SEGRETI DI FAMIGLIA (/viewuser.php?uid=95719) Lista capitoli: Capitolo 1: *** capitolo 1 *** Capitolo 2: *** Capitolo 2 *** Capitolo 3: *** Capitolo 3 *** Capitolo 4: *** Capitolo 4 *** Capitolo 5: *** Capitolo 5 *** Capitolo 6: *** Capitolo 6 *** Capitolo 7: *** Capitolo 7 *** Capitolo 8: *** Capitolo 8 *** Capitolo 9: *** Capitolo 9 *** Capitolo 10: *** Capitolo 10 *** Capitolo 11: *** Capitolo 11 *** Capitolo 12: *** Capitolo 12 *** Capitolo 13: *** Capitolo 13 *** Capitolo 14: *** Capitolo 14 *** Capitolo 15: *** Capitolo 15 *** Capitolo 16: *** Capitolo 16 *** Capitolo 17: *** Capitolo 17 *** Capitolo 18: *** Capitolo 18 *** Capitolo 19: *** Capitolo 19 *** Capitolo 20: *** Capitolo 20 *** Capitolo 21: *** Capitolo 21 *** Capitolo 22: *** Capitolo 22 *** Capitolo 23: *** Capitolo 23 *** Capitolo 24: *** Capitolo 24 *** Capitolo 25: *** Capitolo 25 *** Capitolo 26: *** Capitolo 26 *** Capitolo 27: *** Capitolo 27 *** Capitolo 28: *** Capitolo 28 *** Capitolo 29: *** Capitolo 29 *** Capitolo 30: *** Capitolo 30 *** Capitolo 1
Capitolo 2
Capitolo 3
Capitolo 4
Capitolo 5
Capitolo 6
Capitolo 7
Capitolo 8
Capitolo 9
Capitolo 10
Capitolo 11
Capitolo 12
Capitolo 13
Capitolo 14
Capitolo 15
Capitolo 16
Capitolo 17
|
Capitolo 18
*** Capitolo 18 ***
Capitolo 18 -No!
Lasciatemi, lasciatemi!- urlava, e si contorceva mentre lo
trascinavano verso il letto. Riuscì a mordere il braccio di
uno dei due
ausiliari prima che riuscissero a legarlo, ma alla fine fu sopraffatto
e reso
inoffensivo. Paura,
rabbia, dolore, odio, tutto nella sua testa scorreva in
pochissimi secondi. Le
cinghie che gli legavano polsi e caviglie erano imbottite, quindi,
anche se le avesse strattonate all’infinito non correva il
rischio di farsi del
male. Non
smise di inveire e continuò a strattonare i suoi legami
anche
quando la caposala entrò nel suo campo visivo. Aveva in mano
una siringa, e
tutta l’intenzione di usarla. Tentò di scalciare.
Lei fece un sorriso e gli
affondò l’ago nel braccio, vicino alla spalla. Non
potendo sottrarsi, emise un
lamento dolente simile a quello di un animale braccato. -Adesso
dovrai calmarti per forza. Mi dispiace, non volevo arrivare a
tanto, ma quando un paziente diventa violento, le restrizioni sono
necessarie.
Comunque, tra poco ti sentirai meglio. La
sua faccia sembrò galleggiargli dinanzi agli occhi,
diventando
sempre più grande. -Con
chi stavi parlando?- riprovò Doreen, cercando di
intrufolarsi di
nuovo nella sua testa. Benji
cercava ancora di liberarsi, anche se molto più lentamente.
Sentiva gli occhi pesanti e aveva una gran voglia di dormire. Doreen
gli posò una mano sul braccio che tentava ancora di
liberare.
Lui sussultò e cercò di sottrarsi a quel
contatto, ma lei scosse la testa. -Non
serve a nulla fare così. Concentrati sulla mia domanda,
più tardi
sarai di nuovo libero. Allora, chi è che ti tormenta? Benji
voltò la testa dall’altra parte, evitando di
rispondere,
spaventato all’idea che per effetto dei sedativi gli potesse
sfuggire di bocca
qualcosa. Lei
insisté:- Chi ti ha parlato Benji? Perché dici di
essere nei guai?
Cosa c’entriamo noi e … tua sorella? Le
sue difese erano abbassate. Doreen sembrò aumentare a due
metri di
statura, la vista si offuscò, i muscoli tesi si rilassarono.
Le
ultime parole che pronunciò prima di addormentarsi, furono:-
Lui si
arrabbierà con Rachel se io parlo … e non me la
farà passare liscia se qualcuno
lo scopre … la testa … mi fa male la testa. Le
parole erano un po’ biascicate ma Doreen le udì
chiaramente, e così
Jeff. Poi
le palpebre si fecero sempre più pesanti, gli occhi si
chiusero e
Benji precipitò in un’oscurità senza
fondo.
Philip
spalancò le doppie porte del blocco operatorio, levandosi la
mascherina con evidente sollievo. L’operazione era durata ben
più a lungo del
previsto, quasi tre ore e un quarto, e anche se era andato tutto bene,
si
sentiva spossato. C’era
un caldo opprimente lì dentro, nonostante i condizionatori.
Le
porte si aprirono di nuovo e John uscì insieme a
un’infermiera. -Dica
ai parenti che l’operazione è finita ora e che
tutto è andato
bene. Stiamo portando il paziente in rianimazione, quindi almeno fino a
domani
non sarà possibile vederlo – istruì il
primario. -Sì
dottore. -Ah,
dica anche alla famiglia di andarsi a riposare. Il paziente
è in
ottime mani. -Sì
dottore, a più tardi. L’infermiera
uscì, lasciandoli soli. John si lavò le mani,
mentre
Philip indossava una casacca verde pulita. Tralasciò di
infilarsi sopra il
camice bianco. Troppo caldo. -Grazie
John, ottima collaborazione – sorrise Philip. Reynolds
annuì – E’ andata bene, sì.
Ora però ho bisogno di un bel
caffè forte che mi tiri su e qualcosa da mangiare; la notte
è lunga e fa troppo
caldo. Vuoi niente? -Il
solito. Ti aspetto in ufficio. -Bene
- John si allontanò. Una
volta nel suo ufficio, Philip si sdraiò comodamente nella
poltrona.
Mise i piedi sulla scrivania. Era mezzanotte e trentacinque; di sicuro
a
quell’ora non riceveva più nessuno e poteva
mettersi comodo. Afferrò
il telefono e compose l’interno di Doreen. Rispose al terzo
squillo. -Dottor
Price, cosa fa ancora in giro a quest’ora? – la
voce ben
sveglia e chiara, come sempre. Philip
sorrise stancamente – Sono di turno cara, esco ora dalla sala
operatoria. Sono a pezzi, ma ho del lavoro arretrato da sbrigare. -Insisto,
dottore. Vada a casa e si riposi un po’.
C’è John con lei,
no? -Sì
ma non voglio tornare. Credo che mi addormenterei al volante. Mia
moglie sarà a New York per tutta la settimana, sono nel clou
del processo
… -Capisco.
Si sentirebbe solo in quell’enorme casa vuota. -Già.
Riposerò qui nel mio ufficio. -Mmmh,
non le credo. Comunque scenderò da lei tra una
mezz’oretta. Ho
bisogno di un consulto. Ci sono stati degli sviluppi interessanti, qui. -Benji?
– chiese Philip leggermente allarmato. Si sporse in avanti,
togliendo i piedi dalla scrivania. -Sì. La
porta si aprì e John entrò con due vassoi carichi
di cibo e
bicchieri di caffè. Vedendo che era al telefono, si
voltò per uscire ma Philip
gli fece cenno di rimanere, non era una conversazione privata. John si
accomodò
sulla poltrona al di là della scrivania e attese in silenzio. -Che
cosa è successo? -Credo
che stia per cedere dottore. Forse dopotutto il dottor Kay è
riuscito ad aprire una breccia, l’altro ieri. -Non
può essere più specifica? -E’
tutto scritto nel rapporto, comunque tanto vale dirglielo adesso.
Jeff stava facendo il giro di controllo quando ha sentito gridare, ed
è corso a
vedere. Dice che Benji stava parlando con qualcuno al di là
del corridoio. Era
furioso, batteva i pugni contro il vetro, ma nel corridoio non
c’era nessuno.
Quando lo ha visto, Jeff dice che all’inizio sembrava
spaventato, probabilmente
per essersi fatto sorprendere a comportarsi in modo strano. Durante
l’ultimo controllo, infatti, era tranquillo, quasi apatico,
tanto
che non ho avuto problemi a lasciare la porta aperta …
dottore? Vuole che
continui? -Sì.
Sì, la prego. -Jeff
dice che a un tratto è cambiato. Era lucido, probabilmente i
farmaci devono aver esaurito il loro effetto nell’arco di
tempo delle due
visite, ma il fatto che Jeff non riesce a spiegarsi è che
sembrava del tutto
lucido ma allo stesso tempo sembrava come … allucinato. Si
comportava da
paranoico, ha cominciato a chiedere di Rachel. Jeff dice che era
matematicamente certo che lei fosse lì. Francamente
non mi spiego nemmeno io come facesse a saperlo, fatto sta
che ha iniziato a chiedere di lei. Era diventato molto irrequieto,
addirittura
aggressivo nei confronti di Jeff. L’ha preso a male parole,
ma la sua ira è
esplosa quando Jeff gli ha fatto capire che, se avesse iniziato a
collaborare,
avrebbe potuto anche vedere Rachel. Philip
si passò una mano sugli occhi e prese il caffè.
John sorseggiava
il suo, ascoltando attentamente. -Poi
che è successo? -Ha
preso a inveire contro di lui, urlando di voler uscire, di non
essere pazzo. Jeff non ha atteso oltre e mi ha chiamato. Siamo entrati
in
quattro nella cella e ora le dirò ciò che ho
visto. Era
furioso, sì, ma terrorizzato a morte; sembrava in
sé ma allo stesso
tempo si comportava come se fosse sotto l’effetto di droghe.
E i suoi occhi …
ho capito subito che qualcosa non andava quando l’ho guardato
in faccia. Sembrava
non vedermi, o meglio, sembrava che al posto mio vedesse
qualcun altro … -Il
misterioso Uomo Calvo probabilmente. -Non
lo so, ma ne era terrorizzato. Diceva che era nei guai per colpa
nostra. Ho cercato di farlo parlare ma si è chiuso a riccio.
Ha avuto un attimo
di smarrimento, ci ha guardato come per assicurarsi che avessimo
sentito o meno
qualcosa anche noi, poi è successo di nuovo … ha
chiesto di Rachel … ma era
come se non stesse parlando con noi. Ne ho avuto conferma quando ha
detto,
testuali parole, “sta zitto, io non so nemmeno se sei
reale”. -Un’
altra allucinazione con quest’Uomo Calvo? -Può
essere dottore, ma è stata una cosa … non so
davvero come
descriverla, mi creda. -Continui,
la prego Doreen. -L’ho
afferrato per un braccio, l’ho chiamato, e quando sembrava
che
fosse tornato in sé, si è spaventato, mi ha
gridato di non toccarlo e ha
iniziato a strattonarmi perché lo lasciassi e -non
riuscendoci- ha tentato di
colpirmi più volte. -C’è
riuscito? -Una
volta sola e devo dire che ha un gancio destro davvero niente
male. Avrebbe continuato fino a sfogare tutta la sua rabbia, se Jeff e
gli
infermieri non l’avessero fermato; ne ha perfino morsicato
uno. Facevano fatica
in tre a tenerlo; a questo punto è superfluo che le dica che
ho dovuto
ricorrere alle peggiori misure restrittive – lei sa a cosa mi
riferisco. Mi
spiace averlo fatto ma, in effetti, altro modo per calmarlo non
c’era e temevo
che si potesse fare del male … sa quel suo braccio ancora
non è guarito del
tutto. -Non
si preoccupi Doreen, ha fatto la cosa giusta. Sedativi? -Torazina.
Dose minima, è crollato quasi subito. -Ha
detto nient’altro? -Ho
tentato ancora di fare domande e fino all’ultimo ha cercato
di
resistere, ma credo che qualcosa sia cambiato. -E
cioè? -Quando
le farò leggere il rapporto, capirà. E’
come se avesse ammesso
che qualcosa o qualcuno, non so, gli impedisse di parlare, minacciando
ritorsioni contro di lui e Rachel. -Interessante
– commentò infine Philip – ora come sta? -Dorme.
E’ tornato tranquillo. La torazina l’ha proprio
steso, non darà
più problemi, almeno non stanotte. Mi spiace solo che il
dottor Kay avrebbe
voluto vederlo lucido, domattina, non intontito dai farmaci. -Forse
è meglio così Doreen. Kay ha già
rischiato di farsi spaccare la
testa una volta. E magari sarà più malleabile se
non avrà il pieno controllo delle
sue facoltà mentali. Ma sono anche da tenere in conto
effetti collaterali; non
sottovaluti la possibilità di un’altra reazione
violenta. Dica a Kay di non
farsi trovare impreparato, stavolta, e usare restrizioni se necessario. -Non
parlerà mai con noi, dottore, se andremo avanti a lungo
così. -Me
ne rendo conto perfettamente, Doreen, ma nonostante vi avessi messo
in guardia, per ben due volte vi siete quasi fatti sopraffare. Non
posso
permettere che ciò accada di nuovo, quindi trovate il
sistema di impedirgli di
usare le braccia per lanciarvi contro qualcosa. Fate in modo che si
possa
muovere abbastanza liberamente senza nuocere a nessuno, se stesso
compreso.
Crede di poterlo fare, Doreen? -Credo
di sì, dottor Price. -Bene.
Mi avvisi quando Kay sarà arrivato domattina. Forse ci siamo. -Certo,
dottore. -E
Rachel? -Per
quanto ne so tutto tranquillo. Ora devo lasciarla,
c’è il cambio
turno. Sarò da voi tra una mezz’oretta. -Voi?
– sorrise Philip. -Dottor
Price, se la conosco bene come credo, lì da lei ora
c’è il
dottor Reynolds. E
sulla sua scrivania, vassoi colmi di porcherie dei distributori
automatici, dato che la mensa chiude alle otto. Per non parlare delle
quantità
barbare di caffè che state per trangugiare! Philip
rise – Touchè.
Accidenti
Doreen, lei mi conosce meglio di quanto potessi immaginare! Doreen
sorrise – A più tardi dottore. Ci vada piano con
quel caffè. Philip
riattaccò il telefono. -Novità?
– chiese Reynolds impaziente. -Puoi
ben dirlo John, ora ti racconterò tutto. Passami un
po’ di caffè. Sono tornata dopo il guaio al pc....vedrete delle differenze infatti, ma spero non infastidiscano....grazie Emy per le belle parole, sono contenta che la storia ti piaccia. Grazie anche ad Arte per la bella mail e alla mia "mamma Kellina". Un saluto alle mie affettuose lettrici e un arrivederci al prossimo capitolo, ***Lady Faith*** |
Capitolo 19
*** Capitolo 19 ***
Capitolo 19 Il
mattino seguente, Kay mise la testa nell’ufficio della
caposala per
avvisarla del suo arrivo. Era ansioso di mettersi al lavoro. Sentendo
bussare, Doreen alzò la testa. -Vi stavo aspettando. Ha già parlato col dottor
Price? Doreen
sbatté sul tavolo il fascicolo aggiornato – Tenga,
è tutto suo.
Ci ho lavorato sopra tutta la notte. Lo legga prima di incontrare il
dottor
Price, sono certa che lo troverà interessante. Kay
prese il fascicolo di Benji e iniziò a scorrerlo.
Aggrottò la
fronte, continuando a leggere avidamente. Quando riabbassò i
fogli, si trovò di
fronte il cipiglio severo della mastodontica caposala. -Vuole
dirmi qualcosa, per caso? – chiese un po’ a disagio. -No
dottore. Ciò che deve sapere è tutto scritto
lì, credo …
m’incuriosiva solo una cosa, se posso permettermi. -Certo,
dica pure Doreen. -Dottor
Kay, il fatto che lei sia entrato nel mio ufficio così
entusiasta ed ottimista non può che farmi piacere, questo
è ovvio … ma vorrei
che non dimenticasse quello che è successo l’altro
ieri. -Doreen
mi creda, ho imparato la lezione. Mi atterrò con scrupolo al
regolamento. -Bene,
perché vede, non ho voglia di rincorrere un’altra
volta uno dei
miei pazienti per tutto l’ospedale a causa delle sue
… terapie alternative! Fece
un gesto di diniego con la mano. Kay sorrise, richiudendo la
cartella clinica. -Già,
è stata un po’ azzardata come idea, lo ammetto, ma
se non ho
letto male, pare che qualcosa abbia iniziato a smuoversi … Doreen
gli voltò le spalle per dirigersi alla macchinetta del
caffè dietro
la sua scrivania. -E’
solo la punta dell’iceberg, non si faccia troppe illusioni,
dottore. Benji è un paziente difficile, imprevedibile,
instabile e non solo
perché è il figlio del primario, ma proprio per
una questione caratteriale. Si
voltò di nuovo verso Kay, porgendogli un bicchiere di
caffè fumante. -Lei
stesso lo ha constatato di persona, del resto … -Già
– ammise Kay sorseggiando il caffè –
comunque non voglio che si
preoccupi, Doreen. Lei
sorrise, un po’ sarcastica. Il telefono squillò. -Lei
non me ne dia più occasione allora, ed io
smetterò di
preoccuparmi. Ora mi scusi, devo rispondere. Kay
fece un cenno affermativo e uscì dall’ufficio
della caposala.
