Dietro le Quinte -missing moments-

di _matthew_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** First met ***
Capitolo 2: *** Till the day I die ***



Capitolo 1
*** First met ***


Per iniziare questa raccolta, andiamo con ordine e partiamo, appunto, dall'inizio. Vi siete mai chiesti come abbia fatto DiNozzo a finire nella squadra di Gibbs, visto che è l'unico di cui non si sappia come abbia fatto ad entrare nell'Ncis? Ebbene, ecco qui la risposta che mi sono dato io a questa domanda! Buona lettura!






"Mi cercava, capitano?" chiese innocente il volto di DiNozzo, affacciandosi nel suo ufficio. Fresco, rilassato, solito sorrisetto irritantemente sornione stampato sulle labbra.
"Si DiNozzo" sibilò il poliziotto, posando con troppa violenza l'incartamento che stava sfogliando, facendo volare addosso all'uomo seduto di fronte a lui alcuni fogli. L'altro non si scompose, non si mosse, sembrava quasi non respirasse neppure.
"Sono due ore che ti cerco!" abbaiò seccato. "E ti avevano anche venduto come uno dei migliori agenti dell'intero corpo di polizia di Baltimora! Lavativo, arrogante, snervante playboy all'italiana, con un senso dell'umorismo puerile e un senso della disciplina fermo allo stadio evolutivo di un ragazzino di dieci anni, ecco cosa sei, Anthony DiNozzo!"

In poco più di due anni aveva girato quasi tutti i dipartimenti di polizia di Baltimora: traffico, buoncostume, antidroga. Ora capiva il perchè. Nessuno era riuscito a metterlo in riga. Ghignò divertito, sarebbe stato un vero piacere trasformarlo in un vero agente operativo.

"Scusi, capitano" la voce era squillante e per nulla contrita, le parole di scusa erano una formalità a cui era stato addestrato, non una sincera espressione di rimorso.
"Per Dio, DiNozzo! Non sono una delle tue donne! Almeno fingi un po' di dispiacere, quando vieni ripreso da un tuo diretto superiore!"
Tony, che intanto era arrivato a pochi passi dalla scrivania del diretto superiore in questione, atteggiò il volto in una poco convincente espressione di contrito dispiacere, senza tuttavia curarsi di cancellare dalle labbra il suo sorrisetto.

Sfacciato ed irriverente, ma intelligente e ligio al dovere senza tuttavia rispettare gli ordini in maniera cieca e stupida. Prometteva bene, il ragazzo, a discapito della sua laurea in educazione fisica.

"Ha ragione capitano, con loro riesco a mentire molto meglio di così" replicò. L'uomo si fece ancora più scarlatto, sbattendo le mani sulla scrivania. Sempre, sempre, la battuta pronta.
"Lo sa? sembra proprio il sergente di Full Metal Jacket" continuava a sproloquiare l'agente, che tra l'altro si era presentato in giacca e cravatta e non in uniforme. Tipico di DiNozzo farsi beffe delle regole.
"Solo che per entrare veramente nella parte dovrebbe sistemarsi i capelli" e parlava, parlava, continuava a parlare, ininterrottamente; non si rendeva conto, o non voleva rendersi conto, che ogni parola che aggiungeva era un chiodo in più sulla sua bara. No, lui continuava.
Il suo ospite ghignava divertito, inframezzando quell'azione a sorsate di disgustoso caffè orrendamente forte: ghigno, sorso di caffè, occhiata derisoria a lui, ghigno, sorso di caffè, e così via.
Iniziava a perdere seriamente la pazienza. Quell'ufficio conteneva per lo meno una persona di troppo.
"E soprattutto il gergo, capitano, il gergo! Deve essere più volgare, più brutale, per..."

E continuava a parlare, parlava di tutto senza dire nulla; sguardo intelligente e divertito, sorriso sornione. Sapeva benissimo cosa sarebbe successo, perchè era lui a volerlo: era lui che decideva quando mollare il gioco, non erano gli altri a buttarlo fuori. Aveva fatto una buona scelta.

