My Damn Genius di ladyElric23 (/viewuser.php?uid=29525)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1. ***
Capitolo 2: *** 2. ***
Capitolo 3: *** 3. ***
Capitolo 4: *** 4. ***
Capitolo 1 *** 1. ***
My Damn Genius
Capitolo 1.
Era
una mattina grigia, fredda,
senza colore, una di quelle giornate che il miglior detective di
Londra, nonché
uno dei pochi, avrebbe definito “malsana”, quando
il suo fedele amico, il Dott.
Watson, entrò esasperato in quella camera buia e senza il
minimo accenno di
ordine o pulizia.
Come
immaginava, lo trovò steso
sul grande tappeto, scompostamente, con accanto delle boccette vuote;
le
conosceva bene lui, erano le stesse che usava lui stesso durante le sue
visite
oculistiche.
Si,
il più geniale detective di
Londra si faceva di roba per oculistica, e ancora una volta questo
pensiero gli
fece alzare gli occhi al cielo.
Ma
cosa aveva fatto di male?
“Holmes!”
lo chiamò, con voce
ferma, guardandolo dall’alto in basso, ricevendo
però in risposta solo un verso
gutturale.
Si
innervosì, come tutte le
volte, e come sempre avanzò deciso verso la finestra,
scostando violentemente
le tende.
“Ah,
ma che magnifica giornata!”
esordì, con un sorriso finto, mentre sentiva
l’altro lamentarsi a causa della
luce, che improvvisamente era arrivata a ferirgli gli occhi.
“Watson!!”
ruggì, alzando
finalmente la testa, le pupille ancora lievemente dilatate.
“Poteva essere più
delicato!”, aggiunse, mentre gattonava verso una zona
d’ombra.
Ma
lui, come al solito, aveva
fatto finta di non sentirlo.
Erano
anni che condividevano lo
stesso appartamento, con sommo dispiacere della padrona di casa, e
quindi ormai
era abituato a quei suoi comportamenti.
“Holmes,
sa da quanto tempo non
esce da questa stanza?” gli chiese, e nel vedere la sua
faccia, capendo che
stava per obiettare, rispose lui stesso, velocemente. “Quasi
due mesi Holmes!
Deve cercarsi un nuovo caso!”
“Grazie
mille per rendermi
partecipe dello scorrere del tempo, Watson. Lei è efficiente
come al solito!”,
gli disse, in quel tono velatamente ironico che sapeva fare solo lui.
Battibeccarono
ancora un po’ sul
fatto che non avesse ancora accettato un nuovo lavoro, cestinando ogni
singola
proposta, definendole scontate e poco intellettualmente stimolanti, e
alla
fine, come ogni volta, l’ebbe vinta Holmes, che infine si
mise a leggere il
giornale che l’amico aveva portato con se, rubandoglielo
dalle mani.
Dopo
alcuni minuti di silenzio,
in cui i suoi occhi vagarono sapienti
sul giornale, Watson lo stupì con un
“Si dia una sistemata Holmes, oggi andiamo a
pranzo fuori…”, ricevendo
in cambio uno sguardo stranamente stupito, luminoso.
“…
con Mary, la mia fidanzata”
terminò infine la frase il dottore.
E
Holmes, che intanto si era
alzato in piedi, lo guardò, nel più assoluto
silenzio, incupendosi.
“Mi
spiace, ma ho già un
impegno…” disse, camminando verso il piccolo
tavolincino dove erano posate una
teiera ancora fumante, una tazza e qualche biscotto.
Si
versò una tazza di tè e, dopo
essersi accertato che la cara Mrs Hudson non aveva cercato di
avvelenarlo, si
mise a sorseggiarlo tranquillamente, ancora in piedi.
Watson
sbuffò.
“Ah,
ma davv..EHI! Ma quello è il
mio cane??” esclamò, indicando col bastone quello
che una volta doveva essere
stato il suo sanissimo e curatissimo Gludstone, adesso ridotto a una
massa
informe di pelo.
Holmes
guardò nella direzione da
lui indicata, per poi girare nuovamente la testa, emettendo un
semplice, e dal
tono quasi scontato, “Si”.
“Ma
che gli ha fatto?” protestò
il dottore, indignato
“Oh,
non si preoccupi Watson! Sto
solo testando un nuovo anestetico. Se funziona poi lo rifilo alla
nonnina di
sotto…”
“HOLMES!”
“suvvia,
Watson, stavo
scherzando!”
