My Damn Genius

di ladyElric23
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1. ***
Capitolo 2: *** 2. ***
Capitolo 3: *** 3. ***
Capitolo 4: *** 4. ***



Capitolo 1
*** 1. ***


My Damn Genius

 

Capitolo 1.

Era una mattina grigia, fredda, senza colore, una di quelle giornate che il miglior detective di Londra, nonché uno dei pochi, avrebbe definito “malsana”, quando il suo fedele amico, il Dott. Watson, entrò esasperato in quella camera buia e senza il minimo accenno di ordine o pulizia.

Come immaginava, lo trovò steso sul grande tappeto, scompostamente, con accanto delle boccette vuote; le conosceva bene lui, erano le stesse che usava lui stesso durante le sue visite oculistiche.

Si, il più geniale detective di Londra si faceva di roba per oculistica, e ancora una volta questo pensiero gli fece alzare gli occhi al cielo.

Ma cosa aveva fatto di male?

“Holmes!” lo chiamò, con voce ferma, guardandolo dall’alto in basso, ricevendo però in risposta solo un verso gutturale.

Si innervosì, come tutte le volte, e come sempre avanzò deciso verso la finestra, scostando violentemente le tende.

“Ah, ma che magnifica giornata!” esordì, con un sorriso finto, mentre sentiva l’altro lamentarsi a causa della luce, che improvvisamente era arrivata a ferirgli gli occhi.

“Watson!!” ruggì, alzando finalmente la testa, le pupille ancora lievemente dilatate. “Poteva essere più delicato!”, aggiunse, mentre gattonava verso una zona d’ombra.

Ma lui, come al solito, aveva fatto finta di non sentirlo.

Erano anni che condividevano lo stesso appartamento, con sommo dispiacere della padrona di casa, e quindi ormai era abituato a quei suoi comportamenti.

“Holmes, sa da quanto tempo non esce da questa stanza?” gli chiese, e nel vedere la sua faccia, capendo che stava per obiettare, rispose lui stesso, velocemente. “Quasi due mesi Holmes! Deve cercarsi un nuovo caso!”

“Grazie mille per rendermi partecipe dello scorrere del tempo, Watson. Lei è efficiente come al solito!”, gli disse, in quel tono velatamente ironico che sapeva fare solo lui.

Battibeccarono ancora un po’ sul fatto che non avesse ancora accettato un nuovo lavoro, cestinando ogni singola proposta, definendole scontate e poco intellettualmente stimolanti, e alla fine, come ogni volta, l’ebbe vinta Holmes, che infine si mise a leggere il giornale che l’amico aveva portato con se, rubandoglielo dalle mani.

Dopo alcuni minuti di silenzio, in cui i suoi occhi vagarono sapienti  sul giornale, Watson lo stupì con un  “Si dia una sistemata Holmes, oggi andiamo a pranzo fuori…”, ricevendo in cambio uno sguardo stranamente stupito, luminoso.

“… con Mary, la mia fidanzata” terminò infine la frase il dottore.

E Holmes, che intanto si era alzato in piedi, lo guardò, nel più assoluto silenzio, incupendosi.

“Mi spiace, ma ho già un impegno…” disse, camminando verso il piccolo tavolincino dove erano posate una teiera ancora fumante, una tazza e qualche biscotto.

Si versò una tazza di tè e, dopo essersi accertato che la cara Mrs Hudson non aveva cercato di avvelenarlo, si mise a sorseggiarlo tranquillamente, ancora in piedi.

Watson sbuffò.

“Ah, ma davv..EHI! Ma quello è il mio cane??” esclamò, indicando col bastone quello che una volta doveva essere stato il suo sanissimo e curatissimo Gludstone, adesso ridotto a una massa informe di pelo.

Holmes guardò nella direzione da lui indicata, per poi girare nuovamente la testa, emettendo un semplice, e dal tono quasi scontato, “Si”.

“Ma che gli ha fatto?” protestò il dottore, indignato

“Oh, non si preoccupi Watson! Sto solo testando un nuovo anestetico. Se funziona poi lo rifilo alla nonnina di sotto…”

“HOLMES!”

“suvvia, Watson, stavo scherzando!”

Ancora quel tono! Doveva ammettere che certe volte gli veniva voglia di prenderlo a pugni.