"Fuori di qui!" urlò sdegnato. Che gli si dicesse anche che doveva essere volgare era semplicemente troppo. Era decisamente troppo. Non avrebbe accettato una sillaba di più da quel damerino senza dote, da quel riccone in disgrazia, da quel prototipo fallimentare di nobile nullità.
"DiNozzo, porta il tuo culo fuori da questo ufficio, da questa centrale, da questa città" piccola pausa, per riprendere fiato e far defluire un po' di sangue dal viso surriscaldato.
"E già che ci sei, porta il tuo culo fuori dallo Stato!"
Chiunque altro si sarebbe sentito mortificato, umiliato; chiunque altro avrebbe pregato e supplicato. Chiunque altro, ma non Anthony DiNozzo. Il suo distintivo erano già sulla scrivania, il fastidioso sorriso ancora al suo posto sulle labbra; cosa avrebbe dato per poterglielo cancellare con un sonoro cazzotto.
L'agente uscì come se niente fosse, dirigendosi alla sua scrivania per liberarne i cassetti da tutte quelle pietose riviste a luci rosse che si divertiva tanto a leggere.
"Mi scuso per il contrattempo" tornò a rivolgere la sua attenzione al suo ospite. Il federale non si scompose, limitandosi all'ennesimo ghigno seguito dall'ennesimo sorso di caffè.
"Vuole presentarmi una lunga lista di agenti meritevoli, dall'ottimo stato di servizio e dalla provata moralità ed integrità?" chiese a bruciapelo, con un sorrisetto di scherno sulle labbra.
"La ringrazio, ma ho già trovato quello che cercavo" lo freddò, alzandosi dalla sedia che aveva occupato quasi un'ora prima e lasciando come traccia del suo passaggio una tazza vuota di quel suo orrendo caffè nero.



