Il mondo là fuori

di Melitot Proud Eye
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Non sarai mai più lo stesso ***
Capitolo 3: *** Sulle silenziose ali della libertà ***
Capitolo 4: *** Dispersi ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


[edit del 19/09/2011]
Nota n° 1: saalve! Scommetto che ormai non ci contavate più, vero? Ma come al solito sono imprevedibile.
Nota n° 2: la storia ha partecipato, coi primi quattro capitoli, al concorso Storie incompiute indetto da Solly [edit 11/12/11] e giudicato da Kukiness, classificandosi PRIMA =D Trovate il giudizio in fondo alla pagina! Se vi state chiedendo perché non sembri più la stessa, sappiate che volevo correggere qualcosa qua e là in vista delle valutazioni. Risultato? Alla fine il Demonio dell'Edit ha colpito ancora e l'ho rivoluzionata ^^; Non mi piaceva più, e non voglio proporre agli altri cose di cui sono insoddisfatta.
Ho cambiato il titolo e aggiunto un prologo. Le mie scuse ai recensori i cui commenti son finiti cancellati: nel rimaneggiare ho eliminato un paio dei vecchi capitoli.
Comunque spero apprezziate anche questa nuova versione e... guardate il lato positivo: così ci sono concrete possibilità che la finisca =)

Un giorno.
Nota n° 3: per la caratterizzazione dei ragazzi mi sono basata principalmente sull'anime, cercando di trovare una "terra di mezzo" fra Bakuten Shoot e G-Revolution. Spero di organizzare per i nostri DB un'evoluzione caratteriale credibile e naturale.
Nota n° 4: per rinfrescarmi la memoria, naturalmente sono andata a rivedermi le due serie, e... mio Dio... le cose che guardavo a quindici anni XD; Non fraintendetemi, per il suo target d'età è un anime fatto benissimo, ormai sono affezionata ai personaggi (Takao Aoki è stato creativo, in fondo, e i curatori dell'anime hanno alzato parecchio il tono) e alla trama, però ha delle uscite di un'immaturità allucinante XD Troppe, per una vecchietta come me! Fortuna che posso riempire un po' di plotholes e raddrizzare un po' di schiene con le fanfiction :9


Avvertimenti: incidente aereo, qualche parolaccia per colpa di Ivan e Boris.







Il mondo là fuori






Prologo



Ascoltarono il boato dello stadio senza fiatare. Solo Yuriy, con la mano che tremava, riuscì a vedere oltre la disfatta.
Perso. Il palco di Vorkov era vuoto. E vinto.
Strano pensiero oltre la foschia dei farmaci e dei solventi – il tramontare di un obiettivo rincorso per tutta la vita, in un cambio catalitico di prospettiva. C'era un altro mondo, fuori dal monastero: un mondo libero e pieno di alternative, che poteva svincolarli da quell'esistenza militare.
Strinse Wolborg nel pugno. Uno sport pulito. Amici. Dignità.
Si tolse dall'orecchio un minuscolo auricolare, lo lasciò cadere e seguì i suoi rimbalzi sul pack creatosi durante l'incontro. Poi si volse e attraversò la distesa di ghiaccio, allontanandosi dal bey stadium. Ivan e Boris erano in piedi davanti alla panca; gli vennero incontro, pallidi per la rabbia e lo shock. Da una grande distanza, sentì di provare lo stesso. Forse.
«Che facciamo, ora?»
«Io ho un po' di cose da chiarire» disse, accennando al logo della Borg. «E voi?»
Sulla strada dell'uscita trovarono Kei Hiwatari, braccia conserte e faccia meno lugubre del solito, appoggiato a una parete. Yuriy si fermò, indeciso (spaccargli la faccia o ringraziarlo?).
«Siete sicuri di voler tornare? Vorkov non verrà denunciato, per ora.»
«Sul serio?» rispose, cauto.
«Hanno in programma di perquisire il monastero, appena arrivano i permessi. Ma potrebbe volerci del tempo.»
«Ti stai preoccupando per noi?»
La frecciata cadde nel vuoto. «Vorkov ha molto di cui rispondere... e pochi scrupoli.»
«Neanche due settimane e sei già un esperto. Incredibile. Ma non pensi al nome della tua famiglia?»
Finalmente, sul volto di Hiwatari comparve l'irritazione. «Se un giorno dovessero processare mio nonno, sarò in prima fila per farlo sbattere dentro. Quando tuo nipote non è abbastanza maturo da capire certe cose, non dovresti metterlo sulla strada del crimine.»
Yuriy inarcò le sopracciglia. «Già.»
«Già.»
Fra l'irritato e il perplesso, Yuriy capì che non si sarebbero detti altro e continuò per la sua strada.
«Farò sapere a Daitenji dove andate.»
Sorpreso, si voltò. L'altro ragazzo si era staccato dal muro e stava per avviarsi, ma gli rivolse un cenno del capo. Esitante, Yuriy entrò nella penombra degli spogliatoi.

La tazza cadde per terra, spargendo ceramica e cioccolata sul marmo. Un cucchiaio volò verso lo schermo dove scorrevano le pubblicità di fine campionato.
«Mio padre e Hiwatari non sono criminali! Sono solo soci in affari!»
Due ragazze si guardarono, preoccupate; decise.
«Già, ma quali affari?» disse una, togliendosi la frangetta azzurra dalla fronte.
«Ascolta, è per la tua sicurezza. Ti vogliamo bene, non ce la sentiamo più di–»
«Quindi l'avreste sempre saputo?»
«Sì... e ora le cose si mettono davvero male. Fidati di noi, Ya.»
La terza ragazza alzò la mano, scuotendo la testa. «Siete impazzite.»
«Ti mostreremo le prove.»
«Conosco il carattere di mio padre!» Il grido le uscì spezzato.
Squillò un cordless. Una cameriera prese la cornetta e rispose – poche parole che bastarono a farla impallidire. Quando la chiamata si concluse era sceso il silenzio.
«Signorina, il signor Vorkov dice che manderà un elicottero. Dovete prepararvi e portare via solo il minimo indispensabile.»
Un passo, un accenno di protesta; poi uno sguardo fisso nel vuoto, turbato.




