Attesa

di baby80
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Primo mese - Dolore ***
Capitolo 2: *** Secondo mese - Dubbio ***
Capitolo 3: *** Terzo mese - Vita ***
Capitolo 4: *** Quarto mese - il dono ***
Capitolo 5: *** Quinto mese - Favola ***
Capitolo 6: *** Sesto mese - Fantasmi ***
Capitolo 7: *** Settimo mese - Addio ***
Capitolo 8: *** Ottavo mese - Voglie ***
Capitolo 9: *** Nono mese - Travaglio ***
Capitolo 10: *** Parto - Nascita ***
Capitolo 11: *** Nostra figlia ***



Capitolo 1
*** Primo mese - Dolore ***


È trascorso un mese dal giorno in cui mi è stato strappato, a forza, un pezzo di cuore.
È trascorso un mese da quando lui, l'uomo che amavo, se ne è andato.
È trascorso un mese e mi sorprendo d'essere ancora qui.
Mi sorprendo che non siano state accolte le mie preghiere.
Mi sorprendo di non essere morta anch'io, come tanti amici, in quel funesto giorno di luglio.
Quel giorno che resterà nella mente d'ogni cittadino di Francia.
Il 14 luglio 1789.
Sono ancora qui, ancora viva.
Viva nel corpo, ma morta nel cuore.
Colma di vita, all'esterno, tremendamente vuota, all'interno.
La perdita di André è stata così devastante da farmi desiderare l'impensabile.
Ho desiderato l'oblio.
Ho desiderato il sonno eterno.
Ho bramato, con tutta me stessa, la morte.
Ho abbandonato la vita, il giorno in cui lui, il mio amore, ha esalato il suo ultimo respiro.
Mi sono allontanata da quella vita che non aveva più senso.
Quella vita che, tutt'oggi, non ne ha.
Ho ricercato la morte, un mese fa, durante quel maledetto giorno.
Ho sperato che il 14 luglio 1789 diventassi il giorno della mia dipartita.
Rammento, come fosse oggi, l'odore di fumo nelle narici.
Rammento, come fosse oggi, gli spari provenire da ogni dove.
Fucili.
Cannoni.
Urla.
Ricordo, come fosse oggi, la rabbia che iniziò a scorrermi nelle vene, prendendo il posto del dolore.
Una rabbia senza senso, una rabbia che sapeva di follia.
Follia che mi fece richiamare, a gran voce, la fine.
Ricordo il caro Alain, accanto a me.
Ogni singolo momento è impresso, come fuoco, nella mia mente.
Ho combattuto per, e contro, la mia Francia.
Ho combattuto per il popolo.
Ho combattuto per un futuro migliore.
Ho combattuto per il mio André.
Ho combattuto, consapevolmente, per morire.
Ma...
Ma la morte non mi ha voluta tra le sue, allettanti, braccia.
Ho sperato, nel corso della battaglia, che il mio corpo venisse colpito, a morte.
Mi sono augurata d'essere trafitta, senza possibilità di salvezza, da innumerevoli pallottole.
Ho sperato d'essere uccisa dal fuoco nemico.
Ho supplicato.
Pregato.
Implorato.
Nulla.
Sono vissuta.
Sono viva.
Sono viva eppure vorrei andarmene, vorrei abbandonare questa esistenza.
Non vi sono più colori.
Non vi sono più profumi.
Niente possiede vita, nel mio mondo.
È trascorso un mese e ancora anelo la fine.
Un mese, trenta giorni, quattro settimane.
Giorno dopo giorno, ora dopo ora, un susseguirsi di minuti.
Tempo.
Tempo che è divenuto un'estenuante agonia, da mattina a sera.
Attendo il buio come un affamato attende un tozzo di pane.
Attendo il buio fin dal mattino
Dischiudo gli occhi e già bramo la notte.
Attendo la notte, unica consolazione.
La notte, unica amica.
La notte, in cui i pensieri, cessano di bisbigliare al mio orecchio.
La notte, il solo istante in cui posso riunirmi a lui.
Nel buio ritrovo André, nel ricordi di un passato ormai lontano, e in un futuro che vive soltanto nel mio cuore.
Ricordare è dolore e consolazione al tempo stesso.
Figurarmi i suoi bellissimi occhi verdi è lacerante, eppure, non potrei continuare ad alzarmi dal letto se non li ricordassi.
Non vi sono più lacrime in me.
Piangere è un lusso che non mi è più concesso.
Il dolore è così forte da farmi scoppiare il cuore nel petto, ciononostante non vi è lacrime a bagnare i miei occhi.
È trascorso un mese dal giorno in cui ho unito, nel cuore, nell'anima e nel corpo, la mia vita a quella di André.
Un mese dal giorno in cui ho amato, per la prima volta, come donna.
La prima volta che ho amato un uomo.
Il solo uomo che avrei mai potuto amare, nel corpo e nell'anima.
Solo lui, André.
Poso le dita sulle mie labbra e mi pare di sentire, su di esse, quelle calde di André.
André.
Pronunciare ad alta voce, il suo nome, mi fa ancora troppo male.
Evito prudentemente di nominarlo in presenza di chiunque.
Mi manca così tanto, mi manca così prepotentemente.
Mi manca come non avrei mai creduto potesse mancarmi qualcuno.
Quando la notte avvolge, questa Francia devastata, e me, giaccio nel mio letto con un senso di serenità, apparente, ma in qualche modo confortante.
Giaccio nel letto, sdraiata su di un fianco, serro gli occhi e abbraccio il mio corpo.
Circondo il busto con le mie braccia.
Mi abbraccio, stupidamente, in cerca di calore.
Mi abbraccio, come fossi una bambina, immaginando.
Fingendo che quello sia l'abbraccio di André.
Qualche volta penso a quanto io sia divenuta folle e patetica.
Qualche volta mi soffermo, su me stessa, e mi rendo conto di quanto io sia cambiata.
Mi rendo conto di quanto non vi sia più nulla di Oscar Francois De Jarjayes, in me.
Non vi è più nulla della Oscar di un tempo.
Ora sono Oscar Francois e null'altro.
Ho scelto d'abbandonare il mio titolo, senza rimpianti, un mese fa.
Ho scelto d'essere una donna.
Ho scelto d'essere una compagna.
Ho scelto col cuore, senza rimpianti.
Ora sono Oscar Francois, e avrei voluto acquisire il titolo più importante.
Avrei voluto poter diventare...
Oscar Francois Grandier.
Avrei voluto diventare tua moglie, André, come mai ho desiderato qualcosa in tutta la vita.
André.
Se solo riuscissi a  piangere!
Se solo fossi in grado di mutare in lacrime il dolore.
Ma forse vi è troppo dolore in me, così immenso da aver esaurito le lacrime, durante questo interminabile mese.
Ho trascorso ore, a piangere.
Ho passato notti intere a partorire piccole perle di sale.
Rinchiusa in un oscura stanza, avvolta dalle tenebre, ho pianto il mio tormento.
Ho pianto il vuoto, la mancanza, la perdita.
Ho pianto l'amore.
Ho pianto fino a che gli occhi son divenuti deserto.
Il dolore è mutato in inquietudine.
L'inquietudine è divenuta rabbia.
Una rabbia cieca.
Rabbia, violenta, sfogata su qualsiasi oggetto inanimato.
Io, da sempre calma e controllata.
Algida e perfezionista.
Io, son divenuta, sotto l'effetto della rabbia, un animale senza controllo.
Quando le lacrime hanno cessato di lambire i miei occhi, ho accolto, in me, la rabbia.
Ho gettato, a terra, tutto ciò che mi era possibile raggiungere con le mani.
Ho strappato le lenzuola bagnate di  pianto, bagnate di quella lacrime che mi stavano tradendo, nel momento in cui ne avevo più bisogno.
Ho riversato la rabbia su me stessa.
Ho sfogato la rabbia ferendo il mio corpo.
La collera mi è montata sotto pelle, ha strisciato col sangue, ed è giunta, prepotentemente alla mente.
Non vi era più nulla da scaraventare a terra, non vi era più nulla da gettare contro le pareti, nulla da fare a pezzi.
Nulla su cui effondere l'ira di una donna inconsolabile.
Ho sfogato, allora, la rabbia sul mio stesso corpo.
Le mani strette in pugni, così stretti da ferirne il palmi.
I pugni, compressi, sferrati con forza sui miei arti.
Pugni violenti sulle mie cosce.
Un gesto insensato, come insensato era, ed è, il mio dolore.
Un gesto sconsiderato, ad occhi estranei, ma non ai miei, non agli occhi di chi conosce la vera sofferenza, quella sofferenza che non trova pace.
Quella sofferenza che non ha risposte, ne giustificazioni.
Quella sofferenza inconsistente.
Quella sofferenza che pare irreale.
Un gesto folle, il mio, che ha in sé, una logica.
Come è possibile rifuggire il dolore procurandosene dell'altro, questo il naturale quesito che, qualsiasi persona sana di mente, si domanderebbe.
Il dolore dell'anima è celato agli occhi, non lo si può toccare, rimane un dolore inesistente, un dolore che non esiste, che non ha consistenza.
Il dolore del corpo è qualcosa di reale, qualcosa che si può toccare.
I lividi macchiano la pelle.
I tagli sanguinano.
I dolori della  pelle sono reali, si possono toccare, si possono vedere.
Sono dolori che si possono accettare.
Ed io ho accettato, il sangue, sui palmi delle mie mani.
Ho accettato, i segni bluastri, che hanno macchiato la mia pelle d'avorio.
Ho accettato il dolore fisico e, per un istante, mi è stato possibile vedere, toccare, il dolore dell'anima.
L'ho accettato, il tempo di un respiro.
È passato un mese, ma non ho smesso di domandarmi il perchè.
Non ho smesso di chiedere, a qualsiasi dio, il motivo di una tale sofferenza.
Non smetto di chiedere, ancora, per quale motivo, lui, mi è stato strappato dal cuore.
Non smetto di domandarmi perché, lui, mi abbia lasciata sola.
Perché André?
Perché mi hai lasciata qui?
Come potrò andare avanti senza di te?
Mi è difficile credere che sia trascorso un intero mese, non mi capacito di come sia riuscita ad andare avanti fino ad ora.
Alain.
Rosalie.
Bernard.
Loro l'unico motivo per cui, il mio cuore, oggi, continua a battere.
Loro, i miei unici e soli amici.
Loro, la mia forza, il mio aiuto.
Dopo quella ormai famosa giornata, non sono più tornata indietro.
Dopo il 14 luglio ho deciso di rimanere a Parigi.
Non ho mai più fatto ritorno in quella che fu, un tempo, la mia casa.
La mia casa e, al tempo stesso, la mia prigione.
Ho vissuto con Alain per le prime 2 settimane, accudita dalle sue bizzarre, eppur amorevoli, attenzioni.
Il caro Alain, immagino la sua paura.
Percepivo il terrore nei suoi occhi.
Paura per me, per questa donna disperata.
Paura ch'io compiessi un gesto sconsiderato.
Il caro Alain, la mia ombra, per 2 settimane, la mia ombra, tutt'ora.
Tra noi non vi sono più formalità di grado.
Tra noi è stato abolito il voi, ed è invece stato accolto, con entusiasmo, il tu.
Mi rivolgo ad Alain come è normale che ci si rivolga ad un amico.
Alain fa lo stesso, nei miei riguardi, ma non ha perduto un irritante vizio.
Non ha smesso di chiamarmi Comandante.
Un irritante vizio che ha il potere di strapparmi un sorriso, qualche volta.
Non sono più Comandante, non vi sono uomini da comandare.
Ho abbandonato tutto, un mese fa.
Vivo in un limitato, ma confortevole, appartamento.
Una stanza da letto, una cucina ed una ancora più limitata stanza da bagno.
Tiro avanti attingendo ai miei risparmi, a quella parte di denaro che ancora mi è dato di possedere.
La disperazione mi ha portato ad attingervi.
Ho bisogno di un lavoro ma, in questo mese, mi era impossibile anche solo immaginare di alzarmi dal letto.
Ho bisogno di un lavoro e forse, domani, sarà la giornata ideale per cercarlo.
Domani.
Forse.
Siedo sul letto e mi accorgo dell'arrivo di una cara, fedele, amica.
È giunta, anche oggi, la notte.
Mi lascio avvolgere dalle tenebre, senza porre resistenza.
Mi lascio cadere tra le lenzuola, su di un fianco, come di consueto.
Cingo il corpo con le braccia.
Il cuore accelera la sua corsa.
Il gelo colpisce la mia pelle.
I ricordi cominciano a sussurrarmi una storia.
La storia di un bellissimo bambino, un dolcissimo bambino dagli occhi verdi.
Il dolore si impossessa del mio cuore a metà.
Il male si avvinghia alla mia anima.
Invoco delle lacrime traditrici.
Sigillo i miei occhi e mi sorprende una vertigine.
Sigillo il mio sguardo e mi lascio cullare da un capogiro che mi è divenuto amico.
Un malore che, follemente, rende il mio dolore più sopportabile.
Un malore che è in grado di farmi tollerare tutto questo dolore.
Aumento la pressione del mio abbraccio, sognando, il mio amore perduto.
Aumento la pressione del mio abbraccio, sognando il suo, di abbraccio.
Sogno, ancora sveglia.
Immagino, tra i miei occhi, il suo bellissimo viso.
Immagino, tra l'azzurro delle mie iridi, il suo caldo respiro.
Immagino, ad occhi chiusi, la morbidezza delle sue labbra.
Immagino il mio André e mi domando perché.
E mi domando, perché io sia ancora qui.