In alcune occasioni, se pur rare, lo aveva fatto, in effetti…

“ E comunque… che ha da fare di così importante?” gli chiese, poggiandosi alla sua scrivania, ormai ricoperta da ritagli di giornali, fogli ed alcune  sue invenzioni, l’ultima delle quali un congegno che, applicato alla pistola, avrebbe dovuto attutire il rumore dello sparo. Ovviamente Holmes aveva avuto la magnifica idea di testare la sua invenzione in casa, così che, oltre a constatare che era presente un errore di valutazione nel suo progetto, ora aveva anche dei fori di proiettile sui muri.

“Un pranzo…”

“Ah, davvero? E con chi?” chiese, indagatore

A quel punto il detective spostò lo sguardo su alcuni vecchi quotidiani sparsi sul tavolino.

Gli serviva un’idea. Un nome.

“con Lestrade!” disse, leggendo il primo nome che trovò.

Con Lestrade??! Ma che diavolo…??, si disse mentalmente, sempre però continuando a sorridergli. In fondo, in quegli anni aveva imparato che a volte non era importante cosa una persona diceva, ma il modo in cui la diceva.

“Con Lestrade?” ripetè Watson, alzando un sopracciglio.

“Si, con Lestrade! Dobbiamo parlare di un caso… hanno chiesto una mia consulenza, quindi… mi spiace Watson, non ho proprio il tempo di venire a pranzo con lei ed Elisabeth!”

“Si chiama Mary!” protestò

“si, come vuole” gli disse, agitando in aria una mano.

“Ed inoltre Watson…” aggiunse passandogli un articolo ritagliato da un giornale, “Legga! Legga qua!”

Lo lesse a bassa voce, quasi tra se e se.

“Donna uccide il marito per ereditare ogni suo bene materiale… Dio, Holmes!!!” lo guardò, a metà tra l’esasperato e l’indignato. Ogni volta che voleva fargli conoscere una donna con cui usciva era sempre la solita storia.

“Questi sono i fatti Watson! E per questo ci dovrebbe pensare due volte prima di sposare quella Lucy!” terminò, guardandolo con sguardo eloquente, mentre dava con dei gesti, con ancora un biscotto in mano, maggiore enfasi al suo discorso.

Non faceva una piega come ragionamento!

“MARY!” rispose, chiudendo gli occhi per non abbandonarsi all’isteria. “Si chiama Mary!! E che le piaccia o no, è la mia fidanzata, con cui io e lei oggi ci godremo un magnifico pranzo! E adesso si dia una sistemata!”

E con questa sua ultima ammonizione autoritaria se ne tornò nella sua camera, mentre Holmes sospirava, finendo di sorseggiare il suo tè, con sguardo spento, rivolto ad un punto indefinito della parete,  con il pensiero che  vagava negli angoli più remoti della sua mente geniale.

Ed era in quei brevi, rari, momenti che si disprezzava per il suo genio, e per le sue acute capacità deduttive. Era in quei momenti che avrebbe desiderato non essere lo stramaledetto genio che in realtà era.

Era in quei momenti che avrebbe preferito non capire cosa gli stava succedendo.

 

To Be Continued…

 

 

Salve miei cari lettori. È con piacere che ho postato la mia prima fic su Sherlock Holmes, l’uomo della mia vita! xD (ovviamente ispirata dal film).

Ovviamente,  essendo il mio animo puramente yaoista, non poteva essere altro che una Holmes/Watson.

E quindi… niente, spero solo che vi sia piaciuta, almeno questa prima parte. ^^

Fatemi sapere che ne pensate. ^^

Ci vediamo, se vorrete, al secondo capitolo.

Buona Pasqua a tutti!!

Ciao!!

 

ladyElric92

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Capitolo 2
*** 2. ***


Capitolo 2.

Il loro pranzo fu ovviamente un vero disastro, e durò solo il tempo  sufficiente al cameriere per prendere le loro ordinazioni, terminando con Holmes che, dopo aver  dato un profilo di Mary che dire pungente sarebbe stato un eufemismo, si era beccato da questa un bicchiere di vino in pieno viso.

Decisamente, doveva imparare a mordersi la lingua  invece di parlare  in certe situazioni.

