonavano ai parenti, altri andavano su e giù per il corridoio, troppo nervosi per restare seduti in attesa di notizie.
C’erano bambini che piangevano e madri che tentavano invano di calmarli. Gli altoparlanti chiamavano cento dottori al minuto.
Rachel, seduta in una delle poltroncine rosse di fianco agli ascensori, osservava tutto questo ammutolita e spaventata.
John era andato a prenderle una bibita al distributore in fondo al corridoio, al di là delle porte a vetro. Lo vedeva, stava introducendo le monete e tra poco sarebbe stato di nuovo lì accanto a lei, in attesa che finissero di visitare Benji.
Aveva resistito all’impulso di corrergli dietro, ma ormai Reynolds sapeva quanto quel posto la atterriva. Con una simile confusione non era riuscita a stabilire un contatto con suo fratello, come avrebbe voluto. Ma ci avrebbe riprovato non appena fosse tornata un po’ di calma.

Un bambino biondo, più o meno della sua età, accompagnato dalla madre si sedette nella poltrona vuota proprio accanto a lei. Piagnucolava proprio come una femminuccia, e la madre al suo fianco iniziava ad essere esasperata sul serio.
Rachel lanciò un’occhiata al nuovo venuto come se questi fosse una specie nuova e particolarmente detestabile di insetto. Era odioso quel suo modo di piangere da isterico, e Rachel moriva dalla voglia di farlo smettere all’istante, piantandogli due sberle sulla faccia.  
Sembrava che anche la madre fosse dello stesso avviso, ma che stesse cercando di contenersi. Rachel notò che il biondino aveva il braccio destro gonfio e tumefatto; probabilmente era rotto, visto che stava assumendo un colorito bluastro.

-Smettila di piangere Colin, il dottore adesso ti farà stare bene tesoro. C’è la mamma con te.

-Io non voglio il dottore. Ho paura, voglio andare a casa. – strillava il moccioso, Colin, e Rachel pensò che la madre avesse il suo bel da fare con quel mostriciattolo frignone.

Se ci fosse stato Benji lì, l’avrebbe già fatto smettere da un pezzo. Ma Benji per il momento era fuori combattimento. Avrebbe dovuto pensarci lei, a quella piattola, almeno per quella povera madre. Si girò all’improvviso verso madre e figlio, fulminandoli con lo sguardo, i pugni chiusi levati a mezz’aria.
   
-Senti un po’, perché non la fai finita? Mi hai proprio rotto con questa lagna da femminuccia! Se proprio devi piangere fallo in silenzio, altrimenti ti faccio smettere io!

Colin risucchiò tutta l’aria che aveva e trattenne il fiato. Lo stesso fece la madre, anche se in modo meno vistoso. Il bambino stava guardando stupito quella coetanea sconosciuta dagli occhi di ghiaccio che gli aveva appena gentilmente chiesto di chiudere il becco. Non credeva alle sue orecchie. Quella ragazzina aveva detto a lui di stare zitto. - Mammaa! – strillò lui aspettando che la madre prendesse le sue difese.

-Stai zitto, Colin, questa bambina ha ragione, ora stai esagerando. Se ti fa così male, dirò al dottore di farti un’iniezione.

-Noo, la puntura no!

-Allora stai buono e zitto finché non ti avrà visitato.

Rachel sorrise alla mamma di Colin. – Mi scusi signora, ma ho i nervi a fior di pelle. E’ un’eternità che sono qui e non ce la faccio più.

-Tesoro, non ti preoccupare, se l’è meritato. A volte esagera.

-Che cos’ha?

-Si è rotto il braccio, è caduto dalla bici. Stiamo aspettando l’esito delle radiografie per poterlo ingessare. Tu invece, perché sei qui? Non sembri malata.

-No, sto aspettando che portino fuori mio fratello dal pronto soccorso. Ha avuto … una specie di incidente, si è ferito con un pezzo di vetro. John dice che ha perso tanto sangue. Sono preoccupata, non me lo fanno vedere – Rachel si interruppe guardando in direzione del pronto soccorso, nel caso uscisse qualcuno.

-Vedrai che non è niente - la consolò la donna - piuttosto, dove sono tuo padre e tua madre?

-Mio padre lo sta visitando. E’ il primario dell’ospedale. Io sono qui con John, un amico di famiglia che vive con noi; anche lui fa il dottore. E’ andato a prendermi da bere.

-Capisco. Allora non c’è nulla da temere, vedrai che andrà tutto a posto – sorrise la mamma di Colin. Poi, rivolta al figlio: - Sentito tesoro? Il papà di questa bella bambina ti guarirà il braccio.

Lui tenne il broncio senza dire niente. La donna sospirò, poi aggiunse quasi parlando a se stessa: - Peccato che dovrai tenere il gesso per tutto il resto dell’estate.

Il viso del bambino si illuminò, nonostante le condizioni del suo braccio. – Allora non potrò andare a scuola finché non sarò guarito.

La madre gli lanciò un’occhiata torva, e Colin riabbassò gli occhi.

-Non farti venire strani grilli per la testa, signorino, il primo giorno di scuola ci sarai eccome, a costo di mandarti io stessa a calci nel sedere, tesoro, quali che siano le condizioni del tuo braccio.

Colin rimise il broncio, ricominciando a piagnucolare. Rachel levò gli occhi al cielo.
Poi, come se stesse costatando un fatto, il ragazzo esclamò: - E poi come faccio a farmi il nodo alla cravatta o allacciarmi le scarpe con una mano sola? Lo sai che se quella dannata uniforme non è perfetta, quell’accidenti di direttore inizia a sbraitare e a dare punti di demerito, e … e …

-E adesso la pianti! Non una sola parola. Mi stai facendo venire il mal di testa, a me e a questa povera bambina … Come ti chiami, cara?

-Rachel. Rachel Price, signora.

-Rachel. Bel nome.

Colin interruppe la madre, e le parole che uscirono dalla sua bocca colpirono Rachel come una coltellata, facendole gelare il sangue.

-Blah, blah, blah. Fai presto a parlare, mamma, lei mica ci deve andare al Saint Peter’s e sopportarsi il direttore, quel Rushman da strapazzo!

La donna si accorse del guizzo della bambina. Sebbene spazientita con il figlio, non aveva mancato di notare il sussulto quando Colin aveva menzionato la scuola. Era sbiancata.

-Hai detto … Saint … Peter’s?

In quel momento Reynolds tornò con le bibite. Rachel balzò in piedi e gli corse incontro.

-John!

-Scusami, piccola ma Doreen Jackson mi ha bloccato prima che potessi battere in ritirata. Voleva sapere se tuo padre aveva finito con Benji …

-John, quel… quel … bambino là mi ha detto …

-Tesoro, che ti prende? Stai tremando.

Rachel trasse un profondo respiro, prima di parlare, cercando di calmarsi, ma le mani non smisero di tremare. John la osservava preoccupato.

-Il nome Rushman ti dice niente?- riprovò.

-Rushman, Rushman … - pensò Reynolds perplesso, grattandosi la testa. Poi ci arrivò – certo, Mr Rushman è il direttore del Saint Peter’s. Ma cosa c’entra adesso?

-John, quel bambino là lo vedi? Quello col braccio rotto … E’ stato lui a tirarlo fuori, lui va al Saint Peter’s …

John lanciò un’occhiata nella direzione che Rachel indicava. Non c’era nessuno lì, le poltroncine erano vuote. Mise le mani sui fianchi, nella posizione che spesso adottava Philip quando discuteva con i gemelli. Sembrava proprio suo fratello, in quel momento.

-Che storia è questa, Rachel? Mi sono allontanato solo un attimo, e quando torno, mi dici una bugia e tiri in ballo ancora la storia della scuola. Benji è stato male, okay, capisco, ma perché continuate a fare così? Vostro padre ha deciso, cosa ci posso fare io? E perché adesso? Che ti salta in mente?

-John, io non ti ho mentito. Ho parlato con loro fino al tuo ritorno … lui si chiama Colin, chiedi al dottore che lo sta ingessando, se non mi credi! E’ stato lui a parlare della scuola. Discuteva con la madre … diceva che Rushman, il direttore, pretendeva che le uniformi fossero in ordine, altrimenti …
 
-Dottor Reynolds?

Si voltarono entrambi verso la voce che li aveva interrotti. Era il medico che li aveva accolti all’ingresso, Brian Thorne.

-Si, Brian? Ci sono novità?

-Direi di sì. Mi manda il papà di questa bellezza. Il tuo fratellino sta bene, lo stanno portando su. Ha bisogno di riposare, ma mi è stato detto di riferire a questa piccolina che lo può salutare prima che lo portino in camera.

-E’ sveglio?- chiese Reynolds.

-Si è svegliato, sì. Ha ripreso conoscenza, ha anche tentato di parlare, ma poi credo si sia assopito di nuovo. Sono venuto a dirvi che va tutto bene. Tra poco potrai vederlo, sei contenta tesoro?

Rachel annuì in silenzio, con le lacrime agli occhi. Stava ancora tremando dopo la scoperta che aveva fatto. Ne stava appunto mettendo al corrente anche John quando erano stati interrotti; ma forse era meglio così, dal momento che John era restio a crederle e i due, madre e figlio, erano come scomparsi da sotto il loro naso.

A questo penserò più tardi. Troverò il modo di convincere John, ora mi devo concentrare sul contatto che devo stabilire con Benji. Lui mi crederà di certo …

Purtroppo, un’altra cocente delusione la attendeva. Benji stava bene, così le avevano detto, ma a quanto pareva, stava dormendo, e se dormiva, non poteva parlargli né stabilire alcun contatto mentale. Altra cosa negativa era che suo padre aveva dato disposizioni di trattenerlo in osservazione per qualche giorno.
Tutto questo lo apprese ascoltando Reynolds e l’altro dottore che parlavano, mentre aspettavano l’arrivo dell’ascensore.
Dopo quello che a lei sembrava un’eternità, finalmente le porte si aprirono e ne vennero fuori suo padre e il dottor Greenway, portando la barella. Rachel corse loro incontro, aggrappandosi alle sbarre laterali del lettino. Benji era addormentato, come aveva detto Brian a John, ma questo non la scoraggiò. Tentò di svegliarlo, chiamandolo, ma quando cercò di scostare il lenzuolo per prendergli la mano, suo padre la bloccò. Con dolcezza ma fermamente, tenendola per mano a distanza di sicurezza.

-No, tesoro lascialo stare. Ha bisogno di riposo, non svegliarlo. Più tardi parlerete.

Rachel guardò suo padre da sotto in su. Sembrava che le stesse nascondendo qualcosa, o forse non voleva che lei vedesse qualcosa che non andava.

-Che cosa gli avete fatto? Perché non posso toccarlo?- Domandò guardando sia Greenway che suo padre.

Reynolds e il dottor Thorne che li avevano raggiunti, si scambiarono un’occhiata.
Fu Doc a risponderle. – Vieni piccola, ti mostro una cosa.

Rachel esitò, sospettosa, ma il dottore non le sembrava ostile. Si avvicinò lentamente, e Doc le circondò le spalle con il braccio. Sentì la bambina irrigidirsi a quel contatto, ma poi quando la avvicinò al lettino, la sentì rilassarsi un poco. Era evidente che l’attaccamento al fratello era molto forte. Lentamente, sempre tenendola abbracciata, scostò un lembo del lenzuolo, stando molto attento a non scoprire le cinghie che lo tenevano legato. La bambina non avrebbe capito, lo sapeva, ma sapeva anche che aveva tanto bisogno di essere rassicurata. Inoltre, se voleva che lei gli raccontasse di quella “voce” che sentivano, doveva iniziare a guadagnarsi la sua fiducia.
Il dottore aveva scostato di poco il lenzuolo, scoprendo il braccio di Benji, ma non la mano, ma per Rachel fu sufficiente. Aveva già visto anche troppo.
Nell’incavo del braccio, dove sapeva che si facevano di solito i prelievi di sangue, gli avevano messo l’ago della flebo che solo allora parve notare, appesa all’asta di fianco al letto. Vide il liquido trasparente sgocciolare lentamente dalla boccetta al dosatore che ne regolava il flusso e da questi, finire nel tubicino che gli avevano applicato al braccio. C’era un cerotto di garza bianco laddove l’ago scompariva nel braccio, ma le fece impressione lo stesso.
Greenway percepì il brivido che la percorse.

-E’ per quello che tuo padre non voleva che ti avvicinassi troppo. Temeva che avresti potuto accidentalmente staccarlo se gli avessi scostato di colpo il lenzuolo.

Rachel guardò suo padre, poi John, che annuirono alle parole di Doc. Tornò a guardare Greenway che le sorrise benevolo rimettendo a posto il lenzuolo. Era rimasta un po’ sconvolta vedendo l’ago, anche se John le aveva detto che sarebbe stato necessario.

-Come sta?- chiese a Greenway con un filo di voce.

-Meglio tesoro. Anzi, perché più tardi quando sarà sveglio non mi accompagni a trovarlo? Faremo una bella chiacchierata, noi tre.

Annuì con la testa, incapace di parlare. Era logico che prima o poi qualcuno avrebbe voluto sapere che cosa stava succedendo. Ad essere sinceri nemmeno lei lo sapeva bene. L’unica cosa di cui era certa, era che riusciva a comunicare con suo fratello con la mente, e che anche l’Uomo Calvo ci riusciva. Non sapeva come né perché, ma era sicura che l’argomento andasse affrontato con una certa cautela, poiché riguardava in un certo senso il campo medico.
Non voleva certo che suo padre, John o il dottor Greenway pensassero che fossero pazzi!

Lanciò uno sguardo a Benji, poi chiese a suo padre: - Perché deve rimanere qui se sta bene?

-Per sicurezza. Passerà qualche notte in osservazione.

- Anch’io devo?

Philip sorrise, stupito dalla caparbietà della figlia – Ma tu non avevi paura degli ospedali?

Rachel lo fissò negli occhi e mentre raggiungevano il reparto, aggiunse: - Se lui resta qui, ci rimango anch’io, papà.


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Kellina, Arte, che dirvi: Meno male che almeno voi mi leggete!!! Scherzi a parte, sono contenta che questo racconto vi intrighi... inizieranno presto i guai e purtroppo sarà sempre peggio... Spero che non vi stanchiate troppo presto di leggere... Sì, i gemelli hanno un carattere particolare, tutti e due, ma pur essendo simili in molte cose - aspetto fisico a parte- per altre sono molto diversi. E qui sta la loro unicità: sono anche piuttosto indipendenti per la loro età ma questo molto dipende anche dal fatto che i genitori - un primario e un avvocato - stanno molto poco in casa per via del lavoro e la servitù oramai ne ha piene le scatole di fare da baby sitter ai due vispi fratelli.Da qui si spiega tutta la matassa della storia. Ecco il perchè non andavano bene a scuola, non erano seguiti, il loro proverbiale "caratterino"... Ecco perche Philip vorrebbe sistemare le cose... E' un pò la classica famiglia benestante: pochi e austeri parenti attorno e ognuno pensa ai fatti propri...Anche il loro aspetto fisico li rende unici, in fondo. Essendo maschio e femmina, quindi gemelli "eterozigoti" potrebbero anche non assomigliarsi fisicamente...invece sono identici e questa è un'altra stranezza importante...( di solito le coppie di gemelli identici "monozigote" sono formate appunto da due individui perfettamente uguali, due maschi o due femmine identici. Loro sono "unici" anche in questo...e il povero Philip davvero non ha idea del dilemma che gli è capitato! Ci tenevo a farlo notare, perchè è anche da qui che nasce la battuta che Greenway gli rivolge quando dice al suo amico primario " Ti è capitato proprio un bel rompicapo collega, risolvilo e ti daranno il Nobel..." Le cose dicevo andranno complicandosi sempre più. Nasceranno incomprensioni tra padre e figli,anche con la complicità di "Calvo" entità malvagia e perfida. Il primario, deciso e risoluto come suo padre fu prima di lui, dovrà misurarsi con un odio crescente da parte dei gemelli e con una realtà che si ripete nella potente famiglia Price a cui lui non vuole credere...e Calvo forse lo sa........... Basta!! Dovrete aspettare, non posso anticipare nulla...sennò poi non leggete più!!!

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Capitolo 10
*** Capitolo 10 ***


Capitolo 10

Percorsero tutto il corridoio e arrivarono all’accettazione. Sulla destra c’erano le porte degli ascensori, con a fianco alcune poltroncine e un tavolino con sopra qualche rivista che la gente leggeva per ingannare l’attesa. In quel momento erano vuote. A sinistra c’era invece il banco dell’accettazione. Un’infermiera stava inserendo alcuni dati nel computer che aveva sulla scrivania, spostando lo sguardo dai fogli allo schermo con una velocità sorprendente.
Quando squillò il telefono, staccò il ricevitore incastrandolo tra l’orecchio e la spalla, continuando a battere sui tasti senza smettere di spostare lo sguardo dai fogli al computer.

-Un momento, prego, le passo l’interno desiderato.

Riagganciò il telefono e finalmente alzò gli occhi su di loro, avendo riconosciuto il rumore di una barella che arrivava dal corridoio.

-Dottor Price- Il suo tono di voce era cordiale ed educato allo stesso tempo, come se, pur conoscendo bene il suo interlocutore, ne era al contempo un po’ intimorita, notò Rachel. Beh, in fondo lui era il capo e c’era anche Reynolds con lui, che era il suo vice. Vederseli lì entrambi significava che era importante e voleva essere all’altezza della situazione.

-Cleo - la salutò Philip – è stata avvertita del mio arrivo?

-Certamente, dottore. La caposala la sta aspettando. Ho qui i moduli che ha compilato al Pronto Soccorso, se mi mette una firma posso archiviare tutto.

-Ma certo.

Mentre Philip firmava i moduli, Cleo si rivolse a Rachel. Aveva un bel sorriso aperto e una cascata di riccioli biondi che le incorniciavano il viso.

-E così tu sei Rachel … Sai che ho visto le vostre fotografie proprio l’altro giorno? Il tuo papà ne ha una quantità sulla sua scrivania!

Rachel arrossì, abbassando lo sguardo. Non sapeva cosa dire. Cleo era così gentile e lei nemmeno la conosceva … e non dare confidenza agli estranei era una cosa che le aveva insegnato suo fratello.

Philip riconsegnò i fogli all’infermiera. – Non farti ingannare Cleo, non è per niente timida!

Cleo sorrise e Rachel avrebbe voluto fulminare suo padre con un’occhiataccia, ma i due adulti stavano già parlando di lavoro e lei era tagliata fuori.

Oh, bene – pensò – ma questa figuraccia la metterò in conto, papà, stanne certo.

-Stia attento, dottore, oggi il generale è di pessimo umore. Ci sono stati gli elettricisti per tutto il giorno a riparare quella luce difettosa nel corridoio e lei sa bene che ogni sconvolgimento, seppur minimo, della routine quotidiana la manda in bestia!

-Grazie dell’avvertimento Cleo.

-In bocca al lupo, dottore.

Davanti a loro c’erano le doppie porte a vetri del reparto di Doreen. Cleo schiacciò un pulsante dalla sua scrivania e immediatamente si udì un ronzio seguito da uno scatto secco. La porta si socchiuse. Rachel si guardò intorno, disorientata. Perché mai c’era bisogno di mettere una serratura in una corsia d’ospedale? In un reparto dove c’erano anche dei bambini? La cosa la incuriosì e la colse di sorpresa.
Philip tenne aperte le porte per consentire a Reynolds e Brian di entrare con la barella. Greenway, che forse aveva notato lo sgomento della bambina, le circondò le spalle con il braccio, conducendola nel reparto. Rachel ebbe un sussulto. Il medico avvertì tutti i muscoli irrigidirsi al suo contatto. Fossero state altre circostanze era sicuro che lei si sarebbe divincolata dal suo abbraccio, ma in quel momento di nervosismo forse aveva bisogno di essere rassicurata.
La porta si richiuse dietro di loro e si udì lo scatto della serratura che automaticamente si bloccava.

Rachel si guardava intorno nervosamente. Il reparto le sembrava perfettamente normale. L’unica differenza evidente che notò erano i colori; il linoleum del pavimento, che era grigio nel resto dell’ospedale, era verde, mentre le pareti normalmente bianche, erano dipinte di un bel giallo. Il muro dell’ingresso era tappezzato di disegni fatti dai pazienti più piccoli. L’unica cosa stonata in quel reparto, pensò Rachel, era la porta. Continuò a pensare al meccanismo di sicurezza.

Non mi piace. Non mi piace per niente, qui. Mi sento a disagio – pensò - anzi, in trappola sarebbe più appropriato.
 
Tutti quei colori vivaci, i disegni, servivano solo a dissimulare la verità nuda e cruda, e cioè che si trovavano in un ospedale.
Suo padre bussò a una porta.

Ad interrompere le sue elucubrazioni fu una voce di donna, o quanto meno, era simile ad una voce femminile, perché l’aspetto della proprietaria di quella voce sembrava tutto, fuorché una donna.
La targhetta di fianco alla porta dove suo padre aveva bussato, diceva: caposala, quindi Rachel si aspettò di vedersi comparire davanti un’infermiera minuta e graziosa come quella Cleo che stava alla reception, di là delle porte a vetri. Invece, il donnone che aprì la porta la colse del tutto impreparata. Indietreggiò di un passo, come se avesse ricevuto un pugno nello stomaco.
Greenway cercò di nuovo di confortarla, ma questa volta lei si allontanò dal medico come probabilmente avrebbe fatto suo fratello. Sentiva le sue braccia addosso non più come un conforto, bensì come una costrizione. Si sentiva imprigionata.
La caposala era in poche parole mastodontica. Rachel la osservò intimorita mentre stringeva la mano a suo padre. Si meravigliò che non gliela stritolasse, visto la montagna di muscoli che aveva. Non era più alta di Philip, anche se era il doppio di lui. E non sembrava nemmeno che fosse grassa; piuttosto era imponente, sì, questo era l’aggettivo che cercava. Indossava, come tutti gli infermieri che Rachel aveva visto finora, pantaloni e casacca bianca con le maniche corte e la scollatura a V. Portava i capelli pettinati all’indietro, stretti in una coda bassa e il trucco pesante. Intorno agli occhi, quando sorrise a Philip, si formarono delle increspature che sua madre chiamava - facendola ridere- “zampe di gallina”.

-Allora dottore, cos’è successo? – chiese a Philip e si avvicinò al lettino per esaminare il figlio del primario. Si avvicinò anche Rachel, aggrappandosi alle sbarre laterali, quasi a sfidarla a fare qualcosa di male a Benji mentre lui non poteva difendersi.

Philip informò Doreen su tutto quello che riteneva lei dovesse sapere e quand’ebbe finito, lei alzò gli occhi da Benji e li posò su Rachel.  
La bambina si sentì avvampare e temette che la caposala si fosse accorta del suo imbarazzo, ma se così era, non lo diede a vedere.
Rachel sostenne coraggiosamente il suo sguardo, mettendosi istintivamente sulla difensiva. Non sapeva bene cosa aspettarsi da quel mastodonte, ma di sicuro non sarebbero state coccole.

-Principessa – esordì lei – assomigli tanto al tuo fratellino, sai? Come ti senti?

Cos’era, stupida? Era logico che si assomigliassero, erano gemelli! E poi perché chiedeva a lei se stava bene?!

-Io … sto bene - rispose un po’ nervosamente.

-Già – costatò Doreen – tu sì, tuo fratello un po’ meno. Ma guarirà presto vedrai. Ha solo avuto una giornataccia. Come tutti, del resto.

-Guarirà? Non è mica malato. Ha solo un taglio sul braccio, e neanche tanto grave.

Rachel si era indispettita e Doreen sembrò averlo notato. –Oh certo tesoro, volevo solo dire che domani starà già molto meglio. Sembra proprio che la grinta non gli manchi, vero?

Gli diede una specie di buffetto sulla guancia ma Rachel sembrò non gradirlo.

-Non lo tocchi! – le sibilò furente – non gli va di essere toccato e francamente non lo biasimo. E poi lei è un’estranea!

Le parole di Rachel furono uno schiaffo per tutti, Philip compreso. Greenway osservava con attenzione la scena. Era palese che i gemelli avessero un forte legame emotivo tra loro, ma c’era dell’altro. Il loro modo di tenersi sulla difensiva con tutti … Ieri aveva visto il ragazzo mentre litigava col padre, oggi sua sorella faceva lo stesso con “ il generale” Doreen Jackson.
Doveva capire da cosa si sentivano minacciati e perché. E se, in effetti, c’era veramente questo qualcosa.

Doreen sorridendo a Rachel le rispose:- Conosco tuo padre da più di quattordici anni, non direi proprio che per lui sono un’estranea.

Philip, come Reynolds, Greenway e Brian, aveva studiato con molta attenzione il modo di reagire di Rachel, e anche lui era arrivato alla stessa conclusione di Doc: paura.
I suoi figli erano spaventati da qualcosa e cercavano di affrontarlo a muso duro, per così dire, e senza l’aiuto degli adulti. Forse erano convinti che fosse una cosa che dovevano riuscire a superare da soli, ma se finire in ospedale faceva parte di tutto quello, Philip non avrebbe lasciato di certo che se la sbrigassero da soli. Andavano aiutati.
    
-Doreen ha ragione, Rachel- intervenne Phil – lei è un’ottima collega e amica. Non è lei il nemico.

Rachel guardò suo padre come se lui avesse intuito qualcosa. Non disse niente ma era chiaro a tutti che non avrebbe permesso a nessuno di fare qualcosa a suo fratello. Qualunque cosa fosse.

-Okay – concesse infine – ma manteniamo le distanze.

Doc e Phil ebbero la stessa intuizione. Eccolo di nuovo. Quel timore ignoto che affiorava dai recessi della mente ed era precluso a loro adulti. No, non a loro adulti bensì a loro medici.

La piccola scaramuccia tra Rachel e Doreen parve conclusa, e poterono portare Benji in quella che in reparto chiamavano “ la Stanza Azzurra”.
A metà corridoio circa rispetto alla guardiola di Doreen, c’era uno stanzone comune, con cinque letti, tre dei quali occupati, notò Rachel. Subito dopo, c’era una stanza singola. Si fermarono alla porta di quella stanza e Rachel capì che dovevano essere arrivati. Le veneziane della vetrata, a differenza di quelle dello stanzone, erano chiuse e non permettevano di vedere all’interno. La porta aveva uno spioncino rettangolare, niente serratura. Per aprirla bisognava inserire una tessera magnetica e digitare un codice, come in alcune suite degli alberghi che aveva visto.
Doreen lasciò il passo a Philip che inserì la sua tessera personale nella fessura e digitò il suo codice. La spia rossa del sistema di bloccaggio divenne verde; si udì lo stesso ronzio di poco prima e lo stesso scatto secco quando la porta si aprì. Nessuno, a parte Rachel, sembrò turbato dalla cosa.
La stanza in sé non era niente di eccezionale. Piuttosto ampia, questo sì, ma forse sembrava così spaziosa perché era praticamente vuota. Un tavolino di metallo con gli angoli smussati, due sedie, anch’esse di metallo, e il letto costituivano tutto l’arredamento. La finestra al centro della stanza aveva, al pari delle veneziane che davano sul corridoio, gli scuri socchiusi, creando l’atmosfera adatta al riposo. Una porta scorrevole semichiusa si affacciava sul piccolo bagno.
Pareti, soffitti, stipiti e porte erano tutti dipinti di azzurro. Ecco spiegato il perché al telefono suo padre l’aveva chiamata “ la stanza azzurra”.

Non hanno molta fantasia- pensò Rachel – anche se tutto quest’azzurro serve a rilassare basta la porta con la chiusura di sicurezza a farti saltare i nervi. Mi sento come se fossi in galera! Ho già voglia di evadere … Presto, Benji, apri gli occhi e andiamocene da qui. Non permettergli di rinchiuderti qui dentro. Torna in te, per l’amor del cielo! Svegliati, apri gli occhi!

Senza quasi accorgersi aveva stabilito quel contatto che tanto cercava. Guardò Benji. Era ancora pallido, rispetto al solito, ma sembrava stare piuttosto bene. Dormiva ancora. I tratti del viso erano distesi, quasi sereni e Rachel ne fu contenta, nonostante tutto. La sera prima, quando l’avevano trovato svenuto nel bagno e suo padre e John l’avevano fatto dormire con l’iniezione, aveva i tratti del viso dolorosamente tirati, contratti dal sonno artificiale cui lo avevano costretto. Vederlo così apparentemente tranquillo la fece rilassare un poco, quasi facendole dimenticare di trovarsi in ospedale.
Era sicura che Benji l’avesse sentita ma forse era ancora troppo debole per risponderle.

Ok, allora torno più tardi. Riposati più che puoi, così guarisci in fretta. Anche perché questo posto comincia veramente a darmi sui nervi, con tutte queste serrature.

L’improvvisa pressione di una mano sulla spalla la fece sussultare.
Era suo padre. Il contatto si era interrotto, perciò poté dedicare a lui tutta la sua attenzione. Gli rivolse occhi pieni di interrogativi che sapeva lui avrebbe chiarito. Philip vi lesse dentro anche quella paura ignota.

-Va tutto bene, cara? – le chiese parlando a bassa voce.

-Non lo so, papà, dimmelo tu se va tutto bene. Io sono troppo spaventata per saperlo da sola, inoltre questo posto mi mette i brividi …

-Ti va di venire fuori e parlarne un po’?

Rachel guardò Benji, poi di nuovo suo padre.

-Non stare in pensiero per lui, ora va meglio. Più tardi ti farò tornare a vederlo, se vuoi.-

-Sì, papà, lo vorrei tanto.

-D’accordo, allora. Darò disposizioni per lasciarti entrare.

-Papà?

-Sì, tesoro?

-Perché in questo reparto ci sono tutte queste misure di sicurezza?

-Ti riferisci alle porte?

-Si.

-L’avevo notato. Vieni, andremo a parlare nel mio ufficio. Staremo più comodi e nessuno ci disturberà.

-Anche l’altro dottore vuole parlarmi- disse Rachel indicando Doc.

-Ci raggiungerà dopo. Prima vorrei spiegarti alcune cose.

Si avviarono per uscire dalla Stanza Azzurra, Philip risoluto, Rachel titubante.
Non voleva lasciare il fratello solo, con quella mastodontica caposala, in quella prigione azzurra. Allo stesso tempo non voleva nemmeno andare con suo padre. Sapeva di dover subire un interrogatorio da lui e da Greenway. Era inevitabile, ma aveva paura di fare passi falsi e compromettere lei e Benji. Se solo lui fosse stato al suo fianco. Purtroppo era sola ad affrontare la battaglia, e ciò la spaventava.

Non temere Pie. Non sei sola, combatti.

Rachel si bloccò, occhi sgranati a fissare il fratello che ancora dormiva. Philip e Greenway si girarono a guardare la bambina. Lei non se ne accorse.
C’era solo una persona al mondo che la chiamava con quel nomignolo affettuoso, e lei permetteva soltanto ad una persona di farsi chiamare così.

Una volta Jo chiese al figlio perché si rivolgesse così alla sorella e lui rispose che era per via delle guanciotte tonde e morbide, “come un pezzetto di torta”.
Si sentì inondare la faccia da lacrime di gioia, mentre correva verso il letto dove il fratello era disteso.
 
-Benji!!
 
Voleva essere un tono gioioso quello con cui ne pronunciò il nome, ma ne venne fuori un grido stridulo.

L’infermiera bloccò il suo slancio, afferrandola prima che potesse precipitarsi addosso a Benji.
In un attimo, il padre e gli altri medici le furono attorno. Rachel non li vide neppure. Il suo sguardo, ora rabbuiato e furente, si era concentrato solo su Doreen. La vedeva come un ostacolo interpostosi tra lei e il fratello, quasi come il nemico.

-Togliti di mezzo!- sbraitava cercando di raggiungere Benji, divincolandosi da colei che la tratteneva – Ti ho detto di lasciarmi, LASCIAMI!

-Per carità, non urlare così, lo sveglierai!

-E’ già sveglio!

Si voltarono tutti per controllare se fosse vero.  Benji era nella stessa identica posizione di prima. E non sembrava essersi svegliato.
Philip e Greenway si scambiarono rapidamente un cenno d’intesa.

-Le ha parlato, hanno avuto un contatto- esclamò Phil prima di raggiungere Doreen che ancora cercava di impedire a Rachel di arrivare al fratello.

La bambina lottava selvaggiamente con tutte le sue forze. Philip dovette letteralmente strapparla dalle braccia della caposala. Rachel si contorse e si divincolò, cercando di sgusciare via dalla presa del padre.

-No! Lasciatemi, voglio stare con lui, voglio stare con mio fratello!

-Basta, Rachel. Ora basta, calmati.

Philip la sollevò di peso, caricandosela in braccio. Lei gli tempestò la schiena di pugni, urlando e scalciando, ma Phil la portò via senza indugiare.
Era sconvolta e andava calmata al più presto. Greenway uscì con lui, lasciando Reynolds a occuparsi di tutto.
Percorsero il corridoio a passo sostenuto, e man mano che si allontanavano dalla Stanza Azzurra, le forze con cui la bambina aveva lottato, andavano scemando. Ora piangeva sommessamente, gemendo, con la testa affondata nella spalla di Phil.
Quando furono nel suo ufficio, egli la depositò su una delle due poltrone, mentre Doc occupava il posto nel divanetto a fianco.
Rachel non si mosse. Rimase seduta immobile, rigida, il capo chino nascosto dai lunghi capelli che le spiovevano sul viso, nascondendolo. Il sussultare ritmico delle spalle rivelò ai due medici che stava ancora piangendo.
Philip si chinò di fronte alla figlia, porgendole un bicchiere di plastica. Lei sollevò la testa, asciugandosi le lacrime e tirando su col naso. Osservò prima lui, poi il bicchiere che le porgeva.

-Avanti tesoro, prendilo. E’ acqua - Philip le sorrise – non ti fidi più del tuo papà?

Rachel non rispose. Lo osservò ancora un attimo, poi prese il bicchiere e ne annusò il contenuto, con fare diffidente. Appurato che non c’era nulla di strano, si portò il bicchiere alle labbra, bevendo a piccoli sorsi. Era acqua, ed era buona. Si scoprì, infatti, assetata subito dopo le prime sorsate. Tutto quel gridare e la tensione accumulata le avevano seccato la gola.  Vuotò il bicchiere, dandosi immediatamente della stupida quando una specie di retrogusto dolciastro le riempì la bocca. Possibile che fosse stata davvero così ingenua? O forse era troppo terrorizzata da agire come un automa. Comunque, ormai era troppo tardi. Se suo padre l’aveva drogata, non poteva farci niente ma di sicuro, visto che doveva fare tutto da sola dal momento che Benji era fuori combattimento, si ripromise che avrebbe venduto cara la pelle.
Anche se era spaventata e sola, e doveva affrontare quella specie di interrogatorio, non aveva nessuna intenzione di rendergli le cose facili. E non avrebbe più permesso a nessuno di terrorizzarla in quel modo.
Ora sapeva che Benji era con lei, almeno con il pensiero, dopo il breve contatto che c’era stato poco fa. Quelle parole le avevano in parte restituito la sua grinta e la voglia di lottare.

Non temere Pie. Non sei sola, combatti.
 
Sta a vedere fratellino, combatterò per te. Con tutte le mie forze.

Riacquistò un po’ della sua solita vivacità, cosa che anche Doc e Philip sembrarono notare.

-Meglio?- le chiese suo padre rialzandosi e andando a gettare il bicchiere nel cestino sotto la scrivania.

-Un po’- rispose lei con voce ancora incerta.

Suo padre le sorrise e andò a sedersi nella sua poltrona girevole dietro la scrivania. Le molle cigolarono sotto il suo peso.

-Allora tesoro, ti va di fare quattro chiacchiere?

-Dipende.

-Dipende da che cosa?

-Dall’argomento di cui vogliamo parlare.

Era chiaro che la bambina sapeva che voleva dei chiarimenti e doveva andarci cauto. Nonostante la sua spavalderia, era molto nervosa e spaventata. Lo percepiva chiaramente.

-Facciamo in questo modo, allora. Tu fai le domande. Solo, vorrei chiederti una cosa, prima: Ti dà fastidio che Doc rimanga?