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Capitolo 2
*** Secondo mese - Dubbio ***


Una fresca brezza mattutina sembra ghiacciarmi il viso, bagnato dalle lacrime.
Delle prodighe lacrime che hanno fatto ritorno, mestamente, tra i miei occhi.
Capita assiduamente, ormai, di destarmi con il pianto in gola.
La notte è mia complice, asseconda ogni mio desiderio, placando il mio dolore, e donandomi pace e silenzio.
Nelle ore in cui i miei occhi, ed il mio cuore, riposano, anche il dolore ed il ricordo di Lui, svaniscono.
Ed in quelle ore che sembrano istanti, tutto mi appare come un tempo, non esiste il male, non vi è la morte, non vi è nulla di tutto ciò.
In quelle ore, che sembrano istanti, Lui non se ne è mai andato.
In quelle ore Lui, il mio André, è ancora qui.
Colta, da un'improvvisa perdita della memoria, dischiudo gli occhi all'alba, donando, ad un paesaggio dalle innumerevoli sfumature rosse, un sorriso.
Il tempo di un istante e la realtà mi colpisce in pieno volto, l'assenza di André mi trafigge il petto.
Il sorriso muore.
Le lacrime vengono alla vita.
Anche questa mattina, la realtà, mi ha sorpresa.
Chiudo gli occhi e permetto al vento d'asciugarmi le guance.
Chiudo gli occhi e lascio, che il vento, accarezzi i miei capelli.
Sono passati due mesi da quando...
Da quando il destino ha deciso per me.
Da quando il destino ha deciso ch'io dovessi continuare a vivere.
La sofferenza è immutata.
Il tempo non guarisce le ferite, il tempo, non ha guarito le mie.
Il tempo infetta le lesioni, aumentando il dolore.
Apro gli occhi, carezzo le guance, ormai asciutte e fredde.
Fredde come...
Come la carne di un morto.
Apro gli occhi e indosso degli abiti.
Da qualche giorno trovo la forza di alzarmi dal letto, fino a quanto l'angoscia mi è sopportabile.
Fino a quando mi è possibile ignorare, il vuoto, che mi è nato dentro.
Un vuoto che non ha fatto che dilatarsi, in questi mesi.
Quel vuoto che non tento nemmeno di colmare.
Nulla potrebbe riempire la perdita della mia anima.
Nulla, e nessuno, potrebbe prendere il posto del mio unico amore.
Ascolto i battiti, rallentati, del mio cuore.
Un cuore a metà che ha perduto il proprio vigore.
Ascolto i sussurri dei miei pensieri, e nuove lacrime solcano gli occhi.
Sono trascorsi 60 lunghissimi giorni, e ancora non mi rassegno all'idea che non lo vedrò più.
Destarmi alla mattina e sapere, che non vedrò i suoi occhi, mi devasta.
Salutare l'alba, e rendermi conto, che non udirò più la sua voce, mi toglie il fiato.
Ma c'è qualcosa che mi sconvolge ancora più nel profondo.
Il timore di non ricordare.
La paura di dimenticare.
Ho paura di non rammentare, un giorno, il suono della sua risata.
Ho il terrore di non ricordare, il profumo della sua pelle.
Non posso dimenticare.
Non voglio, ed anche volendo, forse, non potrei.
Non scorderò mai ciò che ha fatto parte di me per un'intera vita.
Non scorderò mai ciò che mi è stato strappato a forza.
Non scorderò mai la mia mancanza.
Il mio cuore a metà, me lo rammenterà, per il tempo che mi sarà dato vivere.
Il tempo.
Quel tempo che baratterei con povere anime perse.
Quelle povere anime perse, ai margini della Senna, disposti a compiere l'impronunciabile, pur di vivere.
Oh signore, dono a loro, la luce della mia vita.
Dona, a chi loderebbe, la mia esistenza.
Oh signore, regalami il mesto vestiario.
Avvolgi le mie membra, stanche, col sudario eterno.
Oh signore, riportarmi il mio cuore.
Fallo tornare.
Signore, ti imploro, fallo tornare da me, ancora una volta.
Una sola volta.
Una volta solamente, in cui potrò guardare, ancora, nel verde del suo sguardo.
Una volta soltanto, in cui perdermi tra le sue braccia.
Un'unica volta, per fare l'amore con lui, fino al giungere della fine.
Un'unica volta, per sussurrare il mio amore.
Il dolore mi colpisce al costato.
Le lacrime divengono cascate.
Signore prenditi la mia vita.
Prendila ora, ora che il dolore mi è insopportabile.
Ora che il dolore mi sta rendendo pazza.
Sento bussare alla porta, un tocco deciso, non vi è sorpresa in me, non ho bisogno di domandarmi chi potrebbe essere, so esattamente chi si trova al di là della porta.
Nascondo, tra le mani, le perle salate del mio sguardo.

“Entra pure Alain.”
Non adesso, non ora, dannazione!
Lo guardo entrare, il caro Alain, con il quotidiano sorriso sul viso e un vassoio tra le mani.
Lo guardo poggiare il vassoio sul tavolo e farsi serio, cerco di precedere le sue mosse ma lui è diventato  più veloce di me.

“Alain ti prego...”
Troppo tardi, lo vedo mettersi sull'attenti e fare il saluto militare.

“Comandante!”
“Questa storia deve ripetersi ogni mattina, Alain?”
Gli dico portandomi una mano alla fronte in segno di stanchezza.

“Lo so che in fondo ti fa piacere. Come stai oggi, Oscar?”
Mi domanda Alain, con un dolce sorriso sulle labbra.
Rispondo senza parole, alzando le spalle e posando lo sguardo a terra.
Mi avvicino al vassoio, sul quale, come ogni mattina, vi trovo una tazza di latte, un tozzo di pane e, se la fortuna ha assistito la mia ombra, una mela.
Osservo il vassoio e l'inappetenza è l'unica risposta al cibo.
Mangiare, per me, è divenuto un obbligo.
Un obbligo che devo assolvere, mio malgrado, per non amareggiare i miei amici.
Un onere che, questa mattina, mi è particolarmente difficile.
Alain mi guarda con occhi supplicanti, spera, lo so, che io mandi giù almeno un boccone.
Catturo la tazza di latte con mani di pietra, la sollevo dal tavolo a fatica, ho come l'impressione che sia fatta di ferro.
Porto la tazza di latte alle labbra, le dischiudo dinnanzi alla porcellana e un prepotente disgusto mi invade la bocca, le narici, fino a giungere alla bocca dello stomaco.
Le dita mutano in fragili ramoscelli, così deboli da non riuscire a sostenere il peso della porcellana.
La tazza scivola dalla mia fiacca presa, precipitando rovinosamente, sul tavolo.
Il disgusto, giunto allo stomaco, mi contorce le viscere.
Una contrazione involontaria mi rovescia, all'interno.
Porto la mano, ancora fragile, alla bocca, serrando, al di sotto, un inaspettato conato.

“Oscar! Cosa succede?”
Vorrei rispondere ma credo che, se solo provassi a pronunciare una parola, sarebbe la fine.

“Dannazione! Il latte sarà andato a male!”
Vedo Alain avvicinarsi al tavolo, chinarsi su di esso, ed odorare il liquido versato.
Vedo Alain avvicinarmisi, poggiare una mano sulla mia spalla e puntare, il suo viso, dinnanzi al mio.