Anche perché ovviamente Mary se ne era andata, indignata, e il suo caro John l’aveva accompagnata a casa.

Come pensava, si stava già allontanando da lui.

 

*******

 

Watson era tornato a casa nel tardo pomeriggio, dopo aver preso un tè con Mary ed i suoi genitori, con l’intento di fare al suo coinquilino un bel discorso autoritario su come avesse rovinato il loro pranzo. Difatti, si stupì di non trovarlo nella sua camera, a suonare il suo adorato Stradivari, o a fare folli esperimenti chimici.

Di lui non c’era traccia.

Dopo cena, quando stava seriamente cominciando a preoccuparsi, un agente di Scotland Yard bussò alla loro porta, e  lo informò che il Signor Sherlock Holmes era in prigione, per aver causato una rissa.

Prese la prima carrozza, ed in fretta e furia arrivò alla prigione.

La guardia, dopo  che ebbe pagato la cauzione, lo accompagnò fino alla sua cella. E lo trovò li, che se la rideva, visibilmente ubriaco, o forse drogato, insieme agli altri detenuti; sdraiato, con la testa poggiata sulle ginocchia di uno di quegli uomini.

“Holmes, puoi uscire!” esclamò la guardia in tono piatto,quasi infastidito,  aprendo la porta della cella.

Quindi il detective si voltò verso l’amico, esclamando un “Watson!”, sorridendogli, per poi alzarsi, stringendo la mano ad ognuno dei suoi compagni di cella, rivolgendo loro un “signori, è stato un piacere conoscervi, sebbene in questo luogo. Quando uscite andiamo a berci una birra!”.  

Per poi camminare barcollante verso l’uscita della cella, mettendosi la giacca, mentre questi gli rivolgevano un “Arrivederci Holmes!”.

 

Una volta fuori da Scotland Yard, mentre attendevano una carrozza che li portasse a Baker Street, Watson parlò, preoccupato ed irritato allo stesso tempo, prendendolo sotto braccio.

“Holmes! Lei non riesce nemmeno a reggersi in piedi! Si può sapere di cosa si è fatto??”

“Uhm… quesito interessante Watson…” disse, guardandolo, crollandogli poi addosso prima di rispondere.

 

Riuscirono ad arrivare a casa, e al povero Watson si presentò la sfida più ardua di tutte.

Le scale.

Per arrivare al loro appartamento dovevano salire una rampa di scale, 16 gradini per la precisione, cosa non molto semplice visto che l’altro si reggeva a malapena in piedi, e farneticava discorsi senza senso.

Maledì entrambi per non aver trovato una casa al piano terreno, dopodiché gli rivolse un

“Holmes, dobbiamo fare le scale adesso”.

Ma non appena lo lasciò un attimo, giusto il tempo di fare un po’ di luce nel corridoio, il detective scivolò a sedere sul primo scalino, le spalle ancora incollate al muro, ridacchiando mentre, guardandolo negli occhi con lo sguardo reso spento ed acquoso dall’alcool, gli rivolgeva un “Ma io la amo Watson! Sono innamorato di lei! Non sposi quella Grace!”

Watson sbuffò sonoramente, alzando un sopracciglio.

Dopodiché, invocando tutta la pazienza di cui disponeva, si fece forza e se la caricò in spalla  , cominciando a salire i primi gradini.

“Watsooon! Lo vuole capireee?”,  continuava a dire Holmes, e questo fece uscire nel corridoio Mrs Hudson, che li guardava con sguardo truce, ancora in vestaglia.

Il medico se ne accorse, e si fermò, voltandosi lievemente.

“Mi scusi! Non era mia intenzione svegliarla! Holmes è ubriaco, ma non si preoccupi, ci penso io. Torni pure a letto…” le disse, aggiungendo poi un “Buonanotte!” quando questa torno nelle sue stanze, sbattendo la porta.

Quindi riuscì finalmente ad  arrivare fino alla camera dell’amico, che intanto continuava a ripetere “Watson io sono…sono in-inamorato di… di…”, non riuscendo nemmeno a terminare la frase, abbandonandosi tra le invitanti braccia di Morfeo, mentre il dottore  lo faceva ricadere delicatamente sul suo letto, coprendolo poi con una coperta.

