Never Come Back Down di SummerRestlessness (/viewuser.php?uid=94316)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Never Come Back Down ***
Capitolo 2: *** [1]Penelope ***
Capitolo 3: *** [2]Special Needs ***
Capitolo 4: *** [3]Good Girl Gone Bad ***
Capitolo 1 *** Never Come Back Down ***
Never Come Back Down
Her heart is racing
and the room is heating up
and her eyes are glazing
but she still can't get enough
She's dancing with the stars
living in the sky with diamonds
she's dancing with the stars
and oh how the lights are
shining
She holds the key in her hand
reflection in the mirror's her
best friend
she's dancing with the stars
and the stars keep dancing...
Chiudo
gli occhi.
La musica, tutta intorno a me, mi racchiude come un bozzolo caldo e
morbido, un tutto pieno di...me.
Le luci colorate disegnano linee irregolari e liquide sulle mie
palpebre chiuse, come farebbero mille pennelli su una tela. Vernice
colorata sugli occhi. Action painting luminoso.
Alzo le braccia.
Non c'è bisogno che mi sforzi di muovermi a tempo della
musica;
è il ritmo stesso che mi avvolge, caldo e denso, e mi
trascina
con sè.
Non sento più il cuore.
Il mio battito si perde tra mille altri battiti...ma è solo
la musica.
Sono sola.
Riapro gli occhi e mi fermo per un istante.
Nel locale ci sono parecchie persone e quasi tutte ciondolano
più o meno seguendo il ritmo.
E sono sola.
Fa freddo, qui dove sono io.
Ma se chiudo gli occhi e ballo, se lo faccio, allora non fa
più freddo, no. Per un po'.
All'improvviso, incontro uno sguardo, un punto fermo, fisso (su di me)
nella marea che si muove.
I suoi occhi.
Neanche queste luci accecanti li spengono, i suoi occhi. Brillano, si
vede anche da qui.
E guarda me. Brilla, per me.
E aspetta.
Vorrei potesse essere Lui. Vorrei potesse essere il mio motivo per
scendere giù.
Ma un motivo non c'è.
Chiudo gli occhi, e ricomincio a ballare.
Mentre una nuova goccia di luce variopinta scende piano sulla mia
guancia.
She holds the key in her hand
reflection in the mirror's her only friend
Losing control now
and
I hope you come back down.
N.D.Summer
La canzone
è "Livin' in the sky with diamonds" dei Cobra Starship.
Non so, ultimamente le canzoni più assurde mi fanno venire
voglia di scrivere. Vedi anche esempio
1 , esempio
2 , esempio
3 ed esempio
4 (ancora più patetico degli altri).
Mi vengono come dei flash (uuuuuh, il termine "flashfic" adesso ha un
senso!) di immagini e situazioni e così le butto
giù di getto...
Tra l'altro ho messo come genere "Nonsense" perchè questa
"cosa" non ha assolutamente un senso!!! Come molte delle cose che
scrivo :P
Però ho voluto lo stesso postarla, piuttosto di tenerla
nascosta da qualche parte nel mio pc per dimenticarla...!
Vabbè, spero come sempre che a qualcuno piaccia :D
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Capitolo 2 *** [1]Penelope ***
E noi qui ad illuderci di sedurre il
tempo,
Ma
come un onda che impazzisce e
schiuma su uno scoglio,
Tu ti dileguerai.
[ Penelope , Linea 77]
Il suo sguardo
vagò attorno alla sala colma di corpi sudati e ammassati e
per un momento rimpianse di aver detto di sì ai suoi stupidi
amici. Per un
piccolo, minuscolo momento, pensò che avrebbe voluto essere
a casa, steso nel
suo letto a stringere il cuscino a fissare la tv accesa senza vederla
davvero,
per poi addormentarsi con gli occhi lucidi di lacrime che si era
imposto di non
versare. Rimpianse di essere emerso da quello stato di semi-incoscienza
in cui
aveva versato negli ultimi giorni (settimane? mesi?) solo per vedere
questo. “Questo”
era una massa informe di persone, accalcate davanti ad un ragazzo che
stava su
un palco e che faceva semplicemente girare dei dischi neri su un
aggeggio, come
se fosse un Dio. Come se far girare quei dischi fosse la cosa
più importante
del mondo, per lui e per loro.