“Oscar, stai bene? Non credo sia stata colpa del latte, è fresco.”
“Sto bene Alain, non ti preoccupare, ora mi passa. Ho lo stomaco in disordine da qualche giorno. Ma ora sto bene, davvero.”
Fingo sicurezza, nelle parole e nelle azioni, ma ne le parole, ne le azioni, mi vengono in aiuto.
Le parole fuoriescono dalle mie labbra a fatica.
Le mani tremano come fossero foglie al vento.
Lo stomaco non cessa di contorcersi su se stesso.
Il conato, di poco prima, sta percorrendo, di nuovo, i propri passi.
Copro le mie labbra con dita incerte.

“Oscar!”
La voce di Alain giunge, alle mie orecchie, come un lamento strozzato.
Respiro profondamente.

“Alain, sto bene, davvero. Deve essere la stanchezza, ho dormito poco in questi giorni. Ora ti prego, vai, io andrò a stendermi sul letto. Grazie per la colazione.”
Cerco d'essere più convincente di un attimo prima.

“Come vuoi Oscar. Passerò più tardi a controllare se ti senti meglio.”
Lo guardo allontanarsi ed uscire dall'appartamento.
Un respiro profondo.
Un altro respiro.
Un altro ancora.
Provo a spogliare, le labbra, della mia mano.
Cammino con passo incerto verso il letto e mi lascio cadere tra le lenzuola.
Percepisco, ancora, le contrazioni dolorose provenienti dallo stomaco.
Riacquisto la mia consueta posizione, su di un fianco, raccolgo le gambe contro il ventre ed attendo.
Attendo che il malessere si attenui.
Attendo, in realtà, come di consueto, che questo malessere mi porti via con sé.
Sono trascorsi due mesi e ancora bramo la fine.
Scivolo, senza rendermene conto, in un sonno profondo, dal quale riemergo dopo un tempo indefinito.
Dischiudo gli occhi e, il disturbo allo stomaco pare essere svanito.
Mi alzo dal letto e cammino lungo la cucina, fisso il vassoio portatomi da Alain, allungo la mano e agguanto la mela rossa che vi è posata.
Una mela rossa.
La rigiro tra le mani, ne osservo il colore brillante ed intenso.
L'avvicino al naso e ne odoro il profumo.
Profumo di prati verdi.
Profumo di corse a cavallo.
Profumo di duelli con la spada.
Profumo di Lui.
Quante volte ti ho visto, André, giocare con mele simili a questa?
Quante volte ti ho scorto, addentare una mela  pari a questa?
Infinite volte ho veduto, le tue labbra, poggiarsi sulla rossa buccia.
Ed infinite volte ho guardato, col turbamento nel cuore, le tue labbra succhiarne la polpa succosa.
Le sue labbra.
Ho guardato, ho sentito, le sue labbra, compiere gli stessi gesti.
Sulla mia bocca.
Sulla mia pelle.
Un brivido mi percorre la schiena.
Il desiderio mi sorprende.
Il desiderio mi sembra, ora, una orribile mancanza di rispetto.
Come posso desiderare il suo corpo?
Come è possibile che in me sia ricomparsa la lussuria?
Un respiro profondo, e cerco d'allontanare l'ardore, così fuori luogo in questo mio piccolo mondo luttuoso.
Raccolgo i cocci rotti della tazza e, con una pezzuola il latte rovesciato.
Respiro e, quello che è sempre stato profumo, muta, al mio olfatto, in fetore.
Il latte, come qualche ora addietro, mi contorce le budella.
Abbandono la pezzuola, maleodorante, sul tavolo, cercando aria fresca al di fuori della finestra.
Respiro profondamente tentando di rimandare indietro i conati.
Cosa mi sta accadendo? Che le mie preghiere stiano per essere accolte?
Che sia giunta la mia fine?
Oh signore, te ne prego.
Ti supplico, soltanto, di rendere meno sofferente la mia dipartita.
Una dipartita che sta diventando una lunga agonia.
Una contrazione, un conato.
Respira Oscar, respira.
Sollevo le braccia per raccogliere i miei riccioli al di sopra della testa.
Riccioli che, non fanno altro che aumentare, il calore insopportabile, che mi è nato al di sotto della carne.
Innalzo le braccia e percepisco una costrizione al petto.
Sento, chiaramente, la stoffa stringermisi attorno.
Vedo la camicia tendersi, pericolosamente, all'altezza del petto.
Come è potuto accadere che, il mio corpo, sia cresciuto in tal modo?
Come è possibile se, da due mesi, nutrirmi equivale a ingoiare due soli tozzi di pane al giorno?
Respiro profondamente.
Respiro e il fiato non giunge.
Respiro massi di pietra.
Anche il cuore sembra essersi bloccato.
Un fugace pensiero mi attraversa la mente.
Un pensiero così effimero da rasentare la stupidità.
Inalo il dubbio.
Un dubbio che si sta prendendo gioco della mia fragile mente.
Un dubbio che è pura follia.
Un dubbio che terrorizza.
Respira Oscar, respira.
Getto il mio corpo, scosso dal malessere, su quel giaciglio che è divenuto, ormai, il mio rifugio.
Getto il mio corpo sul letto, mentre, con mani tremanti, libero dalle asole, i primi bottoni di madreperla.
Scruto, timidamente, la porzione di pelle liberata e ne rimango sorpresa.
Mi meraviglio di vedere, in me, rotondità così arroganti.
Mi sorprendo di scorgere, in me, una femminilità così evidente.
Respiro profondamente.
Respiro riappropriandomi della mia posizione.
Giaccio su di un fianco, col corpo protetto in un abbraccio.
Sdraiata, tra le mie braccia, serro lo sguardo e immagino lui.
Immagino, tra il buio dei miei occhi, André.
Immagino e, questa notte, non mi pongo domande.
Questa notte non voglio desiderare la fine.
Questa notte non voglio risposte.
Questa notte amerò il mio André, priva di pensieri infausti.
Questa, una notte d'amore.
Questa notte dormirò.
Questa notte.
Nel dubbio.

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Capitolo 3
*** Terzo mese - Vita ***


Ottobre.
L'aria è divenuta pungente.
Le nuvole minacciano pioggia.
Ma stamane, come ogni giorno, compio un gesto che è diventato abitudine.
Spalanco le finestre e respiro la frescura mattutina.
Spalanco le finestre permettendo al vento di scompigliarmi i capelli.
Apro le finestre e concedo, al vento, di ravvivarmi il viso.
Il gelo desta le mie membra, ancora lievemente sopite.
La notte mi è ancora amica, una fedele complice di pensieri nascosti.
Pensieri che emergono al calar della luce e, tra le pieghe dell'oscurità, divengono sposi del cuore, concependo, nel mezzo delle tenebre, meravigliosi sogni.
Sogni che hanno il sapore dell'amore e un delizioso retrogusto di vita.
Sogni che hanno bandito, quasi completamente, la fine.
La dama nera solletica la mia voglia, di tanto in tanto.
Mi è difficile rimanere indifferente al suo indubbio fascino ma, ora, mi è più facile scacciarla dalle labbra.
Molte cose sono cambiate.
L'inaspettato ha bussato alla mia porta, durante questo bizzarro mese.
Un mese che ha segnato la mia fine, e il mio inizio.
Un mese che ha ghiacciato, come perle di rugiada lambite dal gelo d'ottobre, la ferita del mio cuore.
Sorrido alla prima pioggia d'ottobre, un'impertinente pioggerellina che mi pizzica le guance.
Sorrido ai ricordi passati un istante fa.
Bussano alla porta e la mente ritorna ad un medesimo istante, di una settimana addietro.
Un palpito che ha segnato il cambiamento.
Una settimana fa...



Odo battere contro il legno della porta, il rumore mi desta da un sonno profondo.
Il sole è già alto, lo vedo insinuarsi, tra le fessure delle persiane.
Odo bussare, di nuovo, e non vi è, in me, nessuna voglia di alzarmi.
Sento bussare.
Impongo un immenso sforzo ai miei arti, impongo al mio corpo movimenti quasi involontari.
Poggio i piedi nudi sul pavimento ed un brivido mi fa intirizzire la pelle delle gambe.
Indosso un paio di pantaloni ed una camicia.
Nuovi battiti alla porta.
Cammino a piedi nudi, incontro al rumore di nocche gettate, con violenza, contro il legno.
Un rumore che penetra le orecchie.
Un fastidio che si insinua nel cranio.

“Avanti, dannazione!”
L'insolenza scivola dalla bocca, senza controllo.

“Ci siamo svegliate bene, Comandante!”
“Scusa Alain, è che stavo ancora dormendo e, una tremenda emicrania mi sta facendo impazzire.”
“Capita spesso che tu stia male, Oscar. Non credo che tutto questo sia normale, dovresti uscire da questa casa, respirare un po' d'aria fresca.”
“Si, forse hai ragione Alain, magari più tardi farò due passi.”
“Uhm...”
“Che c'è?”
“C'è che non ti credo Oscar.”
L'emicrania sembra aumentare ad ogni parola del mio ospite.

“Ti ho detto che uscirò, Alain!”
“Certo Comandante, come dite Voi!”
“Alain!”
Si, l'emicrania aumenta ad ogni sua parola.

“Dovresti sorridere di più Oscar.”
Taccio.
“Ti ho portato la colazione, quest'oggi sono stato fortunato, vediamo... una mela, una tazza di latte e una fetta di torta che ha preparato Rosalie.”
“Ti ringrazio Alain, ma non devi scomodarti tanto, posso prepararmi la colazione da sola.”
“Ma certo Comandante, non ne dubito, ma... mi fa piacere passare a trovarti.”
Un dolce sorriso gli si disegna sulle labbra.

“Siediti Alain, facciamo colazione insieme, ti va?”
Un sorriso, forzato, si imprime a fatica sulle mie labbra.
Dividiamo il modesto pasto, tra i silenzi e l'imbarazzo.

“Oscar...”
“Uhm...”
“Come stai?”
“Te lo detto, Alain, ho solo mal di testa ma tutto sommato...”
Non ho modo di terminare il pensiero.
“Oscar, basta, ti prego. Come stai?”
Mi guarda, Alain, con uno sguardo che va oltre le barriere, uno sguardo che penetra, con prepotenza, i miei scudi.
“Alain io...”
Cerco il coraggio in un respiro.
“Io... io...”
Non ho modo di osteggiare le lacrime che sento nascermi tra gli occhi.
Piango senza parole.
Piango senza blocchi.
Piango senza vergogna.
Piango, dinnanzi a qualcuno, dopo tanto tempo.
Le lacrime scavalcano le ciglia e si lasciano cadere sulle mie guance, per poi precipitare oltre il mento e terminare la propria corsa, nella morte.
Piango col viso nascosto tra le mani e non lo vedo arrivare.
Non mi accorgo che lui mi si sta avvicinando, comprendo la sua presenza, così vicina, solo nel momento in cui sento le sue braccia cingermi le spalle, da dietro.
Sobbalzo come un animale, l'istinto più nascosto mi porta ad allontanare, con ferocia, l'abbraccio di Alain.
Non sono ancora pronta.
Non sono ancora pronta al contatto fisico.
Non sono pronta.
Non lo sopporto.
La vergogna aggiunge nuovo sale alle mie lacrime, così come il peso della meschinità, contro un gesto che era puro e semplice affetto, fa nascere nuovi singulti, sulla mia lingua.