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Ecco il giudizio di Kukiness:
La tua fanfiction mi è piaciuta un sacco. Il prologo e il primo capitolo hanno un ritmo totalmente diverso dal secondo e dal terzo capitolo. Quando ho iniziato a leggere, ammetto di non aver fatto i salti di gioia; le descrizioni erano belle, i dialoghi dinamici, ma per la maggior parte erano scene da Covo Segreto tipiche dei film d’azione, gente che commentava cose già successe e piani andati in vacca, cose che ti prendono bene dopo che hai visto le cose succedere e i piani andare in vacca, ma cominciare con una conversazione da Covo Segreto... insomma, non è proprio il modo migliore di gettare il lettore nell’azione. Mi sono assolutamente dovuta ricredere con i due capitoli successivi. I primi due erano solo una tranquilla introduzione a un brusco cambiamento di ritmo, un accompagnamento leggero, una specie di antipasto, e il piatto forte è forte davvero. Mi complimento per lo stile: è dinamico, visivo e coinvolgente. Hai una cura eccezionale per il dettaglio (stupidaggine, ma tipo il dialogo tra Yuriy e la hostess: è quel genere di cose apparentemente semplici, ma che secondo me rendono strabene dettagli di caratterizzazione e di atmosfera). L’incidente aereo in sé è gestito molto bene: lessico specifico per descrivere le varie parti dell’aereo, una certa cura per il ritmo, la sintassi che scandisce la concitazione, espressionismo a go go e un sacco di altre cose sfiziose che mi hanno proprio soddisfatta.
Un paio di note di coda.
Va bene cambiare punto di vista di scena in scena, ma le tue scene sono davvero troppo brevi, soprattutto nell’ultimo capitolo. Capisco la necessità di rendere la concitazione, ma troppi slittamenti di punto di vista rischiano piuttosto di creare confusione. Meglio pochi ma buoni, almeno secondo me.
Attenta alle riformulazioni. Già i personaggi hanno nomi stranieri, se ci aggiungi le riformulazioni è ancora più difficile inquadrare chi parla e chi agisce. I continui cambiamenti di punto di vista non aiutano.
Comunque, per me la tua fanfiction merita il primo posto. Lo merita per lo stile originale, per il dinamismo delle descrizioni, per il realismo dell’azioni e per il modo in cui sei riuscita a rendere la concitazione e l’ansia, grazie a un misto intelligente e ragionato di lessico, sintassi e dialogo.


Thank you \=D/ *feliz*

DISCLAIMER: non posso vantare diritti su Beyblade, né in versione manga né in versione anime. Come dite? Dovevo esser più fantasiosa? Ehh... vado di fretta :p

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Capitolo 2
*** Non sarai mai più lo stesso ***


Nota: capitolo partecipante allo Storie Incompiute contest di Solly.




Capitolo I
Non sarai mai più lo stesso



Voglio bere
per tergere tutta la polvere e lo sporco dalla mia gola
per lavar via il sozzume nelle mie viscere.
Dunque lasciateci bere—lasciateci ridere—lasciateci andare.”

Genesis



Tap. Tap. Tap.
Nevica. Ancora un po' di pazienza.
Tap. Tap. Tap.
Chi pensa che il condizionamento di tutta una vita si possa annullare in un'ora è un povero pazzo.
La porta dell'ufficio si spalancò, proiettando una lama di luce nella penombra. Seduto alla scrivania, circondato da valigette, Vorkov smise di battere la punta della penna sul legno e si sfilò le lenti rosse.
«Vi aspettavo, ragazzi.» Sorrise. «E sono certo che non mi deluderete più.»

Mosca era angariata da una tormenta di neve.
La coltre turbinante sommergeva il Cremlino, vorticava intorno alla Piazza Rossa e s’accumulava agli angoli delle strade, tramutando la città in una cartolina degli anni Cinquanta. Un solo edificio restava intoccato dall'aria fiabesca. Era l'antico monastero dove si diceva avesse complottato Gregorij Efimovič Rasputin; di recente, due criminali avevano condotto fra le sue mura esperimenti terribili, con l'obiettivo di conquistare il mondo. Il giorno della loro sconfitta, informazioni preoccupanti erano trapelate agli organi di sicurezza russa.
Da quel momento eran trascorse quasi dodici ore: i servizi segreti, rallentati dalla bufera, s’apprestavano a fare irruzione col favore della notte.
All'improvviso, un elicottero di tipo militare decollò dal monastero e si aprì la strada fino al cielo. Nonostante la forza del maltempo riuscì a prendere quota e scomparve, ignaro. Un trio di ragazzi osservò dall’attico. Erano bladers, volti assorti nel limbo tra prigionia e libertà.
‹‹Cosa fa là sotto?›› chiese il più piccolo, fissando una sagoma ritta nella neve del cortile.
‹‹Riflette sulla decisione da prendere.››
‹‹Ancora, Boris?››
‹‹Possiamo anche capirlo›› intervenne il terzo. ‹‹Lui si è giocato molto più dell’infanzia, per questo progetto.» Finse d'attaccarsi un elettrodo. «Ma ora sa... e Yuriy non è tipo da ignorare l'evidenza.››
‹‹Ascoltate›› disse Boris, torvo.
Raggiunse la finestra, girandosi a favore degli spifferi; poi la aprì, scardinando il vecchio telaio. Gli altri gli si affiancarono.
‹‹E’ il portone.››
‹‹Cos'è questo rumore? Sembrano–››
«Trapani silenziati. E rampini sulle mura.»
Il sistema di sicurezza lanciò un allarme.
‹‹...Kei aveva ragione. Arrivano.››
Di sotto Yuriy correva già attraverso il cortile, in direzione dell'ingresso.