Quando il disco
smette di girare, siamo tutti morti.
Lui, a queste
cazzate del dj che poi è un po’ un dio e che la
musica è
vita, ci aveva creduto davvero. Quando era un Dio. Ma poi si era reso
conto,
poche settimane (mesi? anni?) prima, che se non poteva avere lei, non
voleva
essere un Dio. Lei era la vita, la musica era solo un contorno. Che
spesso, tra
l’altro, parlava di lei.
E poi, ora vedeva tutto più chiaramente. Quei ragazzi
sballati da chissà
cosa che si muovevano a tempo, cercando di fermare il ritmo, di farlo
proprio,
cercando quel qualcosa di fermo, di saldo
nell’inafferrabilità e ineffabilità
della musica e forse della vita. Non sapevano che non era possibile
farlo.
Provò pena per loro, una pena che stringeva il cuore, visto
che lui era stato
uno di loro. Era stato il loro re. Il re degli sfigati. Ma da un
po’ di mesi
(anni? vite?) aveva capito tutto.
Era arrivata lei, la luce: bionda, chiara, solare. E gli aveva fatto
capire
cosa fosse in realtà la vita. Lei che era bella come una
spiga di grano, calda
come una spiaggia deserta, frizzante come la pioggia
d’estate. Lei aveva spazzato
via tutto e lui aveva capito quale fosse l’unica cosa che
voleva dalla vita:
lei.
Si
guardò ancora intorno e lo scarto tra i suoi pensieri e la
realtà che
gli stava intorno lo colpì come un pugno nello stomaco.
Aveva disperatamente
bisogno di un drink, per tornare a vedere le cose con meno chiarezza:
tutta
quella lucidità iniziava ad essere insopportabile.
- Andiamo a bere qualcosa? – disse al suo migliore amico,
avvicinandosi a
lui per sovrastare la musica. Quello si girò e gli sorrise
raggiante:
- Finalmente si ragiona!
Enrico era veramente un coglione di prima categoria.
Nonché, a peggiorare
la situazione, era il fratello maggiore di lei. Per fortuna, anche
fisicamente,
erano abbastanza diversi: la loro parentela si poteva indovinare solo
dai loro capelli
dorati. Ma, mentre lui era alto e scuro di carnagione, lei era sempre
stata
esile e pallida. Una ninfa, un essere mitologico. E per fortuna i suoi
occhi
castani non ricordavano minimamente quelli azzurri di lei.
Si diressero
quindi verso il bancone del bar e ordinarono due GinLemon. Con
il primo sorso andò giù quasi mezzo bicchiere. E
pensare che il gin neanche gli
piaceva.
Si appoggiarono entrambi ad una parete e continuarono a scrutare la
folla,
mentre gli altri amici si disperdevano, di sicuro per andare a cercare
qualcuna
che ci stesse. Enrico, il suo migliore amico, lui non aveva mai avuto
problemi
a trovare ragazze che ci stessero. Ma, di solito, erano loro che
andavano da
lui. Si era quindi accomodato, in una delle sue solite pose
studiatamente
strafottenti, con un ginocchio alzato e il piede appoggiato al muro.
Gli venne
da ridere, a vederlo così, ma sapeva che l’effetto
che faceva sulle donzelle
con il suo atteggiamento era formidabile, quindi si contenne e
continuò a
scrutare la gente, senza dar segno di volervisi mischiare.
Poi la vide. Nel flashare continuo delle luci
intermittenti, il suo sguardo
venne calamitato da una ragazza, attorno alla quale sembrava esserci un
alone
scuro che teneva tutti gli altri a distanza. Ballava da sola, ma non
era un
modo di dire: dai suoi movimenti, lenti e sinuosi, e dai suoi occhi che
teneva
chiusi, lui capì che ballava solo per sè stessa.
