Never Come Back Down

di SummerRestlessness
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Never Come Back Down ***
Capitolo 2: *** [1]Penelope ***
Capitolo 3: *** [2]Special Needs ***
Capitolo 4: *** [3]Good Girl Gone Bad ***



Capitolo 1
*** Never Come Back Down ***


Never Come Back Down
Her heart is racing
and the room is heating up
and her eyes are glazing
but she still can't get enough

She's dancing with the stars
living in the sky with diamonds
she's dancing with the stars
and oh how the lights are shining

She holds the key in her hand
reflection in the mirror's her best friend
she's dancing with the stars
and the stars keep dancing...

Chiudo gli occhi.
La musica, tutta intorno a me, mi racchiude come un bozzolo caldo e morbido, un tutto pieno di...me.
Le luci colorate disegnano linee irregolari e liquide sulle mie palpebre chiuse, come farebbero mille pennelli su una tela. Vernice colorata sugli occhi. Action painting luminoso.
Alzo le braccia.
Non c'è bisogno che mi sforzi di muovermi a tempo della musica; è il ritmo stesso che mi avvolge, caldo e denso, e mi trascina con sè.
Non sento più il cuore.
Il mio battito si perde tra mille altri battiti...ma è solo la musica.
Sono sola.
Riapro gli occhi e mi fermo per un istante.
Nel locale ci sono parecchie persone e quasi tutte ciondolano più o meno seguendo il ritmo.
E sono sola.
Fa freddo, qui dove sono io.
Ma se chiudo gli occhi e ballo, se lo faccio, allora non fa più freddo, no. Per un po'.

All'improvviso, incontro uno sguardo, un punto fermo, fisso (su di me) nella marea che si muove.
I suoi occhi.
Neanche queste luci accecanti li spengono, i suoi occhi. Brillano, si vede anche da qui.
E guarda me. Brilla, per me.
E aspetta.
Vorrei potesse essere Lui. Vorrei potesse essere il mio motivo per scendere giù.
Ma un motivo non c'è.

Chiudo gli occhi, e ricomincio a ballare.
Mentre una nuova goccia di luce variopinta scende piano sulla mia guancia.

She holds the key in her hand
reflection in the mirror's her only friend

Losing control now
and I hope you come back down.






N.D.Summer
La canzone è "Livin' in the sky with diamonds" dei Cobra Starship.

Non so, ultimamente le canzoni più assurde mi fanno venire voglia di scrivere. Vedi anche esempio 1 , esempio 2 , esempio 3 ed esempio 4 (ancora più patetico degli altri).
Mi vengono come dei flash (uuuuuh, il termine "flashfic" adesso ha un senso!) di immagini e situazioni e così le butto giù di getto...
Tra l'altro ho messo come genere "Nonsense" perchè questa "cosa" non ha assolutamente un senso!!! Come molte delle cose che scrivo :P
Però ho voluto lo stesso postarla, piuttosto di tenerla nascosta da qualche parte nel mio pc per dimenticarla...!
Vabbè, spero come sempre che a qualcuno piaccia :D 

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Capitolo 2
*** [1]Penelope ***


E noi qui ad illuderci di sedurre il tempo,
Ma come un onda che impazzisce e schiuma su uno scoglio,
Tu ti dileguerai.
[ Penelope , Linea 77]

 

Il suo sguardo vagò attorno alla sala colma di corpi sudati e ammassati e per un momento rimpianse di aver detto di sì ai suoi stupidi amici. Per un piccolo, minuscolo momento, pensò che avrebbe voluto essere a casa, steso nel suo letto a stringere il cuscino a fissare la tv accesa senza vederla davvero, per poi addormentarsi con gli occhi lucidi di lacrime che si era imposto di non versare. Rimpianse di essere emerso da quello stato di semi-incoscienza in cui aveva versato negli ultimi giorni (settimane? mesi?) solo per vedere questo. “Questo” era una massa informe di persone, accalcate davanti ad un ragazzo che stava su un palco e che faceva semplicemente girare dei dischi neri su un aggeggio, come se fosse un Dio. Come se far girare quei dischi fosse la cosa più importante del mondo, per lui e per loro.