Ignorando le turbolenze del volo, che spargeva dappertutto la sua vodka, Vorkov rivisse ogni preparativo, ogni imprevisto risolto e maledisse la sorte che gli era stata avversa. La situazione era più che incerta: dovevano consolidare le basi dell'organizzazione, sparendo dai riflettori per un po'.
‹‹Calma›› si disse. «Non tutto è perduto.»
Qualche notizia poteva esser fuggita, le autorità potevano sospettare, ma le prove erano ben nascoste e quello sciocco di Daitenji non li avrebbe denunciati. Era un frangente da sfruttare.
In quel momento, nel cielo comparve un secondo elicottero. Dopo i segnali convenuti s’accodò.
Atterrarono presso una base mimezzata nella tundra siberiana; uomini della sicurezza e guardie personali uscirono e si disposero intorno alla pista d’atterraggio. Vorkov scese per primo, attese che le portiere del secondo velivolo s’aprissero, poi avanzò spalancando le braccia.
‹‹Mia cara matrioska. Hai fatto buon viaggio?››
Scese una ragazzina filiforme, vestita di verde, che gli andò incontro con cautela. Il ganster la guidò con decisione alla limousine. Quando furono fuori portata d’orecchi le ringhiò un insulto.
‹‹Perché non è venuta? Avevo detto che la volevo qui.››
La ragazzina chinò il capo. ‹‹E’ stata male, eccellenza.››
Dovette forzarsi la mano per non lanciarla sul sedile. Sua figlia non gli aveva mai disobbedito – non ne aveva motivo: la vezzeggiava come vezzeggiava il proprio futuro. Perché ora sì? Una delle sostitute aveva cantato? Quello poteva essere un problema, e lui ne aveva fin sopra i capelli, di problemi.
Distratto, impiegò un po' di tempo per notare che il numero di uomini in nero aumentava. Corrugò la fronte. Forse l’assenza della sua erede non era un male.
Del resto si sarebbe occupato dopo.

Quando videro Yuriy avanzare con passo sicuro nella neve, le guardie dell'ingresso si tirarono da parte. Il capo-divisione gli rivolse un cenno e, rapido, chiamò cinque dei suoi uomini. «Stanno cercando di entrare anche nel settore D. Contenimento totale!»
«Allarme nel settore F!» gridò qualcuno.
«Tutti gli uomini non impegnati nel settore B, accorrere!»
Mentre la milizia non guardava, Yuriy alzò Wolborg controvento, lo agganciò al lanciatore e tirò. Al suo grido di battaglia, i compagni irruppero sulla scena e un lupo di ghiaccio e d'argento travolse gli uomini di Vorkov.

La sala giaceva nella più profonda oscurità, fatta eccezione per un rigagnolo di luce che filtrava dall’occhio della cupola e illuminava dense volute di fumo. Al centro s'intravedeva un tavolo ovale.
‹‹La situazione è grigia, amici miei.››
‹‹A me sembra più nera›› commentò una voce, sarcastica. Seguì un mormorio.
‹‹Calma, signori. Il progetto B è stato inizializzato e procede. Tutto era stato programmato.››
‹‹Credevo che la sconfitta non fosse contemplata, Vorkov.››
Una risata. ‹‹Non siamo degli stupidi: ogni possibilità era stata vagliata e un modello d’azione approntato. E' ora che abbiamo più bisogno gli uni degli altri.››
‹‹Ma come dice una vecchia favola›› raspò una voce dal fondo ‹‹guai al lupo che rimane solo.››
‹‹Hiwatari, abbiamo bisogno di ben altro che di favole giapponesi. Le società che noi rappresentiamo vogliono garanzie, guadagni; l’unica cosa visibile, finora, è stata la sconfitta del suo decantato pupillo ai campionati mondiali.››
Dall’oscurità provenne un cozzare di denti. ‹‹Non tollererò quest'insolenza. Noi abbiamo ancora i più forti bladers del mondo!››
‹‹Lo provi.››
Nel silenzio che seguì alcuni si mossero sulle loro poltrone, a disagio. Sotto la facciata dell’accordo – lo sapevano – strisciava il ricatto.
‹‹Fate bene a pensare quel che state pensando›› rise la voce del vecchio Hiwatari, secca. ‹‹Ho ancora le prove dei vostri passatempi. Il governo russo sarebbe molto felice di riceverle.››
‹‹Brutto bast–››
‹‹Restiamo calmi›› comandò una voce baritonale. ‹‹Spieghi il suo piano, Vorkov.››
Vorkov attese il segnale, poi accese uno schermo. Iniziarono a scorrere immagini di combattimenti, bit-beasts e macchinari, utti corredati di note.
‹‹Abbiamo reso le nostre intenzioni troppo accessibili a orecchie indiscrete. Collaboratori hanno parlato, voci son trapelate. Ma l'errore più grande è stato iscrivere la nostra squadra di cacciatori a un campionato esterno: i ragazzi sono entrati in contatto con influenze malsane e la situazione ci è sfuggita di mano. Per riavviare le cose, è necessario controllare il campo da gioco.››
‹‹In poche parole, state dicendo di…››
‹‹Creare il primo campionato professionistico di beyblade. Promosso da noi, gestito da noi, vinto da noi.››
‹‹E’ questo che farà la BEGA›› aggiunse Hiwatari.
‹‹Professionismo? Per delle trottole? Ridicolo.››
‹‹Vedremo.››
‹‹E con quali bladers pensate di realizzarlo?››
‹‹I Demolition Boy ci sono ancora fedeli!››
La voce sarcastica tornò a farsi sentire. ‹‹Andiamo, Vladimir. Sa meglio di me quanto la sconfitta abbia sconvolto i suoi piccoli fauni, e soprattutto scosso le loro convinzioni. Quell’Ivanov mi è sembrato molto amichevole nello stringere la mano del Bladebreaker, per essere un mezzo cyborg.››
‹‹Non rinuncerò mai al mio progetto›› ringhiò il presidente della Hito.
‹‹La fiducia dei ragazzi è riconquistata» aggiunse Vorkov. «E se non dovessero vincere i propri limiti, dimostreremo che il mondo è pieno di bladers che attendono solo un’occasione.››
Ma non sarà necessario.
(Quattro orfani, cresciuti nelle loro mani; burattini forgiati nel fuoco.)
Non possono sottrarsi alla nostra educazione.
‹‹Tutto quello che vi chiediamo è compiacenza e discrezione. In questo modo, la base sarà operativa entro l’anno.››
Il mormorio che seguì parve un po’ più benevolo, ma la voce baritonale si schiarì di nuovo.
‹‹Non ci basta.››
Stavolta fu il vecchio Hiwatari a rispondere. ‹‹Non vi basta?!›› sbatté un pugno sul tavolo. ‹‹Avete le garanzie. Avrete i guadagni. Migliaia di sponsor! Chiedere di più è idiozia!››
‹‹Ma vede, Hiwatari, sebbene lei conosca certi episodi piuttosto imbarazzanti della nostra carriera, la sua posizione, dopo il campionato, si è fatta assai spinosa. Le parole della sua squadra hanno destato i sospetti degli organi di sicurezza internazionale. Si vocifera persino di un monitoraggio segreto da parte degli Stati Uniti. Capisce bene che continuare è un rischio.››
‹‹E i nostri nomi sono riconducibili alla Borg.››
Mentre il vecchio iniziava a straparlare, Vorkov strinse i pugni. Il mondo della malavita è fatto di compromessi, e chi non è abituato a restare indietro conosce l’amaro gusto della rinuncia. Quello era il momento di proporre uno scambio, per prendere tempo e accumulare i primi risultati. Ma cosa sacrificare? Le opere all’Ermitage, le terre in Alsazia, la villa di Kijev? Cosa poteva far più gola a quei bastardi?
Stava per aprir bocca quando la doppia porta si spalancò.
‹‹Signore!›› esclamò il capo dei messaggeri.
‹‹Cos’è quest’intrusione?›› abbaiò Hiwatari.
‹‹Perdonatemi, eccellenza–››
‹‹Spiegati!››
«Il monastero è stato perquisito e i Demolition Boys l'hanno consegnato alle autorità!››
Tutti si alzarono, esplodendo in un gran vociare – tutti tranne Vorkov, che sorrise, rilassandosi.
«Avevo previsto l'eventualità» disse appena fu tornata un po' di calma. «E i ragazzi hanno seguito le mie istruzioni alla lettera.»
Nella penombra riuscì a distinguere l'espressione stravolta di Hiwatari. «Come
«I miei laboratori?» chiese, ignorandolo.
«I-intatti, eccellenza. Ma–»
«Bene. Sedetevi, signori. E' tutto a posto.»
«A posto?» gridò il vecchio, spruzzando saliva. «In che modo una base persa e dieci anni di ricerche buttati nel cesso sono a posto?»
Vari grugniti d'assenso, irati, disgustati.
«Non sono persi» spiegò, sventolando brevemente una mano. «Consegnando il monastero e comportandosi bene per un po', i Demolition Boys conquisteranno la fiducia dello stato e potranno muoversi liberamente, recuperando terreno per noi. Un po' semplicistico, direte, ma più efficace di quanto si pensi. Del resto, la situazione era–»
«Eccellenza, perdonate» disse il messaggero, nervoso. «Non è tutto.»
Vorkov aggrottò le sopracciglia, ruotando la sedia a suo favore. «Sì?»
«I ragazzi... i ragazzi non hanno consegnato solo il monastero.»
«Che vuoi dire?»
«Yuriy Ivanov ha mostrato alla polizia gli archivi segreti, compresi» esitò «quelli delle ricerche e delle proprietà. Non sappiamo come li abbia trovati.»
Vorkov balzò in piedi.
«Quando abbiamo ricevuto notizie, andavano a porre sotto sequestro la vostra villa.»
Due passi e l'aveva sollevato per il bavero, nel silenzio attonito dei presenti. «E...?»
«E» deglutì l'uomo «la signorina era già stata allontanata.»
Rigido, Vorkov aprì la mano; il messaggero si afflosciò contro il muro.
Impossibile.
Tradito. Tradito di nuovo! Tutti i suoi calcoli–gli ultimi ordini–la ricostruzione...! I suoi burattini rovinati, tutto per colpa di quei Bladebreakers... e della loro stessa debolezza. Della sua debolezza.
Risedette, mentre fra i soci tornava a regnare il caos.
Un uomo deve saper riconoscere i propri fallimenti: era necessario ricominciare da capo. Per farlo, avrebbe dovuto distruggere l'esperimento pilota.
«Chiamatemi Yuzaemon.»