Rachel guardò Greenway, che finora non aveva aperto bocca. Stava seduto sul divanetto lì vicino, con un blocco di appunti in mano su cui scriveva di tanto in tanto. Sentendosi chiamato in causa, alzò lo sguardo e sorrise alla bambina. Lei non ricambiò. Stava pensando che tanto valeva parlare con lui presente, dal momento che, una volta finito con suo padre, avrebbe dovuto affrontare anche lui. Allora che differenza c’era? Meglio cavarsi subito da quel fastidioso impiccio, no? Via il dente, via il dolore.

-No - rispose a suo padre – non mi dà fastidio che rimanga.

-Bene, allora, qual è la tua prima domanda?

-Vorrei sapere perché ci sono tutte queste misure di sicurezza in questo reparto. Ricordi? Te l’ho chiesto anche poco fa.

-Ah, sì, le porte, giusto?

Rachel annuì col capo.

-Vedi tesoro, è una precauzione necessaria che siamo stati costretti ad adottare dopo che alcuni dei piccoli pazienti erano usciti dal reparto all’insaputa dei genitori, riuscendo ad eludere la sorveglianza degli infermieri. Ci sono state delle denunce, così la commissione ci ha imposto queste modifiche, per maggiore sicurezza e per tutelare l’incolumità di tutti i pazienti ricoverati qui, adulti e bambini.

Rachel sgranò gli occhi:- Vuoi dire che quei pazienti erano scappati?

-Sì, esatto. Non hanno mai superato il perimetro esterno, per fortuna, ma l’intenzione credo fosse quella.

- E dopo quell’episodio, avete modificato tutto?

-Sì. Ora abbiamo videocamere di sorveglianza a monitoraggio costante e le porte elettriche con l’apertura a codice.

-Che tradotto?- chiese Rachel sollevando le sopracciglia.

Philip sorrise: -Che tradotto, vuol dire che nessuno dei pazienti può lasciare il reparto, se non accompagnato da un infermiere.

Rachel rimase in silenzio, pensando. Philip congiunse le mani, tamburellando con le dita, in attesa di ulteriori domande. Doc Greenway, sempre muto e silenzioso, prendeva appunti.

-Quindi, se io tentassi di uscire da qui da sola, senza di te o John o qualcun altro medico, non potrei farlo?

-Esatto. Scatterebbe l’allarme silenzioso, e in breve  tempo gli infermieri ne sarebbero informati.

Rachel mandò un fischio – Accidenti, allarmi silenziosi, codici, videocamere di sorveglianza, siete ben equipaggiati qui, tanto da fare invidia al Pentagono! E tutto questo perché alcuni pazienti hanno tentato di scappare?

Il tono ironico era volutamente forzato. In realtà, Rachel era atterrita. Comprese che la loro battaglia era con un nemico più grande e potente di loro. Le parole del padre le diedero la conferma.

-Beh, tesoro, quei pazienti erano sotto la custodia dell’ospedale, in quel momento; se fosse successo loro qualcosa di spiacevole, avremmo dovuto risponderne dinanzi alla legge, a maggior ragione perché … erano malati.

Rachel ci pensò su, poi domandò al padre:- Anche Benji è sotto la tutela dell’ospedale?

-Certo tesoro, finché rimarrà qui. Come tutti gli altri pazienti, del resto.

-Ma lui non è malato … voglio dire, a parte il braccio ferito.

La conversazione stava portando proprio dove volevano i due medici. Se ne accorse Philip e se ne accorse anche Doc. Credevano di aver capito dove la bambina volesse andare a parare.

-Vedi, cara, non tutte le malattie sono uguali. Ho bisogno di fare degli accertamenti con Benji, riguardo a quella ferita … sai, potrebbe anche non essere casuale …
 
Rachel fece una risata sarcastica: - Stai forse dicendo che si è ferito di proposito? E a che scopo, quello di finire in ospedale? Andiamo, papà, è assurdo! Come puoi solo pensarla una cosa del genere? Benji non lo farebbe mai, lui odia gli ospedali. Non ti ricordi l’estate scorsa durante il torneo della Little League cos’è successo? Quando pensavamo che gli avessero rotto il braccio al nono inning? Ha fatto il diavolo a quattro pur di non essere portato qui, in ospedale. Diceva di stare bene, pur avendo una lussazione. Ti sei forse dimenticato di tutto questo?!

Rachel stava in pratica quasi urlando in faccia a suo padre, i pugni serrati, benché Philip fosse ancora seduto alla sua scrivania, a meno di due metri da lei.

-Tesoro, non ti arrabbiare. Ricordo perfettamente l’episodio di cui stai parlando, ma qui è diverso. Può darsi che qualcuno l’abbia spinto a farlo.

-Nessuno costringe Benji a fare ciò che non vuole. Lo sai anche tu, papà. Non ci riesci nemmeno tu, a volte, se non dietro la minaccia di sfilarti la cinghia dai calzoni!

La franchezza di quelle affermazioni spiattellate dalla figlia undicenne e l’espressione afflitta di Philip, fecero sorridere Doc.
 
-Me ne sono accorto anch’io, piccola - commentò Greenway.

Lei non lo degnò d’attenzione.

-E vuoi sapere un’altra cosa?- proseguì rivolta al padre – si arrabbierà di brutto quando si sveglierà e si accorgerà di non poter uscire da quella stanza!

-Lo so perfettamente e mi dispiace, Rachel, ma è necessario. Ho bisogno di fare alcuni esami, e finché non avrò accertato alcune cose, non se ne andrà da lì.

Philip aveva riconquistato la sua autorità di medico, e Rachel ne era di nuovo intimorita. Stava facendo del suo meglio per non farsi sopraffare, ma la paura la insidiava nuovamente. La sentiva stringerle il  cuore come una morsa implacabile. Sussultò quando il padre riprese la parola.

-Rachel, ora ti faccio una domanda. Philip si sporse in avanti, appoggiando i gomiti sulla scrivania. Le molle della sedia cigolarono, seguendo il suo spostamento. Doc sollevò lo sguardo dai suoi appunti.

-Ieri sera, quando tu e John siete venuti su a chiamarci ricordi?

Lei annuì col capo, ora troppo impaurita per parlare.

-Dicevi che Benji stava male, e che era stato lui a dirtelo … e, in effetti, l’abbiamo trovato svenuto nella sua stanza … tu stessa hai detto che eri sicura che ti avesse parlato proprio qui, nella testa- Philip si batté la fronte con l’indice – ricordi? Come se fosse telepatia.

Rachel annuì di nuovo. Ora Philip misurava le parole, per non spaventare la figlia.

-Hai anche detto di aver sentito anche un’altra voce, la risata malvagia, quella dell’Uomo Calvo che dal giorno della visita al Saint Peter’s non fa che terrorizzarvi, minacciarvi e causarvi incubi nonché questo fenomeno di telepatia.

Doc ascoltava attentamente adesso, come se Philip avesse appena enunciato una nuova formula di composto chimico.
Rachel alzò la testa di scatto all’udire quelle parole, e Philip fu certo di aver colpito nel segno.
Gli occhi della bambina divennero enormi, e le tremava il labbro inferiore. Dovette deglutire due volte, prima di riuscire a parlare.

-Tu … come fai a sapere dell’Uomo Calvo? Io non ti ho mai detto … non ti ho mai detto … ho parlato solo di una voce che rideva in modo cattivo …
 
-Lo so, cara, ma hai parlato nel sonno. Quella sera, dopo che ti eri addormentata, ero salito a controllare e ti ho sentita, ti agitavi e piangevi nel sonno e mi sono preoccupato. Sono stato anche da Benji, e nonostante fosse sotto sedativo, ha cercato di svegliarsi, probabilmente pensando che io fossi quell’uomo e che volessi fargli qualcosa.

Rachel, atterrita, era sbiancata in volto. Scoprire che suo padre sapeva tutto di quella strana faccenda che li vedeva loro malgrado coinvolti, la lasciò sgomenta. Si sentiva come se qualcuno l’avesse schiaffeggiata con violenza.

-Ho riflettuto tutta notte, su questo. Ho addirittura telefonato a scuola, la mattina seguente ed ho parlato col direttore del Saint Peter’s per quasi mezz’ora … dice di non conoscere nessuno con quella descrizione. E’ stato anzi molto cortese e disposto a collaborare. Volevo proprio discuterne con tuo fratello stamattina, ma quando sono andato da lui, era già successo il disastro … urlava di non essere pazzo, di essere lasciato in pace da questa chiamiamola “persona”, sbraitando ed accusandolo di non essere reale … Quando si è accorto di me e John, si è spaventato a morte, e quando l’ho toccato per prestargli i primi soccorsi, era già così provato che mi è svenuto tra le braccia. Aveva già perso molto sangue, quindi capisci anche tu, tesoro, perché è stato necessario il ricovero.

Rachel rimase muta. Era pallida e tremante. Sentire suo padre parlare con tanta facilità dell’Uomo Calvo che li terrorizzava, l’aveva sconvolta. Il fatto stesso che lui ne fosse a conoscenza la lasciava basita, senza sapere cosa fare o dire.
Philip continuò, vedendo che la bambina era troppo confusa, per parlare.

-C’è anche il fatto che tuo fratello non è il tipo che si spaventa così facilmente, come anche tu prima mi hai fatto notare, quindi, vederlo così fuori di sé mi ha fatto capire quanto grave in realtà fosse la situazione.

Le ultime parole appena pronunciate suonavano come una sentenza di condanna.  
Rachel annaspava alla ricerca di una giustificazione valida. Aveva promesso di dare battaglia, ma a quanto pareva era appena stata sconfitta, e Doc non era nemmeno intervenuto. Come aveva potuto sottovalutare l’intelligenza del padre in quel modo? Pensava davvero che l’avrebbe spuntata? Sentì gli occhi riempirsi di lacrime. Non osava guardarlo in faccia, temendo di intuire troppo.
Che cosa sarebbe successo adesso? Che cosa avrebbe fatto suo padre?
Mille interrogativi ad una sola probabile soluzione.

Proprio non ci arrivi, fiorellino? L’avevo detto anche a tuo fratello che avreste perso, ma non mi avete voluto dare retta. Peggio per voi! Ah ah ah ah ah!!!!

Rachel saltò dalla poltrona con un grido, facendo sussultare i due medici. Scoppiò a piangere e urlare, tappandosi le orecchie con le mani.

-E’ tutta colpa tua, tua!! Sei cattivo vattene via, vattene, lasciaci stare … hai fatto del male a mio fratello! Non te lo perdonerò mai!! Mai!!

Philip osservava la reazione repentina della figlia, identica a quella di Benji. Ci mancava soltanto che si ferisse pure lei. Si alzò e in un attimo le fu accanto, impedendole di farsi del male come aveva fatto suo fratello.

-Papà, lui è qui, è qui, vuole farci del male, aiutami, aiutami, Benji, dove sei? Per favore, non lasciarmi sola!!

-Rachel, guardami, non c’è nessuno, qui, solo io e il dottor Greenway, nessuno ti farà del male, dimmi cosa hai visto?

Rachel gridava e piangeva cercando di liberarsi dal padre che la tratteneva per i polsi.

-Ti dico che è qui, adesso!! L’ho sentito, l’ho sentito!

-RACHEL! CALMATI! Non c’è nessuno ho detto!- Phil si rivolse a Doc –Chiama qualcuno, presto!

Doc Greenway aveva premuto l’interfono dalla scrivania di Philip, e qualche secondo più tardi la porta dell’ufficio del primario si era spalancata e Doreen era entrata con un infermiere al seguito. La bambina scalciava e urlava, completamente fuori controllo, come probabilmente aveva fatto il fratello prima di lei. Nessuno dei presenti si scompose, forse abituati a scene del genere.

-Stessa procedura, dottore?- s’informò Doreen, aspettando ordini dal primario prima di eseguire.

-Temo di sì- rispose Philip – stesso comportamento, stesse allucinazioni.

Lei annuì e si avvicinò a Rachel che però la respinse scalciando e riprese a urlare.

-Non mi toccare, tu, lasciatemi stare, lasciatemiii!!

Sentì qualcosa pungerle il braccio, poi le forze le vennero a mancare. Qualcuno la sosteneva, mentre la stanza prese a girare e le pareti sembravano muoversi intorno a lei, vive, come se volessero inghiottirla. Gemette forte, poi un buio pietoso calò su di lei, strappandola via da quelle terribili visioni. 

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Un sentito rigraziamento a tutte le persone che stanno leggendo e seguendo la mia storia... Tra questi, anche amici che non sono iscritti a EFP. Ringrazio inoltre Arte e Kellina che lasciano delle bellissime recensioni. Spero che in futuro se ne aggiungano altre e che continuiate a seguirmi con questa passione. Grazie e a presto. Lady Faith.

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Capitolo 11
*** Capitolo 11 ***


Capitolo 11

Benji aprì gli occhi, ma non riuscì a mettere a fuoco quello che lo circondava. Intorno a sé un’oscurità opaca e buia sembrava schiacciarlo. Tentò di muoversi, di alzarsi … tutto inutile.
Sentì un rumore assordante, come di onde che s’infrangevano sugli scogli, e allora smise di lottare e restò in ascolto, lo stomaco scosso dai conati di vomito. Serrò le palpebre, lottando contro la nausea. Quando riaprì gli occhi, la luce lo accecò. D’istinto fece per sollevare un braccio, ma quello non si mosse. Voltò la testa per capirne il motivo e vide due cose che lo atterrirono. Aveva le mani legate e l’ago della flebo nell’incavo del braccio, nascosto da un cerotto di garza bianco. Il primo istinto fu di liberarsi, ma naturalmente le cinghie tennero. Si guardò intorno cercando di capire dove fosse e come ci fosse arrivato. Non riconosceva nulla, ma era certo che si trovasse in ospedale. Dovevano avercelo portato mentre dormiva, l’avevano immobilizzato e adesso si preparavano a fargli chissà cosa.
Si contorse, si divincolò e urlò.

-Lasciatemi andare! Lasciatemi andare! Lasciatemi andare!

E di colpo ci fu gente dappertutto. Gente vestita di bianco, che correva da lui.

-Lasciatemi andare, liberatemi, liberatemi! -ripeteva furioso, ma non gli diedero retta e non lo liberarono. Strinsero ancora di più le cinghie e gli piantarono qualcosa di appuntito in un braccio.

-Benji?

Si girò verso la luce.

-Benji, svegliati!

Qualcuno lo scuoteva bruscamente, o forse era un terremoto. Riaprì cautamente gli occhi, infastidito dalla luce troppo forte. Riconobbe suo padre e il dottore che aveva visto la sera prima a casa, Doc Greenway. Dall’altra parte del letto un donnone che non conosceva e altri infermieri. Che cosa stava succedendo?

-Dove … mi trovo?-chiese continuando a guardarsi intorno, anche se temeva di conoscere già la risposta.

-Sei in ospedale - Sembrava il padre, a parlare, ma non ne era del tutto certo.

-Perché mi trovo qui … cosa è successo?

-Credevo toccasse a me fare le domande - Era suo padre, stavolta ne era sicuro.  

-Ricordi cosa è successo?

Che cosa era successo? No, non ricordava niente, perché era in ospedale?

Cercò di ricordare cosa poteva essere accaduto, ma in quel momento la sua mente era come una lavagna vuota. Gli doleva la testa, e quella dannata luce … poi gli sembrò di udire una risata …
Tornò a concentrarsi sulle persone che gli stavano intorno, ma le loro facce si allungavano fino a distorcersi.

-Ricordi cosa è successo?

Di nuovo quella terribile domanda. E perché ridevano?

-No … non ricordo … io …

La risposta rimase in sospeso, mentre l’oscurità dalla quale aveva cercato di riemergere tornò ad avvolgerlo come un bozzolo.  


Qualche ora più tardi si svegliò del tutto.
Con amara sorpresa, scoprì di essere davvero in ospedale. Purtroppo ricordava anche le circostanze che l’avevano fatto finire lì, anche se avrebbe preferito rimuoverle dalla mente.
Si mise a sedere sul letto, ben felice di poterlo fare. Aveva temuto di ritrovarsi ancora immobilizzato, ma al risveglio aveva scoperto di essere libero. Si guardò le braccia come a trovarne conferma.
Il polso sinistro era fasciato fino a metà braccio e gli pulsava impercettibilmente. Rabbrividì al ricordo di come si era procurato quel taglio profondo. Adesso avrebbe dovuto dare spiegazioni a suo padre e ai medici su quanto era successo. Non poteva più nascondersi, non aveva più scuse. Passò a esaminare il braccio destro e un altro brivido di terrore lo percorse. Non c’erano fasciature, ma un’enorme ecchimosi che si estendeva su buona parte del braccio. Nell’incavo dove gli avevano messo la flebo, rimaneva il segno del buco dell’ago e una macchiolina di sangue rappreso.
Era atterrito. La verità gli piombò addosso, schiacciandolo. Ora era nelle loro mani, alla loro mercé, completamente incapace di difendersi o far valere le sue ragioni.  

Ragioni? Quali ragioni?

Si guardò intorno. La stanza aveva pareti, stipiti, piastrelle e porte azzurri; un tavolino di metallo, due sedie e il letto. Una porta scorrevole semichiusa che dava sul bagno. In mezzo alla parete, l’unica finestra era schermata da una griglia metallica. Spostò lo sguardo verso la porta e l’ampia vetrata che dava sul corridoio. Le veneziane abbassate non consentivano di guardare fuori. Si concentrò allora sulla porta; aveva uno spioncino rettangolare e niente maniglia.
 

Ovvio, ti credono pazzo…

Il pensiero era giunto inaspettato e sgradito. Cautamente scese dal letto, con movimenti guardinghi. Il contatto dei piedi nudi sul freddo pavimento lo fece rabbrividire.
Mosse qualche passo incerto verso la porta, lottando per non soccombere alla nausea e ai giramenti di testa.  
Lo spioncino era troppo in alto e non riusciva a guardare fuori. Tentare di aprire la porta era del tutto fuori discussione. Cercò di rimanere calmo e di non farsi sopraffare dal panico, anche se non era facile.

Buongiorno, Benji, dormito bene?

Quella voce …

All’improvviso tutto gli tornò chiaro nella mente.

-Tu! – esclamò rabbiosamente, riconoscendo subito la fonte dei suoi guai – immagino che adesso sarai soddisfatto!

Sciocco! Non dare la colpa a me, io vi avevo avvertito. Credevate sul serio che vostro padre fosse tanto stupido da non accorgersi di nulla?

-E’ colpa tua se tutto questo è successo!

Ah, ah, ah! Ma davvero? Dimostralo. Ecco qual è il tuo problema. Non puoi dimostrare niente; più cercherai di far valere le tue ragioni, meno verrai creduto. Rassegnati.

-Questo lo vedremo!- ringhiò Benji alla voce.

Come vuoi, adesso vedo che ne pensa la tua sorellina.

-Lasciala stare o ti giuro che …

Un fortissimo dolore alla testa non gli permise di finire la frase. La voce aveva ragione: non era in grado di dimostrare nulla. Ecco perché si trovava lì. Fu colto da una rabbia impotente e sfogò la sua frustrazione colpendo la porta con i pugni chiusi.

-Fatemi uscire da qui! Papà, apri la porta! Dove siete finiti tutti? Voglio uscire!  

Smise di tempestare la porta di pugni e rimase fermo, in attesa. Nessuno venne da lui. Era totalmente isolato da tutto e questo lo innervosì e lo spaventò. Perfino la voce dell’Uomo Calvo non c’era più.
Si accasciò a terra, le braccia allacciate alle ginocchia, cercando di dominare l’ansia crescente.


Non sapeva per quanto tempo era rimasto in quella posizione. Si riscosse soltanto quando udì il rumore del meccanismo che sbloccava la porta. Scattò in piedi come una molla, preparandosi ad affrontare suo padre e i medici.

Nella Stanza Azzurra entrò il mastodontico donnone con un infermiere al seguito. Questi si piantò sulla porta a braccia conserte, sfidandolo a tentare di uscire. Si scostò solo per lasciare entrare il dottor Greenway poi tornò ad occupare la porta.
Benji indietreggiò intimorito, osservandoli e studiandoli. La donna si presentò come Doreen Jackson. Era la capoinfermiera, mentre il bulldog che faceva la guardia alla porta si chiamava Jeff ed era l’infermiere incaricato di sorvegliarlo. Doc già lo conosceva.
Non sapeva cosa aspettarsi da loro, quindi rimase sulla difensiva, aspettando che facessero la prima mossa. Fu Doc alla fine a rompere il ghiaccio.

-Allora, Benji, finalmente ti rivedo sveglio; ti va di parlare un po’?

Lui osservava nervosamente prima il medico poi la caposala. Invece di rispondere chiese senza molte cerimonie: - Che ci faccio qui? Perché mi tenete chiuso qui dentro?-

-Davvero non ricordi nulla di quello che è successo? Nemmeno di esserti ferito?

-Dov’è mia sorella? Voglio vederla.

-Rispondi alle mie domande, Benji, altrimenti non arriveremo da nessuna parte.

Per tutta risposta Benji tentò di avvicinarsi alla porta aperta ma Jeff avrebbe impedito ogni tentativo di fuga, ne era certo.

-Voglio uscire di qui adesso! – sibilò a Doc e alla caposala. –ADESSO!

-Non così in fretta - li raggiunse la voce di Philip. Entrò nella stanza con ancora indosso il camice verde della sala operatoria.

Benji trasferì sul padre la sua furia repressa. Phil sapeva che suo figlio ce l’aveva a morte con lui perché l’aveva  portato in ospedale. Non gliel’avrebbe perdonato tanto facilmente.

-Perché mi hai portato qui?- lo aggredì, infatti, Benji.

Philip si avvicinò, costringendolo a indietreggiare. Sapeva che era intimorito dal suo aspetto. A maggior ragione adesso che era in ospedale, il suo regno.

-Vorremmo parlarti.

-Di cosa?

-Non lo immagini?

Certo che lo immaginava … anzi, temeva quel momento.
Rimase in silenzio, continuando ad osservare il padre. Non gli piaceva aver paura di loro in quel modo, ma non poteva farci niente.
Philip avanzò ancora lentamente di qualche passo, inducendo Benji ad arretrare di nuovo. Si ritrovò con la schiena al muro, le mani poggiate sulle fredde piastrelle della parete.

-Che cosa vuoi da me?

-Non intendo farti nulla di male, non avere paura, voglio solo parlare di quello che è successo, voglio capire e aiutarti.

Benji guardò furtivamente il braccio livido, poi di nuovo suo padre.

-Nulla di male … me ne hai già fatto!

-Non è come credi. Parliamo di quello che è successo.

Philip cercava di farlo ragionare, anche se si rendeva conto che era ancora troppo sconvolto e forse non proprio lucido come avrebbe voluto.

-Ieri sei stato male. Ti sei anche ferito due volte, ricordi?

-E’ stato un incidente … io … non volevo farlo …

-Non lo so, Benji … stavi urlando qualcosa contro qualcuno, chi era?

-Non so di che parli. E’ stato un incidente.

-Se non mi dici cosa è successo, non posso aiutarti, questo lo capisci, vero?

-Non lo so cosa è successo!- gridò sconvolto.

Era la verità, in fondo. Non sapeva come tutta quella faccenda era cominciata, sapeva solo che era iniziato tutto dopo la visita a quella scuola, ma dopo la discussione e le relative conseguenze, non se la sentiva di ritornare sull’argomento. Suo padre non avrebbe capito, non gli credeva. E adesso si trovava in ospedale, si era anche ferito, cosa che certamente non era a suo favore.

-Voglio andare via da qui - ripeté testardo.

-Parliamone - ribatté Philip. Sembrava che stessero negoziando un affare importante.

Benji sbuffò – No. Non ho più nulla da dire.

-Io non credo sai? Anche Rachel ha sentito quella voce … anche lei ne aveva paura. Vuoi dirmi chi era e perché vi minaccia?

Una coltellata avrebbe fatto meno male. Che cosa sapeva suo padre dell’Uomo Calvo? Doveva essere impallidito, perché Philip annuì, certo di aver colto nel segno.

-Avanti, dimmelo.

-Lasciami in pace! Io non so nulla!

Philip parlò di nuovo, rivolgendosi a Doreen, stavolta: - Mi porti il necessario per rifare la medicazione, per favore. La ferità si è riaperta.

-Sì, dottore.

Benji guardò il polso ferito. Non si era accorto di aver stretto i pugni e adesso sulla garza bianca della fasciatura spiccava ora una macchiolina rossa che si andava allargando. Non sentiva nemmeno il dolore, tanta era la paura.
Bloccato con le spalle al muro, osservò suo padre venirgli incontro, sempre più vicino. Sentiva i battiti del suo cuore amplificati fin dentro le orecchie.
Doreen ritornò nella stanza con tutto l’occorrente che il primario aveva richiesto. Intuendo che il figlio si sarebbe opposto con tenacia a qualsiasi trattamento, Philip si voltò verso l’infermiere.

-Jeff, mi dia una mano.

Senza dire una parola, il sorvegliante si staccò dalla porta e mosse verso di loro. Benji lo vide arrivare, e quando stava per abbrancarlo per un braccio, scartò di lato.

-Non mi toccare- lo apostrofò in malo modo.

-Non ti farà nulla, stai tranquillo, nessuno qui vuole farti del male- aggiunse Philip.

-Allora che mi lasci stare.

-Dobbiamo medicare la ferita o non guarirà più. Hai visto che esce sangue.

Benji fece uno scatto improvviso tentando di guadagnare la porta, ma aveva sottovalutato la capacità di Jeff di muoversi altrettanto rapidamente. Il suo slancio venne fermato sul nascere dall’esperto sorvegliante.
Si ritrovò con entrambe le braccia bloccate dietro la schiena, mentre veniva sospinto verso il letto, dove Doreen attendeva paziente. Benché lottasse con tutte le sue forze, non poteva nulla contro la superiorità fisica dell’infermiere. Percepì pungere in un punto imprecisato del suo povero braccio, poi tutto divenne lontano e sfuocato. Sentiva le voci come se parlassero sott’acqua le immagini distorte e vaghe.

-Ecco fatto, adesso sei più tranquillo, vero?- Doreen sorrideva.

Il volto di suo padre torreggiò su tutti. Seduto sul letto, sorretto sempre da Jeff, lo osservò mentre si preparava a medicare la ferita. Lo vide infilarsi i guanti di lattice e disinfettare alcuni strumenti. Un brivido gli percorse la schiena. Li avrebbe usati su di lui.

-Preferisce che lo facciamo sdraiare dottore?

-No, Doreen, non è necessario. E’ già abbastanza spaventato così.

Nonostante l’avessero sedato, quando Philip iniziò a disfare le bende ebbe un sussulto e cercò di liberarsi della presa che lo tratteneva. Philip si bloccò, il bisturi a mezz’aria, riprendendo a tagliare le garze imbevute di sangue solo dopo che Doreen gli ebbe fatto cenno che poteva proseguire senza pericolo. Disinfettò meticolosamente quel brutto taglio, dalla ferita slabbrata fin dentro la carne viva, controllando che non vi fossero rimaste minuscole schegge di vetro.
Doc Greenway supervisionava tutta l’operazione.
Bruciava. Faceva un male da morire, ma nonostante i suoi sforzi, non riusciva a liberarsi. I due infermieri lo trattenevano saldamente. Avrebbe voluto urlare, ma non ne aveva le forze.


Il primario finì di medicare la ferita e rifece la fasciatura. Ora pulsava dolorosamente.

-Doreen mi ricordi di ricontrollare, dopo, non vorrei che si riaprisse di nuovo.

-Sì, dottore.

Philip prese il braccio destro del figlio quello dove la flebo aveva lasciato un livido, e lo esaminò. – Anche la pomata per i lividi e del ghiaccio- aggiunse.

Benji rimase seduto sul letto, incurante di suo padre, che dettava ordini, e degli infermieri. Si era parecchio agitato e vedere con i propri occhi l’autorità che Philip ricopriva in quel posto, gli aveva fatto comprendere che non sarebbe stato per niente facile averla vinta, stavolta. Lui comandava e gli altri eseguivano. Non c’era nulla da aggiungere. In che razza di guaio era andato a cacciarsi.

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Capitolo 12
*** Capitolo 12 ***


Capitolo 12

Ore dopo, quando Reynolds andò a vederlo lo trovò nella stessa posizione.
Benji era seduto sul letto, di traverso, con le gambe penzoloni e le mani aggrappate alla sponda, pronto a balzare giù se per caso avessero deciso di giocargli un altro brutto scherzo come quello di prima. Meglio stare all’erta. Non si poteva mai dire, con suo padre, quell’accidenti di donna e il suo bulldog.
Reynolds lo trovò così quando entrò nella stanza, intento a fissare il nulla attraverso il pavimento.
L’unico segno di vita che mostrò fu un impercettibile movimento della testa, che si sollevò appena, per controllare chi fosse entrato. Appurato che non era la mastodontica caposala o suo padre con qualche altra diavoleria da medico, si rilassò un po’, tornando semplicemente a fissare nel vuoto.
John si preoccupò. Vederlo così apatico, svogliato e chiuso in sé stesso era così inconsueto che quasi si ritrovò a sperare di vederlo urlare e imprecare di voler uscire da lì, magari prendendo a pugni la porta. Invece niente, nulla assoluto.
Probabilmente l’accaduto della sera prima lo aveva spaventato a morte, togliendogli, almeno per il momento, la voglia di ribellione.
John non si scoraggiò e andò a sederglisi a fianco.

-Hey -lo salutò, scompigliandogli i capelli come faceva sempre.

Di solito la cosa lo indispettiva e reagiva scansandosi, anche se ormai non lo faceva più in modo ostile come all’inizio, quando proprio non digeriva Reynolds in casa. Ora era più come una specie di accettarsi a vicenda, un giocoso dispetto reciproco, un codice che usavano per comunicare. John usava un codice simile anche con Rachel, che di solito consisteva in una carezza, un buffetto sul naso o sulla guancia o una lisciata ai lunghi capelli.
Questa volta Reynolds tentò il suo approccio amichevole del tutto certo che sarebbe andato a vuoto, quindi si stupì quando Benji puntualmente scansò la sua mano dopo l’arruffata, lasciandolo ad accarezzare l’aria. Sorrise apertamente, mostrandosi contento per entrambi.

Spaventato forse, non domato mia cara Doreen – pensò - Non ancora.

-Come va oggi?- incalzò John.

Un’alzata di spalle come risposta. Okay, era già qualcosa. Almeno ora sapeva che non era arrabbiato anche con lui.
Benji fissava testardamente il pavimento. Non voleva dichiarare apertamente a John che in fondo, dopo quello che era successo, era felice di vederlo. Fosse stata Doreen o suo padre, avrebbe finto di dormire o sarebbe corso a nascondersi in bagno.
In quel momento, sentiva che John gli era amico, che desiderava aiutarlo, anche se mai si sarebbe fidato del tutto. In fondo, poteva essere benissimo un tranello diretto e organizzato da Philip per farlo confessare. Meglio non abbassare troppo la guardia.

-Su, riproviamo, dai- lo incalzò John – cerca di essere convincente. Come ti senti oggi?

Benji alzò finalmente la testa e la inclinò di sbieco verso di lui. Lo guardò dritto in faccia, con quei suoi straordinari occhi, e Reynolds capì molte cose da quello sguardo.
Paura, amarezza, timore, odio, rabbia, risentimento, frustrazione ma soprattutto tenacia, accanimento, voglia di combattere.
Bene. Il gelido fuoco che di solito ardeva nel suo sguardo, non si era ancora spento. Avrebbe lottato.

-Mi sento come un prigioniero. E, in effetti, lo sono. Guardati intorno, non sembra il Wardorf Astoria, vero?

Era la frase più lunga che pronunciava da due giorni a quella parte. Tuttavia, quello che colpì John, non fu la quantità di parole, bensì il tono quasi sarcastico con cui le pronunciò. Avvertì in esse tutto il risentimento che provava verso suo padre, colpevolizzandolo del fatto di trovarsi in ospedale.

-Beh, in effetti … iniziò John ma Benji lo interruppe.

-Tirami fuori di qui John, voglio tornare a casa!

Reynolds non poté sostenere a lungo il suo sguardo. Le sue parole erano state repentine e non si aspettava che chiedesse aiuto proprio a lui. Non poteva mettersi certo contro Philip, non dopo ciò che aveva visto, ma gli dispiaceva deluderlo proprio nel momento in cui lui, spontaneamente, aveva abbassato le barriere tra di loro e gli aveva chiesto aiuto.

-E ci tornerai, garantito, ma non sei stato bene e Philip vuole che tu sia guarito, per allora. Occorrono alcuni esami e …

-John, maledizione apri gli occhi! Sei il suo vice! Mi ha rinchiuso qui perché vuole che io dica a lui e a quell’altro, come diavolo si chiama … lo strizzacervelli … vuole farmi parlare di quella voce! Ha già messo Rachel sotto torchio, l’ha ingannata! Ora vuole fare lo stesso con me. Ma non capisci? Pensa veramente che io abbia le rotelle fuori posto, e il fatto di essermi ferito …

Sollevò il braccio sinistro fasciato e strinse il pugno con una smorfia - il fatto che io sia ferito, mi fa sembrare colpevole. Lui non mi crede …

-Calmati, tesoro. La cosa migliore che puoi fare, accetta un consiglio, è parlare con molta calma di tutto quello che vi è successo. Anche se devo ammettere che è un po’ insolito, certo, ma tuo padre ti vuole bene.  
E’ molto preoccupato per voi, vuole aiutarvi, ma deve capire di cosa si tratta, prima, e vi assicuro che non è facile. Benji, non pensare mai che tuo padre non ti creda o non ti voglia bene. A volte, forse, non sa come prenderti, ma ti assicuro che ci soffre per questo. Passiamo notti intere in biblioteca a discuterne e lui si preoccupa sempre di aver fatto o no la cosa giusta.

Benji balzò giù dal letto con uno scatto rabbioso.

-La cosa giusta, la cosa giusta!- balbettava furioso.

John riconobbe il Benji di sempre, quello pronto a scornarsi con chiunque, padre compreso.
Il suo sguardo non più perso nel vuoto ora, ma presente più che mai, fiero, indomito, incollerito. Girava per la stanza come un gatto selvatico, con i pugni serrati, noncurante delle fitte dolorose del braccio ferito.
John si alzò per tentare di calmarlo.

-Guarda qui!- urlò, mostrandogli il braccio dove gli avevano messo la flebo. Un livido bluastro di discrete dimensioni lo ricopriva in buona parte.
Ormai era fuori di sé.

-Può succedere. Dovremmo mettere un po’ di pomata e del ghiaccio su quel livido.-

-John! Tu non capisci … mi ha fatto legare al letto come se fossi un pazzo furioso ed ha permesso che mi infilassero aghi dappertutto! Dio, come lo odio! E mi ha chiuso qui per impedirmi di fuggire, perché sa che l’avrei fatto! Dimmi: non dovrei essere arrabbiato con lui? Eh? Non dovrei??

-Ti ha salvato la vita! Ti sei forse dimenticato che a cinque anni hai rischiato di morire per esserti strappato l’ago dal braccio?

-Certo, e per evitare che lo rifacessi ha pensato bene di prendere le dovute contromisure! Dannazione, non ho più cinque anni!

-Si ma hai ancora paura, non negarlo. E tuo padre l’ha fatto per la tua sicurezza, non perché pensa che tu sia pazzo.

Benji fece un gesto di stizza.

-Altrettanto dicasi per questa bella stanzetta? E’ per tenermi al sicuro da me stesso che mi trovo qui?!

John chiuse gli occhi e scosse la testa. Dopo un attimo li riaprì e guardò Benji dritto in faccia.

-Tu faresti perdere a pazienza anche a un santo. Ascoltami bene, ora. Ero venuto qui a trovarti da amico, ma adesso mi costringi a parlarti come medico. Quello che ti è successo non è certo una stupidaggine. Tuo padre sa quello che fa. Se ti trovi qui un motivo c’è. Per quanto tempo dovrai rimanerci, beh, quello dipende da te ma posso dirti che prima ti deciderai a collaborare, prima questo incubo finirà.

Benji fissava John ritto in mezzo alla stanza, con i pugni serrati. Le parole del giovane medico lo avevano colpito, ma la cosa che più lo aveva infastidito, era stata la durezza con cui le aveva pronunciate.