Voleva vedere Philip prima che questi entrasse in sala operatoria. Lo
trovò nel suo ufficio, che prendeva del caffè. -Ne
vuoi? – gli chiese non appena lo vide. -Grazie,
ci ha già pensato Doreen. -Vieni
accomodati, hai preso il fascicolo? -Si,
eccolo. Doreen mi ha appena fatto una bella ramanzina; era
preoccupata che potesse accadere ancora qualcosa. Mi sono sentito un
po’
indifeso in effetti … Philip
sorrise comprensivo – Immagino. Senti, daresti
un’occhiata anche
a Rachel? Magari ora è disposta a collaborare. Io ti
raggiungerò più tardi, tra
mezz’ora devo essere in sala operatoria. Se vuoi,
dirò a Greenway di
accompagnarti. -Sì
d’accordo, ma permettimi di dirti che se non inizieremo ad
assecondare qualche loro richiesta, i gemelli non collaboreranno mai. -Lo
so – ammise Philip – è una situazione
estremamente delicata ma per
il momento dobbiamo agire con cautela – indicò la
fronte di Kay dove spiccava
un cerotto bianco – hai visto tu stesso cosa potrebbe
succedere ad essere
troppo permissivi. Kay
annuì d’accordo con Philip –
Starò attento stavolta. E’ probabile
che Benji sia di malumore e alquanto nervoso, devo convincerlo a
fidarsi di me. -Impresa
ardua, caro collega. Benji non si fida di nessuno,
specialmente ora, nello stato confusionale in cui si trova. Vede nemici
tutto
intorno a sé; teme che ci sia un complotto contro di lui e
di Rachel ed è
convinto che io ne faccia parte. Mi odia a morte dal giorno del suo
ricovero e
non mi perdonerà mai per averlo portato in ospedale. -Non
devi abbatterti, Philip, hai fatto la cosa giusta, anche
perché
non avevi altra scelta. Prometto che farò del mio meglio per
aiutare i gemelli. Philip
gli diede un’amichevole pacca sulle spalle – Grazie
Jason,
davvero. -Non
dirlo neanche. E’ un onore per me lavorare nel tuo ospedale. Bussarono
alla porta. -Avanti
– disse Philip. Era
John Reynolds – Sei pronto? –
s’informò – ci stanno aspettando. -Sì
eccomi, arrivo. I
tre medici uscirono insieme dall’ufficio, poi si
accomiatarono. -Verrò
a dare un’occhiata non appena avrò finito qui. -Bene,
cercherò di rendermi utile Phil. Philip
sorrise e gli fece un cenno affermativo col capo, poi si
allontanò lungo il corridoio affiancato da Reynolds,
entrambi diretti al blocco
operatorio. Kay invece tornò indietro verso gli ascensori e
risalì al nono
piano, al reparto di Doreen. Decise
di prendersi un po’ di tempo prima di affrontare Benji e, con
un’altra tazza di caffè fumante, si mise a
studiare il fascicolo minuziosamente
aggiornato da Doreen. |
Capitolo 20
*** Capitolo 20 ***
Capitolo 20 Intanto Jeff era andato a controllare Benji. Dormiva ancora. Doreen aveva lasciato ordini precisi che lui si apprestava ad eseguire prima dell’arrivo del dottor Kay. Lentamente, cercando di non svegliarlo, si avvicinò al letto, ascoltando il respiro lento e regolare. La torazina l’aveva messo proprio KO.Jeff fece quello che doveva, svelto ed efficiente come al solito. Anni di lavoro con pazienti difficili l’avevano reso abile e veloce. Senza esitare, prima che il paziente si svegliasse, Jeff gli legò i polsi, avvolgendoli in due bracciali di cuoio imbottiti, quelli che in gergo gli infermieri chiamavano manette o polsiere. Stava regolando l’ultima fibbia quando Benji si mosse nel sonno, borbottando qualcosa. -Io non so niente … non ho fatto niente … - si girò su un fianco. Jeff lo lasciò fare, e quando smise di muoversi, gli prese il polso per controllare se aveva allacciato bene anche la seconda fibbia. Ad un tratto Benji sussultò e si agitò nel sonno. Jeff pensò che ormai stesse per svegliarsi, così lo tranquillizzò dicendo:- Ssth, sta buono, non è niente, solo un sogno. Lui si mosse ancora ma non si svegliò. Probabilmente sta sognando pensò Jeff e dopo un’ultima controllata lo lasciò solo, uscendo dalla stanza in attesa del dottor Kay. Benji aprì gli occhi lentamente, sbattendoli diverse volte prima di riuscire a mettere bene a fuoco. Si sentiva lento, intorpidito e confuso, tant’è che per un attimo non seppe nemmeno più dove si trovava. Poi, guardandosi intorno, riconobbe un po’ alla volta l’ambiente che lo circondava. Le pareti azzurre, la finestra con la griglia di sicurezza, la vetrata rinforzata che dava sul corridoio, la porta chiusa … nient’altro … se non la sua prigione azzurra, il suo incubo, la sua croce, che racchiudeva su di lui tutte le sue angosce più nere, le sue paure, i suoi incubi, popolati da una sinistra identità alla quale non sapeva ancora dare un nome, o forse temeva di scoprire che questa persona era reale, così come sembravano esserlo le sue continue minacce e allusioni, e come certamente erano reali i dolori lancinanti alla testa e i suoi incubi angosciosi. Rimase così per un po’, sdraiato su un fianco, ad osservare la sua stanza, lasciando vagare i suoi pensieri, dandosi il tempo di riacquistare un po’ di lucidità, allontanando da sé quella sensazione di confusione e oblio che spesso gli procuravano i farmaci. I risvegli erano sempre duri e faticosi dopo la somministrazione di medicine, ma un po’ alla volta gli tornarono in mente gli avvenimenti della sera prima. Aveva dato in escandescenze di fronte a Jeff e Doreen dopo che uno strano bambino gli aveva portato un messaggio di Rachel; la terribile notizia che suo padre ormai sapeva tutto dell’Uomo Calvo, la richiesta – non soddisfatta – di poter vedere la sorella e infine la voce di Calvo, che gli parlava mentre di fronte a lui c’erano Doreen, il suo sorvegliante e i due ausiliari. Si ricordava ogni cosa, purtroppo, anche com’era finita la sua sfuriata. Era ovvio che lo credessero pazzo dopo un comportamento del genere. Era stato spiazzato dalla voce che gli aveva parlato con altre persone presenti, cosa che non era mai successa prima d’ora. Decise comunque di non arrendersi. Loro non avrebbero potuto capire. Si tirò su, mettendosi a sedere sul letto, ancora un po’ assonnato e disorientato. Alzò una mano per fregarsi gli occhi ma qualcosa glielo impedì. A metà strada, la sua mano si bloccò. Abbassò la testa per cercare di capirne il motivo e scoprì di avere i polsi legati, avvolti in due bracciali di cuoio imbottiti. Turbato dalla scoperta, la prima reazione fu quella di liberarsi ma si rese subito conto che non era una cosa tanto facile. Sempre più atterrito Benji strattonò i suoi legami saggiandone la resistenza. Cercò di ruotare i polsi per sfilarli fuori dai bracciali, morse le fibbie cercando di aprirle con i denti ma tutto ciò che ottenne fu di tagliarsi un labbro nel tentativo. Sentì il sapore dolciastro del sangue in bocca. Fu assalito da un attacco di panico e rabbia, non riusciva a liberarsi. Ansimava per gli sforzi fatti inutilmente. Scese dal letto e si scagliò verso la porta. -Ehi! – urlò – Liberatemi, non ho fatto niente! Batté i pugni sul vetro, sulla porta ma nessuno accorse. Fece ancora qualche tentativo per liberarsi ma vedendo che era tutto inutile si arrese, accasciandosi contro il muro, la fronte appoggiata alle ginocchia. Si sentiva vulnerabile in quel momento e ciò lo terrorizzava; significava che loro stavano avendo la meglio su di lui, lo stavano piegando alla loro volontà, piano, senza fretta ma con metodo. Loro volevano ottenere qualcosa da lui e l’avrebbero avuto ad ogni costo. In quel momento di debolezza Benji si rese conto che era possibile. Non sarebbe stato oggi, forse, non domani ma alla fine l’avrebbero avuto. Suo padre e tutto il suo staff non erano certo degli stupidi! Prese a dondolarsi avanti e indietro, pensando a come tirarsi fuori da quella dannata situazione. -No no no, non posso permetterglielo! – si ripeteva, ma non riusciva ad essere determinato come al solito - Forse è colpa delle loro droghe del cavolo! – gli venne in mente. Probabilmente era così ma c’era dell’altro e lo sapeva. Era una situazione terribile, sfibrante e lui era stanco. Anche loro lo sapevano e ne stavano approfittando, traendone vantaggio. All’improvviso, una fitta dolorosa alla testa, poi una voce – quella voce – lo riportarono indietro dal baratro. Alzò la testa di scatto, sussultando per lo spavento. Si portò le mani alle tempie con un gemito di dolore. I suoi legami si tesero con un tintinnio metallico, assecondando il brusco movimento. -No. Non tu. Non adesso! Sì. Io invece! – tuonò la voce di Calvo – proprio io. Che cosa diamine ti sta succedendo, eh? Vuoi mollare? Ti hanno fatto il lavaggio del cervello forse? Benji fece un verso – Tu non puoi capire. Me lo faranno davvero se andiamo avanti così! Una fitta fortissima lo fece gemere di nuovo. Sta attento a come parli con me. Io ti conosco benissimo, tesoro, e se c’è qualcuno che capisce ogni cosa … beh, quello sono io! Dal tono sibilante della voce Benji comprese che era in collera. Era molto spaventato. Da quando quella voce si metteva a fare le morali? Era tutto così assurdo! -Lasciami in pace! Non ho mai detto di volermi arrendere e le tue intromissioni di certo non mi aiutano. Per colpa tua loro mi credono pazzo! Benji si stava arrabbiando. Sentiva la collera crescergli dentro. Se mai c’era stato un attimo di sbandamento, causato probabilmente dai farmaci, ora era di nuovo se stesso, sempre più determinato a dar battaglia. Gli dava fastidio però dover ammettere che proprio grazie a quella voce si era accorto del suo cedimento. Era per colpa di Calvo che era finito in ospedale ed ora proprio Calvo lo stava aiutando a superare una crisi. Pazzesco! Una perfida risata lo riportò alla realtà. Allora ti servono le mie intromissioni ogni tanto. Giusto per ricordarti chi è che comanda! -Sta zitto ora basta! Io non mi faccio comandare da nessuno, tantomeno da te! Un’altra fitta alla testa gli strappò un lamento doloroso. Non farmi arrabbiare ragazzo ti potrei fare molto male, lo sai - La morsa dolorosa alla testa aumentò – Se sei in questa situazione è solo colpa tua e del tuo carattere indomito, io non c’entro ma sai bene a cosa andrai incontro se mi tradisci. Non vuoi che tua sorella ci vada di mezzo, vero? Benji non riusciva a parlare. Il dolore lancinante era oltre i livelli di sopportazione. -Ah! Basta ti prego … la mia testa … Rachel … lei non c’entra, lasciala fuori … da questa storia! Vuoi che la smetta? Vuoi che il dolore finisca? Allora impara a tenere a freno la lingua, con me e andremo d’accordo … Devo sempre minacciarti per ottenere qualcosa, vero? Ma vedrai che prima o poi capirai … Il dolore si stava piano piano placando ma Benji era atterrito più che mai; era spaventato a morte dalla sofferenza fisica e mentale che gli procurava quella voce misteriosa, ma era anche furioso allo stesso tempo perché si trovava costretto a sottomettersi al suo volere e questo andava contro i suoi principi. Gocce di sudore gli imperlavano la fronte. Ansimava e gemeva per il tremendo mal di testa che gli aveva causato Calvo. Udì nuovamente la sua risata e sussultò spaventato. Mi piace il tuo temperamento focoso, combattivo, il tuo carattere ribelle, il tuo orgoglio, Benji, ma non devi usarli con me o ti farò provare terribili dolori … Da te voglio l’obbedienza più assoluta … anche da Rachel, ma soprattutto da te. Non mi importa poi se fai di testa tua con tutti questi medici, io otterrò da te più di quanto loro avranno mai! Ti basti sapere questo. Quando la voce finalmente si zittì, si sentì svuotato. Ripensare a Rachel e alla sua prigionia era devastante. Voleva vederla, parlarle, voleva tornare libero. Riprese a dondolare avanti e indietro, mormorando: - Voglio uscire da qui, voglio tornare a casa, devo trovare un modo! Un moto di rabbia e rancore s’impadronì di lui. Era confuso; tutti quegli sbalzi d’umore lo rendevano insicuro e diffidente. I contatti con l’uomo Calvo poi contribuivano alla sua instabilità emotiva. La sua ira si concentrò nuovamente sui suoi legami. Li strattonava nell’inutile tentativo di liberarsi. Si alzò in piedi furioso, urlando, divincolandosi. -Liberatemi! Hey, avete sentito? Voglio uscire da qui! L’improvviso rumore del meccanismo che apriva la porta lo spaventò. Tornò a raggomitolarsi nel suo angolino, tremando, in attesa del peggio. Ora lo avrebbero punito. Si era comportato di nuovo male, ed ora loro lo avrebbero curato per farlo tornare in sé, immobilizzandolo al letto e infilandogli quei dannati aghi nel braccio. Non voleva. Ricominciò a dondolarsi avanti e indietro, in un delirio di pensieri spaventosi. |
Capitolo 21
*** Capitolo 21 ***
Capitolo 21 Il dottor Kay lo trovò così quando entrò nella stanza. Dietro di lui c’erano Jeff il sorvegliante e una giovane infermiera che portava un vassoio metallico, sul quale – con ogni probabilità – c’erano aghi e siringhe.Rimasero un po’ indietro per non spaventarlo, mentre il giovane psichiatra avanzò di qualche passo verso Benji. Passò la cartella clinica a Jeff e si chinò di fronte al piccolo paziente, chiamandolo per nome. Notò subito quanto fosse sconvolto; tremava visibilmente. Inoltre il modo in cui si dondolava e quel suo estraniarsi da loro lo preoccupò non poco. Non sembrava nemmeno lo stesso bambino orgoglioso e testardo che aveva conosciuto. Un pensiero si insinuò con insistenza ma il medico lo scacciò prontamente. No, non può essere – pensò, tuttavia aveva davanti a sé elementi più che sufficienti per formulare quell’ipotesi. -Benji? – chiamò di nuovo ad alta voce. Questa volta lui sembrò udirlo. Si voltò verso Kay e lo guardò negli occhi; un terrore sconfinato, ma anche sospetto e indecisione trasparirono da quello sguardo. Sembrava più vulnerabile della volta scorsa, quando gli aveva lanciato contro il suo fermacarte di vetro. Kay decise di approfittarne. -Allora, come ti senti oggi? Per tutta la risposta Benji voltò la testa dall’altra parte, appoggiandola al muro. Una barriera di omertà e reticenza – Kay annuì lievemente – abbastanza logico. -Ascolta Benji so che sei spaventato e confuso e in questo momento non ti fidi di nessuno, posso capirti, ma qui sei al sicuro, tutti vogliono solo aiutarti, nessuno vuole farti del male. E per quanto riguarda l’altro giorno, io non sono arrabbiato con te. Mi senti? Capisci quello che ti sto dicendo? Benji chiuse gli occhi, emettendo un profondo sospiro. Il terribile dolore alla testa non c’era più e nemmeno la voce; restava solo l’intorpidimento dei farmaci. Riaprì gli occhi e si voltò verso il dottor Kay, guardandolo dritto in faccia. Per un interminabile secondo i due si fissarono poi Benji accennò un sorriso sarcastico. -Ho capito dottore – esclamò – Ah, se ho capito! Il suo sguardo si spostò brevemente su Jeff e la giovane ausiliaria rimasti indietro. Un’occhiata fugace che registrò la loro presenza, poi tornò a concentrarsi sullo psichiatra. -Lei è la sua spia, lavora per lui! Kay aggrottò le sopracciglia, sorpreso da quell’affermazione. -Non ti seguo Benji. -Lei si fida di me dottore? La domanda arrivò tanto diretta, quanto inaspettata – Certo che mi fido di te. Benji si alzò in piedi all’improvviso, cogliendo tutti di sorpresa. Jeff si mosse verso di loro, ma ad un gesto dello psichiatra si fermò; Kay non voleva che interferisse. -Non è vero! – gridò – e’ una dannata bugia! Kay, rimettendosi lentamente in piedi, parlò con voce calma e pacata – Va tutto bene, Benji, non ci sono menzogne, è tutto a posto, io mi fido di te, okay? Benji scosse il capo, per niente convinto – Lei è un bugiardo, dottore, come può venire qua a parlarmi di fiducia quando è lei il primo a non averne?! Come fa a dire di fidarsi di me se pensa che sia pazzo? – urlò visibilmente sconvolto. Era combattuto da sentimenti contrastanti, paura, odio, terrore, insicurezza, rabbia, un tumulto di emozioni che si alternavano dentro la sua mente confusa. -Ti sbagli Benji io sono dalla tua parte, voglio aiutarti, fatti aiutare da me, vuoi? -Me lo dimostri! -Okay, Benji io mi fido di te, cosa vuoi che faccia per dimostrartelo? Con un cenno del capo, Benji indicò Jeff e l’infermiera – Li faccia andare via. Lo guardava dritto negli occhi, sfidandolo. Kay sapeva che poteva essere un potenziale pericolo ma voleva andare in fondo a quella faccenda -Va bene. Si rivolse a Jeff – Per favore lasciateci soli un attimo. Jeff protestò – Dottore non credo sia una buona idea. -Fate come vi ho detto – insisté lo psichiatra – aspettatemi fuori. Attesero in silenzio che il sorvegliante e l’ausiliaria uscissero dalla stanza, poi Kay allargando le braccia sorrise apertamente. -Visto? Questo dimostra che io mi fido. Te la senti ora di parlare un po’ con me? Benji scosse la testa – No, non basta. -Che cosa vuoi dire? Invece di rispondergli Benji tese verso di lui i polsi legati. Sei scaltro ragazzo! – pensò Kay. Sapeva di dover stare molto attento a ciò che diceva o faceva, aveva già sentito diversi campanelli d’allarme. Fu il suo turno di scuotere la testa – No Benji, temo che dovrai accettarlo – la sua voce era ferma e autoritaria, ora – Io ho fatto qualcosa per te, ora tu fai qualcosa per me. Kay si accorse che la sicurezza di Benji sembrò vacillare per un attimo. Paura e ansia sembravano scontrarsi con la sua rabbia e disperazione. Quando parlò la sua voce non era del tutto ferma. -Andiamo, dottore, cosa crede che possa mai farle?! Si è guardato intorno? Non c’è nulla qui! -Lo so Benji e - credimi - mi dispiace ma purtroppo non posso dimenticare la tua aggressione di due giorni fa – indicò il cerotto che spiccava sulla sua fronte – mi hanno dato dei punti qui dove tu mi hai lanciato contro il mio fermacarte di vetro. Capisci dunque il perché ho dovuto prendere delle precauzioni? Benji fece un gesto di stizza. Sentiva nuovamente l’odio crescergli dentro. -Sono stato provocato – insinuò – lei si è preso gioco di me. Era … così sicuro di sé e maledettamente arrogante! Avrebbe dato sui nervi a chiunque. -Mi dispiace che tu dica questo, Benji, io non voglio prendermi gioco di te, credimi, io voglio soltanto aiutarti. -Aiutarmi … – ripeté Benji iniziando a camminare intorno al medico, in piedi al centro della stanza – Aiutarmi. Tutti qui ripetono di volermi aiutare. Parlava a bassa voce, quasi ringhiando. Kay sapeva che stava per esplodere; seguiva con attenzione le reazioni del piccolo paziente, cercando di carpirne tutte le complesse sfaccettature caratteriali. Benji strattonò con rabbia i suoi legami. Il giovane psichiatra amico di suo padre lo stava sfidando di nuovo. Non ce la faceva più a sopportarlo. All’improvviso urlò: - AIUTARMI A FARE CHE COSA?! Molto lentamente, Kay gli si avvicinò ma il ragazzo indietreggiò sospettoso, poco propenso a fidarsi di lui. Quando rispose il suo tono era calmo, conciliante, molto professionale. -Voglio aiutarti a guarire Benji. -No. Non è vero. Lei vuole solo fare bella figura con mio padre e con tutti quelli che, prima