La neve continuava a scendere; nel chiarore giallo del crepuscolo, i fiocchi riflettevano i colori delle insegne e la luce dell'atrio di un albergo. I Demolition Boys furono fatti scendere da un furgoncino e guidati all'interno. Yuriy batté gli scarponi sulla moquette, togliendosi il ghiaccio dai pantaloni con qualche manata. Notò che Boris, Ivan e Sergej restavano indietro, silenziosi come tombe.
«Hey, su con la vita» disse. «Andrà bene.»
Il tipo che li accompagnava tornò dalla reception. «Venite, vi faccio vedere dove starete per la notte. Domani verranno a prendervi per interrogarvi, ma il Presidente Daitenji sta già lavorando a un accordo.»
«Che intenzioni ha?»
«Gli piacerebbe molto avervi in Giappone» rispose quello, avviandosi «come parte della BBA, in un programma internazionale di recupero. Dal momento che non ci sono state denunce e la situazione non è di dominio pubblico, potrete ricostruirvi una vita dove volete, a patto che manteniate il più assoluto riserbo. In fondo, siete già scagionati.»
«Recupero, uh?» disse Ivan quando furono soli, scuro.
«Non ti sembra una buona idea?» fece Yuriy, sedendosi in poltrona. Prese Wolborg e lo controllò, rigirandoselo fra le dita. «Abbiamo bisogno di cambiare aria, e di qualcuno che ci aiuti a farlo.»

«Che intenzioni hai, ora? C'è un piano di riserva anche per questo
Vorkov raccolse il cappotto e aprì la porta dello studio, uscendo in un corridoio plumbeo. «Non si preoccupi. Tutte le grandi organizzazioni hanno avuto dei ritardi. Lei tenga al guinzaglio quegli idioti della Tavola Rotonda e molto presto vedrà il mondo ai nostri piedi.»
«Lo spero, per il tuo bene.»
Si voltò verso Hiwatari. «E' un ultimatum?»
«Non mi piace girare in tondo, dovresti saperlo.»
Prima che potesse rispondere squillò un telefono. Lo estrasse da una tasca e: «Spero sia importante.» Pochi secondi e la sua espressione era passata dall'inflessibile al furioso. «Vi avevo affidato la sua sicurezza. Avrò le vostre–non me ne frega niente! Quale parte dell'ordine "non perdetela di vista" era poco chiara? Sta' zitto! Che significa "non sappiamo dov'è", allora!»
La sua presa scardinò la batteria, interrompendo la chiamata.
«Dannazione!»
Livido, scagliò il telefono nel buio e si allontanò a grandi passi, urlando ordini alle guardie nascoste.

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Capitolo 3
*** Sulle silenziose ali della libertà ***


Nota: capitolo partecipante al concorso Storie Incompiute di Solly.