-Tzè sembri mio padre! Grazie per la ramanzina. Ora vattene, voglio stare solo.

-Sii ragionevole, Benji, ti ho detto questo perché ti voglio bene non per altro, e perché mi dispiace vederti qui. Non so bene che cosa ti stia succedendo, ma fatti aiutare. Hai bisogno di aiuto, anche se forse non te ne accorgi o non vuoi ammetterlo. Noi siamo dalla tua parte, non esitare a confidarti e non lasciare che questa cosa vada troppo oltre. Puoi farcela.

Benji si voltò stizzito verso la finestra. Non disse nulla. Aveva bisogno di stare solo e riflettere.

Sì, doveva pensare. Doveva pensare ad un modo per scappare da li. John non poteva capire, e nemmeno suo padre. Se avesse parlato, se avesse ammesso la sua esistenza, l’Uomo Calvo avrebbe riversato su Rachel e su di lui la sua ira più funesta, e non poteva permettere che ciò accadesse.
Si avvicinò alla finestra, aggrappandosi con le dita alla rete metallica rinforzata.
Sentiva John dietro di sé. La sua presenza ora lo infastidiva. Gli bastava un niente perché la sua ira frustrata esplodesse. Gli era tornato anche il mal di testa e il braccio ferito gli doleva più che mai.
Inaspettato, sentì il tocco della mano di Reynolds sulla spalla sinistra. Si irrigidì, ma non si sottrasse.

-Ti lascio riflettere, ora. Le mie parole ti hanno turbato, ma le ho dette per il tuo bene. Credo che più tardi verrà tuo padre.

-Digli che non voglio vederlo.

-Non servirà a niente, verrà comunque. E poi bisogna rifare la medicazione al braccio. O lui o Doreen. Scegli il male minore.

-Nessuno dei due.

-Sai che non è possibile. Se continuerai ad opporti alle cure mediche sarà sempre peggio. Dammi retta, o quella caposala diventerà il tuo incubo.

“Lo è già” avrebbe voluto rispondere, ma preferì non aggiungere altro. John aveva ragione. Se suo padre aveva deciso di venire, sarebbe venuto comunque. Niente poteva impedirglielo. 

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Capitolo 13
*** Capitolo 13 ***


Capitolo 13


Dopo che Reynolds se ne fu andato, rimase solo con la sua collera e con le sue domande senza risposta. Si sentiva stanco e dolorante. Sapeva che presto suo padre sarebbe tornato per controllare la ferita, e non aveva nessuna voglia di vederlo. Un altro confronto non sarebbe riuscito davvero a tollerarlo.
Seppure di malavoglia, si era gettato sul letto arrendendosi al fatto - peraltro evidente - che nessuno gli avrebbe aperto la porta e che in quella stanza non c’erano distrazioni ma solo i suoi pensieri, insidiosi e pericolosi nemici. Almeno la voce per il momento se ne stava zitta.
Alla fine l’inedia lo vinse e si assopì, provato dagli ultimi sviluppi.




                                                    
Furono le voci a svegliarlo. Si mosse nel sonno, poi aprì gli occhi, trovandosi di fronte suo padre e la capoinfermiera. Quando si accorsero che era sveglio, si avvicinarono e Philip si sedette sul letto. Finse di non vedere lo sguardo rabbioso che il figlio gli rivolse, anche se ci rimase male quando Benji si ritrasse.

-Sono passato per vedere come stavi e per sapere se avevi cambiato idea - disse Philip con un tono di voce molto professionale – so che anche John ti ha parlato.

Benji non rispose. Li stava osservando cautamente, attento a ogni loro piccolo movimento. Il padre se ne accorse e cercò di farlo sentire a proprio agio, parlando con calma e cercando di non innervosirlo ulteriormente.

-Ho bisogno che tu mi dica cosa è successo, Benji, cerca di capirlo altrimenti non posso aiutarti.

-Come te lo devo dire che non lo so?- proruppe stizzito il figlio - continui a farmi la stessa domanda, cosa vuoi sentirmi rispondere?!

-Voglio solo che tu mi dica la verità su quanto è successo, non è difficile, provaci almeno.

-La verità … - fece Benji amareggiato – la verità è che tutti quanti voi avete già preso le vostre decisioni! Che te ne importa quindi di sentirmi dire quello che già sai?

-Di che stai parlando? Quali decisioni?

Benji lo guardò con odio, convinto che lo stesse beffando – Il fatto di trovarmi qui, per esempio. So benissimo che pensate che sia impazzito, ma non è così.

-Benji … - iniziò a dire Phil – chi ti ha detto certe cose?

-Nessuno! Mi trovo qui e basta! Contro la mia volontà, ma a te non importa.

-Perché dici questo?

-Perché è vero!

-Cerca di essere ragionevole, Benji. Nessuno pensa questo di te.

-Ah, davvero? Allora perché non posso andare a casa? Perché non posso uscire da questa stanza? – aveva alzato la voce e Doreen si era avvicinata. Il ragazzo la fulminò con lo sguardo apostrofandola secco – Non toccarmi tu!

Phil alzò una mano, fermando la caposala, senza staccare gli occhi dal figlio.

-Perché pensi che siamo noi i tuoi nemici, quelli da combattere? Noi vogliamo solo aiutarti, permettici di farlo.

-No!- urlò Benji – tu mi hai portato qui, non dimenticarlo, è tutta tua la colpa!

-Ti ho portato qui dopo averti trovato ferito nella tua stanza mentre urlavi qualcosa a qualcuno che non c’era!

Quella verità colpì Benji come uno schiaffo. Rabbrividì. Dunque suo padre sapeva. Aspettava solo di sentirglielo dire.

-Avanti, Benji, dimmelo.

Sconvolto da quella rivelazione, si chiuse in un ostinato silenzio. Scuoteva il capo, ripetendo a bassa voce di non essere pazzo.

Philip tentò nuovamente di convincere il figlio a parlare di quello che era successo, ma questi si rifiutava perfino di guardarlo in faccia. Philip sapeva che era arrabbiato con lui ma non poteva farci niente, anche se non era sua intenzione subire la collera del figlio senza fare nulla.

-Rachel mi ha detto delle cose che vorrei tu confermassi – tentò ancora Philip.

-Non è vero, vuoi solo usare mia sorella contro di me. Se non fosse così, mi permetteresti di vederla!

-Benji …

-Basta, lasciami stare, vattene!

Stava per rispondergli quando il suo cercapersone si mise a vibrare. Controllò chi fosse, imprecando a bassa voce. Era un’urgenza, doveva andare subito in sala operatoria, anche se non gli andava di lasciare Benji così, e di certo non poteva nemmeno ignorare la chiamata. Sospirò nervosamente, dovendo anteporre ancora una volta il lavoro al figlio. Del resto non stava ottenendo dei risultati, quindi forse quell’interruzione si era rivelata quanto mai opportuna.
 
-Va bene, facciamo una pausa per oggi – concesse Philip – ma domani vorrei continuare questo discorso. Verrà anche un dottore nuovo che non conosci e che forse ci potrà aiutare.

Attese che Benji mostrasse una reazione, invece nulla. Il ragazzo sedeva sul letto a gambe incrociate, voltandogli le spalle. Non rispose, non mostrò alcuna reazione.
Philip annuì, aspettandoselo. Senza aggiungere altro, lasciò la stanza, seguito dalla caposala.
Doreen lo accompagnò fuori dal reparto, fino agli ascensori e mentre aspettavano che arrivasse, chiese al primario chi fosse questo nuovo medico.

-Abbiamo seguito dei corsi di specializzazione insieme all’università, poi lui ha proseguito con psichiatria mentre io ho preferito seguire le orme di mio padre e diventare chirurgo - spiegò Philip – ci conosciamo da tanto e so che è diventato un ottimo psichiatra; l’ho contattato l’altro giorno e mi ha detto di essere disponibile. Credo che la sua esperienza sia utile e spero tanto che mi possa dare una mano con i gemelli.

-Capisco - fece Doreen – a proposito, come sta il dottor Preston?

Preston Price era il padre di Philip, ex primario del Western Maine ed era molto caro a Doreen.

-Sta bene – rispose Philip - si gode la pensione, mentre John ed io qui ci stiamo passando la patata bollente che il caro ex primario ci ha scaricato addosso!

Risero insieme.

-Suvvia dottore, dirigere un ospedale è una bella responsabilità, e credo che suo padre sia fiero di aver lasciato a lei e John questo importante privilegio.

-Certo, stavo scherzando.

Doreen annuì.

L’ascensore arrivò e prima di chiudere le porte Philip si rifece serio.

-La prego di informarmi immediatamente se ci fossero degli sviluppi.

-Certo, dottore non si preoccupi. Sarà informato di tutto.
 
Philip annuì e schiacciò il pulsante dell’ascensore, la mente già rivolta al paziente che doveva salvare.


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Il mio sempiterno "GRAZIE" ad Arte e Kellina... Il vostro apprezzamento e i vostri commenti mi fanno immenso piacere... ci tenevo a dirvelo prima di scappare a scrivere il resto della storia! Altrimenti poi non riesco a starvi dietro!! Un saluto a tutti i lettori che mi seguono nell'ombra... ***Lady Faith***

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Capitolo 14
*** Capitolo 14 ***


Capitolo 14

Il nuovo psichiatra era giovane, bello e forte. Diceva di essere amico sia di Doc Greenway che di Philip, ma per quello che gliene importava, poteva anche essere il migliore amico del Presidente, tanto non avrebbe fatto alcuna differenza. Quello che non aveva detto a Doc e a suo padre non l’avrebbe detto nemmeno a lui.
Era così insignificante che neanche ricordava il suo nome, eppure dalle voci di corridoio che aveva sentito, non se la cavava tanto male.  

Per questo Benji era ancora più deciso a far crollare il suo mito. Inoltre, la cosa più irritante, era che questo bellimbusto si dava delle arie, andando in giro a vantarsi di come presto o tardi anche lui avrebbe cantato. Come un usignolo, così diceva a chiunque lo stesse a sentire.

Doc era stato ben felice di lasciarlo tentare, dato che lui stesso non ne aveva cavato un ragno dal buco.
Lo stesso valeva per Philip, i cui tentativi erano stati infruttuosi tanto quanto quelli di Doc.

-Lasciate che ci provi io – aveva detto il giorno prima in riunione nell’ufficio di Philip.

-Dottor Kay, credo sia tutto tempo sprecato. Con tutto il rispetto ma, tranne l’ipnosi e la tortura, le abbiamo provate tutte - scherzò Greenway.

Il dottor Kay rise. – Allora lasciatemi fare il mio tentativo. Se fallirò vi resterà sempre l’ipnosi. Oppure potrete tentare con l’elettroshock, ma prima fate provare me, in nome dei bei vecchi tempi dell’università.

-D’accordo, faccia pure il suo tentativo, ma non si aspetti granché.

-Grazie, Doc, non vi deluderò, l’ho promesso a Philip.

Terminato il colloquio conoscitivo con lo staff del dottor Price, Jason Kay non vedeva l’ora di mettersi al lavoro, ansioso di dimostrare a tutti dei risultati positivi.
Per questo motivo Benji era stato portato nel suo ufficio, in tutto simile a quello del padre. Il nuovo strizzacervelli si era rifiutato, infatti, di incontrare il paziente nella Stanza Azzurra, suscitando così le ire di Doreen, che per ordine di Philip, era dovuta sottostare alle regole di “quello nuovo”, come lo chiamava lei, cosa che naturalmente non le era andata a genio.  

-Non si lamenti con me, dottor Price, quando suo figlio scapperà - l’aveva redarguito.

Philip, composto, l’aveva rabbonita dicendole in tono confidenziale: -Non succederà, mia cara, poiché ci sarà lei ad impedirlo.

Questo nuovo compito l’aveva resa ancora più orgogliosa del suo primario, che già adorava, anche se si era accollata un’enorme responsabilità, così, senza aggiungere altro, si era allontanata borbottando.

Con una scorta di due giovani e forti infermieri, aveva condotto Benji nell’ufficio di Kay, restando di vedetta fuori dalla porta.

Era la prima volta che lasciava la Stanza Azzurra ma non ne fu per nulla contento, dato che la destinazione  era l’ufficio del dottor Kay, dove si trovavano in quel momento, seduti l’uno di fronte all’altro, a studiarsi come due pugili prima di un incontro.
Tentare la fuga sembrava in apparenza impossibile, con “ il Generale” e i suoi due infermieri fuori dalla porta. L’altra unica via di fuga, la finestra dell’ufficio, era schermata da una pesante griglia in ferro battuto.

Tanto valeva restare nella mia prigione azzurra; mi sarei sentito più a mio agio- pensò Benji alquanto seccato.

-Allora Benjamin, o preferisci Ben – disse Kay aprendo la sua agenda, evitando apposta di guardarlo negli occhi.

Benji sospettò che stesse usando una tattica, ma non era ancora sicuro di quale fosse.

- Dovrebbe sapere che detesto i diminutivi stupidi, visto che dice di essere amico di mio padre.

-Certo, scusa. A casa ti chiamano Benji, vero? Posso chiamarti così se preferisci.

-Faccia un po’ come le pare, per quel che me ne importa!

-Sei sulla difensiva, vedo. Di che cosa hai paura?- Kay lo guardò in faccia.

-Io non ho paura!- Benji ricambiò il suo sguardo.

-Ma certo che ne hai, sei terrorizzato, sono forse io che ti spavento?

-Non creda di essere così bravo. Lei non conta nulla per me, è solo uno dei tanti. Anzi, Greenway è più in gamba se lo vuole sapere. E non faccia finta di conoscermi, non sa niente di me, quindi perché non la facciamo finita con questa pagliacciata? Tanto non ho niente da dire, né a lei né a nessuno!

-Mi aspettavo proprio che tu reagissi così, sai?

-Ma davvero?- Benji era sprezzante.

-Dimmi Benji, da quanto tempo sei qui?

-Fa qualche differenza?

-Fa molta differenza. Ti piacerebbe uscire all’aperto? Magari una passeggiatina qui sotto, nel parco, per iniziare.

Kay ammiccò, incoraggiante. Benji strinse i pugni, rodendosi di rabbia, lo sguardo gelido e tagliente come non mai.

-A nessuno piace rimanere a lungo recluso. Non c’è bisogno di essere medico per saperlo.

-E sentiamo, che dovrei fare per conquistare la mia temporanea libertà?

-Soltanto parlare.

Benji sbuffò annoiato. – Parlare! E di cosa dovremmo parlare io e lei? Che cosa volete sentirmi dire tutti, eh? Che sono pazzo? Che sento le voci? Che ho le allucinazioni? Sono richiuso qui da giorni, ormai, nel posto dove si curano le malattie mentali, quindi è evidente che avete già emesso la vostra sentenza sul mio stato di salute. Perché allora continuate a torturarmi?

-Niente di quello che hai detto è vero. Nessuno qui pensa di te le cose che dici. Tutti vogliono soltanto aiutarti.

-Non ho bisogno dell’aiuto di nessuno! Voglio solo tornare a casa mia, è troppo difficile da capire?

-Calmati adesso, non vorrai che “il Generale” pensi che ti sia agitato troppo e decida per altre dodici ore di riposo forzato, immobilizzato nel tuo letto. Vuoi questo?

Benji tacque, fissando con odio e risentimento il nuovo arrivato. Era audace e ostinato, doveva ammetterlo, ma lui non si sarebbe fatto fregare.

-Allora, ricominciamo da capo. Tu ed io facciamo due chiacchiere, senza fretta, come vecchi amici che si incontrano dopo tanto tempo e un po’ alla volta, tiriamo fuori quello che ti angoscia. Se sarai bravo, potrai avere la tua ricompensa. Per esempio, se collabori con la terapia, potresti uscire nel parco qui sotto. Sempre meglio che starsene rinchiusi tutto il giorno a languire seduto davanti a una finestra, non trovi?

Benji si tratteneva a stento. Avrebbe voluto picchiare a sangue il nuovo “dottor Sapientone”. Gli tremavano le mani e gli doleva la testa. Si portò per istinto le mani alle tempie per impedire loro di esplodere, lo sguardo carico di un odio cieco.

-Stia zitto! La faccia finita! Lei non è diverso da mio padre! Lo odio, vi odio tutti! -sbraitò sbattendo le mani sulla scrivania di Kay e alzandosi in piedi.

Lo psichiatra non si scompose. L’aveva provocato, e la reazione non era tardata ad arrivare, proprio come pensava.

-Siediti Benji, non ho ancora finito di parlare con te.

Quella frase funzionò come il panno rosso agitato davanti al toro. Benji strinse gli occhi in due fessure e sibilò: -Non prendo ordini da nessuno, tantomeno da lei!

Kay, sempre tranquillo, ribatté: -Hai ancora paura, ma forse ho qui qualcosa per te.

Frugò nella tasca destra del suo camice bianco e sbatté sul tavolo una siringa piena per metà. L’ago era coperto dal cappuccio di protezione.
Benji si ritrasse come un vampiro di fronte ad un crocefisso. Gli occhi fiammeggianti di collera fissarono l’odiato e temuto oggetto. Ricadde sulla sedia, aspettando che il medico gli spiegasse le sue intenzioni riguardo al suo gesto.

-Vedi – cominciò Kay con soddisfazione – questo è ciò che ti terrorizza. Guarda bene, è solo una siringa.

Tolse il cappuccio e l’ago scintillò crudelmente alla luce. Benji si ritrasse impercettibilmente.

-Se è vero che non hai paura lasciati fare l’iniezione. Potremo parlare con più calma, dopo.

Benji sorrise, sprezzante del pericolo, alzandosi lentamente in piedi, pronto a scattare se il medico si fosse avvicinato.

-Fossi matto – esclamò – stia lontano da me.

Indietreggiò agilmente verso la finestra. Il dottore avanzava siringa in pugno.

-Ho tentato di parlare, ma sei troppo nervoso per capire quello che ti devo dire, e inoltre hai una paura folle.

Lo sguardo di Benji divenne cattivo. Nessuno gli dava del codardo così impunemente! Fronteggiò il medico come spesso faceva con suo padre.

-Adesso mi ha proprio stufato, voglio tornare di là!

-Non ancora. Dimmi ciò che voglio sapere.

-Lei è pazzo. Non parlerò mai con lei, non ho niente da dire!

-Falla finita o quest’incubo non finirà mai!

Il tono e le parole sembravano quelle dell’Uomo Calvo. Si portò di nuovo le mani alle tempie, preparandosi alla fitta di dolore che sapeva sarebbe seguita alle parole di Calvo.

-No! Non adesso, ti prego- balbettò.

-Cosa? Non ho capito ciò che hai detto.

-Mi lasci in pace. Voglio andarmene, adesso.

Stavolta le parole uscirono chiare e udibili ma Kay aveva intuito qualcosa. Era riuscito a smuovere qualcosa, ma aveva bisogno di lavorarci su parecchio. Il ragazzo era tenace, non avrebbe mollato tanto facilmente, ma era anche molto spaventato. Avrebbe dovuto insistere su questo.
Sorridendo fece sparire la siringa, e all’improvviso tutto cambiò. Tornò alla scrivania e si sedette, invitando il suo piccolo paziente a fare altrettanto. Com’era prevedibile, Benji rimase immobile a distanza di sicurezza da quel pazzo. Era confuso e molto seccato. Quel tipo lo stava prendendo in giro.

-Ti prego, torna a sederti e scusami se ti ho fatto paura, ma avevo bisogno di avere una valutazione in campo pratico.

Benji lo fissò sospettoso mentre prendeva dei veloci appunti, ma ancora non si era mosso. Passò in rassegna tutti gli oggetti della scrivania, poi sorrise impercettibilmente.
Non era ingombra come quella di suo padre e non c’erano fotografie. Per il resto, era piena di scartoffie di ogni genere, ma un oggetto in particolare attirò la sua attenzione. Era un fermacarte di vetro fatto a mappamondo, ed era proprio delle dimensioni di una palla da baseball. Si mosse veloce. Le sue dita si chiusero sulla sfera di vetro proprio mentre Kay sollevava la testa dai suoi appunti.

-Ti piace?- chiese. Parlava come se nulla fosse accaduto, ma Benji sapeva che era ancora la stessa tattica di prima. Non gli rispose. Lanciava la sfera in aria e la faceva ricadere sul palmo della mano, come soppesandola, con un sorrisetto crudele dipinto sulla faccia.
Kay notò il gelido fuoco che sembrava ardere in quegli occhi, quel colore magnifico e singolare. Erano occhi che inquietavano.

-Avanti, posala ora. Potrebbe caderti e … ci tengo molto, è un regalo particolare.

Il sorriso di Benji si accentuò mentre la sfera di vetro continuava a rimbalzare. Su e giù, su e giù. Gli occhi del dottore ne seguivano inquieti la traiettoria.

-Si è divertito?- la domanda di Benji lo colse di sorpresa, così come il suo tono tagliente.

-Cosa? Ma che stai dicendo? – Kay era evidentemente un po’ a disagio, adesso.

-Credo che abbia capito bene dottore.

-Sei ancora confuso, Benji, credo che per oggi possa bastare. Ti ho causato già troppe emozioni.- Kay si era alzato in piedi, al di là della scrivania. – Adesso chiamo Doreen e ti faccio riportare nella tua stanza.

-Stia zitto, dottor Kay, ora tocca a me divertirmi. Le avevo detto che non mi conosceva affatto. Ora mi pagherà quel suo delizioso scherzetto.

-Non fare stupidaggini, ti potrebbe costare caro. La tua prigionia potrebbe prolungarsi ancora …

-E’ molto bravo con le parole ma con me non attacca. Nessuno si prende gioco di me in questo modo. Ormai non ho più nulla da perdere.

Lentamente Kay infilò la mano nel camice e tirò fuori la siringa, questa volta sul serio. – Ora smettila, va tutto bene. Fa tutto parte della terapia per rimuovere il tuo blocco psicologico.

Benji rise. Terapia? Blocco psicologico? Quell’uomo era veramente fuori di testa. E suo padre che gli dava retta!

-Io non ho nessun blocco psicologico del cavolo! Mi ha capito bene?

Strinse la presa sulla sfera di vetro. Kay lo vide e avanzò verso di lui.

-Calma sta buono. Sai, ho fatto una chiacchierata con Rachel questa mattina.

Benji si arrabbiò ancora di più – Lasci in pace mia sorella! E stia lontano, non si avvicini o se ne pentirà.

-Molla quel coso, su. Abbiamo giocato abbastanza per oggi. Hai bisogno di un riposino.- Premette sullo stantuffo della siringa e un piccolo spruzzo si nebulizzò in aria. – Inoltre se volevi colpirmi, l’avresti già fatto. Ora ti mando a nanna per un po’.

Agilmente Benji evitò Kay, caricò il braccio con una precisione come solo lui poteva fare, e lanciò la sfera, mirando proprio alla testa di Kay. Il medico si sbilanciò. La sfera lo colpì con violenza sulla fronte e andò a schiantarsi sul pavimento disintegrandosi in mille pezzi. Il dottore finì a terra, proprio sui frammenti, rimanendo disorientato per un attimo.
Pezzetti di vetro gli finirono nelle mani; sulla fronte, dove era stato colpito, c’era già un bozzo enorme e bluastro da dove iniziava a uscire il sangue. Si portò una mano alla fronte, tastandosi la ferita, mentre con l’altra si rimise in piedi, un po’ malfermo sulle gambe. La siringa gli era sfuggita di mano nella caduta.
Benji gli passò accanto diretto verso la porta.

-Mi hai colpito … tu mi hai …

-Non sa ancora niente di me. Ora siamo in guerra, dottore. La odio, come odio mio padre, Doreen e tutto questo posto!

-Tu sei sconvolto, non sai quello che dici.

-Può essere, ma non sono io quello che sta sanguinando. Ci pensi bene se deciderà di scherzare ancora con me.

Scavalcò agilmente i pezzetti di vetro, fece per allungare una mano verso la porta ma Doreen l’aveva già spalancata.
Aveva di sicuro udito lo schianto e si era precipitata dentro l’ufficio, forse pensando che Benji avesse deciso di tentare la fuga dalla finestra.
Dietro di lei fecero capolino i due infermieri. Rimasero tutti di stucco vedendo il dottor Kay ferito. Doreen accorse i suo aiuto, preoccupata.

-Cos’ è successo dottor Kay? –chiese.

Gli infermieri intanto si erano piazzati sulla porta a braccia conserte, per impedire a Benji di fuggire.

-Niente è stato un incidente, Doreen. Ora però credo sia meglio portarlo nella sua stanza. Ha bisogno di riposare, questa nostra prima seduta è stata un po’ dura.

Doreen si voltò verso Benji che era rimasto immobile accanto alla porta, dondolandosi da un piede all’altro, le mani nascoste dietro la schiena.
Fece qualche passo verso di lui.

-Vieni con noi, adesso, da bravo. Tuo padre non sarà per niente contento quando gli riferirò quello che è successo.

Con uno scatto fulmineo del polso, Benji le gettò in faccia alcuni pezzetti di vetro che aveva tempestivamente raccolto da terra quando si era aperta la porta, e che aveva nascosto dietro la schiena.

Doreen urlò. Fu il turno di Kay di prestare soccorso, ma lei lo respinse, sbraitando agli inservienti: -Prendetelo, portatelo via, via di qui!

Gli infermieri mossero verso di lui, liberando l’uscio, ed era proprio ciò che voleva. Con due rapidi scarti se li era già lasciati alle spalle, guadagnando la porta e il corridoio e forse la libertà. Li sentì imprecare dietro di sé e dai loro passi frettolosi capì che lo stavano inseguendo.

Kay si precipitò al telefono:-Presto codice cinque, allerta silenziosa, reparto neuropsichiatria infantile. Bloccare ogni possibile via di fuga. Il soggetto è spaventato e molto nervoso. Si raccomanda cautela nell’avvicinarlo.  

Riagganciò il telefono e si passò di nuovo le dita sulla fronte come per convincersi che la ferita c’era davvero. Doreen era stupita quanto lui. Aveva sentito dire cose molto belle sul giovane psichiatra.

-Come è potuto accadere? Che diamine! Come abbiamo potuto …

-Non andrà lontano, dottor Kay. Grazie alla sua tempestività e alle straordinarie misure di sicurezza, non potrà nemmeno avvicinarsi, all’uscita. Sarà al sicuro nella sua stanza entro i prossimi quindici minuti, e sarà compito mio assicurarmi che ci rimanga, stavolta - Doreen scoccò a Kay un’occhiataccia.

-Ha ragione, è colpa mia. Non pensavo di certo che la situazione precipitasse in questo modo.

-Ora è disposto a visitarlo solo ed esclusivamente nella sua stanza, dottore? Sempre che voglia continuare la terapia …

-Si certo, mi atterrò scrupolosamente al regolamento.

-Bene – esclamò soddisfatta la caposala – allora questo casino è servito a qualcosa, dopotutto, anche se credo che una bella lavata di capo la prenderemo tutti, dal dottor Price in persona.

-Lei non c’entra, Doreen. Io ho insistito con Philip nonostante lei avesse cercato di dissuaderci.

-Non ha importanza, ora. Dobbiamo riprenderlo e lei deve farsi medicare quella ferita.

-Già, mi ha proprio steso. E’ che non me l’aspettavo … è stato talmente veloce che non l’ho nemmeno visto.

-Forse Philip si è dimenticato di avvertirla che suo figlio gioca nella Little League di baseball e che è uno dei migliori lanciatori della sua squadra …

Mentre parlavano si erano incamminati a passo sostenuto verso le scale, dove gli infermieri si erano precipitati all’inseguimento di Benji.
Doreen Jackson, alla fine, ebbe ragione. Le misure di sicurezza si erano dimostrate efficaci, anche se ci vollero molto più di quindici minuti per riprenderlo.

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Capitolo 15
*** Capitolo 15 ***


Capitolo 15

Benji arrivò trafelato all’ultima porta di quel dannato reparto. Una rapida occhiata alle spalle e seppe che i due infermieri gli erano alle costole.
Tentò di aprire la porta con una spallata ma era chiusa. Non se ne meravigliò e non perse tempo riprovandoci. I due lo stavano quasi raggiungendo, così si buttò giù per le scale. Correva veloce, ma non riusciva a distanziarli; lo tallonavano da vicino.

Anche al piano di sotto trovò tutte le possibili uscite bloccate, e iniziò a sospettare che avessero già dato l’allarme. Di nuovo sentiva i passi dei suoi inseguitori che si avvicinavano. Fu preso dal panico. Non voleva lasciarsi sfuggire quell’occasione di scappare, sicuro che, se l’avessero ripreso, non sarebbe mai più uscito da li.
Prese l’unica decisione possibile. Avrebbe usato le scale antincendio, sarebbe arrivato con quelle nel perimetro esterno, il giardino, e li sarebbe stato più facile disperdersi tra la gente. Doveva solo arrampicarsi sul muretto della finestra per accedere alle scale, e riuscire ad aprirla. Non c’era tempo da perdere.
Ormai tutti erano stati avvertiti della sua fuga. Era rischioso, ma doveva tentare.

-Benjamin?

Si voltò di scatto, terrorizzato. Era Doc Greenway, e accanto a lui, Brian Thorne, quello del Pronto Soccorso.
Avanzavano lentamente, verso di lui. Indietreggiò di qualche passo poi voltò loro le spalle e scappò nella direzione opposta. In fondo al corridoio lo aspettavano i due infermieri. Si bloccò, tornando sui suoi passi. Doreen e il malconcio dottor Kay gli bloccarono l’accesso alla finestra che dava sulle scale antincendio. Era in trappola!

Doreen era raggiante quando parlò:- Bene, Benji, eccoti qui. Evitiamo una scenata, adesso.

-Che cosa volete?- urlò terrorizzato.

Fu Greenway a rispondere:- Soltanto fare due chiacchiere con te. Sei al sicuro, qui.

-No!-urlò – non ne sono per niente convinto!

-Sembrerebbe proprio che tu non abbia scelta - continuò Doc calmissimo e sorridente. Aveva qualcosa in mano, ma non vide bene cosa fosse. Poco importava comunque. Stavano stringendo il cerchio.
In preda al panico, tentò ugualmente di raggiungere la finestra. Aveva già un piede sul muretto ed era pronto a scavalcarlo quando due paia di robuste braccia lo afferrarono da dietro e lo trattennero. Erano i due gorilla di Doreen.
Vacillò all’indietro e si sbilanciò. Prese a urlare e inveire, scalciando furiosamente con le gambe libere.

-Aiuto! Qualcuno mi aiuti, lasciatemi, lasciatemi stare, andate via! State lontani da me!

Si divincolava furiosamente, cercando di colpire i due per indurli a mollare la presa, ma non riusciva a liberare le braccia. Era stato sopraffatto. Accorse Thorne e gli afferrò le gambe libere. L’avevano atterrato, anche se non smetteva di agitarsi, benché fossero in tre a tenerlo giù. Continuava a urlare e divincolarsi, non volendo credere che il suo tentativo di fuga fosse fallito.
Greenway si avvicinò e si chinò su di lui.

-Tenetelo fermo.

Benji intravide il brillio di un ago. –No!- sbraitò - Stia lontano da me! Aiutatemi!

Greenway, sempre sorridente, gli affondò l’ago nella coscia. Benji sussultò e chiuse gli occhi al dolore improvviso, riaprendoli poco dopo. Cercava ancora disperatamente di liberarsi, anche se con meno forza di prima. Sentì tutti i muscoli cominciare a rilassarsi. La vista si offuscò un poco.

-Ecco fatto, va meglio ora - parlò Doc con tono suadente.

Lo sollevarono e lo portarono via.

-Andrà tutto bene … fu l’ultima frase che udì.










Era seduto sul pavimento della sua cella, a gambe incrociate, lo sguardo perso nel vuoto, troppo provato dagli ultimi sviluppi per riuscire a pensare qualcosa di coerente.
La mente, ancora intorpidita dalle droghe, si rifiutava di collaborare.
Semplicemente se ne stava lì senza muoversi, senza pensare a nulla, in un mesto abbandono, trovando difficile concentrarsi su qualsiasi cosa.
Era ancora così quando Doreen venne a ritirare il vassoio della cena praticamente intatta. Jeff, l’infermiere che gli era stato assegnato, aspettava davanti alla porta aperta a braccia conserte che la caposala terminasse le sue incombenze.

Benji sollevò a malapena lo sguardo, lo osservò un attimo, poi riabbassò gli occhi.
Non gli piaceva l’infermiere incaricato di occuparsi di lui. Aveva una faccia scolpita nella pietra, era solido e ben piantato. Sapeva bene che con un tipo così alle calcagna sarebbe stato molto difficile tentare ancora una qualsiasi fuga. Forse era uno dei motivi per cui quel tipo gli era stato assegnato. Anzi, con tutta probabilità, era l’unico motivo. Inoltre era perfettamente in grado di contrastare i suoi attacchi violenti e gli sfoghi d’ira.

Doreen espresse la sua disapprovazione per il cibo lasciato intatto con un verso gutturale.

-Le medicine ti tolgono l’appetito vedo.

Non ottenne risposta. Indugiò un attimo, guardò Jeff che dalla soglia ricambiò immobile, pronto a bloccare un assalto a sorpresa di Benji nel caso avesse deciso di tentare ancora di scappare. La porta aperta rappresentava una tentazione forte, e Jeff era lì proprio per impedirlo.
Doreen sapeva che il ragazzo non era stupido. Aveva capito che non avrebbe avuto alcuna possibilità di fuga, non con Jeff piantato sulla porta, pronto a contrastarlo.  
Non avrebbe sprecato inutili energie in un tentativo che, sapeva, sarebbe fallito.

Benji non si era mosso, degnando a malapena i due di uno sguardo. Doreen era più che certa che stava tramando qualcosa. Era molto in collera con lei, suo padre, Reynolds e Greenway, e non mancava mai di farglielo sapere. Si stupì quindi del suo silenzio e della sua immobilità.

-Sappi che fai del male soltanto a te stesso, rifiutando il cibo.

Nessuna risposta.

-Jeff passerà più tardi a controllare, in caso tu abbia cambiato idea.

Ancora nessuna risposta.

-Se ti rifiuterai ancora di mangiare, sarò costretta a riferirlo a tuo padre, e se il primario deciderà di metterti in alimentazione forzata, non potrò fare null’altro che assecondarlo … sai cosa voglio dire - fece una pausa per controllare se le sue parole avevano avuto effetto o meno.
L’impercettibile guizzo di un muscolo non sfuggì al suo occhio allenato. Benji aveva stretto i pugni, quindi aveva udito ogni sua parola.

-Molto bene – proseguì poi rivolta a Jeff – il paziente sembra piuttosto tranquillo, non credo siano necessarie restrizioni, questa sera. Aggiornami al giro d’ispezione notturna.

Jeff annuì con un cenno del capo. Era evidentemente un uomo di poche parole, che eseguiva gli ordini dettati da Doreen.

-Pensa a quello che ti ho detto, Benjamin, Jeff mi riferirà le tue decisioni. Buonanotte.

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Capitolo 16
*** Capitolo 16 ***


Capitolo 16

Dopo che fu uscita, si udì lo scatto del meccanismo che bloccava la porta.
Benji ascoltò il rumore del carrello con cui Doreen ritirava i vassoi allontanarsi per il corridoio. Si rilassò un poco.
Era sempre un enorme sollievo rimanere soli dopo una sua visita, anche se si era confinati in una cella di contenzione come la sua.  
Lei era sempre in grado di farti saltare i nervi, in un modo o nell’altro.