di lei, hanno fallito! Lo psichiatra sorrise a quell’affermazione –Sta a sentire Benji, io e tuo padre siamo indubbiamente ottimi amici, ma l’amicizia che ci lega e la nostra professione sono due cose distinte. Cosa ti fa credere che se io oggi andassi da lui e gli dicessi “Philip non voglio più curare tuo figlio” lui non mi farebbe sostituire? Con tutto lo staff medico di cui dispone? No, Benji, ti sbagli io non voglio fare bella figura con nessuno. Io voglio solo fare bene il mio lavoro e il mio lavoro consiste nel guarire le persone. Benji voltò la testa, guardando verso la porta. Se solo fosse potuto uscire, distrarsi un po’ … Chiuse gli occhi, rassegnato, tornando a concentrarsi sul dottor Kay. -Così lei vuole aiutarmi a guarire, eh? -Sì Benji è quello che intendo fare. Lui sorrise sarcastico poi di colpo il suo sorriso si tramutò in una smorfia rabbiosa. -Ma io non sono malato –sibilò tagliente – io non sono malato, dottore – ripeté alzando la voce. -Vedi Benji, esistono diversi tipi di malattie. Non tutte sono necessariamente fisiche; alcune non riguardano solo il corpo ma anche la mente, la psiche di una persona, ad esempio, può essere malata … -Io non sono pazzo o malato di mente, se è questo che sta cercando di dirmi!! -Chi può dire con certezza se qualcuno è sano di mente o no? Nella pazzia può esserci un fondo di verità o causa scatenante di un problema, come nella normalità può esistere un po’ di follia, è un territorio molto vasto come vedi, bisogna andarci cauti. Benji aggrottò la fronte, pensieroso. Non capiva dove Kay voleva andare a parare. -Tu sei disturbato, Benji; il mio compito consiste nell’individuare questo tuo disturbo e rimuoverlo. Un pesante silenzio cadde tra i due non appena lo psichiatra ebbe pronunciato queste parole. Kay si appoggiò alla sponda del letto incrociando le braccia, assumendo nuovamente quel fare arrogante e sicuro di sé che Benji detestava. Si sentiva turbato; le parole di Kay lo avevano colpito duramente come se fosse stato schiaffeggiato con forza. -Io sono disturbato … Rimuginava su quella frase, come per convincersi di averla udita veramente. Kay lo osservava immobile, scrutandone le reazioni. -Ti da fastidio che io abbia detto questa cosa? Senza rispondergli, Benji si era avvicinato alla finestra e stava guardando fuori attraverso la griglia di sicurezza; il parco verdeggiante che si estendeva a perdita d’occhio sul retro della struttura ospedaliera era nel pieno del suo splendore. Sarebbe stato magnifico poter passare un po’ di tempo là fuori … chiuse gli occhi ed emise un profondo sospiro rassegnato. -Allora? – Kay aspettava una risposta. Benji lo guardò:- Sinceramente non m’importa quello che lei pensa o meno. Tanto cosa cambia? Io sono il paziente malato e lei il dottore; quello che ha ragione è sempre lei, i pazzi non contano. -Ne sei davvero convinto? Kay non si era mosso. Appoggiato al letto di Benji, le mani incrociate, aveva parlato continuando ad osservarlo. -Assolutamente si – fu la risposta di Benji. Non esattamente quella che il dottore si aspettava ma era sicuro di ciò che stava facendo e sarebbe andato fino in fondo. -Lasciati aiutare da me, Benji. Ti dimostrerò che le cose andranno a posto. Benji fissava il pavimento:- Non è così semplice – rispose. Aveva una gran voglia di dirgli la verità; all’improvviso gli era anche sembrata la cosa più giusta da fare, per fortuna si era accorto quasi subito della sua debolezza. Kay era davvero in gamba, gli dispiaceva ammetterlo ma era così. Una volta tanto aveva sbagliato a giudicare. -Perché no Benji? – stava chiedendo Kay – perché non può essere semplice? Sarà semplice solo se sarai tu a volerlo … tu vuoi che sia così, vero? Lascia che io ti aiuti. Le parole suadenti dello psichiatra divennero una cantilena nella sua testa. Come un’eco, si ripetevano all’infinito e sempre più velocemente. Lascia che ti aiuti … E’ semplice … Devi essere tu a volerlo … Io voglio aiutarti … All’improvviso Benji si tappò le orecchie con le mani, scuotendo violentemente la testa. -Basta! – esclamò – la smetta, lei non può capire! Era tornato di nuovo in quello stato di agitazione febbrile in cui lo aveva trovato entrando nella stanza. Kay sentiva di essere arrivato a tanto così dalla meta. Poi all’ultimo momento Benji aveva fatto marcia indietro. Perché? Questa era la cosa che maggiormente lo torturava. Non riusciva a capire perché preferiva soffrire piuttosto che ammettere una cosa che ormai sapevano tutti. Si allontanò dal letto dirigendosi verso la finestra, voltando le spalle al suo paziente. Si soffermò a lungo a guardare il panorama sottostante, le mani dietro la schiena. Per un bel momento non disse nulla, preso com’era a riflettere. Benji non se ne preoccupò. Tornò a raggomitolarsi in un angolo della stanza, con la schiena contro il muro, le ginocchia piegate. Cercava ancora di liberare i polsi da quelle strane manette. Cominciò nuovamente a dondolarsi avanti e indietro. Un alternarsi di pensieri confusi e senza senso presero ad affollargli la mente. Benji si lasciò cadere in quell’oblio senza opporre resistenza, troppo stanco di lottare, di rimanere vigile, di ricordare la situazione di estrema sofferenza che stava vivendo. Era più facile abbandonarsi a quella meravigliosa sensazione di estasi, di pace, lasciarsi cullare in quella dolce inconsapevolezza … -Benji! Quella parola secca, simile a uno sparo lo riportò indietro alla realtà. Sussultando e gemendo tornò in sé spalancando gli occhi. Il dottor Kay era chino su di lui e lo stava scuotendo per le spalle, dandogli dei colpetti sulla guancia, chiamandolo per nome. -Benji? Riesci a sentirmi? Hey, mi senti? Spaventato e di nuovo cosciente tentò di allontanare Kay da sé, spingendolo via e scalciando, tentando di rimettersi in piedi, ma lo psichiatra afferrò i suoi legami e gli tenne ferme le braccia. -Mi lasci! Stia lontano da me! – urlava. Kay era preparato stavolta. Sapeva che la crisi era proprio dietro l’angolo; non aveva fatto altro che scatenarla. Tenendolo fermo con una mano, con l’altra frugò nella tasca del camice, estraendone una piccola siringa. Benji non si accorse di nulla, continuando a urlare e agitarsi, nel tentativo di respingere il dottore e rimettersi in piedi. -Stai calmo, non ti agitare, vedrai che ora andrà meglio – gli disse il medico e gli affondò il minuscolo ago nella coscia. Benji s’irrigidì all’istante, risucchiando l’aria in un sibilo. Kay lo sollevò da terra e lo adagiò sul letto. -Calmo, va tutto bene – gli ripeteva. Benji tremava come se avesse la febbre. Le immagini divennero sfuocate e contorte, la stanza sembrò galleggiargli intorno con le pareti che si muovevano, gonfiandosi e ritirandosi intorno a lui come se minacciassero di inghiottirlo. Spaventato, si rannicchiò sul letto, chiudendo gli occhi. Non cercò nemmeno di mettersi in piedi; se l’avesse fatto, probabilmente, sarebbe caduto a terra. -Che cosa mi sta succedendo? – gemette impaurito, la voce impastata e lenta – qui è diventato tutto strano! Si portò le mani alle tempie, quasi aspettandosi le temute e ben note fitte dolorose. I legami tintinnarono senza ostacolare troppo il movimento. Kay si sedette sul letto a fianco a lui, come un padre che rassicura il figlio che ha appena avuto un incubo. Gli mise una mano sulla spalla. Quel contatto fece sussultare Benji, ma non si mosse e non si voltò verso Kay; rimase rannicchiato sul letto con gli occhi serrati. -Va tutto bene Benji è solo la medicina. Non c’è niente di strano, è un effetto normale; ti sentirai un po’ stordito, le pareti ti parranno di gomma e ti sembrerà di parlare biascicando le parole. Benji gemette senza guardarlo:- Perché mi ha fatto questo? Io non ho aggredito nessuno … stavolta. -E’ un calmante, Benji, così potremo parlare tranquilli senza perdere le staffe. -Parlare … parlare … - lamentò Benji – Se io parlo con voi, lui mi uccide … farà del male a … Rachel … -Chi è questa persona, sai descrivermela? Silenzio da parte di Benji. Kay si alzò dal letto, passeggiando per la stanza mentre prendeva numerosi appunti. Fargli quell’iniezione non era stato molto leale da parte sua ma non credeva di avere avuto molta scelta. Benji non avrebbe mai parlato, anche se Kay avrebbe preferito una confessione spontanea, ma era pur sempre un inizio. Non voleva che Doreen arrivasse a proporgli di fare l’elettroshock. Sarebbe stato devastante. La sua teoria e i suoi sospetti si rivelarono fondati. Avrebbe dato loro qualcosa di certo su cui poter lavorare. -Dimmi Benji, sai chi è questa persona? -No … -Avanti, Benji, tu sai chi è. Kay non aveva fretta. Sapeva che il cocktail di farmaci gli avrebbe sciolto la lingua; aveva usato un dosaggio diverso al quale stava lavorando con la sua equipe, così non avrebbe corso il rischio che si addormentasse subito. Benji si agitò sul letto, gemendo e sussultando. -Non agitarti, va tutto bene. L’effetto della medicina passerà presto – la voce di Kay era rassicurante – non cercare di contrastarla, ti farà stare peggio, assecondala. E ora dimmi, ti ricordi chi è questa persona? -Lui … lui … ehm … lavora in quella … scuola. Quella … quella non è … una … scuola. Io lo so … -Intendi il Saint Peter’s College, Benji? E’ quella la scuola? -Lui e … quel posto … hanno qualcosa … in comune … ma lui non … lui non è reale. -Descrivimelo. -Alto. Molto forte … calvo … - Benji si bloccò terrorizzato per qualche secondo. Kay lo osservò. Era evidente che questa figura lo spaventava a morte. -Chi è, Benji? Avanti, dimmelo. -Non lo so … è un’allucinazione! Quell’affermazione di Benji lo sorprese. -Come si chiama, lo ricordi? Ricordi chi è quest’uomo? -No … non ho mai saputo il … suo nome. Il dottor Kay sembrò soddisfatto. Di due cose: il dosaggio del farmaco sperimentale aveva agito come un ipnotico, cosa su cui stava lavorando da qualche tempo senza risultati apprezzabili. Questa era la prima cosa. La seconda era che, finalmente, era riuscito a estorcere a Benji quel segreto che si portava dentro, o almeno una parte di esso. Non poteva ancora dire con certezza quanto di quello che il ragazzo aveva detto fosse vero o meno, ma almeno aveva qualche elemento nuovo su cui lavorare. Inoltre, essendo riuscito a farlo collaborare almeno in parte, avrebbe potuto fargli ottenere come ricompensa di uscire un po’ da quella stanza. Uscire all’aperto l’avrebbe scosso dall’apatia alla quale stava andando incontro. E lui avrebbe potuto elaborare una terapia efficace. Non vedeva l’ora di dirlo a Philip. Terminò i suoi appunti e si avvicinò al letto. Benji non si era mosso, era ancora raggomitolato con le mani premute sulle tempie. Kay gli abbassò delicatamente le braccia, e gli chiese premuroso:- Ti fa male la testa? Benji sussultò e cercò di mettere di nuovo le mani sulle tempie ma Kay glielo impedì. -Ti fa male la testa Benji? -Si – rispose infine. -Va tutto bene – lo rassicurò il dottore – ora, però voglio che ti riposi un po’, ti sei stancato parecchio oggi, anche se devo dire che ti sei comportato molto bene. Mentre parlava, il dottore gli aveva preso i polsi per liberarli dai legami ma il ragazzo ancora sconvolto, trasalì a quel contatto. -Buono ora, ti ho slegato. Domani continueremo la nostra terapia e se sarai bravo come oggi, darò disposizioni per lasciarti uscire un po’, che te ne pare? -Uscire … - disse Benji quasi non osando pronunciare quella parola. -Tutto dipende da te. Adesso però hai bisogno di riposo, sei stato molto sotto pressione ultimamente. Tornerò più tardi dopo che ti sarai svegliato. Gli fece una leggera carezza sulla testa e uscì dalla cella di contenzione. Si soffermò a osservarlo per un attimo, pensieroso, rimuginando. Poi, datogli un ultimo sguardo dal vetro, si allontanò lungo il corridoio. Voleva raggiungere il suo ufficio per aggiornare il dossier prima di farlo vedere a Philip. Era ormai più che convinto che la sua intuizione sui gemelli fosse esatta, tuttavia era ancora indeciso se parlarne subito con gli altri dottori per diverse ragioni: l’età dei soggetti tanto per cominciare, relativamente troppo giovani; l’esattezza della sua diagnosi, data in così breve tempo secondo vari criteri medici ed etici, e soprattutto la sua credibilità come medico. Non bastava essere il migliore amico del primario per avere ragione. Doveva dimostrarlo e lo sapeva. Sorrise, sicuro di sé e accelerò l’andatura, certo di avere in mano qualcosa di importante. ************************************************************************************ Grazie come sempre a voi, miei fedeli lettori. Aprire EFP e trovare le vostre belle recensioni mi provoca una gioia immensa. Mi scuso se non sempre riesco ad essere veloce negli aggiornamenti ma oltre ai danni al pc si mette pure la salute a volte.... Ma niente paura che sono sempre qui ad assillarvi con i miei scritti!! Ringrazio tutti coloro che leggono anche senza recensire, ma un saluto particolare va a voi che esprimete capitolo dopo capitolo i vostri pensieri e opinioni, per me fondamentali. Il mio grande Maestro una volta scrisse: "Scrivere è un'occupazione solitaria ma avere qualcuno che crede in te fa una grande differenza". Voi siete la mia "differenza". Siete quello che mi fa sentire importante e per ciò vi ringrazio. Continuare questa lunga avventura insieme sarà per me davvero intrigante. Spero non venga meno la voglia di leggermi. Un affettuoso saluto dalla vostra ***LadyFaith*** |
Capitolo 22
*** Capitolo 22 ***
Capitolo 22 A metà corridoio s’imbatté in Jeff.-Tutto okay dottore? – gli chiese questi un po’ preoccupato. -Si Jeff, credo di sì. A proposito, non volevo essere brusco prima, ma certe situazioni sono un po’ delicate e … -Ma certo dottore, non si deve giustificare con me, è solo che … dopo quell’aggressione non me la sentivo di lasciarvi di nuovo soli. -Grazie Jeff, lo apprezzo. Ah, tenga questi cosi, non serviranno per oggi. L’infermiere prese le manette di cuoio che il dottore gli porgeva. -E’ ancora sotto sedativi? – chiese. -Già – rispose Kay – ci sarà da lavorarci su parecchio, temo. Jeff annuì in silenzio. -Controlli stretti oggi, mi raccomando – proseguì lo psichiatra – ogni mezz’ora, quindici minuti se nota qualcosa di strano. Sono riuscito ad estorcergli una mezza confessione prima, quindi è probabile che si possa sentire in colpa e di conseguenza la frustrazione può portarlo a sentirsi o arrabbiato o depresso. In entrambi i casi voglio essere avvertito subito. E fatelo mangiare; so che spesso rifiuta il cibo; questo non va bene perché è molto debilitato e sia la reclusione sia i farmaci di certo non aiutano. Se dovesse rifiutarsi ancora di mangiare sarò costretto a farlo mettere in alimentazione forzata. Jeff annuì di nuovo:- E’ tutto chiaro dottor Kay. -Bene - annuì il giovane psichiatra – ora vado ad aggiornare i dati; dica a Doreen che ho io la cartella clinica, più tardi ci troveremo in sala riunioni. Convocherò anche il dottor Price, dovremo discutere di alcune cosette. -Si direbbe che lei sia sulla buona strada, dottore. -Già, credo anch’io. E’ solo che sono preoccupato per i gemelli, è una diagnosi un po’ dura da accettare e preferirei mille volte essermi sbagliato, anche se diversi parametri purtroppo corrispondono tutti. -E’ così grave? -Forse. O forse no, dipende da quello che riusciremo ad ottenere dai gemelli. L’infermiere e lo psichiatra si guardarono senza parlare. In realtà erano preoccupati soprattutto per Philip. Come avrebbe preso la notizia, il loro primario? In realtà Philip sospettava qualcosa già da tempo. Dal giorno, cioè, in cui aveva dovuto far ricoverare suo figlio dopo averlo trovato svenuto in un lago di sangue che delirava. Aveva saputo subito, anche se aveva preferito tacere la cosa senza aver fatto prima i dovuti accertamenti, rivelatisi poi fondati. Esistevano dei precedenti nella famiglia Price, anche se erano davvero in pochi ad esserne al corrente. Philip stesso ne era stato informato dal padre solo in età adulta e sia lui che sua sorella Patricia furono diffidati dal parlarne a qualcuno proprio dallo stesso Preston. Il vecchio primario non gradiva che si sapesse in giro che anche nella potente famiglia Price esisteva una mela marcia. Il soggetto in questione era stato il figlio più grande di Preston, Peter, morto suicida all’età di ventidue anni, quando Philip e Patricia erano ancora troppo piccoli per ricordare quel fratello maggiore che avevano a malapena conosciuto. Peter era cresciuto lontano dalla famiglia, in un collegio privato, per via del suo carattere intrattabile, aveva detto allora il Primario ai due figli più giovani. Era vero solo in parte, confessò anni più tardi Preston. In realtà Peter aveva passato gran parte della sua giovane vita dentro e fuori da istituti di igiene mentale. Non era colpa sua, dissero i medici di allora ad un padre disperato che cercava di capire il perché una simile vergogna fosse dovuta toccare proprio a lui. Era nato strambo, e nonostante avesse sempre ricevuto le migliori cure, non era mai guarito. Era morto in manicomio, così come ci era vissuto, con enorme dolore dei genitori. Si era impiccato alla finestra con le lenzuola del letto. Pazzo, malato, schizofrenico, cosa importava? Preston ne cancellò ogni ricordo, troppo sopraffatto da dolore e dall’imbarazzo per quel figlio disgraziato che gli era toccato in sorte. Sua moglie Helen, dopo un periodo di depressione, si dedicò a crescere con amore gli unici due figli rimasti, augurandosi che fossero sani almeno loro. Preston divenne sempre più dispotico e scontroso con i figli, temendo che potesse succedere di nuovo ciò che era capitato a Peter. Non voleva soffrire più così, e vedendo che Philip era portato per gli studi di medicina lo incoraggiò a seguire la sua stessa carriera, spedendolo a studiare nei più prestigiosi collegi. Da parte sua, Philip si impegnò molto per non deludere il genitore sapendo quanto avesse sofferto a causa di quel fratello che non aveva quasi mai visto. Da quel giorno il padre proibì a tutta la famiglia di pronunciarne perfino il nome e presto il ricordo di quel figlio malato scomparso prematuramente sbiadì col passare degli anni. E con esso anche il dolore. Dolore che era ricomparso prepotente quando Philip gli aveva raccontato cosa era accaduto con i gemelli. Avevano parlato a lungo della cosa e Preston aveva consigliato di farli curare subito per evitare quello che era successo con Peter. Era la prima volta che lo nominava dopo tutti quegli anni e Phil sapeva quanto gli fosse costato farlo. Preston era seriamente preoccupato; temeva, infatti, che i gemelli avessero potuto ereditare il difetto genetico. Una seconda odissea come quella di Peter non