Mentre nella sua mente si materializzava una domanda, nel vederlo in quello stato.

Ma perché, nonostante conoscesse le sue ordinarie abitudine, nonostante conoscesse il suo sregolato stile di vita, le sue pazzie autolesionistiche dovute al suo genio, continuava a preoccuparsi per lui?

Perché non riusciva a stare bene, a sentirsi tranquillo, se non lo vedeva veramente in se, come ogni volta che affrontavano, insieme, un nuovo caso?

E soprattutto perché non lo aveva ancora mandato al diavolo, andandosene, come avrebbe fato un qualsiasi altro individuo mentalmente sano al suo posto,  ma anzi, stava bene in sua compagnia, scoprendosi veramente felice, tanto da saltare alcuni appuntamenti con Mary per seguirlo?

 

Non seppe, o forse più semplicemente non volle, rispondere a queste domande, quindi  dopo avergli rivolto un ultimo sguardo preoccupato, con un mezzo sorriso dolce e comprensivo che gli increspava le labbra, si ritirò nella sua stanza, mentre l’altro mugugnava nel sonno un lieve “non la sposi, non mi lasci solo…”.

 

Quella  giornata  per lui era stata veramente movimentata, e arrivato a quel punto  della notte voleva soltanto lasciarsela alle spalle.

 

To Be Continued…

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Capitolo 3
*** 3. ***


Capitolo 3.

 

Quando il mattino seguente il dottore fece il suo ingresso nel loro salotto, si sorprese di trovare Holmes già in piedi, completamente lucido, mentre leggeva uno dei suoi tanti quotidiani del mattino.

Probabilmente il suo fisico era talmente abituato ad essere sotto l’effetto di alcool o droghe che necessitava di ben poco tempo per riprendersi.

“Buongiorno” disse infine, sedendosi dall’altra parte del tavolino, prendendo a sua volta il giornale, mentre si versava una tazza di tè caldo portato da Mrs Hudson.

“Buongiorno Watson!” gli rispose l’altro sorridente, ripiegando il giornale. “Non l’ho sentita rientrare ieri sera…”

A quelle parole Watson abbassò la copia del Times che stava leggendo, fulminandolo con lo sguardo.

“Sta scherzando, spero…”, gli disse, inarcando un sopracciglio.

Ma dopo un breve, eloquente, silenzio, infine sbottò.

“HOLMES! Sono stato costretto a venirla a prendere in prigione! Lei era totalmente ubriaco!!”

Sembrava un tipico quadretto familiare; la premurosa madre che sgridava il figlio ribelle, o peggio, una giovane moglie che sbraitava contro il suo recente maritino, a causa della sua vita sregolata.

A quelle parole Holmes mise su una sorta di broncio.

Lo faceva sempre in questi casi, era una sorta di arma segreta.

“Non provi ad intenerirmi con il broncio, Holmes! E smetta di cercare di piangere, perché dopo quello che mi ha fatto ieri non riuscirà ad intenerirmi!”

Il suo tono era quasi minaccioso; pacato, tagliente, e il detective capì che questa volta era arrabbiato davvero, che non sarebbe bastato un broncietto per farsi perdonare.

Calò un pesante silenzio. Ma…

“Mi dispiace, Watson” disse infine, distogliendo lo sguardo dal suo.

E non avrebbe mai creduto di poterlo pensare, ma gli dava fastidio il suo sguardo su di se. Watson era riuscito a metterlo a disagio, forse perché vivevano insieme ormai da anni e quindi si conoscevano  in ogni lato dei loro caratteri, o forse perché il medico era riuscito ad abbattere quel muro di apatia ai sentimenti che era stato costretto ad erigere, a causa del suo lavoro.

Lo faceva sentire vulnerabile, come se la sua mente cessasse, in quegli istanti in cui i loro sguardi si incrociavano, di vagare in tutta la sua genialità, non facendolo più ragionare.

“Prego?!” gli chiese Watson, incredulo.

“Mi dispiace!” ripetè, con tono serio.

E l’amico lo guardò ancora, incredulo, tant’è che lui si innervosì.

“Oh, andiamo Watson, non faccia quell’espressione!” sbottò, mentre si alzava.