Quando il disco smette di girare, siamo tutti morti.

Lui, a queste cazzate del dj che poi è un po’ un dio e che la musica è vita, ci aveva creduto davvero. Quando era un Dio. Ma poi si era reso conto, poche settimane (mesi? anni?) prima, che se non poteva avere lei, non voleva essere un Dio. Lei era la vita, la musica era solo un contorno. Che spesso, tra l’altro, parlava di lei.
E poi, ora vedeva tutto più chiaramente. Quei ragazzi sballati da chissà cosa che si muovevano a tempo, cercando di fermare il ritmo, di farlo proprio, cercando quel qualcosa di fermo, di saldo nell’inafferrabilità e ineffabilità della musica e forse della vita. Non sapevano che non era possibile farlo. Provò pena per loro, una pena che stringeva il cuore, visto che lui era stato uno di loro. Era stato il loro re. Il re degli sfigati. Ma da un po’ di mesi (anni? vite?) aveva capito tutto.
Era arrivata lei, la luce: bionda, chiara, solare. E gli aveva fatto capire cosa fosse in realtà la vita. Lei che era bella come una spiga di grano, calda come una spiaggia deserta, frizzante come la pioggia d’estate. Lei aveva spazzato via tutto e lui aveva capito quale fosse l’unica cosa che voleva dalla vita: lei.

Si guardò ancora intorno e lo scarto tra i suoi pensieri e la realtà che gli stava intorno lo colpì come un pugno nello stomaco. Aveva disperatamente bisogno di un drink, per tornare a vedere le cose con meno chiarezza: tutta quella lucidità iniziava ad essere insopportabile.
- Andiamo a bere qualcosa? – disse al suo migliore amico, avvicinandosi a lui per sovrastare la musica. Quello si girò e gli sorrise raggiante:
- Finalmente si ragiona!
Enrico era veramente un coglione di prima categoria. 
Nonché, a peggiorare la situazione, era il fratello maggiore di lei. Per fortuna, anche fisicamente, erano abbastanza diversi: la loro parentela si poteva indovinare solo dai loro capelli dorati. Ma, mentre lui era alto e scuro di carnagione, lei era sempre stata esile e pallida. Una ninfa, un essere mitologico. E per fortuna i suoi occhi castani non ricordavano minimamente quelli azzurri di lei.

Si diressero quindi verso il bancone del bar e ordinarono due GinLemon. Con il primo sorso andò giù quasi mezzo bicchiere. E pensare che il gin neanche gli piaceva.
Si appoggiarono entrambi ad una parete e continuarono a scrutare la folla, mentre gli altri amici si disperdevano, di sicuro per andare a cercare qualcuna che ci stesse. Enrico, il suo migliore amico, lui non aveva mai avuto problemi a trovare ragazze che ci stessero. Ma, di solito, erano loro che andavano da lui. Si era quindi accomodato, in una delle sue solite pose studiatamente strafottenti, con un ginocchio alzato e il piede appoggiato al muro. Gli venne da ridere, a vederlo così, ma sapeva che l’effetto che faceva sulle donzelle con il suo atteggiamento era formidabile, quindi si contenne e continuò a scrutare la gente, senza dar segno di volervisi mischiare.

 

 

 


Poi la vide. Nel flashare continuo delle luci intermittenti, il suo sguardo venne calamitato da una ragazza, attorno alla quale sembrava esserci un alone scuro che teneva tutti gli altri a distanza. Ballava da sola, ma non era un modo di dire: dai suoi movimenti, lenti e sinuosi, e dai suoi occhi che teneva chiusi, lui capì che ballava solo per sè stessa. Non come tutte quelle ragazze che si muovevano con il preciso scopo di risultare sensuali e riuscivano solo a sembrare volgari, perlomeno ai suoi occhi. Lei si lasciava cullare, non da quella musica che poi in fondo musica non era, ma da una melodia che tutti gli altri non sentivano, che stava in fondo a quel rumore e che tuttavia si abbinava così bene ad esso che sembrava quasi andarci d’accordo.