Capitolo II
Sulle silenziose ali della libertà





Salirono sull'aereo della nuova vita quattro giorni dopo; il maltempo s’era placato e nel cielo splendeva un sole acerbo come un limone. Per esser ormai svezzati dalle false speranze, trovarono quella partenza promettente. Era così facile ricominciare da capo?
«Siamo solo all'inizio» disse Sergej, entrando nel corridoio al seguito di Ivan. «C'è ancora molto da lavorare.»
Il ragazzetto grugnì, fermandosi a ispezionare l'area passeggeri. Il jet non era molto grande: si trattava di un mezzo privato della BBA, usato per gli spostamenti dei dirigenti e delle squadre; aveva però sedili spaziosi, di un pulito color crema, con tavolini di servizio a fronte. Quel giorno partiva a pieno carico.
«Una ventina di persone, hostess compresa» sentirono mormorare a Boris. «Facce note?»
«No.»
In quell'istante, dalle retrovie provenne una spinta d'incoraggiamento. Per poco Ivan non cadde, travolto dall'onda d'urto. «Hey!»
Sotto il bicipite di Sergej comparvero un occhio azzurro e un ciuffo rosso. ‹‹Ci muoviamo? Stanno aspettando noi.››
L'unica assistente di volo venne loro incontro, sorridendo. Parlava un russo passabile. «Benvenuti a bordo, ragazzi. Per di qua.»
Li condusse fin quasi in testa, fra sguardi curiosi, intimiditi od ostili, e indicò quattro poltroncine. Sul tavolino al centro del mini-compartimento c'erano altrettante buste bianche.
«Sono per voi. Il presidente avrebbe voluto accompagnarvi di persona, ma è stato trattenuto e si scusa; lo incontrerete a Tokyo: da lì sarete sotto la sua diretta supervisione.» Controllò l'orologio, facendo scivolare la coda di cavallo su una spalla. «Partiamo fra quindici minuti. Fate buon viaggio e, per qualsiasi cosa, chiedete pure.»
Yuriy annuì, restituendo la cortesia con un cenno del capo e sedendosi dalla parte del corridoio; poi vide che Ivan recuperava una busta servendosi dei piedi da papera e lo fulminò con gli occhi. Comportati in modo decente. Presa la propria busta, si rilassò contro lo schienale, quasi sprofondando.
«Visto? Siamo degli ospiti» disse, mentre il nanerottolo bofonchiava qualcosa «non degli infiltrati. Per cui, Boris, smetteresti di spiare dal bordo del poggiatesta? Devi cominciare a comportarti da persona normale. Rilassati, abbiamo preso la decisione giusta.»
Alla sua sinistra, il blader si voltò e lo fissò con espressione severa.
(Ironica. Era decisamente ironica.)
«C'è qualcosa che vuoi dirmi?»
«No, capitano.»
«Forse che sei già rilassato?»
«No, capitano.»
Forse che sei molto più normale di me? Storia vecchia.
«No, capitano.»
Inarcò le sopracciglia. Boris girò su se stesso e sedette, rispondendo con un sorriso invisibile. Yuriy strappò la busta di Daitenji, la capovolse e si fece cadere in mano un fascicoletto, soddisfatto.
«Saranno le istruzioni per l'uso del paradiso» commentò.

‹‹I signori passeggeri sono pregati di allacciare le cinture›› cinguettò un megafono. ‹‹L’aereo decollerà fra cinque minuti. Ripeto: i signori passeggeri sono pregati di allacciare le cinture…››
Le turbine accelerarono e il velivolo si spostò lentamente sulla pista di rollaggio. Yuriy gettò il fascicolo sul tavolino, pensieroso. Regole, orari, paletti; era inevitabile, ma sperava che il patto evolvesse in fretta. Voleva vivere, non prestare servizio. E non era sicuro di voler andare in una vera scuola.
‹‹Non male, comunque›› disse Sergej. ‹‹Sembra una cosa onesta.››
‹‹Sei matto?›› Ivan puntellò il piede contro una gamba del tavolino, storcendo il (grosso) naso. ‹‹Finiremo inscatolati come aringhe, fidatevi di me.››
‹‹Scommetto che tu sarai il primo›› disse Boris. «Il formato è quello.»
‹‹Hey, Mummia–››
Yuriy sospirò. ‹‹Smettetela e allacciate le cinture.››
‹‹Senti, Yuriy, non è colpa mia se–››
Per fortuna il jet accelerò, spiaccicandolo contro il sedile. A decollo avvenuto Ivan si era dimenticato litigio e preoccupazioni; come Sergej, scivolò presto in un sonno esausto, tutto contorto sul suo sedile. Yuriy poggiò la testa a una mano e il gomito al bracciolo, speranzoso.
Presto dovette aggiungere l’altra. Allungò le gambe. Chiuse gli occhi, sbatté le palpebre, le strizzò. Irrequieto, alla fine si tirò su e appiccicò la fronte alla piega laterale del poggiatesta, mentre un velo di sudore gli copriva la fronte. Si sorprese a spiare Boris, che fissava un punto indistinto della parete.
Se non altro aveva un compagno di sofferenze. All'insonnia cronica di Yuriy Ivanov – tutt'altro che un mistero, alla Borg – facevano buona compagnia le paranoie di Kuznetsov; l'amico non avrebbe chiuso occhio per tutto il viaggio, soprattutto se due di loro dormivano, impersonando la bella statuina finché non si fosse trovato in un luogo "sicuro". Per distrarsi, Yuriy si sporse sul corridoio e osservò gli altri passeggeri.
Grassi, magri, alti, bassi, un ragazzino, parecchi adulti; tecnici, ricercatori, in fondo al jet una ragazza coi capelli azzurri, che si chinava oltre il bracciolo per recuperare una rivista caduta. Un tipo cominciò a tossire, secco e fastidioso.
L'hostess gli chiese se voleva una tazza di tè.

