Too much to say

di miseichan
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo * ***
Capitolo 2: *** Prologo ** ***
Capitolo 3: *** Coprifuoco ***
Capitolo 4: *** Queer as folk ***



Capitolo 1
*** Prologo * ***


prologo 1

Too much to say

 

 

Prologo *

 

 

La moto non era sua.
Così come non sentiva sua l’eccitazione di quella notte.
Eppure, almeno la moto era tangibile: riusciva a toccarla, e stringeva saldamente il manubrio fra le mani. Era bellissima, e una piccola parte di lui provò pietà per il proprietario che di lì a qualche ora si sarebbe accorto del furto, era una parte troppo insignificante però, che non aveva la minima possibilità di prevalere e averla vinta.
Il ragazzo infatti con un ghigno tirò ancora la leva del gas, accelerando nella notte, aumentando la velocità già ben oltre i limiti. Aveva fretta: era impaziente di arrivare a destinazione, per averla il prima possibile. Sua. Era sua e non se la sarebbe fatta scappare, per niente al mondo.
Scalò qualche marcia, mentre si avvicinava alle porte della città: per quanto volesse vederla, qualcosa lo inquietava, dicendogli di non essere troppo azzardato, che non era ancora arrivato il momento. Ma Federico non ce la faceva più: non sarebbe resistito nemmeno un giorno di più senza vederla, senza toccarla… erano due settimane che sognava quelle labbra. Dall’ultima volta in cui le aveva baciate, per la precisione. E presto avrebbe potuto risentirle sue.
Svoltò nella terza strada a sinistra, procedendo lentamente, combattendo contro quell’ultima parte della sua mente che lo invitava a fare retromarcia, tornandosene a casa sua. Gli bastò però pensare a lei, con quei suoi occhioni innocenti, così diversi da tutti quelli che aveva sempre visto: candidi, puri, fiduciosi. Occhi che riuscivano a provocare in lui sensazioni mai provate.
Quel semplice pensiero fu più che sufficiente: con un ultimo scatto deciso fermò la moto affianco al marciapiedi. Scese e passandosi la mano nei capelli, resi indomabili dal vento, si avviò lungo il vialetto verso la porta della villetta: tre piani, bianca, con un giardinetto tutto intorno. Il primo piano, come parte del secondo, era completamente illuminato.
La musica si sentiva chiaramente già da lì e le luci, le grida, i rumori provenienti dall’interno dell’abitazione facevano presagire la festa che si stava svolgendo al suo interno.
Federico lo sapeva che quella sera ci sarebbe stata una festa, perché i genitori di Sara erano fuori città e Luca, da bravo fratello maggiore aveva pensato bene di dare inizio alle danze; in fondo come si dice? Quando il gatto non c’è i topo ballano.
Il ragazzo si avvicinò alla porta e cominciò a bussare, per quanto perfettamente cosciente che sarebbe stato del tutto inutile: nessuno lo avrebbe sentito. Dopo meno di tre minuti infatti si decise a prendere il cellulare, facendo il numero di Luca. Attese per un po’ ma non ne venne alcuna risposta: iniziò a prendere in considerazione l’idea di cercare una finestra aperta, quando la porta gli si aprì davanti improvvisamente.
- Eccoti! Ero sicuro che saresti venuto! Entri?-
- Lei c’è?-
Luca tutto sorridente annuì facendosi da parte e Federico si fiondò dentro senza farselo ripetere ancora. Guardò un’ultima volta il suo amico che ammiccandogli lo incitò ad andare nel salotto.
Federico fece come gli era stato consigliato, dirigendosi verso la musica, facendosi spazio a gomitate nella ridda di persone e cercando con gli occhi lei. Non fu troppo difficile trovarla: aveva infatti subito ristretto il campo di ricerca togliendo il centro della sala, dove tutti ballavano e di sicuro lei non era. Quando la vide il suo cuore ebbe un tuffo, si fermò rimanendo semplicemente a guardarla: osservando e sorridendo la figura di quella ragazza che in qualche modo era riuscita ad incastrarlo. Per quanto assurdo con un solo bacio, era infatti riuscita a convincerlo a starsene buono per due intere settimane, senza vedere nessun’altra e pensando unicamente a lei.
E la vide girarsi lentamente, lasciando vagare lo sguardo e scostandosi lentamente dal muro cui era appoggiata. I loro occhi si incontrarono, prima solo di sfuggita e poi tornarono a fermarsi gli uni negli altri, rimanendo come incatenati.
Vide il volto di lei aprirsi in un sorriso felice e sorpreso, mentre gli si avvicinava e fu proprio quel sorriso a farlo riprendere, tornando in sé, e spingendolo a raggiungerla in pochi passi: la strinse fra le braccia, cercando di sentirla sua il più possibile. Lei non si ritrasse, ricambiando sinceramente l’abbraccio del ragazzo.
Fu poi quasi senza rendersene conto che salirono le scale: Federico la seguiva completamente sottomesso, avrebbe fatto qualunque cosa se avesse continuato ad avere la mano di Sara stretta nella sua. Lei si fermò solo quando la musica dal piano di sotto smise di giungere assordante: erano arrivati al terzo piano, e le luci lì erano ancora tutte spente.
La sentì allontanarsi un po’, cercando un interruttore a tentoni, ma seguì ogni suo movimento, facendo in modo di non perderla nemmeno un istante. Quando una fievole luce prese a rischiarare l’ambiente si accorse di trovarsi nella stanza di lei: lasciò vagare lo sguardo sulle pareti con carta da parati rossa, sul letto ricoperto di cuscini colorati, sull’aria confortevole che pervadeva la camera.
A distrarlo furono le braccia di lei, che lo avvolsero da dietro, stringendogli i fianchi: sentì che il cuore perdeva ancora un battito e sorridendo scambiò rapido le posizioni, prendendo lei fra le braccia. Si piegò portandosi alla sua altezza, sorridendole fra i capelli, inebriato dal profumo di lei:
- Mi sei mancata-
- Anche tu… come hai fatto a venire?-
Federico ghignò divertito: era sicuro che gliel’avrebbe chiesto. Rispose in un sussurro, con voce pacata ed innocente:
- Ho trovato un passaggio-
Avvertì la risatina di lei e capì che non gli aveva creduto, non se ne importò più di tanto però: Sara infatti non sembrava davvero interessata a quello. Lei si girò fra le sue braccia, facendo in modo che si trovassero faccia a faccia, e gli passò le mani attorno al collo. Posò la testa nell’incavo del collo di lui, riuscendo a farlo rabbrividire anche solo con il suo respiro, che caldo gli accarezzava la pelle.