I capelli scuri le coprivano un po’ il volto e poi scivolavano sulle spalle in punte lisce e disordinate fino a metà della sua schiena scoperta. Le caviglie sottili erano fasciate da strisce di raso rosa che arrivavano fino ai piedi, in un paio di sandali con un tacco vertiginoso. Il suo vestito nero era piuttosto corto e le lasciava scoperta una spalla chiara, mentre si abbandonava lascivo sull’altra. Non era casto, certo, ma non aveva niente a che vedere con i mini-vestiti che portavano la maggiorparte delle ragazze lì dentro, per cui nulla era lasciato all’immaginazione, nemmeno il colore delle mutandine. Sempre se le portavano.

Lei era diversa, lo si vedeva da tutto: da come era vestita fino a come si muoveva.

Aprì gli occhi pesantemente contornati con due righe imprecise di eyeliner nero e guardò intensamente tutto ciò che le stava intorno, come speranzosa di trovare qualcosa. Ma dopo aver osservato per un attimo tutti quegli occhi famelici puntati su di lei, buttò la testa all’indietro scoprendo il collo esile e chiaro e li richiuse.

Lui era come incantato. Quell’effetto, nella sua vita, gliel’aveva fatto una sola persona e non capì come potesse essersene dimenticato. Nell’esatto momento in cui stava pensando che quella non poteva essere proprio lei, una voce frantumò i suoi pensieri:
- Henry?!?
Prima, ancora di guardare chi fosse la proprietaria di quella voce squillante, capì chi si sarebbe trovato davanti. Perchè al mondo c’era solo una persona, o forse due, che chiamavano così Enrico.
- Oddio... Rosie?? – esclamò infatti quello, sorpreso. Poi, prese a baciare la ragazza sulle guance con foga, mentre lui non aveva ancora avuto il coraggio di rialzare lo sguardo per sincerarsi che effettivamente le sue supposizioni (paure? speranze?) fossero corrette.
Non ebbe in effetti il tempo di riflettere troppo, perchè la ragazza lo guardò per qualche istante e poi pronunciò il suo nome con la stessa enfasi di poco prima e poi prese a baciare anche lui. Finalmente la guardò negli occhi e rivide il sorriso raggiante di sempre fisso su di lui. Lei sembrò per un attimo stranita dal suo comportamento, ma subito si rivolse ad Enrico:
- Cosa ci fate qui?
- Tu, piuttosto, cosa ci fai qui! – rispose lui dandole una gomitata e risero entrambi, insieme. Lui continuava a guardarli come se provenisse da un altro pianeta e non stesse aspettando altro che tornare là. Poi Enrico gli rivolse uno sguardo preoccupato e chiese a Rosie: - Sei da sola?!?
Lei gli riservò lo stesso sguardo pieno di compassione (aveva qualcosa di strano in faccia?, pensò lui) e poi rispose: - No. Ehm... sono con lei.

Negli ultimi tempi, la parola “lei” aveva avuto per lui un solo significato. Era stata densa di un significato struggente, malinconico, quasi insopportabile. Sentirla pronunciare ora, con tanta leggerezza, rivolta ad un’altra persona, ad un’altra “lei”, lo destabilizzò. Fece una smorfia e togliendo la cannuccia dal suo bicchiere, lo svuotò appoggiando le labbra direttamente sul vetro freddo del contenitore. I due davanti a lui si sorrisero complici e a lui venne voglia di mandare tutti a quel paese e di andarsene di lì. Ma che avevano? Poi Enrico peggiorò la situazione:
- Ma dov’è? Sarebbe carino parlarle...
Solita occhiata maliziosa a lui. Carino? Ma la voleva smettere? Lui era appena stato mollato dalla sua ragazza, dalla sua bellissima e perfettissima ragazza, non aveva certo bisogno di altri scombussolamenti nella sua vita. Tantomeno di colei che si era appena appropriata di quella parola che non era sua, “lei”. La odiò, per un attimo, ma poi la vide, di nuovo.