"DiNozzo" per una volta il suo cognome non era stato urlato da una donna delusa ed arrabbiata, ne da un superiore irato e scorbutico.
Il suo cognome, quella volta, era stato pronunciato a fil di voce, in un tono gelido ed imperioso, il genere di tono che non ammette repliche e che precede un comando perentorio e conciso. Quel tipo di comando a cui si deve obbedire. Punto.
Qualcuno si sedette sulla sua scrivania, mentre lui continuava a trafficare con lo scotch con cui aveva troppo frettolosamente chiuso la scatola dei suoi oggetti personali.
Aveva quasi dimenticato la sua amata spillatrice a forma di topo, per non parlare dell'idolatrata tazza di American Pie. E ora quel dannato scotch non voleva saperne di staccarsi.
Un coltello apparve nel suo campo visivo, offerto in maniera diretta e rude, il tipo di offerta che assomiglia più ad un'ingiunzione che ad una proposta di aiuto.
"Regola numero tre, mai uscire senza coltello" enunciò la stessa voce di prima. Voce a cui apparteneva lo spolverino di lana scura che aveva trovato posto sulla spalliera della sedia su cui lui era seduto fino a poco tempo prima.
Una battuta si fece strada fino alle sue labbra, ma gli occhi azzurro ghiaccio che incontrò restituendo il coltello gliela gelarono in gola.
Occhi duri, occhi che ti leggevano dentro, occhi che imponevano il rispetto. Rispetto con la "r" maiuscola, non quello che ci si guadagna a due dollari la mostrina. Deglutì, ripiegando su una risposta più neutra.
"Ce ne sono molte, di regole del genere, dove lavora lei?" L'uomo ghignò, lanciandogli un'occhiata in tralice, come a valutarlo. Gli piaceva quello sguardo intimidatorio, apprezzava quell'espressione dura ed impenetrabile che incuteva soggezione. Era così che si era sempre immaginato un buon superiore, un buon capo.
"Le regole non sono dell'agenzia, sono mie" risposta schietta e diretta, niente perifrasi, niente orpelli.
Quell'uomo gli piaceva; certo, non nel senso convenzionale del termine, ma sapeva che con uno come lui non si sarebbe permesso di sgarrare. Non troppo, almeno.
"E si, sono molte, ma le imparerai tutte se deciderai di lavorare per me" concluse pratico.
Lavorare per lui, e non con lui. Era così che si esprimevano tutti i capi carismatici nei migliori film d'azione, era così che lui si immaginava il vero capo di una squadra.
Perchè il suo sogno era una squadra, non una scrivania, non un mucchio di agenti che agivano di testa propria per poi fare rapporto ad una figura insignificante e priva di autorità, il cui unico peso era di tipo politico. E quell'uomo poteva essere tutto, tranne che un burocrate politicante.
"Quale agenzia?" indagò curioso, mentre un'idea fissa iniziava a girargli per la testa.
"Ncis" non era di molte parole, e quelle poche erano essenziali e dirette. Non dava spiegazioni, si doveva interpretare, di doveva capire, si doveva giocare d'anticipo. Un po' come in un corteggiamento, ma con una pena, in caso d'insuccesso, decisamente peggiore.
Sorrise sornione: Anthony DiNozzo non era tipo da fallire un corteggiamento.
"Servizi investigativi della marina" disse con un filo d'eccitazione nella voce. "E' un'offerta di lavoro?" indagò sfacciato.
"Tu che ne dici, DiNozzo?" chiese artico di rimando l'uomo, abbandonando la scrivania e dirigendosi verso l'ascensore.
Il suo istinto da poliziotto entrò in funzione, dicendogli che se avesse perso quell'ascensore, non avrebbe più potuto rimediare.
Oltrepassò le porte, scatola e giacca strette in qualche modo tra le braccia, un attimo prima che si chiudessero. Riuscì ad evitare di travolgere l'uomo, ma non potè evitare che lo spigolo della scatola urtasse la tazza di caffè che teneva in mano, inclinandola.
"Dico che sono con te, capo!" disse tutto d'un fiato, come se parlare più lentamente avesse fatto dissolvere quello splendido sogno. Il sogno non si dissolse, divenne anzi più solido, mentre un sonoro scappellotto -il primo di un'infinita serie- s'infrangeva sulla sua nuca.
"Regola numero uno, mai rovesciare il caffè di un marine" lo rimbeccò il capo.
"Chiedo scusa, agente speciale..."
"Gibbs" si presentò, inchiodandolo con quei suoi occhi inquietantemente e profondamente azzurri "Mai chiedere scusa, è segno di debolezza"
Annuì in silenzio. Quelle regole lo intrigavano, rendevano il tutto più affascinante, più misterioso, più cinematografico.
L'ascensore si aprì sull'atrio della centrale di polizia di Baltimora, oltre le porte a vetri la neve turbinava lenta nel cielo plumbeo della sera.
"Ci sono molte ragazze carine all' Ncis, capo?" indagò curioso, una punta di sfacciataggine ed eccitazione della voce. Domanda che gli valse il secondo scappellotto della giornata.
"Regola numero dodici, mai uscire con un collega" lo rimbrottò Gibbs, questa volta senza troppa convinzione.
"Ma capo!" protestò. Avrebbe aggiunto molto altro, ma gli occhi di Gibbs lo invitarono al silenzio.
Si diresse mogio verso il banco di registrazione, dove lo attendeva una mezz'ora buona di scartoffie in compagnia di un poliziotto obeso che mangiava ciambelle a flusso continuo.
Gibbs lo fissò con un ghigno divertito, sfregandosi le mani; qualcosa gli diceva che avrebbe dovuto far ricorso ad innumerevoli scappellotti per far rispettare la regola numero dodici, ma finalmente aveva trovato un futuro agente anziano come piaceva a lui.

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Capitolo 2
*** Till the day I die ***


Ed eccomi qui con la seconda shot, ambientata, stavolta, nel periodo di prigionia di Ziva. Buona lettura!