Non come tutte quelle ragazze
che si muovevano con il preciso scopo di risultare sensuali e
riuscivano solo a
sembrare volgari, perlomeno ai suoi occhi. Lei si lasciava cullare, non
da
quella musica che poi in fondo musica non era, ma da una melodia che
tutti gli
altri non sentivano, che stava in fondo a quel rumore e che tuttavia si
abbinava così bene ad esso che sembrava quasi andarci
d’accordo.
I capelli scuri
le coprivano un po’ il volto e poi scivolavano sulle spalle
in punte lisce e disordinate fino a metà della sua schiena
scoperta. Le
caviglie sottili erano fasciate da strisce di raso rosa che arrivavano
fino ai
piedi, in un paio di sandali con un tacco vertiginoso. Il suo vestito
nero era
piuttosto corto e le lasciava scoperta una spalla chiara, mentre si
abbandonava
lascivo sull’altra. Non era casto, certo, ma non aveva niente
a che vedere con
i mini-vestiti che portavano la maggiorparte delle ragazze
lì dentro, per cui
nulla era lasciato all’immaginazione, nemmeno il colore delle
mutandine. Sempre
se le portavano.
Lei era diversa,
lo si vedeva da tutto: da come era vestita fino a come si
muoveva.
Aprì
gli occhi pesantemente contornati con due righe imprecise di eyeliner
nero e guardò intensamente tutto ciò che le stava
intorno, come speranzosa di
trovare qualcosa. Ma dopo aver osservato per un attimo tutti quegli
occhi
famelici puntati su di lei, buttò la testa
all’indietro scoprendo il collo
esile e chiaro e li richiuse.
Lui era come
incantato. Quell’effetto, nella sua vita,
gliel’aveva fatto
una sola persona e non capì come potesse essersene
dimenticato. Nell’esatto
momento in cui stava pensando che quella non poteva essere proprio lei,
una
voce frantumò i suoi pensieri:
- Henry?!?
Prima, ancora di guardare chi fosse la proprietaria di quella voce
squillante, capì chi si sarebbe trovato davanti.
Perchè al mondo c’era solo una
persona, o forse due, che chiamavano così Enrico.
- Oddio... Rosie?? – esclamò infatti quello,
sorpreso. Poi, prese a baciare
la ragazza sulle guance con foga, mentre lui non aveva ancora avuto il
coraggio
di rialzare lo sguardo per sincerarsi che effettivamente le sue
supposizioni
(paure? speranze?) fossero corrette.
Non ebbe in effetti il tempo di riflettere troppo, perchè la
ragazza lo guardò
per qualche istante e poi pronunciò il suo nome con la
stessa enfasi di poco prima
e poi prese a baciare anche lui. Finalmente la guardò negli
occhi e rivide il
sorriso raggiante di sempre fisso su di lui. Lei sembrò per
un attimo stranita
dal suo comportamento, ma subito si rivolse ad Enrico:
- Cosa ci fate qui?
- Tu, piuttosto, cosa ci fai qui! – rispose lui dandole una
gomitata e
risero entrambi, insieme. Lui continuava a guardarli come se provenisse
da un
altro pianeta e non stesse aspettando altro che tornare là.
Poi Enrico gli
rivolse uno sguardo preoccupato e chiese a Rosie: - Sei da sola?!?
Lei gli riservò lo stesso sguardo pieno di compassione
(aveva qualcosa di
strano in faccia?, pensò lui) e poi rispose: - No. Ehm...
sono con lei.
Negli ultimi
tempi, la parola “lei” aveva avuto per lui un solo
significato. Era stata densa di un significato struggente, malinconico,
quasi
insopportabile. Sentirla pronunciare ora, con tanta leggerezza, rivolta
ad
un’altra persona, ad un’altra
“lei”, lo destabilizzò. Fece una smorfia
e
togliendo la cannuccia dal suo bicchiere, lo svuotò
appoggiando le labbra direttamente
sul vetro freddo del contenitore. I due davanti a lui si sorrisero
complici e a
lui venne voglia di mandare tutti a quel paese e di andarsene di
lì. Ma che
avevano? Poi Enrico peggiorò la situazione:
- Ma dov’è? Sarebbe carino parlarle...
Solita occhiata maliziosa a lui. Carino? Ma la voleva smettere? Lui era
appena stato mollato dalla sua ragazza, dalla sua bellissima e
perfettissima
ragazza, non aveva certo bisogno di altri scombussolamenti nella sua
vita.