“Scusami Oscar io... io non volevo...”
Il tono di Alain mi fa sentire ancora più miserabile.

“No, Alain, scusami tu, ma sono... io... io...”
Versare lacrime è divenuto il mio unico modo di comunicare.

“Oscar, non scusarti, io comprendo. Comprendo perfettamente, io stesso porto, in me, certe ferite.”
Mi par di scorgere, nel tono, una nota spezzata, un respiro mancato.
Alzo lo sguardo in direzione di quest'uomo grande e grosso, in apparenza rozzo e pericoloso, quest'uomo che ha, nel cuore, una sensibilità e un amore al pari della propria stazza.
Un uomo che ha perduto, come me, pezzi di cuore.
Quest'uomo che, come me, 3 mesi fa ha perduto il suo migliore amico.

“Oscar, ora è meglio che vada, c'è bisogno di lavorare per poter mettere qualcosa nello stomaco. Più tardi passerà Rosalie, forse dovresti fare due passi con lei, ti farebbe bene. Ci vediamo domani.”
Sorride, questo gigante buono, porgendomi con la sua solita goffaggine, un fazzoletto.
Allungo le mani e, col medesimo istinto di un soffio fa, agguanto la sua mano, stringendola con delicatezza.
Un amaro sorriso solleva gli angoli delle mie labbra.
Un amaro sorriso ma pur sempre un sorriso, per il mio amico.
Non ho bisogno di proferir parola, tutto ciò che vorrei dire è scritto, chiaramente, tra le mie dita.
Leggo un leggero stupore nello sguardo di Alain e, come previsto, imbarazzo, lo capisco dal suo gesticolare.
Guardo Alain portare, la mano libera dietro la testa, e grattarsela nervosamente.
Se solo riuscissi, riderei.
Catturo il fazzoletto e permetto, a lui, di correre verso la porta.

“Ciao Alain, e grazie.”
“Sempre ai vostri ordini, Comandante!”
Annuncia in una perfetta posa militare, che dura il tempo di un battito, spezzata immediatamente da una fragorosa risata.
Asciugo vecchie lacrime, svenute sulla mia pelle e rimango sola coi miei pensieri.
I pensieri, unici compagni di queste ore diurne.
Pensieri che si son fatti più intensi da qualche tempo, instillando, in me, il dubbio.
Un dubbio che mi atterrisce.
Un dubbio che ha allontanato il sangue dal mio ventre, quel sangue di cui non mi sono mai preoccupata, quel sangue che faceva di me una donna, quando ancora non lo ero, nel cuore.
Quel sangue che ho disprezzato, nel corso della mia esistenza.
Quel sangue disperso, che ora,  potrebbe mutare la mia esistenza.
Un dubbio che potrebbe distruggere le mie funeste certezze.
Un incerto che distruggerebbe il mio piccolo mondo di dolore, nel quale, vi ho trovato un posto, un riparo, perversamente al sicuro.
Un dubbio che potrebbe cambiare la mia vita.
Un piccolo dubbio che riporterebbe, al mio cuore malato, i battiti smarriti.
Un dubbio, che ormai, è quasi una certezza.
Una quasi certezza che ha la forza, di farmi alzare dal letto.
Una quasi certezza che ha l'autorità di spronare, il mio corpo, a nutrirsi.
Una verità che ho timore di pronunciare a voce alta.
Celo il viso tra le mani, ricercando quell'oscurità che è divenuta una dolce protezione.
Offusco i pensieri, i dubbi, le certezze.
Baratto ogni cosa, per l'oblio, ma il dubbio è in agguato, pronto a combattere, con me, una battaglia impari.
L'incerto sferza un colpo a tradimento, al centro dello stomaco.
Getto a terra l'oblio e mi riapproprio della luce, il tempo di levarmi e dirigermi, tremante, al lavello.
L'incerto assesta la batosta finale, rovesciandomi l'interno e con esso l'intera colazione.
Respiro faticosamente, sperando, con tutta me stessa, che l'insensato duello sia giunto al termine.
Rinfresco il viso con cascate d'acqua gelata.
Riacquisto il mio posto a sedere, posando, stancamente, il corpo contro lo schienale.
Rovescio il capo all'indietro, imprigionando, tra le palpebre, l'azzurro del mio sguardo, attendendo la morte di un atroce senso di nausea.
L'incerto ha vinto la contesa.
L'incerto, ora più che mai muta, in certezza.
Una certezza così sfacciata da cambiare, il proprio nome, in realtà.
Colpi alla porta.
La vita ha un bizzarro senso dell'umorismo e, in egual modo, un tempismo assurdo.

“Avanti.”
Un soffio.
“Buongiorno Madamigella Oscar, come state?”
“Buongiorno Rosalie. Ho visto giorni migliori, ho di nuovo lo stomaco in disordine.”
Mento. Spudoratamente.
“Avrete preso un po' di freddo Madamigella, ma non preoccupatevi, questa sera vi porterò del brodo caldo.”
“Ti ringrazio Rosalie, sei davvero cara ma, non voglio che tu ti disturbi tanto per me.”
Tutte queste attenzioni scatenano, in me, sentimenti contrastanti.
Piacere e fastidio.
“Nessun disturbo Madamigella Oscar.”
Sorrido, forzatamente.
“Ah... Madamigella Oscar, quasi dimenticavo, c'è una persona che è venuta a farvi visita.”
Il sorriso di Rosalie sembra illuminarsi.
“Cosa? Una visita? Ma... chi...?”
La paura mi gela il sangue.
Assisto, col cuore in gola, ad azioni che paiono, ai miei occhi, di una lentezza irreale.
Guardo Rosalie entrare in casa aprendo, dietro di sé, la porta.
Odo avvicinarsi un rumore di tacchi.
Vedo, tra la penombra della porta, una figura oltrepassare la soglia.
Un tuffo al cuore.
Scatto sull'attenti, l'istinto del vecchio soldato.
Vedo, dinnanzi a me, Nanny.
Entrambe, private delle parole, ci osserviamo l'un l'altra.
L'ultima volta che vidi Nanny vivevo ancora a palazzo Jarjayes, l'ultima volta che la vidi, lui, André, era ancora nelle nostre vite.

“Io debbo andare, immagino abbiate parecchie cose da dirvi. Passerò stasera, Madamigella Oscar. Arrivederci.”
È la dolce Rosalie a spezzare la tensione.

“Oscar...”
La voce di Nanny è scossa dal nascere del pianto, la sua voce, come un tempo.
Io, immobile nella mia posizione, non ho parole sulla lingua.
Io, immobile, ho centinaia di parole dell'anima che mi scorrono lungo gli occhi.
Piango senza preavviso.
Un pianto disperato mi stravolge ogni fibra.

“Perdonami.”
Una sola, singola parola, l'unica sopravvissuta alle lacrime.
“Perdonarti? Oscar non capisco.”
“Perdonami per averti strappato André.”
La mia voce spezzata dall'angoscia.
“Oscar ma... no...”
“È colpa mia se lui è... se è...”
Non sono in grado di pronunciare quella parola.
“Oscar...”
La sua voce, come un lamento, tenta di fermarmi.
“Se non fosse stato per me lui non si sarebbe arruolato nei soldati della guardia... Se non fosse stato per me lui sarebbe ancora qui, ancora vivo. È colpa mia Nanny, è tutta colpa mia.”
La mia voce tramutata in grida disperate.
Nascondo la colpa, nascondo la vergogna, tra le mani.
“Oh bambina mia, ma cosa dici?”
Mi lascio cadere, seduta, sul pavimento.
Piango, sconvolta dai singulti.
Odo il corpo della mia vecchia governante, accucciarsi dinnanzi al mio.
Sento, le braccia di Nanny, imprigionarmi in un abbraccio.
Un doloroso abbraccio che, inizialmente, rifiuto, ma lei non molla la presa, lei, per prima, ha visto i miei innumerevoli scudi, e lei, più di chiunque altro, possiede le armi per abbatterli.
Cedo alle sue armi, cedo al suo abbraccio, cedo al suo amore.

“Oscar, bambina, smetti di piangere.”
Sussurra, con la dolcezza avvinghiata ad ogni parola.
“Oscar, piccola mia... guardami.”
Mi prende il viso tra le mani, invitandomi ad alzarlo, dinnanzi al suo.
La guardo, col pianto ad inumidirmi gli occhi.
“Ascoltami attentamente, tu non hai nessuna colpa per la morte di André, nessuna colpa! Lui non è morto per causa tua, lui ha scelto, coscientemente, di seguirti, non avrebbe  potuto fare altro, lo capisci? Sarebbe morto, nel cuore, se fosse stato costretto a starti lontano. André si è arruolato nei soldati della Guardia perché ti amava più della sua vita. Quindi, Oscar, non devi chiedermi perdono di nulla.”
“Nanny io...”
“Oscar, bambina... pensavi davvero che non me ne fossi accorta, in tutti questi anni? Era mio nipote, è sempre stato così facile, per me, leggere nel verde del suo sguardo. Ti ha amato, se è possibile, dal primo giorno. Il destino è stato crudele con lui, è stato crudele con tutti noi, ma quello che mi consola, in tutto questo dolore, è averlo saputo accanto a te, nella fine, così come è stato, da sempre, nella vita.”
La mia vecchia governante non smette di tenermi il viso tra le mani, in questa presa che ha la dolcezza di una carezza.
“Nanny ma...”
“No piccola, no... Ho un dolore così incolmabile nel cuore, è vero, ma sono felice che mi sia rimasta almeno tu, almeno uno dei miei bambini.”
Piange, col sorriso sulla bocca.
Scosto le sue mani dal mio viso e, con lo stesso amore che lei mi ha donato, per tutta la vita, l'abbraccio, così stretta da toglierle il fiato.
L'abbraccio posando il mio mento sulla sua spalla, le labbra accanto al suo orecchio, per poter sussurrarle parole mai pronunciate.
“L'ho amato anch'io, più della mia vita.”
Non risponde la vecchia governante, non a parole, aumenta la stretta attorno al mio corpo.
Respiro profondamente, posando il coraggio sulla mia lingua.
Preparando, il mio cuore, all'impresa più ardua.
Mutare la certezza in parole.
Un sussurro.
“Credo d'aspettare un bambino.”
Un sussurro lento come una preghiera.
“Cosa?”
Un sussurro, quello di Nanny, che profuma di stupore.
“Porto in grembo il figlio di André.”
Un sussurro che ha cancellato il dubbio, l'incertezza, i credo e i forse.
Un sussurro che è una certezza.
Un sussurro che è una sensazione, chiara e precisa.
Io so.
Io sento d'avere, in me, la vita.