All'inizio, appena catturata, era stata picchiata. Due tizi l'avevano legata ad una sedia, iniziando a colpirla senza neppure fare domande, poi avevano iniziato a chiedere qualcosa. Un colpo, una domanda, e via così, fino allo sfinimento.
Il tipo d'interrogatorio che porta a confessione oppure a morte, il tipo d'interrogatorio che il Mossad l'aveva addestrata a sostenere, il tipo d'interrogatorio in cui aveva sperato.
Aveva rinunciato alla vita tempo prima, quell'interrogatorio era la semplice formalità che le avrebbe permesso di abbandonare definitivamente la sua esistenza, l'opportunità di accomiatarsi dal mondo dei vivi che cercava da un po' di tempo.
Ma non era successo, era arrivato lui, con i suoi sorrisi e i suoi modi quasi gentili; era arrivato lui e le cose erano cambiate. Niente più botte, niente più calci di pistola ad oltraggiarle il volto, niente più sudicie mani a sfiorarla voraci tra un pestaggio e l'altro.
Con lui era arrivato il buio delle ore in cella, abbandonata ai suoi pensieri, lasciata in pasto ai suoi fantasmi; lui aveva introdotto le ore di luce sfocata e troppo sfavillante, provocata da quelle sostanze di cui era così fanatico che le scorrevano nelle vene.
Il Mossad l'aveva addestrata anche a quello, naturalmente.
Era semplicemente un po' più difficile da gestire, ma niente era impossibile da superare. Bastava concentrarsi sul proprio respiro, costringere il cuore a seguire il suo regolare battito, reprimere con un sorriso i fiotti d'adrenalina che minacciavano di riversarsi nel sangue ogni volta che l'ago le attraversava la pelle.
Leggermente più difficile, ma infinitamente più doloroso.
Doloroso, perchè non le impediva di pensare, anzi, la costringeva a farlo.
Pensava, ragionava, riviveva la sua vita, mentre la sua voce lontana cercava una falla nelle sue difese, colpendo alla cieca alla ricerca della parola magica. Frugava con determinata scrupolosità il suo animo intorpidito dalla droga, alla ricerca del suo punto debole, dell'argomento che l'avrebbe fatta crollare, che l'avrebbe mandata in pezzi.
Era quella la vocazione di Salim, il suo vero credo: la tortura psicologica.
Un'arte in cui pochi emergevano e in cui lui eccelleva, ma lei non sarebbe crollata. Lei non avrebbe parlato, non aveva nulla da dire.
La sua famiglia, quella vera, l'aveva abbandonata da tempo; suo padre l'aveva volontariamente e consapevolmente mandata a morire; la sua nuova famiglia, l'Ncis, l'aveva raggirata, tradita, abbandonata. Non aveva nulla da dire perchè qualsiasi cosa avesse detto, qualsiasi suono si fosse lasciata sfuggire, l'avrebbe irrimediabilmente allontanata dal suo scopo, dalla sua meta.
Ogni singola sillaba che le fosse sfuggita dalle labbra avrebbe posticipato di un altro giorno la sua morte.
Erano passati due mesi, e lui non sapeva niente di lei; sapeva solo che si chiamava Ziva David, che lavorava per il Mossad e che faceva parte dell'unità Kidon. Quelle informazioni gliele aveva date subito, non aveva motivo per nascondergliele. Non era nulla che non sapesse già.