l’avrebbe sopportata. Discussero a lungo sulla questione, riaprendo vecchie ferite. Entrambi avevano bisogno di confidarsi e sfogarsi. Vecchi dissapori furono appianati durante quella lunga conversazione. Finirono col parlare della scuola e delle decisioni prese da Philip riguardo ai suoi figli. Preston espresse la sua opinione favorevole in proposito, ricordando al figlio che anche lui aveva studiato in un collegio simile, da piccolo, con ottimi risultati. Philip sorrise rievocando quelle memorie. -Ricordo che non ci volevo andare e che litigammo in proposito. Anche Preston sorrise. –Già e adesso la storia si ripete con i gemelli. E’ proprio una famiglia di testardi, la nostra. -Puoi ben dirlo papà. Philip si riferiva a Benji e Rachel ma anche a suo padre e alla decisione che prese nei confronti di Peter a suo tempo. Preston percepì quella velata accusa e rispose solo dopo un lungo silenzio. -Pensavo di aver superato quel dispiacere ed ecco che invece ritorna prepotente. E’ la punizione per quello che feci cancellando ogni memoria di tuo fratello, ne sono sicuro. Spero solo che i miei nipoti possano superare tutto questo senza troppi danni. -Papà non dire così… non è colpa tua. Tu hai solo cercato di fare la cosa giusta e so che non è facile. Soltanto adesso che sono padre anch’io posso forse capire quello che hai provato. Anche per me non è stato facile prendere certe decisioni. Hai solo cercato di fare del tuo meglio, nessuno di noi te ne ha mai fatto una colpa, lo sai. -Ero completamente cieco e sconfitto dal dolore, non lo sopportavo. Soltanto oggi riesco a vedere i miei errori, ma ormai è tardi. Ed ecco che il passato ritorna … l’ho realizzato solo dopo che mi hai parlato della nuova scuola dove avevi deciso di mandare i gemelli. Credimi, non è stata affatto una scelta casuale. Doveva essere così. Philip fissò in silenzio l’anziano genitore senza capire, ma poi, a poco a poco, la comprensione si fece strada nella sua mente. -Ma certo, che sciocco, non ci ho pensato … Saint Peter’s …Peter! Preston Price annuì lentamente. -Conosco bene quella scuola. Ero molto amico del direttore di allora. La nostra famiglia ha sempre fatto donazioni benefiche alle istituzioni meno abbienti, così io decisi di aiutare un amico in difficoltà. Lui me ne fu grato e non sapendo come ricompensarmi, non avendone i mezzi, fece l’unica cosa che era in suo potere fare: diede alla scuola il nome del mio figlio primogenito, Peter appunto, sperando di fare cosa gradita. Non seppe mai la verità. In seguito, dopo la vostra nascita, forgiò uno stemma che comprendeva tutte le iniziali dei membri della famiglia, me compreso, per ricordare la nostra casata quale benefattrice dell’istituto: un blasone formato da cinque “P” disposte come un quadrifoglio … -…Preston, Peter, Philip, Patricia, Price… - concluse Phil per lui. Finalmente ci era arrivato -Perché non mi hai mai detto niente papà? -Te l’ho detto, dopo la morte di tuo fratello ho voluto rimuovere ogni cosa che mi ricordasse lui… pensavo così di riuscire a soffrire di meno. Quanto mi sono sbagliato. -Credimi, non ne sapevo nulla quando scelsi quel collegio … se avessi anche solo immaginato … Preston alzò una mano per fermare le parole di Philip. -Era così che doveva andare. Quella scuola ti ha chiamato e tu non hai fatto altro che assecondare le cose. E’ come se restasse tutto in famiglia, in un certo senso. Capisci quello che sto cercando di dirti? -Non del tutto, ad essere sincero … -E’ così che deve essere e basta. Philip era perplesso. Non sapeva cosa fare, cosa dire. Era sinceramente sconvolto da quelle rivelazioni postume. Il primario tossì, richiamando Philip al presente. -Ascolta figliolo, ho una cosa da chiederti e te ne sarei grato se mi assecondassi. -Certo, se posso. -Questa storia non è mai venuta a galla. Non lo sa tua madre, non lo sa tua sorella e ci terrei che continuasse ad essere così. Non lo dovrà sapere tua moglie e nemmeno Reynolds. -Ma non c’è nulla di cui vergognarsi. Perché vuoi tenerlo nascosto? In fondo hai solo fatto del bene a quell’istituto … -Vorrei che le cose continuassero ad essere così, per favore… a nessuno fa piacere avere tra i propri congiunti qualcuno di strambo, e la nostra famiglia da sempre ricopre un certo ruolo nella società. Credimi, ho passato momenti terribili quando la stima per la nostra famiglia era caduta molto in basso a causa di quello che fece Peter … e mi ci sono voluti anni per far tornare le cose a posto. E’ giusto che i vecchi ricordi spiacevoli rimangano sepolti nella memoria. Non mi aspetto che tu capisca o condivida il mio punto di vista, vorrei solo che tu lo rispettassi. -Se così hai deciso non ho nulla da obiettare, papà, anche se non so davvero come mantenere fede alle tue richieste adesso che i gemelli sono in ospedale e la mia equipe sta lavorando per cercare di capire quale disturbo abbiano e come curarlo. -Se è per questo non devi preoccuparti. So ancora come oliare certi ingranaggi, basta solo che non ti sfugga nulla con tua madre e tua sorella … non so come la prenderebbero dopo tutti questi anni di silenzi… Forse sono solo un vecchio, stanco di combattere con la propria coscienza, ma te ne sarei grato. Ho fatto grossi errori in passato e non me ne vergogno, ma vorrei che le cose restassero immutate. Philip rimase in silenzio diverso tempo prima di rispondere al vecchio genitore. -Va bene papà, se è questo che vuoi. Preston fece un sorriso stanco al figlio – Te ne sono grato. L’unica cosa di cui ci dobbiamo preoccupare adesso è la salute dei gemelli. Lascia che sia il tuo staff a formulare la diagnosi, non far trapelare nulla. Vedrai che le cose andranno a posto. Ancora una volta, quel giorno, Philip si ritrovò ad annuire dinanzi all’anziano genitore, sperando in cuor suo di avere preso ancora una volta la giusta decisione. |
Capitolo 23
*** Capitolo 23 ***
Capitolo 23 Preston gli aveva detto che suo fratello era schizofrenico. Era nato così ed era morto così. Senza guarire. Un vero dispiacere per una famiglia di medici da generazioni. Forse poteva anche capire l’imbarazzo del padre verso quel figlio degenere. Non che non l’avesse amato, ma… certamente era stato un grosso dispiacere per suo padre e lui, ora, non se la sentiva di giudicare le decisioni dell’anziano genitore. Non adesso che i suoi gemelli erano coinvolti in quello strano episodio. Sembrava che si ripetesse con loro quello che era accaduto anni addietro con Peter, e Philip, come suo padre prima di lui, non poteva permettere che ciò accadesse. Aveva sospettato subito anche se non ne aveva fatto parola con nessuno, compresi Reynolds e Jo. Forse aveva ragione suo padre: era inutile metterli in agitazione adesso dopo anni di silenzio. Aveva saputo subito ma aveva preferito tacere la cosa senza prima aver fatto degli accertamenti. Sia lui che Preston temevano che i gemelli potessero aver ereditato la malattia di Peter, in una forma certamente lieve e perciò in grado di essere debitamente curata, data anche la loro giovane età. Probabilmente lo stress accumulato in quel periodo di tensione e cambiamenti, aveva fatto in modo che il disturbo si scatenasse, un disturbo che forse era rimasto latente per tutto il tempo, nascosto nei loro geni, come anche Preston temeva.-Io credo che alla luce di quanto si è detto finora, siamo tutti d’accordo nel confermare la diagnosi del dottor Kay. Era stato Doc Greenway a parlare. Si trovavano nella sala riunioni, convocati a consulto dal dottor Kay. C’erano, oltre a Reynolds, Philip, Kay e Greenway anche Jeff e Doreen Jackson. Il dottor Kay aveva fatto leggere a tutti il dossier aggiornato prima di fare il suo discorso così che tutti avessero ben chiaro il quadro generale della situazione. In parole povere, quell’interminabile pratica recitava più o meno così: “Dopo un attento esame sui soggetti in questione, un’intera equipe medica è giunta alla conclusione che si tratti di una reazione schizofrenica di tipo paranoide alla concatenazione di eventi ai quali i soggetti sono stati sottoposti. Il forte stress psichico ha fatto sì che il disordine si scatenasse in tutta la sua pienezza, con presenza di allucinazioni e distacco dalla realtà”. Un gergo medico fantasioso per dire che qualcuno era suonato. Philip sorprese tutti alzandosi in piedi. -Mi trovo pienamente d’accordo con la diagnosi del dottor Kay- esordì- Domande? Nessuno aveva nulla da aggiungere. Kay era un giovane psichiatra molto promettente. Philip li guardò ad uno ad uno. -Sentitevi pure liberi di dire quello che volete. Se qualcuno ha delle domande da fare, questo è il momento giusto. Doreen si fece avanti: –E’ convinto che vada tutto bene, dottor Price? -Ma certo, cara, grazie per averlo chiesto. Lei annuì e tornò a sedersi. -Altre domande? Nessuno osò fare quella più logica, forse per rispetto nei confronti di Philip, ma essendo medici, era la prima cosa a cui tutti avevano pensato. Perché quel disturbo si era manifestato così presto? Philip, in camice bianco, in piedi al centro della sala riunioni, attese ancora qualche secondo, poi, con voce calmissima enunciò: -Bene signori, colleghi, vi sono enormemente grato per la discrezione e la fiducia con la quale state affrontando tutto questo. Sappiamo tutti molto bene che disturbi gravi come questo sono soliti insorgere … diciamo nei primi vent’anni di vita. Lo abbiamo pensato tutti, me compreso. Tuttavia, non deve essere questo un dato tassativo, voglio dire … certi disturbi non sono soggetti a regole di nessun tipo, possono guarire, scomparire o ritornare ad acutizzarsi senza nessun motivo apparente. Non dobbiamo dare nulla per scontato. Ci tenevo a dirvelo, prima di lasciare la parola al dottor Kay, per quanto riguarda le precauzioni e la terapia da elaborare. Detto ciò, Philip tornò a sedersi. Aveva un eccezionale self-control, in quel momento, molto professionale. Non lasciava trasparire nessun tipo di emozione. Ovviamente era preoccupato per i suoi figli e per i silenzi impostigli dal padre, ma era fermamente convinto che, se andavano curati, quello era il posto migliore per farlo. Era fiducioso nel suo staff ed era sicuro che tutto si sarebbe risolto per il meglio. Kay si alzò, camice bianco sbottonato, mani ansiose che sistemavano gli appunti. Si schiarì la gola. -Bene, ora che il nostro dottor Price ha fugato ogni dubbio dalle nostre menti, direi di proseguire. Vi metterò al corrente di alcune ipotesi che ho formulato e se siete d’accordo potremo elaborare insieme la terapia da eseguire. Prese alcuni fogli e li lesse. -Benjamin ha un carattere molto forte, una forte personalità; emotivamente imprevedibile e instabile, in poche parole, un paziente difficile. Un vero peccato perché dimostra di avere un’intelligenza acuta, molto pronta e ricettiva. Per ora non collabora con nessun tipo di terapia, diventa ostile se si affronta l’argomento, ma la cosa peggiore è che non si rende conto di avere bisogno di aiuto. L’ha presa come un affronto personale; dice di odiare suo padre e tutti noi per questo; pensa che ci sia un complotto contro di lui e Rachel, chiaro sintomo della paranoia di cui soffre e pensa che siamo noi a volergli fare del male. Questa allucinazione, questo Uomo Calvo che lui dice di sentire o vedere, non ho ancora ben capito, lo tiene soggiogato con la minaccia di ritorsioni verso la sorella; lui è convinto che se ne parla con qualcuno, questo “Uomo Calvo” farà del male a lui e a Rachel. Quindi soffre e sopporta tutto in silenzio solo per proteggere lei. Ha un’incredibile forza di volontà. E’ terrorizzato all’idea che Rachel possa soffrirne, di conseguenza, il terrore rende più tenace la sua volontà. Nel rapporto viene confermata la mia intuizione. Il postulato su cui ho basato il logico concatenamento dei miei pensieri quindi è che abbiamo come forza motrice la volontà del soggetto. La parola chiave, perciò è volontà. Fece una pausa per essere certo che tutti avessero afferrato il concetto. Nessuno lo interruppe, tutti lo fissavano attenti e concentrati. Si schiarì la gola e riprese. -Ho letto attentamente rapporti e resoconti contenuti in questo dossier; ogni diagramma, tabulato e analisi arriva alla medesima conclusione: la volontà come causa primaria. In parole povere, non dobbiamo fare altro che impedire l’esercizio della volontà. La prima parte della terapia si concentrerà su questo. Solo secondariamente affronteremo il disturbo vero e proprio, mostrando al paziente cosa è reale e cosa non lo è. Sfogliò ancora una volta rapporti e resoconti contenuti nella cartella clinica. Si soffermò su alcuni di essi. -Prendendo dunque la volontà come presupposto di base – riprese – ho analizzato ed elaborato insieme ad un gruppo di esperti una lista di possibili farmaci da utilizzare per la terapia di base. Tali farmaci inducono nel soggetto uno stato di euforico abbandono, levità e apatia tale da impedire l’esercizio della volontà, sia pure per scegliere una tavoletta di cioccolato al latte al posto di una fondente, per non parlare poi di complotti, allucinazioni o chissà che altro. Mi rendo comunque conto che il paziente non può essere sottoposto a terapia, test o trattamenti vari se tenuto costantemente sotto l’effetto di droghe inibitorie dei centri della volontà, né tantomeno noi potremo studiare con un livello soddisfacente l’efficacia e l’andamento delle cure. A questo proposito ho pensato di usare a nostro favore il profondo legame affettivo dei gemelli, alternando i cicli di terapia alla somministrazione dei farmaci, invertendo i ruoli ogniqualvolta sia necessario fare dei test. Un elementare sistema di leve, in fondo. E, come aveva osservato Archimede, con una leva abbastanza lunga si può sollevare il mondo. Tacque, osservando ad uno ad uno i colleghi, aspettando le loro reazioni e i loro commenti, quelli di Philip in particolare. Un breve silenzio seguì le sue parole, poi quasi tutti fecero cenni di assenso col capo. Greenway e lo stesso Philip ne furono entusiasti. -Eccellente lavoro, Kay, dico sul serio, e in così breve tempo poi. Questo commento di Doc lo fece sentire bene. Anche Philip era concorde con il metodo descritto dal giovane medico. Doreen sembrò un attimo perplessa. -Ammetto che la tesi del dottor Kay, esposta con tanta eleganza e semplicità mi piace molto – ammise la capoinfermiera – ma non credo sarà così facilmente applicabile su soggetti difficili e instabili come il nostro Benji. -Non ho mai detto che sia facile, anzi, è una terapia piuttosto complessa proprio perché si articola in due fasi, ma sono sicuro che con la sua preziosa collaborazione, Doreen, riusciremo nel nostro intento. -Il dottor Kay ha perfettamente ragione. Lei, Doreen, è come sempre un valido aiuto. Conto su ognuno di voi che questo trattamento abbia successo. Doreen arrossì quando il dottor Price pronunciò queste parole. Era grata al suo primario per tutta la fiducia che riponeva in lei. -Resta solo un piccolo problema prima di iniziare la terapia – continuò la caposala. -Quale sarebbe? - chiese Philip. -Vede dottore, sono diversi giorni che Benji rifiuta il cibo o mangia molto poco come anche il dottor Kay ha notato oggi; non è in grado di affrontare una terapia farmacologica così intensa senza una corretta nutrizione. Mi permetto di aggiungere che sono certa lo stia facendo di proposito per indurci a fargli vedere la sorella. Philip annuì concorde: - Già, avrei dovuto immaginarlo… -Non può continuare così, dottor Price – proseguì Doreen – non può continuare a rifiutare il cibo. Il dottor Kay, qui, suggeriva di provare con l’alimentazione artificiale; chissà che un paio di giorni di flebo non gli facciano cambiare idea. -Le famose “Leve di Archimede” di cui parlava poco fa il dottor Kay? -Esatto. Dovrebbe aiutarlo a capire che rifiutare il cibo non gli servirà a nulla, se non a procurarsi un sacco di buchi nel braccio. -Sì, forse dovrei fargli un discorsetto. -Io credo che nel giro di una settimana, due al massimo, riusciremo a rimetterlo in sesto, dopodiché potremo iniziare la terapia vera e propria – aggiunse Kay – se nel frattempo riuscissi ad instaurare anche un rapporto di fiducia, che al momento è totalmente assente, la cosa non guasterebbe. Ma per farlo ho bisogno che mi autorizziate ad assecondare qualche sua richiesta, tanto per cominciare. A Philip non sfuggì l’occhiataccia che Doreen lanciò a Kay quando ebbe pronunciato quelle parole. Kay mise le mani avanti, come per giustificarsi. -Naturalmente mi atterrei con scrupolo a tutte le norme … -Oh andiamo dottor Kay, la pianti! – sbottò Doreen – tanto lo sappiamo tutti che farà ancora di testa sua. Lei è famoso per le sue … - Doreen levò le mani al cielo - terapie alternative! Il giovane medicò arrossì violentemente, suscitando l’ilarità di tutti. Philip gli venne in soccorso e Kay gliene fu grato. Quella virago non accettava che lui potesse in qualche modo avere ragione. -Jason, sei tu che stai seguendo questo caso ora, sentiti pure libero di agire come meglio credi. Ti do il mio benestare, l’ottimo lavoro che ci hai illustrato oggi mi infonde fiducia. Non esitare a portare avanti i tuoi metodi alternativi se questo può aiutarti a curare i pazienti. Credo di parlare a nome di tutti qui, anche della cara, burbera capo infermiera, che sotto la scorza dura ha il cuore più tenero di tutti. Fu il turno di Doreen di arrossire. -Dottor Price! – esclamò tutta rossa in viso – così mi fa perdere la faccia. Beh, sì, anche se non sempre condivido il suo modus operandi, ammetto che il dottor Kay è in gamba; in fondo è l’unico che finora è riuscito dove tutti noi abbiamo fallito. Tutti annuirono, d’accordo con Doreen. Kay si alzò dal tavolo: -Grazie, Philip, Doreen, grazie a tutti per la fiducia e la disponibilità che mi accordate. Ho a mia disposizione un grande staff di medici … e amici. Philip levò una mano come per zittirlo: -Non ringraziare, Jason. Te lo meriti, davvero. Il cercapersone del dottor Price mise fine alla riunione. -Scusatemi, è un’emergenza – dichiarò e uscì dalla stanza con Reynolds al seguito. Greenway e Kay iniziarono a pianificare la terapia mentre Jeff e Doreen tornarono in reparto. -Devo dare il cambio a Valerie – disse Doreen – ci vediamo su, dottor Kay? -Sì certo, mi dia una mezz’oretta. -Molto bene – annuì lei e si allontanò. |
Capitolo 24