Quando se ne fu andata, Benji cercò di rimettere insieme le idee.
Era caduto in uno stato di profonda depressione dal momento in cui il suo tentativo di fuga era fallito così miseramente quasi un giorno e mezzo prima, ormai.
Sapeva fin troppo bene che se non avesse approfittato di quell’occasione, non avrebbe più avuto molte altre opportunità di fuga.
Infatti, dopo il terribile episodio nello studio di Kay, la sorveglianza su di lui era triplicata. Lo controllavano di continuo, forse temendo una sua brusca e improvvisa reazione, non solo nei loro confronti ma anche verso se stesso.
Le misure restrittive erano divenute quasi intolleranti, ed erano iniziate anche somministrazioni di sedativi e tranquillanti, che erano potenti freni inibitori anche per i caratteri più esuberanti come il suo.    
Inoltre, come se ciò non bastasse, l’Uomo Calvo era tornato a infastidirlo. Spesso, infatti, aveva degli incubi terribili dai quali quasi sempre si svegliava urlando, in un mare di sudore.
Accorreva allora tutto lo staff medico che provvedeva a calmarlo; molte volte con l’uso di farmaci, altre volte si limitavano invece a immobilizzarlo finché non si fosse calmato; spesso succedevano tutte  e due le cose insieme.
I farmaci lo rendevano intrattabile per ore. Molto spesso gli causavano allucinazioni in cui quasi sempre vedeva l’Uomo Calvo e che finivano con l’ atterrirlo ancora di più; gli rendevano difficile la concentrazione e aveva dei vuoti come in quel momento, in cui i pensieri, le azioni, i movimenti sembravano arrivare con fatica e da molto lontano.
Era precipitato in una spirale di paura, odio e insicurezza. Stava cercando faticosamente di riemergere, anche se molte volte i guai peggiori se li procurava a causa della sua impulsività, ma non poteva farci niente.
Non riusciva a pentirsi di aver colpito, ferendolo, il dottor Kay, anche se tutto quello che aveva subito dopo era la diretta conseguenza del suo gesto sconsiderato.
Inoltre era stato provocato. Kay sapeva che ciò avrebbe comportato delle conseguenze e ne aveva preso atto. Lanciargli contro quel fermacarte era stato un atto liberatorio, uno sfogo per tutti i giorni di prigionia che aveva patito, e la possibilità di scappare da tutto ciò lo aveva galvanizzato al punto tale che non aveva nemmeno considerato l’eventualità che la sua fuga potesse essere circoscritta.

Lo aveva realizzato nel momento in cui veniva ripreso, e tutte le sue certezze gli erano crollate dinanzi agi occhi come un castello di carte.
Aveva lottato per la sua libertà ma ben presto si era reso conto che le loro droghe erano più forti anche della sua volontà.
C’era solo un modo per venirne a capo – il più odioso di tutti – e il solo prenderlo in considerazione era talmente detestabile che disprezzava se stesso per averci anche solo pensato.  Tuttavia, al punto in cui si era arrivati, non gli restava altro da fare se non farsi aiutare da loro.
Rivelare la fonte delle sue angosciose paure, il modo in cui poteva manipolare la sua mente e condizionare le sue azioni e di conseguenza quelle della sorella.
Avrebbe potuto dire loro di quei terribili dolori alla testa ogniqualvolta si rifiutava di sottostare alle sue direttive, di come invisibili dita si insinuassero nel cervello, iniziando a stringere e stringere, in una morsa crudele e sempre più dolorosa, finché perdere i sensi era quasi una liberazione …
Oh, certo che avrebbe potuto! Sembrava addirittura talmente facile …
A volte, quando loro cercavano di convincerlo a parlare, sentiva una vocina interiore dire: Avanti, digli tutto, cosa aspetti a vuotare il sacco? Ti risparmierai tutto questo! La prigionia, le medicine, le costrizioni, terapie su terapie … non hai già sofferto abbastanza?

Oh si che aveva sofferto! Anche troppo.

E allora che cosa aspetti a dire loro ciò che vogliono sapere? – continuava la voce.

Già, perché non parlava con loro? Tutto quel terribile inferno sarebbe cessato nel momento stesso in cui avrebbe aperto bocca.

Si rivedeva nei colloqui con suo padre, Reynolds, Greenway, Kay e altri dottori. Dicevano sempre la stessa cosa: “Parlaci di ciò che ti tormenta e potrai tornare a casa molto presto.”

Era molto allettante, la proposta, ma non poteva accettare. La voce di Calvo era stata molto esplicita al riguardo: ci sarebbero state conseguenze molto spiacevoli.
Per lui, per Rachel e per tutti gli altri.

E’ molto meglio che ti credano pazzo piuttosto che sappiano della mia esistenza!
E comunque, anche se riuscissero a farti parlare, non troverebbero prove di me; tuo padre ha telefonato al Saint Peter’s e non ha trovato nulla. Ma dipende da te, tu tradiscimi e vedrai l’inferno che sono in grado di scatenare.


No. Non poteva parlare. Più di ogni altra cosa temeva che Calvo potesse fare del male a Rachel. Dopotutto, anche lei era legata a lui telepaticamente, non doveva dimenticarlo.
Sua sorella era fragile e impaurita da tutto questo, ed era anche possibile che se le avessero fatto sufficiente pressione, avrebbe detto tutto. Pur di evitargli quella tortura, avrebbe accettato di collaborare con loro. Suo padre e gli altri lo sapevano bene. Il legame dei gemelli era molto forte e se l’uno o l’altra fossero stati in pericolo, avrebbero di sicuro fatto in modo di aiutarsi a vicenda, anche collaborare, se ciò avesse permesso loro di non correre rischi.

Finalmente un pensiero chiaro e brillante si insinuò nella sua mente, bucando le nebbie e l’oblio dei farmaci, arrivando dritto al suo cervello.

Rachel.

Che ne era stato di lei? Dove l’avevano portata? Perché era sicuro che si trovasse lì anche lei, da qualche parte.

Si mise in piedi, improvvisamente inquieto, camminando su e giù per la stanza.
Un senso di urgenza si era impadronito di lui.

Devo vederla, parlarle. Devo poter comunicare con lei.

Cercò di stabilire un contatto mentale ma era evidente che i farmaci non avevano ancora esaurito del tutto il loro effetto. Non poteva riuscirci, con il cervello annebbiato dalle droghe! Imprecò ma non si diede per vinto. Riprovò più volte, purtroppo sempre con il medesimo risultato.

Si trovava in un evidente stato di ansia febbrile; se qualcuno del personale l’avesse visto in quel momento, avrebbe subito informato Doreen, invitandola a prendere le dovute misure cautelari.

Cercò di calmarsi. Non poteva permettere che qualche medico lo vedesse così agitato; avrebbe significato altri interrogativi, altre medicine, o magari di peggio, come trascorrere la notte legato al letto.

No, non doveva succedere. Jeff, il suo sorvegliante, sarebbe passato a controllarlo di lì a poco. Se avesse notato qualcosa che non andava, avrebbe di sicuro avvertito qualcuno. Non doveva permettere che ciò accadesse.
Se voleva comunicare con Rachel, era necessario che rimanesse calmo per evitare che gli fossero somministrati altri farmaci.

Le medicine, infatti, annullavano la capacità di stabilire il contatto mentale con la sorella. Si sentiva perso, e il non poter fare nulla lo rendeva ancora più nervoso e agitato.
Ben presto, però, si costrinse a calmarsi. Non gli era di nessuna utilità un simile atteggiamento, al contrario, era autodistruttivo.
Doveva per forza accettare il fatto – peraltro evidente – che era confinato in quella stanza, e anche se Rachel gli avesse chiesto aiuto, non avrebbe potuto fare nulla. A meno che non riuscisse ad uscire da lì; in tal caso poteva andare a cercare la sorella, sempreché si trovasse lì anche lei. Non ne era sicuro, ma d’altro canto, non riuscendo ad ottenere informazioni da lui, avrebbero sicuramente tentato con lei. Era abbastanza logico.

Si diresse verso la vetrata che dava sul corridoio, quella attraverso la quale i medici potevano osservare l’interno della cella in cui si trovava.

Le veneziane di sera venivano alzate, in modo da fornire una visione ottimale dell’interno, mentre durante il giorno erano tenute abbassate, anche se mai chiuse completamente, lasciando al paziente una certa privacy senza impedire agli infermieri di tenere sotto controllo la situazione. Se poi lo volevano controllare meglio senza disturbarlo, lo facevano attraverso lo spioncino posto sulla porta.

Benji sbirciò il corridoio. I controlli in genere venivano fatti ogni trenta – quarantacinque minuti, a seconda dei casi.
Non c’era nessuno in quel momento e le luci notturne erano già in funzione. Poggiò le mani sul vetro rinforzato, guardando in tutte e due le direzioni.  
Passarono due infermieri, diretti alle macchinette del caffè in fondo al reparto. Non lo guardarono.

In lontananza si udiva il suono di voci di altri pazienti, poi un pianto si levò sopra tutto. Gli parve di udire la voce di Doreen, poi nient’altro. Ormai doveva essere quasi ora dei controlli.
Si augurò di apparire abbastanza tranquillo, anche se non lo era affatto. Gli bastava che Doreen o Jeff non notassero quant’era sconvolto, in modo da poter trascorrere la notte senza essere drogato o altro.

Si ritrasse dal vetro, e stava per voltarsi quando un movimento furtivo catturò la sua attenzione. Di nuovo tornò ad appoggiare le mani sul vetro, cercando di vedere chi c’era lì fuori.
Udì bussare leggermente alla porta. Il cuore prese a martellare velocemente, e la gola si strinse dalla paura.

E se fosse lui? Se fosse venuto fin lì per … No, non era possibile!

Non potendo parlare, le corde vocali ammutolite da quel terrore che ben conosceva, si limitò ad osservare.
All’improvviso, un ragazzino biondo si parò dinanzi al vetro. Colto alla sprovvista, Benji si ritrasse, spaventato.

-Accidenti! – sibilò a denti stretti.

Il biondino, all’incirca della sua stessa età, aveva un braccio ingessato e come lui portava un pigiama d’ospedale.

Non poteva essere l’Uomo Calvo. Questo lo rilassò un poco. Guardò quello strano coetaneo con uno sguardo di rimprovero.

-Mi hai quasi fatto morire di paura … - lo redarguì, ma l’altro, guardandosi intorno nervosamente, lo interruppe.

-Sei tu Benjamin?

Quella domanda lo colse impreparato. Subito sospettoso, lo interrogò a sua volta.

-Tu chi sei, che cosa vuoi?

L’altro, sempre molto agitato, gli sibilò:- Sbrigati, non ho molto tempo. Allora, sei tu o no?

-Si sono io.

-Okay, allora ascolta. Ho un messaggio per te. Da parte di Rachel.

Benji tornò vicino al vetro, sospettoso e incuriosito, mentre il biondino si guardava intorno preoccupato.

-Dov’è? L’hai vista? Come sta? Dimmi dov’è?

-Non lo so dov’è. Ma mi ha detto di cercarti e di darti questo messaggio. L’ho conosciuta al pronto soccorso il giorno che ti hanno portato qui.
Ti devi fidare di me.

Lo disse tutto d’un fiato, notando il sospetto di Benji nei suoi confronti.

-Dove l’hai vista? Quando?

-Ieri. Nell’ufficio del dottor Kay, lei usciva io entravo. Mi ha riconosciuto e mi ha chiesto di riferirti un messaggio. E’ stato un incontro breve, c’erano infermieri, sai … non ha potuto dirmi molto … senti, mi devi credere al volo, non ho molto tempo. Se Doreen scopre che non sono nella mia stanza sono nei guai.

-Okay, qual è questo messaggio?

-Dice che vostro padre sa dell’Uomo Calvo. Quasi tutto. L’ha sentita parlare nel sonno una volta e dopo l’ha praticamente confessato lei stessa parlando con lui. Dovevano averla drogata.

Benji impallidì visibilmente – Oh mio Dio …

-Senti … Hey, ti senti bene? Non so che significa, ma non ha potuto dirmi altro. L’hanno portata via.

Allora è qui anche lei

-Chi l’ha portata via? Dove? Aiutami! Devo uscire da qui, devo trovarla!

-Senti io devo andare ora. Tra poco verrà la caposala …

-NO!- urlò Benji – Aspetta solo un attimo. Se puoi uscire dalla tua stanza, allora puoi aiutarmi!

-Non è che posso uscire … diciamo che sono scappato, ma se qualcuno lo scopre …

-Dimmi come fare allora. Per uscire.

-Non lo so. La Stanza Azzurra è una camera di contenzione … io non saprei che dirti …

Benji batté i pugni sul vetro – Maledizione!- esclamò adirato.

-Fatti portare fuori – suggerì il misterioso biondino.

-Che vuoi dire?

-Fuori, nel parco dietro l’ospedale. Ci sei mai stato?

Benji scosse la testa –No, non mi fanno uscire.

-Oh, sei confinato in reparto – esclamò saccente il biondo con l’aria di chi la sa lunga – deve essere una cosa seria allora … comunque senti: dopo la terapia di solito ci portano fuori per un’ora intera, all’aperto. C’è il nostro sorvegliante con noi, è vero, però puoi sempre provarci, no? E’ un inizio.

-Non mi faranno uscire finché non farò ciò che vogliono - ripeté Benji mestamente.

-Beh, tu assecondali un po’, giocaci, fagli credere che collaborerai. A che scopo essere considerato pazzo se non puoi divertirti un po’? Non sapranno se stai facendo sul serio o no; se ci saprai fare, otterrai la tua uscita. Vedrai, ti aiuterà a far sembrare tutto più sopportabile.

Rumori provenienti dal corridoio fecero spaventare il ragazzino biondo.

-Devo andare o mi scopriranno. Porterò ancora messaggi, se posso.

Benji batté sul vetro con le palme aperte.

-Aspetta! Hey, non andare! Come ti chiami, dimmi il tuo nome!! – urlò ma ormai il bambino era sparito. Con un gesto di stizza colpì ancora il vetro, e ancora.

-Maledizione, non puoi andartene, non puoi piantarmi qui così! Torna indietro!

Era talmente preso a inveire contro il ragazzino che non si avvide della sagoma bianca che dal di fuori lo osservava con attenzione. Quando se ne accorse, il panico fu grande.
Jeff era lì di fronte a lui, all’esterno della vetrata della cella, che assisteva al suo sfogo d’ira.


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Come sempre il mio "grazie" a chi ha voglia di leggere. Arte, non preoccuparti, è stato bello vedere la tua reazione perchè vuol dire che la vicenda ti appassiona! E ciò mi fa piacere. Avevo infatti già anticipato che questo racconto sarebbe stato "impegnativo" e fino all'ultimo ero indecisa se postarlo o meno, ma grazie al sostegno e all'amicizia dimostratami ho preso coraggio. (Kellina qui c'è anche il tuo zampino!) La madre: cosa dire? Abbi pazienza ce ne sarà anche per lei... in questa tormentata lotta generazionale!! Non posso dirti altro per ora se non "continua a seguire la storia"... Inoltre fai sempre delle belle recensioni, precise, che sanno cogliere il nocciolo della questione come pochi! I miei complimenti davvero. Alla prossima. ***Lady Faith***

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Capitolo 17
*** Capitolo 17 ***


Capitolo 17


Si ritrasse inorridito, certo ormai che il guaio era fatto aspettando la sua condanna ritto in mezzo alla stanza, la testa inclinata di lato, lo sguardo basso per evitare quello di Jeff, mentre i pugni si aprivano e chiudevano spasmodicamente.

Non riusciva più a nascondere il terrore e l’agitazione. E comunque, a cosa sarebbe servito ormai?

 

-C’è qualche problema, Benji? – domandò Jeff sospettoso.

 

Aveva un groppo in gola, così rispose con un cenno negativo del capo.

 

-Con chi ce l’avevi, contro chi stavi urlando, eh?

 

Non voleva compromettere il ragazzino biondo. –Io … io con nessuno.

 

-Mi sembri piuttosto alterato. Forse dovrei avvertire Doreen?

 

Altro cenno negativo del capo, molto energico stavolta.

 

-Starai buono e tranquillo, ora che ti sei sfogato?

 

Annuì lentamente, col cuore che gli martellava nel petto, in attesa.

 

-Molto bene. Spero che tu non mi abbia mentito. Riposa, ora, domani sarà una giornata lunga. Il dottor Kay vuole vederti.

 

Quelle parole furono come uno schiaffo. Fissò negli occhi Jeff per la prima volta, il viso impallidito dal terrore.

 

-Oh Dio … No … - mormorò scuotendo la testa.

 

Non voleva avere più niente a che fare con lui, non dopo quello che era successo.

Possibile che il dottor Kay non lo capisse?

 

 

Ci fu un attimo di silenzio carico di significato, poi Benji fece una risata sarcastica, nonostante fosse molto spaventato.

 

-Tzè! Gli ho quasi spaccato la testa e lui vuole rivedermi? Poi dite che sono io, quello pazzo.

 

-I medici come Greenway e Kay sono abituati ad assistere ad episodi insoliti e violenti, anche se credo che stavolta prenderà alcune precauzioni.

 

Le parole di Jeff gli suonarono vagamente minacciose. In realtà, tutta quella conversazione gli sembrava irreale, poiché Jeff era di poche parole, e lui non era solito conversare con i suoi aguzzini.

 

Poi, come se gli fosse venuta un’idea improvvisa, guardò il sorvegliante dritto negli occhi. Non lo faceva spesso, solitamente fissava il pavimento o inclinava la testa di lato, evitando di proposito di guardarlo in faccia.

Come sempre, Jeff costatò quanto strani fossero i suoi occhi; non solo per il colore, singolare già di suo, piuttosto per la loro pragmaticità. Erano in grado di catturarti, quasi possedessero un potere ipnotico, e di tenerti incollato a essi, senza riuscire a distoglierne lo sguardo.

 

Benji dunque guardò il sorvegliante, mentre la paura a poco a poco lo abbandonava, lasciando il posto a una rabbia a stento repressa.

 

Mosse alcuni passi verso Jeff – Che ne è di mia sorella? – chiese quasi sottovoce – cosa le avete fatto?!

 

Jeff notò lo sbalzo d’umore. Poco prima, con Doreen sembrava apatico e distaccato, poi terrorizzato da lui, infine ora sembrava sicuro di sé tanto da volerlo sfidare. Ne dedusse che ormai i sedativi dovevano avere esaurito il loro effetto. Non si scompose minimamente, come sempre.

 

-Tua sorella è al sicuro e sta bene – rispose.

 

-Non mentirmi! – ringhiò Benji – è qui, in ospedale. Cosa le avete fatto per farla parlare maledetti bastardi!?

 

Ora la sua furia era evidente e Jeff era il suo bersaglio. Ormai non gli importava più delle conseguenze, Doreen avrebbe potuto fargli ciò che voleva. Non si sarebbe più fatto condizionare dalle loro droghe, le loro terapie … L’unica cosa che al momento gli importava era sua sorella.

In un modo o nell’altro aveva ceduto; erano riusciti a farla parlare, mettendoli nei guai … Non provava che odio verso di loro, rabbia e voglia di vendetta.

 

Si avvicinò ulteriormente al vetro, fissando l’infermiere come un animale idrofobo, i pugni stretti, levati a mezz’aria, gli occhi fiammeggianti di collera.

 

-Cosa le avete fatto, eh? Come ci siete riusciti?! – sbraitò, calando i pugni chiusi sul vetro, dinanzi a Jeff, il quale indietreggiò di un passo.

 

Alzò la cartella clinica che teneva in mano e vi scrisse in fretta qualcosa.

 

-Mi costringi a chiamare la caposala, Benji; la tua aggressività è dovuta ad un effetto collaterale dei farmaci, ed è evidente che non riesci a controllarla.

 

-Apri questa maledetta porta! Ti farò vedere io che cosa posso controllare!

 

-Vorresti picchiarmi? Aggredirmi come hai fatto col dottor Kay? Non avrai oggetti contundenti a disposizione, stavolta. Come pensi di sopraffarmi?

 

-Perché non vieni qua dentro e lo scopri da te!

 

Jeff gli sorrise, calmo. Sapeva come affrontare simili crisi.

 

-Prima accetterai la realtà della tua malattia, prima verrai curato e prima te ne tornerai a casa. Che ne pensi?

 

-Voglio uscire di qui e voglio vedere mia sorella, adesso!

 

-Ti ripeto che Rachel sta benone.

 

-Non ci credo finché non l’avrò vista.

 

-Dovrai accontentarti della mia parola. Il tuo tentativo di fuga preclude, almeno per il momento, ulteriori uscite a meno che …

 

-Risparmiami la solita lagna. Non parlerò con voi. Se scopro che le avete fatto del male mi vendicherò.

 

-Benji qui nessuno fa del male a nessuno, riesci a capirlo? Ora, o ti calmi o prenderò provvedimenti. Una bella iniezione, tanto per cominciare, ridurrà il tuo comportamento aggressivo. Che ne dici?

 

-Dico di prendere tutti i tuoi provvedimenti e schiaffarteli in quel posto! Hai afferrato il concetto?

 

Lo stava chiaramente sfidando. I suoi occhi erano furenti. Appariva molto determinato, ma Jeff non si lasciò ingannare.

 

-Stai andando in pezzi, perché ti ostini a non farti curare?

 

Senza udire altro, Benji si scagliò contro il vetro, tempestandolo di pugni.

 

-Ne ho abbastanza di te! – urlò – voglio uscire da qui, io non sono pazzo! Voglio tornare a casa!

 

Jeff dette l’allarme. Doreen accorse poco dopo con altri due infermieri di turno. Lesse la cartella aggiornata.

 

-Crisi violenta, atteggiamento aggressivo, rifiuto a collaborare, allucinazioni, mmh. – annuì col capo quasi aspettandoselo – eppure sembrava così tranquillo, prima. Ok, apri- disse rivolta a Jeff.

 

Benji era in piedi in mezzo alla stanza, la testa china e i pugni stretti. Alzò vivamente il capo quando udì la porta aprirsi, lo sguardo pieno di odio tipico di un animale in cattività.

 

-Va bene, Benjamin, che scherzi sono questi? – Doreen avanzava verso di lui.

 

Dietro di lei Jeff e i due ausiliari.

 

-Quattro contro uno – si schernì – ma non fa niente. Voglio uscire da qui e voglio vedere mia sorella - la sua voce era ferma, dura.  

 

-Va bene. Nessuno esce da qui finché non ti sarai calmato- anche la voce di Doreen era pacata.

 

-Non mi calmerò finché non avrò parlato a mia sorella – puntò il dito su ognuno di loro – è solo colpa vostra se ora siamo nei guai, maledizione! Voglio uscire da qui.

 

-Cosa stai cercando di dire, perché sareste nei guai? Dimmi chi è che vi minaccia.

 

Benji fissò Doreen che aveva parlato. Una nuova ondata di panico lo travolse. Si era cacciato di nuovo nei casini, ma era molto in collera e non gliene importava.

 

Puntò il dito minaccioso su di lei:-Niente giochetti mentali! – urlò fuori di sé – non scenderò a compromessi!

 

Avanzavano lentamente verso di lui. Si vide costretto a indietreggiare di qualche passo per mantenere una certa distanza. Non voleva che lo toccassero.

Il panico tornò ad impadronirsi di lui perché non avrebbe potuto scappare da nessuna parte.

La stanza era improvvisamente diventata troppo piccola, per contenerli tutti.

Che cosa poteva fare ormai per evitare il destino cui, era sicuro, sarebbe andato incontro quella sera?

 

Niente! Non puoi fare proprio niente, caro mio! Ma guardati: sei terrorizzato da quattro dottorini in camice bianco! Ah ah ah!

 

Benji sussultò, portandosi le mani alle tempie. La voce dell’Uomo Calvo l’aveva colto alla sprovvista, parlandogli di fronte ad un pubblico. Non era mai successo prima d’ora. E, almeno per il momento, non sentiva alcun dolore.

 

-Benji?

 

Sbatté gli occhi, tornando a concentrarsi sugli infermieri. Era Doreen, si era avvicinata.

 

-Che cos’hai, cosa è successo?

 

Sembrava disorientato. Li passò in rassegna uno per volta, con occhi spaventati. Non avevano sentito nulla.

 

Certo che no, Benji … mi puoi sentire solo tu … tu e tua sorella.

 

Di nuovo ebbe un sussulto.

 

-Rachel … - mormorò a bassa voce – che cosa le hai fatto?

 

Ancora non l’hai capito? Non è mia intenzione farvi del male. Io voglio solo educarvi, istruirvi …

 

-Sta zitto! – Benji levò una mano in un gesto imperioso – io … non so nemmeno se tu sei reale …

 

Udì la risata svanire in lontananza, piano piano. Quando si accorse di aver parlato a voce alta ormai era tardi.

Qualcuno gli prese un braccio. Si riebbe, e vide che era Doreen.

 

-Con chi stavi parlando? Ti senti bene?

 

-Lasciami, non toccarmi! - sbraitò strattonando il braccio che la caposala gli teneva.

 

Non riuscendo a liberarsi, si buttò avanti alla cieca, colpendola col braccio libero per indurla a mollarlo. La vide indietreggiare e portarsi le mani al naso.

 

-Presto, aiutatemi.

 

L’avrebbe colpita ancora, e ancora ma Jeff e i due infermieri lo bloccarono prima che potesse farlo.

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Capitolo 18
*** Capitolo 18 ***


Capitolo 18


-No! Lasciatemi, lasciatemi!- urlava, e si contorceva mentre lo trascinavano verso il letto. Riuscì a mordere il braccio di uno dei due ausiliari prima che riuscissero a legarlo, ma alla fine fu sopraffatto e reso inoffensivo.

Paura, rabbia, dolore, odio, tutto nella sua testa scorreva in pochissimi secondi.

Le cinghie che gli legavano polsi e caviglie erano imbottite, quindi, anche se le avesse strattonate all’infinito non correva il rischio di farsi del male.

 

Non smise di inveire e continuò a strattonare i suoi legami anche quando la caposala entrò nel suo campo visivo. Aveva in mano una siringa, e tutta l’intenzione di usarla. Tentò di scalciare. Lei fece un sorriso e gli affondò l’ago nel braccio, vicino alla spalla. Non potendo sottrarsi, emise un lamento dolente simile a quello di un animale braccato.

 

-Adesso dovrai calmarti per forza. Mi dispiace, non volevo arrivare a tanto, ma quando un paziente diventa violento, le restrizioni sono necessarie. Comunque, tra poco ti sentirai meglio.

 

La sua faccia sembrò galleggiargli dinanzi agli occhi, diventando sempre più grande.

 

-Con chi stavi parlando?- riprovò Doreen, cercando di intrufolarsi di nuovo nella sua testa.

 

Benji cercava ancora di liberarsi, anche se molto più lentamente. Sentiva gli occhi pesanti e aveva una gran voglia di dormire.

Doreen gli posò una mano sul braccio che tentava ancora di liberare. Lui sussultò e cercò di sottrarsi a quel contatto, ma lei scosse la testa.

 

-Non serve a nulla fare così. Concentrati sulla mia domanda, più tardi sarai di nuovo libero. Allora, chi è che ti tormenta?

 

Benji voltò la testa dall’altra parte, evitando di rispondere, spaventato all’idea che per effetto dei sedativi gli potesse sfuggire di bocca qualcosa.

 

Lei insisté:- Chi ti ha parlato Benji? Perché dici di essere nei guai? Cosa c’entriamo noi e … tua sorella?

 

Le sue difese erano abbassate. Doreen sembrò aumentare a due metri di statura, la vista si offuscò, i muscoli tesi si rilassarono.

Le ultime parole che pronunciò prima di addormentarsi, furono:- Lui si arrabbierà con Rachel se io parlo … e non me la farà passare liscia se qualcuno lo scopre … la testa … mi fa male la testa.

 

Le parole erano un po’ biascicate ma Doreen le udì chiaramente, e così Jeff.

Poi le palpebre si fecero sempre più pesanti, gli occhi si chiusero e Benji precipitò in un’oscurità senza fondo.

 

 

 

 

                                                  

 

 

 

 

 

Philip spalancò le doppie porte del blocco operatorio, levandosi la mascherina con evidente sollievo. L’operazione era durata ben più a lungo del previsto, quasi tre ore e un quarto, e anche se era andato tutto bene, si sentiva spossato.

C’era un caldo opprimente lì dentro, nonostante i condizionatori. Le porte si aprirono di nuovo e John uscì insieme a un’infermiera.

 

-Dica ai parenti che l’operazione è finita ora e che tutto è andato bene. Stiamo portando il paziente in rianimazione, quindi almeno fino a domani non sarà possibile vederlo – istruì il primario.

 

-Sì dottore.

 

-Ah, dica anche alla famiglia di andarsi a riposare. Il paziente è in ottime mani.

 

-Sì dottore, a più tardi.

 

L’infermiera uscì, lasciandoli soli. John si lavò le mani, mentre Philip indossava una casacca verde pulita. Tralasciò di infilarsi sopra il camice bianco. Troppo caldo.

 

-Grazie John, ottima collaborazione – sorrise Philip.

 

Reynolds annuì – E’ andata bene, sì. Ora però ho bisogno di un bel caffè forte che mi tiri su e qualcosa da mangiare; la notte è lunga e fa troppo caldo. Vuoi niente?

 

-Il solito. Ti aspetto in ufficio.

 

-Bene - John si allontanò.

 

Una volta nel suo ufficio, Philip si sdraiò comodamente nella poltrona. Mise i piedi sulla scrivania. Era mezzanotte e trentacinque; di sicuro a quell’ora non riceveva più nessuno e poteva mettersi comodo.

Afferrò il telefono e compose l’interno di Doreen. Rispose al terzo squillo.

 

-Dottor Price, cosa fa ancora in giro a quest’ora? – la voce ben sveglia e chiara, come sempre.

 

Philip sorrise stancamente – Sono di turno cara, esco ora dalla sala operatoria. Sono a pezzi, ma ho del lavoro arretrato da sbrigare.

 

-Insisto, dottore. Vada a casa e si riposi un po’. C’è John con lei, no?

 

-Sì ma non voglio tornare. Credo che mi addormenterei al volante. Mia moglie sarà a New York per tutta la settimana, sono nel clou del processo … 

 

-Capisco. Si sentirebbe solo in quell’enorme casa vuota.

 

-Già. Riposerò qui nel mio ufficio.

 

-Mmmh, non le credo. Comunque scenderò da lei tra una mezz’oretta. Ho bisogno di un consulto. Ci sono stati degli sviluppi interessanti, qui.

 

-Benji? – chiese Philip leggermente allarmato. Si sporse in avanti, togliendo i piedi dalla scrivania.

 

-Sì.

 

La porta si aprì e John entrò con due vassoi carichi di cibo e bicchieri di caffè. Vedendo che era al telefono, si voltò per uscire ma Philip gli fece cenno di rimanere, non era una conversazione privata. John si accomodò sulla poltrona al di là della scrivania e attese in silenzio.

 

-Che cosa è successo?

 

-Credo che stia per cedere dottore. Forse dopotutto il dottor Kay è riuscito ad aprire una breccia, l’altro ieri.

 

-Non può essere più specifica?

 

-E’ tutto scritto nel rapporto, comunque tanto vale dirglielo adesso. Jeff stava facendo il giro di controllo quando ha sentito gridare, ed è corso a vedere. Dice che Benji stava parlando con qualcuno al di là del corridoio. Era furioso, batteva i pugni contro il vetro, ma nel corridoio non c’era nessuno. Quando lo ha visto, Jeff dice che all’inizio sembrava spaventato, probabilmente per essersi fatto sorprendere a comportarsi in modo strano.

Durante l’ultimo controllo, infatti, era tranquillo, quasi apatico, tanto che non ho avuto problemi a lasciare la porta aperta … dottore? Vuole che continui?

 

-Sì. Sì, la prego.

 

-Jeff dice che a un tratto è cambiato. Era lucido, probabilmente i farmaci devono aver esaurito il loro effetto nell’arco di tempo delle due visite, ma il fatto che Jeff non riesce a spiegarsi è che sembrava del tutto lucido ma allo stesso tempo sembrava come … allucinato. Si comportava da paranoico, ha cominciato a chiedere di Rachel. Jeff dice che era matematicamente certo che lei fosse lì.

Francamente non mi spiego nemmeno io come facesse a saperlo, fatto sta che ha iniziato a chiedere di lei. Era diventato molto irrequieto, addirittura aggressivo nei confronti di Jeff. L’ha preso a male parole, ma la sua ira è esplosa quando Jeff gli ha fatto capire che, se avesse iniziato a collaborare, avrebbe potuto anche vedere Rachel.

Philip si passò una mano sugli occhi e prese il caffè. John sorseggiava il suo, ascoltando attentamente.

 

-Poi che è successo?

 

-Ha preso a inveire contro di lui, urlando di voler uscire, di non essere pazzo. Jeff non ha atteso oltre e mi ha chiamato. Siamo entrati in quattro nella cella e ora le dirò ciò che ho visto.

Era furioso, sì, ma terrorizzato a morte; sembrava in sé ma allo stesso tempo si comportava come se fosse sotto l’effetto di droghe. E i suoi occhi … ho capito subito che qualcosa non andava quando l’ho guardato in faccia.

Sembrava non vedermi, o meglio, sembrava che al posto mio vedesse qualcun altro …

 

-Il misterioso Uomo Calvo probabilmente.

 

-Non lo so, ma ne era terrorizzato. Diceva che era nei guai per colpa nostra. Ho cercato di farlo parlare ma si è chiuso a riccio. Ha avuto un attimo di smarrimento, ci ha guardato come per assicurarsi che avessimo sentito o meno qualcosa anche noi, poi è successo di nuovo … ha chiesto di Rachel … ma era come se non stesse parlando con noi. Ne ho avuto conferma quando ha detto, testuali parole, “sta zitto, io non so nemmeno se sei reale”.

 

-Un’ altra allucinazione con quest’Uomo Calvo?

 

-Può essere dottore, ma è stata una cosa … non so davvero come descriverla, mi creda.

 

-Continui, la prego Doreen.

 

-L’ho afferrato per un braccio, l’ho chiamato, e quando sembrava che fosse tornato in sé, si è spaventato, mi ha gridato di non toccarlo e ha iniziato a strattonarmi perché lo lasciassi e -non riuscendoci- ha tentato di colpirmi più volte.

 

-C’è riuscito?

 

-Una volta sola e devo dire che ha un gancio destro davvero niente male. Avrebbe continuato fino a sfogare tutta la sua rabbia, se Jeff e gli infermieri non l’avessero fermato; ne ha perfino morsicato uno. Facevano fatica in tre a tenerlo; a questo punto è superfluo che le dica che ho dovuto ricorrere alle peggiori misure restrittive – lei sa a cosa mi riferisco. Mi spiace averlo fatto ma, in effetti, altro modo per calmarlo non c’era e temevo che si potesse fare del male … sa quel suo braccio ancora non è guarito del tutto.

 

-Non si preoccupi Doreen, ha fatto la cosa giusta. Sedativi?

 

-Torazina. Dose minima, è crollato quasi subito.

 

-Ha detto nient’altro?

 

-Ho tentato ancora di fare domande e fino all’ultimo ha cercato di resistere, ma credo che qualcosa sia cambiato.

 

-E cioè?

 

-Quando le farò leggere il rapporto, capirà. E’ come se avesse ammesso che qualcosa o qualcuno, non so, gli impedisse di parlare, minacciando ritorsioni contro di lui e Rachel.

 

-Interessante – commentò infine Philip – ora come sta?

 

-Dorme. E’ tornato tranquillo. La torazina l’ha proprio steso, non darà più problemi, almeno non stanotte. Mi spiace solo che il dottor Kay avrebbe voluto vederlo lucido, domattina, non intontito dai farmaci.

 

-Forse è meglio così Doreen. Kay ha già rischiato di farsi spaccare la testa una volta. E magari sarà più malleabile se non avrà il pieno controllo delle sue facoltà mentali. Ma sono anche da tenere in conto effetti collaterali; non sottovaluti la possibilità di un’altra reazione violenta. Dica a Kay di non farsi trovare impreparato, stavolta, e usare restrizioni se necessario.

 

-Non parlerà mai con noi, dottore, se andremo avanti a lungo così.

 

-Me ne rendo conto perfettamente, Doreen, ma nonostante vi avessi messo in guardia, per ben due volte vi siete quasi fatti sopraffare. Non posso permettere che ciò accada di nuovo, quindi trovate il sistema di impedirgli di usare le braccia per lanciarvi contro qualcosa. Fate in modo che si possa muovere abbastanza liberamente senza nuocere a nessuno, se stesso compreso. Crede di poterlo fare, Doreen?

 

-Credo di sì, dottor Price.

 

-Bene. Mi avvisi quando Kay sarà arrivato domattina. Forse ci siamo.

 

-Certo, dottore.

 

-E Rachel?

 

-Per quanto ne so tutto tranquillo. Ora devo lasciarla, c’è il cambio turno. Sarò da voi tra una mezz’oretta.

 

-Voi? – sorrise Philip.

 

-Dottor Price, se la conosco bene come credo, lì da lei ora c’è il dottor Reynolds.