Ancora
quel tono! Doveva
ammettere che certe volte gli veniva voglia di prenderlo a pugni.
In
alcune occasioni, se pur rare,
lo aveva fatto, in effetti…
“
E comunque… che ha da fare di
così importante?” gli chiese, poggiandosi alla sua
scrivania, ormai ricoperta
da ritagli di giornali, fogli ed alcune
sue invenzioni, l’ultima delle quali un congegno
che, applicato alla
pistola, avrebbe dovuto attutire il rumore dello sparo. Ovviamente
Holmes aveva
avuto la magnifica idea di testare la sua invenzione in casa,
così che, oltre a
constatare che era presente un errore di valutazione nel suo progetto,
ora
aveva anche dei fori di proiettile sui muri.
“Un
pranzo…”
“Ah,
davvero? E con chi?” chiese,
indagatore
A
quel punto il detective spostò
lo sguardo su alcuni vecchi quotidiani sparsi sul tavolino.
Gli
serviva un’idea. Un nome.
“con
Lestrade!” disse, leggendo
il primo nome che trovò.
Con Lestrade??! Ma che diavolo…??, si
disse mentalmente, sempre
però continuando a sorridergli. In fondo, in quegli anni
aveva imparato che a
volte non era importante cosa una persona diceva, ma il modo in cui la
diceva.
“Con
Lestrade?” ripetè Watson,
alzando un sopracciglio.
“Si,
con Lestrade! Dobbiamo
parlare di un caso… hanno chiesto una mia consulenza,
quindi… mi spiace Watson,
non ho proprio il tempo di venire a pranzo con lei ed
Elisabeth!”
“Si
chiama Mary!” protestò
“si,
come vuole” gli disse,
agitando in aria una mano.
“Ed
inoltre Watson…” aggiunse
passandogli un articolo ritagliato da un giornale, “Legga!
Legga qua!”
Lo
lesse a bassa voce, quasi tra
se e se.
“Donna
uccide il marito per
ereditare ogni suo bene materiale… Dio, Holmes!!!”
lo guardò, a metà tra
l’esasperato e l’indignato. Ogni volta che voleva
fargli conoscere una donna
con cui usciva era sempre la solita storia.
“Questi
sono i fatti Watson! E
per questo ci dovrebbe pensare due volte prima di sposare quella
Lucy!”
terminò, guardandolo con sguardo eloquente, mentre dava con
dei gesti, con
ancora un biscotto in mano, maggiore enfasi al suo discorso.
Non
faceva una piega come
ragionamento!
“MARY!”
rispose, chiudendo gli
occhi per non abbandonarsi all’isteria. “Si chiama
Mary!! E che le piaccia o
no, è la mia fidanzata, con cui io e lei oggi ci godremo un
magnifico pranzo! E
adesso si dia una sistemata!”
E
con questa sua ultima
ammonizione autoritaria se ne tornò nella sua camera, mentre
Holmes sospirava,
finendo di sorseggiare il suo tè, con sguardo spento,
rivolto ad un punto indefinito
della parete, con
il pensiero che vagava
negli angoli più remoti della sua mente
geniale.
Ed
era in quei brevi, rari,
momenti che si disprezzava per il suo genio, e per le sue acute
capacità
deduttive. Era in quei momenti che avrebbe desiderato non essere lo
stramaledetto genio che in realtà era.
Era
in quei momenti che avrebbe
preferito non capire cosa gli stava succedendo.
To Be Continued…
Salve
miei cari lettori. È con
piacere che ho postato la mia prima fic su Sherlock Holmes,
l’uomo della mia
vita! xD (ovviamente ispirata dal film).
Ovviamente, essendo il mio animo
puramente yaoista, non
poteva essere altro che una Holmes/Watson.
E
quindi… niente, spero solo che
vi sia piaciuta, almeno questa prima parte. ^^
Fatemi
sapere che ne pensate. ^^
Ci
vediamo, se vorrete, al
secondo capitolo.
Buona
Pasqua a tutti!!
Ciao!!
ladyElric92
|
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Capitolo 2 *** 2. ***
Capitolo 2.
Il
loro pranzo fu ovviamente un
vero disastro, e durò solo il tempo
sufficiente al cameriere per prendere le loro ordinazioni,
terminando
con Holmes che, dopo aver dato
un
profilo di Mary che dire pungente sarebbe stato un eufemismo, si era
beccato da
questa un bicchiere di vino in pieno viso.
Decisamente,
doveva imparare a
mordersi la lingua invece
di parlare in certe
situazioni.