*** Capitolo 24 ***
Capitolo 24 Il suo sonno era agitato. Strano. Le medicine avrebbero dovuto garantirgli un riposo sereno e una relativa tranquillità almeno per qualche ora ancora, ma non era così. Colori vividi e immagini spaventose popolavano il suo incubo. Vide l’Uomo Calvo venire verso di lui, alto, imponente, protetto da una semioscurità che gli impediva di vederlo bene in faccia. Si agitò e gemette nel sonno. Più lui cercava di allontanarsi, più l’Uomo Calvo era vicino, lo sovrastava. Cercò di scorgergli il volto in quella oscura penombra ma non ci riuscì. All’improvviso la sua risata fragorosa e sinistra sovrastò ogni cosa. Era assordante, spaccava la testa.Benji si rannicchiò sul letto e si tappò le orecchie per non sentire quel rumore terrificante. -Basta, smettila! Tu non esisti, lasciami in pace, vattene! – gridò terrorizzato. Così com’era iniziata, la risata si interruppe. Benji fece appena in tempo a scorgere una mano quando si sentì afferrare per il collo della maglietta e sollevare da terra. Una voce terribile gli sibilò all’orecchio: - Così io non esisto eh? Dimmi, Benji, ti sembro forse immaginario? Eh? -Io … io non lo so più che cosa sei! Con una forza sovrumana l’Uomo Calvo lo scaraventò contro una parete. Benji sbatté la testa e si accasciò sul pavimento. Rimase stordito per qualche secondo, poi cercò di alzarsi. La terribile figura nera di quell’uomo lo afferrò di nuovo. Alzò le braccia per proteggersi dal pestaggio, ma quello gli sibilò: Credi ancora che io non sia reale? Sentì il suo alito gelido a pochi centimetri dalla faccia. Benché fosse terrorizzato a morte, cercò nuovamente di scorgergli il volto. Intravide solo lineamenti aguzzi in quella strana penombra. -Che … cosa vuoi da me? La stretta si fece più forte:- Attento ragazzo, stai attento a non deludermi e soprattutto, non farmi mai più arrabbiare! -Chi sei?! Dimmi almeno chi sei. Perché … Non fece in tempo a finire la domanda. Un secondo e violento strattone lo mandò nuovamente a sbattere contro il muro della cella. Questa volta non riuscì a rialzarsi. Sentiva dolore in ogni muscolo, ma la testa gli doleva più di tutto laddove aveva sbattuto una seconda volta. Dì pure loro che mi chiamo Straker, – riprese la voce – e che questo avvertimento ti serva di lezione! Non ti dimenticare chi comanda! La risata si dissolse in lontananza. Benji si svegliò di soprassalto, sudato e ansante. Si ritrovò sul duro e freddo pavimento della sua cella. Era caduto dal letto. Non c’era altra spiegazione, eppure … A fatica cercò di rimettersi in piedi. Barcollò verso la finestra e si aggrappò alle maglie della griglia di sicurezza. Sentiva dolore in tutto il corpo. Fuori, il bellissimo panorama del parco sul retro dell’ospedale era sempre lì, al suo posto. Quindi aveva ragione lui, era stato solo un brutto sogno, anzi un incubo, e nell’agitarsi era caduto dal letto. Logico. Logico e semplice. Allora perché si sentiva così male? Scosse la testa, cercando di riordinare le idee. Si toccò la fronte, vicino alla tempia, dove sentiva dolore. Cadendo, aveva battuto la testa e in effetti gli sembrò un po’ gonfio; faceva male a toccare. Sentì le dita viscide. Si guardò la mano e vide che era sporca di sangue. Il panico fu grande. -Oh no! Cosa avrebbe detto ai medici adesso? Gli avrebbero creduto? Certo che no! Da dove veniva quel sangue? Diede un ultimo sguardo disperato al parco verdeggiante là fuori. Se mai aveva avuto un’opportunità di andarci, ora se l’era giocata definitivamente. Tanto valeva non pensarci più. Voltò le spalle alla finestra e si accasciò sotto di essa, con le spalle appoggiate al muro e le braccia abbandonate lungo i fianchi. Una cupa disperazione calò su di lui, togliendogli le forze. Non avrebbe potuto fare niente per cambiare le cose, tanto valeva rassegnarsi al peggio. Non era da lui arrendersi senza combattere, ma era troppo stanco e provato sia fisicamente che psicologicamente. Loro stavano vincendo. Alla lunga, stavano avendo la meglio su di lui. Faceva male ammetterlo, ma era così. Non voleva arrendersi, ma non vedeva nessuna via d’uscita. All’improvviso, una voce lo raggiunse in quel baratro senza fine. Una voce amica che tanto aveva sperato di sentire. Non è nel tuo stile arrenderti così, senza lottare, senza fare nulla. Ti conosco, non è da te! Benji sollevò la testa e rimase in ascolto, sospettoso. -Rachel? – chiese circospetto – sei proprio tu? Per un momento non udì nulla e proprio quando si stava convincendo che se l’era immaginato, la voce di sua sorella tornò a farsi sentire. Sì, fratellino, sono proprio io. Che ti hanno fatto? Ero così preoccupata. Benji, ancora indolenzito, cercò di alzarsi in piedi, appoggiandosi al muro. Dio sa come sono felice di sentire che stai bene! Temevo che … ti avessero fatto del male, non riuscivo più a mettermi in contatto, temo che i farmaci lo impediscano. Rachel tacque per qualche secondo. Già, mi è successa la stessa cosa … Benji chinò il capo, triste. Aveva una gran voglia di piangere e si sentiva sull’orlo di una crisi isterica. Si sentiva colpevole e incapace di proteggere la persona a lui più cara. -Mi dispiace – mormorò a mezza voce – non volevo coinvolgerti in questa storia! Era inevitabile, Benji, siamo gemelli. Non colpevolizzarti. Sto male solo perché non possiamo stare insieme. Per il resto … è dura, ma cerco di sopportarlo. Ho una paura tremenda. Di loro … di Lui … Ma tu sei la ragione che mi aiuta a resistere. Per questo ti prego di non mollare proprio ora. Se ti arrendi a loro a me cosa resta da fare? Benji aveva un groppo in gola che gli impediva di parlare. Strinse i pugni ed e emise un profondo sospiro. Ti tirerò fuori di qui, Pie, te lo prometto! Non so come ma ne verremo fuori. Oh, Benji … perché ci è successo tutto questo? Non lo so, tesoro … ti giuro che non lo so. Era la verità. Decise di tacerle quello che era appena successo con l’Uomo Calvo. Non avrebbe fatto altro che spaventarla ulteriormente e poi, ad essere sinceri, nemmeno lui era sicuro di cosa fosse effettivamente successo. Magari era vero che aveva avuto un incubo e nell’agitarsi era caduto dal letto … Mi chiamo Straker … diglielo pure! Per un attimo gli sembrò che quella terribile voce gli riecheggiasse nella testa con quel suo strano messaggio … Benji, parlami, stai bene? E’ forse successo qualcosa?! Benji, TI PREGO!! Si riebbe e udì nuovamente Rachel parlare. Sì, sì … sto bene. Scusa per un attimo credevo di averti perso. Il contatto era rimasto. Percepì l’evidente sollievo di lei. Ho avuto paura … Sai, tante volte ti parlo anche se so che non siamo in contatto come adesso, mi aiuta a sentirmi meno sola … All’inizio li ho minacciati che mi sarei uccisa se non mi permettevano di vederti, poi ho smesso di mangiare … ma loro non si sono arresi; mi infilavano quegli aghi d’appertutto e mi facevano mangiare comunque. Poi è arrivato un dottore nuovo, un certo Kay, e gli ho detto che volevo vederti. Gli ho fatto “una scenata” come direbbe Doreen, ho avuto una vera e propria crisi isterica ma lui è stato irremovibile. Dice che sta elaborando una terapia, non so, e che presto starò meglio e anche tu. Benji ascoltava con attenzione. Quando parlò, la sua voce non era del tutto ferma come avrebbe voluto. -Rachel, mi dispiace che per colpa mia tu abbia dovuto soffrire così. Non posso perdonarmelo né accettarlo … Probabilmente io me lo sono meritato, ma tu no! Non dire sciocchezze! Questa cosa … beh è capitata e ci sono dentro quanto te. Non è colpa di nessuno… La collera che Benji si portava dentro e tutto il suo rancore esplosero di colpo. Abbatté con violenza i pugni sul muro tanto da farsi male, mentre cocenti lacrime di rabbia e disperazione gli rigavano le guance. Lui, che non piangeva mai! -Non ce la faccio più – urlò – non posso fare nulla per liberarti e il solo pensiero mi fa impazzire, mi sento inutile! Non voglio che ti facciano del male. Dio, come li odio per questo! Non li perdonerò mai, mai! Si accasciò a terra, stremato dallo sforzo di quella rabbia a lungo repressa. Si era indebolito parecchio a non mangiare quasi nulla. La reclusione forzata, i farmaci, lo stato depressivo, la scarsa attività fisica lo avevano fiaccato, rendendolo debole e inappetente. Per lui, abituato a ore di attività fisica all’aperto, tutto ciò era insopportabile. Loro lo sapevano e stavano usando contro di lui le sue stesse paure. Pianse tutte le sue lacrime, dopodiché si sentì meglio. Quello sfogo era necessario, non poteva tenersi tutto dentro, era troppo anche per lui. Si mise seduto, asciugandosi nella maglietta gli occhi umidi. Hai ragione Pie, non mi arrenderò senza combattere, ma mi devi promettere che nemmeno tu ti arrenderai. E’ dura, lo so, ma non te lo chiederei se non fosse importante. Ti prego resisti, non farti sopraffare. Troverò una soluzione. Quando parlò stavolta la voce di Rachel era tornata serena. Questo è il mio fratellino! Sei tornato in te, non ti riconoscevo più! Combatti a muso duro come sei abituato a fare, io resisterò. Non preoccuparti per me; sto bene. Sono felice che sei mio fratello, ti voglio bene! Benji stirò le labbra in un sorriso forzato. Anch’io Pie, anch’io … La voce di Rachel riecheggiò in lontananza, con la sua solita risatina complice di quel grosso segreto. Benji sorrise di nuovo,nell’udirla. Si assopì quasi senza rendersene conto, dopo quella crisi isterica. D’un tratto, tutto cambiò. La risata dolce di Rachel si trasformò in qualcosa di orrendo, un suono che Benji conosceva fin troppo bene. Si riebbe subito con un sussulto, il cuore che gli martellava nel petto, balzando in piedi agilmente nonostante si sentisse ancora tutto indolenzito. Rimase vigile, in ascolto. Nulla. Controllò sia la finestra che dava sul parco che quella del corridoio; sembrava che il reparto fosse deserto. Appoggiò le mani al vetro rinforzato e scrutò il corridoio in entrambi i lati. Nulla. Si staccò dal vetro e rimase in silenzio, in attesa, tutti i sensi all’erta. Il breve riposo e il dialogo con Rachel erano stati benefici quanto il suo bisogno di sfogarsi, e gli avevano restituito un po’ di energie. Si sentiva di nuovo vivo, combattivo, pronto a dar battaglia. Gli avrebbe fatto vedere di cosa era capace. |
Capitolo 25
*** Capitolo 25 ***
Capitolo 25 -Avanti – mormorò – fatti vedere, lo so che ci sei. Non ebbe risposta. Eppure non si era sbagliato. Si rilassò un po’ e tornò a guardare fuori dalla finestra. Il parco era bellissimo, illuminato dal sole di quella splendida giornata. Quanto avrebbe voluto essere là fuori e poter respirare l’aria fresca a pieni polmoni, sentire il vento, il profumo dell’erba appena tagliata, il calore del sole sulla pelle … Si aggrappò alle maglie della griglia di sicurezza montata sulla finestra e cercò di sentire il profumo delle piante, dei fiori, ma nonostante la finestra fosse aperta, la griglia non lasciava filtrare molta aria; era fitta e impenetrabile. Una punta di dolore gli trafisse lo stomaco. Era una grande privazione per lui, loro lo sapevano. -Ma che bello – mormorò sarcastico –sono rinchiuso qui dentro da giorni e lo devo proprio a mio padre; devo essere proprio un deficiente! Il suo spirito indomito era tornato prepotentemente a reclamare la sua libertà perduta. Si aggirava per la stanza come una tigre in gabbia. Sentiva come un ronzio in testa, probabilmente per il colpo che aveva subito sbattendo contro il muro. Si toccò la fronte, e in effetti era gonfio e gli faceva parecchio male. Ritrasse la mano, imbrattata di una sostanza vischiosa, sangue naturalmente. La vista del sangue lo indisponeva sempre, si ripulì perciò in fretta le dita nella t-shirt. -Ma bene! Come glielo spieghiamo ora ai sapientoni in camice bianco? Maledizione! –imprecò. Era ovviamente - e a ragione – preoccupato della reazione dello staff medico. Si era ferito di nuovo, proprio come il giorno del suo ricovero, e per un attimo la parentesi felice del colloquio telepatico avuto con Rachel gli aveva fatto dimenticare la ferita e tutto il resto. Anche se in un certo senso la crisi e perfino le lacrime erano state utili per avergli restituito fiducia e voglia di lottare, ora era seriamente preoccupato. Come spiegare che quella ferita era solo un incidente? E se non lo era? Era confuso. E agitato. Era stato davvero Straker? Incredibile, ora aveva pure un nome! Forse era vero che era pazzo. Il dubbio si stava nuovamente insinuando nella sua mente già confusa. Era insidioso. Gli sembrò addirittura di udire la sua risata maligna. Rimase nuovamente vigile, in ascolto, tutti i sensi all’erta, non più confusi o intorpiditi dai farmaci. Il cuore che batteva all’impazzata sembrava volergli schizzare fuori dal petto. Avvertiva qualcosa ora, tutto intorno, come una presenza opprimente. O era solo autosuggestione? Benché atterrito e spaventato, radunò lo scarso coraggio e con voce non proprio ferma, disse: -Mostrati dunque, almeno saprò di essere pazzo! La risata possente di Straker gli rimbombò nella testa, assordandolo. Sussultò spaventato. Tapparsi le orecchie per non sentirlo fu un gesto puramente istintivo e inutile. Sei recidivo, Benji, ma non ho intenzione di punirti di nuovo. Non oggi. E’ stato interessante vedere le tue lacrime; non credo sia un privilegio che concedi a molti, vero? Dunque anche tu provi dei sentimenti. Questo legame con tua sorella è molto profondo e solido da quanto ho potuto capire. Al sentire nominare Rachel, le penne gli si arruffarono di nuovo. La paura lasciò il posto alla collera. Si rese conto delle sue parole solo dopo averle pronunciate. -Non ti azzardare nemmeno a pensare a lei, brutto bastardo, o ti giuro che me la pagherai, costi quel che costi! – lo minacciò. Straker rimase in silenzio. Anche Benji, incredulo di essere riuscito a dire una cosa simile dopo la battuta che si era preso e che ancora lo faceva sanguinare. Meriteresti nuovamente una lezione per la tua lingua biforcuta, ma passerai già abbastanza guai per quella ferita… credimi il dolore che io ti ho inflitto è solamente fisico; le loro terapie a volte possono essere molto più crudeli e spietate … rispose infatti Straker. -Che ne sai tu?! Benji dimenticò ogni prudenza. Strinse i pugni e gli gridò contro: - Tu non sai niente di me! Vattene! Lasciami in pace, sta’ lontano da me!! Straker non si offese per tutte quelle ingiurie, stavolta. Si limitò a provocarlo. Bada a come parli, ragazzo, o Rachel soffrirà un po’! -Lascia fuori mia sorella da questa storia! Non pensarci nemmeno o io … L’Uomo Calvo rise crudelmente: Tu cosa? Avanti, dillo! Benji si morse la lingua per non dire cose di cui si sarebbe pentito. Non voleva che Rachel soffrisse. Saggia decisione, Benji. Non pensavo che ne saresti stato capace! Stai facendo progressi. Forse, dopotutto, questa esperienza non è una cosa negativa. Benji dominava a stento la rabbia che aveva dentro. Si prese la testa tra le mani, alzando gli occhi al cielo in una muta imprecazione, quando invece avrebbe voluto urlare a Straker tutto quello che pensava di lui. Voleva che se ne andasse, che lo lasciasse in pace. Voleva che non fosse mai esistito. La sua risata beffarda si fece udire di nuovo. -Perché continui a torturarmi? Che ti ho fatto di male?! – chiese disperato. Straker gli rispose gentile: Io non ti sto torturando Benji, sei tu che ti stai facendo del male. -Oh, per favore! Questa sì che è bella! Risparmiami le perle di saggezza psichiatrica. Se sono finito qui è soltanto per colpa tua e tu lo sai bene! Straker ci andò giù pesante: Non è stato forse il tuo stesso padre a farti ricoverare o sbaglio? Non ti ha forse trovato ferito nella tua stanza che deliravi?! Benji era furioso: - Non stavo delirando! Stavo parlando con te!! E’ tutta colpa tua! E’ colpa mia anche se ti sei tagliato con i cocci di vetro? Eppure ti avevo messo in guardia …. E se io fossi frutto della tua mente malata e avessi, che so, una specie di lato oscuro autodistruttivo? Benji lo interruppe, puntando il dito: - Hey! Non ci provare con me! Niente cazzate psichiatriche! Io non sono malato e tu di certo non sei frutto della mia mente! Come fai ad esserne certo? - insinuò Straker mellifluo. Non lo era infatti. -Non farò questi giochetti mentali con te. Io non sono pazzo! E’ stato tutto un malinteso che TU hai creato!! Questa si che è bella, ragazzo! Tu e tuo padre non andavate d’accordo già prima del mio arrivo… -Questo è un altro discorso! Forse ti serviva un amico con cui condividere i tuoi segreti … -Io non ho segreti e di certo non mi servono amici come te per condividerli! Tu stai cercando di farmi venire un esaurimento nervoso! Tu sei pazzo! -Vaffanculo!! Un dolore atroce gli trapassò la testa quasi all’istante, seguito da quella tremenda e sinistra risata. Hai dimenticato le buone maniere? -Sei uno psicopatico, criminale, bastardo! La risata di Straker soverchiò ogni cosa. Benji fece una smorfia di sofferenza. Già, forse è vero … ma mi piace un sacco farti arrabbiare! Benji non rispose, piegato in due dal dolore. Allora? Nessuna risposta mordace? Scosse la testa. –No. Non farò i tuoi giochini mentali. Io non sono malato. Proprio adesso che mi stavo divertendo. Se non sei malato, perché continui a parlare con me? -Va’ all’inferno! La morsa dolorosa aumentò, facendolo gemere di nuovo. Non impari mai tu, eh? -Lasciami in pace! Voglio essere lasciato solo!! Un’ombra scura gli si abbatté addosso, facendolo urlare. Per la seconda volta quel giorno venne abbrancato e scagliato contro la grata di sicurezza, ferendosi di nuovo. Rimase a terra, semisvenuto e dolorante. Ebbe l’impressione di udire dei passi venire verso di lui. Passi lenti e cadenzati. Non erano passi da infermiere, quelli. Tuttavia, temette di non potersi più fidare delle proprie percezioni; non finché venivano alterate da questo strano Uomo Calvo… I passi si fermarono a non più di due centimetri dal suo braccio, poi una voce, la sua voce lo invitò ad alzarsi. Benji, tutto pesto e dolorante, si ritrasse spaventato da quella presenza opprimente. Lo udì ridere. Non ne hai ancora avuto abbastanza? -Puoi anche ammazzarmi, se vuoi, non m’importa ma non ti aspettare che mi arrenda così facilmente. Io non sono pazzo e riuscirò a dimostrarlo. Straker rise crudele. Nessuno ti crederà. La pazzia consiste proprio in questo; puoi anche dire la verità, tanto nessuno ti darà retta. I pazzi non sono credibili! Benji cercò di alzarsi ma tutto il suo corpo protestò dolorosamente. Parlare gli costava molto. Inoltre tu hai paura. Di me, di loro, di te, di tutto questo. -Non è vero! - gridò Benji - Io non ho paura! Vorrei vedere te al mio posto!!! Hai paura invece, una paura fottuta che tutto questo possa essere vero! Benji tacque, pugnalato a morte da quell’insinuazione. Forse era proprio così, dopotutto. Quelle parole sintetizzavano molto bene il concetto. All’improvviso, senza nessuna ragione apparente, si mise a ridere. Fu la volta di Straker di rimanere di stucco. Benji rise di nuovo, incurante del dolore. Gli sembrava in effetti un po’ folle, la risata sconnessa di una persona mentalmente instabile. -Ho capito il tuo gioco ma stavolta non ci casco. Tu vuoi farmi dubitare di tutto, vuoi farmi diventare pazzo. Sono stato un idiota a darti retta ed ora mi trovo qui per colpa tua. No Benji, non per colpa mia. Io ti avevo avvertito, ricordi? -Non cercare di confondermi. Ricordo molto bene!! A me non sembra. Io ti ho aperto gli occhi, piccolo ingrato, ti ho fatto vedere la verità, quella che tuo padre ti ha sempre nascosto. -Ora basta. Vattene, non voglio più ascoltarti. Si alzò in piedi con una smorfia di dolore. Barcollò e dovette appoggiarsi al muro per non cadere. -Ahi, la mia testa, che male. – Si toccò la fronte e vide che perdeva ancora sangue. Udì la perfida risata di Straker vicino a lui. Troppo vicino. Indietreggiò spaventato. Non si sentiva per niente bene e Straker era un osso duro. Gli aveva fatto male. -Ora dovrò pagare le conseguenze per queste ferite … Sei un bastardo, l’hai fatto apposta! Straker rise di nuovo, canzonandolo. Non sai quanto mi dispiace… ma tu insultami ancora e io vado da tua sorella e le spezzo un braccio. Benji si spaventò sul serio. La voce di Straker era gelida e lui sapeva che quando diventata così, era pericoloso. Iniziò a tremare di paura. Tutta la sua velleità si spense di colpo. Lui aveva vinto. Ancora. -Non fare del male a Rachel, lei non ti ha fatto niente. E nemmeno io – volle aggiungere, ma ritenne prudente tenere la bocca chiusa. Strinse i pugni. Era umiliante doversi sottomettere ad un essere spregevole come quello, ma non poteva permettergli di fare del male alla sorella. Era suo compito difenderla. Dopo qualche minuto di silenzio, Straker gli parlò di nuovo: Hai un coraggio davvero fuori dal comune,ragazzo, lo ammetto, ma ci sono cose che sono troppo grandi, anche per te. Nonostante il dolore alla testa e le numerose ferite, Benji stava di nuovo per rispondergli, quando la sua presenza svanì all’improvviso. La strana oscurità che avvolgeva la stanza si dissipò come se non ci fosse mai stata. Benji si guardò intorno sempre più confuso. Era solo. Si accasciò sul pavimento. Possibile che si fosse immaginato tutto? No, quel dolore era una testimonianza così maledettamente reale … eppure … Il dubbio si insinuava ancora una volta nella sua mente provata. Decise che era troppo stanco e malconcio per riuscire a pensare in modo razionale. |