E sulla sua scrivania, vassoi colmi di porcherie dei distributori automatici, dato che la mensa chiude alle otto. Per non parlare delle quantità barbare di caffè che state per trangugiare!

 

Philip rise – Touchè. Accidenti Doreen, lei mi conosce meglio di quanto potessi immaginare!

 

Doreen sorrise – A più tardi dottore. Ci vada piano con quel caffè.

 

Philip riattaccò il telefono.

 

-Novità? – chiese Reynolds impaziente.

 

-Puoi ben dirlo John, ora ti racconterò tutto. Passami un po’ di caffè.

 

 

 

 

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Sono tornata dopo il guaio al pc....vedrete delle differenze infatti, ma spero non infastidiscano....grazie Emy per le belle parole, sono contenta che la storia ti piaccia. Grazie anche ad Arte per la bella mail e alla mia "mamma Kellina". Un saluto alle mie affettuose lettrici e un arrivederci al prossimo capitolo, ***Lady Faith***

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Capitolo 19
*** Capitolo 19 ***


Capitolo 19

Il mattino seguente, Kay mise la testa nell’ufficio della caposala per avvisarla del suo arrivo. Era ansioso di mettersi al lavoro.

Sentendo bussare, Doreen alzò la testa.

 

-Vi stavo aspettando. Ha già parlato col dottor Price?

 

 

Doreen sbatté sul tavolo il fascicolo aggiornato – Tenga, è tutto suo. Ci ho lavorato sopra tutta la notte. Lo legga prima di incontrare il dottor Price, sono certa che lo troverà interessante.

 

Kay prese il fascicolo di Benji e iniziò a scorrerlo. Aggrottò la fronte, continuando a leggere avidamente. Quando riabbassò i fogli, si trovò di fronte il cipiglio severo della mastodontica caposala.

 

-Vuole dirmi qualcosa, per caso? – chiese un po’ a disagio.

 

-No dottore. Ciò che deve sapere è tutto scritto lì, credo … m’incuriosiva solo una cosa, se posso permettermi.

 

-Certo, dica pure Doreen.

 

-Dottor Kay, il fatto che lei sia entrato nel mio ufficio così entusiasta ed ottimista non può che farmi piacere, questo è ovvio … ma vorrei che non dimenticasse quello che è successo l’altro ieri.

 

 

-Doreen mi creda, ho imparato la lezione. Mi atterrò con scrupolo al regolamento.

 

-Bene, perché vede, non ho voglia di rincorrere un’altra volta uno dei miei pazienti per tutto l’ospedale a causa delle sue … terapie alternative!

 

Fece un gesto di diniego con la mano. Kay sorrise, richiudendo la cartella clinica.

 

-Già, è stata un po’ azzardata come idea, lo ammetto, ma se non ho letto male, pare che qualcosa abbia iniziato a smuoversi …

 

Doreen gli voltò le spalle per dirigersi alla macchinetta del caffè dietro la sua scrivania.

 

-E’ solo la punta dell’iceberg, non si faccia troppe illusioni, dottore. Benji è un paziente difficile, imprevedibile, instabile e non solo perché è il figlio del primario, ma proprio per una questione caratteriale.

 

Si voltò di nuovo verso Kay, porgendogli un bicchiere di caffè fumante.

 

-Lei stesso lo ha constatato di persona, del resto …

 

-Già – ammise Kay sorseggiando il caffè – comunque non voglio che si preoccupi, Doreen.

 

Lei sorrise, un po’ sarcastica. Il telefono squillò.

 

-Lei non me ne dia più occasione allora, ed io smetterò di preoccuparmi. Ora mi scusi, devo rispondere.

 

Kay fece un cenno affermativo e uscì dall’ufficio della caposala. Voleva vedere Philip prima che questi entrasse in sala operatoria.

Lo trovò nel suo ufficio, che prendeva del caffè.

 

-Ne vuoi? – gli chiese non appena lo vide.

 

-Grazie, ci ha già pensato Doreen.

 

-Vieni accomodati, hai preso il fascicolo?

 

-Si, eccolo. Doreen mi ha appena fatto una bella ramanzina; era preoccupata che potesse accadere ancora qualcosa. Mi sono sentito un po’ indifeso in effetti …

 

Philip sorrise comprensivo – Immagino. Senti, daresti un’occhiata anche a Rachel? Magari ora è disposta a collaborare. Io ti raggiungerò più tardi, tra mezz’ora devo essere in sala operatoria. Se vuoi, dirò a Greenway di accompagnarti.

 

-Sì d’accordo, ma permettimi di dirti che se non inizieremo ad assecondare qualche loro richiesta, i gemelli non collaboreranno mai.

 

-Lo so – ammise Philip – è una situazione estremamente delicata ma per il momento dobbiamo agire con cautela – indicò la fronte di Kay dove spiccava un cerotto bianco – hai visto tu stesso cosa potrebbe succedere ad essere troppo permissivi.

 

Kay annuì d’accordo con Philip – Starò attento stavolta. E’ probabile che Benji sia di malumore e alquanto nervoso, devo convincerlo a fidarsi di me.

 

-Impresa ardua, caro collega. Benji non si fida di nessuno, specialmente ora, nello stato confusionale in cui si trova. Vede nemici tutto intorno a sé; teme che ci sia un complotto contro di lui e di Rachel ed è convinto che io ne faccia parte. Mi odia a morte dal giorno del suo ricovero e non mi perdonerà mai per averlo portato in ospedale.

 

-Non devi abbatterti, Philip, hai fatto la cosa giusta, anche perché non avevi altra scelta. Prometto che farò del mio meglio per aiutare i gemelli.

 

Philip gli diede un’amichevole pacca sulle spalle – Grazie Jason, davvero.

 

-Non dirlo neanche. E’ un onore per me lavorare nel tuo ospedale.

 

Bussarono alla porta.

 

-Avanti – disse Philip.

 

Era John Reynolds – Sei pronto? – s’informò – ci stanno aspettando.

 

-Sì eccomi, arrivo.

 

I tre medici uscirono insieme dall’ufficio, poi si accomiatarono.

 

-Verrò a dare un’occhiata non appena avrò finito qui.

 

-Bene, cercherò di rendermi utile Phil.

 

Philip sorrise e gli fece un cenno affermativo col capo, poi si allontanò lungo il corridoio affiancato da Reynolds, entrambi diretti al blocco operatorio. Kay invece tornò indietro verso gli ascensori e risalì al nono piano, al reparto di Doreen.

Decise di prendersi un po’ di tempo prima di affrontare Benji e, con un’altra tazza di caffè fumante, si mise a studiare il fascicolo minuziosamente aggiornato da Doreen.

 

 

 

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Capitolo 20
*** Capitolo 20 ***


Capitolo 20

Intanto Jeff era andato a controllare Benji. Dormiva ancora. Doreen aveva lasciato ordini precisi che lui si apprestava ad eseguire prima dell’arrivo del dottor Kay. Lentamente, cercando di non svegliarlo, si avvicinò al letto, ascoltando il respiro lento e regolare. La torazina l’aveva messo proprio KO.

Jeff fece quello che doveva, svelto ed efficiente come al solito. Anni di lavoro con pazienti difficili l’avevano reso abile e veloce.
Senza esitare, prima che il paziente si svegliasse, Jeff gli legò i polsi, avvolgendoli in due bracciali di cuoio imbottiti, quelli che in gergo gli infermieri chiamavano manette o polsiere. Stava regolando l’ultima fibbia quando Benji si mosse nel sonno, borbottando qualcosa.

-Io non so niente … non ho fatto niente … - si girò su un fianco. Jeff lo lasciò fare, e quando smise di muoversi, gli prese il polso per controllare se aveva allacciato bene anche la seconda fibbia.
Ad un tratto Benji sussultò e si agitò nel sonno. Jeff pensò che ormai stesse per svegliarsi, così lo tranquillizzò dicendo:- Ssth, sta buono, non è niente, solo un sogno. Lui si mosse ancora ma non si svegliò.

Probabilmente sta sognando pensò Jeff e dopo un’ultima controllata lo lasciò solo, uscendo dalla stanza in attesa del dottor Kay.






Benji aprì gli occhi lentamente, sbattendoli diverse volte prima di riuscire a mettere bene a fuoco. Si sentiva lento, intorpidito e confuso, tant’è che per un attimo non seppe nemmeno più dove si trovava.
Poi, guardandosi intorno, riconobbe un po’ alla volta l’ambiente che lo circondava. Le pareti azzurre, la finestra con la griglia di sicurezza, la vetrata rinforzata che dava sul corridoio, la porta chiusa … nient’altro … se non la sua prigione azzurra, il suo incubo, la sua croce, che racchiudeva su di lui tutte le sue angosce più nere, le sue paure, i suoi incubi, popolati da una sinistra identità alla quale non sapeva ancora dare un nome, o forse temeva di scoprire che questa persona era reale, così come sembravano esserlo le sue continue minacce e allusioni, e come certamente erano reali i dolori lancinanti alla testa e i suoi incubi angosciosi.

Rimase così per un po’, sdraiato su un fianco, ad osservare la sua stanza, lasciando vagare i suoi pensieri, dandosi il tempo di riacquistare un po’ di lucidità, allontanando da sé quella sensazione di confusione e oblio che spesso gli procuravano i farmaci.
I risvegli erano sempre duri e faticosi dopo la somministrazione di medicine, ma un po’ alla volta gli tornarono in mente gli avvenimenti della sera prima.

Aveva dato in escandescenze di fronte a Jeff e Doreen dopo che uno strano bambino gli aveva portato un messaggio di Rachel; la terribile notizia che suo padre ormai sapeva tutto dell’Uomo Calvo, la richiesta – non soddisfatta – di poter vedere la sorella e infine la voce di Calvo, che gli parlava mentre di fronte a lui c’erano Doreen, il suo sorvegliante e i due ausiliari.
Si ricordava ogni cosa, purtroppo, anche com’era finita la sua sfuriata. Era ovvio che lo credessero pazzo dopo un comportamento del genere. Era stato spiazzato dalla voce che gli aveva parlato con altre persone presenti, cosa che non era mai successa prima d’ora.

Decise comunque di non arrendersi. Loro non avrebbero potuto capire.

Si tirò su, mettendosi a sedere sul letto, ancora un po’ assonnato e disorientato.
Alzò una mano per fregarsi gli occhi ma qualcosa glielo impedì.
A metà strada, la sua mano si bloccò. Abbassò la testa per cercare di capirne il motivo e scoprì di avere i polsi legati, avvolti in due bracciali di cuoio imbottiti. Turbato dalla scoperta, la prima reazione fu quella di liberarsi ma si rese subito conto che non era una cosa tanto facile. Sempre più atterrito Benji strattonò i suoi legami saggiandone la resistenza. Cercò di ruotare i polsi per sfilarli fuori dai bracciali, morse le fibbie cercando di aprirle con i denti ma tutto ciò che ottenne fu di tagliarsi un labbro nel tentativo. Sentì il sapore dolciastro del sangue in bocca. Fu assalito da un attacco di panico e rabbia, non riusciva a liberarsi. Ansimava per gli sforzi fatti inutilmente. Scese dal letto e si scagliò verso la porta.

-Ehi! – urlò – Liberatemi, non ho fatto niente!

Batté i pugni sul vetro, sulla porta ma nessuno accorse. Fece ancora qualche tentativo per liberarsi ma vedendo che era tutto inutile si arrese, accasciandosi contro il muro, la fronte appoggiata alle ginocchia.

Si sentiva vulnerabile in quel momento e ciò lo terrorizzava; significava che loro stavano avendo la meglio su di lui, lo stavano piegando alla loro volontà, piano, senza fretta ma con metodo. Loro volevano ottenere qualcosa da lui e l’avrebbero avuto ad ogni costo.

In quel momento di debolezza Benji si rese conto che era possibile. Non sarebbe stato oggi, forse, non domani ma alla fine l’avrebbero avuto. Suo padre e tutto il suo staff non erano certo degli stupidi!

Prese a dondolarsi avanti e indietro, pensando a come tirarsi fuori da quella dannata situazione.

-No no no, non posso permetterglielo! – si ripeteva, ma non riusciva ad essere determinato come al solito - Forse è colpa delle loro droghe del cavolo! – gli venne in mente.

Probabilmente era così ma c’era dell’altro e lo sapeva. Era una situazione terribile, sfibrante e lui era stanco. Anche loro lo sapevano e ne stavano approfittando, traendone vantaggio.

All’improvviso, una fitta dolorosa alla testa, poi una voce – quella voce – lo riportarono indietro dal baratro. Alzò la testa di scatto, sussultando per lo spavento. Si portò le mani alle tempie con un gemito di dolore. I suoi legami si tesero con un tintinnio metallico, assecondando il brusco movimento.

-No. Non tu. Non adesso!

Sì. Io invece! – tuonò la voce di Calvo – proprio io. Che cosa diamine ti sta succedendo, eh? Vuoi mollare? Ti hanno fatto il lavaggio del cervello forse?

Benji fece un verso – Tu non puoi capire. Me lo faranno davvero se andiamo avanti così!

Una fitta fortissima lo fece gemere di nuovo.

Sta attento a come parli con me. Io ti conosco benissimo, tesoro, e se c’è qualcuno che capisce ogni cosa … beh, quello sono io!

Dal tono sibilante della voce Benji comprese che era in collera. Era molto spaventato. Da quando quella voce si metteva a fare le morali? Era tutto così assurdo!

-Lasciami in pace! Non ho mai detto di volermi arrendere e le tue intromissioni di certo non mi aiutano. Per colpa tua loro mi credono pazzo!

Benji si stava arrabbiando. Sentiva la collera crescergli dentro. Se mai c’era stato un attimo di sbandamento, causato probabilmente dai farmaci, ora era di nuovo se stesso, sempre più determinato a dar battaglia. Gli dava fastidio però dover ammettere che proprio grazie a quella voce si era accorto del suo cedimento.

Era per colpa di Calvo che era finito in ospedale ed ora proprio Calvo lo stava aiutando a superare una crisi. Pazzesco!

Una perfida risata lo riportò alla realtà.

Allora ti servono le mie intromissioni ogni tanto. Giusto per ricordarti chi è che comanda!

-Sta zitto ora basta! Io non mi faccio comandare da nessuno, tantomeno da te!

Un’altra fitta alla testa gli strappò un lamento doloroso.

Non farmi arrabbiare ragazzo ti potrei fare molto male, lo sai - La morsa dolorosa alla testa aumentò – Se sei in questa situazione è solo colpa tua e del tuo carattere indomito, io non c’entro ma sai bene a cosa andrai incontro se mi tradisci. Non vuoi che tua sorella ci vada di mezzo, vero?

Benji non riusciva a parlare. Il dolore lancinante era oltre i livelli di sopportazione.

-Ah! Basta ti prego … la mia testa … Rachel … lei non c’entra, lasciala fuori … da questa storia!

Vuoi che la smetta? Vuoi che il dolore finisca? Allora impara a tenere a freno la lingua, con me e andremo d’accordo … Devo sempre minacciarti per ottenere qualcosa, vero? Ma vedrai che prima o poi capirai …

Il dolore si stava piano piano placando ma Benji era atterrito più che mai; era spaventato a morte dalla sofferenza fisica e mentale che gli procurava quella voce misteriosa, ma era anche furioso allo stesso tempo perché si trovava costretto a sottomettersi al suo volere e questo andava contro i suoi principi.

Gocce di sudore gli imperlavano la fronte. Ansimava e gemeva per il tremendo mal di testa che gli aveva causato Calvo. Udì nuovamente la sua risata e sussultò spaventato.

Mi piace il tuo temperamento focoso, combattivo, il tuo carattere ribelle, il tuo orgoglio, Benji, ma non devi usarli con me o ti farò provare terribili dolori … Da te voglio l’obbedienza più assoluta … anche da Rachel, ma soprattutto da te. Non mi importa poi se fai di testa tua con tutti questi medici, io otterrò da te più di quanto loro avranno mai! Ti basti sapere questo.

Quando la voce finalmente si zittì, si sentì svuotato. Ripensare a Rachel e alla sua prigionia era devastante. Voleva vederla, parlarle, voleva tornare libero.

Riprese a dondolare avanti e indietro, mormorando: - Voglio uscire da qui, voglio tornare a casa, devo trovare un modo!

Un moto di rabbia e rancore s’impadronì di lui. Era confuso; tutti quegli sbalzi d’umore lo rendevano insicuro e diffidente.
I contatti con l’uomo Calvo poi contribuivano alla sua instabilità emotiva.
La sua ira si concentrò nuovamente sui suoi legami. Li strattonava nell’inutile tentativo di liberarsi. Si alzò in piedi furioso, urlando, divincolandosi.

-Liberatemi! Hey, avete sentito? Voglio uscire da qui!

L’improvviso rumore del meccanismo che apriva la porta lo spaventò. Tornò a raggomitolarsi nel suo angolino, tremando, in attesa del peggio. Ora lo avrebbero punito. Si era comportato di nuovo male, ed ora loro lo avrebbero curato per farlo tornare in sé, immobilizzandolo al letto e infilandogli quei dannati aghi nel braccio. Non voleva.
Ricominciò a dondolarsi avanti e indietro, in un delirio di pensieri spaventosi.

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Capitolo 21
*** Capitolo 21 ***


Capitolo 21

Il dottor Kay lo trovò così quando entrò nella stanza. Dietro di lui c’erano Jeff il sorvegliante e una giovane infermiera che portava un vassoio metallico, sul quale – con ogni probabilità – c’erano aghi e siringhe.

Rimasero un po’ indietro per non spaventarlo, mentre il giovane psichiatra avanzò di qualche passo verso Benji. Passò la cartella clinica a Jeff e si chinò di fronte al piccolo paziente, chiamandolo per nome. Notò subito quanto fosse sconvolto; tremava visibilmente. Inoltre il modo in cui si dondolava e quel suo estraniarsi da loro lo preoccupò non poco. Non sembrava nemmeno lo stesso bambino orgoglioso e testardo che aveva conosciuto.
Un pensiero si insinuò con insistenza ma il medico lo scacciò prontamente.

No, non può essere – pensò, tuttavia aveva davanti a sé elementi più che sufficienti per formulare quell’ipotesi.

-Benji? – chiamò di nuovo ad alta voce.

Questa volta lui sembrò udirlo. Si voltò verso Kay e lo guardò negli occhi; un terrore sconfinato, ma anche sospetto e indecisione trasparirono da quello sguardo. Sembrava più vulnerabile della volta scorsa, quando gli aveva lanciato contro il suo fermacarte di vetro. Kay decise di approfittarne.

-Allora, come ti senti oggi?

Per tutta la risposta Benji voltò la testa dall’altra parte, appoggiandola al muro.

Una barriera di omertà e reticenza – Kay annuì lievemente – abbastanza logico.

-Ascolta Benji so che sei spaventato e confuso e in questo momento non ti fidi di nessuno, posso capirti, ma qui sei al sicuro, tutti vogliono solo aiutarti, nessuno vuole farti del male. E per quanto riguarda l’altro giorno, io non sono arrabbiato con te. Mi senti? Capisci quello che ti sto dicendo?

Benji chiuse gli occhi, emettendo un profondo sospiro. Il terribile dolore alla testa non c’era più e nemmeno la voce; restava solo l’intorpidimento dei farmaci. Riaprì gli occhi e si voltò verso il dottor Kay, guardandolo dritto in faccia. Per un interminabile secondo i due si fissarono poi Benji accennò un sorriso sarcastico.

-Ho capito dottore – esclamò – Ah, se ho capito!

Il suo sguardo si spostò brevemente su Jeff e la giovane ausiliaria rimasti indietro. Un’occhiata fugace che registrò la loro presenza, poi tornò a concentrarsi sullo psichiatra.

-Lei è la sua spia, lavora per lui!

Kay aggrottò le sopracciglia, sorpreso da quell’affermazione.

-Non ti seguo Benji.

-Lei si fida di me dottore?

La domanda arrivò tanto diretta, quanto inaspettata – Certo che mi fido di te.

Benji si alzò in piedi all’improvviso, cogliendo tutti di sorpresa. Jeff si mosse verso di loro, ma ad un gesto dello psichiatra si fermò; Kay non voleva che interferisse.

-Non è vero! – gridò – e’ una dannata bugia!

Kay, rimettendosi lentamente in piedi, parlò con voce calma e pacata – Va tutto bene, Benji, non ci sono menzogne, è tutto a posto, io mi fido di te, okay?

Benji scosse il capo, per niente convinto – Lei è un bugiardo, dottore, come può venire qua a parlarmi di fiducia quando è lei il primo a non averne?! Come fa a dire di fidarsi di me se pensa che sia pazzo? – urlò visibilmente sconvolto.

Era combattuto da sentimenti contrastanti, paura, odio, terrore, insicurezza, rabbia, un tumulto di emozioni che si alternavano dentro la sua mente confusa.

-Ti sbagli Benji io sono dalla tua parte, voglio aiutarti, fatti aiutare da me, vuoi?

-Me lo dimostri!

-Okay, Benji io mi fido di te, cosa vuoi che faccia per dimostrartelo?

Con un cenno del capo, Benji indicò Jeff e l’infermiera – Li faccia andare via. Lo guardava dritto negli occhi, sfidandolo.

Kay sapeva che poteva essere un potenziale pericolo ma voleva andare in fondo a quella faccenda -Va bene. Si rivolse a Jeff – Per favore lasciateci soli un attimo.

Jeff protestò – Dottore non credo sia una buona idea.

-Fate come vi ho detto – insisté lo psichiatra – aspettatemi fuori.

Attesero in silenzio che il sorvegliante e l’ausiliaria uscissero dalla stanza, poi Kay allargando le braccia sorrise apertamente.

-Visto? Questo dimostra che io mi fido. Te la senti ora di parlare un po’ con me?

Benji scosse la testa – No, non basta.

-Che cosa vuoi dire?

Invece di rispondergli Benji tese verso di lui i polsi legati.

Sei scaltro ragazzo! – pensò Kay. Sapeva di dover stare molto attento a ciò che diceva o faceva, aveva già sentito diversi campanelli d’allarme.

Fu il suo turno di scuotere la testa – No Benji, temo che dovrai accettarlo – la sua voce era ferma e autoritaria, ora – Io ho fatto qualcosa per te, ora tu fai qualcosa per me.

Kay si accorse che la sicurezza di Benji sembrò vacillare per un attimo. Paura e ansia sembravano scontrarsi con la sua rabbia e disperazione. Quando parlò la sua voce non era del tutto ferma.

-Andiamo, dottore, cosa crede che possa mai farle?! Si è guardato intorno? Non c’è nulla qui!

-Lo so Benji e - credimi - mi dispiace ma purtroppo non posso dimenticare la tua aggressione di due giorni fa – indicò il cerotto che spiccava sulla sua fronte – mi hanno dato dei punti qui dove tu mi hai lanciato contro il mio fermacarte di vetro. Capisci dunque il perché ho dovuto prendere delle precauzioni?

Benji fece un gesto di stizza. Sentiva nuovamente l’odio crescergli dentro.

-Sono stato provocato – insinuò – lei si è preso gioco di me. Era … così sicuro di sé e maledettamente arrogante! Avrebbe dato sui nervi a chiunque.

-Mi dispiace che tu dica questo, Benji, io non voglio prendermi gioco di te, credimi, io voglio soltanto aiutarti.

-Aiutarmi … – ripeté Benji iniziando a camminare intorno al medico, in piedi al centro della stanza – Aiutarmi. Tutti qui ripetono di volermi aiutare.

Parlava a bassa voce, quasi ringhiando. Kay sapeva che stava per esplodere; seguiva con attenzione le reazioni del piccolo paziente, cercando di carpirne tutte le complesse sfaccettature caratteriali.
Benji strattonò con rabbia i suoi legami. Il giovane psichiatra amico di suo padre lo stava sfidando di nuovo. Non ce la faceva più a sopportarlo.

All’improvviso urlò: - AIUTARMI A FARE CHE COSA?!

Molto lentamente, Kay gli si avvicinò ma il ragazzo indietreggiò sospettoso, poco propenso a fidarsi di lui. Quando rispose il suo tono era calmo, conciliante, molto professionale.

-Voglio aiutarti a guarire Benji.

-No. Non è vero. Lei vuole solo fare bella figura con mio padre e con tutti quelli che, prima di lei, hanno fallito!

Lo psichiatra sorrise a quell’affermazione –Sta a sentire Benji, io e tuo padre siamo indubbiamente ottimi amici, ma l’amicizia che ci lega e la nostra professione sono due cose distinte. Cosa ti fa credere che se io oggi andassi da lui e gli dicessi “Philip non voglio più curare tuo figlio” lui non mi farebbe sostituire? Con tutto lo staff medico di cui dispone? No, Benji, ti sbagli io non voglio fare bella figura con nessuno. Io voglio solo fare bene il mio lavoro e il mio lavoro consiste nel guarire le persone.

Benji voltò la testa, guardando verso la porta. Se solo fosse potuto uscire, distrarsi un po’ … Chiuse gli occhi, rassegnato, tornando a concentrarsi sul dottor Kay.

-Così lei vuole aiutarmi a guarire, eh?

-Sì Benji è quello che intendo fare.

Lui sorrise sarcastico poi di colpo il suo sorriso si tramutò in una smorfia rabbiosa.

-Ma io non sono malato –sibilò tagliente – io non sono malato, dottore – ripeté alzando la voce.

-Vedi Benji, esistono diversi tipi di malattie. Non tutte sono necessariamente fisiche; alcune non riguardano solo il corpo ma anche la mente, la psiche di una persona, ad esempio, può essere malata …

-Io non sono pazzo o malato di mente, se è questo che sta cercando di dirmi!!  

-Chi può dire con certezza se qualcuno è sano di mente o no? Nella pazzia può esserci un fondo di verità o causa scatenante di un problema, come nella normalità può esistere un po’ di follia, è un territorio molto vasto come vedi, bisogna andarci cauti.

Benji aggrottò la fronte, pensieroso. Non capiva dove Kay voleva andare a parare.

-Tu sei disturbato, Benji; il mio compito consiste nell’individuare questo tuo disturbo e rimuoverlo.

Un pesante silenzio cadde tra i due non appena lo psichiatra ebbe pronunciato queste parole.
Kay si appoggiò alla sponda del letto incrociando le braccia, assumendo nuovamente quel fare arrogante e sicuro di sé che Benji detestava. Si sentiva turbato; le parole di Kay lo avevano colpito duramente come se fosse stato schiaffeggiato con forza.

-Io sono disturbato

Rimuginava su quella frase, come per convincersi di averla udita veramente.
Kay lo osservava immobile, scrutandone le reazioni.

-Ti da fastidio che io abbia detto questa cosa?

Senza rispondergli, Benji si era avvicinato alla finestra e stava guardando fuori attraverso la griglia di sicurezza; il parco verdeggiante che si estendeva a perdita d’occhio sul retro della struttura ospedaliera era nel pieno del suo splendore. Sarebbe stato magnifico poter passare un po’ di tempo là fuori … chiuse gli occhi ed emise un profondo sospiro rassegnato.   

-Allora? – Kay aspettava una risposta.

Benji lo guardò:- Sinceramente non m’importa quello che lei pensa o meno. Tanto cosa cambia? Io sono il paziente malato e lei il dottore; quello che ha ragione è sempre lei, i pazzi non contano.

-Ne sei davvero convinto?  

Kay non si era mosso. Appoggiato al letto di Benji, le mani incrociate, aveva parlato continuando ad osservarlo.

-Assolutamente si – fu la risposta di Benji. Non esattamente quella che il dottore si aspettava ma era sicuro di ciò che stava facendo e sarebbe andato fino in fondo.

-Lasciati aiutare da me, Benji. Ti dimostrerò che le cose andranno a posto.

Benji fissava il pavimento:- Non è così semplice – rispose. Aveva una gran voglia di dirgli la verità; all’improvviso gli era anche sembrata la cosa più giusta da fare, per fortuna si era accorto quasi subito della sua debolezza. Kay era davvero in gamba, gli dispiaceva ammetterlo ma era così. Una volta tanto aveva sbagliato a giudicare.

-Perché no Benji? – stava chiedendo Kay – perché non può essere semplice? Sarà semplice solo se sarai tu a volerlo … tu vuoi che sia così, vero? Lascia che io ti aiuti.

Le parole suadenti dello psichiatra divennero una cantilena nella sua testa. Come un’eco, si ripetevano all’infinito e sempre più velocemente.

Lascia che ti aiuti … E’ semplice … Devi essere tu a volerlo … Io voglio aiutarti

All’improvviso Benji si tappò le orecchie con le mani, scuotendo violentemente la testa.

-Basta! – esclamò – la smetta, lei non può capire!

Era tornato di nuovo in quello stato di agitazione febbrile in cui lo aveva trovato entrando nella stanza. Kay sentiva di essere arrivato a tanto così dalla meta. Poi all’ultimo momento Benji aveva fatto marcia indietro. Perché? Questa era la cosa che maggiormente lo torturava. Non riusciva a capire perché preferiva soffrire piuttosto che ammettere una cosa che ormai sapevano tutti.
Si allontanò dal letto dirigendosi verso la finestra, voltando le spalle al suo paziente. Si soffermò a lungo a guardare il panorama sottostante, le mani dietro la schiena. Per un bel momento non disse nulla, preso com’era a riflettere.
Benji non se ne preoccupò. Tornò a raggomitolarsi in un angolo della stanza, con la schiena contro il muro, le ginocchia piegate. Cercava ancora di liberare i polsi da quelle strane manette. Cominciò nuovamente a dondolarsi avanti e indietro. Un alternarsi di pensieri confusi e senza senso presero ad affollargli la mente.
Benji si lasciò cadere in quell’oblio senza opporre resistenza, troppo stanco di lottare, di rimanere vigile, di ricordare la situazione di estrema sofferenza che stava vivendo. Era più facile abbandonarsi a quella meravigliosa sensazione di estasi, di pace, lasciarsi cullare in quella dolce inconsapevolezza …

-Benji!

Quella parola secca, simile a uno sparo lo riportò indietro alla realtà. Sussultando e gemendo tornò in sé spalancando gli occhi. Il dottor Kay era chino su di lui e lo stava scuotendo per le spalle, dandogli dei colpetti sulla guancia, chiamandolo per nome.

-Benji? Riesci a sentirmi? Hey, mi senti?

Spaventato e di nuovo cosciente tentò di allontanare Kay da sé, spingendolo via e scalciando, tentando di rimettersi in piedi, ma lo psichiatra afferrò i suoi legami e gli tenne ferme le braccia.

-Mi lasci! Stia lontano da me! – urlava.

Kay era preparato stavolta. Sapeva che la crisi era proprio dietro l’angolo; non aveva fatto altro che scatenarla. Tenendolo fermo con una mano, con l’altra frugò nella tasca del camice, estraendone una piccola siringa.
Benji non si accorse di nulla, continuando a urlare e agitarsi, nel tentativo di respingere il dottore e rimettersi in piedi.

-Stai calmo, non ti agitare, vedrai che ora andrà meglio – gli disse il medico e gli affondò il minuscolo ago nella coscia.

Benji s’irrigidì all’istante, risucchiando l’aria in un sibilo. Kay lo sollevò da terra e lo adagiò sul letto.

-Calmo, va tutto bene – gli ripeteva.

Benji tremava come se avesse la febbre. Le immagini divennero sfuocate e contorte, la stanza sembrò galleggiargli intorno con le pareti che si muovevano, gonfiandosi e ritirandosi intorno a lui come se minacciassero di inghiottirlo. Spaventato, si rannicchiò sul letto, chiudendo gli occhi. Non cercò nemmeno di mettersi in piedi; se l’avesse fatto, probabilmente, sarebbe caduto a terra.  

-Che cosa mi sta succedendo? – gemette impaurito, la voce impastata e lenta – qui è diventato tutto strano! Si portò le mani alle tempie, quasi aspettandosi le temute e ben note fitte dolorose. I legami tintinnarono senza ostacolare troppo il movimento.
Kay si sedette sul letto a fianco a lui, come un padre che rassicura il figlio che ha appena avuto un incubo. Gli mise una mano sulla spalla. Quel contatto fece sussultare Benji, ma non si mosse e non si voltò verso Kay; rimase rannicchiato sul letto con gli occhi serrati.

-Va tutto bene Benji è solo la medicina. Non c’è niente di strano, è un effetto normale; ti sentirai un po’ stordito, le pareti ti parranno di gomma e ti sembrerà di parlare biascicando le parole.

Benji gemette senza guardarlo:- Perché mi ha fatto questo? Io non ho aggredito nessuno … stavolta.

-E’ un calmante, Benji, così potremo parlare tranquilli senza perdere le staffe.

-Parlare … parlare … - lamentò Benji – Se io parlo con voi, lui mi uccide … farà del male a … Rachel …

-Chi è questa persona, sai descrivermela?

Silenzio da parte di Benji. Kay si alzò dal letto, passeggiando per la stanza mentre prendeva numerosi appunti. Fargli quell’iniezione non era stato molto leale da parte sua ma non credeva di avere avuto molta scelta. Benji non avrebbe mai parlato, anche se Kay avrebbe preferito una confessione spontanea, ma era pur sempre un inizio. Non voleva che Doreen arrivasse a proporgli di fare l’elettroshock. Sarebbe stato devastante.  
La sua teoria e i suoi sospetti si rivelarono fondati. Avrebbe dato loro qualcosa di certo su cui poter lavorare.

-Dimmi Benji, sai chi è questa persona?

-No …

-Avanti, Benji, tu sai chi è.

Kay non aveva fretta. Sapeva che il cocktail di farmaci gli avrebbe sciolto la lingua; aveva usato un dosaggio diverso al quale stava lavorando con la sua equipe, così non avrebbe corso il rischio che si addormentasse subito.

Benji si agitò sul letto, gemendo e sussultando.

-Non agitarti, va tutto bene. L’effetto della medicina passerà presto – la voce di Kay era rassicurante – non cercare di contrastarla, ti farà stare peggio, assecondala. E ora dimmi, ti ricordi chi è questa persona?

-Lui … lui … ehm … lavora in quella … scuola. Quella … quella non è … una … scuola. Io lo so …

-Intendi il Saint Peter’s College, Benji? E’ quella la scuola?

-Lui e … quel posto … hanno qualcosa … in comune … ma lui non … lui non è reale.

-Descrivimelo.

-Alto. Molto forte … calvo … - Benji si bloccò terrorizzato per qualche secondo. Kay lo osservò. Era evidente che questa figura lo spaventava a morte.

-Chi è, Benji? Avanti, dimmelo.

-Non lo so … è un’allucinazione!

Quell’affermazione di Benji lo sorprese.

-Come si chiama, lo ricordi? Ricordi chi è quest’uomo?

-No … non ho mai saputo il … suo nome.

Il dottor Kay sembrò soddisfatto. Di due cose: il dosaggio del farmaco sperimentale aveva agito come un ipnotico, cosa su cui stava lavorando da qualche tempo senza risultati apprezzabili. Questa era la prima cosa. La seconda era che, finalmente, era riuscito a estorcere a Benji quel segreto che si portava dentro, o almeno una parte di esso. Non poteva ancora dire con certezza quanto di quello che il ragazzo aveva detto fosse vero o meno, ma almeno aveva qualche elemento nuovo su cui lavorare. Inoltre, essendo riuscito a farlo collaborare almeno in parte, avrebbe potuto fargli ottenere come ricompensa di uscire un po’ da quella stanza. Uscire all’aperto l’avrebbe scosso dall’apatia alla quale stava andando incontro. E lui avrebbe potuto elaborare una terapia efficace. Non vedeva l’ora di dirlo a Philip.
Terminò i suoi appunti e si avvicinò al letto. Benji non si era mosso, era ancora raggomitolato con le mani premute sulle tempie. Kay gli abbassò delicatamente le braccia, e gli chiese premuroso:- Ti fa male la testa?

Benji sussultò e cercò di mettere di nuovo le mani sulle tempie ma Kay glielo impedì.

-Ti fa male la testa Benji?

-Si – rispose infine.

-Va tutto bene – lo rassicurò il dottore – ora, però voglio che ti riposi un po’, ti sei stancato parecchio oggi, anche se devo dire che ti sei comportato molto bene.

Mentre parlava, il dottore gli aveva preso i polsi per liberarli dai legami ma il ragazzo ancora sconvolto, trasalì a quel contatto.