In piedi, dinnanzi alla finestra, sorrido alla luce, sorrido a quella luce che, fino a poche settimane addietro mi era nemica.
Dinnanzi alla finestra accolgo, nel palmo della mano, le piccole goccioline di pioggia.
Piccole goccioline di pioggia che hanno il gravoso compito di lavar via, dal mio essere, le ultime macchie di una sofferenza devastante.
Dinnanzi alla finestra, in questa mattina di ottobre, accolgo, in me, la vita.
In questa mattina d'ottobre sorrido.
Sorrido al ricordo di André.
Sorrido, ad André, posando la mano sul ventre.
Sorrido ad André, carezzando, con la mano, l'essenza del nostro amore.

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Capitolo 4
*** Quarto mese - il dono ***


Novembre.
Un rigido autunno si sta abbattendo, prepotentemente, su questa Francia già debole e sofferente.
Un rigido autunno che, se fosse giunto qualche mese addietro, avrebbe abbattuto anche me, con la stessa insolenza.
Ho aperto le finestre, come d'abitudine, per respirare l'aria fresca del mattino.
Ho chiuso gli occhi ed ho inalato profondamente.
Ho lasciato che il gelo penetrasse il mio naso, e scivolasse in ogni angolo nascosto del mio interno, facendo nascere, in me, brividi sottopelle, e deliziosi pensieri.
Inalo il gelo e ne assaporo il profumo.
Profumo di ghiaccio sul selciato.
Profumo di brina.
Profumo di foglie secche dai colori caldi.
Profumo di un inverno impaziente.
Profumo di neve ormai alle porte.
Dischiudo lo sguardo posandolo, poi, sul cielo.
Un cielo di un azzurro quasi irreale, un cielo glauco che pare rubato alla maliziosa primavera.
Un cielo azzurro che sembra una burla, per questa Francia in rovina.
Un cielo turchese che è, senza ombra di dubbio, un generoso regalo, per me.
Per noi.
Noi.
Io e il mio bambino.
Immaginare che ora vi sia, in me, un piccolo esserino, è qualcosa a cui debbo ancora abituarmi.
Pensare che, da ormai 4 mesi, il mio corpo è custode di una vita, mi pare irreale.
Una vita che dipende da me, da ogni fibra del mio essere.
Una dipendenza così profonda e viscerale da togliermi il fiato.
Io responsabile di una piccola esistenza.
Io, responsabile di mio figlio.
Suo figlio.
Il figlio di André.
Nostro figlio.
Nostro figlio, e l'irreale si poso su questa impensabile, eppur vera, realtà.
Io, responsabile di una nuova vita.
Un piccolo essere che vive del mio nutrimento.
Un piccolo essere che vive dell'aria che respiro.
Un piccolo essere, che vive, grazie al battito del mio cuore.
Un cuore a metà che, stupendomi, ha riacquistato il proprio vigore.
Un cuore a metà che ha ripreso a battere, arrogantemente nel petto, forse più forte di prima.
Poso le mani sul ventre, mutato nella forma.
Non vi è più traccia di quella foggia originaria, che ha tracciato da sempre, sul mio corpo, una figura esile.
Non vi è più traccia del vuoto che albergava il mio grembo.
Poso le mani sul ventre, carezzandone la pronunciata rotondità.
Chiudo l'autunno al di fuori di questa stanza, congedandomi da esso, fino al mattino che mi vedrà, di nuovo, accoglierlo col sorriso sulle labbra.
Percorro, a piedi nudi, la stanza da letto.
Raggiungo, come ogni giorno, lo specchio che dimorava, fino a poche settimane fa, nella camera che mi vide bambina.
La mia vecchia governante, la cara Nanny, ha sottratto tutto ciò che, a suo avviso, mi spetta di diritto.
La vecchia Nanny ha condotto, in questa casa, gli oggetti che ho avuto attorno per tutta l'infanzia e l'età adulta.
Quegli oggetti che sono divenuti ora, ai miei occhi, cose senza valore.
Ho tentato, con tutta me stessa, di impedire il furto di oggetti che non sento più parte di me.
Ho provato, con tutta me stessa, a rifiutare qualunque ninnolo portatomi dalla vecchia governante.
Ho tentato.
Ho provato ed ho fallito.
Ho fallito contro le lacrime.
Io, comandante dei soldati della guardia, sconfitta dal pianto di una vecchina.
Ed ora, ogni qualvolta, Nanny, esibisce tra le proprie mani un nuovo oggetto, non mi resta che accoglierlo in silenzio e rassegnazione.
Rimanderei tutto indietro, se solo potessi, rinnegherei ogni singolo suppellettile, come, tempo addietro, ho rinunciato al mio titolo.
Vi è solo una cosa che dal passato è divenuta parte del mio presente.
Vi è solo una cosa che ho chiesto, e preteso, mi fosse portata.
Vi è solo una cosa, della mia vecchia vita a palazzo Jarjayes, che ho desiderato riavere.
Una cosa soltanto, che mi ricordasse Lui.
Guardo la mia immagina riflessa nello specchio.
Osservo, dinnanzi a me, una figura simile al passato.
Osservo, davanti a me, i medesimi riccioli biondi.
Gli stessi occhi azzurri.
Una donna vestita con abiti maschili.
Io, come un tempo.
Non vi è traccia, in apparenza, del cambiamento.
Non vi è traccia, in tale posizione, della nuova vita.
Rido di una buffa, e contorta realtà, che mi rimanda questo vecchio specchio.
Muto la mia iniziale posizione, spostando il mio corpo lateralmente.
Guardo, col sorriso dipinto sul volto, la mia immagine.
Guardo, con orgoglio, la mia vera immagine.
Guardo, con nuova luce negli occhi, la curva del mio ventre, lievemente celata, al di sotto della stoffa della camicia.
Sfioro delicatamente l'indumento, indugio con le dita sui lembi di stoffa che ne rimarcano la fine.
Imprigiono, con entrambe le mani, il tessuto, accostandolo al di sotto della sinuosità del mio grembo.
Cingo, con le mani, la mia pancia fasciata dalla stoffa liscia.
Fasciata da un indumento apparentemente senza valore.
Cingo, con le mani, il mio bambino, protetto dal mio ventre.
Cingo, il mio bambino, protetto al di sotto della camicia del padre.
Serro lo sguardo e immagino, al di sotto delle miei dita, le mani di André, anch'esse posate, con infinita dolcezza, sul frutto del nostro amore.
Indosso la camicia di André, ogni notte, dal giorno in cui Nanny me la portò da palazzo Jarjayes.
Indosso la camicia di André ricercandone il profumo perduto.
Indosso la sua camicia, sognando, notte dopo notte, il suo abbraccio.
Colpi alla porta, inconfondibili rintocchi.
Il caro Alain, in perfetto orario, come ogni giorno.
Il caro Alain, più premuroso che mai, dal giorno in cui ho annunciato la lieta notizia.

“Alain, entra...”
“Buongiorno Comandante!”
Sull'attenti, col consueto sorriso e la mano tesa sulla fronte, in un impeccabile saluto militare.

“Buongiorno Alain.”
Sorrido, di rimando, avvicinandomi al tavolo della cucina.

“Come ti senti Oscar? Hai dormito bene?”
Il suo viso si fa improvvisamente serio.
Vorrei ridere.
“Mi sento bene Alain.”
Mi guarda con espressione poco convinta, con un sopracciglio inarcato.
“Sto bene Alain, davvero!”
“E... come sta il piccolo Grandier?”
Sorride, imbarazzato, posando lo sguardo sul mio ventre.
“Affamato!”
Rido, burlandomi di Alain e guardando il vassoio che tiene tra le mani.
“Oh, scusami Oscar, stavo dimenticando la colazione! Siediti... ti servo immediatamente.”
Mi siedo, e ciò che mi compare dinnanzi, somiglia ad un bacchetto regale.
Cioccolata calda, biscotti e due fette di torta.
“Alain ma...”
“Comandante, giuro di non aver commesso alcun atto spregevole... questo ben di dio arriva direttamente da palazzo Jarjayes.”
Non ne rimango stupita, immagino chi possa essere l'artefice di tanta magnificenza.
“Nanny?”
Domando.
“Si, è passata questa mattina presto, raccomandandosi che tu mangiassi tutto.”
“Alain ma non posso mangiare tutto questo, è impensabile!”
“Oscar...”
Mi guarda, Alain, con espressione severa.
“Mangerò, ma se darò di stomaco sarà solo colpa tua!”

Alain si siede davanti a me e, come d'accordo, si accerta ch'io non lasci neppure una briciola nel piatto.
Mangio con gusto, con una fame quasi dimenticata.
Avvicino la tazza di porcellana al viso, odoro l'aroma di cioccolato.
Inalo quel profumo che ha, in sé, risate di bambini.
Quel profumo che mi riporta, come ogni elemento della mia infanzia, a Lui.
Il mio André.
Lascio scorrere il cioccolato nella mia bocca, lo assaporo carezzandolo con la lingua, in un gioco malizioso.
Quante, innumerevoli mattine, ho trascorso compiendo i medesimi gesti.
Quante mattine, Lui, mi ha servito, amorevolmente, tazze uguali a questa.
Persa, nuovamente, tra i ricordi.