Passarono sette ore.
Boris le contò a mente e, quando Ivan si svegliò con un grugnito, agitando le braccia, gli fece segno di star zitto. Dopo vari tentativi, la stanchezza aveva raggiunto anche Yuriy.
Il nanetto si osservò intorno, annoiato; recuperò un fazzoletto di carta e prese a tormentarlo, trastullandosi in modo inutile come al solito. Qualcuno discuteva, qualcuno tintinnava ridendo il cucchiaino nel caffè. Il primo vuoto d’aria fu improvviso.
Ivan gracidò e Sergej si svegliò di soprassalto. Quando guardarono Yuriy, i suoi occhi erano aperti. Si spostarono sull'oblò accanto a Boris, vigili, poi sull'assistente di volo. Senza una parola, il loro capitano si stirò e alzò.
‹‹Dove vai?›› chiese Ivan. «Potresti cadere e picchiare la testa! E non ti farebbe certo bene.»
Yuriy gli mostrò il medio al di sopra di una spalla; la pustola sghignazzò. Rise meno agli sballottamenti successivi.

"Senti"? "Ascolta"? "Mi scusi"?
«Signora?» disse, ricorrendo al suo giapponese.
In fondo al jet, vicino all'ingresso e ai servizi, c'era un piccolo atrio con banco, stipetti e telefono di servizio; la hostess era seduta su un seggiolino e si versava un bicchiere di aranciata. Quando lo vide staccò la schiena dal muro color crema e sorrise, posando il bicchiere. «Posso esserti utile?» rispose, nella stessa lingua.
Lui esitò, incerto sul modo di porsi. Non era abituato all'educazione. «Voglio... vorrei solo sapere quanto manca all'arrivo.»
Uh, perché aveva detto quello? Se lo ricordava. Accennò un sorriso a uso della donna, poi, ottenuta la risposta, rimase a fissare le bottiglie allineate sul banco. Stava per afferrarne un paio quando la sua voce lo bloccò.
«Ci sono aranciata, cedro, gazzosa, semplice acqua e un aperitivo leggero, quello rosso. I liquori sono off-limits» aggiunse, facendogli l'occhiolino.
Invece di irritarlo, il gesto disperse la tensione; era stato privo di artificio.
«Il cedro andrà bene» rispose. E allungò una mano.
«Ve li porto io» rise la donna, fermandolo. «E' il mio lavoro. Tu va' pure a sederti, o sgranchisciti le gambe.»
Batté le palpebre, mentre lei apriva stipetti, prendeva bicchieri e apriva bottiglie. «D'accordo... grazie
Approfittò del viaggio per usare il gabinetto; una volta dentro, studiò il pomello d'ottone che aveva in mano e si chiese perché diavolo avessero usato un materiale così caro. O forse non era caro. Forse Vorkov aveva sballato il loro sistema di valori sotto ogni punto di vista. In piedi davanti al lavandino, fra raffinatezze che lo mettevano a disagio, si lavò la faccia e si guardò allo specchio.
Dove ha trovato la forza di sorridermi?, si chiese, pensando alla hostess.
Aveva un aspetto da paura.
Si asciugò con uno strappo di carta e uscì. La donna era già dai suoi compagni di squadra; si avviò con calma, osservandosi intorno: il lupo perde il pelo ma non il vizio. Tappezzerie color panna, tessute in tanti piccoli rombi come ricambi da beyblade – che ostentazione. Sulla sinistra due ragazze (testa viola e testa celeste, quella della rivista), più avanti uno smilzo, un pelatone, un ragazzino col naso a carota e–
Strap. Gli si era aperto il velcro di uno stivale.
Vagamente irritato, s'inginocchiò e cominciò a tirare le fibbie. Notò che la tipa azzurra lo fissava e, alzatosi, ricambiò con perplessità. Lei distolse lo sguardo. Beh?
Nel suo cervello stava prendendo forma una qualche sorta di confronto, possibilmente tagliente, quando qualcosa lo distrasse. Dalla sua cintura veniva un bagliore. Aggrottò la fronte, sganciando Wolborg.
‹‹Che ti prende?›› mormorò.
Sembrava che Boris e Sergej avessero lo stesso problema. Di punto in bianco, altri passeggeri balzarono in piedi per vedere fasci di luce irrompere dai loro beyblade. Wolborg entrò in risonanza con quella pulsazione, sempre più rapida. Era come se... rispondesse a qualcosa. Yuriy indietreggiò di un passo.
Le bestie sacre stavano cercando di uscire.
«Che diavolo–»
Credeva di conoscere il sistema in grado di influenzarne tante in una volta sola.
Wolborg, no!
I bit-beast si liberarono nel piccolo spazio del jet con un boato, turbinando verso l'alto. Yuriy perse l'equilibrio; una tizia gli cadde addosso, bloccandogli la visuale. Si alzarono grida isteriche, la sirena di un allarme e un vortice di cartacce.
Sentì Boris imprecare. L'aereo iniziò a vibrare, inclinandosi.
«Che cazzo succede?!» ruggì.
La donna riuscì a tirarsi in piedi grazie a un sedile e sbarrò gli occhi. «Oh mio Dio!»
Il tornado di bestie sacre aveva trapassato la carena, creando una voragine che risucchiava tutto. Yuriy restò a guardare la bocca dell'inferno che si allargava, sdraiato sulla schiena, e sentì cuore e stomaco scivolargli nei piedi; Wolborg... no, Wolborg era ancora con lui! Lo impugnò. Forse il catalizzatore, ovunque fosse nascosto, era tarato per un numero inferiore di bersagli; forse il lupo era riuscito a resistere al richiamo. Non importava – non aveva tempo per questo. Doveva fare qualcosa!
«Boris! Sergej!» chiamò, inginocchiandosi. «Ivan!»
La sua voce si perse nel tornado. Uno scossone lo scaraventò contro la parete, buttandogli addosso un altro peso. Una delle due ragazze del fondo, stavolta – gli strillava nell'orecchio con quanto fiato aveva in corpo. Caddero bicchieri, computer, bagagli a mano.
«Levati!»
Dov'erano gli altri?
La pressione lo schiacciò, togliendogli il respiro, e l'inclinazione del jet mutò ancora. Stavano precipitando.
Uno sfortunato incidente, avrebbero scritto i giornali; cedimento strutturale. Sordo, cieco, maledisse Vorkov e gridò il nome di Wolborg.

Alcuni costoloni rocciosi emersero dalle nubi e si frapposero fra la terra e il jet, colpendolo, rallentandone l'impeto. Con un coraggioso sforzo, il pilota seppe riprendere il controllo quel tanto che bastava per presentare al suolo la pancia. All'impatto, i carrelli d’atterraggio si spezzarono. Il velivolo strisciò avanti, spaccato in due, ruotando su se stesso. Porgeva il fianco sinistro quando l’altopiano finì.
Di colpo, tutto tacque. I telai scricchiolarono.
Attraverso le nebbie di una concussione, Yuriy sentì un fiotto di sangue scendergli sugli occhi. Il pavimento era rosso quando si deformò.
Con una forza irresistibile, il jet privato della BBA Corporation rovinò nella gola sottostante e si schiantò di muso, accartocciandosi come un giocattolo.