Tantomeno di colei che si era appena appropriata di quella parola che
non era
sua, “lei”. La odiò, per un attimo, ma
poi la vide, di nuovo.
N.D.Summer
Lui e lei (a
dire il vero "lei 2.0" :P) non hanno nomi, perchè nella
realtà hanno dei nomi fin troppo precisi... Non che i fatti
raccontati qui siano mai accaduti, non che vorrei che accadessero;
tutto questo è solo frutto della mia immaginazione malata :P
Comunque magari più avanti darò anche nomi a
queste mie creaturine... Si accettano consigli, perchè devo
sceglierli proprio random, per non incappare nei soliti o in alcuni che
sarebbero troppo espliciti... -.-
Tra le altre
cose questa doveva essere una oneshot (vedi il primo capitolo), ma oggi
mi è venuta in mente questa pseudo-continuazione,
così l'ho postata... Spero piaccia a qualcuno! Tra l'altro,
ringrazio Human_
per il suo commento (Grazie mille per i complimenti *_* Se mi dici
anche che il tuo nick è un tributo ai The Killers e
sarò tua fan per sempre!!!) e anche tutti quelli che hanno
letto o leggeranno... Baci!!!
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Capitolo 3 *** [2]Special Needs ***
Just
19 and sucker's dream
I guess I thought you had the flavor
Just 19 and dream obscene
With six months off for bad behavior
Remember me...
[Special
Needs, Placebo]
Lei era di nuovo
in pista, più o meno dove l’aveva vista poco prima
senza
riconoscerla, ma stavolta non era sola: un ragazzo carino non troppo
alto
ballava con lei. O meglio, la palpeggiava senza ritegno e cercava la
sua bocca
sorridendole malizioso. Lei lo lasciava fare e di tanto in tanto gli
lanciava
un’occhiata languida e al tempo stesso smarrita, in un modo
che avrebbe fatto
andare fuori di testa anche un santo. A quella vista, lui
provò una furia che
non sentiva da parecchio e che gli infuocò le vene, fino a
fargli distogliere
lo sguardo per non oltrepassare il limite. Poi, calmandosi, strinse i
pugni e
guardò di nuovo in quella direzione.
In quel momento,
lei piegò il la testa da un lato e finalmente lo vide.
I loro occhi si
incollarono e lo sguardo di lei si fece istantaneamente luminoso,
mentre le labbra si aprivano in un sorriso. Ma era un sorriso
evanescente, come
se avesse visto un fantasma o un essere mitologico. La cosa certa era
che era
felice di vederlo, quel fantasma. Il cuore di lui si sciolse finalmente
in
quello sguardo e riuscì a sorriderle e per un attimo a
dimenticarsi di tutto. La
gente, Enrico e Rosie, la musica, il pavimento sotto i suoi piedi.
Poi, il ragazzo
avvinghiato a lei cercò di baciarla di nuovo. Lei lo
guardò
come se fosse la prima volta che lo vedeva e lo allontanò
con un gesto delicato
ma deciso. Poi, senza voltarsi verso di lui, andò veloce
verso il bancone del
bar.
Una forza
misteriosa lo costrinse a seguirla, lasciando Enrico e Rosie di
stucco, facendosi strada a spintoni tra la gente. Le si
avvicinò da dietro e
inspirò forte prima di andarle più vicino. Nelle
sue narici si propagò il suo
profumo e gli fece girare la testa: ebbene sì, anche
lì in mezzo a tutta quella
gente sudata e a tutto l’alcool che scorreva, lei profumava.
E se lo ricordava
ancora il suo profumo.
Le mise con
cautela una mano sulla spalla, come se pensasse di vederla svanire
da un momento all’altro e lei si girò lentamente,
una smorfia scocciata sulle
labbra rosee. Quando lo vide, però, spalancò gli
occhi e disse semplicemente:
- Non eri una
visione.