Capitolo 26
*** Capitolo 26 ***
Capitolo 26 Proprio in quel momento si udirono urla disumane provenire dal corridoio, non lontano dalla sua stanza.Benji trasalì spaventato. Il pensiero volò subito a Rachel e alla strana maniera in cui Straker, l’Uomo Calvo, si era misteriosamente dileguato nel nulla. Quelle urla terrificanti aumentarono d’intensità. Paralizzato dalla paura e lento nei movimenti per via del dolore, rinculò verso il muro, nascondendosi parzialmente sotto il letto, incurante della traccia di sangue che si disegnò sul pavimento. Rimase in ascolto, tremando come una foglia. Cosa stava succedendo? Chi stava urlando così selvaggiamente? E perché? Udì dei colpi violenti, poi uno scalpiccio frettoloso. Dove era andato Straker? Gli sembrò assurdo ma collegò le due cose. Era sicuro che Rachel stava bene perché quello che stava urlando era un ragazzo, o almeno così sembrava. AAAaaahhh!!! No!! Nooo!! Lasciatemi!! Aiutooo!! LASCIAAATEMI ANDAAAAREEEE!!! -Oh mio Dio! – guaì Benji e si nascose meglio sotto il letto, tappandosi le orecchie per non sentire quelle urla strazianti. Ancora colpi, ma meno violenti. Ancora urla. E quelle purtroppo erano ancora a volume stereofonico. Altro scalpiccio di suole di gomma. Alcune voci. Gli sembrò di udire la voce di Valerie, l’altra capoinfermiera, e distinse anche il vocione di Loughran, l’unico infermiere nero del reparto, alto quasi un metro e novanta, con due braccia simili a colonne, che metteva tutti i colleghi in soggezione per via della sua mole. Sapeva fare bene il suo lavoro. Benji l’aveva visto solo una volta e mai da vicino, quando l’avevano portato nell’ufficio del dottor Kay. Erano passati davanti alla sala infermiere, lui scortato da Jeff e un altro inserviente, con Doreen dietro che li seguiva. Loughran li aveva sentiti passare e aveva alzato lo sguardo, fissandolo dritto in faccia per qualche secondo, poi aveva rivolto un cenno di saluto a Doreen. Probabilmente, se ci fosse stato anche Loughran quel giorno con Jeff, non avrebbe nemmeno tentato la fuga, ferendo il dottor Kay col fermacarte di vetro. Le urla sembravano essersi finalmente placate, e con esse anche il brusio e i passi lungo il corridoio. Il silenzio era tornato di nuovo in tutto il reparto. Qualcuno doveva essere schizzato di brutto la fuori, ma i bravi medici lo avevano curato a dovere e imbottito di calmanti o chiuso nella cella imbottita. Benji si ritrovò a pensare queste cose ancora nascosto sotto il letto. Non osava venire fuori, nel caso che qualche camice bianco che ancora si aggirava in corridoio, notasse le sue ferite e decidesse di dare l’allarme. Sarebbe comunque bastato guardare i muri e il pavimento per capire che, mentre loro erano impegnati altrove, anche nella Stanza Azzurra era successo un bel casino. Potrebbe succedere anche a me? - si chiese sempre più atterrito - O magari è già successo? Com’è che ci si accorge di essere diventati pazzi? Ci si rende conto del passaggio o tutto avviene in sordina e solo chi ti sta intorno lo nota? -Oh mio Dio! – ripeté e la sua voce gli sembrò strana, aliena - anche io sono pazzo? Gli sfuggì un gemito dalla gola serrata. Faticava a respirare, col cuore che martellava nel petto e la posizione scomoda e angusta sotto il letto che lo schiacciava a terra. Ma non osava uscire dal suo nascondiglio, non ancora. Non finché non avrebbe scoperto la verità. Ma qual’era la verità? L’angoscia che provò in quei terribili attimi fu indescrivibile. Poi, improvvisa luce in tutto quel caos di tenebre, gli giunse da molto lontano la voce di sua sorella. No! Non gli devi permettere di insinuare il dubbio. Non farlo entrare nella tua mente, ti annienterà! Scaccialo dalla tua testa! Ebbe un fremito. Rachel, sei tu?! Non ottenne risposta. Gli sembrò che la presenza di Straker fosse ancora percepibile. Allora era tornato, ed era reale. Udì una risatina contenuta. Sì, era proprio lui. Sentì qualcosa ghermirgli una gamba. Emise un grido strozzato. Qualcuno lo aveva afferrato e cercava di farlo uscire da sotto il letto. O si trattava di Straker, oppure gli infermieri si erano accorti di lui. Qual’era il minore dei mali? Riuscì a fatica a liberare la gamba e si raggomitolò il più lontano possibile. La risata beffarda dell’Uomo Calvo risuonò quasi divertita. Che ci fai li sotto ragazzo? Esci fuori subito, non vorrai passare per codardo. Un dolore simile alla punta di un cacciavite gli trafisse le tempie. Alzò la testa di scatto per contrastarlo, ma finì per sbatterla contro la traversa del letto. Fu costretto a riabbassarla lentamente, mugolando per il dolore insopportabile. Tua sorella non ti ha dato un buon consiglio, stavolta. La tua mente mi appartiene già quando io voglio, e anche la sua, quindi esci da lì senza tante storie o vengo io a tirarti fuori. Benji era spaventato ma anche arrabbiato. Non gli piaceva aver paura in quel modo, né tantomeno essere manipolato o comandato a bacchetta. Lui gli aveva quasi fatto dubitare di essere pazzo. -Vattene! Vattene via! – gli gridò di rimando da sotto il letto. Straker rise divertito. Benji gemette terrorizzato, le mani sulle orecchie per non sentire quella risata folle. Con te non ci si annoia mai, eh Benji? D’accordo, l’hai voluto tu. E non dire che non ti avevo avvertito. Non ebbe nemmeno il tempo di rispondergli. Straker lo afferrò mentre tentava di allontanarsi dalla sua portata. Benji non urlò, stavolta. Era troppo concentrato ad avere la meglio. Voleva sconfiggere Straker, lui non era un codardo! Eccoti qui. Benji lo fronteggiò con uno sguardo terribile. -Adesso basta. Esci dalla mia testa. Non ti permetterò più di farmi del male. Non voglio infierire ancora, Benji, per cui ti consiglio di stare zitto. -No. Ora basta. Te ne vai di qui adesso. Non aveva alcuna intenzione di cedergli. Non aveva più nulla da perdere, ormai. Il dolore alla testa aumentò. Divenne insostenibile. Cadde sul pavimento con un verso strozzato, piegato ma non sconfitto. Benji lo sapeva e così Straker. La morsa di dolore non si placò. Strinse i denti e tenne duro. L’Uomo Calvo tornò alla carica, oscura ombra minacciosa: In piedi, guardami. Benji, ancora in ginocchio con le mani a terra, scosse la testa in segno di diniego. Parlare gli sarebbe costato troppo. Questa tua ribellione ti costerà cara, ragazzo mio, lo sai, vero?- Straker era quasi gentile. In fondo ammirava quel suo straordinario coraggio e lo rispettava - Anche se ora me ne vado, lo sai che tornerò. Sì, lo sapeva. Ma non gliene importava. Per colpa sua ora avrebbe dovuto affrontare i medici che lo credevano pazzo. Era stato un incosciente ad affrontarlo e ne avrebbe di sicuro pagato a caro prezzo le conseguenze, ma in quel momento non gli importava. Era solo importante vincere. La tensione aumentò, così come il dolore. Con un rapido movimento inarcò la schiena all’indietro, sollevando la testa. Le mani volarono alle tempie doloranti. Con quanto fiato aveva in gola, comando: - ESCI DALLA MIA TESTA!! Rimase così per qualche secondo, prima di ricadere di nuovo a terra, completamente svuotato e dolorante. Straker, l’Uomo Calvo, era rimasto in silenzio. Benji lo aveva sfidato e aveva vinto, stavolta. Sono molto colpito da questo tuo gesto, ma non pensare di avermi sconfitto. Hai osato disubbidirmi e sfidarmi. Ora la pagherai cara. Rise divertito prima di sferrare un poderoso calcio che colpì la sua piccola vittima nelle costole, togliendogli il fiato. Benji udì qualcosa scricchiolare. Probabile che quel bastardo gli avesse spezzato qualche costola. Il dolore che provò fu terribile. Questo solo per ricordarti chi comanda … il resto lo faranno i dottori. L’ultima cosa che Benji percepì prima di perdere i sensi, fu quella tristemente nota risata malvagia che si dissolveva, poi il buio. Sarebbe rimasto svenuto diverso tempo, prima che i medici si accorgessero di lui. |
Capitolo 27
*** Capitolo 27 ***
Capitolo 27 Il reparto era tutto in fermento. C’era stato un nuovo ricovero. Di solito, l’efficientissimo staff avrebbe sistemato tutto senza problemi, ma stavolta era diverso. Non era stato possibile seguire la normale procedura dei ricoveri principalmente per due motivi: il primo era proprio il paziente stesso; il secondo motivo era più semplice: quel ricovero era capitato nel momento sbagliato. Quando arrivava un nuovo paziente, la procedura prevedeva una visita accurata eseguita dall’equipe di medici. Venivano fatti esami preliminari, utili ad evidenziare eventuali allergie o intolleranze ai farmaci. Successivamente il nuovo arrivato veniva sistemato in reparto. Gli psichiatri valutavano se era violento o aggressivo, e a seconda dei casi, si decideva se poteva essere ritenuto pericoloso per sé e per gli altri, mettendolo in una stanza da solo o in gruppo se era idoneo per starci. Questa, in linea generale, era la normale procedura dei ricoveri, ma quel pomeriggio la normalità venne stravolta da quel nuovo ricovero. Erano le tre e quindici, ora del cambio turno del personale. La caposala e Jeff erano ancora in riunione con il primario e tutti i medici. Valerie, l’altra capoinfermiera, aveva da poco finito il turno e aspettava che Doreen rientrasse in reparto per staccare. Di solito, tutto avveniva in modo abbastanza tranquillo in questo reparto. I pazienti erano tutti nelle loro stanze, sotto controllo; il personale era organizzato in modo tale che ci fosse sempre quella necessaria continuità per riuscire a gestirli al meglio nel momento più delicato della giornata. Quelli che finivano il turno si ritiravano nella sala infermiere con quelli che iniziavano. Si discuteva della giornata e si assegnavano le varie mansioni. Dopo circa un quarto d’ora riemergevano tutti. Alle tre e trenta il passaggio dei poteri era avvenuto e tutto tornava alla normalità. Quel pomeriggio, le tre e quindici divennero ora fatidica. Quel ricovero non poteva capitare in un momento peggiore. Nella sala infermiere in quel momento c’era solo Valerie. Qualche minuto più tardi venne raggiunta da Martha e Judy, due ausiliarie. -Inizi o finisci?- si informò Martha, la veterana. -Se Dio vuole per oggi ho finito. Aspetto solo che Doreen mi dia il cambio poi me ne vado; deve essere ancora in riunione. -Quale riunione?- volle sapere Martha. -Sono stati convocati tutti dal dottor Kay per discutere il da farsi sul figlio del primario. -Ah, ecco. In effetti mi sembrava di avere visto in giro meno gente del solito. -Si, sono tutti in riunione. Ma non ci vorrà ancora molto; è da parecchio che sono via - disse Valerie – dovrebbe esserci anche Loughran con voi, oggi. Come se fosse stato chiamato, il testone nero di Tommy Loughran fece capolino nella stanza. -Buongiorno, belle signore. Hey, ma … dove sono tutti quanti? -Ciao Tommy. Ci siamo solo noi, riunione straordinaria. Facciamoci un caffè prima che arrivino, ti va? – lo invitò Valerie. -Come no, mi ci vuole proprio. Mentre prendevano il caffè, anche Loughran venne informato della riunione che il nuovo psichiatra aveva indetto quel pomeriggio. Stavano discutendo delle varie incombenze della giornata quando l’intercom ronzò. Valerie pigiò il bottone e rispose. -Si? -Sono Thorne, del pronto soccorso. Mandateci qualcuno, è arrivato uno nuovo per voi - la voce dell’infermiere sembrava allarmata. – Fate presto – aggiunse, poi la comunicazione fu interrotta. La caposala e Loughran si alzarono quasi all’unisono. -Sembrava grave - disse preoccupata Valerie. -Già, e Doreen ancora non si vede - ribatté Loughran. -Andiamo noi, se vuoi – propose Judy. -No – rifiutò Valerie – mi servite qui. Non posiamo lasciare il reparto se qualcuno non rientra. -Chiama Doreen sul cercapersone – propose Loughran. -No, grazie! Ci tengo ancora alla mia pelle. L’ultima volta c’è mancato poco che mi malmenasse! Sapete quanto è categorica: “solo in caso di estremo bisogno” e questo non mi sembra proprio estremo. Che diamine, quelli del pronto soccorso riusciranno a cavarsela per un po’! -Si, forse hai ragione tu. Lei annuì in silenzio. Sapevano tutti che Doreen e Valerie non andavano molto d’accordo. Entrambe ottime infermiere, dirigevano il reparto ognuna in maniera diversa; più dispotica e maniacale Doreen, più umana e accomodante Valerie. Discutevano apertamente se i loro pareri differivano riguardo ai pazienti e le loro terapie, ed erano capaci di ignorarsi a vicenda ma tutto finiva lì, e se qualcuno del personale prendeva posizione a difesa di una o dell’altra, subito intervenivano. “Doreen è una professionista e fa questo lavoro da molto più tempo di me”, oppure: “Valerie è in gamba ed è molto qualificata; lei ha i suoi metodi, io i miei. Tutto qui.” Era avvincente. Un po’ come osservare di nascosto i genitori che litigano. Doreen arrivò qualche minuto dopo, scusandosi per il ritardo. -Stavamo per mandarti a chiamare- disse subito Valerie. -Perché, che è successo? -Brian del pronto soccorso vuole che gli mandiamo giù qualcuno a prendere un nuovo paziente. Dice che è urgente. Doreen si accigliò. – Non ne sapevo niente. -Deve essere appena arrivato – continuò Valerie – e comunque non potevo mandare nessuno se tu e Jeff non rientravate. -Hai fatto bene, certo – ammise il Generale – ma se ora vado giù mi saltano i controlli.- Guardò l’orologio. – Siamo già in ritardo e tu se non sbaglio devi staccare. -Ci penserò io qui, se per te va bene. Un po’ di straordinario non mi ucciderà. Doreen fece una smorfia che poteva essere interpretata come un sorriso – Va bene. Tommy, Jeff, venite con me. Andiamo a vedere cosa è successo. Grazie, Valerie. -Dovere. Doreen scese al pronto soccorso con i due ausiliari mentre Valerie si preparava al giro di visite assistita da Martha e Judy. Se qualcuno avesse detto che il peggio doveva ancora arrivare, nessuno gli avrebbe creduto. Eppure l’intensa giornata lavorativa avrebbe riservato ancora dei fuori programma agli ignari infermieri. Era l’applicazione della legge di Murphy, e cioè: se qualcosa doveva andare storto, è sicuro che sarebbe andato storto. Il personale impiegato quel pomeriggio stava proprio per scoprirlo. *** Le urla. Quelle urla terribili furono la prima cosa che udirono quando l’ascensore aprì le porte sul corridoio che portava al pronto soccorso. Erano fastidiose già in lontananza, pensò Doreen, figuriamoci da vicino. Percorsero il lungo corridoio fino in fondo, poi Doreen, seguita da Jeff e Loughran spalancò la porta della saletta visite su quelle urla strazianti. Il personale era tutto indaffarato intorno ad un lettino su cui era sistemato il paziente urlante. -Cosa sta succedendo qui? – chiese, ma in tutto quel trambusto nessuno badò a lei. Si avvicinò di malavoglia alla fonte di tutto quel casino, e vide il giovane paziente urlante. Le ausiliarie la notarono e si scostarono. Jeff e Loughran subito dietro. -Ma che cosa sta succedendo qui? – chiese di nuovo alzando la voce. Brian alzò finalmente gli occhi dal paziente e le venne subito incontro. -Meno male! Non so più cosa fare con lui. E’ arrivato da poco ed è una furia incontenibile! Mentre parlava passò a Doreen la cartella clinica contenente i pochi appunti che era riuscito a raccogliere al momento del ricovero. Lei cercò di leggerli, ma con tutto quel trambusto era impossibile. -Dategli qualcosa per la miseria! – esclamò infastidita. -Gli abbiamo già somministrato tanta di quella Stelazina sufficiente per stendere un cavallo e ancora non molla. Non osiamo dargli dell’altro, non prima di avere eseguito gli esami preliminari- la informò Brian. -Sì, ma se non si calma non li eseguiremo mai, e se continua così gli verrà un colpo. Dagli dell’Ativan, mi assumo io la responsabilità. Gli infermieri eseguirono le direttive di Doreen e sembrò che finalmente il giovane paziente si calmasse. -Molto bene, - proseguì lei soddisfatta - veniamo a noi. Rilesse i fogli del ricovero. -Qui dice che ha spesso queste crisi violente ed è già stato ricoverato in due diverse strutture psichiatriche. Come mai lo hanno portato qui? -Come noterai più avanti, è anche riuscito a scappare entrambe le volte, quindi, onde evitare una terza fuga lo hanno spedito qui. Brian lo disse con orgoglio, riferendosi alle misure di sicurezza di cui l’ospedale era fornito. Doreen si limitò ad annuire. -E’ molto giovane, il paramedici hanno scritto “età compresa tra i sedici o diciassette anni”. Brian