“Holmes, vi sentite bene?” gli chiese infine, ancora non credendo alle proprie orecchie.

Sherlock Holmes che gli chiedeva scusa?!!

Era come ammettere che aveva sbagliato… e tutto questo non era assolutamente da Holmes!

“Si, sto bene… o forse no… non lo so neanche io, amico mio” confessò, emettendo un sospiro, per poi riprendere. “E adesso scusatemi, ma me ne torno nella mia stanza”.

E così fece, senza aspettare risposta.

Tornò nella sua camera, chiudendo la porta a chiave dietro di se, poggiandosi poi stancamente con le spalle a questa, sospirando.

Tra una settimana il medico avrebbe ufficializzato il fidanzamento con la signorina Morstant e se ne sarebbe andato per sempre dal loro appartamento in Baker Street, la ragiona per cui si erano incontrati.

In effetti non passava giorno in cui non ringraziasse mentalmente quella casa, ed il giovane Stamford, per averli fatti conoscere.

Poggiò la testa contro la porta, mentre ricordava il loro primo incontro, al laboratorio di chimica dell’università. (*)

Da quel giorno erano passati anni, ma era ancora più che vivido nella sua mente; ricordava perfettamente il suo stato d’animo, la sua felicità per aver creato un test per la rilevazione dell’emoglobina e, nello stesso giorno, per aver trovato un coinquilino.

Quel ricordo lo fece sorridere.

Un sorriso amaro però.

Quegli anni passati a Baker Street erano stati i più belli ed intensi di tutta la sua vita; era stato finalmente riconosciuto come una delle migliori menti della nazione e, nonostante non li accettasse, riceveva molti casi su cui investigare. E inoltre, cosa non meno importante, per la prima volta aveva trovato un vero amico, una persona su cui poter fare totale affidamento.

Ma tutto questo stava per finire…

Perché il solo pensiero lo faceva stare male?!

Dopotutto non poteva continuare a comportarsi da egoista, non poteva obbligare Watson a rinunciare alla sua felicità per seguirlo nelle sue imprese.

La verità era che gli sarebbe  mancato fare colazione in sua compagnia, il vederlo entrare preoccupato nella sua stanza, le sue obiezioni sul suo senso della morale, il sentirsi rimproverare ogni volta che cercava di estraniarsi dalla realtà con qualche tipo di droga, il vedere le sue espressioni quando, ogni volta, lo stupiva con una delle sue brillanti deduzioni…

La verità era che semplicemente gli sarebbe mancato Watson.

Chiuse gli occhi, quando cominciò a sentirli bruciare.

No, non voleva che se ne andasse, non voleva perderlo, non voleva rimanere nuovamente solo, come in passato. Aveva bisogno della presenza del medico accanto a se, altrimenti, ne era sicuro, avrebbe perso il controllo di se. Infatti, come aveva avuto modo di constatare pochi minuti prima, Watson era l’unica persona che si preoccupava veramente per lui, che gli stava vicino. Era quasi una sorta di coscienza, per lui. E si rese conto di non volere accanto nessun altro al di fuori di John Watson.

Aprì gli occhi di scatto, puntandoli sul camino, e finalmente vide, nel buio della sua stanza, quello che cercava. Il suo astuccio di cuoio.

Camminò fino al camino, a passo lento, la testa china, e con lentezza quasi esasperante estrasse la siringa dalla custodia, con un nuovo ago, ed una dose di cocaina da lui  diluita in precedenza.

Dopodiché, con la siringa in mano, si mise a sedere sulla sua poltrona, stringendosi il laccio emostatico intorno al braccio sinistro.

E iniettò.

Si iniettò la droga endovena, e subito dopo buttò a terra siringa e  laccio emostatico, attendendo poi gli effetti della cocaina che ormai gli era entrata in circolo.

Questa forse non era altro che un’ulteriore dimostrazione  del bisogno di qualcuno che lo  trattenesse nella realtà, di quanto avesse bisogno di una nuova coscienza, visto che la sua in quegli anni era sprofondata nell’abisso del suo genio.

 

Fine Capitolo 3.