Ritornarono per l'ennesima volta sull'argomento famiglia, aveva già scavato in quella direzione, ma sentiva che mancava qualcosa, sentiva che si poteva fare di più.
Fece ancora una volta il giro di tutti i familiari, paziente, metodico, determinato. Non era diversa dagli altri, semplicemente più resistente.
"Tuo padre si starà chiedendo che fine hai fatto, non trovi?" sorriso di scherno, o forse disprezzo. Era difficile capirlo, da quando una guardia troppo zelante le aveva spaccato il labbro dopo essere stato respinta.
Ovviamente l'aveva uccisa, non tollerava che si alzassero le mani sui suoi prigionieri. Era lui l'unico che potesse sindacare sulla loro sorte, e soprattutto disprezzava quei modi rudi e violenti d'interrogare tanto diffusi tra i suoi sottoposti.
Con la violenza non si otteneva nulla, solamente parole vuote e false quando si riusciva a superare la soglia massima del dolore dell'interrogato.
"No? Allora i tuoi fratelli" insistette. Le volte precedenti non aveva risposto, ora invece reagì.
"Mio fratello l'ho ammazzato io" gli sputò in faccia.
Altro tentativo fallito, non c'era traccia di rimorso o pentimento nella sua voce; non era quella la chiave per accedere alla sua anima, per far leva sul suo senso di colpa e quindi costringerla a parlare.
"E mia sorella l'avete ammazzata voi" non c'era rabbia nella sua voce, ne voglia di vendetta nei suoi occhi.
"Quanti hanno pagato per quell'unica morte?" si affrettò a chiedere, trepidante. Bevve una sorsata di caffè, in attesa della risposta che avrebbe potuto rappresentare il premio ai suoi sforzi. Lei rise.
"Troppo pochi" sibilò.
Scattò in piedi, afferrando l'astuccio in cui restava una sola siringa piena, la quarta della giornata.
La estrasse con veemenza, infilandogliela nel braccio con pura e semplice violenza; lei non sobbalzò. Si limitò a fissarlo con quei suoi occhi spenti e vuoti, pozzi scuri in cui era annegata la sua voglia di vivere.
Represse la rabbia, sfilandole la siringa ancora piena di liquido lattiginoso dal braccio: non le avrebbe permesso di vincere.
Tutti erano crollati, tutti crollavano, durante i suoi interrogatori, ma non lei. Lei era diversa, lei resisteva, lei non crollava.
Più la spingeva verso il limite estremo, verso la sottile ed impalpabile linea del non ritorno, più si faceva insolente, taciturna, ostinata; come se l'unico suo desiderio fosse la morte.
Durante tutti quei giorni, quei mesi, gli interrogatori erano andati accorciandosi: lei era sempre più debole, più fragile, era sempre più facile farla arrivare al limite; quel limite che non le avrebbe mai permesso di oltrepassare.
Perchè sebbene lui fosse un terrorista, un fanatico estremista forse, era anche una persona intelligente ed aveva capito due cose fondamentali di quella donna che sedeva molle e spenta davanti a lui: primo, non gli avrebbe mai detto nulla e, secondo, non desiderava altro che auto-distruggersi.
Lei avrebbe continuato ad inseguire l'auto-distruzione fino al giorno della sua morte; lui avrebbe continuato ad impedirglielo finchè fosse rimasto in vita, e non perchè era umano, o perchè si stava affezionando a lei.
No, l'avrebbe tenuta in vita semplicemente perchè era l'unica tortura che funzionasse, era l'unico modo in cui riuscisse ad infliggerle un po' di dolore: soltanto costringendola a vivere, ad esistere, sarebbe riuscito a farla crollare.
Recuperò il cappuccio da terra, glielo infilò e la slegò. La trascinò fino a quella che era diventata la sua cella, gettandocela dentro.
"Salutami i tuoi fantasmi, Ziva David" sussurrò gelido prima di richiudersi la porta alle spalle.
Sarebbe crollata come tutti gli altri, sarebbe bastato aspettare che i fantasmi del suo passato -fantasmi che lui non era riuscito a scovare- facessero il lavoro per lui.
Si sarebbe messo a ridere di gusto se in quel momento qualcuno gli avesse detto che quegli stessi fantasmi lo avrebbero ucciso, per salvarla.






Ringrazio tutti coloro che hanno letto, continueranno a leggere e leggeranno, e ringrazio in anticipo tutti coloro che decideranno di lasciarmi una recensione per farmi sapere cose ne pensano di quanto letto!
@ Lights: dettagli, esattamente: il loro non era un incontro pianificato o voluto, semplicemente un capriccio del destino. In fondo, in che altro modo avrebbe potuto Tony entrare a far parte della squadra, se non per caso? XD

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