Federico aspettò giusto qualche istante prima di sollevarle il viso e baciarla appassionatamente: rimasero stretti per un tempo indefinito che non sembrava scorrere, quasi volesse permettergli di non smettere più, continuando all’infinito, prolungando quell’attimo a dir poco perfetto.
Ma inspiegabilmente furono loro stessi a dividersi, allontanando leggermente le labbra: un qualcosa infatti era scattato, come una nuova scintilla, più forte delle altre che riuscì ad appiccare un vero e proprio incendio. Un fuoco che prese a bruciare, invadendo ogni millimetro, ogni fibra di entrambi.
Quasi senza respirare si ritrovarono stesi sul letto: Federico a cavalcioni sopra di lei, che circondandole i fianchi con un braccio cominciò a baciarle ogni lembo di pelle libero, esposto alla luce della luna a spicchio che filtrava dalla finestra.
Partì dal collo, scendendo lentamente, tormentandola con la punta della lingua, divertito dalla pelle d’oca di lei. Si soffermò un po’ di più sull’incavo dietro l’orecchio, accorgendosi di come ogni volta un brivido pervadesse il corpo di lei. Quando sentì il piede della ragazza strusciarsi lentamente lungo il suo polpaccio, non riuscì più a trattenersi e provò a sbottonarle la camicetta rossa che portava: sentiva le mani tremargli, e al secondo bottone iniziò a perdere la calma, ma fu lei a fermargli le dita. Sentì la sua mano premergli sul petto, cercando di allontanarlo. Lui non lo fece, non capendo cosa stesse succedendo: fissò lo sguardo negli occhi dilatati di lei.
- No. Fede io… non è ancora il momento-
Glielo aveva solo sussurrato, con voce tremante, indecisa ed al tempo stesso spaventata.
Sentite quelle parole il ragazzo si sollevò immediatamente: facendo leva con le braccia si allontanò da lei, rimanendo fermo nell’angolo del letto.
Iniziò a respirare con affanno, dandosi dello stupido mille volte: sapeva di star correndo, ma non era riuscito a fermarsi. E ora forse aveva rovinato tutto. Tornò lentamente a sollevare lo sguardo su di lei, accovacciata all’altra estremità del materasso, e le rivolse uno sguardo carico di rammarico.
- Sara, mi dispiace. Davvero. Perdonami, ho sbagliato. Io… me ne vado e…-
Non terminò la frase, e non l’avrebbe più terminata.
Gli occhi di lei infatti erano tornati a brillare: sentendogli dire quelle cose, ascoltandolo mentre si scusava contrito per una situazione in cui alla fine li aveva portati lei, Sara gli si era lentamente avvicinata e prendendo fra le dita un lembo della sua felpa lo aveva ritirato di scatto su di lei.
- Non scusarti-
Due parole. Solo due, ed erano riuscite a portarlo sull’orlo della pazzia.
Mentre la stringeva nuovamente a sé si chiese come avrebbe potuto ridurlo con una frase più lunga.
Tornò a baciarla ma questa volta non ci andarono più tanto per il sottile: Federico riuscì a sbottonarle la camicetta, le mani non gli tremavano più, e quando lei dopo avergli tolto la felpa iniziò a percorrere con le dita ghirigori immaginari sul suo addome quasi non riuscì a trattenere un grido di piacere.
Continuò ad osservarla, studiandola in ogni più piccolo particolare: giocando con i suoi lungi capelli neri con riflessi ramati, mentre le dita di lei si stringevano convulsamente sulla sua schiena.
Osservò quel corpo esile e bellissimo fremere e rabbrividire al suo minimo tocco e si compiacque di riuscire in tanto con così poco. Non riuscì per molto a pensare a quello però: le dita di lei infatti riuscirono a distrarlo al punto da fargli quasi dimenticare dove si trovasse, concentrato unicamente sui suoi movimenti. La sentì scendere con la mano fino alla vita dei suoi pantaloni e poi cominciare a slacciargli la cintura. Rendendosene conto alzò lo sguardo sul viso di lei, totalmente stupito da una tale intraprendenza: non avrebbe mai immaginato che quella ragazzina così timida e silenziosa potesse riuscire a provocargli reazioni simili.
Eppure incontrando lo sguardo giocoso e provocatorio di lei dovette ricredersi. Era sicuro che lei sentisse chiaramente la sua eccitazione, ma non vi trovò in risposta alcun segno di indecisione.
Lei iniziò lentamente a fargli scivolare via i pantaloni e lui fu ben lieto di facilitarle l’opera mentre con mano apriva velocemente la cerniera della gonna della ragazza: accarezzò delicatamente la pancia di lei, facendo scorrere senza fretta le dita giù fino alla coscia. La sfiorò piano, quasi temesse di rompere in qualche modo quella bolla di desiderio prorompente che sembrava avvolgerli in quel momento. Sentendo le gambe di lei avvolgersi attorno alla vita capì però che niente avrebbe potuto rovinare qualcosa: semplicemente perché lo volevano entrambi ardentemente.
Scese con le labbra fino al seno di lei, sganciandole con dita frementi il gancetto del reggiseno. Sapeva di starla tormentando: che quei baci leggeri e veloci erano come una tortura, ma sapeva anche che erano incredibilmente piacevoli. E non intendeva smettere, perché non gli andava di dare una fine a quei momenti che sembravano essere un assaggio tanto del paradiso quanto dell’inferno.
Sentì le dita di lei incrociarsi dietro la sua testa, nei suoi corti capelli neri, e provò un piacere indescrivibile quando vide distintamente accendersi nello sguardo di lei una luce vogliosa e impaziente: lei lo tirò ancora una volta verso il basso, facendo aderire maggiormente i loro corpi, e avvicinò le labbra al suo orecchio. Federico spalancò gli occhi mentre i denti di lei gli mordevano delicatamente il lobo, e li chiuse quando la lingua di lei si insinuò fugacemente accarezzandolo.
Quando percepì la richiesta fatta dalla ragazza: a mezza voce, quasi in un gemito, tornò a sollevarsi un po’, come per assicurarsi di non essersi sbagliato.
“ Smettila di perdere tempo”
Il sorriso di lei lo convinse che aveva capito bene, e affondando il viso nel collo della ragazza sospirò profondamente, cercando di ritrovare un minimo di controllo sulle proprie emozioni. Entrando finalmente in lei, posò le labbra sulle sue, soffocando un gemito ad entrambi e rubandole un bacio. E poi ne prese un altro e un altro ancora… erano baci dovuti in fondo: quanti battiti del cuore gli aveva rubato lei?