Anche
perché ovviamente Mary se
ne era andata, indignata, e il suo caro John l’aveva
accompagnata a casa.
Come
pensava, si stava già
allontanando da lui.
*******
Watson era tornato a casa nel tardo
pomeriggio, dopo aver
preso un tè con Mary ed i suoi genitori, con
l’intento di fare al suo
coinquilino un bel discorso autoritario su come avesse rovinato il loro
pranzo.
Difatti, si stupì di non trovarlo nella sua camera, a
suonare il suo adorato
Stradivari, o a fare folli esperimenti chimici.
Di lui non c’era traccia.
Dopo cena, quando stava seriamente
cominciando a
preoccuparsi, un agente di Scotland Yard bussò alla loro
porta, e lo
informò che il Signor Sherlock Holmes era
in prigione, per aver causato una rissa.
Prese la prima carrozza, ed in fretta
e furia arrivò alla
prigione.
La guardia, dopo
che
ebbe pagato la cauzione, lo accompagnò fino alla sua cella.
E lo trovò li, che
se la rideva, visibilmente ubriaco, o forse drogato, insieme agli altri
detenuti; sdraiato, con la testa poggiata sulle ginocchia di uno di
quegli
uomini.
“Holmes, puoi
uscire!” esclamò la guardia in tono piatto,quasi
infastidito, aprendo
la porta della
cella.
Quindi il detective si
voltò verso l’amico, esclamando un
“Watson!”,
sorridendogli, per poi alzarsi, stringendo la mano ad ognuno dei suoi
compagni
di cella, rivolgendo loro un “signori, è stato un
piacere conoscervi, sebbene
in questo luogo. Quando uscite andiamo a berci una birra!”.
Per poi camminare barcollante verso
l’uscita della cella,
mettendosi la giacca, mentre questi gli rivolgevano un
“Arrivederci Holmes!”.
Una volta fuori da Scotland Yard,
mentre attendevano una
carrozza che li portasse a Baker Street, Watson parlò,
preoccupato ed irritato
allo stesso tempo, prendendolo sotto braccio.
“Holmes! Lei non riesce
nemmeno a reggersi in piedi! Si può
sapere di cosa si è fatto??”
“Uhm… quesito
interessante Watson…” disse, guardandolo,
crollandogli poi addosso prima di rispondere.
Riuscirono ad arrivare a casa, e al
povero Watson si
presentò la sfida più ardua di tutte.
Le scale.
Per arrivare al loro appartamento
dovevano salire una rampa
di scale, 16 gradini per la precisione, cosa non molto semplice visto
che l’altro
si reggeva a malapena in piedi, e farneticava discorsi senza senso.
Maledì entrambi per non
aver trovato una casa al piano
terreno, dopodiché gli rivolse un
“Holmes, dobbiamo fare le
scale adesso”.
Ma non appena lo lasciò un
attimo, giusto il tempo di fare
un po’ di luce nel corridoio, il detective scivolò
a sedere sul primo scalino,
le spalle ancora incollate al muro, ridacchiando mentre, guardandolo
negli
occhi con lo sguardo reso spento ed acquoso dall’alcool, gli
rivolgeva un “Ma
io la amo Watson! Sono innamorato di lei! Non sposi quella
Grace!”
Watson sbuffò sonoramente,
alzando un sopracciglio.
Dopodiché, invocando tutta
la pazienza di cui disponeva, si
fece forza e se la caricò in spalla ,
cominciando a salire i primi gradini.
“Watsooon! Lo vuole
capireee?”, continuava
a dire Holmes, e questo fece uscire
nel corridoio Mrs Hudson, che li guardava con sguardo truce, ancora in
vestaglia.
Il medico se ne accorse, e si
fermò, voltandosi lievemente.
“Mi scusi! Non era mia
intenzione svegliarla! Holmes è
ubriaco, ma non si preoccupi, ci penso io. Torni pure a
letto…” le disse,
aggiungendo poi un “Buonanotte!” quando questa
torno nelle sue stanze,
sbattendo la porta.
Quindi riuscì finalmente ad
arrivare fino alla camera dell’amico, che
intanto continuava a ripetere “Watson
io sono…sono in-inamorato di…
di…”, non riuscendo nemmeno a terminare la frase,
abbandonandosi tra le invitanti braccia di Morfeo, mentre il dottore lo faceva ricadere
delicatamente sul suo
letto, coprendolo poi con una coperta.