“Oscar...”
“Uhm...”
“Io... ehm... ho qualcosa per te.”
Alain, palesemente imbarazzato, estrae dal di sotto della giubba, un oggetto avvolto tra la carta di giornale e, fermato da un insolito fiocco di spago.
“Alain ma...”
L'uomo, grande e grosso, mi porge, con mano tremante, il proprio dono.
Accolgo, tra le mani, il rudimentale pacchetto.
Slaccio lo spago e porgo, agli occhi di Alain, il mio sguardo confuso.
Straccio, con ben poca accortezza, la carta di giornale, lasciandola cadere a terra.
Ciò che mi trovo, tra le mani, è un quaderno dalla copertina nera.
La confusione accresce.
Apro, con la curiosità negli occhi, il quaderno.
Abbasso il capo e, i miei lunghi riccioli, mi solleticano le mani.
Una fitta dolorosa al petto.
Il mio cuore a metà perde un colpo.
Ed un altro ancora.
Fino quasi a cessare di battere.
Dischiudo le labbra e vi lascio uscire, senza controllo, quello che potrebbe essere il mio ultimo alito di respiro.
Percepisco, come fuoco, vecchie lacrime lambirmi le iridi.
Poggio con timore i polpastrelli sulle pagine del quaderno.
Sfioro, con i polpastrelli i segni d'inchiostro che, hanno concepito, una grafia impeccabile.
Serro il mio sguardo ceruleo e poso, dinnanzi al mio viso, il quaderno ancora aperto.
Respiro profondamente le pagine.
Respiro, come d'abitudine, il profumo della carta.
Come imparai da bambina.
Come Lui mi insegnò, un giorno, di tanti anni addietro, nell'immensa libreria di palazzo Jarjayes.
Cerco, in questo antico gesto, un preciso profumo.

“Oscar...”
La voce di Alain, così lontana.
Sollevo il capo, ritornando alla realtà.
Sollevo il capo e, solo in quel preciso istante, perle di sale precipitano dai miei occhi.

“Oscar io... io avrei voluto dartelo prima ma... tu stavi così male.”
Non riesco a placare il pianto, divenuto convulso.
“Oscar, ti prego, non piangere. Ho pensato, forse stupidamente, che non fossi pronta, mesi fa. Ho pensato che saresti stata peggio, con quel quaderno tra le mani. Ora invece tutto è diverso, ora stai bene e... e ho pensato fosse giunto il momento di dartelo. Forse, quelle parole, ti potranno essere di conforto. E bada bene, Oscar, non l'ho mai aperto, quel quaderno.”
“Alain ma...”
Mi è difficile parlare tra i singulti.
“...questa è la calligrafia di André, questo è il suo diario? Io, io non immaginavo... io non sapevo... io...”
Il pianto torna, di nuovo, prepotente.
“Si, Oscar, è il diario di André. L'ho trovato nella sua sacca, il giorno in cui... insomma... l'ho preso con me, attendendo che tu fossi pronta.”
Lo vedo avvicinarmisi e posare, sulla mia spalla, la sua grande mano.
“Oh Alain, ti ringrazio dal profondo del cuore, questo è il regalo più bello che potessi ricevere.”
Lo ringrazio, il caro Alain, non più solo a parole ma, ora, con un gesto di puro affetto.
Lo ringrazio posando, sulla sua grande mano, la mia, piccola e debole.

“Dovere, Oscar.”
Dice, regalandomi un magnifico sorriso.
“Devo andare al lavoro, Oscar. Promettimi che smetterai di piangere, non ti fa bene, e non fa bene al piccolo.”
Annuisco col capo.
Sorrido, ancora scossa dal pianto.
Rimango sola con la vita di André tra le mani, con questo ricordo di cui non conoscevo l'esistenza.
Poso lo sguardo sulle frasi scritte compostamente, vi poso lo sguardo con la paura nel cuore.
Con il terrore di scoprire, tra le righe, parole che potrebbero ferirmi.
Con il terrore di leggervi, tra le righe, parole così intense da procurarmi dolore.
Con la paura di perdermi, tra quelle righe, e cominciare a desiderare, ardentemente, di nuovo.
Ho paura di accendere, in me, quel fuoco che altro non è che mancanza.
Mancanza di una presenza.
Mancanza di un corpo.
Mancanza di Lui.
Chiudo il quaderno e lo nascondo, come una sciocca bambina, al di sotto del cuscino.
Privo il mio corpo della camicia di André, posandola, con cura, al di sopra del letto.
Una camicia, mia unica consolazione, mio unico calore, in questo rigido autunno.
Vesto il mio essere con abiti pesanti.
Esco, con passo deciso, per le strade di Parigi, quelle stesse strade che ho percorso, come fosse stata la prima volta, il giorno in cui Nanny mi costrinse, dopo averle confessato il mio dubbio, a vedere un medico.
Esattamente un mese fa.
Un mese fa un uomo, un medico sconosciuto, un uomo che nulla sapeva di me, confermò i miei dubbi.



“Madame, i vostri dubbi sono fondati. Attendete un figlio.”
L'uomo mi scruta con sguardo interrogativo, ancora scosso dalla foggia dei miei abiti, così inusuali per una donna.
Così bizzarra, io, agli occhi di un uomo che nulla conosce di Oscar Francois de Jarjayes.
Così bizzarra, per un uomo che ha di fronte una donna, che porta il nome di un uomo e di uomo indossa le vesti.

“Dottore, ditemi, il bambino sta bene?”
La preoccupazione mi invade l'animo.
I mesi di sconsiderata esistenza, di malnutrizione, addirittura di digiuno, si ammassano, come macigni, sulla coscienza.
I mesi in cui, travolta da un dolore insopportabile, ho ricercato la morte, implorandola, provocandola con gesti impronunciabili, pesano, ora, su ogni fibra del mio essere.

“Madame, il bambino sembra star bene, il battito del cuore è forte. Dovrete però nutrirvi con più regolarità, il vostro fisico è debilitato. Vi raccomando un'alimentazione sana e abbondante.”
Un gemito mi sorprende, lasciandomi spossata come dopo uno sforzo.
Il bambino sta bene.
Il battito del cuore è forte.
Solo queste frasi risuonano nella mia testa.
Solo queste frasi, contano, ora.
Il pianto di Nanny mi riconduce al concreto.
Attraversiamo, come fantasmi, le strade di Parigi.
Entrambe avvolte nel silenzio.
Entrambe con la gioia nel cuore.
Le parole ci posseggono di nuovo, una volta varcata la soglia di casa.
Ed è sulla soglia di casa che Nanny mi si stringe addosso, abbracciandomi.

“Oscar, tesoro, questo bambino è un dono del signore. Sono così felice.”
“Sono felice anch'io Nanny, non immagini quanto.”
Le dico stupendo me per prima e, con lo stupore in ogni dove si presentano, puntuali, le fedeli lacrime.
“Oh bambina, se solo il mio André fosse qui... sarebbe impazzito di gioia. Avrebbe amato questo figlio con tutto l'amore che a lui è stato sottratto.”
Piango senza freni.
Piango di gioia per questo figlio a cui non avevo mai pensato.
Piango di felicità pensando a questo dono che, il mio unico amore, ha posato in me, come un'ultima carezza prima dell'addio.
Piango la sua mancanza.
Piango ciò che mi è stato portato via prematuramente.
Piango il suo amore, così smisurato nel mio grembo.
Piango, il suo amore, così lontano dai miei occhi.
Se solo lui fosse qui.
Se lui, il mio André, fosse qui, offrirebbe il proprio cuore a questo figlio.
Se solo potesse, il mio André, baratterebbe l'anima in cambio di un istante in questa vita.
Se solo potesse, sfiderebbe la dama nera, qualsiasi follia pur di gioire, un soffio di respiro, di questo bambino.
Il dolore sta cancellando, impercettibilmente, la gioia.
Il vuoto sta cibandosi, a piccoli morsi, della felicità.
Desidero restar sola, desidero cullarmi, come un tempo, nel sicuro abbraccio del dolore.
Bramo, pazzamente, il mio piccolo mondo luttuoso.
Un istante.

“Oscar, piccola mia, basta lacrime. Sorridi. Sorridi alla nuova vita che sta crescendo nel tuo ventre.”
La voce di Nanny è calma e tremendamente dolce.
Mi asciuga le lacrime con un morbido fazzoletto ricamato.
“Adesso, da brava, vai a stenderti sul letto, io ti preparerò una buonissima e abbondante cena.”
Annuisco senza parole, trascinando il mio corpo stanco, in camera da letto.

“Oscar...”
“Mmmh...”
“Oscar, svegliati. Oscar la cena è pronta e... ci sono visite.”
“Cosa?”
Non rammento d'essermi addormentata.
La testa mi duole e la nausea si è riappropriata del mio stomaco.

“Sono venuti a farti visita Rosalie e Alain.”
La voce di Nanny è un sussurro quasi inudibile.
“Io... io non me la sento di incontrarli, io...”
La mia voce stridula come il terrore.
“Oscar, sii ragionevole, sono i tuoi amici, sono i tuoi unici amici. Ti sono stati accanto nel momento  più difficile della tua vita, hanno fatto di tutto per alleviare la tua sofferenza. Si sono privati del tempo, si sono privati del cibo, per te. Per voi. Per il ricordo e il rispetto di André. Ascolta il cuore bambina mia. Non aver timore di chi ti ama.”
La mia vecchia governante mi lascia sola, con addosso delle parole che sono giunte, alla mia anima, come una schiaffo inaspettato.
Mi faccio coraggio ed ascolto il cuore.
Un cuore che ha perduto la voce.
Un cuore che ha bisogno di cure, per tornare a vivere.
Un cuore che comprende, perfettamente, l'amore dei miei amici.
Respiro profondamente e mi ergo sulle gambe, fiera come  un tempo.
Cammino verso la cucina, con la baldanza del soldato, e la dolce consapevolezza di  una donna.

“Buonasera Comandante.”
“Buonasera Madamigella Oscar.”
“Ciao Alain. Ciao Rosalie.”
Quasi un sussurro, il mio.

“Madamigella Oscar, come vi sentite questa sera?”
Mi domanda visibilmente preoccupata.
“Molto meglio Rosalie.”
“Le cure di Nanny vi hanno giovato.”
“Vorrei rimaneste a cena questa sera. Desinate con noi, vi prego.”
Chiedo con vero desiderio.
“Con piacere Oscar... ho una fame da lupo!”
“Oscar io... io non vorrei disturbare.”
“Ah, nessun disturbo Rosalie, avanti siediti e mangia!”
La solita vecchia Nanny.
Ceniamo come non accadeva da tempo, tutti insieme, tra chiacchiere e risate.
Non vi sono lacrime a riempire i bicchieri.
Non vi sono lamenti a sporcare i piatti.

“Madamigella Oscar, è stato un vero piacere, vi ringrazio per la cena e per la compagnia, ora però, se vorrete scusarmi, debbo andare, Bernard sarà di ritorno tra poco.”
“Ti saluto anch'io, Oscar, il lavoro è stato piuttosto pesante quest'oggi, le mie ossa hanno bisogno di riposare! Vi ringrazio per la deliziosa cena.”
“Un momento!”
La frase fuoriesce dalle mie labbra come un ordine.
Forte.
Duro.
Autoritario.
Il vecchio soldato, duro a  morire.
I commensali mi scrutano con lo stupore nello sguardo.