(*): il loro primo incontro, come saprà chi ha letto Uno Studio In Rosso (del A.C. Doyle), è stato veramente così, e quindi non è frutto della mia fantasia. Sarebbe stato troppo! xD

 

 

A questo punto vorrei ringraziare tutti per aver apprezzato i due precedenti capitoli. Davvero, grazie mille! ^^

Ma soprattutto un ringraziamento speciale a: hay_chan, ginnyx, EugyChan, Meme91, Flagiu_Mustang, Raven_95 e Euterpe per aver commentato gli scorsi capitoli! Grazie mille^^, questo capitolo è dedicato a voi! ^^

 

E adesso non posso far altro che salutarvi, e darvi appuntamento, se lo vorrete, al quarto capitolo.

Un bacione a tutti!

ladyElric92

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Capitolo 4
*** 4. ***


Buon giorno cari lettori, ben venuti all’ultimo aggiornamento di questa storia.  Scrivo queste poche iniziali righe solo per augurarvi una buona lettura. ^^

Inoltre, ci tengo a precisare che il capitolo è dedicato a: hay_chan, Flagiu_Mustang, Meme91, Euterpe, ShortMaggot e susyco.  ^^

Buona lettura a tutti, spero che questo ultimo capitolo vi piaccia.

 

Capitolo 4.

 

Era passata una settimana  da quella notte, ed era arrivato infine il giorno in cui Watson avrebbe lasciato l’appartamento in Baker Street per stare con Mary.

In quel momento il dottore stava trasportando le sue cose, inscatolate con cura quasi maniacale, dalla sua camera alla carrozza, buttando ogni volta uno sguardo alla porta della camera di Holmes, irrimediabilmente chiusa; la sera precedente avevano litigato, di nuovo, e non si erano più parlati.

Quella notte lo aveva sentito suonare insistentemente il suo violino, senza sosta, e non fu in grado di non chiedersi se stesse bene, o se avesse fatto ricorso ad alcool e droghe.

*****

In quello stesso momento Holmes stava osservando tutta quella scena dalla finestra della sua camera, ma quando vide la donna avvicinarsi all’amico, posandogli un bacio casto sulle labbra, sentì la rabbia e la frustrazione montargli dentro.

Ancora.

Quella notte era riuscito a trattenersi, non dando tregua al suo Stradivari, suonando frenetiche melodie per ore e ore, fino a quando non si era abbandonato sulla sua poltrona, ripensando a tutti quegli anni, come ormai accadeva troppe volte.

Il solo pensiero che tutto quello che avevano vissuto e condiviso stesse per finire per colpa di una Mary Morstant qualsiasi era come una pugnalata al cuore.

Si ritrasse dalla finestra, e per la frustrazione diede un calcio alla scrivania.

Alcuni fogli caddero a terra, e lui notò subito una foto, che svolazzando si poggiò silenziosamente sul tappeto. Era stata scattata il loro primo giorno a Baker Street, era uno dei suoi ricordi più cari.

Serrò i denti, in preda ad una rabbia crescente, e si accanì sul resto della sua roba; poggiò le mani sulla scrivania, per poi scaraventare tutto quello di cui era ricoperta terra, urlando, cadendo poi in ginocchio tenendosi la testa. E in quel momento la vide,  di fianco a lui, la sua pistola. La fissò qualche secondo,  poi allungò la mano per raccoglierla, con il respiro che si era fatto innaturalmente veloce.

 

*****

Stava per finire di trasportare le sue cose, mancava solo un baule, quando Mrs Hudson lo raggiunse, visibilmente preoccupata.

“Dottore, credo che dovrebbe parlare con…”

Ma non riuscì a finire la frase, perché proprio in quel momento udirono uno sparo, che chiaramente proveniva dal piano di sopra.

E dopo questo un altro, e un altro ancora.

Il dottore si fece consegnare la copia della stanza del collega, e decise di andare a parlare con lui.

Ormai neanche gli spari lo impressionavano più; era troppo abituato alle bizzarrie di Holmes, e era cosciente del fatto che il suicidio non rientrava tra le sue priorità. Quindi non c’era da preoccuparsi.

Inserì la chiave nella serratura, aprendo la porta, e si vide puntare la pistola contro dal detective.

Continuò ad avanzare, lentamente, chiudendo la porta dietro di se, guardandolo mentre la pistola si abbassava.

Holmes tremava, aveva gli occhi arrossati e leggermente lucidi.