confermò: - Sì, credo ne abbia diciassette. Ne sapremo di più quando parleremo con i genitori. Sono stati loro a chiamare, dopo che lui è tornato a casa e senza un motivo apparente ha aggredito la madre. Sappiamo solo il nome, è scritto lì, vedi? -Kyle Barker – lesse Doreen – mmmh… -Tutte le informazioni verranno messe a disposizione domani, quando finalmente avremo i risultati dei test. -Molto bene – ripeté Doreen, e appose la sua firma sulla cartella clinica prima di riconsegnarla a Brian. – Lo prendiamo in custodia noi. Fatemi avere quei risultati prima possibile. Con un cenno del capo fece capire a Jeff e Loughran che potevano prendere in consegna il nuovo paziente. Non sembrava più infuriato ora, solo in trip di tranquillanti. I due inservienti lo slegarono dal lettino e lo misero in piedi, sostenendolo per le braccia. Doreen lo osservò. Era un bel ragazzo, scuro di occhi e capelli; peccato fosse malato. La sua furia sembrava essersi esaurita, ma lei non abbassò mai la guardia. Jeff e Loughran lo tenevano saldamente. Andò tutto bene fino in ascensore. Mentre salivano al nono piano Kyle iniziò a parlottare tra sé, gli occhi lucidi come un tossico strafatto. -Quella maledetta … la dovevo ammazzare … è tutta colpa sua … Hey, ma voi chi siete? -Stai calmo Kyle ora ti portiamo nella tua stanza. Andrà tutto bene, vedrai. L’ascensore si aprì al nono piano. Doreen inserì la sua tessera magnetica e le doppie porte si aprirono. Solo quando queste si furono chiuse alle loro spalle il meccanismo ronzò brevemente e sbloccò le altre porte. Doppie porte di sicurezza. Kyle sussultò quando per la seconda volta lo scatto secco della chiusura elettrica bloccò le porte dietro di loro. Erano entrati. Un lungo corridoio, con file di porte. Kyle si guardò intorno con espressione sognante, imbambolata, la bocca aperta. Camminava incespicando sempre sorretto dai due infermieri. Ad un trattò sbottò:-Lo conosco questo posto! Siete riusciti a fregarmi di nuovo! Non ci voglio stare qui lasciatemi tornare a casa mia! Iniziò ad agitarsi di nuovo come se non gli avessero somministrato niente, come se i tranquillanti non avessero sortito effetto su di lui. I tre infermieri se ne stupirono. Arrivarono all’altezza della sala infermiere che il ragazzo cominciò a calciare le porte e gridare nonostante Jeff e Loughran lo tenessero a bada. Furono quei colpi e quelle urla che spaventarono Benji, rinchiuso qualche porta più in la. Passarono davanti alla sua stanza proprio mentre lui era rannicchiato sotto il suo letto, ferito e spaventato, a domandarsi se anche lui fosse pazzo o meno. Ma il peggio ancora non era arrivato. Valerie corse loro incontro quando udì quelle grida. Era a metà del giro dei controlli. -Quello nuovo? Doreen annuì. -Ti serve aiuto? -No. Jeff e Tommy ce la fanno. Tu tutto bene? – si informò Doreen al di sopra delle urla. -Finora sì, tutto tranquillo, ho quasi finito. -Bene. Continua. Lo portiamo in isolamento poi ti do il cambio. -Okay. Doreen proseguì e Valerie nella direzione opposta continuò i controlli con Martha e Judy al seguito. Il ragazzo continuava a urlare. Doreen ne aveva piene le scatole. Era molto contrariata. -Insomma piantala di fare scena. Mi hai fatto venire il mal di testa! -Fammi uscire! Voglio andarmene! Io ti ammazzo! – strillava Kyle senza sosta. Il corridoio sembrava non finire più. Quando alla fine svoltato l’angolo arrivarono di fronte alla porta della cella d’isolamento il nuovo arrivato sembrò capire perfettamente cosa lo attendeva. Iniziò a dibattersi e urlare con maggior vigore. -Non lasciatemi qui! Non lo faccio più, non lo faccio più, prometto, per favore, per favore no, no, NOOOOOO!!!! Doreen staccò dalla cintura un tintinnante mazzo di chiavi. Niente chiusure elettriche per l’isolamento. Aprì la porta e accompagnò dentro il nuovo paziente. -Kyle per oggi starai qui. Fino a domani non posso più somministrarti nulla. Qui sei al sicuro. Strilla quanto vuoi. Quando ti sarai calmato, intendo sul serio, ti farò uscire. La tua furia qui non spaventa nessuno. Impara queste semplici regole e andremo d’accordo. Si richiuse la porta alle spalle con evidente soddisfazione desiderosa di allontanarsi alla svelta dalla fonte di tutto quel rumore. Il nuovo arrivato, infatti, aveva preso a inveire e colpire la porta chiusa con calci e pugni. Avevano svoltato l’angolo e ancora si sentivano le sue grida. Doreen era seccata e camminava svelta. I suoi passi echeggiavano lungo il corridoio. -Accidenti – commentò Loughran – ci dà dentro quel ragazzo. Doreen fece una smorfia insofferente. Quel paziente l’aveva irritata oltremisura. -Presto – sbuffò – abbiamo del lavoro da portare a termine. Non fece in tempo a dire altro perché vide Martha arrivarle incontro correndo. Gli angoli della sua bocca si piegarono all’ingiù di ulteriori due centimetri mentre l’espressione irritata della sua faccia si fece ancora più dura. Sapeva per esperienza che c’erano altri guai in vista se le infermiere correvano da lei in quel modo. Guai seri. Sospirò arrendendosi all’evidenza e non appena l’infermiera fu vicina le chiese rassegnata: - Cos’altro è successo ora? Perché sapeva che era successo qualcosa. Se lo sentiva. |
Capitolo 28
*** Capitolo 28 ***
Capitolo 28 -Corri, il figlio del primario l’ha fatto di nuovo! Bastarono queste poche parole a farli muovere tutti. -C’è del sangue sui muri e sul pavimento. Imprecando sottovoce Doreen aumentò l’andatura augurandosi che non fosse niente di serio. Judy, rimasta di guardia davanti alla porta, si voltò nella loro direzione udendo uno scalpiccio frettoloso. -Siete già entrate? Si informò Doreen dando uno sguardo all’interno. -No, aspettavamo te. Lei annuì, estraendo la tessera magnetica e sbloccando la porta. Entrò nella Stanza Azzurra seguita da Jeff e da Loughran. La prima cosa che notò furono alcune chiazze di sangue sul muro appena sotto la finestra e sul pavimento. Benji era accucciato nell’angolino del muro, a ridosso del letto, incuneato in uno spazio davvero ridotto. Respirava con evidente affanno, come se facesse fatica, in respiri brevi e rapidi. Aveva gli occhi serrati e il volto contratto in un’espressione sofferente. Doreen si chinò dinanzi a lui mentre i due infermieri prendevano posizione ognuno per lato, pronti a sollevarlo da terra qualora la caposala l’avesse ordinato. Lei lo chiamò per nome, incoraggiandolo ad aprire gli occhi e guardarla. Non voleva che si spaventasse e avesse una reazione repentina. Sembrava già abbastanza malconcio così. Benji trasalì sentendosi chiamare. Aprì gli occhi e si voltò verso l’infermiera, mostrando così una brutta ferita alla tempia. Il sangue fuoriuscito, ora rappreso, era colato lungo il collo, andando a macchiare la maglietta bianca del pigiama. Doreen e i due infermieri si scambiarono un’occhiata eloquente. -Benji?- lo chiamò ancora la capoinfermiera. Lo vide sbattere le palpebre diverse volte, poi fissare su di lei uno sguardo vuoto, distante. Provò allora a schioccare le dita un paio di volte e finalmente il ragazzo sembrò accorgersi di lei. Lasciò uscire un lamento di dolore e cercò di appiattirsi ulteriormente contro il muro al quale era appoggiato, nel vano tentativo di sottrarsi loro. Fu quando sentì una pressione sul braccio che si accorse degli infermieri e tentò ancora di allontanarli da sé. Riconobbe Jeff alla sua destra, mentre a sinistra c’era Loughran. Era la prima volta che lo vedeva da vicino e sapeva che la sua presenza lì non era affatto un buon segno. Tentò di contrastarli e di rimettersi in piedi con le proprie forze ma ogni movimento era una fitta dolorosa e loro, temendo che volesse ferirsi di nuovo, glielo impedirono afferrandolo uno per lato e rimettendolo in piedi. Il brusco movimento gli causò un capogiro e sarebbe certamente caduto se non ci fossero stati loro a sorreggerlo. Doreen gli si avvicinò mettendosi di fronte a lui, riempiendo tutto il suo campo visivo. Il fianco sinistro dove Straker lo aveva colpito gli faceva molto male ed ogni respiro gli costava uno sforzo immenso. Lei guardò con attenzione e da vicino la ferita sulla tempia, poi sentenziò:- In infermeria, presto. Camminare era doloroso. Ogni passo che faceva gli causava nuovo dolore ma gli infermieri lo sospingevano avanti, sempre sorreggendolo ognuno per lato. Doreen oltrepassò le infermiere incaricandole di informare il dottor Kay e il primario sull’accaduto. Non disse altro per tutto il tragitto che dalla Stanza Azzurra portava all’infermeria. Questa si trovava in fondo al reparto, oltre l’isolamento. Per arrivarci dovevano percorrere tutto il lungo corridoio e svoltare a sinistra. Quella era la seconda volta che lasciava la sua prigione azzurra dopo l’incidente avvenuto nell’ufficio del dottor Kay e, nonostante il dolore che camminare gli procurava al fianco, Benji osservava il corridoio e le file e file di porte tutte uguali. Chissà dov’era sua sorella, in quel gigantesco labirinto. Cercava di rallentare l’andatura degli infermieri, un po’ per il male, ma soprattutto per riuscire a ricordare dettagli e particolari che avrebbero potuto tornargli utili in futuro. Alla fine del lungo e monotono corridoio svoltarono a sinistra. Qui le file di porte erano solo sul lato destro. A sinistra si aprivano enormi finestroni a sesto acuto. Il soffitto era altissimo e il bianco delle pareti rendeva tutto molto luminoso. La luce del sole filtrava dai finestroni schermati dalla rete di protezione che davano sul giardino esterno. Benji poté scorgere là sotto il parco verdeggiante che vedeva anche dalla sua finestra. Avrebbe voluto continuare a guardare sia il sole che il prato sottostante ma gli infermieri presero un altro corridoio che si dipanava da quello e dopo alcuni passi si fermarono di fronte ad una porta. Brusco movimento che gli causò altre fitte al fianco. Si aggrappò ai camici bianchi dei suoi sorveglianti, lasciando su di essi tracce rossastre con le mani ancora sporche di sangue. Nonostante durante il tragitto avessero incrociato altri infermieri e pazienti, alcuni tranquilli altri meno, Benji non aveva minimamente badato loro, estraniandosi da tutto, rimanendo concentrato solo su due cose: il suo dolore e l’ambiente circostante. Non aveva emesso suono, non aveva tentato di fuggire, come notò Doreen, e la cosa era piuttosto strana ma lo attribuì al fatto che fosse ferito e spaventato. Aveva visto l’andatura leggermente claudicante ed era certa che sentisse davvero male. Ad interrompere i suoi pensieri fu la porta dell’infermeria che venne aperta. Altri inservienti scortarono fuori una donna con una voluminosa fasciatura ad un braccio che balbettava cose senza senso, roteando gli occhi all’indietro. Salutarono Doreen con un cenno del capo e lei fece lo stesso. Qualche secondo più tardi venne loro incontro un medico alto e con i capelli brizzolati. Bello di aspetto e imponente di fisico. Portava eleganti occhiali dalla montatura di acciaio e i baffi. Doreen sorrise imbarazzata di fronte al medico. Somigliava vagamente a Burt Lancaster dei tempi d’oro ed era evidente che esercitava un certo fascino sull’universo femminile, Doreen inclusa. Benji lo osservò con occhi diversi. Vestiva di verde e portava guanti di lattice, due elementi che glielo fecero detestare all’istante. Gli ricordava suo padre e nonostante l’espressione del volto apparisse gioviale, diffidò subito di lui. Dolore o meno, era deciso a non farsi avvicinare. Per adesso, l’attenzione del medico era tutta per la capoinfermiera. -Dottor Burke- lo salutò quest’ultima avvicinandosi alla soglia dell’infermeria. Lui le sorrise e fece loro cenno di entrare. Parlottarono un po’. Loughran e Jeff erano rimasti leggermente indietro e la maggior parte del dialogo venne persa. Benji li vide parlare, poi lei gli porse una cartelletta che lui sfogliò rapidamente. Si voltarono entrambi a guardarlo, poi il medico annuì. Un brivido freddo gli corse lungo la schiena. Cosa si erano detti? Lo vide poggiare la cartellina aperta sulla scrivania, scrivervi sopra qualcosa ed infine venire verso di lui. Cercando di ignorare il dolore, indietreggiò bruscamente al suo avvicinarsi ma gli infermieri, pronti, impedirono ogni iniziativa. -Allora –fece bonario il vecchio medico ignorando il gesto di avversione del piccolo paziente – mi ci fai dare un’occhiata? Non era una vera e propria domanda in realtà, Benji lo sapeva. Come se dipendesse da lui poi. No, era solo un’altra delle loro solite tattiche per ingraziarselo. Infatti, subito dopo aver pronunciato quelle parole e senza aspettare risposta -che comunque non venne- il dottore gli girò la testa verso la luce per osservare meglio la ferita sulla tempia, cosa che Benji non gradì affatto. Cercò di liberarsi da quella presa ma non poteva fare molto, trattenuto com’era. E il dolore al fianco lo stava uccidendo. Si sentiva oltraggiato da quel contatto molesto e il fatto di non potersi difendere lo irritava molto. Ma la cosa che più lo infastidiva era il fatto di non contare nulla. Qualsiasi cosa avesse detto o fatto, loro non gli avrebbero creduto. Era quello a ferirlo maggiormente. E non poteva certo biasimarli, nelle condizioni in cui era ridotto. Appariva ai loro occhi esattamente come Straker gli aveva detto. Urlerai la tua innocenza ma non ti crederà nessuno… Non verrai creduto…i pazzi non contano… Quante volte l’Uomo Calvo gli aveva ripetuto quelle cose? Eppure lui sapeva di non essere pazzo. Era caduto in una trappola ben architettata e non sapeva come uscirne ma di certo non era pazzo. Anche se purtroppo tutti gli elementi erano a suo sfavore. E poi, ancora, chi era costui e cosa voleva da lui? Domande, domande destinate a rimanere senza risposta, almeno per il momento. L’odore di disinfettante dell’infermeria gli dava il voltastomaco e le luci troppo forti gli ferivano gli occhi ma non disse nulla, nemmeno una parola, opponendo solo una lieve resistenza quando gli infermieri lo trascinarono fino al lettino delle visite, obbligandolo a sedervi sopra mentre il dottore preparava il necessario per la medicazione. Aveva realizzato che parlare con loro non sarebbe servito a nulla, se non forse ad aggravare ulteriormente la sua già abbastanza compromessa situazione. Al dottor Burke non importava niente di lui e del suo strano silenzio; il suo compito si limitava a medicare quella ferita. Al resto ci avrebbero pensato gli psichiatri che lo avevano in cura. Questa era la realtà delle cose nella scala gerarchica e lui lo aveva capito. Quel silenzio rassegnato ne era la prova evidente. -…un po’ male. -Uh? La voce del dottore lo aveva riportato bruscamente alla realtà. Un attimo più tardi un dolore feroce alla tempia lo fece sussultare. Si sorprese della facilità con cui i suoi pensieri riuscivano a distrarlo e a trascinarlo lontano. Succedeva spesso negli ultimi tempi. Il medico stava tastando la ferita e disinfettando il taglio. Cercò di sopportare quella tortura in modo stoico, mordendosi il labbro inferiore e giurando a se stesso che non avrebbe emesso un solo suono. -Ho detto che ti avrei fatto un po’ male- ripeté il dottore proprio in quel momento. Si allontanò per prendere altro disinfettante. Benji seguiva ogni sua mossa con sguardo vigile, ora. Doreen era nei pressi, pensierosa e taciturna a sua volta. Forse anche lei si stava domandando come mai non avesse ancora reagito o forse aveva già intuito la ragione di quella temporanea rinuncia alla lotta. Però non abbassò mai la guardia, nemmeno per un istante. Sapeva che i suoi silenzi potevano essere più significativi delle sue brusche reazioni a volte. Il dottor Burke tornò e riprese a lavorare con efficienza sulla ferita. Benji lo lasciò fare senza dire nulla, senza impedirglielo. Il dolore si era un po’ smorzato adesso. Quello che lo irritava maggiormente era la sensazione delle sue mani. Le sue mani fredde e professionali addosso gli davano fastidio. Mani da medico. Ne aveva una vera e propria avversione fin da piccolo. Strinse i pugni ma mantenne il suo ostinato silenzio, sperando che tutto finisse il prima possibile. -Dov’è che ti fa male? La domanda del dottore lo spiazzò. Che intendeva dire? Il vecchio medico sorrise appena, notando la reazione sorpresa del piccolo paziente. -Ho visto che zoppicavi un po’ prima – proseguì il dottor Burke incurante di quel silenzio. – Ho pensato ci fossero altre ferite che non ho visto subito. Maledizione. Se n’era accorto. Certo, i medici si accorgevano sempre di quei piccoli sintomi. Strinse i pugni fino a far sbiancare le nocche ma mantenne il suo caparbio silenzio. Non gli avrebbe fornito alcun indizio. Distolse lo sguardo, mostrando disinteresse per le parole appena pronunciate dal dottore. Il medico proseguì la visita senza aggiungere altro. Sembrava non ci fossero ulteriori ferite evidenti ma era convinto che il piccolo paziente gli stesse nascondendo qualcosa. Per essere sicuri gli controllò anche la vecchia ferita sul polso, rifacendo poi la fasciatura una volta terminato. Benji rimase barricato nella sua torre di silenzio, contrariato dall’insistenza del medico ma deciso a mantenere il distacco. Quasi accidentalmente, il dottore gli urtò il fianco danneggiato, facendolo trasalire. -Hmm… è qui vero? Non mi sbagliavo. Affondò i polpastrelli proprio dove Straker l’aveva colpito, strappandogli un’esclamazione di dolore. Doreen si avvicinò. Il dottor Burke gli sollevò la maglia del pigiama e scoprì la parte lesa. Un livido bluastro di discrete dimensioni fece la sua apparizione. -Questo si che deve fare parecchio male- commentò il medico, mentre Doreen osservava il livido senza parlare. –Perché non ci hai detto niente? Nulla, nessuna risposta e nessun cenno di reazione. Il vecchio medico non se ne stupì più di tanto. Era abituato ad avere a che fare con i pazienti del reparto psichiatrico ed era consapevole che reagivano nei modi più diversi. Però questo ragazzino qui aveva qualcosa di strano… -Qualche frattura?