 

*

 

Ciao ^^

Per chi fosse assurdamente riuscito a leggere fino a qui, sappiate che è solo la prima parte del prologo xD

Devo dire che non ero sicura di voler pubblicare questa storia, ma mi ronzava per la testa da troppo tempo e non ho avuto il coraggio di bloccare tale impeto creativo sebbene completamente folle: nella seconda parte del prologo capirete un po' di più.

Posso solo assicurarvi che non è la solita solfa: due innamorati e basta, no no, leggermente diverso questa volta **

Fatemi comunque sapere che ve ne pare, vi prego ^^

Grazie a tutti e alla prossima!

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Capitolo 2
*** Prologo ** ***


prologo 2

Too much to say

 

Prologo *

 

 

Non era possibile.
Stava perdendo il lume della ragione e lo sapeva: ma la colpa non era sua, era di Sara.
Di quella ragazza magnifica con cui era stato il sabato precedente, e che non sentiva da allora. Esattamente da una settimana.
E la cosa non era plausibile, nemmeno lontanamente concepibile anzi.
Perché mai non avrebbe dovuto richiamarlo? Quante volte lo aveva fatto lui, dieci, venti?
No, di più, molte di più ma lei non aveva risposto: mai.
Quello che Federico provava in quel momento, mentre il professore parlava di Platone, era rabbia. Ira pura per il fatto che si sentisse rifiutato, dopo che era stato così bene, dopo che aveva scoperto di essere disposto a tutto per lei: aveva riportato la moto nel garage da cui l’aveva rubata, e questo perché lei, guardandolo con quegli occhioni da cucciolo capaci di disarmarlo totalmente glielo aveva chiesto.
Senza pensarci su aveva acconsentito, sentendosi poi felice: contento e leggero come non era mai stato. O almeno era andata così fino a quando non si era accorto che lei lo ignorava volutamente.
Non rispondeva alle sue chiamate, si rifiutava di parlare quando chiedeva a Luca di intercedere per lui, non aveva voluto vederlo. Passate poco più di ventiquattro ore da quando erano stati assieme lei aveva cominciato a fingere che non esistesse. E la cosa lo feriva terribilmente, riducendolo in uno stato di confusione e delusione che si accavallavano, sostituendosi alternativamente.
A distrarlo fu il bigliettino che gli atterrò sul quaderno: era un foglietto mal accartocciato, a quadretti; si voltò il minimo indispensabile per guardare se fosse il caso di leggerlo o meno: vide Lorenzo dietro di lui ammiccargli, facendogli segno di aprirlo e così fece.
“ Si può sapere che cazzo hai?”
Tipico di Lorenzo. Che avrebbe potuto rispondere? Ho preso il mio primo palo dall’unica di cui mi sarebbe potuto dispiacere prenderlo e, ma no che dico, dall’unica che avrebbe mai potuto darmelo!
No, Lori non avrebbe capito: per quanto fosse un suo amico non era all’altezza di sentimenti contrastanti come quelli che adesso stava provando.
Rispose invece con un’altra domanda, dopo aver dato un’occhiata veloce all’orologio: mancavano venti minuti alla fine delle lezioni.
“ Mi dai uno strappo a casa di Luca?”
Stava per accartocciarlo quando aggiunse altre poche parole, per assicurarsi di non ricevere un rifiuto:
“ Con la macchina di tua sorella ci mettiamo meno di un quarto d’ora. E’ importante”
A quel punto ripiegò il foglio e lo lanciò all’indietro, riuscendo a farlo cadere sul banco dell’amico.
Questi lo lesse velocemente e dopo averci pensato per qualche minuto annuì verso Federico, comunicandogli il suo consenso.
Quando la campanella suonò entrambi scattarono veloci in piedi, già pronti e uscirono dall’aula, correndo quasi alla macchina; affiancandolo Lorenzo mormorò:
- Sai che non ho la patente vero? E che se ci beccano finiamo male-
Federico annuì distrattamente: non gli importava e se si fosse sentito in grado di guidare non avrebbe certo chiesto aiuto ad altri.
Raggiunsero la casa in meno di un quarto d’ora, come aveva detto Fede e quando l’auto si fermò nel vialetto rimasero entrambi immobili: Lorenzo osservava l’amico, si era subito accorto che qualcosa non andava, e il fatto che sembrava che in casa non ci fosse nessuno non lo sorprese.
Continuava a studiare le reazioni di Federico: l’agitarsi nervoso della sua gamba, il modo in cui si mordeva il labbro, come si passasse in continuazione il dito sotto il naso…
Lorenzo teneva in gran considerazione l’amico: era uno dei ragazzi più popolari, quello più intelligente, portato per qualsiasi materia e sport, con file interminabili di ammiratrici, ma da più di un mese si comportava in maniera sospetta e da una settimana a quella parte addirittura non sembrava neanche più lui.
Fece per dire qualcosa, chiedergli spiegazioni, ma l’altro non gliene diede il tempo: con un salto veloce si portò fuori dalla macchina e iniziò ad avvicinarsi alla casa. Bussò per quasi cinque minuti senza fermarsi ma non ottenne risultati: prese a girare attorno alla casa, ed era al terzo giro quando notò un movimento dietro la finestra al terzo piano. Si fermò di colpo, concentrandosi su quel vetro, perché la finestra era quella della camera di Sara.
Fece per tornare alla porta e ricominciare a bussare, ma poi cambiò idea e cominciò a issarsi sull’albero alla sua sinistra: in pochi minuti riuscì a raggiungere l’altezza del terzo piano, si fermò in ascolto e quando sentì un rumore soffocato provenire dall’interno non si trattenne più.
Cominciò a battere con il pugno sul vetro e man mano che non arrivava risposta aumentava il battito regolare, rendendolo sempre più forte e costante. Dopo non molto sentì uno spostamento d’aria e si accorse che avevano aperto leggermente la finestra: con un piccolo salto si ritrovò fuori la camera e spingendo il vetro fece per entrare.
La stanza era sommersa nel buio e quando mosse un passo, quasi cadde perdendo l’equilibrio per colpa di un qualcosa per terra: capì che era un qualcuno, che era Sara, quando ne avvertì il respiro affannato. Si piegò immediatamente sui talloni, mettendosi quasi in ginocchio: l’occhio cominciava ad abituarsi a quella penombra e riuscì a distinguere meglio la figura di lei, rannicchiata ai piedi del letto, con le ginocchia strette al petto e il corpo squassato dai singhiozzi.
Non riusciva a vederle il viso, nascosto sulle ginocchia, ma anche solo vederla tremare a quel modo, in maniera irrefrenabile e incontrollata, riuscì a stringergli il cuore togliendogli il respiro.
Prese posto di fianco a lei, avvolgendola con un braccio, ma Sara si allontanò continuando a piangere. Federico tornò ad avvicinarsi e con due dita le sollevò il volto.
Si ritrovò a fissare lo sguardo in due occhioni celesti diventati quasi liquidi tante le lacrime che contenevano. Se anche quell’acqua li rendeva ancora più belli, allo stesso tempo le rigava il volto e bagnava i lunghi capelli neri, riuscendo solo a far desiderare a Federico che sparisse al più presto.
- Cos’è successo?-
Lei scosse la testa in risposta, tentando di distogliere lo sguardo ma lui non glielo permise, continuando a porgerle sempre la stessa domanda, fino a quando Sara non prese un bel respiro, e cercando di controllare il tremore che la agitava rispose balbettando:
- Sono incinta-

 

*

 

Rieccomi!!

Vi siete già stancati, vero? 

No! Non scappate! xD  Non è così la storia... cioè non posso dire niente, veramente, ma vi assicuro che è diversa da qualunque cosa possiate star pensando. 

In fondo dovete pur tener conto che è ancora solo il prologo ^^

Ad ogni modo un bacio a tutti e ....

... alla prossima!

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Capitolo 3
*** Coprifuoco ***


coprifuoco

Too much to say

 

Coprifuoco

 

 