“Se ne vada Watson! La sua cara Mary la aspetta!” sibilò malevolo

“Holmes…” disse comprensivo il dottore, avvicinandosi ancora, fino ad essergli davanti. Se solo avesse teso un braccio avrebbe potuto toccarlo. “Non me ne andrò da qui senza aver parlato con lei”.

“Se ne rallegri Watson, stiamo parlando! Lei può finalmente andarsene come desidera!” rispose acido, calcando particolarmente su quella parola.

“Intendevo parlare veramente, tranquillamente, senza avere contrasti”

Holmes sbuffò, sfoggiando un amaro sorriso, per poi voltarsi, dandogli le spalle.

“Lei è sempre stato un sognatore Watson” disse infine, girandosi nuovamente, rivolgendogli uno sguardo triste.

“Holmes, davvero io… io non capisco! Io non la riesco a capire! Perché mi tratta in questo modo?”

“Perché?! Davvero non l’ha capito?! La credevo più perspicace Watson…”

Fu un secondo.

Un secondo in cui il medico lo immobilizzò con la schiena contro la parete, bloccandogli le braccia.

“Smetta di prendersi gioco di me!” gli disse, vicino al suo viso, stranamente agitato, mentre si sorprendeva della reazione dell’altro, o meglio, della non-reazione; non aveva opposto resistenza, era rimasto li, docile sotto la sua presa, nonostante con la sua conoscenza delle arti marziali avrebbe potuto allontanarlo facilmente.

Il dottore lo vide chiudere gli occhi, mentre poggiava la testa contro la parete.

“Sa, Watson, ho pensato molto agli anni che abbiamo passato insieme, in questi giorni…”, disse.

“…E?” gli chiese, mentre Holmes aveva ripreso a guardarlo.

“No, niente… lasci perdere…” concluse infine l’investigatore, abbassando la testa.

Per la prima volta da quando si conoscevano si ritrovò a pensare che Holmes gli faceva tenerezza.

“Holmes…” lo chiamò, con tono comprensivo, cercando il suo sguardo che però non trovò, senza ricevere risposta.

“Sherlock…”

Lo vide sussultare, per poi alzare la testa di scatto, sorpreso, rivelando i suoi occhi arrossati ed apparentemente smarriti.

Fu un attimo. Un attimo in cui l’istinto prevalse sulla mente del detective.

Scattò in avanti, posando le labbra su quelle del dottore, con una delicatezza assoluta.

Dopodiché, realizzando cosa aveva appena fatto, sgranò gli occhi, liberandosi finalmente della fragile presa dell’altro.

“Si…Bene… credo che…” balbettò, cercando di formulare  una frase di senso compiuto, mentre camminava freneticamente per la stanza.

Stava per afferrare il violino, probabilmente per cominciare a suonarlo convulsamente, quando…

“Holmes!”

Si voltò, e spalancò gli occhi, trattenendo il respiro, quando Watson si appropriò delle sue labbra.

“Watson, ma cos…?”, ma non riuscì a terminare la frase, perché l’altro lo baciò ancora.

E ancora. E ancora.

Dovette sorreggersi con una mano alla scrivania  per non perdere l’equilibrio, ma alla fine rispose al bacio, a quel contatto così agognato, un eccitante contatto dolce e possessivo allo stesso tempo.

E stava deliberatamente scendendo lungo il collo dell’altro, sulla giugulare e poi giù fino alle clavicole, quando qualcuno bussò alla porta della stanza.

Raggelarono, e fecero appena in tempo ad allontanarsi l’uno dall’altro che Mrs Mary Morstant entrò spazientita nella disordinata stanza del detective, chiedendosi perché il suo amato promesso sposo non fosse già sceso per stare con lei.

“John, hai sistemato tutto?” chiese

Ma fu il detective a risponderle,cinicamente,  battendo sul tempo l’amico.

“La domanda più interessante Mrs Morstant è, da quando si entra nelle camere altrui  senza permesso?”

“Ho bussato, signor Holmes”

“Certo, abbiamo sentito. Ma mi pare di non averle dato il permesso di entrare”.

Chiuse quel breve battibecco con un ironico, falsissimo, sorrisino. Watson ridacchiò, ricevendo in cambio un’occhiataccia dalla donna, ma non ci fece caso.