-Buono ora, ti ho slegato. Domani continueremo la nostra terapia e se sarai bravo come oggi, darò disposizioni per lasciarti uscire un po’, che te ne pare?

-Uscire … - disse Benji quasi non osando pronunciare quella parola.

-Tutto dipende da te. Adesso però hai bisogno di riposo, sei stato molto sotto pressione ultimamente. Tornerò più tardi dopo che ti sarai svegliato.

Gli fece una leggera carezza sulla testa e uscì dalla cella di contenzione. Si soffermò a osservarlo per un attimo, pensieroso, rimuginando. Poi, datogli un ultimo sguardo dal vetro, si allontanò lungo il corridoio.
Voleva raggiungere il suo ufficio per aggiornare il dossier prima di farlo vedere a Philip. Era ormai più che convinto che la sua intuizione sui gemelli fosse esatta, tuttavia era ancora indeciso se parlarne subito con gli altri dottori per diverse ragioni: l’età dei soggetti tanto per cominciare, relativamente troppo giovani; l’esattezza della sua diagnosi, data in così breve tempo secondo vari criteri medici ed etici, e soprattutto la sua credibilità come medico. Non bastava essere il migliore amico del primario per avere ragione. Doveva dimostrarlo e lo sapeva. Sorrise, sicuro di sé e accelerò l’andatura, certo di avere in mano qualcosa di importante.


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Grazie come sempre a voi, miei fedeli lettori. Aprire EFP e trovare le vostre belle recensioni mi provoca una gioia immensa. Mi scuso se non sempre riesco ad essere veloce negli aggiornamenti ma oltre ai danni al pc si mette pure la salute a volte.... Ma niente paura che sono sempre qui ad assillarvi con i miei scritti!! Ringrazio tutti coloro che leggono anche senza recensire, ma un saluto particolare va a voi che esprimete capitolo dopo capitolo i vostri pensieri e opinioni, per me fondamentali. Il mio grande Maestro una volta scrisse: "Scrivere è un'occupazione solitaria ma avere qualcuno che crede in te fa una grande differenza". Voi siete la mia "differenza". Siete quello che mi fa sentire importante e per ciò vi ringrazio. Continuare questa lunga avventura insieme sarà per me davvero intrigante. Spero non venga meno la voglia di leggermi. Un affettuoso saluto dalla vostra ***LadyFaith***

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Capitolo 22
*** Capitolo 22 ***


Capitolo 22

A metà corridoio s’imbatté in Jeff.

-Tutto okay dottore? – gli chiese questi un po’ preoccupato.

-Si Jeff, credo di sì. A proposito, non volevo essere brusco prima, ma certe situazioni sono un po’ delicate e …

-Ma certo dottore, non si deve giustificare con me, è solo che … dopo quell’aggressione non me la sentivo di lasciarvi di nuovo soli.

-Grazie Jeff, lo apprezzo. Ah, tenga questi cosi, non serviranno per oggi.

L’infermiere prese le manette di cuoio che il dottore gli porgeva.

-E’ ancora sotto sedativi? – chiese.

-Già – rispose Kay – ci sarà da lavorarci su parecchio, temo.

Jeff annuì in silenzio.

-Controlli stretti oggi, mi raccomando – proseguì lo psichiatra – ogni mezz’ora, quindici minuti se nota qualcosa di strano. Sono riuscito ad estorcergli una mezza confessione prima, quindi è probabile che si possa sentire in colpa e di conseguenza la frustrazione può portarlo a sentirsi o arrabbiato o depresso. In entrambi i casi voglio essere avvertito subito. E fatelo mangiare; so che spesso rifiuta il cibo; questo non va bene perché è molto debilitato e sia la reclusione sia i farmaci di certo non aiutano. Se dovesse rifiutarsi ancora di mangiare sarò costretto a farlo mettere in alimentazione forzata.

Jeff annuì di nuovo:- E’ tutto chiaro dottor Kay.

-Bene - annuì il giovane psichiatra – ora vado ad aggiornare i dati; dica a Doreen che ho io la cartella clinica, più tardi ci troveremo in sala riunioni. Convocherò anche il dottor Price, dovremo discutere di alcune cosette.

-Si direbbe che lei sia sulla buona strada, dottore.

-Già, credo anch’io. E’ solo che sono preoccupato per i gemelli, è una diagnosi un po’ dura da accettare e preferirei mille volte essermi sbagliato, anche se diversi parametri purtroppo corrispondono tutti.

-E’ così grave?

-Forse. O forse no, dipende da quello che riusciremo ad ottenere dai gemelli.

L’infermiere e lo psichiatra si guardarono senza parlare. In realtà erano preoccupati soprattutto per Philip. Come avrebbe preso la notizia, il loro primario?






In realtà Philip sospettava qualcosa già da tempo. Dal giorno, cioè, in cui aveva dovuto far ricoverare suo figlio dopo averlo trovato svenuto in un lago di sangue che delirava. Aveva saputo subito, anche se aveva preferito tacere la cosa senza aver fatto prima i dovuti accertamenti, rivelatisi poi fondati.

Esistevano dei precedenti nella famiglia Price, anche se erano davvero in pochi ad esserne al corrente. Philip stesso ne era stato informato dal padre solo in età adulta e sia lui che sua sorella Patricia furono diffidati dal parlarne a qualcuno proprio dallo stesso Preston. Il vecchio primario non gradiva che si sapesse in giro che anche nella potente famiglia Price esisteva una mela marcia.

Il soggetto in questione era stato il figlio più grande di Preston, Peter, morto suicida all’età di ventidue anni, quando Philip e Patricia erano ancora troppo piccoli per ricordare quel fratello maggiore che avevano a malapena conosciuto. Peter era cresciuto lontano dalla famiglia, in un collegio privato, per via del suo carattere intrattabile, aveva detto allora il Primario ai due figli più giovani. Era vero solo in parte, confessò anni più tardi Preston. In realtà Peter aveva passato gran parte della sua giovane vita dentro e fuori da istituti di igiene mentale. Non era colpa sua, dissero i medici di allora ad un padre disperato che cercava di capire il perché una simile vergogna fosse dovuta toccare proprio a lui. Era nato strambo, e nonostante avesse sempre ricevuto le migliori cure, non era mai guarito. Era morto in manicomio, così come ci era vissuto, con enorme dolore dei genitori. Si era impiccato alla finestra con le lenzuola del letto. Pazzo, malato, schizofrenico, cosa importava? Preston ne cancellò ogni ricordo, troppo sopraffatto da dolore e dall’imbarazzo per quel figlio disgraziato che gli era toccato in sorte. Sua moglie Helen, dopo un periodo di depressione, si dedicò a crescere con amore gli unici due figli rimasti, augurandosi che fossero sani almeno loro. Preston divenne sempre più dispotico e scontroso con i figli, temendo che potesse succedere di nuovo ciò che era capitato a Peter. Non voleva soffrire più così, e vedendo che Philip era portato per gli studi di medicina lo incoraggiò a seguire la sua stessa carriera, spedendolo a studiare nei più prestigiosi collegi. Da parte sua, Philip si impegnò molto per non deludere il genitore sapendo quanto avesse sofferto a causa di quel fratello che non aveva quasi mai visto. Da quel giorno il padre proibì a tutta la famiglia di pronunciarne perfino il nome e presto il ricordo di quel figlio malato scomparso prematuramente sbiadì col passare degli anni. E con esso anche il dolore.

Dolore che era ricomparso prepotente quando Philip gli aveva raccontato cosa era accaduto con i gemelli. Avevano parlato a lungo della cosa e Preston aveva consigliato di farli curare subito per evitare quello che era successo con Peter.
Era la prima volta che lo nominava dopo tutti quegli anni e Phil sapeva quanto gli fosse costato farlo. Preston era seriamente preoccupato; temeva, infatti, che i gemelli avessero potuto ereditare il difetto genetico. Una seconda odissea come quella di Peter non l’avrebbe sopportata.

Discussero a lungo sulla questione, riaprendo vecchie ferite. Entrambi avevano bisogno di confidarsi e sfogarsi. Vecchi dissapori furono appianati durante quella lunga conversazione. Finirono col parlare della scuola e delle decisioni prese da Philip riguardo ai suoi figli. Preston espresse la sua opinione favorevole in proposito, ricordando al figlio che anche lui aveva studiato in un collegio simile, da piccolo, con ottimi risultati. Philip sorrise rievocando quelle memorie.

-Ricordo che non ci volevo andare e che litigammo in proposito.

Anche Preston sorrise. –Già e adesso la storia si ripete con i gemelli. E’ proprio una famiglia di testardi, la nostra.

-Puoi ben dirlo papà.

Philip si riferiva a Benji e Rachel ma anche a suo padre e alla decisione che prese nei confronti di Peter a suo tempo. Preston percepì quella velata accusa e rispose solo dopo un lungo silenzio.

-Pensavo di aver superato quel dispiacere ed ecco che invece ritorna prepotente. E’ la punizione per quello che feci cancellando ogni memoria di tuo fratello, ne sono sicuro. Spero solo che i miei nipoti possano superare tutto questo senza troppi danni.

-Papà non dire così… non è colpa tua. Tu hai solo cercato di fare la cosa giusta e so che non è facile. Soltanto adesso che sono padre anch’io posso forse capire quello che hai provato. Anche per me non è stato facile prendere certe decisioni. Hai solo cercato di fare del tuo meglio, nessuno di noi te ne ha mai fatto una colpa, lo sai.  

-Ero completamente cieco e sconfitto dal dolore, non lo sopportavo. Soltanto oggi riesco a vedere i miei errori, ma ormai è tardi. Ed ecco che il passato ritorna … l’ho realizzato solo dopo che mi hai parlato della nuova scuola dove avevi deciso di mandare i gemelli. Credimi, non è stata affatto una scelta casuale. Doveva essere così.

Philip fissò in silenzio l’anziano genitore senza capire, ma poi, a poco a poco, la comprensione si fece strada nella sua mente.

-Ma certo, che sciocco, non ci ho pensato … Saint Peter’s …Peter!

Preston Price annuì lentamente.

-Conosco bene quella scuola. Ero molto amico del direttore di allora. La nostra famiglia ha sempre fatto donazioni benefiche alle istituzioni meno abbienti, così io decisi di aiutare un amico in difficoltà. Lui me ne fu grato e non sapendo come ricompensarmi, non avendone i mezzi, fece l’unica cosa che era in suo potere fare: diede alla scuola il nome del mio figlio primogenito, Peter appunto, sperando di fare cosa gradita. Non seppe mai la verità. In seguito, dopo la vostra nascita, forgiò uno stemma che comprendeva tutte le iniziali dei membri della famiglia, me compreso, per ricordare la nostra casata quale benefattrice dell’istituto: un blasone formato da cinque “P” disposte come un quadrifoglio …

-…Preston, Peter, Philip, Patricia, Price… - concluse Phil per lui. Finalmente ci era arrivato -Perché non mi hai mai detto niente papà?  

-Te l’ho detto, dopo la morte di tuo fratello ho voluto rimuovere ogni cosa che mi ricordasse lui… pensavo così di riuscire a soffrire di meno. Quanto mi sono sbagliato.

-Credimi, non ne sapevo nulla quando scelsi quel collegio … se avessi anche solo immaginato …

Preston alzò una mano per fermare le parole di Philip.

-Era così che doveva andare. Quella scuola ti ha chiamato e tu non hai fatto altro che assecondare le cose. E’ come se restasse tutto in famiglia, in un certo senso. Capisci quello che sto cercando di dirti?

-Non del tutto, ad essere sincero …

-E’ così che deve essere e basta.  

Philip era perplesso. Non sapeva cosa fare, cosa dire. Era sinceramente sconvolto da quelle rivelazioni postume.

Il primario tossì, richiamando Philip al presente.

-Ascolta figliolo, ho una cosa da chiederti e te ne sarei grato se mi assecondassi.

-Certo, se posso.

-Questa storia non è mai venuta a galla. Non lo sa tua madre, non lo sa tua sorella e ci terrei che continuasse ad essere così. Non lo dovrà sapere tua moglie e nemmeno Reynolds.

-Ma non c’è nulla di cui vergognarsi. Perché vuoi tenerlo nascosto? In fondo hai solo fatto del bene a quell’istituto …

-Vorrei che le cose continuassero ad essere così, per favore… a nessuno fa piacere avere tra i propri congiunti qualcuno di strambo, e la nostra famiglia da sempre ricopre un certo ruolo nella società. Credimi, ho passato momenti terribili quando la stima per la nostra famiglia era caduta molto in basso a causa di quello che fece Peter … e mi ci sono voluti anni per far tornare le cose a posto. E’ giusto che i vecchi ricordi spiacevoli rimangano sepolti nella memoria. Non mi aspetto che tu capisca o condivida il mio punto di vista, vorrei solo che tu lo rispettassi.  

-Se così hai deciso non ho nulla da obiettare, papà, anche se non so davvero come mantenere fede alle tue richieste adesso che i gemelli sono in ospedale e la mia equipe sta lavorando per cercare di capire quale disturbo abbiano e come curarlo.

-Se è per questo non devi preoccuparti. So ancora come oliare certi ingranaggi, basta solo che non ti sfugga nulla con tua madre e tua sorella … non so come la prenderebbero dopo tutti questi anni di silenzi… Forse sono solo un vecchio, stanco di combattere con la propria coscienza, ma te ne sarei grato. Ho fatto grossi errori in passato e non me ne vergogno, ma vorrei che le cose restassero immutate.

Philip rimase in silenzio diverso tempo prima di rispondere al vecchio genitore.

-Va bene papà, se è questo che vuoi.

Preston fece un sorriso stanco al figlio – Te ne sono grato. L’unica cosa di cui ci dobbiamo preoccupare adesso è la salute dei gemelli. Lascia che sia il tuo staff a formulare la diagnosi, non far trapelare nulla. Vedrai che le cose andranno a posto.   

Ancora una volta, quel giorno, Philip si ritrovò ad annuire dinanzi all’anziano genitore, sperando in cuor suo di avere preso ancora una volta la giusta decisione. 

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Capitolo 23
*** Capitolo 23 ***


Capitolo 23

Preston gli aveva detto che suo fratello era schizofrenico. Era nato così ed era morto così. Senza guarire. Un vero dispiacere per una famiglia di medici da generazioni. Forse poteva anche capire l’imbarazzo del padre verso quel figlio degenere. Non che non l’avesse amato, ma… certamente era stato un grosso dispiacere per suo padre e lui, ora, non se la sentiva di giudicare le decisioni dell’anziano genitore. Non adesso che i suoi gemelli erano coinvolti in quello strano episodio. Sembrava che si ripetesse con loro quello che era accaduto anni addietro con Peter, e Philip, come suo padre prima di lui, non poteva permettere che ciò accadesse. Aveva sospettato subito anche se non ne aveva fatto parola con nessuno, compresi Reynolds e Jo. Forse aveva ragione suo padre: era inutile metterli in agitazione adesso dopo anni di silenzio. Aveva saputo subito ma aveva preferito tacere la cosa senza prima aver fatto degli accertamenti. Sia lui che Preston temevano che i gemelli potessero aver ereditato la malattia di Peter, in una forma certamente lieve e perciò in grado di essere debitamente curata, data anche la loro giovane età. Probabilmente lo stress accumulato in quel periodo di tensione e cambiamenti, aveva fatto in modo che il disturbo si scatenasse, un disturbo che forse era rimasto latente per tutto il tempo, nascosto nei loro geni, come anche Preston temeva.

-Io credo che alla luce di quanto si è detto finora, siamo tutti d’accordo nel confermare la diagnosi del dottor Kay.

Era stato Doc Greenway a parlare. Si trovavano nella sala riunioni, convocati a consulto dal dottor Kay. C’erano, oltre a Reynolds, Philip, Kay e Greenway anche Jeff e Doreen Jackson.

Il dottor Kay aveva fatto leggere a tutti il dossier aggiornato prima di fare il suo discorso così che tutti avessero ben chiaro il quadro generale della situazione. In parole povere, quell’interminabile pratica recitava più o meno così: “Dopo un attento esame sui soggetti in questione, un’intera equipe medica è giunta alla conclusione che si tratti di una reazione schizofrenica di tipo paranoide alla concatenazione di eventi ai quali i soggetti sono stati sottoposti. Il forte stress psichico ha fatto sì che il disordine si scatenasse in tutta la sua pienezza, con presenza di allucinazioni e distacco dalla realtà”. Un gergo medico fantasioso per dire che qualcuno era suonato. Philip sorprese tutti alzandosi in piedi.

-Mi trovo pienamente d’accordo con la diagnosi del dottor Kay- esordì- Domande?

Nessuno aveva nulla da aggiungere. Kay era un giovane psichiatra molto promettente. Philip li guardò ad uno ad uno.

-Sentitevi pure liberi di dire quello che volete. Se qualcuno ha delle domande da fare, questo è il momento giusto.

Doreen si fece avanti: –E’ convinto che vada tutto bene, dottor Price?

-Ma certo, cara, grazie per averlo chiesto.

Lei annuì e tornò a sedersi.

-Altre domande?

Nessuno osò fare quella più logica, forse per rispetto nei confronti di Philip, ma essendo medici, era la prima cosa a cui tutti avevano pensato.

Perché quel disturbo si era manifestato così presto?

Philip, in camice bianco, in piedi al centro della sala riunioni, attese ancora qualche secondo, poi, con voce calmissima enunciò: -Bene signori, colleghi, vi sono enormemente grato per la discrezione e la fiducia con la quale state affrontando tutto questo. Sappiamo tutti molto bene che disturbi gravi come questo sono soliti insorgere … diciamo nei primi vent’anni di vita. Lo abbiamo pensato tutti, me compreso. Tuttavia, non deve essere questo un dato tassativo, voglio dire … certi disturbi non sono soggetti a regole di nessun tipo, possono guarire, scomparire o ritornare ad acutizzarsi senza nessun motivo apparente. Non dobbiamo dare nulla per scontato. Ci tenevo a dirvelo, prima di lasciare la parola al dottor Kay, per quanto riguarda le precauzioni e la terapia da elaborare.

Detto ciò, Philip tornò a sedersi. Aveva un eccezionale self-control, in quel momento, molto professionale. Non lasciava trasparire nessun tipo di emozione. Ovviamente era preoccupato per i suoi figli e per i silenzi impostigli dal padre, ma era fermamente convinto che, se andavano curati, quello era il posto migliore per farlo. Era fiducioso nel suo staff ed era sicuro che tutto si sarebbe risolto per il meglio.
Kay si alzò, camice bianco sbottonato, mani ansiose che sistemavano gli appunti. Si schiarì la gola. -Bene, ora che il nostro dottor Price ha fugato ogni dubbio dalle nostre menti, direi di proseguire. Vi metterò al corrente di alcune ipotesi che ho formulato e se siete d’accordo potremo elaborare insieme la terapia da eseguire. Prese alcuni fogli e li lesse.

-Benjamin ha un carattere molto forte, una forte personalità; emotivamente imprevedibile e instabile, in poche parole, un paziente difficile. Un vero peccato perché dimostra di avere un’intelligenza acuta, molto pronta e ricettiva. Per ora non collabora con nessun tipo di terapia, diventa ostile se si affronta l’argomento, ma la cosa peggiore è che non si rende conto di avere bisogno di aiuto. L’ha presa come un affronto personale; dice di odiare suo padre e tutti noi per questo; pensa che ci sia un complotto contro di lui e Rachel, chiaro sintomo della paranoia di cui soffre e pensa che siamo noi a volergli fare del male. Questa allucinazione, questo Uomo Calvo che lui dice di sentire o vedere, non ho ancora ben capito, lo tiene soggiogato con la minaccia di ritorsioni verso la sorella; lui è convinto che se ne parla con qualcuno, questo “Uomo Calvo” farà del male a lui e a Rachel. Quindi soffre e sopporta tutto in silenzio solo per proteggere lei. Ha un’incredibile forza di volontà. E’ terrorizzato all’idea che Rachel possa soffrirne, di conseguenza, il terrore rende più tenace la sua volontà. Nel rapporto viene confermata la mia intuizione. Il postulato su cui ho basato il logico concatenamento dei miei pensieri quindi è che abbiamo come forza motrice la volontà del soggetto. La parola chiave, perciò è volontà. Fece una pausa per essere certo che tutti avessero afferrato il concetto. Nessuno lo interruppe, tutti lo fissavano attenti e concentrati. Si schiarì la gola e riprese.

-Ho letto attentamente rapporti e resoconti contenuti in questo dossier; ogni diagramma, tabulato e analisi arriva alla medesima conclusione: la volontà come causa primaria. In parole povere, non dobbiamo fare altro che impedire l’esercizio della volontà. La prima parte della terapia si concentrerà su questo. Solo secondariamente affronteremo il disturbo vero e proprio, mostrando al paziente cosa è reale e cosa non lo è. Sfogliò ancora una volta rapporti e resoconti contenuti nella cartella clinica. Si soffermò su alcuni di essi.

-Prendendo dunque la volontà come presupposto di base – riprese – ho analizzato ed elaborato insieme ad un gruppo di esperti una lista di possibili farmaci da utilizzare per la terapia di base. Tali farmaci inducono nel soggetto uno stato di euforico abbandono, levità e apatia tale da impedire l’esercizio della volontà, sia pure per scegliere una tavoletta di cioccolato al latte al posto di una fondente, per non parlare poi di complotti, allucinazioni o chissà che altro. Mi rendo comunque conto che il paziente non può essere sottoposto a terapia, test o trattamenti vari se tenuto costantemente sotto l’effetto di droghe inibitorie dei centri della volontà, né tantomeno noi potremo studiare con un livello soddisfacente l’efficacia e l’andamento delle cure. A questo proposito ho pensato di usare a nostro favore il profondo legame affettivo dei gemelli, alternando i cicli di terapia alla somministrazione dei farmaci, invertendo i ruoli ogniqualvolta sia necessario fare dei test. Un elementare sistema di leve, in fondo. E, come aveva osservato Archimede, con una leva abbastanza lunga si può sollevare il mondo.

Tacque, osservando ad uno ad uno i colleghi, aspettando le loro reazioni e i loro commenti, quelli di Philip in particolare. Un breve silenzio seguì le sue parole, poi quasi tutti fecero cenni di assenso col capo. Greenway e lo stesso Philip ne furono entusiasti.

-Eccellente lavoro, Kay, dico sul serio, e in così breve tempo poi.

Questo commento di Doc lo fece sentire bene. Anche Philip era concorde con il metodo descritto dal giovane medico. Doreen sembrò un attimo perplessa.

-Ammetto che la tesi del dottor Kay, esposta con tanta eleganza e semplicità mi piace molto – ammise la capoinfermiera – ma non credo sarà così facilmente applicabile su soggetti difficili e instabili come il nostro Benji.

-Non ho mai detto che sia facile, anzi, è una terapia piuttosto complessa proprio perché si articola in due fasi, ma sono sicuro che con la sua preziosa collaborazione, Doreen, riusciremo nel nostro intento.

-Il dottor Kay ha perfettamente ragione. Lei, Doreen, è come sempre un valido aiuto. Conto su ognuno di voi che questo trattamento abbia successo.

Doreen arrossì quando il dottor Price pronunciò queste parole. Era grata al suo primario per tutta la fiducia che riponeva in lei.

-Resta solo un piccolo problema prima di iniziare la terapia – continuò la caposala.

-Quale sarebbe? - chiese Philip.

-Vede dottore, sono diversi giorni che Benji rifiuta il cibo o mangia molto poco come anche il dottor Kay ha notato oggi; non è in grado di affrontare una terapia farmacologica così intensa senza una corretta nutrizione. Mi permetto di aggiungere che sono certa lo stia facendo di proposito per indurci a fargli vedere la sorella.

Philip annuì concorde: - Già, avrei dovuto immaginarlo…

-Non può continuare così, dottor Price – proseguì Doreen – non può continuare a rifiutare il cibo. Il dottor Kay, qui, suggeriva di provare con l’alimentazione artificiale; chissà che un paio di giorni di flebo non gli facciano cambiare idea.

-Le famose “Leve di Archimede” di cui parlava poco fa il dottor Kay?

-Esatto. Dovrebbe aiutarlo a capire che rifiutare il cibo non gli servirà a nulla, se non a procurarsi un sacco di buchi nel braccio.

-Sì, forse dovrei fargli un discorsetto.

-Io credo che nel giro di una settimana, due al massimo, riusciremo a rimetterlo in sesto, dopodiché potremo iniziare la terapia vera e propria – aggiunse Kay – se nel frattempo riuscissi ad instaurare anche un rapporto di fiducia, che al momento è totalmente assente, la cosa non guasterebbe. Ma per farlo ho bisogno che mi autorizziate ad assecondare qualche sua richiesta, tanto per cominciare.

A Philip non sfuggì l’occhiataccia che Doreen lanciò a Kay quando ebbe pronunciato quelle parole. Kay mise le mani avanti, come per giustificarsi.

-Naturalmente mi atterrei con scrupolo a tutte le norme …

-Oh andiamo dottor Kay, la pianti! – sbottò Doreen – tanto lo sappiamo tutti che farà ancora di testa sua. Lei è famoso per le sue … - Doreen levò le mani al cielo - terapie alternative!

Il giovane medicò arrossì violentemente, suscitando l’ilarità di tutti. Philip gli venne in soccorso e Kay gliene fu grato. Quella virago non accettava che lui potesse in qualche modo avere ragione.

-Jason, sei tu che stai seguendo questo caso ora, sentiti pure libero di agire come meglio credi. Ti do il mio benestare, l’ottimo lavoro che ci hai illustrato oggi mi infonde fiducia. Non esitare a portare avanti i tuoi metodi alternativi se questo può aiutarti a curare i pazienti. Credo di parlare a nome di tutti qui, anche della cara, burbera capo infermiera, che sotto la scorza dura ha il cuore più tenero di tutti.

Fu il turno di Doreen di arrossire.

-Dottor Price! – esclamò tutta rossa in viso – così mi fa perdere la faccia. Beh, sì, anche se non sempre condivido il suo modus operandi, ammetto che il dottor Kay è in gamba; in fondo è l’unico che finora è riuscito dove tutti noi abbiamo fallito.

Tutti annuirono, d’accordo con Doreen.

Kay si alzò dal tavolo: -Grazie, Philip, Doreen, grazie a tutti per la fiducia e la disponibilità che mi accordate. Ho a mia disposizione un grande staff di medici … e amici.

Philip levò una mano come per zittirlo: -Non ringraziare, Jason. Te lo meriti, davvero.

Il cercapersone del dottor Price mise fine alla riunione.

-Scusatemi, è un’emergenza – dichiarò e uscì dalla stanza con Reynolds al seguito.

Greenway e Kay iniziarono a pianificare la terapia mentre Jeff e Doreen tornarono in reparto.

-Devo dare il cambio a Valerie – disse Doreen – ci vediamo su, dottor Kay?

-Sì certo, mi dia una mezz’oretta.

-Molto bene – annuì lei e si allontanò.

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Capitolo 24
*** Capitolo 24 ***


Capitolo 24

Il suo sonno era agitato. Strano. Le medicine avrebbero dovuto garantirgli un riposo sereno e una relativa tranquillità almeno per qualche ora ancora, ma non era così. Colori vividi e immagini spaventose popolavano il suo incubo. Vide l’Uomo Calvo venire verso di lui, alto, imponente, protetto da una semioscurità che gli impediva di vederlo bene in faccia. Si agitò e gemette nel sonno. Più lui cercava di allontanarsi, più l’Uomo Calvo era vicino, lo sovrastava. Cercò di scorgergli il volto in quella oscura penombra ma non ci riuscì. All’improvviso la sua risata fragorosa e sinistra sovrastò ogni cosa. Era assordante, spaccava la testa.
Benji si rannicchiò sul letto e si tappò le orecchie per non sentire quel rumore terrificante.

-Basta, smettila! Tu non esisti, lasciami in pace, vattene! – gridò terrorizzato.

Così com’era iniziata, la risata si interruppe. Benji fece appena in tempo a scorgere una mano quando si sentì afferrare per il collo della maglietta e sollevare da terra.

Una voce terribile gli sibilò all’orecchio: - Così io non esisto eh? Dimmi, Benji, ti sembro forse immaginario? Eh?

-Io … io non lo so più che cosa sei!

Con una forza sovrumana l’Uomo Calvo lo scaraventò contro una parete. Benji sbatté la testa e si accasciò sul pavimento. Rimase stordito per qualche secondo, poi cercò di alzarsi. La terribile figura nera di quell’uomo lo afferrò di nuovo. Alzò le braccia per proteggersi dal pestaggio, ma quello gli sibilò: Credi ancora che io non sia reale?

Sentì il suo alito gelido a pochi centimetri dalla faccia. Benché fosse terrorizzato a morte, cercò nuovamente di scorgergli il volto. Intravide solo lineamenti aguzzi in quella strana penombra.

-Che … cosa vuoi da me?

La stretta si fece più forte:- Attento ragazzo, stai attento a non deludermi e  soprattutto, non farmi mai più arrabbiare!

-Chi sei?! Dimmi almeno chi sei. Perché …

Non fece in tempo a finire la domanda.  Un secondo e violento strattone lo mandò nuovamente a sbattere contro il muro della cella. Questa volta non riuscì a rialzarsi. Sentiva dolore in ogni muscolo, ma la testa gli doleva più di tutto laddove aveva sbattuto una seconda volta.

Dì pure loro che mi chiamo Straker, – riprese la voce – e che questo avvertimento ti serva di lezione! Non ti dimenticare chi comanda!

La risata si dissolse in lontananza.

Benji si svegliò di soprassalto, sudato e ansante. Si ritrovò sul duro e freddo pavimento della sua cella. Era caduto dal letto. Non c’era altra spiegazione, eppure …
A fatica cercò di rimettersi in piedi. Barcollò verso la finestra e si aggrappò alle maglie della griglia di sicurezza. Sentiva dolore in tutto il corpo.

Fuori, il bellissimo panorama del parco sul retro dell’ospedale era sempre lì, al suo posto. Quindi aveva ragione lui, era stato solo un brutto sogno, anzi un incubo, e nell’agitarsi era caduto dal letto. Logico. Logico e semplice. Allora perché si sentiva così male? Scosse la testa, cercando di riordinare le idee. Si toccò la fronte, vicino alla tempia, dove sentiva dolore. Cadendo, aveva battuto la testa e in effetti gli sembrò un po’ gonfio; faceva male a toccare. Sentì le dita viscide. Si guardò la mano e vide che era sporca di sangue. Il panico fu grande.

-Oh no!

Cosa avrebbe detto ai medici adesso? Gli avrebbero creduto? Certo che no! Da dove veniva quel sangue?

Diede un ultimo sguardo disperato al parco verdeggiante là fuori. Se mai aveva avuto un’opportunità di andarci, ora se l’era giocata definitivamente. Tanto valeva non pensarci più. Voltò le spalle alla finestra e si accasciò sotto di essa, con le spalle appoggiate al muro e le braccia abbandonate lungo i fianchi. Una cupa disperazione calò su di lui, togliendogli le forze. Non avrebbe potuto fare niente per cambiare le cose, tanto valeva rassegnarsi al peggio. Non era da lui arrendersi senza combattere, ma era troppo stanco e provato sia fisicamente che psicologicamente. Loro stavano vincendo. Alla lunga, stavano avendo la meglio su di lui. Faceva male ammetterlo, ma era così. Non voleva arrendersi, ma non vedeva nessuna via d’uscita.

All’improvviso, una voce lo raggiunse in quel baratro senza fine. Una voce amica che tanto aveva sperato di sentire.

Non è nel tuo stile arrenderti così, senza lottare, senza fare nulla. Ti conosco, non è da te!

Benji sollevò la testa e rimase in ascolto, sospettoso.

-Rachel? – chiese circospetto – sei proprio tu?

Per un momento non udì nulla e proprio quando si stava convincendo che se l’era immaginato, la voce di sua sorella tornò a farsi sentire.

Sì, fratellino, sono proprio io. Che ti hanno fatto? Ero così preoccupata.

Benji, ancora indolenzito, cercò di alzarsi in piedi, appoggiandosi al muro.

Dio sa come sono felice di sentire che stai bene! Temevo che … ti avessero fatto del male, non riuscivo più a mettermi in contatto, temo che i farmaci lo impediscano.

Rachel tacque per qualche secondo.

Già, mi è successa la stessa cosa …

Benji chinò il capo, triste. Aveva una gran voglia di piangere e si sentiva sull’orlo di una crisi isterica. Si sentiva colpevole e incapace di proteggere la persona a lui più cara.

-Mi dispiace – mormorò a mezza voce – non volevo coinvolgerti in questa storia!

Era inevitabile, Benji, siamo gemelli. Non colpevolizzarti. Sto male solo perché non possiamo stare insieme. Per il resto … è dura, ma cerco di sopportarlo. Ho una paura tremenda. Di loro … di Lui … Ma tu sei la ragione che mi aiuta a resistere. Per questo ti prego di non mollare proprio ora. Se ti arrendi a loro a me cosa resta da fare?

Benji aveva un groppo in gola che gli impediva di parlare. Strinse i pugni ed e emise un profondo sospiro.

Ti tirerò fuori di qui, Pie, te lo prometto! Non so come ma ne verremo fuori.

Oh, Benji … perché ci è successo tutto questo?

Non lo so, tesoro … ti giuro che non lo so.


Era la verità. Decise di tacerle quello che era appena successo con l’Uomo Calvo. Non avrebbe fatto altro che spaventarla ulteriormente e poi, ad essere sinceri, nemmeno lui era sicuro di cosa fosse effettivamente successo. Magari era vero che aveva avuto un incubo e nell’agitarsi era caduto dal letto …

Mi chiamo Straker … diglielo pure!

Per un attimo gli sembrò che quella terribile voce gli riecheggiasse nella testa con quel suo strano messaggio …

Benji, parlami, stai bene? E’ forse successo qualcosa?! Benji, TI PREGO!!

Si riebbe e udì nuovamente Rachel parlare.

Sì, sì … sto bene. Scusa per un attimo credevo di averti perso.

Il contatto era rimasto. Percepì l’evidente sollievo di lei.

Ho avuto paura … Sai, tante volte ti parlo anche se so che non siamo in contatto come adesso, mi aiuta a sentirmi meno sola … All’inizio li ho minacciati che mi sarei uccisa se non mi permettevano di vederti, poi ho smesso di mangiare … ma loro non si sono arresi; mi infilavano quegli aghi d’appertutto e mi facevano mangiare comunque. Poi è arrivato un dottore nuovo, un certo Kay, e gli ho detto che volevo vederti. Gli ho fatto “una scenata” come direbbe Doreen, ho avuto una vera e propria crisi isterica ma lui è stato irremovibile. Dice che sta elaborando una terapia, non so, e che presto starò meglio e anche tu.

Benji ascoltava con attenzione. Quando parlò, la sua voce non era del tutto ferma come avrebbe voluto.

-Rachel, mi dispiace che per colpa mia tu abbia dovuto soffrire così. Non posso perdonarmelo né accettarlo … Probabilmente io me lo sono meritato, ma tu no!

Non dire sciocchezze! Questa cosa … beh è capitata e ci sono dentro quanto te. Non è colpa di nessuno…

La collera che Benji si portava dentro e tutto il suo rancore esplosero di colpo. Abbatté con violenza i pugni sul muro tanto da farsi male, mentre cocenti lacrime di rabbia e disperazione gli rigavano le guance. Lui, che non piangeva mai!

-Non ce la faccio più – urlò – non posso fare nulla per liberarti e il solo pensiero mi fa impazzire, mi sento inutile! Non voglio che ti facciano del male. Dio, come li odio per questo! Non li perdonerò mai, mai!

Si accasciò a terra, stremato dallo sforzo di quella rabbia a lungo repressa. Si era indebolito parecchio a non mangiare quasi nulla. La reclusione forzata, i farmaci, lo stato depressivo, la scarsa attività fisica lo avevano fiaccato, rendendolo debole e inappetente. Per lui, abituato a ore di attività fisica all’aperto, tutto ciò era insopportabile. Loro lo sapevano e stavano usando contro di lui le sue stesse paure.
Pianse tutte le sue lacrime, dopodiché si sentì meglio. Quello sfogo era necessario, non poteva tenersi tutto dentro, era troppo anche per lui.
Si mise seduto, asciugandosi nella maglietta gli occhi umidi.