Gli sorrise
rapita, posandogli leggera una mano sulla spalla e stringendo
un po’ con le dita la stoffa della sua camicia, quasi per
accertarsi che fosse
vero. Lui non potè fare a meno di sorridere, per quanto era
bella in quel
momento, anche così, trafelata e sudata, per la sua
ingenuità candida e per lo
sguardo innocente che aveva e che contrastava con il suo trucco, il suo
vestito
e tutto il resto del mondo.
- No. –
le disse piano, perché tutto quello che voleva in quel
momento era
lasciare che fosse felice. Poi, aggiunse: - Cosa ci fai qui?
Lei fece
spallucce e rispose eterea: - A volte vengo qui per perdermi un
po’.
Una cosa del
genere, detta da quelle labbra, sembrava qualcosa di blasfemo.
- Ti va se
usciamo un po’?- chiese lui incerto e lei annuì
pensierosa.
Mentre passavano tra la gente e lui le faceva strada nella calca, il
ragazzo a
cui prima era abbracciata le si parò davanti, mettendole una
mano sul fianco e
cercando di portarla via con sé, senza dire una parola. Lui
se ne accorse e si
girò verso di loro, mentre la furia che aveva provato poco
prima tornava a
scorrergli nelle vene:
- Lasciala.
– gli disse semplicemente e quello, intuendo la sua rabbia,
alzò
le mani in segno di resa e si allontanò sorridendo
strafottente, non dopo aver
dato a lei un’ultima occhiata non proprio pudica da capo a
piedi. Lui, istintivamente,
le prese la mano e la condusse velocemente fuori, tenendola
più vicina
possibile a sè.
Quando furono
all’esterno, una brezza fresca li investì e lei si
strinse un
attimo nelle spalle. Lui sorrise di quel suo gesto infantile, poi
estrasse le sigarette
da una tasca dei jeans:
- Vuoi?
Lei scosse la
testa e poi precisò:
- Voglio solo il
secondo tiro della tua.
Lui la
guardò ancora, colpito. Il secondo tiro. Se lo ricordava, di
come
lei non fumasse ma fosse solita scroccargli il secondo tiro di ogni
sigaretta,
perchè, diceva, “era il più
buono”.
Si
ricordò anche di quanto fosse buona lei sulle sue labbra,
dopo quel
secondo tiro. E di come c’era stato un tempo in cui avrebbe
voluto che gli scroccasse
secondi tiri per tutta la vita.
Gli porse la
sigaretta e lei se la portò alle labbra, quasi come fosse un
rito pagano di comunione. Le loro labbra, dopo tanto tempo, erano
ancora unite,
anche se da un contatto indiretto e asettico. Gli restituì
la sigaretta e lui
la buttò.
- Non ho voglia
di fumare. – le spiegò. “Non ho
più voglia di niente.” Pensò
senza tuttavia sentire quella morsa allo stomaco che provava da qualche
settimana.
Poi la
scrutò meglio, come alla ricerca di quella malinconia che
aveva
visto in lei la prima volta quella sera, in pista. E le fece la domanda
più
stupida del mondo, che suonò ancora più banale
alle sue orecchie. Ma che in
fondo era esattamente tutto ciò che voleva sapere:
- Come va?
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Capitolo 4 *** [3]Good Girl Gone Bad ***
Now
she in the club with a freaky dress on
Cats
don't want her to keep that dress on
Trying
to get enough drinks in her system
Easy for a good girl to go bad And once we gone Best belief we've gone forever… (Good Girl Gone Bad, Rihanna)
- Come va?
Quella
domanda e la sua voce le riscaldarono la pelle più di tutto l’alcool che aveva
ingurgitato quella sera, più di quanto avrebbe fatto tutto l’alcool del mondo,
anche se se lo fosse rovesciata addosso e avesse acceso un fiammifero. Abbassò
gli occhi però, perché non poteva mentirgli guardandolo:
- Bene. Tu?
- Bene.
Si guardarono
e per poco lei non scoppiò a ridere. Perché era chiaro che nessuno dei due
stava bene, quasi quanto era chiaro che nessuno dei due avrebbe ammesso di
stare male.
- Chi era
quel tipo? – chiese poi lui senza pensarci troppo.
- È un po’
tardi per fare il geloso, no? – lei sorrise senza malizia, poi tornò seria: -
Era solo... un tipo.