N.D.Summer

Lui e lei (a dire il vero "lei 2.0" :P) non hanno nomi, perchè nella realtà hanno dei nomi fin troppo precisi... Non che i fatti raccontati qui siano mai accaduti, non che vorrei che accadessero; tutto questo è solo frutto della mia immaginazione malata :P Comunque magari più avanti darò anche nomi a queste mie creaturine... Si accettano consigli, perchè devo sceglierli proprio random, per non incappare nei soliti o in alcuni che sarebbero troppo espliciti... -.-

Tra le altre cose questa doveva essere una oneshot (vedi il primo capitolo), ma oggi mi è venuta in mente questa pseudo-continuazione, così l'ho postata... Spero piaccia a qualcuno! Tra l'altro, ringrazio Human_ per il suo commento (Grazie mille per i complimenti *_* Se mi dici anche che il tuo nick è un tributo ai The Killers e sarò tua fan per sempre!!!) e anche tutti quelli che hanno letto o leggeranno... Baci!!!

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Capitolo 3
*** [2]Special Needs ***


Just 19 and sucker's dream
I guess I thought you had the flavor
Just 19 and dream obscene
With six months off for bad behavior

Remember me...

[Special Needs, Placebo]

Lei era di nuovo in pista, più o meno dove l’aveva vista poco prima senza riconoscerla, ma stavolta non era sola: un ragazzo carino non troppo alto ballava con lei. O meglio, la palpeggiava senza ritegno e cercava la sua bocca sorridendole malizioso. Lei lo lasciava fare e di tanto in tanto gli lanciava un’occhiata languida e al tempo stesso smarrita, in un modo che avrebbe fatto andare fuori di testa anche un santo. A quella vista, lui provò una furia che non sentiva da parecchio e che gli infuocò le vene, fino a fargli distogliere lo sguardo per non oltrepassare il limite. Poi, calmandosi, strinse i pugni e guardò di nuovo in quella direzione.

In quel momento, lei piegò il la testa da un lato e finalmente lo vide.

I loro occhi si incollarono e lo sguardo di lei si fece istantaneamente luminoso, mentre le labbra si aprivano in un sorriso. Ma era un sorriso evanescente, come se avesse visto un fantasma o un essere mitologico. La cosa certa era che era felice di vederlo, quel fantasma. Il cuore di lui si sciolse finalmente in quello sguardo e riuscì a sorriderle e per un attimo a dimenticarsi di tutto. La gente, Enrico e Rosie, la musica, il pavimento sotto i suoi piedi.

Poi, il ragazzo avvinghiato a lei cercò di baciarla di nuovo. Lei lo guardò come se fosse la prima volta che lo vedeva e lo allontanò con un gesto delicato ma deciso. Poi, senza voltarsi verso di lui, andò veloce verso il bancone del bar.

Una forza misteriosa lo costrinse a seguirla, lasciando Enrico e Rosie di stucco, facendosi strada a spintoni tra la gente. Le si avvicinò da dietro e inspirò forte prima di andarle più vicino. Nelle sue narici si propagò il suo profumo e gli fece girare la testa: ebbene sì, anche lì in mezzo a tutta quella gente sudata e a tutto l’alcool che scorreva, lei profumava. E se lo ricordava ancora il suo profumo.

Le mise con cautela una mano sulla spalla, come se pensasse di vederla svanire da un momento all’altro e lei si girò lentamente, una smorfia scocciata sulle labbra rosee. Quando lo vide, però, spalancò gli occhi e disse semplicemente:

- Non eri una visione.