Hai ragione Pie, non mi arrenderò senza combattere, ma mi devi promettere che nemmeno tu ti arrenderai. E’ dura, lo so, ma non te lo chiederei se non fosse importante. Ti prego resisti, non farti sopraffare. Troverò una soluzione.

Quando parlò stavolta la voce di Rachel era tornata serena.

Questo è il mio fratellino! Sei tornato in te, non ti riconoscevo più! Combatti a muso duro come sei abituato a fare, io resisterò. Non preoccuparti per me; sto bene. Sono felice che sei mio fratello, ti voglio bene!

Benji stirò le labbra in un sorriso forzato.

Anch’io Pie, anch’io …

La voce di Rachel riecheggiò in lontananza, con la sua solita risatina complice di quel grosso segreto. Benji sorrise di nuovo,nell’udirla. Si assopì quasi senza rendersene conto, dopo quella crisi isterica.

D’un tratto, tutto cambiò. La risata dolce di Rachel si trasformò in qualcosa di orrendo, un suono che Benji conosceva fin troppo bene. Si riebbe subito con un sussulto, il cuore che gli martellava nel petto, balzando in piedi agilmente nonostante si sentisse ancora tutto indolenzito.
Rimase vigile, in ascolto. Nulla. Controllò sia la finestra che dava sul parco che quella del corridoio; sembrava che il reparto fosse deserto. Appoggiò le mani al vetro rinforzato e scrutò il corridoio in entrambi i lati. Nulla. Si staccò dal vetro e rimase in silenzio, in attesa, tutti i sensi all’erta. Il breve riposo e il dialogo con Rachel erano stati benefici quanto il suo bisogno di sfogarsi, e gli avevano restituito un po’ di energie.
Si sentiva di nuovo vivo, combattivo, pronto a dar battaglia. Gli avrebbe fatto vedere di cosa era capace.

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Capitolo 25
*** Capitolo 25 ***


Capitolo 25



-Avanti – mormorò – fatti vedere, lo so che ci sei.

Non ebbe risposta. Eppure non si era sbagliato. Si rilassò un po’ e tornò a guardare fuori dalla finestra.
Il parco era bellissimo, illuminato dal sole di quella splendida giornata. Quanto avrebbe voluto essere là fuori e poter respirare l’aria fresca a pieni polmoni, sentire il vento, il profumo dell’erba appena tagliata, il calore del sole sulla pelle …
Si aggrappò alle maglie della griglia di sicurezza montata sulla finestra e cercò di sentire il profumo delle piante, dei fiori, ma nonostante la finestra fosse aperta, la griglia non lasciava filtrare molta aria; era fitta e impenetrabile. Una punta di dolore gli trafisse lo stomaco. Era una grande privazione per lui, loro lo sapevano.

-Ma che bello – mormorò sarcastico –sono rinchiuso qui dentro da giorni e lo devo proprio  a mio padre; devo essere proprio un deficiente!

Il suo spirito indomito era tornato prepotentemente a reclamare la sua libertà perduta. Si aggirava per la stanza come una tigre in gabbia. Sentiva come un ronzio in testa, probabilmente per il colpo che aveva subito sbattendo contro il muro. Si toccò la fronte, e in effetti era gonfio e gli faceva parecchio male.
Ritrasse la mano, imbrattata di una sostanza vischiosa, sangue naturalmente. La vista del sangue lo indisponeva sempre, si ripulì perciò in fretta le dita nella t-shirt.

-Ma bene! Come glielo spieghiamo ora ai sapientoni in camice bianco? Maledizione! –imprecò.

Era ovviamente - e a ragione – preoccupato della reazione dello staff medico. Si era ferito di nuovo, proprio come il giorno del suo ricovero, e per un attimo la parentesi felice del colloquio telepatico avuto con Rachel gli aveva fatto dimenticare la ferita e tutto il resto.
 Anche se in un certo senso la crisi e perfino le lacrime erano state utili per avergli restituito fiducia e voglia di lottare, ora era seriamente preoccupato. Come spiegare che quella ferita era solo un incidente? E se non lo era? Era confuso. E agitato. Era stato davvero Straker? Incredibile, ora aveva pure un nome! Forse era vero che era pazzo. Il dubbio si stava nuovamente insinuando nella sua mente già confusa. Era insidioso. Gli sembrò addirittura di udire la sua risata maligna.
Rimase nuovamente vigile, in ascolto, tutti i sensi all’erta, non più confusi o intorpiditi dai farmaci. Il cuore che batteva all’impazzata sembrava volergli schizzare fuori dal petto.
Avvertiva qualcosa ora, tutto intorno, come una presenza opprimente. O era solo autosuggestione?

Benché atterrito e spaventato, radunò lo scarso coraggio e con voce non proprio ferma, disse: -Mostrati dunque, almeno saprò di essere pazzo!

La risata possente di Straker gli rimbombò nella testa, assordandolo. Sussultò spaventato. Tapparsi le orecchie per non sentirlo fu un gesto puramente istintivo e inutile.

Sei recidivo, Benji, ma non ho intenzione di punirti di nuovo. Non oggi. E’ stato interessante vedere le tue lacrime; non credo sia un privilegio che concedi a molti, vero? Dunque anche tu provi dei sentimenti. Questo legame con tua sorella è molto profondo e solido da quanto ho potuto capire.

Al sentire nominare Rachel, le penne gli si arruffarono di nuovo. La paura lasciò il posto alla collera. Si rese conto delle sue parole solo dopo averle pronunciate.

-Non ti azzardare nemmeno a pensare a lei, brutto bastardo, o ti giuro che me la pagherai, costi quel che costi! – lo minacciò.

Straker rimase in silenzio. Anche Benji, incredulo di essere riuscito a dire una cosa simile dopo la battuta che si era preso e che ancora lo faceva sanguinare.

Meriteresti nuovamente una lezione per la tua lingua biforcuta, ma passerai già abbastanza guai per quella ferita… credimi il dolore che io ti ho inflitto è solamente fisico; le loro terapie a volte possono essere molto più crudeli e spietate … rispose infatti Straker.

-Che ne sai tu?!

Benji dimenticò ogni prudenza. Strinse i pugni e gli gridò contro: - Tu non sai niente di me! Vattene! Lasciami in pace, sta’ lontano da me!!

Straker non si offese per tutte quelle ingiurie, stavolta. Si limitò a provocarlo.

Bada a come parli, ragazzo, o Rachel soffrirà un po’!

-Lascia fuori mia sorella da questa storia! Non pensarci nemmeno o io …

L’Uomo Calvo rise crudelmente: Tu cosa? Avanti, dillo!

Benji si morse la lingua per non dire cose di cui si sarebbe pentito. Non voleva che Rachel soffrisse.

Saggia decisione, Benji. Non pensavo che ne saresti stato capace! Stai facendo progressi. Forse, dopotutto, questa esperienza non è una cosa negativa.

Benji dominava a stento la rabbia che aveva dentro. Si prese la testa tra le mani, alzando gli occhi al cielo in una muta imprecazione, quando invece avrebbe voluto urlare a Straker tutto quello che pensava di lui. Voleva che se ne andasse, che lo lasciasse in pace. Voleva che non fosse mai esistito.
La sua risata beffarda si fece udire di nuovo.

-Perché continui a torturarmi? Che ti ho fatto di male?! – chiese disperato.

Straker gli rispose gentile: Io non ti sto torturando Benji, sei tu che ti stai facendo del male.

-Oh, per favore! Questa sì che è bella! Risparmiami le perle di saggezza psichiatrica. Se sono finito qui è soltanto per colpa tua e tu lo sai bene!

Straker ci andò giù pesante: Non è stato forse il tuo stesso padre a farti ricoverare o sbaglio? Non ti ha forse trovato ferito nella tua stanza che deliravi?!

Benji era furioso: - Non stavo delirando! Stavo parlando con te!! E’ tutta colpa tua!

E’ colpa mia anche se ti sei tagliato con i cocci di vetro? Eppure ti avevo messo in guardia …. E se io fossi frutto della tua mente malata e avessi, che so, una specie di lato oscuro autodistruttivo?

Benji lo interruppe, puntando il dito: - Hey! Non ci provare con me! Niente cazzate psichiatriche! Io non sono malato e tu di certo non sei frutto della mia mente!

Come fai ad esserne certo? - insinuò Straker mellifluo. Non lo era infatti.

-Non farò questi giochetti mentali con te. Io non sono pazzo! E’ stato tutto un malinteso che TU hai creato!!

Questa si che è bella, ragazzo! Tu e tuo padre non andavate d’accordo già prima del mio arrivo…

-Questo è un altro discorso!

Forse ti serviva un amico con cui condividere i tuoi segreti …

-Io non ho segreti e di certo non mi servono amici come te per condividerli! Tu stai cercando di farmi venire un esaurimento nervoso!

Tu sei pazzo!

-Vaffanculo!!

Un dolore atroce gli trapassò la testa quasi all’istante, seguito da quella tremenda e sinistra risata.

Hai dimenticato le buone maniere?

-Sei uno psicopatico, criminale, bastardo!

La risata di Straker soverchiò ogni cosa. Benji fece una smorfia di sofferenza.

Già, forse è vero … ma mi piace un sacco farti arrabbiare!

Benji non rispose, piegato in due dal dolore.

Allora? Nessuna risposta mordace?

Scosse la testa. –No. Non farò i tuoi giochini mentali. Io non sono malato.

Proprio adesso che mi stavo divertendo. Se non sei malato, perché continui a parlare con me?

-Va’ all’inferno!

La morsa dolorosa aumentò, facendolo gemere di nuovo.

Non impari mai tu, eh?

-Lasciami in pace! Voglio essere lasciato solo!!

Un’ombra scura gli si abbatté addosso, facendolo urlare. Per la seconda volta quel giorno venne abbrancato e scagliato contro la grata di sicurezza, ferendosi di nuovo. Rimase a terra, semisvenuto e dolorante. Ebbe l’impressione di udire dei passi venire verso di lui. Passi lenti e cadenzati. Non erano passi da infermiere, quelli. Tuttavia, temette di non potersi più fidare delle proprie percezioni; non finché venivano alterate da questo strano Uomo Calvo…  
I passi si fermarono a non più di due centimetri dal suo braccio, poi una voce, la sua voce lo invitò ad alzarsi.
Benji, tutto pesto e dolorante, si ritrasse spaventato da quella presenza opprimente. Lo udì ridere.

Non ne hai ancora avuto abbastanza?

-Puoi anche ammazzarmi, se vuoi, non m’importa ma non ti aspettare che mi arrenda così facilmente. Io non sono pazzo e riuscirò a dimostrarlo.

Straker rise crudele. Nessuno ti crederà. La pazzia consiste proprio in questo; puoi anche dire la verità, tanto nessuno ti darà retta. I pazzi non sono credibili!

Benji cercò di alzarsi ma tutto il suo corpo protestò dolorosamente. Parlare gli costava molto.

Inoltre tu hai paura. Di me, di loro, di te, di tutto questo.

-Non è vero! -  gridò Benji - Io non ho paura! Vorrei vedere te al mio posto!!!

Hai paura invece, una paura fottuta che tutto questo possa essere vero!

Benji tacque, pugnalato a morte da quell’insinuazione. Forse era proprio così, dopotutto. Quelle parole sintetizzavano molto bene il concetto. All’improvviso, senza nessuna ragione apparente, si mise a ridere. Fu la volta di Straker di rimanere di stucco. Benji rise di nuovo, incurante del dolore. Gli sembrava in effetti un po’ folle, la risata sconnessa di una persona mentalmente instabile.

-Ho capito il tuo gioco ma stavolta non ci casco. Tu vuoi farmi dubitare di tutto, vuoi farmi diventare pazzo. Sono stato un idiota a darti retta ed ora mi trovo qui per colpa tua.

No Benji, non per colpa mia. Io ti avevo avvertito, ricordi?

-Non cercare di confondermi. Ricordo molto bene!!

A me non sembra. Io ti ho aperto gli occhi, piccolo ingrato, ti ho fatto vedere la verità, quella che tuo padre ti ha sempre nascosto.

-Ora basta. Vattene, non voglio più ascoltarti.

Si alzò in piedi con una smorfia di dolore. Barcollò e dovette appoggiarsi al muro per non cadere.

-Ahi, la mia testa, che male. – Si toccò la fronte e vide che perdeva ancora sangue. Udì la perfida risata di Straker vicino a lui. Troppo vicino. Indietreggiò spaventato. Non si sentiva per niente bene e Straker era un osso duro. Gli aveva fatto male.

-Ora dovrò pagare le conseguenze per queste ferite … Sei un bastardo, l’hai fatto apposta!

Straker rise di nuovo, canzonandolo. Non sai quanto mi dispiace… ma tu insultami ancora e io vado da tua sorella e le spezzo un braccio.

Benji si spaventò sul serio. La voce di Straker era gelida e lui sapeva che quando diventata così, era pericoloso. Iniziò a tremare di paura. Tutta la sua velleità si spense di colpo. Lui aveva vinto. Ancora.

-Non fare del male a Rachel, lei non ti ha fatto niente.

E nemmeno io – volle aggiungere, ma ritenne prudente tenere la bocca chiusa. Strinse i pugni. Era umiliante doversi sottomettere ad un essere spregevole come quello, ma non poteva permettergli di fare del male alla sorella. Era suo compito difenderla.

Dopo qualche minuto di silenzio, Straker gli parlò di nuovo: Hai un coraggio davvero fuori dal comune,ragazzo, lo ammetto, ma ci sono cose che sono troppo grandi, anche per te.

Nonostante il dolore alla testa e le numerose ferite, Benji stava di nuovo per rispondergli, quando la sua presenza svanì all’improvviso. La strana oscurità che avvolgeva la stanza si dissipò come se non ci fosse mai stata. Benji si guardò intorno sempre più confuso. Era solo. Si accasciò sul pavimento. Possibile che si fosse immaginato tutto? No, quel dolore era una testimonianza così maledettamente reale … eppure … Il dubbio si insinuava ancora una volta nella sua mente provata.
Decise che era troppo stanco e malconcio per riuscire a pensare in modo razionale.

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Capitolo 26
*** Capitolo 26 ***


Capitolo 26

Proprio in quel momento si udirono urla disumane provenire dal corridoio, non lontano dalla sua stanza.
Benji trasalì spaventato. Il pensiero volò subito a Rachel e alla strana maniera in cui Straker, l’Uomo Calvo, si era misteriosamente dileguato nel nulla.

Quelle urla terrificanti aumentarono d’intensità. Paralizzato dalla paura e lento nei movimenti per via del dolore, rinculò verso il muro, nascondendosi parzialmente sotto il letto, incurante della traccia di sangue che si disegnò sul pavimento. Rimase in ascolto, tremando come una foglia. Cosa stava succedendo? Chi stava urlando così selvaggiamente? E perché?
Udì dei colpi violenti, poi uno scalpiccio frettoloso. Dove era andato Straker? Gli sembrò assurdo ma collegò le due cose. Era sicuro che Rachel stava bene perché quello che stava urlando era un ragazzo, o almeno così sembrava.

AAAaaahhh!!! No!! Nooo!! Lasciatemi!! Aiutooo!! LASCIAAATEMI ANDAAAAREEEE!!!

-Oh mio Dio! – guaì Benji e si nascose meglio sotto il letto, tappandosi le orecchie per non sentire quelle urla strazianti.
Ancora colpi, ma meno violenti. Ancora urla. E quelle purtroppo erano ancora a volume stereofonico. Altro scalpiccio di suole di gomma. Alcune voci. Gli sembrò di udire la voce di Valerie, l’altra capoinfermiera, e distinse anche il vocione di Loughran, l’unico infermiere nero del reparto, alto quasi un metro e novanta, con due braccia simili a colonne, che metteva tutti i colleghi in soggezione per via della sua mole. Sapeva fare bene il suo lavoro. Benji l’aveva visto solo una volta e mai da vicino, quando l’avevano portato nell’ufficio del dottor Kay. Erano passati davanti alla sala infermiere, lui scortato da Jeff e un altro inserviente, con Doreen dietro che li seguiva.
Loughran li aveva sentiti passare e aveva alzato lo sguardo, fissandolo dritto in faccia per qualche secondo, poi aveva rivolto un cenno di saluto a Doreen.
Probabilmente, se ci fosse stato anche Loughran quel giorno con Jeff, non avrebbe nemmeno tentato la fuga, ferendo il dottor Kay col fermacarte  di vetro.

Le urla sembravano essersi finalmente placate, e con esse anche il brusio e i passi lungo il corridoio. Il silenzio era tornato di nuovo in tutto il reparto. Qualcuno doveva essere schizzato di brutto la fuori, ma i bravi medici lo avevano curato a dovere e imbottito di calmanti o chiuso nella cella imbottita.

Benji si ritrovò a pensare queste cose ancora nascosto sotto il letto. Non osava venire fuori, nel caso che qualche camice bianco che ancora si aggirava in corridoio, notasse le sue ferite e decidesse di dare l’allarme. Sarebbe comunque bastato guardare i muri e il pavimento per capire che, mentre loro erano impegnati altrove, anche nella Stanza Azzurra era successo un bel casino.

Potrebbe succedere anche a me? - si chiese sempre più atterrito - O magari è già successo? Com’è che ci si accorge di essere diventati pazzi? Ci si rende conto del passaggio o tutto avviene in sordina e solo chi ti sta intorno lo nota?

-Oh mio Dio! – ripeté e la sua voce gli sembrò strana, aliena - anche io sono pazzo?

Gli sfuggì un gemito dalla gola serrata. Faticava a respirare, col cuore che martellava nel petto e la posizione scomoda e angusta sotto il letto che lo schiacciava a terra. Ma non osava uscire dal suo nascondiglio, non ancora. Non finché non avrebbe scoperto la verità. Ma qual’era la verità? L’angoscia che provò in quei terribili attimi fu indescrivibile. Poi, improvvisa luce in tutto quel caos di tenebre, gli giunse da molto lontano la voce di sua sorella.

No! Non gli devi permettere di insinuare il dubbio. Non farlo entrare nella tua mente, ti annienterà! Scaccialo dalla tua testa!

Ebbe un fremito. Rachel, sei tu?! Non ottenne risposta. Gli sembrò che la presenza di Straker fosse ancora percepibile. Allora era tornato, ed era reale. Udì una risatina contenuta. Sì, era proprio lui.
Sentì qualcosa ghermirgli una gamba. Emise un grido strozzato. Qualcuno lo aveva afferrato e cercava di farlo uscire da sotto il letto. O si trattava di Straker, oppure gli infermieri si erano accorti di lui. Qual’era il minore dei mali?
Riuscì a fatica a liberare la gamba e si raggomitolò il più lontano possibile. La risata beffarda dell’Uomo Calvo risuonò quasi divertita.

Che ci fai li sotto ragazzo? Esci fuori subito, non vorrai passare per codardo.

Un dolore simile alla punta di un cacciavite gli trafisse le tempie. Alzò la testa di scatto per contrastarlo, ma finì per sbatterla contro la traversa del letto. Fu costretto a riabbassarla lentamente, mugolando per il dolore insopportabile.

Tua sorella non ti ha dato un buon consiglio, stavolta. La tua mente mi appartiene già quando io voglio, e anche la sua, quindi esci da lì senza tante storie o vengo io a tirarti fuori.

Benji era spaventato ma anche arrabbiato. Non gli piaceva aver paura in quel modo, né tantomeno essere manipolato o comandato a bacchetta. Lui gli aveva quasi fatto dubitare di essere pazzo.

-Vattene! Vattene via! – gli gridò di rimando da sotto il letto.

Straker rise divertito. Benji gemette terrorizzato, le mani sulle orecchie per non sentire quella risata folle.

Con te non ci si annoia mai, eh Benji? D’accordo, l’hai voluto tu. E non dire che non ti avevo avvertito.

Non ebbe nemmeno il tempo di rispondergli. Straker lo afferrò mentre tentava di allontanarsi dalla sua portata. Benji non urlò, stavolta. Era troppo concentrato ad avere la meglio. Voleva sconfiggere Straker, lui non era un codardo!

Eccoti qui.

Benji lo fronteggiò con uno sguardo terribile.

-Adesso basta. Esci dalla mia testa. Non ti permetterò più di farmi del male.

Non voglio infierire ancora, Benji, per cui ti consiglio di stare zitto.

-No. Ora basta. Te ne vai di qui adesso.

Non aveva alcuna intenzione di cedergli. Non aveva più nulla da perdere, ormai.
Il dolore alla testa aumentò. Divenne insostenibile. Cadde sul pavimento con un verso strozzato, piegato ma non sconfitto.
Benji lo sapeva e così Straker. La morsa di dolore non si placò. Strinse i denti e tenne duro. L’Uomo Calvo tornò alla carica, oscura ombra minacciosa:

In piedi, guardami.

Benji, ancora in ginocchio con le mani a terra, scosse la testa in segno di diniego. Parlare gli sarebbe costato troppo.

Questa tua ribellione ti costerà cara, ragazzo mio, lo sai, vero?- Straker era quasi gentile. In fondo ammirava quel suo straordinario coraggio e lo rispettava - Anche se ora me ne vado, lo sai che tornerò.

Sì, lo sapeva. Ma non gliene importava. Per colpa sua ora avrebbe dovuto affrontare i medici che lo credevano pazzo. Era stato un incosciente ad affrontarlo e ne avrebbe di sicuro pagato a caro prezzo le conseguenze, ma in quel momento non gli importava. Era solo importante vincere.
La tensione aumentò, così come il dolore. Con un rapido movimento inarcò la schiena all’indietro, sollevando la testa. Le mani volarono alle tempie doloranti.

Con quanto fiato aveva in gola, comando: - ESCI DALLA MIA TESTA!!

Rimase così per qualche secondo, prima di ricadere di nuovo a terra, completamente svuotato e dolorante. Straker, l’Uomo Calvo, era rimasto in silenzio. Benji lo aveva sfidato  e aveva vinto, stavolta.

Sono molto colpito da questo tuo gesto, ma non pensare di avermi sconfitto. Hai osato disubbidirmi e sfidarmi. Ora la pagherai cara.

Rise divertito prima di sferrare un poderoso calcio che colpì la sua piccola vittima nelle costole, togliendogli il fiato. Benji udì qualcosa scricchiolare. Probabile che quel bastardo gli avesse spezzato qualche costola. Il dolore che provò fu terribile.

Questo solo per ricordarti chi comanda … il resto lo faranno i dottori.

L’ultima cosa che Benji percepì prima di perdere i sensi, fu quella tristemente nota risata malvagia che si dissolveva, poi il buio.
Sarebbe rimasto svenuto diverso tempo, prima che i medici si accorgessero di lui.

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Capitolo 27
*** Capitolo 27 ***



Capitolo 27


Il reparto era tutto in fermento. C’era stato un nuovo ricovero. Di solito, l’efficientissimo staff avrebbe sistemato tutto senza problemi, ma stavolta era diverso. Non era stato possibile seguire la normale procedura dei ricoveri principalmente per due motivi: il primo era proprio il paziente stesso; il secondo motivo era più semplice: quel ricovero era capitato nel momento sbagliato.
Quando arrivava un nuovo paziente, la procedura prevedeva una visita accurata eseguita dall’equipe di medici. Venivano fatti esami preliminari, utili ad evidenziare eventuali allergie o intolleranze ai farmaci. Successivamente il nuovo arrivato veniva sistemato in reparto. Gli psichiatri valutavano se era violento o aggressivo, e a seconda dei casi, si decideva se poteva essere ritenuto pericoloso per sé e per gli altri, mettendolo in una stanza da solo o in gruppo se era idoneo per starci.
Questa, in linea generale, era la normale procedura dei ricoveri, ma quel pomeriggio la normalità venne stravolta da quel nuovo ricovero.
Erano le tre e quindici, ora del cambio turno del personale. La caposala e Jeff erano ancora in riunione con il primario e tutti i medici. Valerie, l’altra capoinfermiera, aveva da poco finito il turno e aspettava che Doreen rientrasse in reparto per staccare. Di solito, tutto avveniva in modo abbastanza tranquillo in questo reparto. I pazienti erano tutti nelle loro stanze, sotto controllo; il personale era organizzato in modo tale che ci fosse sempre quella necessaria continuità per riuscire  a gestirli al meglio nel momento più delicato della giornata.
Quelli che finivano il turno si ritiravano nella sala infermiere con quelli che iniziavano. Si discuteva della giornata e si assegnavano le varie mansioni. Dopo circa un quarto d’ora riemergevano tutti. Alle tre e trenta il passaggio dei poteri era avvenuto e tutto tornava alla normalità.
Quel pomeriggio, le tre e quindici divennero ora fatidica. Quel ricovero non poteva capitare in un momento peggiore.
Nella sala infermiere in quel momento c’era solo Valerie. Qualche minuto più tardi venne raggiunta da Martha e Judy, due ausiliarie.

-Inizi o finisci?- si informò Martha, la veterana.

-Se Dio vuole per oggi ho finito. Aspetto solo che Doreen mi dia il cambio poi me ne vado; deve essere ancora in riunione.

-Quale riunione?- volle sapere Martha.

-Sono stati convocati tutti dal dottor Kay per discutere il da farsi sul figlio del primario.

-Ah, ecco. In effetti mi sembrava di avere visto in giro meno gente del solito.

-Si, sono tutti in riunione. Ma non ci vorrà ancora molto; è da parecchio che sono via - disse Valerie – dovrebbe esserci anche Loughran con voi, oggi.

Come se fosse stato chiamato, il testone nero di Tommy Loughran fece capolino nella stanza.

-Buongiorno, belle signore. Hey, ma … dove sono tutti quanti?

-Ciao Tommy. Ci siamo solo noi, riunione straordinaria. Facciamoci un caffè prima che arrivino, ti va? – lo invitò Valerie.

-Come no, mi ci vuole proprio.

Mentre prendevano il caffè, anche Loughran venne informato della riunione che il nuovo psichiatra aveva indetto quel pomeriggio. Stavano discutendo delle varie incombenze della giornata quando l’intercom ronzò. Valerie pigiò il bottone e rispose.

-Si?

-Sono Thorne, del pronto soccorso. Mandateci qualcuno, è arrivato uno nuovo per voi - la voce dell’infermiere sembrava allarmata. – Fate presto – aggiunse, poi la comunicazione fu interrotta.

La caposala e Loughran si alzarono quasi all’unisono.

-Sembrava grave - disse preoccupata Valerie.

-Già, e Doreen ancora non si vede - ribatté Loughran.

-Andiamo noi, se vuoi – propose Judy.

-No – rifiutò Valerie – mi servite qui. Non posiamo lasciare il reparto se qualcuno non rientra.

-Chiama Doreen sul cercapersone – propose Loughran.

-No, grazie! Ci tengo ancora alla mia pelle. L’ultima volta c’è mancato poco che mi malmenasse! Sapete quanto è categorica: “solo in caso di estremo bisogno” e questo non mi sembra proprio estremo. Che diamine, quelli del pronto soccorso riusciranno a cavarsela per un po’!

-Si, forse hai ragione tu.

Lei annuì in silenzio. Sapevano tutti che Doreen e Valerie non andavano molto d’accordo. Entrambe ottime infermiere, dirigevano il reparto ognuna in maniera diversa; più dispotica e maniacale Doreen, più umana e accomodante Valerie. Discutevano apertamente se i loro pareri differivano riguardo ai pazienti e le loro terapie, ed erano capaci di ignorarsi a vicenda ma tutto finiva lì, e se qualcuno  del personale prendeva posizione a difesa di una o dell’altra, subito intervenivano.
“Doreen è una professionista e fa questo lavoro da molto più tempo di me”, oppure: “Valerie è in gamba ed è molto qualificata; lei ha i suoi metodi, io i miei. Tutto qui.”
Era avvincente. Un po’ come osservare di nascosto i genitori che litigano. Doreen arrivò qualche minuto dopo, scusandosi per il ritardo.

-Stavamo per mandarti a chiamare- disse subito Valerie.

-Perché, che è successo?

-Brian del pronto soccorso vuole che gli mandiamo giù qualcuno a prendere un nuovo paziente. Dice che è urgente.

Doreen si accigliò. – Non ne sapevo niente.

-Deve essere appena arrivato – continuò Valerie – e comunque non potevo mandare nessuno se tu e Jeff non rientravate.

-Hai fatto bene, certo – ammise il Generale – ma se ora vado giù mi saltano i controlli.- Guardò l’orologio. – Siamo già in ritardo e tu se non sbaglio devi staccare.

-Ci penserò io qui, se per te va bene. Un po’ di straordinario non mi ucciderà.

Doreen fece una smorfia che poteva essere interpretata come un sorriso – Va bene. Tommy, Jeff, venite con me. Andiamo a vedere cosa è successo. Grazie, Valerie.

-Dovere.

Doreen scese al pronto soccorso con i due ausiliari mentre Valerie si preparava al giro di visite assistita da Martha e Judy.
Se qualcuno avesse detto che il peggio doveva ancora arrivare, nessuno gli avrebbe creduto. Eppure l’intensa giornata lavorativa avrebbe riservato ancora dei fuori programma agli ignari infermieri. Era l’applicazione della legge di Murphy, e cioè: se qualcosa doveva andare storto, è sicuro che sarebbe andato storto. Il personale impiegato quel pomeriggio stava proprio per scoprirlo.



                                                    ***


Le urla. Quelle urla terribili furono la prima cosa che udirono quando l’ascensore aprì le porte sul corridoio che portava al pronto soccorso. Erano fastidiose già in lontananza, pensò Doreen, figuriamoci da vicino.
Percorsero il lungo corridoio fino in fondo, poi Doreen, seguita da Jeff e Loughran spalancò la porta della saletta visite su quelle urla strazianti. Il personale era tutto indaffarato intorno ad un lettino su cui era sistemato il paziente urlante.

-Cosa sta succedendo qui? – chiese, ma in tutto quel trambusto nessuno badò a lei. Si avvicinò di malavoglia alla fonte di tutto quel casino, e vide il giovane paziente urlante. Le ausiliarie la notarono e si scostarono. Jeff e Loughran subito dietro.

-Ma che cosa sta succedendo qui? – chiese di nuovo alzando la voce.

Brian alzò finalmente gli occhi dal paziente e le venne subito incontro.

-Meno male! Non so più cosa fare con lui. E’ arrivato da poco ed è una furia incontenibile!

Mentre parlava passò a Doreen la cartella clinica contenente i pochi appunti che era riuscito a raccogliere al momento del ricovero. Lei cercò di leggerli, ma con tutto quel trambusto era impossibile.

-Dategli qualcosa per la miseria! – esclamò infastidita.

-Gli abbiamo già somministrato tanta di quella Stelazina sufficiente per stendere un cavallo e ancora non molla. Non osiamo dargli dell’altro, non prima di avere eseguito gli esami preliminari- la informò Brian.

-Sì, ma se non si calma non li eseguiremo mai, e se continua così gli verrà un colpo. Dagli dell’Ativan, mi assumo io la responsabilità.

Gli infermieri eseguirono le direttive di Doreen e sembrò che finalmente il giovane paziente si calmasse.

-Molto bene, - proseguì lei soddisfatta - veniamo a noi. Rilesse i fogli del ricovero.

-Qui dice che ha spesso queste crisi violente ed è già stato ricoverato in due diverse strutture psichiatriche. Come mai lo hanno portato qui?

-Come noterai più avanti, è anche riuscito a scappare entrambe le volte, quindi, onde evitare una terza fuga lo hanno spedito qui.

Brian lo disse con orgoglio, riferendosi alle misure di sicurezza di cui l’ospedale era fornito. Doreen si limitò ad annuire.

-E’ molto giovane, il paramedici hanno scritto “età compresa tra i sedici o diciassette anni”.

Brian confermò: - Sì, credo ne abbia diciassette. Ne sapremo di più quando parleremo con i genitori. Sono stati loro a chiamare, dopo che lui è tornato a casa e senza un motivo apparente ha aggredito la madre. Sappiamo solo il nome, è scritto lì, vedi?

-Kyle Barker – lesse Doreen – mmmh…

-Tutte le informazioni verranno messe a disposizione domani, quando finalmente avremo i risultati dei test.

-Molto bene – ripeté Doreen, e appose la sua firma sulla cartella clinica prima di riconsegnarla a Brian. – Lo prendiamo in custodia noi. Fatemi avere quei risultati prima possibile.

Con un cenno del capo fece capire a Jeff e Loughran che potevano prendere in consegna il nuovo paziente.
Non sembrava più infuriato ora, solo in trip di tranquillanti. I due inservienti lo slegarono dal lettino e lo misero in piedi, sostenendolo per le braccia.
Doreen lo osservò. Era un bel ragazzo, scuro di occhi e capelli; peccato fosse malato. La sua furia sembrava essersi esaurita, ma lei non abbassò mai la guardia. Jeff e Loughran lo tenevano saldamente. Andò tutto bene fino in ascensore. Mentre salivano al nono piano Kyle iniziò a parlottare tra sé, gli occhi lucidi come un tossico strafatto.

-Quella maledetta … la dovevo ammazzare … è tutta colpa sua … Hey, ma voi chi siete?

-Stai calmo Kyle ora ti portiamo nella tua stanza. Andrà tutto bene, vedrai.

L’ascensore si aprì al nono piano. Doreen inserì la sua tessera magnetica e le doppie porte si aprirono. Solo quando queste si furono chiuse alle loro spalle il meccanismo ronzò brevemente e sbloccò le altre porte. Doppie porte di sicurezza. Kyle sussultò quando per la seconda volta lo scatto secco della chiusura elettrica bloccò le porte dietro di loro. Erano entrati. Un lungo corridoio, con file di porte. Kyle si guardò intorno con espressione sognante, imbambolata, la bocca aperta. Camminava incespicando sempre sorretto dai due infermieri.
Ad un trattò sbottò:-Lo conosco questo posto! Siete riusciti a fregarmi di nuovo! Non ci voglio stare qui lasciatemi tornare a casa mia!

Iniziò ad agitarsi di nuovo come se non gli avessero somministrato niente, come se i tranquillanti non avessero sortito effetto su di lui. I tre infermieri se ne stupirono. Arrivarono all’altezza della sala infermiere che il ragazzo cominciò a calciare le porte e gridare nonostante Jeff e Loughran lo tenessero a bada.
Furono quei colpi e quelle urla che spaventarono Benji, rinchiuso qualche porta più in la. Passarono davanti alla sua stanza proprio mentre lui era rannicchiato sotto il suo letto, ferito e spaventato, a domandarsi se anche lui fosse pazzo o meno. Ma il peggio ancora non era arrivato. Valerie corse loro incontro quando udì quelle grida. Era a metà del giro dei controlli.

-Quello nuovo?

Doreen annuì.

-Ti serve aiuto?

-No. Jeff e Tommy ce la fanno. Tu tutto bene? – si informò Doreen al di sopra delle urla.

-Finora sì, tutto tranquillo, ho quasi finito.

-Bene. Continua. Lo portiamo in isolamento poi ti do il cambio.

-Okay.

Doreen proseguì e Valerie nella direzione opposta continuò i controlli con Martha e Judy al seguito.

Il ragazzo continuava a urlare. Doreen ne aveva piene le scatole. Era molto contrariata.

-Insomma piantala di fare scena. Mi hai fatto venire il mal di testa!

-Fammi uscire! Voglio andarmene! Io ti ammazzo! – strillava Kyle senza sosta.

Il corridoio sembrava non finire più. Quando alla fine svoltato l’angolo arrivarono di fronte alla porta della cella d’isolamento il nuovo arrivato sembrò capire perfettamente cosa lo attendeva. Iniziò a dibattersi e urlare con maggior vigore.

-Non lasciatemi qui! Non lo faccio più, non lo faccio più, prometto, per favore, per favore no, no, NOOOOOO!!!!

Doreen staccò dalla cintura un tintinnante mazzo di chiavi. Niente chiusure elettriche per l’isolamento. Aprì la porta e accompagnò dentro il nuovo paziente.

-Kyle per oggi starai qui. Fino a domani non posso più somministrarti nulla. Qui sei al sicuro. Strilla quanto vuoi. Quando ti sarai calmato, intendo sul serio, ti farò uscire. La tua furia qui non spaventa nessuno. Impara queste semplici regole e andremo d’accordo.