Mentre nella sua mente si
materializzava una domanda, nel
vederlo in quello stato.
Ma perché, nonostante
conoscesse le sue ordinarie abitudine,
nonostante conoscesse il suo sregolato stile di vita, le sue pazzie
autolesionistiche dovute al suo genio, continuava a preoccuparsi per
lui?
Perché non riusciva a
stare bene, a sentirsi tranquillo, se
non lo vedeva veramente in se, come ogni volta che affrontavano,
insieme, un
nuovo caso?
E soprattutto perché non
lo aveva ancora mandato al diavolo,
andandosene, come avrebbe fato un qualsiasi altro individuo mentalmente
sano al
suo posto, ma anzi,
stava bene in sua
compagnia, scoprendosi veramente felice, tanto da saltare alcuni
appuntamenti
con Mary per seguirlo?
Non seppe, o forse più
semplicemente non volle, rispondere a
queste domande, quindi dopo
avergli
rivolto un ultimo sguardo preoccupato, con un mezzo sorriso dolce e
comprensivo
che gli increspava le labbra, si ritirò nella sua stanza,
mentre l’altro
mugugnava nel sonno un lieve “non la sposi, non mi lasci
solo…”.
Quella giornata
per lui era stata
veramente movimentata, e
arrivato a quel punto della
notte voleva
soltanto lasciarsela alle spalle.
To Be
Continued…
|
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Capitolo 3 *** 3. ***
Capitolo 3.
Quando
il mattino seguente il
dottore fece il suo ingresso nel loro salotto, si sorprese di trovare
Holmes
già in piedi, completamente lucido, mentre leggeva uno dei
suoi tanti
quotidiani del mattino.
Probabilmente
il suo fisico era
talmente abituato ad essere sotto l’effetto di alcool o
droghe che necessitava
di ben poco tempo per riprendersi.
“Buongiorno”
disse infine,
sedendosi dall’altra parte del tavolino, prendendo a sua
volta il giornale,
mentre si versava una tazza di tè caldo portato da Mrs
Hudson.
“Buongiorno
Watson!” gli rispose
l’altro sorridente, ripiegando il giornale. “Non
l’ho sentita rientrare ieri
sera…”
A
quelle parole Watson abbassò la
copia del Times che stava leggendo,
fulminandolo con lo sguardo.
“Sta
scherzando, spero…”, gli
disse, inarcando un sopracciglio.
Ma
dopo un breve, eloquente,
silenzio, infine sbottò.
“HOLMES!
Sono stato costretto a
venirla a prendere in prigione! Lei era totalmente ubriaco!!”
Sembrava
un tipico quadretto
familiare; la premurosa madre che sgridava il figlio ribelle, o peggio,
una
giovane moglie che sbraitava contro il suo recente maritino, a causa
della sua
vita sregolata.
A
quelle parole Holmes mise su
una sorta di broncio.
Lo
faceva sempre in questi casi,
era una sorta di arma segreta.
“Non
provi ad intenerirmi con il
broncio, Holmes! E smetta di cercare di piangere, perché
dopo quello che mi ha
fatto ieri non riuscirà ad intenerirmi!”
Il
suo tono era quasi minaccioso;
pacato, tagliente, e il detective capì che questa volta era
arrabbiato davvero,
che non sarebbe bastato un broncietto per farsi perdonare.
Calò
un pesante silenzio. Ma…
“Mi
dispiace, Watson” disse
infine, distogliendo lo sguardo dal suo.
E
non avrebbe mai creduto di
poterlo pensare, ma gli dava fastidio il suo sguardo su di se. Watson
era
riuscito a metterlo a disagio, forse perché vivevano insieme
ormai da anni e
quindi si conoscevano in
ogni lato dei
loro caratteri, o forse perché il medico era riuscito ad
abbattere quel muro di
apatia ai sentimenti che era stato costretto ad erigere, a causa del
suo
lavoro.
Lo
faceva sentire vulnerabile,
come se la sua mente cessasse, in quegli istanti in cui i loro sguardi
si
incrociavano, di vagare in tutta la sua genialità, non
facendolo più ragionare.
“Prego?!”
gli chiese Watson,
incredulo.
“Mi
dispiace!” ripetè, con tono
serio.
E
l’amico lo guardò ancora,
incredulo, tant’è che lui si innervosì.
“Oh,
andiamo Watson, non faccia
quell’espressione!” sbottò, mentre si
alzava.
“Holmes,
vi sentite bene?” gli
chiese infine, ancora non credendo alle proprie orecchie.