“Vi prego di restare qualche minuto, il tempo necessario ch'io vi dica una cosa.”
Vedo il terrore dipingere il volto di Rosalie.
Vedo, la paura, imbiancare l'incarnato di Alain.

“Alain, Rosalie, io... io vi debbo una spiegazione per i malori che hanno accompagnato questi mesi...”
“Oscar, mio dio, siete malata?”
“Rosalie io...”
“Oscar, maledizione, non sarà qualcosa di grave... se così fosse io...”
“Alain...”
Altre parole, altre domande, sussurri di angoscia.
La mia voglia di scappare.

“Ah, fate silenzio! Lasciate parlare Oscar.”
Nanny, degna dipendente di mio padre, ristabilisce l'ordine, come solo un generale è in grado di fare.
Il silenzio avvolge la stanza e tutti noi.

“Non sono malata e, non vi è nulla di grave in me.”
Il panico mi serra la gola.
Ho paura e non ne comprendo il motivo.
Respiro.

“Ragazzi io... io aspetto un bambino.”
Il panico si scioglie come neve.
Respiro, nuovamente, con regolarità.

“Oh madamigella Oscar! Oh madamigella Oscar!”
Rosalie mi si getta al collo, con fiumi di lacrime a bagnarle il viso.

“Congratulazioni Comandante.”
è tutto ciò che è in grado di dire Alain, con un sincero sorriso sulle labbra e un velo di gioia a inumidirgli lo sguardo.

“Vi ringrazio ragazzi, vi ringrazio di cuore. Se non fosse stato per voi, per le vostre amorevoli attenzioni in questi mesi, io... noi, non ce l'avremmo fatta a sopravvivere.”
Permetto, al sentimento, di concepire nuove lacrime.
Permetto all'affetto e all'amore di vincere la morte.
Permetto, al mio cuore a metà, di sperare in una nuova vita.
Permetto, a me stessa, di sorridere senza sentirne il peso della colpa.
Permetto, al mio bambino, d'avere una madre che abbia, in sé, l'amore
Permetto, ad André, di continuare a vivere, in nostro figlio.





Le tenebre hanno accompagnato, tra le loro braccia, la sera.
Posando, sulla Francia, e su tutti noi, un manto nero.
Un rassicurante abito che, con l'avvicinarsi della notte, conduce, le anime tormentate, tra la pace del sonno.
Vesto il mio corpo con le vestigia di André.
Indosso, come mi è solito fare, quella che fu, un tempo, la sua camicia.
Adagio, a sedere sul letto, le mie membra.
Infilo, furtivamente la mano al di sotto del cuscino, ritrovandovi il quaderno.
Piego le gambe in prossimità del ventre e, su di esse, vi poso il diario.
Carezzo la copertina nera, nera come questa notte senza stelle.
Nera come l'oblio che ha inghiottito, troppo presto, il mio André.
Cerco il coraggio al di sotto delle dita.
Cerco il coraggio tra le ciglia dei miei occhi.
Cerco il coraggio nel battito del mio cuore.
Con una mano mi carezzo il grembo, una sorta di rassicurazione.
Disserro, a caso, il quaderno.
Poso il mio sguardo sull'inchiostro fattosi parola.
Poso il mio sguardo sulla grafia ordinata ed elegante di André.
Poso, i miei occhi, su parole che una ad una formano frasi.
Poso, l'azzurro delle miei iridi, sulle frasi e lascio che la lingua pronunci i pensieri.
Mi ritrovo, senza ragione, a raccontare, a voce alta, ciò che vi è scritto sul diario.

“Ho 21 anni. Sono innamorato. Innamorato di una donna che non potrò mai avere.
L'amore ha un nome che non posso pronunciare dinnanzi a nessuno, quel nome è tutto ciò che possiedo, quel nome è tutto il mio mondo.
Amo, ora, senza più dubbi ne paure, amo lei.
Lei che mai avrei immaginato sarebbe stata l'oggetto dei miei desideri.
Amo lei che già da anni, inconsapevolmente, provocava in me turbamenti.
Amo e sento di morire, lentamente.
Sussurro a me stesso quelle parole che non potrei pronunciare dinnanzi a nessuno, lo faccio ora, paradossalmente in questo cortile pieno di persone, mescolandole tra il vociare della servitù...
Sono innamorato... innamorato di una donna che si chiama Oscar.”

Pronuncio, a voce alta, queste parole e sento d'aver violato l'intimità dell'uomo che è stato, anni addietro, André.
Pronuncio questi pensieri con la tenerezza a lambirmi le labbra.
Pronuncio i suoi pensieri con l'amaro a stomacarmi, per tanta sofferenza, le viscere.
Racconto, a voce alta, pezzo di vita.
Un pezzo di vita che non ho vissuto,
Un pezzo di vita che, il mio amore, è stato costretto a percorrere da solo.
Racconto, a voce alta, l'amore.
Un immenso amore che pare impossibile provenire da un singolo uomo.
Un amore così smodato da rasentare la tragedia.
Racconto, come fosse una favola, la vita di André.
Narro, questa sorta di favola, al mio bambino.
Narro, alla creatura che sta crescendo, nel mio interno, la vita di suo padre.
Rileggo, con una mano poggiata sul ventre, pelle contro pelle, ciò che le mie labbra hanno pronunciato pocanzi.
Rileggo, a voce alta, il cuore e l'anima del mio unico amore.
Un sussulto.
Un gemito.
Odo il battito del mio cuore martellarmi nelle orecchie.
Un terremoto al di sotto della mia mano.
Una fitta di dolore nelle viscere.
Sono smarrita.
Sono confusa.
L'inquietudine m'avvolge la mente.
Un respiro profondo e riprendo la lettura.
Un terremoto, di entità maggiore.
La medesima fitta.
Un tuffo al cuore.
Muovo la mano che mi cinge il grembo.
Tasto, delicatamente, la nuda pelle al di sotto del mio palmo.

“Oh...”
Lo stupore sulla mia lingua.
Un sorriso sulle mie labbra.
Sento, al di sotto della mia mano, un dolce movimento che ha il potere di allargarmi il cuore.
Sento, al di sotto delle mie dita, il mio bambino.
Sento, per la prima volta, il mio bambino muoversi nel ventre.
Il sorriso muta in dolce risata.
La risata invita gli occhi, a ridere, a loro volta, amabili lacrime.
Racconto, al mio bambino, la favola della mia vita.
Racconto, al mio bambino, la favola di un grande amore.
Racconto, con un sussurro e una carezza.
Racconto, al mio bambino, quel papà che non potrà conoscere.
Ti racconto, piccolo mio, di un amore così grande che mi ha permesso di avere, te, in dono.
Ti racconto, piccolo mio, di quel padre che ti ha amato, ancor prima della tua venuta.
Ti racconto, mio piccolo amore, di quel padre che ti avrebbe amato più della sua stessa vita.

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Capitolo 5
*** Quinto mese - Favola ***


Dicembre.
Un testardo autunno che pareva, non voler abbandonare il proprio regno, è svanito, imprigionando, il rosso e il giallo della propria essenza, in un turbinio d'aria, lasciando il posto, in questo paese, all'inverno.
Un inverno ancora neonato, ma prepotente.
Un inverno che profuma di neve fresca e biscotti al burro.
Un inverno che ha condotto con sé i ricordi.
Un inverno, questo, che ha accompagnato, col freddo, il passato e il presente.
Ricordi di un passato lontano.
Ricordi, ancora da concepire, di un presente appena vissuto.
25 dicembre 1789.
Natale.
Oggi è il giorno del mio compleanno.
Ed oggi vi sono, attorno a me, gli affetti più cari.
Nanny.
Alain.
Rosalie e Bernard.
Il mio bambino.
Sediamo insieme intorno ad un tavolo, tra piatti colmi di cibo, e bicchieri di vino riempiti troppo velocemente.
Ceniamo amabilmente tra chiacchiere e risate.
Osservo la cara Nanny, energica ed autoritaria come un tempo, come quando ero bambina.
Guardo la mia vecchia governante e vi ritrovo la donna di tanti anni fa, la stessa donna che mi rimproverava per i biscotti sottratti di nascosto.
La stessa donna che, quando nessuno poteva scorgerci, mi donava quell'affetto che la mia famiglia non era in grado di darmi.
Un affetto fattosi forma, quell'affetto che arrivava, inaspettatamente, attraverso carezze e abbracci furtivi.
Guardo Nanny e il ricordo del passato le si cuce addosso alla perfezione.
La osservo, questa sera, indaffarata ad aggiungere cibarie sulla nostra tavola e, nella sua figura scorgo, quasi impercettibilmente, il cambiamento.
Scorgo nel suo sguardo, il grigiore nefasto della morte.
Morte che le ha strappato, prematuramente, troppi affetti.
La guardo e vedo, in lei, i segni della vecchiaia posarlesi, con pesantezza, sul viso.
I segni della vecchiaia in ogni suo, affaticato, gesto.
Mi sorride, la dolce Nanny, preoccupandosi ch'io mangi a sufficienza, il suo primario assillo, fin dal giorno in cui venni al mondo.
La sua unica preoccupazione ora, che porto in me, un'altra vita.
Una vita che ha, nelle sue piccole vene, il medesimo sangue di questa vecchina.
Una vita che avrà, come bisnonna, la donna che è stata, per me, una madre.
La sola e unica madre che io abbia mai sentito, mia, nel cuore.
Poggio le mani sul ventre, la cui forma è mutata ulteriormente in quest'ultimo mese, divenendo ancora più arrotondata.
Percepisco i movimenti del bambino, chiaramente, lo sento muoversi con forza, ed ogni volta è un lieve stupore del cuore.
Ora, al tatto della mia mano, pare essersi quietato.
Carezzo il mio bambino per rendere, il suo sonno, tranquillo.
Carezzo, il bambino, mentre studio, con lo sguardo, i miei commensali.
Esamino i miei amici, uguali eppure così diversi da ciò che erano in passato.
Li osservo festeggiare un insolito Natale e, un altrettanto insolito, compleanno.
34 anni fa, io, Oscar Francois de Jarjayes, venivo al mondo.
Venivo al mondo, inconsapevolmente, non voluta.
Non accettata, da colui che contribuì con la lussuria, al mio concepimento.
Respinta con odio, da colui che avrebbe dovuto farmi da padre, nonostante tutto.
Colui che avrebbe dovuto amarmi, incondizionatamente, che io fossi stata maschio o femmina.
Accarezzo il mio pancione, toccando, attraverso la carne, questo figlio che mai ho desiderato in passato, ma che ora, amo più della mia stessa vita.
Questo figlio che amerò, che esso sia femmina o maschio.
Questo figlio a cui regalerò tutto quell'amore che mi è stato negato.
Tutto l'amore che, ne io, ne suo padre, abbiamo avuto.
Suo padre.
Il velo della mancanza veste i miei occhi, elargendo, al mio sguardo, una visione offuscata.
L'assenza mi colpisce alla schiena.
L'assenza afferra, con dita esangue, le mie spalle, tentando, con ogni mezzo, di trascinare il mio corpo nel suo mondo funesto.
Abbraccio, con entrambe le mani, il mio grembo, aggrappandomi con forza alla luce.
Aggrappandomi, con tutta me stessa, all'amore che emana, col suo piccolo cuore, il mio bambino.
Mi aggrappo, con la caparbietà che mi ha sempre contraddistinta, alla pienezza della mia vita, dimenticando per un istante, il vuoto del mio cuore a metà.
Socchiudo gli occhi con la speranza che le lacrime tornino all'origine del loro essere.
Respiro profondamente, deglutendo con forza, nella speranza di inghiottire il nodo che si è intrecciato, con prepotenza, nella mia gola.
Dischiudo gli occhi e vi sono ancora, attorno a me, i fedeli amici.
Questa inconsueta famiglia adottiva.
Dischiudo gli occhi e mi rendo conto, oggi più che mai, del difetto di questo nucleo.
Mi rendo conto, oggi in particolare, che non vi è, tra di noi, colui che renderebbe, vero, il significato di quella parola.
Famiglia.
André.
Il solo pronunciare il suo nome, nella mente, provoca in me un dolore senza fine.
Mi manca tremendamente.
Vi sono giorni in cui vorrei urlare contro un qualsiasi Dio, pretendendo, senza alcun rispetto, che Lui mi sia restituito.
Vi sono giorni in cui, piangere, è l'unica cosa sensata da fare.
Vi sono giorni in cui, piangere, mi è vitale come un respiro.
Oggi è uno di quei giorni.
Oggi è, per me, il primo compleanno senza André, senza la mia parte di cuore, senza la mia anima allo specchio.
Vorrei allontanarmi da tutto questo amore, un amore che ha le sembianze dei miei più cari amici.
Vorrei eclissarmi per nascondermi, poi, all'interno del mio piccolo mondo.
Dentro il mio piccolo mondo costruito con una delicata stoffa bianca.
Un piccolo mondo, protetto, da improbabili lucchetti di madreperla.
Quel mondo che custodisce, tra la trama e l'ordito, un primordiale profumo.
Quel profumo che solamente la mia  pelle è capace di fiutare.
Quel profumo che, inspiegabilmente, ha il potere di placare la mia inquietudine.
Un profumo che ha, in sé, l'autorità di quietare il mio bambino.
Un profumo che, per me, è l'essenza del mio unico amore.
Un profumo che, per lui, è l'essenza di suo padre.
Poggio le mani sul grembo e una fitta, divenuta ormai familiare, scuote il mio corpo.
Un lieve gemito mi sporca le labbra.