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Capitolo 4
*** Dispersi ***


Nota: capitolo partecipante allo Storie Incompiute contest di Solly.






Capitolo III
Dispersi



Per favore, tiratemi fuori di qui
Qualcuno mi tiri fuori
Aiutatemi e basta, farò qualsiasi cosa, qualsiasi
Se solo mi aiuterete a uscire di qui.”

Genesis



La neve cominciò a cadere. Il Tibet appariva, nella sua tarda estate, una brulla distesa di altipiani assetati della lontana umidità monsonica.
Altitudine e aridità sono padroni severi: una foglia avrebbe potuto volare per chilometri e chilometri, trasportata dal vento, senza trovare segni di vita umana; i pochi centri abitati erano chiusi fra profonde muraglie di roccia, forti contro i venti, seminati più di bestiame che di uomini. Forse la capra di un gregge sarebbe scappata per brucare più in alto, valicando i confini della valle, camminando giorni prima di tornare; e forse, attirata l'attenzione di qualche viaggiaore, in una delle conche più brulle avrebbe trovato il relitto di un aereo.
Era stata una tragedia rapida. Le ali e la fusoliera si erano spezzati con lo schianto, poi i motori erano esplosi; l'alettone giaceva in fondo alla scarpata, fesso dal corpo principale.

Ivan tentò d’aprire gli occhi. Il semicasco di pelle gli era scivolato sulla faccia.
Che diavolo succedeva? C'era una luce familiare, e– non ricordava un accidente. Avevano perso, poi avevano lasciato il monastero e...
Non si sentiva più le gambe – il resto era in un bagno di fuoco. A fatica, alzò il semicasco e vide quello che poteva esser stato un soffitto. Oh... oh. Come faceva ad essere ancora vivo? Riconobbe la luce di Wyborg, perso da qualche parte. «Non te ne sei andato, grazie al cielo» disse, rauco.
La bestia sacra lo stava proteggendo, perché oltre i rottami del tavolino–
Lamiere annerite, e corpi. Si tappò convulsamente la bocca. Solo anni di addestramento gli fermarono l'urlo in gola.
«Niente panico. Fermatevi, riflettete. Siete padroni della situazione.»
Sono morto.
«Una buona disposizione mentale è basilare alla riuscita di qualsiasi impresa.»
Ma vaffanculo!
Il jet s'era capottato, l'arredamento scardinato; due sedili gli bloccavano il bacino. Uno stridio lo spinse a richiudere gli occhi, mormorando una preghiera a fior di labbra.
Hai chiuso, Pavlov. Non è stato bello finché è durato.
Ma di punto in bianco il crollo s’arrestò, s'invertì, lamiere e impedimenti volarono via. Una ventata d’aria fresca lo riportò indietro.
‹‹Ah, sei qui, Ivan. Meno male.››
Sergej. Il caro, vecchio, bulldozer Sergej, in piedi.

Gelo. Aprì gli occhi per trovarsi in un mondo capovolto.
C'era qualcosa intorno alla sua vita; la faceva ciondolare come una bambola, comprimendole gli intestini. Levò debolmente la mano, si terse il sudore dalla fronte e tossì.
Il sostegno, sollecitato, si spezzò; cadde a peso morto in un mucchio di detriti e la strana luce delle scintille, che frizzavano dai colli mozzi dei cavi (una giungla di ferro e gomma), illuminò una pozza di vomito e–
Si ritrasse, gridando. Sbatté contro una struttura pericolante di metallo, che ondeggiò. Immobile, trattenne il fiato e pregò che non cadesse. Alla fine, il cigolio tacque.
C'era una puzza tremenda – ferro, liquidi, poliuretano bruciato... qualcosa andava a fuoco. L'aereo.

Ivan sedette dove Sergej lo parcheggiò, soffocando un gemito. Dovunque fosse, il “qui” non era un luogo ospitale: si moriva di freddo, nevischiava ghiaccio e stava calando il buio. (Forse era la sua vista.)
«Siamo finiti in Siberia?» gracchiò. «Dove vai?»
Non appena il fragore che gli riempiva le orecchie si fu calmato, distinse l'inequivocabile suono di voci umane. Si strofinò nervosamente le guance, sporche di sangue, e si guardò intorno. Non essendo un asociale come Boris, pur avendo qualche problema relazionale con gli estranei – normale amministrazione, per un ragazzo uscito dal Monastero Vorkov – avrebbe voluto improvvisare un'acrobazia.
Fece leva su un braccio per vedere. C'erano sagome curve e ispide in avvicinamento. Cinesi, decise. No, non proprio cinesi... più su, più...
«Tibetani» sussurrò.
Per la miseria, erano finiti sulle montagne, in mezzo al nulla. Se non era riuscito ad ammazzarli il botto del jet, qualsiasi cosa fosse andata storta, ci sarebbe riuscito quel posto.
Gli uomini si scambiarono alcune parole e lo sollevarono, gettandogli addosso una pelliccia. Lo trasportarono in quella che aveva tutta l’aria di essere una tenda, montata a debita distanza dall'aereo; tempo di posarlo su un giaciglio e gli somministravano una bevanda.
«Nnh!»
Il liquido gli bruciò la gola, colandogli sulla mascella. Poi, più nulla.

Quando smise di tossire, nel piccolo spazio si era diffusa una luce azzurrina. Ebbe solo la forza di boccheggiare, esausta, premuta contro la parete deforme; poi si accorse che l'aria era diversa.
Cercando di non vedere le cose atroci sparse fra le lamiere, seguì i raggi del bagliore. Che cos'era? Fra bulloni e schegge di vetro, raccolse un beyblade. Il bit-chip pulsò, scheggiato. Stava... pulendo l'aria. Forse aveva anche impedito che l'incendio si propagasse.
Di certo l'aveva salvata. Quanto potere.
Ma allora, perché solo io? Perché tutte quelle persone– sussultò. Anya!
«Uhn...»
Girò su se stessa, spaventata.
C'è qualcun altro, qui!
Facendo attenzione ai vetri e controllando l'impulso del pianto, mentre il suo corpo tremava, s'infilò tra i ferri e gattonò fino a quello che era stato il corridoio di uscita. Il portellone d'acciaio era accartocciato, incastrato fra il telaio, la carena del jet e troppi sedili; non sarebbe mai riuscita a spostarlo. Accanto, però, c'era un ammasso pannelli e velluto da parati che si muoveva.
«Ugh.»
Veloce, si avvicinò e iniziò a scavare.