Sherlock
Holmes che gli chiedeva
scusa?!!
Era
come ammettere che aveva
sbagliato… e tutto questo non era assolutamente da Holmes!
“Si,
sto bene… o forse no… non lo
so neanche io, amico mio” confessò, emettendo un
sospiro, per poi riprendere.
“E adesso scusatemi, ma me ne torno nella mia
stanza”.
E
così fece, senza aspettare
risposta.
Tornò
nella sua camera, chiudendo
la porta a chiave dietro di se, poggiandosi poi stancamente con le
spalle a
questa, sospirando.
Tra
una settimana il medico
avrebbe ufficializzato il fidanzamento con la signorina Morstant e se
ne
sarebbe andato per sempre dal loro appartamento in Baker Street, la
ragiona per
cui si erano incontrati.
In
effetti non passava giorno in
cui non ringraziasse mentalmente quella casa, ed il giovane Stamford,
per
averli fatti conoscere.
Poggiò
la testa contro la porta,
mentre ricordava il loro primo incontro, al laboratorio di chimica
dell’università. (*)
Da
quel giorno erano passati
anni, ma era ancora più che vivido nella sua mente;
ricordava perfettamente il
suo stato d’animo, la sua felicità per aver creato
un test per la rilevazione
dell’emoglobina e, nello stesso giorno, per aver trovato un
coinquilino.
Quel
ricordo lo fece sorridere.
Un
sorriso amaro però.
Quegli
anni passati a Baker
Street erano stati i più belli ed intensi di tutta la sua
vita; era stato
finalmente riconosciuto come una delle migliori menti della nazione e,
nonostante non li accettasse, riceveva molti casi su cui investigare. E
inoltre,
cosa non meno importante, per la prima volta aveva trovato un vero
amico, una
persona su cui poter fare totale affidamento.
Ma
tutto questo stava per finire…
Perché
il solo pensiero lo faceva
stare male?!
Dopotutto
non poteva continuare a
comportarsi da egoista, non poteva obbligare Watson a rinunciare alla
sua
felicità per seguirlo nelle sue imprese.
La
verità era che gli
sarebbe mancato
fare colazione in sua
compagnia, il vederlo entrare preoccupato nella sua stanza, le sue
obiezioni
sul suo senso della morale, il sentirsi rimproverare ogni volta che
cercava di
estraniarsi dalla realtà con qualche tipo di droga, il
vedere le sue
espressioni quando, ogni volta, lo stupiva con una delle sue brillanti
deduzioni…
La
verità era che semplicemente
gli sarebbe mancato Watson.
Chiuse
gli occhi, quando cominciò
a sentirli bruciare.
No,
non voleva che se ne andasse,
non voleva perderlo, non voleva rimanere nuovamente solo, come in
passato.
Aveva bisogno della presenza del medico accanto a se, altrimenti, ne
era sicuro,
avrebbe perso il controllo di se. Infatti, come aveva avuto modo di
constatare
pochi minuti prima, Watson era l’unica persona che si
preoccupava veramente per
lui, che gli stava vicino. Era quasi una sorta di coscienza, per lui. E
si rese
conto di non volere accanto nessun altro al di fuori di John Watson.
Aprì
gli occhi di scatto,
puntandoli sul camino, e finalmente vide, nel buio della sua stanza,
quello che
cercava. Il suo astuccio di cuoio.
Camminò
fino al camino, a passo
lento, la testa china, e con lentezza quasi esasperante estrasse la
siringa
dalla custodia, con un nuovo ago, ed una dose di cocaina da lui diluita in precedenza.
Dopodiché,
con la siringa in
mano, si mise a sedere sulla sua poltrona, stringendosi il laccio
emostatico
intorno al braccio sinistro.
E
iniettò.
Si
iniettò la droga endovena, e
subito dopo buttò a terra siringa e
laccio emostatico, attendendo poi gli effetti della
cocaina che ormai
gli era entrata in circolo.
Questa
forse non era altro che
un’ulteriore dimostrazione
del bisogno
di qualcuno che lo trattenesse
nella
realtà, di quanto avesse bisogno di una nuova coscienza,
visto che la sua in
quegli anni era sprofondata nell’abisso del suo genio.
Fine
Capitolo 3.
(*):
il loro primo incontro, come
saprà chi ha letto Uno Studio In
Rosso (del
A.C. Doyle), è stato veramente così, e quindi non
è frutto della mia fantasia.