Gli sorrise rapita, posandogli leggera una mano sulla spalla e stringendo un po’ con le dita la stoffa della sua camicia, quasi per accertarsi che fosse vero. Lui non potè fare a meno di sorridere, per quanto era bella in quel momento, anche così, trafelata e sudata, per la sua ingenuità candida e per lo sguardo innocente che aveva e che contrastava con il suo trucco, il suo vestito e tutto il resto del mondo.

- No. – le disse piano, perché tutto quello che voleva in quel momento era lasciare che fosse felice. Poi, aggiunse: - Cosa ci fai qui?

Lei fece spallucce e rispose eterea: - A volte vengo qui per perdermi un po’.

Una cosa del genere, detta da quelle labbra, sembrava qualcosa di blasfemo.

- Ti va se usciamo un po’?- chiese lui incerto e lei annuì pensierosa. Mentre passavano tra la gente e lui le faceva strada nella calca, il ragazzo a cui prima era abbracciata le si parò davanti, mettendole una mano sul fianco e cercando di portarla via con sé, senza dire una parola. Lui se ne accorse e si girò verso di loro, mentre la furia che aveva provato poco prima tornava a scorrergli nelle vene:

- Lasciala. – gli disse semplicemente e quello, intuendo la sua rabbia, alzò le mani in segno di resa e si allontanò sorridendo strafottente, non dopo aver dato a lei un’ultima occhiata non proprio pudica da capo a piedi. Lui, istintivamente, le prese la mano e la condusse velocemente fuori, tenendola più vicina possibile a sè.

Quando furono all’esterno, una brezza fresca li investì e lei si strinse un attimo nelle spalle. Lui sorrise di quel suo gesto infantile, poi estrasse le sigarette da una tasca dei jeans:

- Vuoi?

Lei scosse la testa e poi precisò:

- Voglio solo il secondo tiro della tua.

Lui la guardò ancora, colpito. Il secondo tiro. Se lo ricordava, di come lei non fumasse ma fosse solita scroccargli il secondo tiro di ogni sigaretta, perchè, diceva, “era il più buono”.

Si ricordò anche di quanto fosse buona lei sulle sue labbra, dopo quel secondo tiro. E di come c’era stato un tempo in cui avrebbe voluto che gli scroccasse secondi tiri per tutta la vita.

Gli porse la sigaretta e lei se la portò alle labbra, quasi come fosse un rito pagano di comunione. Le loro labbra, dopo tanto tempo, erano ancora unite, anche se da un contatto indiretto e asettico. Gli restituì la sigaretta e lui la buttò.

- Non ho voglia di fumare. – le spiegò. “Non ho più voglia di niente.” Pensò senza tuttavia sentire quella morsa allo stomaco che provava da qualche settimana.

Poi la scrutò meglio, come alla ricerca di quella malinconia che aveva visto in lei la prima volta quella sera, in pista. E le fece la domanda più stupida del mondo, che suonò ancora più banale alle sue orecchie. Ma che in fondo era esattamente tutto ciò che voleva sapere:

- Come va?

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Capitolo 4
*** [3]Good Girl Gone Bad ***


Now she in the club with a freaky dress on

Cats don't want her to keep that dress on

Trying to get enough drinks in her system

 
Easy for a good girl to go bad
And once we gone
Best belief we've gone forever…
(Good Girl Gone Bad, Rihanna)

 

- Come va?

Quella domanda e la sua voce le riscaldarono la pelle più di tutto l’alcool che aveva ingurgitato quella sera, più di quanto avrebbe fatto tutto l’alcool del mondo, anche se se lo fosse rovesciata addosso e avesse acceso un fiammifero. Abbassò gli occhi però, perché non poteva mentirgli guardandolo:

- Bene. Tu?

- Bene.

Si guardarono e per poco lei non scoppiò a ridere. Perché era chiaro che nessuno dei due stava bene, quasi quanto era chiaro che nessuno dei due avrebbe ammesso di stare male.

- Chi era quel tipo? – chiese poi lui senza pensarci troppo.

- È un po’ tardi per fare il geloso, no? – lei sorrise senza malizia, poi tornò seria: - Era solo... un tipo.