“Ancora un attimo Mary, poi giuro che potremmo andare”, la tranquillizzò.

Quindi lei si sentì padrona di accomodarsi sulla poltrona di Holmes, che sgranò gli occhi sconvolto quando la vide allungare una mano verso il suo adorato stradivari. Poteva avere la poltrona, ma non il violino!

Come un fulmine si precipitò verso di lei, strappandole con ben poca grazia il violino dalle mani, con un secco “Non tocchi!”, seguito da uno sguardo truce, mentre si portava il violino al petto.

Lei sembrò accigliarsi, quindi il dottore si affrettò a rivolgerle un “Cara, perché non mi aspetti di sotto?”, sfoggiando il suo sorriso più cordiale.

“Si, perché non lo aspettate di sotto?!” gli fece eco Holmes, che ancora stringeva al petto il suo violino con fare possessivo.

Quindi la donna sbuffò ed uscì dalla porta, indispettita, sbattendo la porta.

“Non portatela più qui, Watson! Non portatela più qui!” si affrettò a brontolare il detective, con voce irritata e stranamente acuta, mentre riponeva il suo amato strumento musicale dentro l’apposita custodia, trovata in quel momento in tutto quel suo ordinato caos.

E il medico a quella scena non potè far altro che scoppiare a ridere, per poi chinarsi su di lui per lasciare un altro bacio sulle sue labbra.

“Non era mia intenzione farlo…” gli sussurrò, mentre le sue labbra si stendevano in un sorriso ammiccante.

“Ci vediamo presto Sherlock”.

E così dicendo uscì dalla camera, rimettendosi il cappello, senza voltarsi indietro, lasciandolo ancora sorpreso davanti alla sua scrivania, mentre la sua mente analizzava quella complicata situazione, e le sue labbra si stiravano in un sorriso.

Non era un addio, ma solo un nuovo inizio.

 

*****

Nello stesso  momento Watson e la giovane Mary, saliti finalmente sulla carrozza, avevano dato le indicazioni al cocchiere, che li stava conducendo per le vie di Londra, fino alla loro nuova casa.

Improvvisamente Mary parlò, sbottando un “Credo che non riuscirò mai a capire Holmes! Ne tanto meno ad andarci d’accordo!”

“Oh, non prendertela cara, il suo è un carattere un po’… come dire… particolare. Non tutti riescono a capirlo. Ma ti posso assicurare che è la persona migliore che io abbia mai conosciuto.  Forse…”, fece una pausa, sospirando, “questo suo carattere è il prezzo che deve pagare per la sua genialità!”

“Già… è un genio!” fu costretta ad ammettere, “Un dannato genio!”

“A damn genius…” sussurrò il dottore, mentre guardava quelle strade di Londra che l’amico conosceva come le sue tasche.

“My Damn Genius…”

 

 

The End

 

 

E siamo giunti alla fine anche di questa. In questo momento mi sembra che troppe storie stiano finendo, ma in realtà non è proprio così, senza contare che per ogni storia conclusa ne ho una nuova in cantiere! xD ma che ci volete fare, ormai lo sapete che io mi affeziono alle mie storie in corso, e mi dispiace sempre quando terminano.

Che dire, per concludere? Grazie per essere stati con me, per aver riso, e per esservi commossi con le vicende dei miei Holmes e Watson. Grazie veramente.

Un ringraziamento particolare a: hay_chan, Flagiu_Mustang, Meme91, Euterpe, ShortMaggot e susyko, per aver recensito lo scorso capitolo. ^^

Inoltre grazie a:

Alchimista

aXce

Birbabirba

EugyChan

ginnyx

icaro smile

marly29

Nia

pochiperpe

Raven_95

sweetilsness

_NeMeSiS_

bliccia

beatrix potter

jadina94

Luna Lastenfire

Per aver preferito/seguito/ricordato la mia fic. ^^

Grazie mille a tutti voi! Senza il vostro supporto noi autori non avremmo lo stimolo di scrivere.

GRAZIEEEE!!!!!!

 

Adesso devo salutarvi, per l’ultima volta da questa storia.

Buona estate a tutti!!! Un bacione.

Kiss,

ladyElric92

 

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