Sarebbe stato troppo! xD
A
questo punto vorrei ringraziare
tutti per aver apprezzato i due precedenti capitoli. Davvero, grazie
mille! ^^
Ma
soprattutto un ringraziamento
speciale a: hay_chan, ginnyx, EugyChan,
Meme91, Flagiu_Mustang,
Raven_95 e Euterpe
per
aver commentato gli scorsi capitoli! Grazie mille^^, questo capitolo
è dedicato
a voi! ^^
E
adesso non posso far altro che
salutarvi, e darvi appuntamento, se lo vorrete, al quarto capitolo.
Un
bacione a tutti!
ladyElric92
|
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Capitolo 4 *** 4. ***
Buon
giorno cari lettori, ben
venuti all’ultimo aggiornamento di questa storia. Scrivo queste poche
iniziali righe solo per
augurarvi una buona lettura. ^^
Inoltre,
ci tengo a precisare che
il capitolo è dedicato a: hay_chan,
Flagiu_Mustang, Meme91,
Euterpe, ShortMaggot
e susyco.
^^
Buona
lettura a tutti, spero che
questo ultimo capitolo vi piaccia.
Capitolo
4.
Era
passata una settimana da
quella notte, ed era arrivato infine il
giorno in cui Watson avrebbe lasciato l’appartamento in Baker
Street per stare
con Mary.
In
quel momento il dottore stava
trasportando le sue cose, inscatolate con cura quasi maniacale, dalla
sua
camera alla carrozza, buttando ogni volta uno sguardo alla porta della
camera
di Holmes, irrimediabilmente chiusa; la sera precedente avevano
litigato, di
nuovo, e non si erano più parlati.
Quella
notte lo aveva sentito
suonare insistentemente il suo violino, senza sosta, e non fu in grado
di non
chiedersi se stesse bene, o se avesse fatto ricorso ad alcool e droghe.
*****
In
quello stesso momento Holmes
stava osservando tutta quella scena dalla finestra della sua camera, ma
quando
vide la donna avvicinarsi all’amico, posandogli un bacio
casto sulle labbra,
sentì la rabbia e la frustrazione montargli dentro.
Ancora.
Quella
notte era riuscito a
trattenersi, non dando tregua al suo Stradivari, suonando frenetiche
melodie
per ore e ore, fino a quando non si era abbandonato sulla sua poltrona,
ripensando a tutti quegli anni, come ormai accadeva troppe volte.
Il
solo pensiero che tutto quello
che avevano vissuto e condiviso stesse per finire per colpa di una Mary
Morstant qualsiasi era come una pugnalata al cuore.
Si
ritrasse dalla finestra, e per
la frustrazione diede un calcio alla scrivania.
Alcuni
fogli caddero a terra, e
lui notò subito una foto, che svolazzando si
poggiò silenziosamente sul
tappeto. Era stata scattata il loro primo giorno a Baker Street, era
uno dei
suoi ricordi più cari.
Serrò
i denti, in preda ad una
rabbia crescente, e si accanì sul resto della sua roba;
poggiò le mani sulla
scrivania, per poi scaraventare tutto quello di cui era ricoperta
terra,
urlando, cadendo poi in ginocchio tenendosi la testa. E in quel momento
la
vide, di fianco a
lui, la sua pistola.
La fissò qualche secondo,
poi allungò la
mano per raccoglierla, con il respiro che si era fatto innaturalmente
veloce.
*****
Stava
per finire di trasportare
le sue cose, mancava solo un baule, quando Mrs Hudson lo raggiunse,
visibilmente preoccupata.
“Dottore,
credo che dovrebbe
parlare con…”
Ma
non riuscì a finire la frase,
perché proprio in quel momento udirono uno sparo, che
chiaramente proveniva dal
piano di sopra.
E
dopo questo un altro, e un
altro ancora.
Il
dottore si fece consegnare la
copia della stanza del collega, e decise di andare a parlare con lui.
Ormai
neanche gli spari lo
impressionavano più; era troppo abituato alle bizzarrie di
Holmes, e era
cosciente del fatto che il suicidio non rientrava tra le sue
priorità. Quindi
non c’era da preoccuparsi.
Inserì
la chiave nella serratura,
aprendo la porta, e si vide puntare la pistola contro dal detective.
Continuò
ad avanzare, lentamente,
chiudendo la porta dietro di se, guardandolo mentre la pistola si
abbassava.
Holmes
tremava, aveva gli occhi
arrossati e leggermente lucidi.