- Un tipo che aveva le sue mani ovunque su di te.

“Lei”, ormai, era diventata “te”. Era ritornata “te”. E quel pronome in quel momento aveva un gusto così dolce sulle labbra…

- Appunto. Era solo un tipo. – replicò lei risoluta.

- E ti fai mettere le mani addosso così da “un tipo”?

Era davvero gelosia quella che sentiva nel tono di lui? Lei pregò tanto che non fosse disgusto. Ti prego, fa che non sia disgusto.

- Sono solo mani.

- Vuoi rispondere in questo modo a tutto quello che dirò?

- Sei solo tu, in fondo. – replicò lei prendendolo in giro e ridacchiando. Ma lui non sorrise:

- Se non ti va di parlare puoi dirlo.

- Oh, sei il solito. – disse lei e fece un gesto con la mano per indicare il suo fastidio: - Sorridi un po’ delle cose, ogni tanto.

- Be’ scusami. – fece lui acido: - Ma non ci vedo proprio niente da sorridere.

- Oh, be’. Sorriderò io per entrambi.

Ci fu un attimo di silenzio testardo, poi lei sospirò:

- Allora, mi vuoi dire cosa c’è?

- In che senso?

- Che problema hai stasera, oltre ovviamente alle mani su di me.

- Quello non è un mio problema.

Lei sbuffò: - Mio Dio, sei diventato proprio palloso.

- E tu sei diventata proprio puttana, a quanto pare.

Lei rise e lo fulminò con un’occhiata torva:

- Come darti torto. Ma sul “diventare” ho i miei dubbi…

- In che senso?

- …forse lo sono sempre stata.

- Non quando stavi con me…

- Adesso tocca a me essere pallosa: noi non siamo mai stati insieme. E poi era mille anni fa.

- Cinque.

Non giorni, non settimane, non mesi, non vite. Cinque anni.

- Cinque, ok. – ammise lei contrariata: - E non fare sempre la parte di quello che si ricorda tutto di noi. Che mi dai fastidio.

- Mmmh. Ma io…

- Tu non ti ricordi niente, dai.

- Se lo dici tu.

- Lo dico io, che mi ricordo tutto. Vuoi davvero ricominciare a parlare di questo? – stava iniziando ad alzare la voce: - Sono cinque anni che non ci vediamo e tu vuoi litigare per cose morte e sepolte? Non ne abbiamo parlato allora, immagino che abbia un gran senso farlo adesso.

- Non voglio litigare.

- Bene.

- Bene.

- Allora, come va?

- Bene.

- Sì, e come va VERAMENTE?

- Una merda.

- Grazie.

- Prego! – esclamò lui sarcastico: - Mi fa piacere che ti faccia piacere!

- Non ho mica detto che mi fa piacere! Anche se un po’…- gli sorrise – Eddai, scherzo.

- Lo so. – disse lui sincero, abbassando gli occhi.

- E allora perché sei così serio?

Lui la squadrò per un momento, cercando di trovare qualcosa nei suoi occhi, poi commentò:

- Sei diversa, lo sai?

- Non mi hanno ibernata per tutti questi anni, quindi, sì lo so ed è ovvio. Neanche tu sei un bijoux, comunque.

- Ma no, intendevo… Sei… - sospirò - Stai bene. Ma sei diversa.

- Ok.

- Voglio dire che… Non sei uguale.

- Pensa. – ribatté lei ironica: - Guarda che ce l’ho a casa il dizionario dei sinonimi…

- Eddai.

- Possiamo rientrare? Fa freddo qui fuori. – gli chiese con dolcezza.

- Sì. – replicò lui con un sospiro e poi continuò a bassa voce: - Così puoi continuare a farti palpare.

Lei però lo sentì, si girò verso di lui mentre si stava avviando alla porta d’ingresso e sibilò:

- Invidioso?

E il modo in cui lo disse e la sua schiena nuda davanti a lui a pochi centimetri gli fecero pensare che forse lo era davvero.

 

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