 Si richiuse la porta alle spalle con evidente soddisfazione desiderosa di allontanarsi alla svelta dalla fonte di tutto quel rumore. Il nuovo arrivato, infatti, aveva preso a inveire e colpire la porta chiusa con calci e pugni. Avevano svoltato l’angolo e ancora si sentivano le sue grida.
Doreen era seccata e camminava svelta. I suoi passi echeggiavano lungo il corridoio.

-Accidenti – commentò Loughran – ci dà dentro quel ragazzo.

Doreen fece una smorfia insofferente. Quel paziente l’aveva irritata oltremisura.

-Presto – sbuffò – abbiamo del lavoro da portare a termine.

Non fece in tempo a dire altro perché vide Martha arrivarle incontro correndo. Gli angoli della sua bocca si piegarono all’ingiù di ulteriori due centimetri mentre l’espressione irritata della sua faccia si fece ancora più dura. Sapeva per esperienza che c’erano altri guai in vista se le infermiere correvano da lei in quel modo. Guai seri. Sospirò arrendendosi all’evidenza e non appena l’infermiera fu vicina le chiese rassegnata: - Cos’altro è successo ora? Perché sapeva che era successo qualcosa. Se lo sentiva.  

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Capitolo 28
*** Capitolo 28 ***


Capitolo 28


-Corri, il figlio del primario l’ha fatto di nuovo!

Bastarono queste poche parole a farli muovere tutti.

-C’è del sangue sui muri e sul pavimento.

Imprecando sottovoce Doreen aumentò l’andatura augurandosi che non fosse niente di serio. Judy, rimasta di guardia davanti alla porta, si voltò nella loro direzione udendo uno scalpiccio frettoloso.

-Siete già entrate? Si informò Doreen dando uno sguardo all’interno.

-No, aspettavamo te.

Lei annuì, estraendo la tessera magnetica e sbloccando la porta. Entrò nella Stanza Azzurra seguita da Jeff e da Loughran. La prima cosa che notò furono alcune chiazze di sangue sul muro appena sotto la finestra e sul pavimento.
Benji era accucciato nell’angolino del muro, a ridosso del letto, incuneato in uno spazio davvero ridotto. Respirava con evidente affanno, come se facesse fatica, in respiri brevi e rapidi. Aveva gli occhi serrati e il volto contratto in un’espressione sofferente. Doreen si chinò dinanzi a lui mentre i due infermieri prendevano posizione ognuno per lato, pronti a sollevarlo da terra qualora la caposala l’avesse ordinato. Lei lo chiamò per nome, incoraggiandolo ad aprire gli occhi e guardarla. Non voleva che si spaventasse e avesse una reazione repentina. Sembrava già abbastanza malconcio così.
Benji trasalì sentendosi chiamare. Aprì gli occhi e si voltò verso l’infermiera, mostrando così una brutta ferita alla tempia. Il sangue fuoriuscito, ora rappreso, era colato lungo il collo, andando a macchiare la maglietta bianca del pigiama.
Doreen e i due infermieri si scambiarono un’occhiata eloquente.

-Benji?- lo chiamò ancora la capoinfermiera. Lo vide sbattere le palpebre diverse volte, poi fissare su di lei uno sguardo vuoto, distante. Provò allora  a schioccare le dita un paio di volte e finalmente il ragazzo sembrò accorgersi di lei.
Lasciò uscire un lamento di dolore e cercò di appiattirsi ulteriormente contro il muro al quale era appoggiato, nel vano tentativo di sottrarsi loro. Fu quando sentì una pressione sul braccio che si accorse degli infermieri e tentò ancora di allontanarli da sé. Riconobbe Jeff alla sua destra, mentre a sinistra c’era Loughran. Era la prima volta che lo vedeva da vicino e sapeva che la sua presenza lì non era affatto un buon segno. Tentò di contrastarli e di rimettersi in piedi con le proprie forze ma ogni movimento era una fitta dolorosa e loro, temendo che volesse ferirsi di nuovo, glielo impedirono afferrandolo uno per lato e rimettendolo in piedi. Il brusco movimento gli causò un capogiro e sarebbe certamente caduto se non ci fossero stati loro a sorreggerlo. Doreen gli si avvicinò mettendosi di fronte a lui, riempiendo tutto il suo campo visivo.  
Il fianco sinistro dove Straker lo aveva colpito gli faceva molto male ed ogni respiro gli costava uno sforzo immenso. Lei guardò con attenzione e da vicino la ferita sulla tempia, poi sentenziò:- In infermeria, presto.

Camminare era doloroso. Ogni passo che faceva gli causava nuovo dolore ma gli infermieri lo sospingevano avanti, sempre sorreggendolo ognuno per lato. Doreen oltrepassò le infermiere incaricandole di informare il dottor Kay e il primario sull’accaduto. Non disse altro per tutto il tragitto che dalla Stanza Azzurra portava all’infermeria. Questa si trovava in fondo al reparto, oltre l’isolamento. Per arrivarci dovevano percorrere tutto il lungo corridoio e svoltare a sinistra. Quella era la seconda volta che lasciava la sua prigione azzurra dopo l’incidente avvenuto nell’ufficio del dottor Kay e, nonostante il dolore che camminare gli procurava al fianco, Benji osservava il corridoio e le file e file di porte tutte uguali. Chissà dov’era sua sorella, in quel gigantesco labirinto. Cercava di rallentare l’andatura degli infermieri, un po’ per il male, ma soprattutto per riuscire a ricordare dettagli e particolari che avrebbero potuto tornargli utili in futuro. Alla fine del lungo e monotono corridoio svoltarono a sinistra. Qui le file di porte erano solo sul lato destro. A sinistra si aprivano enormi finestroni a sesto acuto. Il soffitto era altissimo e il bianco delle pareti rendeva tutto molto luminoso. La luce del sole filtrava dai finestroni schermati dalla rete di protezione che davano sul giardino esterno. Benji poté scorgere là sotto il parco verdeggiante che vedeva anche dalla sua finestra. Avrebbe voluto continuare a guardare sia il sole che il prato sottostante ma gli infermieri presero un altro corridoio che si dipanava da quello e dopo alcuni passi si fermarono di fronte ad una porta. Brusco movimento che gli causò altre fitte al fianco. Si aggrappò ai camici bianchi dei suoi sorveglianti, lasciando su di essi tracce rossastre con le mani ancora sporche di sangue. Nonostante durante il tragitto avessero incrociato altri infermieri e pazienti, alcuni tranquilli altri meno, Benji non aveva minimamente badato loro, estraniandosi da tutto, rimanendo concentrato solo su due cose: il suo dolore e l’ambiente circostante. Non aveva emesso suono, non aveva tentato di fuggire, come notò Doreen, e la cosa era piuttosto strana ma lo attribuì al fatto che fosse ferito e spaventato. Aveva visto l’andatura leggermente claudicante ed era certa che sentisse davvero male.
Ad interrompere i suoi pensieri fu la porta dell’infermeria che venne aperta. Altri inservienti scortarono fuori una donna con una voluminosa fasciatura ad un braccio che balbettava cose senza senso, roteando gli occhi all’indietro. Salutarono Doreen con un cenno del capo e lei fece lo stesso. Qualche secondo più tardi venne loro incontro un medico alto e con i capelli brizzolati. Bello di aspetto e imponente di fisico. Portava eleganti occhiali dalla montatura di acciaio e i baffi. Doreen sorrise imbarazzata di fronte al medico. Somigliava vagamente a Burt Lancaster dei tempi d’oro ed era evidente che esercitava un certo fascino sull’universo femminile, Doreen inclusa. Benji lo osservò con occhi diversi. Vestiva di verde e portava guanti di lattice, due elementi che glielo fecero detestare all’istante. Gli ricordava suo padre e nonostante l’espressione del volto apparisse gioviale, diffidò subito di lui. Dolore o meno, era deciso a non farsi avvicinare. Per adesso, l’attenzione del medico era tutta per la capoinfermiera.

-Dottor Burke- lo salutò quest’ultima avvicinandosi alla soglia dell’infermeria. Lui le sorrise e fece loro cenno di entrare. Parlottarono un po’. Loughran e Jeff erano rimasti leggermente indietro e la maggior parte del dialogo venne persa. Benji li vide parlare, poi lei gli porse una cartelletta che lui sfogliò rapidamente. Si voltarono entrambi a guardarlo, poi il medico annuì. Un brivido freddo gli corse lungo la schiena. Cosa si erano detti? Lo vide poggiare la cartellina aperta sulla scrivania, scrivervi sopra qualcosa ed infine venire verso di lui. Cercando di ignorare il dolore, indietreggiò bruscamente al suo avvicinarsi ma gli infermieri, pronti, impedirono ogni iniziativa.

-Allora –fece bonario il vecchio medico ignorando il gesto di avversione del piccolo paziente – mi ci fai dare un’occhiata?

Non era una vera e propria domanda in realtà, Benji lo sapeva. Come se dipendesse da lui poi. No, era solo un’altra delle loro solite tattiche per ingraziarselo. Infatti, subito dopo aver pronunciato quelle parole e senza aspettare risposta -che comunque non venne- il dottore gli girò la testa verso la luce per osservare meglio la ferita sulla tempia, cosa che Benji non gradì affatto. Cercò di liberarsi da quella presa ma non poteva fare molto, trattenuto com’era. E il dolore al fianco lo stava uccidendo. Si sentiva oltraggiato da quel contatto molesto e il fatto di non potersi difendere lo irritava molto. Ma la cosa che più lo infastidiva era il fatto di non contare nulla. Qualsiasi cosa avesse detto o fatto, loro non gli avrebbero creduto. Era quello a ferirlo maggiormente. E non poteva certo biasimarli, nelle condizioni in cui era ridotto. Appariva ai loro occhi esattamente come Straker gli aveva detto.

Urlerai la tua innocenza ma non ti crederà nessuno…

Non verrai creduto…i pazzi non contano…

Quante volte l’Uomo Calvo gli aveva ripetuto quelle cose? Eppure lui sapeva di non essere pazzo. Era caduto in una trappola ben architettata e non sapeva come uscirne ma di certo non era pazzo. Anche se purtroppo tutti gli elementi erano a suo sfavore. E poi, ancora, chi era costui e cosa voleva da lui?
Domande, domande destinate a rimanere senza risposta, almeno per il momento.

L’odore di disinfettante dell’infermeria gli dava il voltastomaco e le luci troppo forti gli ferivano gli occhi ma non disse nulla, nemmeno una parola, opponendo solo una lieve resistenza quando gli infermieri lo trascinarono fino al lettino delle visite, obbligandolo a sedervi sopra mentre il dottore preparava il necessario per la medicazione. Aveva realizzato che parlare con loro non sarebbe servito a nulla, se non forse ad aggravare ulteriormente la sua già abbastanza compromessa situazione. Al dottor Burke non importava niente di lui e del suo strano silenzio; il suo compito si limitava a medicare quella ferita. Al resto ci avrebbero pensato gli psichiatri che lo avevano in cura. Questa era la realtà delle cose nella scala gerarchica e lui lo aveva capito. Quel silenzio rassegnato ne era la prova evidente.

-…un po’ male.

-Uh?

La voce del dottore lo aveva riportato bruscamente alla realtà. Un attimo più tardi un dolore feroce alla tempia lo fece sussultare. Si sorprese della facilità con cui i suoi pensieri riuscivano a distrarlo e a trascinarlo lontano. Succedeva spesso negli ultimi tempi. Il medico stava tastando la ferita e disinfettando il taglio. Cercò di sopportare quella tortura in modo stoico, mordendosi il labbro inferiore e giurando a se stesso che non avrebbe emesso un solo suono.

-Ho detto che ti avrei fatto un po’ male- ripeté il dottore proprio in quel momento.  
Si allontanò per prendere altro disinfettante. Benji seguiva ogni sua mossa con sguardo vigile, ora. Doreen era nei pressi, pensierosa e taciturna a sua volta. Forse anche lei si stava domandando come mai non avesse ancora reagito o forse aveva già intuito la ragione di quella temporanea rinuncia alla lotta. Però non abbassò mai la guardia, nemmeno per un istante. Sapeva che i suoi silenzi potevano essere più significativi delle sue brusche reazioni a volte.
Il dottor Burke tornò e riprese a lavorare con efficienza sulla ferita. Benji lo lasciò fare senza dire nulla, senza impedirglielo. Il dolore si era un po’ smorzato adesso. Quello che lo irritava maggiormente era la sensazione delle sue mani. Le sue mani fredde e professionali addosso gli davano fastidio. Mani da medico. Ne aveva una vera e propria avversione fin da piccolo. Strinse i pugni ma mantenne il suo ostinato silenzio, sperando che tutto finisse il prima possibile.

-Dov’è  che ti fa male?

La domanda del dottore lo spiazzò. Che intendeva dire?
Il vecchio medico sorrise appena, notando la reazione sorpresa del piccolo paziente.

-Ho visto che zoppicavi un po’ prima – proseguì il dottor Burke incurante di quel silenzio. – Ho pensato ci fossero altre ferite che non ho visto subito.

Maledizione. Se n’era accorto. Certo, i medici si accorgevano sempre di quei piccoli sintomi. Strinse i pugni fino a far sbiancare le nocche ma mantenne il suo caparbio silenzio. Non gli avrebbe fornito alcun indizio. Distolse lo sguardo, mostrando disinteresse per le parole appena pronunciate dal dottore. Il medico proseguì la visita senza aggiungere altro. Sembrava non ci fossero ulteriori ferite evidenti ma era convinto che il piccolo paziente gli stesse nascondendo qualcosa. Per essere sicuri gli controllò anche la vecchia ferita sul polso, rifacendo poi la fasciatura una volta terminato. Benji rimase barricato nella sua torre di silenzio, contrariato dall’insistenza del medico ma deciso a mantenere il distacco.
Quasi accidentalmente, il dottore gli urtò il fianco danneggiato, facendolo trasalire.

-Hmm… è qui vero? Non mi sbagliavo.

Affondò i polpastrelli proprio dove Straker l’aveva colpito, strappandogli un’esclamazione di dolore. Doreen si avvicinò. Il dottor Burke gli sollevò la maglia del pigiama e scoprì la parte lesa. Un livido bluastro di discrete dimensioni fece la sua apparizione.

-Questo si che deve fare parecchio male- commentò il medico, mentre Doreen osservava il livido senza parlare. –Perché non ci hai detto niente?

Nulla, nessuna risposta e nessun cenno di reazione. Il vecchio medico non se ne stupì più di tanto. Era abituato ad avere a che fare con i pazienti del reparto psichiatrico ed era consapevole che reagivano nei modi più diversi. Però questo ragazzino qui aveva qualcosa di strano…

-Qualche frattura?- chiese Doreen osservando il grosso livido vicino alle costole.

Il dottor Burke continuando a tastare la zona bluastra, fece un cenno negativo col capo.

-Sembrerebbe di no. Non riscontro danni. Fortunatamente sembra solo una brutta botta, dolorosa ma innocua. Se non fosse stata tra il tessuto morbido delle costole avrebbe potuto essere peggio. Faccia fare le lastre se crede, ma le posso tranquillamente dire che non ce n’è alcun bisogno. Qualche giorno di antidolorifico, se crede, e una pomata e tutto andrà a posto.

-Mm hm, certo dottore- annuì la caposala.

Meglio cosi, pensò. Se fosse successo qualcosa di più grave il dottor Price si sarebbe arrabbiato sul serio, stavolta. Già adesso avrebbe dovuto riferirgli dell’incidente e non sapeva come l’avrebbe presa. Figuriamoci se avesse dovuto informarlo su qualcosa di più grave di un livido e qualche taglio. Decise di metterlo al corrente il prima possibile. Non voleva farlo arrabbiare più del necessario; era già parecchio stressato per tutta quanta la faccenda e non voleva creargli ulteriori preoccupazioni. Anche se non lo dava a vedere e manteneva il solito riserbo e distacco, Doreen sapeva quanto fosse preoccupato. Non si capacitava di come era potuto succedere. Lo sorvegliavano sempre, in maniera costante, eppure…

-Trovano sempre il modo di farsi del male…

La voce del dottor Kay la fece voltare di sorpresa. –…Se era questo che stava pensando, tutta corrucciata- aggiunse il giovane psichiatra. - Era così assorta che non mi ha nemmeno sentito entrare.

-Grazie di essere venuto cosi in fretta, dottore- rispose lei riacquistando all’istante il controllo della situazione. –In effetti sì, stavo proprio pensando a quello.

Kay aveva nel frattempo già salutato il dottor Burke e gli inservienti e preso dalle mani di questo la cartella medica del suo paziente, leggendola con attenzione.

-Lo immaginavo- rispose con un sorriso, richiudendola dopo averla firmata.

-Non so davvero come sia potuto accadere- rispose la caposala scuotendo la testa in segno di disapprovazione.

-Gliel’ho detto, Doreen, uno modo lo trovano sempre, anche se li sorvegliasse ventiquattr’ore al giorno.

-Già.

Diede una rapida occhiata al ragazzo. Era stranamente tranquillo, immobile, seduto sul lettino e lo fissava. Jeff e Loughran a pochi passi da lui, braccia conserte come al solito e pronti ad intervenire. Sembrava così piccolo e indifeso in quel momento ma Kay sapeva bene di cosa poteva essere capace. Era silenzioso e quieto ma quegli occhi mostravano un incredibile travaglio interiore.  

-Gli avete dato qualcosa per caso?

-No dottore- rispose Doreen. –Non ancora.

-Uhm… Se avete finito di medicarlo vorrei parlargli. Da solo.

-Certo dottore.- Doreen fece cenno agli infermieri di uscire. –Siamo qui fuori in caso di bisogno.

Lui annuì e salutò anche il dottor Burke, stringendogli la mano.

Rimasto solo con il suo paziente, il dottor Kay prese una sedia e si accomodò di fronte a lui.

-Allora, non hai niente da dire?- Il tono del medico era leggermente scocciato. –Dopo quella nostra chiacchierata mi pareva di aver capito che avresti collaborato.

Il dottor Kay era arrabbiato. Benji riusciva a percepirlo ma non gliene importava. Anche lui era arrabbiato. Perché nessuno gli avrebbe creduto, qualunque cosa avesse detto o fatto. Sorrise amaramente.

-Se le dicessi che non sono stato io, mi crederebbe?

-Sei stato tu, Benji?

-No.

-Chi è stato allora?

Invece di rispondere Benji si limitò a fissarlo. Cercava di capire se davvero gli importasse o se stesse solo cercando di farlo parlare, come la volta scorsa. Non poteva dimenticare che il medico aveva giocato sporco con lui.
Da parte sua, Kay aspettava una risposta. Si era infastidito quando lo avevano mandato a chiamare, perché pensava di essere riuscito a combinare qualcosa di buono con quel piccolo paziente, invece….Adesso doveva rifare tutto daccapo. E sia, penso.

-Se non sei stato tu dimmi chi è stato.

Benji trovava quasi divertente il fatto di non essere creduto. Divertente in un modo così doloroso che poteva quasi sentire quel dolore trafiggergli il petto come una coltellata ogni volta che il medico gli rivolgeva quella domanda. Faceva così male dentro, ma forse loro non ne avevano la minima idea. E forse era meglio così.

-Non sono stato io- rispose fissandolo dritto negli occhi.

Kay decise di assecondarlo, speranzoso di poterci ricavare qualcosa di utile.

-Immagino che c’entri il misterioso Uomo Calvo in tutto questo allora, si?

-Si chiama Straker…

Stupito da quella confessione spontanea, Kay dovette ricredersi. Forse, dopotutto, il suo lavoro non era stato poi così inutile. Doveva andarci cauto.

-Chi si chiama Straker, Benji? L’Uomo Calvo? E’ quello il suo nome?

Dì pure loro che mi chiamo Straker…

Gli tornarono in mente le parole dell’Uomo Calvo. Percepì una sgradevole sensazione al ricordo. Annuì impercettibilmente al dottor Kay. Aveva detto la verità. Era stato lo stesso Straker ad acconsentire che rivelasse loro il suo nome, ma Benji dubitava che sarebbe cambiato qualcosa ormai. Forse era l’ennesima presa in giro da parte del misterioso e crudele Uomo Calvo. Strinse i pugni e subito una fitta dolorosa al fianco danneggiato si fece sentire. Non sarebbe cambiato nulla.

-Perché non me l’hai detto subito?

-Perché ancora non conoscevo il suo nome e perché… non mi avreste creduto.  

Kay decise di non forzarlo troppo. Aveva visto l’espressione di dolore in quegli occhi trasparenti e sapeva bene quanto poteva essere dura.

-Va bene, Benji, voglio crederti. Adesso Doreen ti farà riportare nella tua stanza. Più tardi parleremo. Forse riesco anche a convincerli a farti uscire. Tu cerca di non combinare altri danni e potrei anche riuscirci.

Benji non disse nulla. Il suo sguardo seguì il giovane medico mentre si alzava e usciva dall’infermeria. Troppo facile. Era stato tutto troppo facile. Aveva cercato di seguire il consiglio del ragazzino biondo ma non sapeva ancora se avesse funzionato o meno.

A che scopo essere considerati pazzi se non puoi divertirti un pò?

Un sorrisetto gli incurvò le labbra, per tramutarsi subito dopo in una smorfia di dolore quando un’altra fitta al fianco lo trafisse mentre cercava di rimettersi in piedi.
Un attimo dopo Doreen e gli infermieri vennero a prelevarlo per riportarlo nella sua stanza.

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Capitolo 29
*** Capitolo 29 ***


Capitolo 29


Philip non era arrabbiato. Era furioso ma la sua era una rabbia controllata e silenziosa e forse proprio per questo ancora più allarmante.
Doreen lo sapeva e anche il dottor Kay. Avevano chiesto un consulto urgente dopo i fatti avvenuti e Philip li aveva ricevuti subito nel suo ufficio. Sembrava stanco e nervoso. Non doveva di certo essere facile per lui dover sopportare quella difficile situazione. Dopo tanti anni di lavoro al suo fianco Doreen riusciva  a leggerlo come un libro aperto. Tuttavia le sembrava ci fosse qualcosa di poco chiaro in certi suoi atteggiamenti ultimamente. Quando erano entrati nel suo ufficio stava parlando al telefono con suo padre, l’ex primario Preston Price. Aveva fatto loro cenno di entrare e subito dopo interrotto la comunicazione. Probabilmente stava discutendo di affari privati con suo padre e non gradiva che altri potessero accidentalmente udirli. Era sempre molto riservato sulla sua vita privata anche se si fidava di tutti i suoi collaboratori. Ma c’era stato qualcosa che Doreen aveva captato. Un atteggiamento diverso dal suo solito. Prese mentalmente nota di ricordarsi di chiederglielo, magari in un momento più tranquillo. Adesso non sembrava davvero il caso.

-Non stiamo ottenendo nulla con le buone- stava riferendo Philip ai suoi collaboratori abbastanza seccato –Un piccolo passo avanti e due indietro.

Non aveva nemmeno tutti i torti. Doreen e Kay ascoltarono il suo sfogo senza interromperlo. Philip aveva deciso di prendere in mano la situazione. Quella condizione di stasi era sfibrante e lui voleva iniziare il prima possibile la terapia. Rimandare ancora non avrebbe avuto alcun senso e c’era il rischio che episodi come questo potessero ripetersi.

Come Peter, aveva commentato suo padre al telefono prima che la caposala e il dottor Kay entrassero. Sta succedendo come con Peter. Dobbiamo impedire che accada di nuovo, figlio mio, devi impedirlo. Hai l’autorità per farlo.

-Ho l’autorità per farlo e intendo farlo- rispose il primario a voce alta ai suoi collaboratori echeggiando le parole che suo padre gli aveva detto al telefono poco prima.

-Certo dottore, è un suo diritto.

La voce di Doreen era pacata e chiara come al solito. Philip la conosceva bene; sapeva che lei si era accorta del suo nervosismo. Tuttavia era restio a parlare di cose cosi delicate. Suo padre gli aveva fatto promettere di non farne cenno con nessuno, nemmeno con Johanna o con sua madre. Non era facile. E forse Doreen sapeva. Aveva lavorato col vecchio primario prima di lavorare con lui. Probabilmente la caposala sapeva molto più di quello che diceva. Avrebbe dovuto chiederglielo, ma adesso aveva bisogno di parlare con sua moglie.

-Vogliate scusarmi se ho alzato la voce e se sono così…uhm..nervoso ultimamente ma i gemelli mi stanno preoccupando molto. Credo che indugiare oltre non serva né a noi né a loro. Avrei voluto essere stato in grado di gestire meglio questa situazione per renderla il meno penosa possibile, soprattutto per loro ma non ci riesco e i miei figli non mi stanno rendendo le cose facili.

Doreen sorrise comprensiva. Philip si passò le mani tra i capelli prima di sedersi alla sua scrivania, il tipico gesto di quando era nervoso.

-Non si deve scusare o giustificare, dottor Price. Sta sopportando un enorme stress tutto da solo e la situazione è delicata. Ha tutto il nostro appoggio e la nostra comprensione.

Anche il dottor Kay era d’accordo con le parole della capoinfermiera.

-Siamo qui per aiutarti, Philip. Vedrai che andrà tutto bene. Ci vuole tempo, ma tutto si sistemerà.

-Lo spero davvero tanto. State facendo un ottimo lavoro. Non avrei dovuto urlare con voi ma sono umano anche io e a volte è tutto davvero troppo. Fatemi fare una telefonata poi verrò con voi a vedere i gemelli.

Il dottor Kay e Doreen annuirono e uscirono dal suo studio, lasciandogli la privacy di cui aveva bisogno per chiamare la moglie.

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Capitolo 30
*** Capitolo 30 ***




Capitolo 30

Johanna Hailey Price era turbata. Non erano molti i motivi che riuscivano a smuovere il rinomato cinismo forense, in genere. Gli avvocati, così come i medici, tendevano a sviluppare una sorta di egoismo e indifferenza, deformazione professionale purtroppo necessaria a chi esercitava questo tipo di mestiere. Il disinteresse e l’imperturbabilità che li caratterizzavano, servivano a mantenere una mente lucida e focalizzata sugli obiettivi. Ogni coinvolgimento sentimentale poteva infatti risultare dannoso perché in grado di intaccare la capacità di giudizio. Avvocati e medici erano tra coloro che maggiormente conoscevano e utilizzavano questo principio, spesso anche senza rendersene conto. Non a caso queste categorie lavorative erano rinomate per essere alcune tra le più afflitte da casi di separazioni e divorzi, proprio perché questo modus operandi alla lunga si ripercuoteva anche e soprattutto sui familiari.

Per Johanna Price, però, la famiglia era ancora una delle poche cose che la coinvolgevano a livello sentimentale e riuscivano a scuoterla dal suo formale cliché di avvocato penalista, facendola ridiventare umana. Era come se si sdoppiasse in due distinte figure; austero avvocato da una parte, mamma amorevole e moglie dall’altra. Philip le invidiava questa capacità, questo suo riuscire a smettere di essere una cosa per diventarne un’altra. Lo considerava un dono prettamente femminile, dato che né lui né tantomeno suo padre erano capaci di farlo. Loro rimanevano medici sempre e comunque.

 
La telefonata appena ricevuta dal marito era riuscita a provocarle apprensione.
Non era il solito bollettino medico sulla salute dei gemelli che Philip aggiornava ogni volta che poteva. Non era nemmeno l’interurbana che le faceva sempre quando stava fuori per lavoro. No. Stavolta Philip le aveva chiesto di raggiungerlo in ospedale appena possibile perché doveva riferirle cose importanti che non poteva dire al telefono. Le aveva citato il segreto professionale, e Jo si era allarmata. Philip l’aveva subito rassicurata sulla salute dei gemelli, ma aveva insistito perché la moglie lo raggiungesse. Le aveva anche chiesto di non farne parola con nessuno, specialmente con suo padre, altro dettaglio poco rassicurante.

Jo aveva appena finito di parlare al telefono con Philip e stava massaggiandosi le tempie, cercando di rimanere calma e sfruttare gli ultimi scampoli di quella turbolenta pausa pranzo, quando uno dei suoi collaboratori venne ad avvisarla che il Giudice era rientrato in aula prima del previsto.

-Vince, ho bisogno di conferire in privato con il Giudice Hendricks, prima di riprendere.

Vincent, il dinoccolato tirocinante che lo studio legale associato di Jo aveva   assunto da qualche mese, scosse la testa. –Negativo, avvocato. Il Giudice è già in aula e pare ansioso di concludere alla svelta la seduta pomeridiana.

-Maledizione! – sbottò Johanna. Il suo collaboratore la osservò, notando solo allora la preoccupazione che le alterava i lineamenti, sempre curati ed eleganti.

Problemi personali. Vince lo sapeva. Johanna non imprecava mai, se non quando era stressata o preoccupata. Piccoli segnali che Vincent aveva imparato a riconoscere lavorando con lei.
Johanna raccolse frettolosa tutti i suoi documenti e li ripose nella valigetta, ricomponendosi e preparandosi a rientrare in aula.

-Scusami Vince, non intendevo...E adesso sono pure in ritardo!

-Nessun problema, avvocato. Ma sbrighiamoci, al Giudice non piace aspettare.




Erano già tutti ai loro posti, quando Johanna e Vincent arrivarono. Colpetti nervosi di tosse e il rumore dei tacchi di Jo furono gli unici suoni che li accolsero. Giuria, poliziotti e imputato li osservarono avanzare lungo l’aula e prendere posto oltre la sbarra, in ossequioso silenzio. Thomas Hendricks, il grasso Pubblico Ministero, se ne stava appollaiato sul suo scranno e tamburellava con le dita sui fogli, cercando di non mostrarsi troppo irritato dall’inusuale ritardo dell’avvocato Price. Sembrava un Bulldog in toga, con quelle guance flaccide che gli ricadevano ai lati della faccia e Jo dovette distogliere lo sguardo da lui per non rischiare di sorridere a quel buffo paragone. Era bizzarro come in momenti di tensione o sovraccarico emotivo la mente umana registrasse dettagli marginali come quello, altrimenti trascurabili, trasformandoli in qualcosa di grottesco o comico.

Derek Mc Clunsky, l’avvocato difensore che avrebbe condotto il controinterrogatorio, lanciò a Johanna un’occhiataccia. Non vedeva l’ora di mettersi in mostra davanti al Giudice, stracciando le accuse formulate in mattinata dall’avvocato Price, e quella donna osava rubargli la piazza con quel plateale ritardo. Sperava che almeno il Pubblico Ministero la riprendesse ma quando questi si limitò ad una battuta generica sulla puntualità, capì che era meglio non insistere. Thomas Hendricks era un uomo potente e sapeva essere pericoloso; era meglio non infastidirlo troppo, specie quando si era nel clou di un processo per omicidio e toccava a lui controinterrogare. Doveva giocare bene le sue carte.

Il vecchio Giudice prese la parola.

-Bene, ora che siamo tutti presenti in aula, venga messo a verbale che l’avvocato Mc Clunsky può cominciare il controinterrogatorio.

La stenografa aveva finito di battere sui tasti, quando Johanna si alzò.

-Vostro Onore, chiedo il permesso di conferire con lei. Se l’avvocato Mc Clunsky qui, è d’accordo.

L’aula di tribunale si fece ancora più silenziosa. Oltraggiato, Mc Clunsky fece per controbattere ma il Giudice fu più veloce di lui.

-E’ importante, avvocato Price?

A Johanna non sfuggì la nota di irritazione nella voce del Pubblico Ministero. In effetti non sfuggì a nessuno dei presenti, ma per lei era irrilevante in quel momento. Doveva rischiare.

-Si, Vostro Onore, lo è per me. Chiedo il permesso di avvicinarmi.

La voce di Jo era pacata, ma decisa. Se Derek Mc Clunsky avesse potuto fulminarla in quel momento, lo avrebbe fatto.

-Ma, Vostro Onore… - tentò infatti di obiettare l’avvocato difensore, tutto paonazzo in volto, ma Hendricks non gli diede modo di terminare.

-Avvocati, avvicinatevi.

Stizzito, Mc Clumsky si avvicinò, intenzionato a chiedere spiegazioni a Johanna sul suo comportamento riprovevole.

-Avvocato Price, che succede?

-Chiedo perdono, Vostro Onore, non è mia intenzione mancare di rispetto a questa Corte o all’avvocato Mc Clumsky, ma ho bisogno di chiedere un rinvio.

-Un rinvio? E perché mai, avvocato?

-Ho appena ricevuto una telefonata dall’ospedale, Vostro Onore, ecco perché sono arrivata in ritardo. Si tratta dei miei figli. E’ stata richiesta la mia presenza, e ancora non ne conosco l’esatto motivo. Il Primario non ha potuto dilungarsi in spiegazioni e temo che con questa preoccupazione in mente ora non riuscirei a concentrarmi a dovere. Mi bastano poche ore di permesso, Vostro Onore.

Sia il Giudice Hendricks che Mc Clumsky si ridimensionarono nell’apprendere quella notizia. C’era bisogno di tutta la concentrazione possibile da ambedue le parti per raggiungere un verdetto e non erano ammesse distrazioni di sorta, mentre l’avvocato Price sembrava avere una grossa distrazione che rischiava di viziare il processo se il Giudice non avesse deciso di sospendere l’udienza. Dopo una breve riflessione, il Pubblico Ministero prese la parola.

-Avvocato Price, esercito questo mestiere da molto, troppo, tempo e mi rendo conto di quanto simili notizie possano sconvolgere e preoccupare. Se non riesce ad essere totalmente focalizzata sul suo lavoro, rischio un processo viziato ed è proprio ciò che vorrei evitare in questo momento. La stampa e tutti i media ci stanno addosso come avvoltoi e ci ridurrebbero a pezzi. Inoltre ho bisogno di tutta la sua competenza per arrivare fino in fondo. Lei ha studiato questo caso minuziosamente e al punto in cui siamo arrivati non me la sento di farla sostituire da qualcuno dei suoi associati. Le concederò un rinvio di 48 ore, spero che basti per risolvere il suo problema. Avvocato Mc Clumsky per lei va bene?

-Non… non ho obiezioni da sollevare, Vostro Onore.

-Bene. Questa Corte si aggiorna. L’udienza è rinviata alle dieci di dopodomani.

Thomas Hendricks calò il martelletto e il bang che produsse mise a tacere il brusio di proteste che si era sollevato.

-La ringrazio, Vostro Onore.

-Cerchi di stare serena e riprendersi per dopodomani, avvocato Price. Ho bisogno di tutte le sue energie non mi è di nessuna utilità con la testa altrove.

Era il suo modo burbero di dire ‘prego’, Johanna lo sapeva. Più di così non sarebbe riuscito a fare. Hendricks non era uomo che mostrava sentimentalismi, ma sotto la scorza dura era corretto. Aveva capito la sua preoccupazione, a differenza di quel presuntuoso di Mc Clumsky, che pensava solo all’occasione mancata di figurare. Forse anche il Giudice se n’era accorto. Jo lo guardò mentre raccoglieva i suoi appunti e li metteva nella cartelletta con gesti stizziti. Ricambiò per un attimo la sua occhiata, poi prese la giacca e con passi decisi abbandonò l’aula senza rivolgere al suo assistito nemmeno una parola.

Vince raggiunse Jo e la aiutò con le scartoffie.

-Avvocati come lui, bah,  che pessimi elementi. – sbottò scuotendo il capo.

Jo sorrise, stanca. –Non mi importa di lui, Vince. E’ soltanto un arrampicatore e per giunta arrogante. Non farà mai carriera. Ora voglio pensare solo alla mia famiglia. 48 ore sono poche, ma meglio di niente.

-Certo, e sono sicuro che lo ha notato pure il Giudice. Vinceremo noi, ne sono convinto. Tu adesso vai, ti prenoto il volo. Penso io ai documenti. Le carte e gli appunti li troverai giovedì sulla scrivania come al solito. E puntuale, mi raccomando. L’arringa finale è da rivedere in alcuni punti.

-Grazie, Vince. Non so davvero cosa farei senza di te. Diventerai un bravo avvocato.

-Certo, sto imparando dalla migliore. Adesso vai, tic tac, tic, tac, tempus fugit!

Johanna sorrise al suo collaboratore e si affrettò ad abbandonare l’aula dopo aver stretto un’ultima volta la mano a Hendricks, la mente già rivolta a Philip e a quella telefonata.

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