- Dite che si presterebbe?-
Penelope se ne stava seduta buona e rilassata sulle gradinate: prendeva di tanto in tanto una manciata di popcorn dal cestello dell’amica e guardava la partita che si svolgeva in campo.
Era l’ultimo quarto di tempo, quello più importante e sebbene fosse solo un’amichevole entrambe le squadre ci stavano mettendo tutte le loro forze. Per quanto Penelope si sforzasse di concentrarsi unicamente sullo scambio della palla in campo, veniva ripetutamente distratta dai commenti di un gruppo di ragazze sedute poco lontane da lei: non le conosceva e probabilmente erano venute a sostenere l’altra squadra. Non le stavano simpatiche però, per niente. All’inizio era stata una semplice impressione ma da quando avevano aperto bocca era diventata certezza.
Erano tutte intente infatti a fare apprezzamenti da oltre mezz’ora su un giocatore in particolare: un ragazzo alto, magro ed al tempo stesso muscoloso, con dei corti capelli neri; era della squadra di casa, quella a cui Penelope era andata a fare il tifo.
Si trovava in posizione centrale: era il playmaker, e alla fine del secondo tempo aveva fatto l’errore di togliersi la maglietta a mezze maniche nera, provocando nel gruppo di gatte in calore un violento attacco di gridolini isterici.
Alle urla erano poi seguiti i sospiri e quindi erano iniziate le domande e i commenti.
“Ma quanti anni avrà? Io dico massimo trenta!
Dio mio ma è un angelo! Quasi vado e gli salto addosso!
Secondo voi come si chiama? Glielo andiamo a chiedere?
Dite che in palestra ci va tutti i giorni? Cioè per avere addominali così!
Deve sicuramente essere uno stronzo però, di quello che fa soffrire le donne…
E se pure fosse? Io uno così lo aspetterei fuori per stuprarlo, ragazze!
Ma dai! Avrà tipo dieci anni più di te!
E allora? Con uno così…”
Penelope aveva cercato di non ascoltare, ignorando quelle frasi, fingendo di non sentire, ma non era facile: soprattutto non quando erano riferite a lui.
Anna al suo fianco se la rideva della bella: divertita tanto dal gruppo appena sotto di lei, quanto dalle reazioni irritate e scocciate dell’amica. Quando quest’ultima le rivolse uno sguardo biasimevole e pieno di risentimento Anna fece spallucce e con un sorriso rispose:
- Dai Penny! Alcuni erano proprio divertenti: “lo stuprerei…” roba da pazzi!-
Penelope sorrise di rimando, cercando di imitare l’amica e rimanere indifferente.
Lanciò un’occhiata al gruppo in preda ad una piena crisi ormonale e si chiese se fosse il caso di alzarsi e andare lì da loro per rispondere sfacciatamente alle loro domande:
“Ha trentadue anni, si chiama Federico. Non è uno stronzo, non di quelli pesanti almeno. E no, in palestra ci va solo tre giorni la settimana”
Ma probabilmente non era il caso di rispondere, assolutamente no. Perché a quel punto non era più sicura che si sarebbe fermata dopo aver dato quelle informazioni: probabilmente avrebbe continuato, arrivando anche ad insultarle e la cosa non sarebbe certo finita bene.
Con un sospiro perciò riprese a guardare la partita, cercando di capire cosa stesse succedendo: lo sport non era mai stato il suo punto forte, non ne capiva quasi niente. Di tutto quello che era successo fino ad allora ad esempio, aveva solo afferrato che era la loro squadra ad essere in vantaggio. Per il resto: falli, punizioni, tiri da tot punti… aveva semplicemente imitato le reazioni di Anna: esultando e scuotendo la testa quando lo faceva lei.
Non la divertiva per niente starsene lì, ci era andata solo perché sentiva di doverlo fare: quella sera giocava lui, e ci sarebbe potuto rimanere male se non si fosse presentata. Perciò con grande entusiasmo da parte di Anna, quel sabato sera erano nella palestra pubblica, a rifarsi gli occhi con i giocatori in campo. Certo anche Penelope ci godeva, seppure giusto un tantino, ma di sicuro non si sarebbe mai comportata come stavano facendo quelle ragazze!