- Un tipo che
aveva le sue mani ovunque su di te.
“Lei”, ormai,
era diventata “te”. Era ritornata “te”. E quel pronome in quel momento aveva un
gusto così dolce sulle labbra…
- Appunto.
Era solo un tipo. – replicò lei risoluta.
- E ti fai
mettere le mani addosso così da “un tipo”?
Era davvero
gelosia quella che sentiva nel tono di lui? Lei pregò tanto che non fosse
disgusto. Ti prego, fa che non sia disgusto.
- Sono solo
mani.
- Vuoi
rispondere in questo modo a tutto quello che dirò?
- Sei solo
tu, in fondo. – replicò lei prendendolo in giro e ridacchiando. Ma lui non
sorrise:
- Se non ti
va di parlare puoi dirlo.
- Oh, sei il
solito. – disse lei e fece un gesto con la mano per indicare il suo fastidio: -
Sorridi un po’ delle cose, ogni tanto.
- Be’
scusami. – fece lui acido: - Ma non ci vedo proprio niente da sorridere.
- Oh, be’.
Sorriderò io per entrambi.
Ci fu un attimo
di silenzio testardo, poi lei sospirò:
- Allora, mi
vuoi dire cosa c’è?
- In che
senso?
- Che
problema hai stasera, oltre ovviamente alle mani su di me.
- Quello non
è un mio problema.
Lei sbuffò: -
Mio Dio, sei diventato proprio palloso.
- E tu sei
diventata proprio puttana, a quanto pare.
Lei rise e lo
fulminò con un’occhiata torva:
- Come darti
torto. Ma sul “diventare” ho i miei dubbi…
- In che
senso?
- …forse lo
sono sempre stata.
- Non quando
stavi con me…
- Adesso
tocca a me essere pallosa: noi non siamo mai stati insieme. E poi era mille
anni fa.
- Cinque.
Non giorni,
non settimane, non mesi, non vite. Cinque anni.
- Cinque, ok.
– ammise lei contrariata: - E non fare sempre la parte di quello che si ricorda
tutto di noi. Che mi dai fastidio.
- Mmmh. Ma
io…
- Tu non ti
ricordi niente, dai.
- Se lo dici
tu.
- Lo dico io,
che mi ricordo tutto. Vuoi davvero ricominciare a parlare di questo? – stava
iniziando ad alzare la voce: - Sono cinque anni che non ci vediamo e tu vuoi
litigare per cose morte e sepolte? Non ne abbiamo parlato allora, immagino che
abbia un gran senso farlo adesso.
- Non voglio
litigare.
- Bene.
- Bene.
- Allora,
come va?
- Bene.
- Sì, e come
va VERAMENTE?
- Una merda.
- Grazie.
- Prego! –
esclamò lui sarcastico: - Mi fa piacere che ti faccia piacere!
- Non ho mica
detto che mi fa piacere! Anche se un po’…- gli sorrise – Eddai, scherzo.
- Lo so. –
disse lui sincero, abbassando gli occhi.
- E allora
perché sei così serio?
Lui la
squadrò per un momento, cercando di trovare qualcosa nei suoi occhi, poi
commentò:
- Sei
diversa, lo sai?
- Non mi
hanno ibernata per tutti questi anni, quindi, sì lo so ed è ovvio. Neanche tu
sei un bijoux, comunque.
- Ma no,
intendevo… Sei… - sospirò - Stai bene. Ma sei diversa.
- Ok.
- Voglio dire
che… Non sei uguale.
- Pensa. – ribatté
lei ironica: - Guarda che ce l’ho a casa il dizionario dei sinonimi…
- Eddai.
- Possiamo
rientrare? Fa freddo qui fuori. – gli chiese con dolcezza.
- Sì. –
replicò lui con un sospiro e poi continuò a bassa voce: - Così puoi continuare
a farti palpare.
Lei però lo
sentì, si girò verso di lui mentre si stava avviando alla porta d’ingresso e
sibilò:
- Invidioso?
E il modo in
cui lo disse e la sua schiena nuda davanti a lui a pochi centimetri gli fecero
pensare che forse lo era davvero.
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