- chiese Doreen osservando il grosso livido vicino alle costole. Il dottor Burke continuando a tastare la zona bluastra, fece un cenno negativo col capo. -Sembrerebbe di no. Non riscontro danni. Fortunatamente sembra solo una brutta botta, dolorosa ma innocua. Se non fosse stata tra il tessuto morbido delle costole avrebbe potuto essere peggio. Faccia fare le lastre se crede, ma le posso tranquillamente dire che non ce n’è alcun bisogno. Qualche giorno di antidolorifico, se crede, e una pomata e tutto andrà a posto. -Mm hm, certo dottore- annuì la caposala. Meglio cosi, pensò. Se fosse successo qualcosa di più grave il dottor Price si sarebbe arrabbiato sul serio, stavolta. Già adesso avrebbe dovuto riferirgli dell’incidente e non sapeva come l’avrebbe presa. Figuriamoci se avesse dovuto informarlo su qualcosa di più grave di un livido e qualche taglio. Decise di metterlo al corrente il prima possibile. Non voleva farlo arrabbiare più del necessario; era già parecchio stressato per tutta quanta la faccenda e non voleva creargli ulteriori preoccupazioni. Anche se non lo dava a vedere e manteneva il solito riserbo e distacco, Doreen sapeva quanto fosse preoccupato. Non si capacitava di come era potuto succedere. Lo sorvegliavano sempre, in maniera costante, eppure… -Trovano sempre il modo di farsi del male… La voce del dottor Kay la fece voltare di sorpresa. –…Se era questo che stava pensando, tutta corrucciata- aggiunse il giovane psichiatra. - Era così assorta che non mi ha nemmeno sentito entrare. -Grazie di essere venuto cosi in fretta, dottore- rispose lei riacquistando all’istante il controllo della situazione. –In effetti sì, stavo proprio pensando a quello. Kay aveva nel frattempo già salutato il dottor Burke e gli inservienti e preso dalle mani di questo la cartella medica del suo paziente, leggendola con attenzione. -Lo immaginavo- rispose con un sorriso, richiudendola dopo averla firmata. -Non so davvero come sia potuto accadere- rispose la caposala scuotendo la testa in segno di disapprovazione. -Gliel’ho detto, Doreen, uno modo lo trovano sempre, anche se li sorvegliasse ventiquattr’ore al giorno. -Già. Diede una rapida occhiata al ragazzo. Era stranamente tranquillo, immobile, seduto sul lettino e lo fissava. Jeff e Loughran a pochi passi da lui, braccia conserte come al solito e pronti ad intervenire. Sembrava così piccolo e indifeso in quel momento ma Kay sapeva bene di cosa poteva essere capace. Era silenzioso e quieto ma quegli occhi mostravano un incredibile travaglio interiore. -Gli avete dato qualcosa per caso? -No dottore- rispose Doreen. –Non ancora. -Uhm… Se avete finito di medicarlo vorrei parlargli. Da solo. -Certo dottore.- Doreen fece cenno agli infermieri di uscire. –Siamo qui fuori in caso di bisogno. Lui annuì e salutò anche il dottor Burke, stringendogli la mano. Rimasto solo con il suo paziente, il dottor Kay prese una sedia e si accomodò di fronte a lui. -Allora, non hai niente da dire?- Il tono del medico era leggermente scocciato. –Dopo quella nostra chiacchierata mi pareva di aver capito che avresti collaborato. Il dottor Kay era arrabbiato. Benji riusciva a percepirlo ma non gliene importava. Anche lui era arrabbiato. Perché nessuno gli avrebbe creduto, qualunque cosa avesse detto o fatto. Sorrise amaramente. -Se le dicessi che non sono stato io, mi crederebbe? -Sei stato tu, Benji? -No. -Chi è stato allora? Invece di rispondere Benji si limitò a fissarlo. Cercava di capire se davvero gli importasse o se stesse solo cercando di farlo parlare, come la volta scorsa. Non poteva dimenticare che il medico aveva giocato sporco con lui. Da parte sua, Kay aspettava una risposta. Si era infastidito quando lo avevano mandato a chiamare, perché pensava di essere riuscito a combinare qualcosa di buono con quel piccolo paziente, invece….Adesso doveva rifare tutto daccapo. E sia, penso. -Se non sei stato tu dimmi chi è stato. Benji trovava quasi divertente il fatto di non essere creduto. Divertente in un modo così doloroso che poteva quasi sentire quel dolore trafiggergli il petto come una coltellata ogni volta che il medico gli rivolgeva quella domanda. Faceva così male dentro, ma forse loro non ne avevano la minima idea. E forse era meglio così. -Non sono stato io- rispose fissandolo dritto negli occhi. Kay decise di assecondarlo, speranzoso di poterci ricavare qualcosa di utile. -Immagino che c’entri il misterioso Uomo Calvo in tutto questo allora, si? -Si chiama Straker… Stupito da quella confessione spontanea, Kay dovette ricredersi. Forse, dopotutto, il suo lavoro non era stato poi così inutile. Doveva andarci cauto. -Chi si chiama Straker, Benji? L’Uomo Calvo? E’ quello il suo nome? Dì pure loro che mi chiamo Straker… Gli tornarono in mente le parole dell’Uomo Calvo. Percepì una sgradevole sensazione al ricordo. Annuì impercettibilmente al dottor Kay. Aveva detto la verità. Era stato lo stesso Straker ad acconsentire che rivelasse loro il suo nome, ma Benji dubitava che sarebbe cambiato qualcosa ormai. Forse era l’ennesima presa in giro da parte del misterioso e crudele Uomo Calvo. Strinse i pugni e subito una fitta dolorosa al fianco danneggiato si fece sentire. Non sarebbe cambiato nulla. -Perché non me l’hai detto subito? -Perché ancora non conoscevo il suo nome e perché… non mi avreste creduto. Kay decise di non forzarlo troppo. Aveva visto l’espressione di dolore in quegli occhi trasparenti e sapeva bene quanto poteva essere dura. -Va bene, Benji, voglio crederti. Adesso Doreen ti farà riportare nella tua stanza. Più tardi parleremo. Forse riesco anche a convincerli a farti uscire. Tu cerca di non combinare altri danni e potrei anche riuscirci. Benji non disse nulla. Il suo sguardo seguì il giovane medico mentre si alzava e usciva dall’infermeria. Troppo facile. Era stato tutto troppo facile. Aveva cercato di seguire il consiglio del ragazzino biondo ma non sapeva ancora se avesse funzionato o meno. A che scopo essere considerati pazzi se non puoi divertirti un pò? Un sorrisetto gli incurvò le labbra, per tramutarsi subito dopo in una smorfia di dolore quando un’altra fitta al fianco lo trafisse mentre cercava di rimettersi in piedi. Un attimo dopo Doreen e gli infermieri vennero a prelevarlo per riportarlo nella sua stanza. |
Capitolo 29
*** Capitolo 29 ***
Capitolo 29 Philip non era arrabbiato. Era furioso ma la sua era una rabbia controllata e silenziosa e forse proprio per questo ancora più allarmante. Doreen lo sapeva e anche il dottor Kay. Avevano chiesto un consulto urgente dopo i fatti avvenuti e Philip li aveva ricevuti subito nel suo ufficio. Sembrava stanco e nervoso. Non doveva di certo essere facile per lui dover sopportare quella difficile situazione. Dopo tanti anni di lavoro al suo fianco Doreen riusciva a leggerlo come un libro aperto. Tuttavia le sembrava ci fosse qualcosa di poco chiaro in certi suoi atteggiamenti ultimamente. Quando erano entrati nel suo ufficio stava parlando al telefono con suo padre, l’ex primario Preston Price. Aveva fatto loro cenno di entrare e subito dopo interrotto la comunicazione. Probabilmente stava discutendo di affari privati con suo padre e non gradiva che altri potessero accidentalmente udirli. Era sempre molto riservato sulla sua vita privata anche se si fidava di tutti i suoi collaboratori. Ma c’era stato qualcosa che Doreen aveva captato. Un atteggiamento diverso dal suo solito. Prese mentalmente nota di ricordarsi di chiederglielo, magari in un momento più tranquillo. Adesso non sembrava davvero il caso. -Non stiamo ottenendo nulla con le buone- stava riferendo Philip ai suoi collaboratori abbastanza seccato –Un piccolo passo avanti e due indietro. Non aveva nemmeno tutti i torti. Doreen e Kay ascoltarono il suo sfogo senza interromperlo. Philip aveva deciso di prendere in mano la situazione. Quella condizione di stasi era sfibrante e lui voleva iniziare il prima possibile la terapia. Rimandare ancora non avrebbe avuto alcun senso e c’era il rischio che episodi come questo potessero ripetersi. Come Peter, aveva commentato suo padre al telefono prima che la caposala e il dottor Kay entrassero. Sta succedendo come con Peter. Dobbiamo impedire che accada di nuovo, figlio mio, devi impedirlo. Hai l’autorità per farlo. -Ho l’autorità per farlo e intendo farlo- rispose il primario a voce alta ai suoi collaboratori echeggiando le parole che suo padre gli aveva detto al telefono poco prima. -Certo dottore, è un suo diritto. La voce di Doreen era pacata e chiara come al solito. Philip la conosceva bene; sapeva che lei si era accorta del suo nervosismo. Tuttavia era restio a parlare di cose cosi delicate. Suo padre gli aveva fatto promettere di non farne cenno con nessuno, nemmeno con Johanna o con sua madre. Non era facile. E forse Doreen sapeva. Aveva lavorato col vecchio primario prima di lavorare con lui. Probabilmente la caposala sapeva molto più di quello che diceva. Avrebbe dovuto chiederglielo, ma adesso aveva bisogno di parlare con sua moglie. -Vogliate scusarmi se ho alzato la voce e se sono così…uhm..nervoso ultimamente ma i gemelli mi stanno preoccupando molto. Credo che indugiare oltre non serva né a noi né a loro. Avrei voluto essere stato in grado di gestire meglio questa situazione per renderla il meno penosa possibile, soprattutto per loro ma non ci riesco e i miei figli non mi stanno rendendo le cose facili. Doreen sorrise comprensiva. Philip si passò le mani tra i capelli prima di sedersi alla sua scrivania, il tipico gesto di quando era nervoso. -Non si deve scusare o giustificare, dottor Price. Sta sopportando un enorme stress tutto da solo e la situazione è delicata. Ha tutto il nostro appoggio e la nostra comprensione. Anche il dottor Kay era d’accordo con le parole della capoinfermiera. -Siamo qui per aiutarti, Philip. Vedrai che andrà tutto bene. Ci vuole tempo, ma tutto si sistemerà. -Lo spero davvero tanto. State facendo un ottimo lavoro. Non avrei dovuto urlare con voi ma sono umano anche io e a volte è tutto davvero troppo. Fatemi fare una telefonata poi verrò con voi a vedere i gemelli. Il dottor Kay e Doreen annuirono e uscirono dal suo studio, lasciandogli la privacy di cui aveva bisogno per chiamare la moglie. |
Capitolo 30
*** Capitolo 30 ***
Capitolo 30 Per Johanna Price, però, la famiglia era ancora una delle poche cose che la coinvolgevano a livello sentimentale e riuscivano a scuoterla dal suo formale cliché di avvocato penalista, facendola ridiventare umana. Era come se si sdoppiasse in due distinte figure; austero avvocato da una parte, mamma amorevole e moglie dall’altra. Philip le invidiava questa capacità, questo suo riuscire a smettere di essere una cosa per diventarne un’altra. Lo considerava un dono prettamente femminile, dato che né lui né tantomeno suo padre erano capaci di farlo. Loro rimanevano medici sempre e comunque. La telefonata appena ricevuta dal marito era riuscita a provocarle apprensione. Non era il solito bollettino medico sulla salute dei gemelli che Philip aggiornava ogni volta che poteva. Non era nemmeno l’interurbana che le faceva sempre quando stava fuori per lavoro. No. Stavolta Philip le aveva chiesto di raggiungerlo in ospedale appena possibile perché doveva riferirle cose importanti che non poteva dire al telefono. Le aveva citato il segreto professionale, e Jo si era allarmata. Philip l’aveva subito rassicurata sulla salute dei gemelli, ma aveva insistito perché la moglie lo raggiungesse. Le aveva anche chiesto di non farne parola con nessuno, specialmente con suo padre, altro dettaglio poco rassicurante. Jo aveva appena finito di parlare al telefono con Philip e stava massaggiandosi le tempie, cercando di rimanere calma e sfruttare gli ultimi scampoli di quella turbolenta pausa pranzo, quando uno dei suoi collaboratori venne ad avvisarla che il Giudice era rientrato in aula prima del previsto. -Vince, ho bisogno di conferire in privato con il Giudice Hendricks, prima di riprendere. Vincent, il dinoccolato tirocinante che lo studio legale associato di Jo aveva assunto da qualche mese, scosse la testa. –Negativo, avvocato. Il Giudice è già in aula e pare ansioso di concludere alla svelta la seduta pomeridiana. -Maledizione! – sbottò Johanna. Il suo collaboratore la osservò, notando solo allora la preoccupazione che le alterava i lineamenti, sempre curati ed eleganti. Problemi personali. Vince lo sapeva. Johanna non imprecava mai, se non quando era stressata o preoccupata. Piccoli segnali che Vincent aveva imparato a riconoscere lavorando con lei. Johanna raccolse frettolosa tutti i suoi documenti e li ripose nella valigetta, ricomponendosi e preparandosi a rientrare in aula. -Scusami Vince, non intendevo...E adesso sono pure in ritardo! -Nessun problema, avvocato. Ma sbrighiamoci, al Giudice non piace aspettare. Erano già tutti ai loro posti, quando Johanna e Vincent arrivarono. Colpetti nervosi di tosse e il rumore dei tacchi di Jo furono gli unici suoni che li accolsero. Giuria, poliziotti e imputato li osservarono avanzare lungo l’aula e prendere posto oltre la sbarra, in ossequioso silenzio. Thomas Hendricks, il grasso Pubblico Ministero, se ne stava appollaiato sul suo scranno e tamburellava con le dita sui fogli, cercando di non mostrarsi troppo irritato dall’inusuale ritardo dell’avvocato Price. Sembrava un Bulldog in toga, con quelle guance flaccide che gli ricadevano ai lati della faccia e Jo dovette distogliere lo sguardo da lui per non rischiare di sorridere a quel buffo paragone. Era bizzarro come in momenti di tensione o sovraccarico emotivo la mente umana registrasse dettagli marginali come quello, altrimenti trascurabili, trasformandoli in qualcosa di grottesco o comico. Derek Mc Clunsky, l’avvocato difensore che avrebbe condotto il controinterrogatorio, lanciò a Johanna un’occhiataccia. Non vedeva l’ora di mettersi in mostra davanti al Giudice, stracciando le accuse formulate in mattinata dall’avvocato Price, e quella donna osava rubargli la piazza con quel plateale ritardo. Sperava che almeno il Pubblico Ministero la riprendesse ma quando questi si limitò ad una battuta generica sulla puntualità, capì che era meglio non insistere. Thomas Hendricks era un uomo potente e sapeva essere pericoloso; era meglio non infastidirlo troppo, specie quando si era nel clou di un processo per omicidio e toccava a lui controinterrogare. Doveva giocare bene le sue carte. Il vecchio Giudice prese la parola. -Bene, ora che siamo tutti presenti in aula, venga messo a verbale che l’avvocato Mc Clunsky può cominciare il controinterrogatorio. La stenografa aveva finito di battere sui tasti, quando Johanna si alzò. -Vostro Onore, chiedo il permesso di conferire con lei. Se l’avvocato Mc Clunsky qui, è d’accordo. L’aula di tribunale si fece ancora più silenziosa. Oltraggiato, Mc Clunsky fece per controbattere ma il Giudice fu più veloce di lui. -E’ importante, avvocato Price? A Johanna non sfuggì la nota di irritazione nella voce del Pubblico Ministero. In effetti non sfuggì a nessuno dei presenti, ma per lei era irrilevante in quel momento. Doveva rischiare. -Si, Vostro Onore, lo è per me. Chiedo il permesso di avvicinarmi. La voce di Jo era pacata, ma decisa. Se Derek Mc Clunsky avesse potuto fulminarla in quel momento, lo avrebbe fatto. -Ma, Vostro Onore… - tentò infatti di obiettare l’avvocato difensore, tutto paonazzo in volto, ma Hendricks non gli diede modo di terminare. -Avvocati, avvicinatevi. Stizzito, Mc Clumsky si avvicinò, intenzionato a chiedere spiegazioni a Johanna sul suo comportamento riprovevole. -Avvocato Price, che succede? -Chiedo perdono, Vostro Onore, non è mia intenzione mancare di rispetto a questa Corte o all’avvocato Mc Clumsky, ma ho bisogno di chiedere un rinvio. -Un rinvio? E perché mai, avvocato? -Ho appena ricevuto una telefonata dall’ospedale, Vostro Onore, ecco perché sono arrivata in ritardo. Si tratta dei miei figli. E’ stata richiesta la mia presenza, e ancora non ne conosco l’esatto motivo. Il Primario non ha potuto dilungarsi in spiegazioni e temo che con questa preoccupazione in mente ora non riuscirei a concentrarmi a dovere. Mi bastano poche ore di permesso, Vostro Onore. Sia il Giudice Hendricks che Mc Clumsky si ridimensionarono nell’apprendere quella notizia. C’era bisogno di tutta la concentrazione possibile da ambedue le parti per raggiungere un verdetto e non erano ammesse distrazioni di sorta, mentre l’avvocato Price sembrava avere una grossa distrazione che rischiava di viziare il processo se il Giudice non avesse deciso di sospendere l’udienza. Dopo una breve riflessione, il Pubblico Ministero prese la parola. -Avvocato Price, esercito questo mestiere da molto, troppo, tempo e mi rendo conto di quanto simili notizie possano sconvolgere e preoccupare. Se non riesce ad essere totalmente focalizzata sul suo lavoro, rischio un processo viziato ed è proprio ciò che vorrei evitare in questo momento. La stampa e tutti i media ci stanno addosso come avvoltoi e ci ridurrebbero a pezzi. Inoltre ho bisogno di tutta la sua competenza per arrivare fino in fondo. Lei ha studiato questo caso minuziosamente e al punto in cui siamo arrivati non me la sento di farla sostituire da qualcuno dei suoi associati. Le concederò un rinvio di 48 ore, spero che basti per risolvere il suo problema. Avvocato Mc Clumsky per lei va bene? -Non… non ho obiezioni da sollevare, Vostro Onore. -Bene. Questa Corte si aggiorna. L’udienza è rinviata alle dieci di dopodomani. Thomas Hendricks calò il martelletto e il bang che produsse mise a tacere il brusio di proteste che si era sollevato. -La ringrazio, Vostro Onore. -Cerchi di stare serena e riprendersi per dopodomani, avvocato Price. Ho bisogno di tutte le sue energie non mi è di nessuna utilità con la testa altrove. Era il suo modo burbero di dire ‘prego’, Johanna lo sapeva. Più di così non sarebbe riuscito a fare. Hendricks non era uomo che mostrava sentimentalismi, ma sotto la scorza dura era corretto. Aveva capito la sua preoccupazione, a differenza di quel presuntuoso di Mc Clumsky, che pensava solo all’occasione mancata di figurare. Forse anche il Giudice se n’era accorto. Jo lo guardò mentre raccoglieva i suoi appunti e li metteva nella cartelletta con gesti stizziti. Ricambiò per un attimo la sua occhiata, poi prese la giacca e con passi decisi abbandonò l’aula senza rivolgere al suo assistito nemmeno una parola. Vince raggiunse Jo e la aiutò con le scartoffie. -Avvocati come lui, bah, che pessimi elementi. – sbottò scuotendo il capo. Jo sorrise, stanca. –Non mi importa di lui, Vince. E’ soltanto un arrampicatore e per giunta arrogante. Non farà mai carriera. Ora voglio pensare solo alla mia famiglia. 48 ore sono poche, ma meglio di niente. -Certo, e sono sicuro che lo ha notato pure il Giudice. Vinceremo noi, ne sono convinto. Tu adesso vai, ti prenoto il volo. Penso io ai documenti. Le carte e gli appunti li troverai giovedì sulla scrivania come al solito. E puntuale, mi raccomando. L’arringa finale è da rivedere in alcuni punti. -Grazie, Vince. Non so davvero cosa farei senza di te. Diventerai un bravo avvocato. -Certo, sto imparando dalla migliore. Adesso vai, tic tac, tic, tac, tempus fugit! Johanna sorrise al suo collaboratore e si affrettò ad abbandonare l’aula dopo aver stretto un’ultima volta la mano a Hendricks, la mente già rivolta a Philip e a quella telefonata. |