O almeno non nei confronti di lui, aggiunse fra se e se, sorridendo della piega assurda che avrebbe preso la situazione in quel caso. No, assurda era troppo poco…
Scoppiò a ridere quando vide il playmaker ed un suo amico fare in contemporanea un gestaccio alle spalle dell’arbitro: non capendone il perché diede una gomitata all’amica che ghignando si limitò semplicemente ad annuire in direzione dei due giocatori.
- Hanno fatto bene, e l’arbitro si meritava anche di peggio-
Penelope mise altri due popcorn in bocca, facendo gli occhiacci alle ragazze che avevano cominciato ad applaudire come delle ossesse in direzione del playmaker. Non sopportava le assatanate come quelle, ma non sarebbe mai scesa al loro livello.
Quando poi sentì una delle oche cominciare a descrivere le cose ben poco carine e puritane che avrebbe voluto fare con lui, Penelope non ce la fece più: si alzò in piedi e prese Anna per mano.
Tirandola giù per le scalinate disse, serrando i denti e alzando gli occhi al cielo:
- Andiamo al cinema-
Non fece caso alla risata di lei, né al nervosismo che rischiava di traboccare se non se ne fosse andata subito via di lì.
Si avvicinò al campo di gioco e fece per avvicinarsi alla linea bianca quando si sentì tirare per mano: voltandosi vide davanti a sé il viso lentigginoso e sorridente di Lorenzo, lo stesso giovane che poco prima aveva mandato l’arbitro a quel paese assieme al playmaker.
Il ragazzo si tamponò il sudore con un’asciugamani bianco e sorrise a Penelope, soffiando allo stesso tempo verso l’alto così da far sollevare l’enorme massa di capelli rossi e ricci.
- Vuoi che ti chiami Fede?-
La ragazza scosse la testa, accennando al fatto che fosse troppo impegnato e parlò con lui:
- No, non ti preoccupare. Solo digli che vado con Anna a…-
Un fischio lungo e acuto le troncò le parole: si girò vedendo l’arbitro chiamare un time-out, e trasalì quando sentì due braccia muscolose avvolgerle le spalle.
Piegandosi riuscì a liberarsi dalla stretta e ridendo si allontanò da Federico: era fradicio, con i capelli completamente bagnati ed appiccicati sulla fronte. Indossava solo un paio di jeans a vita bassa e delle scarpe da ginnastica bianche e nere.
Guardò Penelope e un enorme sorriso gli illuminò il volto, creandogli due piccole fossette ai lati della bocca. Alzò l’avambraccio, passandolo sulla fronte e asciugando alcune delle goccioline che gli imperlavano il viso, salutò anche Anna che arrossì sotto il suo sguardo.
Ma Federico non se ne accorse, concentrato sull’espressione di Penelope: fece per chiederle qualcosa ma lei lo precedette.
- Andiamo via, non ti dispiace vero? Tanto sappiamo che vincerete-
Aggiunse l’ultima parte notando un accenno di delusione nello sguardo di lui, ma subito quel briciolo di tristezza scomparve, spazzato via da una risata divertita:
- Certo che no! Andate pure. Posso sapere dove?-
Penelope fece spallucce, rispondendo con indifferenza:
- Al cinema, credo. Se dopo vuoi raggiungerci lì…-
Il giovane scosse vivacemente la testa, e muovendo le mani davanti a sé, come per far capire che non fosse il caso, aggiunse veloce:
- No, certo che no! Divertitevi, mi raccomando. Ci vediamo a casa-
Un nuovo fischio, più breve questa volta, lo costrinse ad avviarsi di nuovo verso il campo.
Prima di tornare a girarsi però si ricordò un’ultima cosa: gridando, in modo da farsi sentire sopra il baccano da Penelope già lontana.
- E’ sabato, Penny! Puoi anche non rispettare il coprifuoco per una volta!-
Rimase a guardarla per un po’, accertandosi così che lei avesse sentito, e quando lei si voltò per salutarlo ne ebbe la conferma.
La sentì rispondere infatti, uscendo dalla palestra, e udendo quelle parole non riuscì a fare altro che sorridere:
- Ci proverò, papà!-