“Se
ne vada Watson! La sua cara
Mary la aspetta!” sibilò malevolo
“Holmes…”
disse comprensivo il
dottore, avvicinandosi ancora, fino ad essergli davanti. Se solo avesse
teso un
braccio avrebbe potuto toccarlo. “Non me ne andrò
da qui senza aver parlato con
lei”.
“Se
ne rallegri Watson, stiamo
parlando! Lei può finalmente andarsene
come desidera!” rispose acido, calcando particolarmente su
quella parola.
“Intendevo
parlare veramente,
tranquillamente, senza avere contrasti”
Holmes
sbuffò, sfoggiando un
amaro sorriso, per poi voltarsi, dandogli le spalle.
“Lei
è sempre stato un sognatore
Watson” disse infine, girandosi nuovamente, rivolgendogli uno
sguardo triste.
“Holmes,
davvero io… io non
capisco! Io non la riesco a capire! Perché mi tratta in
questo modo?”
“Perché?!
Davvero non l’ha
capito?! La credevo più perspicace
Watson…”
Fu
un secondo.
Un
secondo in cui il medico lo
immobilizzò con la schiena contro la parete, bloccandogli le
braccia.
“Smetta
di prendersi gioco di
me!” gli disse, vicino al suo viso, stranamente agitato,
mentre si sorprendeva
della reazione dell’altro, o meglio, della non-reazione; non
aveva opposto
resistenza, era rimasto li, docile sotto la sua presa, nonostante con
la sua
conoscenza delle arti marziali avrebbe potuto allontanarlo facilmente.
Il
dottore lo vide chiudere gli
occhi, mentre poggiava la testa contro la parete.
“Sa,
Watson, ho pensato molto
agli anni che abbiamo passato insieme, in questi
giorni…”, disse.
“…E?”
gli chiese, mentre Holmes
aveva ripreso a guardarlo.
“No,
niente… lasci perdere…”
concluse infine l’investigatore, abbassando la testa.
Per
la prima volta da quando si
conoscevano si ritrovò a pensare che Holmes gli faceva
tenerezza.
“Holmes…”
lo chiamò, con tono
comprensivo, cercando il suo sguardo che però non
trovò, senza ricevere
risposta.
“Sherlock…”
Lo
vide sussultare, per poi
alzare la testa di scatto, sorpreso, rivelando i suoi occhi arrossati
ed
apparentemente smarriti.
Fu
un attimo. Un attimo in cui l’istinto
prevalse sulla mente del detective.
Scattò
in avanti, posando le
labbra su quelle del dottore, con una delicatezza assoluta.
Dopodiché,
realizzando cosa aveva
appena fatto, sgranò gli occhi, liberandosi finalmente della
fragile presa
dell’altro.
“Si…Bene…
credo che…” balbettò,
cercando di formulare una
frase di senso
compiuto, mentre camminava freneticamente per la stanza.
Stava
per afferrare il violino,
probabilmente per cominciare a suonarlo convulsamente,
quando…
“Holmes!”
Si
voltò, e spalancò gli occhi,
trattenendo il respiro, quando Watson si appropriò delle sue
labbra.
“Watson,
ma cos…?”, ma non riuscì
a terminare la frase, perché l’altro lo
baciò ancora.
E
ancora. E ancora.
Dovette
sorreggersi con una mano
alla scrivania per
non perdere
l’equilibrio, ma alla fine rispose al bacio, a quel contatto
così agognato, un
eccitante contatto dolce e possessivo allo stesso tempo.
E
stava deliberatamente scendendo
lungo il collo dell’altro, sulla giugulare e poi
giù fino alle clavicole,
quando qualcuno bussò alla porta della stanza.
Raggelarono,
e fecero appena in
tempo ad allontanarsi l’uno dall’altro che Mrs Mary
Morstant entrò spazientita
nella disordinata stanza del detective, chiedendosi perché
il suo amato
promesso sposo non fosse già sceso per stare con lei.
“John,
hai sistemato tutto?”
chiese
Ma
fu il detective a
risponderle,cinicamente, battendo
sul
tempo l’amico.
“La
domanda più interessante Mrs
Morstant è, da quando si entra nelle camere altrui senza permesso?”
“Ho
bussato, signor Holmes”
“Certo,
abbiamo sentito. Ma mi
pare di non averle dato il permesso di entrare”.
Chiuse
quel breve battibecco con
un ironico, falsissimo, sorrisino. Watson ridacchiò,
ricevendo in cambio
un’occhiataccia dalla donna, ma non ci fece caso.