Quando Ivan si svegliò seppe che stava sorgendo il sole. Istinto affinato dall'abitudine. Prima ancora di vedere le pelli e le coperte variopinte, i cuscini, la lettiga, tastò il terreno e cercò di raddrizzarsi.
Una pezza bagnata gli cadde dalla fronte.
‹‹Non muoverti.››
‹‹Boris?›› Si guardò intorno, incredulo. Trovò il blader in un angolino della tenda, con un vistoso ematoma sulla spalla e il braccio sinistro appeso al collo. Stava cercando di rivestirsi. ‹‹Boris! Sei vivo anche tu?››
«Sorpreso?»
«Sollevato, cazzo. Cazzo
Con la mano buona l'altro, alzò Falborg. «Hanno cercato di toglierceli e ammazzarci in un colpo solo, ma non ci sono riusciti. Poveri bastardi.»
Un cinese – tibetano – scostò la pelle che fungeva da chiusura al riparo e s’affrettò a prendere una sacca di cuoio, con un tintinnio di attrezzi.
‹‹Come abbiamo fatto a finire qui?›› chiese Ivan, scuotendo la testa. «Perché proprio qui?»
Boris alzò le spalle.
«E... Yuriy?»
«Sergej l'ha trovato. Ma non riescono ad entrare.» La sua mascella s'irrigidì. «C'è qualcosa che non va con Wolborg.»

Capì subito che la persona era gravemente ferita: c'era parecchio sangue. Quando, alzati gli ultimi detriti, vide chi era provò una sensazione ambigua: non paura, né pietà (anche se aveva una spalla perforata), più semplice shock.
Tampone. Stoffa per fermare il...
Per fortuna, lui si era già messo un laccio emostatico.

Il ghiaccio si stava ritrasformando in neve. Rapide, guardinghe, le attività sul pianoro continuarono; Sergej chiamò i tibetani e cercò di farsi capire a gesti, fidandosi poco del suo cinese (troppi dialetti, troppe differenze). Erano semplici pastori, quegli uomini, e se non poteva pretendere di trasformarli in una squadra di recupero, di sicuro ci avrebbe provato. Il suo capitano era ancora dentro la carcassa di quel maledetto aereo, e con lui forse altre persone.
Tornato alla tenda, cacciò dentro la testa. ‹‹Stiamo quasi per entrare.››
Boris annuì, proteggendosi il braccio rotto. «Vengo a darti una mano.»
«No. Non sei nelle condizioni.»
«Non lo decidi tu, se lo sono!»
Ma una spinta gentile bastò a farlo ricadere sul giaciglio, con un gemito e uno sguardo furioso.
«Vaffanculo, Sergej!»
«Resta qui.»
«Maledizione.»
Ivan rimase in silenzio, teso.

Yuriy tornò alla realtà con una scarica di dolore.
Cosa l’aveva svegliato? Dio, la sua testa. La sua schiena. Sentì qualcuno che lo toccava e, preso dal panico, allungò un braccio; afferrò della stoffa. ‹‹Chi sei? Che succede? Non ci vedo. Non ci vedo
«Credo... credo che tu abbia battuto forte la testa» disse l'ombra. «Hai perso molto sangue, c'è un–un ferro, nella tua spalla.»
Subito, Yuriy sentì la ferita e accusò un capogiro. Era da lì che partiva il fuoco.
‹‹Fuori ci sono delle persone. Stanno arrivando.››
Richiuse gli occhi, il respiro erratico. «Dov'è Wolborg?»
Una mano gli aprì le dita, posandogli sul palmo qualcosa di freddo e pesante. Il suo bey. Lo strinse, cercando di trarne forza. Non poteva arrendersi adesso.
‹‹Vieni qui.›› La persona ch’era con lui si mosse.
«Cosa vuoi fare?»
«Alzarmi e rendere più facili le cose» deglutì, desiderando ardentemente un sorso d'acqua «a chiunque sia là fuori. Senti quest'aria? Dev'esserci un oblò, vicino. Se è libero–»
«Non hai idea di come sia qua dentro» esclamò la persona, alzando la voce. Era una ragazza. «Muovere qualcosa potrebbe far crollare tutto!»
«Wolborg ci aiuterà.»
«Il tuo bit-chip è scheggiato.»
Quelle parole lo ghiacciarono.

Fra i tibetani che aspettavano in disparte per non intralciare nacque un certo trambusto. Sergej corrugò la fronte. C'era un rumore nuovo.
Fa' che non stia cedendo nulla.
I pastori gli indicarono un punto della carena, poi, finalmente, fecero silenzio. In quell'area c'era un finestrino bloccato, deforme ma ancora utilizzabile. Qualcuno bussava dall'interno e scavava, spostando i detriti. All'improvviso il vuoto, una luce azzurra.
Fuori di sé dal sollievo, scostò i tibetani e guardò dentro. «Yuriy!»
Intravide un volto sconosciuto, pallido e sporco. «E' qui» disse la ragazza. «E' ferito anche lui.»
Coi guanti, il blader si assicurò che non ci fossero schegge di vetro ancora attaccate al telaio e la prese sotto le braccia, aiutandola a uscire. Era piena di contusioni, come tutti; sulla gamba destra aveva un taglio che partiva dal polpaccio e scompariva sotto la gonna.
‹‹Piano, piano›› ammonì in cinese, passandola ai tibetani.
Quando si volse, nel riquadro del finestrino era comparso Yuriy. Si appoggiava al bordo e fissava la neve, vacuo, a malapena in grado di reggersi; ma riuscì a rivolgergli un sogghigno esausto.
«E' qui la festa?»
Non aveva più il senso dell'equilibrio: Sergej dovette tirar fuori di peso anche lui. Subito dopo perse i sensi, madido per la febbre.
Sergej lo avvolse in una coperta e lo portò via a braccia.

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