 

*

  

 

E rieccoci ^^

Che sono passati diversi anni da ciò che era  raccontato nel prologo immagino lo abbiate capito tutti xD

Altro purtroppo non posso dirvi…  spero che a qualcuno vada di continuare però **

Un grazie a tutti quelli che leggono ed un bacione in particolare a quelli che commentano: come sempre del resto =)

Alla prossima!

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Capitolo 4
*** Queer as folk ***


queer as fok

*

 

Queer as folk

 

 

- Vuoi salire?-
Penelope lo aveva chiesto soffocando uno sbadiglio con la mano, la voce era perciò giunta al quanto smorzata, Anna al suo fianco però capì lo stesso e scuotendo la testa avvicinò a sé l’amica tirandole un lembo della giacca; le rivolse un enorme sorriso incoraggiante e scoccandole già un bacio per guancia in segno di saluto rispose, stringendosi meglio nel cappotto.
- No, Penny: sono già in tremendo ritardo! Per quando arrivo a casa, trovo mio padre in poltrona ad aspettarmi con un fucile in una mano, puntato su di me, ed un orologio nell’altra. E mi sgriderà per ogni singolo minuto di ritardo, rifilandomi una predica infinita sulla mia sconsideratezza ed avventatezza-
Accorgendosi dell’espressione divertita di Penelope, Anna mise il broncio fingendosi offesa. Facendole una linguaccia continuò imperterrita:
- Io non sono fortunata come te, sai? Mio padre non mi prega di fare tardi, e quando torno non mi guarda con i suoi magnifici occhioni dicendomi amabile: “Dolcezza, già a casa? Ti sei divertita?”-
Sentendo Anna fare l’imitazione del padre, Penelope non riuscì più a trattenere le risa e fra un mezzo singhiozzo e l’altro, con un accenno di lacrime agli occhi ribattè:
- Non dice sempre così! Ogni tanto mi propone anche di uscire di nuovo: teme non mi diverta abbastanza-
Avrebbe continuato su quel tono scherzoso, prendendo bonariamente in giro l’amica, ma rendendosi conto di come Anna fosse realmente invidiosa, decise di smettere e sorridendole aprì il portone del palazzo,
aggiungendo solamente:
- Domani ci vediamo?-
Anna si era già avviata lungo il marciapiedi, camminando all’indietro, e facendo cenno di no con la testa rispose, alzando al contempo le spalle:
- Non lo so: dipende sempre dalle decisioni del grande capo! A mali estremi ci vediamo a scuola lunedì! Notte Penny-
Penelope annuì comprensiva in risposta e salutandola con la mano sparì all’interno del portone.
Chiamò l’ascensore, ma si scocciò quasi subito di aspettarlo e decise di salire per le scale. Erano tre rampe, ma pazienza: almeno avrebbe fatto esercizio ed evitato allo stesso tempo di cedere al sonno.
Non fece caso salendo alle ricche decorazioni dei vari piani né ai tappeti prestigiosi che ricoprivano i pavimenti: ci era abituata, conosceva ogni millimetro del suo palazzo e neanche i bellissimi quadri che tanto adorava, quelli appesi ad ogni angolo di piano, riuscivano ad attirare la sua attenzione in quel momento. Stava letteralmente crollando.
Quando raggiunse la porta dell’appartamento: l’ultimo in alto, alla fine del corridoio, sorrise felice di essere arrivata. Premette il dito sul campanello, bussando più volte, ma la porta non si aprì. Continuò ad insistere ancora per un po’, quasi per dispetto, con il vago sospetto che lui fosse o sotto la doccia o appisolato da qualche porta, ma non venne nessuno. Scuotendo la testa affranta, si poggiò con le spalle al muro, scivolando lentamente fino a trovarsi seduta sul pavimento.
Con un sospiro si fece forza e cominciò a cercare le chiavi all’interno della borsa: impresa molto ardua, tenendo conto dell’infinità di cose che ci teneva. Rovistò per qualche minuto, scartando e muovendo le dita velocemente, rovistando fra fogli, gomme, oggetti di dubbia identificazione ma non sentì niente di metallico. Stava per perdere le speranza di riuscire a trovarle, quando venne distratta dal suono delle porte dell’ascensore che si aprivano: girò il viso lentamente e vide Federico venirle incontro tutto sorridente.
Penelope aggrottò la fronte, capendo finalmente come mai nessuno le avesse aperto e gli rivolse un’occhiata di rimprovero. Fece anche per mettergli il broncio, ma come al solito non ne ebbe il tempo: lui infilò la mano nella tasca della giacca di pelle e rapido agitò fra le dita le chiavi di casa, ridacchiando dell’espressione contrariata della figlia. Avvicinandosi di più le allungò una mano che lei afferrò prontamente, alzandosi aiutata da lui. Ebbe un attimo di incertezza mentre non ritrovava l’equilibrio e lui con gesto fermo la prese sottobraccio, chiedendole poi in tono quasi cospiratorio all’orecchio:
- Sono in ritardo?-
Non attese risposta e ridacchiandole vicino al collo aprì in un istante la porta, entrando e tirandosi Penny dietro, si diresse quindi verso l’interruttore sulla parete sinistra ed accese la luce.
La fievole illuminazione rischiarò l’ambiente, mostrando un appartamento non troppo grande: entrando ci si ritrovava nel salotto, arredato con dei grandi divani blu, un televisore a schermo piatto decisamente enorme e librerie strapiene. Sulla sinistra c’erano poi la cucina, con il piccolo tavolo rotondo e la porta del bagno. Per concludere, sulla destra, le porte delle due camere da letto.
Forse era piccolo e niente di eccezionale, reso ancora più assurdo nell’insieme dal disordine incredibile che vi regnava perennemente ma Penny lo adorava incondizionatamente.  
Era la sua casa e non l’avrebbe mai cambiata con niente al mondo: era confortevole ed accogliente, il suo rifugio in qualche modo: non avrebbe nemmeno saputo dire come mai, forse per via del parquet e dei tappeti, o delle finestre che di giorno facevano entrate tanto sole da illuminarne ogni angolo, o del camino inverosimilmente sempre acceso. C’era un qualcosa comunque, che la rendeva unica.
E questo le bastava.
Penelope si tolse lentamente il giubbino, con un gesto quasi svogliato, gettandolo poi sul mucchio già presente ai piedi dell’attaccapanni: dicevano sempre che prima o poi li avrebbero posati decentemente, purtroppo era sempre il poi ad avere la meglio. Non ci faceva quasi più caso ormai.
- Che hai fatto di bello?-
La voce del padre gli era giunta smorzata, lo cercò con lo sguardo trovandolo poi che usciva dalla sua camera: si era già cambiato e giusto ora stava indossando un’enorme felpa a righe bianche e nere che lo faceva rassomigliare vagamente ad un carcerato. Quando la testa riuscì a trovare il foro di uscita Penelope incrociò il suo sguardo divertito ed al tempo stesso indagatore. Con un sospiro si avviò verso il bagno: per tutto il tragitto strusciò i piedi, troppo stanca anche solo per sollevarli.
- Ma niente… racconta prima tu, che quello che fai è sempre più interessante, chissà come mai-
Sentì la risatina del padre anche quando aperta l’acqua cominciò a sciacquarsi il viso, risollevò poi gli occhi sentendolo avvicinarsi e vide il suo riflesso nello specchio: se ne stava appoggiato allo stipite della porta porgendole i vestiti di ricambio. Lei li prese riconoscente e con un sorriso gli fece cenno di girarsi, lui continuando a ridacchiare uscì dalla stanza tornando in salotto ed alzando la voce rispose, facendole anche il verso scherzosamente:
- Ma niente… finita la partita, che per inciso abbiamo vinto alla grande, sono andato con i ragazzi a festeggiare al solito bar: ci siamo presi qualche drink e fatto un po’ di casino al solito. Quando poi Danilo ha cominciato a fumare erba ho capito che era il momento di lasciarli-
Penelope uscì in quel momento dal bagno, con indosso solo la felpa che lui gli aveva portato: un’enorme ammasso celeste con sopra una vignetta di Snoopy. Prima era di Federico ma ben presto lei se ne era appropriata, ed erano anni ormai che la usava come pigiama: le arrivava alle ginocchia ed era estremamente morbida e pelosa, tutto quello che si poteva desiderare perciò.
A piedi scalzi si avvicinò a lui, sedendosi a gambe conserte al suo fianco: gli prese l’attizza fuoco dalle mani, aggiustando il macello che stava combinando, quindi gli sorrise alzando allo stesso tempo gli occhi al cielo. Sbuffando si portò una ciocca di capelli dietro l’orecchio:
- Non voglio che ti senta obbligato a tornare lo sai: me la posso cavare benissimo da sola. Certo non sarei nemmeno entusiasta se fumassi con quegli sconsiderati dei tuoi amici, ma non è per me che…-
Federico non le permise di continuare, negando con il capo e ridendo sommessamente:
- Non ho intenzione di bruciarmi i pochi neuroni che ho facendomi di marijuana, dolcezza. E poi, potevo mica lasciarti disperata fuori casa?-
- Le avrei trovate le chiavi, lo sai-
Avrebbe voluto aggiungere altro ma un nuovo sbadiglio la interruppe: Penelope sorrise fra se e se e vedendo che era già passata la mezza fece per alzarsi:
- Sai che? Vado a letto, non mi reggo più in piedi-
Federico sgranò gli occhi, sentendoglielo dire e l’afferrò rapido per il polso, ribattendo vivacemente:
- Ma come? No! Non mi fai compagnia? Stasera danno la maratona di Queer as Folk! Dai… manca solo mezz’ora! Avevo anche messo a fare i popcorn!-
“Pà… non ce la faccio proprio”
Avrebbe voluto dire, non lo disse però: gli occhioni a cucciolo di lui, il bip dei popcorn pronti e la mano di lui che la tirava verso il divano glielo avevano impedito. Senza nemmeno sapere come si ritrovò così affondata nei cuscini blu, avvolta da una coperta di pile, con un cestello enorme di stuzzichini in grembo.
Federico le si fiondò affianco dopo pochi istanti: accese il televisore, sintonizzandosi sul canale giusto e sistemandosi per bene avvolse le spalle di Penny con un braccio.
Se anche aveva ancora un qualche briciolo di tentennamento, appoggiandosi del tutto contro il padre capì non sarebbe poi stata tanto male nemmeno lì e senza più protestare si fece piccola piccola abbracciando il cuscino.
- Me lo dici che avete fatto tu ed Anna?-
Penelope sorrise sollevando il viso quel tanto che serviva a parlare:
- Cinema-
- E…-
- Basta-
Sentì il petto del padre muoversi su e giù scosso dalle risate e con un sospiro nervoso gli mollò un pizzicotto sul fianco, per poi continuare in tono seccato:
- Non ridere! Anna ha un coprifuoco da rispettare e che dovevo fare io? Continuare a girare da sola?-
Federico continuò a ridacchiare, interrompendosi per ribattere divertito:
- Ma come devo fare con te? Io alla tua età… no meglio che non te lo dico, guarda! Bimba ma perché non mi hai chiamato? Ti portavo dove volevi! Certo se non ti vergogni ad andare in giro con il tuo vecchio-
Penelope sbuffò in risposta e girandosi per guardarlo in viso, spintonandolo giocosamente rispose:
- Vecchio, sì! Dai lo sai che a me basta così: hai visto che mi stavo addormentando prima, non avrei retto di più. Piuttosto tu devi…-
- Aspetta!-
Federico l’aveva interrotta di botto, spalancando gli occhi come se si fosse improvvisamente ricordato qualcosa: picchiettandole con il dito sulla spalla, come faceva quando ci teneva a sapere una cosa.
- Perché ve ne siete andate dalla partita? Eravamo sul finale!-
Penelope fece per girarsi afferrando il telecomando dalle sue mani ed alzando il volume:
- Sta iniziando-
Bisbigliò, sperando di riuscire a distrarlo ma sapeva che era una battaglia persa: il padre si riappropriò del telecomando, togliendo l’audio e costringendola a guardarlo. La fissava con aria supplice, con l’espressione da cane che vuole il biscottino, quella che sapeva funzionava sempre.
- C’erano delle gatte in calore che mi davano sui nervi-
Lo aveva detto in un soffio, mormorandolo fra i denti, sperando quasi che lui non capisse. Invece capì benissimo e poco ci mancava che si mettesse a saltare anche sul divano dall’esaltazione:
- Davvero?! Oh, che bello! Lo devo dire ai ragazzi, ci moriranno! E…-
Penelope aveva rimesso il volume, testardamente, cercando di non ascoltarlo e l’entusiasmo di lui allora scemò un poco: stringendola di più mormorò:
- Ehy dolcezza scusa, lo so che ti da fastidio. Non ci devi pensare però, solo che a un padre vecchio come me certe cose fanno piacere!-
- Non mi danno fastidio-
Lo disse senza nessuna convinzione, sapendo che lui la capiva benissimo e solo per ripicca gli pizzicò di nuovo un fianco:
- Stai mettendo su pancetta sai?-
Non era per niente vero, tanto lo sapeva lei quanto lui, eppure Federico incassò il colpo condiscendente.
- Che dici?! Allora dobbiamo andare a correre insieme! Domattina ci svegliamo presto, sì?-
Penelope ridacchiò al suo immancabile entusiasmo che sembrava non scomparire mai, e scuotendo la testa si allungò sul divano stendendosi meglio e usando lui come cuscino. Con il viso quasi completamente immerso nella felpa di Federico rispose:
- Non ci penso proprio, pà-

 

 

*

Ehilà ^^

Sono in ritardo vero? A ritornare però, prima o poi ritorno sempre xD  Purtroppo per voi oserei dire!!

Allora....  non lo so cos'è che sta uscendo fuori da questa storia e sentire i vostri pareri mi farebbe un enorme piacere:  ho un' autostima sotto terra e sono patologicamente indecisa, quasi ogni giorno mi viene infatti l'impulso di cancellare tutte le storie che mi intestardisco ad iniziare, poi però qualcosa mi blocca... e spero con tutto il cuore che sia questo qualcosa di indefinito che non vi fa passare la voglia di leggere **

Grazie come sempre, e alla prossima...

si spera a breve ^^  

Un bacione!

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