“Ancora
un attimo Mary, poi giuro
che potremmo andare”, la tranquillizzò.
Quindi
lei si sentì padrona di
accomodarsi sulla poltrona di Holmes, che sgranò gli occhi
sconvolto quando la
vide allungare una mano verso il suo adorato stradivari. Poteva avere
la
poltrona, ma non il violino!
Come
un fulmine si precipitò
verso di lei, strappandole con ben poca grazia il violino dalle mani,
con un
secco “Non tocchi!”, seguito da uno sguardo truce,
mentre si portava il violino
al petto.
Lei
sembrò accigliarsi, quindi il
dottore si affrettò a rivolgerle un “Cara,
perché non mi aspetti di sotto?”,
sfoggiando il suo sorriso più cordiale.
“Si,
perché non lo aspettate di
sotto?!” gli fece eco Holmes, che ancora stringeva al petto
il suo violino con
fare possessivo.
Quindi
la donna sbuffò ed uscì
dalla porta, indispettita, sbattendo la porta.
“Non
portatela più qui, Watson!
Non portatela più qui!” si affrettò a
brontolare il detective, con voce
irritata e stranamente acuta, mentre riponeva il suo amato strumento
musicale
dentro l’apposita custodia, trovata in quel momento in tutto
quel suo ordinato
caos.
E
il medico a quella scena non
potè far altro che scoppiare a ridere, per poi chinarsi su
di lui per lasciare
un altro bacio sulle sue labbra.
“Non
era mia intenzione farlo…”
gli sussurrò, mentre le sue labbra si stendevano in un
sorriso ammiccante.
“Ci
vediamo presto Sherlock”.
E
così dicendo uscì dalla camera,
rimettendosi il cappello, senza voltarsi indietro, lasciandolo ancora
sorpreso
davanti alla sua scrivania, mentre la sua mente analizzava quella
complicata
situazione, e le sue labbra si stiravano in un sorriso.
Non
era un addio, ma solo un
nuovo inizio.
*****
Nello
stesso momento
Watson e la giovane Mary, saliti
finalmente sulla carrozza, avevano dato le indicazioni al cocchiere,
che li
stava conducendo per le vie di Londra, fino alla loro nuova casa.
Improvvisamente
Mary parlò,
sbottando un “Credo che non riuscirò mai a capire
Holmes! Ne tanto meno ad
andarci d’accordo!”
“Oh,
non prendertela cara, il suo
è un carattere un po’… come
dire… particolare. Non tutti riescono a capirlo. Ma
ti posso assicurare che è la persona migliore che io abbia
mai conosciuto. Forse…”,
fece una pausa, sospirando, “questo
suo carattere è il prezzo che deve pagare per la sua
genialità!”
“Già…
è un genio!” fu costretta
ad ammettere, “Un dannato genio!”
“A
damn genius…” sussurrò il
dottore, mentre guardava quelle strade di Londra che l’amico
conosceva come le
sue tasche.
“My
Damn Genius…”
The
End
E
siamo giunti alla fine anche di
questa. In questo momento mi sembra che troppe storie stiano finendo,
ma in
realtà non è proprio così, senza
contare che per ogni storia conclusa ne ho una
nuova in cantiere! xD ma che ci volete fare, ormai lo sapete che io mi
affeziono alle mie storie in corso, e mi dispiace sempre quando
terminano.
Che
dire, per concludere? Grazie
per essere stati con me, per aver riso, e per esservi commossi con le
vicende
dei miei Holmes e Watson. Grazie veramente.
Un
ringraziamento particolare a:
hay_chan, Flagiu_Mustang, Meme91, Euterpe, ShortMaggot e susyko, per
aver
recensito lo scorso capitolo. ^^
Inoltre
grazie a:
Alchimista
aXce
Birbabirba
EugyChan
ginnyx
icaro
smile
marly29
Nia
pochiperpe
Raven_95
sweetilsness
_NeMeSiS_
bliccia
beatrix
potter
jadina94
Luna
Lastenfire
Per
aver
preferito/seguito/ricordato la mia fic. ^^
Grazie
mille a tutti voi! Senza
il vostro supporto noi autori non avremmo lo stimolo di scrivere.
GRAZIEEEE!!!!!!
Adesso
devo salutarvi, per
l’ultima volta da questa storia.
Buona
estate a tutti!!! Un
bacione.
Kiss,
ladyElric92
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