“Oscar! Stai bene?”
La premura di Nanny mi striscia addosso, all'istante.
“Si, sto bene, ma qualcuno deve essersi svegliato.”
Sorrido, immagino, con una dolcezza che raramente ha dimorato sulla mia bocca.
“Oh, madamigella Oscar, volete dire che il bambino si è mosso?”
“Si Rosalie, si è mosso, è molto agitato in questi ultimi tempi.”
Il sorriso di Rosalie sembra non conoscere limiti.
Vi è una folle agitazione femminile attorno a me, un'atmosfera di maternità che pare escludere tutto il resto.
E tutto il resto osservano, in punta di piedi e, con eloquente espressione, questa realtà, ai loro occhi di uomini, inspiegabile.
“ehm... signore... è giunta l'ora che io lasci questa dimora... il mio sangue non potrebbe reggere un altro goccio di vino, così pure il mio stomaco, ormai satollo di cibo. Vi ringrazio per la magnifica serata. Ringrazio voi, Nanny, per il superbo banchetto. Rinnovo a voi tutti, signore e signori, i miei migliori auguri di Buon Natale e... Porgo a voi, mio Comandante, i più sentiti auguri di buon compleanno.”
Alain declama queste  parole come il più consumato dei poeti, esibendosi, poi, in un incerto inchino.
Tratteniamo a stento le risate.
Ringraziamo il nostro cantore con un amichevole, eppur tirato, sorriso sulle labbra.
“Oscar, Nanny, è arrivato anche per noi il momento di congedarci.”
“Auguri Rosalie, auguri Bernard. La vostra compagnia mi ha davvero fatto piacere.”
Sussurro, con la verità sulla lingua.
“Oscar, bambina, mi rincresce lasciarti sola proprio questa notte ma Pierre sarà qui a momenti, per condurmi a Palazzo.”
Piange di nuovo, la vecchia Nanny.
Saluto i miei ospiti.
Saluto i miei amici.
Saluto i miei affetti, tra un abbraccio e un sorriso.
Serro la porta lasciando all'esterno quelli che, al mio cuore, sono amabili intrusi.
Intrusi di un mondo che giunge, come un bacio, al calar delle tenebre.
Un mondo che profuma di pelle.
Un mondo che è fatto di parole marchiate, col fuoco della passione, su di una candida pagina.
Indosso il mio piccolo mondo, imprimendo, sulla mia pelle, il calore di un amore lontano.
Indosso il mio piccolo mondo, per proteggere, con lembi di tenerezza, il mio bambino.
Dischiudo, tra le mani, la vita di André, quella vita che ha vestito nuovi indumenti, divenendo pagine macchiate d'inchiostro.
Poso lo sguardo su segni, lasciati con garbo, sulla facciata di questo diario.
Poso lo sguardo su brandelli di un'esistenza che ho vissuto, in parte, come protagonista e, nel medesimo istante, come ignara esclusa.
Rileggo i frammenti di una vita che mi pare nuova.
Rileggo, attraverso gli occhi di André, la nostra vita.
Leggo un nome e, mi torna alla mente, una grigia mattina di qualche giorno addietro.



Cammino nervosamente nella stanza da letto.
L'alba ha salutato il mio risveglio da almeno un paio d'ore.
Dall'alba, il mio bambino, ha stabilito, con una testardaggine al mio pari, che non era più tempo di dormire.
Dall'alba, io e il mio bambino marciamo, come soldati, sul vecchio pavimento di questa stanza.
Mi carezzo il ventre, al di sotto della camicia di André, tentando di porre fine al tormento delle mie viscere.
Perpetuo, un'infinita carezza, su questo piccolo esserino che scalcia, nel mio grembo, come un cavallo selvaggio.
Sussurro, come una devota religiosa, una litania.
Sussurro, una continua litania, con la dolcezza di una favola.
Sussurro, al mio bambino, una favola che ha il sapore della supplica.
Supplico, mio figlio, di trovare pace, tra la pacatezza della mia voce.
Cedo, sconfitta, all'evidente caparbietà del mio bambino.
Indosso il mantello ed abbandono la mia dimora.
Cammino per le strade quasi deserte, d'una Parigi oppressa nella morsa dell'inverno.
Cammino con il fuoco della sfida negli occhi.
Cammino con l'andatura del soldato.
Tento il contrattacco.
Provo una nuova strategia.
Sfido, in un amorevole duello, il demonietto al di sotto delle mie carni.
L'incedere dei miei passi, in questa fredda mattina di dicembre, ha tutta la potenza degli anni trascorsi tra la vita militare.
Procedo nella mia battaglia respirando il gelo, un gelo che minaccia neve.

“Piccolo, ti prego, cerca di calmarti.”
Sussurro, a colui che non è ancora nato, l'ennesima implorazione.
Passeggio, per le vie desolate, con un presagio di sconfitta tra le ciglia del mio sguardo.

“Madamigella Oscar... siete voi?”
Una voce quasi impercettibile arriva alle mie orecchie, inaspettatamente, lasciando, sul mio cuore, un tocco di turbamento.
Volgo il viso in direzione della voce, e vedo, dinnanzi a me, una donna.
Una donna che ha, in sé, dei tratti che non mi sono sconosciuti.
Dei tratti che mi riconducono ad un passato troppo lontano.
Il dubbio vela i miei occhi e con la stessa consistenza, si posa, serrandola, sulla mia bocca.

“Madamigella Oscar, siete voi, ne sono certa.”
“Si, sono io, ma voi chi...”
Non vi è tempo di terminare la frase.
“Non mi riconoscete... ma certo, è naturale che non vi ricordiate di me. Sono Colette.”
Colette.
Ricordo perfettamente la Colette che attraversò, per qualche anno, il mio passato.
Mi è difficile, invece, unire il passato ed il presente, sul viso di questa donna che mi sta sorridendo.
Questa donna che ha, in sé, le ultime spoglie di quella che fu, un tempo, una deliziosa ragazza dai capelli rossi.
La donna che ho di fronte porta, sulle gote ancora macchiate delle giovanili lentiggini, i segni del tempo.
I suoi capelli possiedono ancora il rosso di un tempo ma, di tanto in tanto, fili d'argento ne spezzano la continuità.

“Colette, certo. Mi ricordo di te. Come stai?”
“Non posso dire di star bene, Madamigella Oscar. Vivo a Parigi da un mese, la vita qui è dura, si fatica a tirare avanti.”
“Parigi, come del resto l'intera Francia, sta attraversando un brutto momento.”
Sentenzia la mia voce.
“Avete ragione Madamigella Oscar, e credetemi, non vi sarei tornata se non vi fossi stata costretta.”
“Costretta?”
Le chiedo, forse, con troppo sfacciataggine.
“Vedete, Madamigella, mio marito è morto da ormai un anno, di tisi, e la famiglia presso la quale prestavamo servizio è fuggita, due mesi fa, dopo l'ennesimo attacco, della gente del popolo, verso le famiglie nobili. Ho dovuto abbandonare il palazzo e tornare qui, in cerca di lavoro.”
Abbassa lo sguardo, il fantasma della Colette del passato.
“Mi dispiace Colette, mi dispiace davvero.”
“Oh Madamigella Oscar, non dispiacetevi, ve ne prego. Ma ditemi, voi come state? Come sta  vostro padre, il Generale Jarjayes?”
“Colette io... mi rincresce non poter rispondere alla tua domanda ma, non faccio ritorno a palazzo Jarjayes dal giorno in cui l'ho lasciato, una mattina di luglio.”
Vorrei aggiungere di più, vorrei trovare la forza di raccontarle il resto, ma il gelo, o il timore, mi serra le labbra.
“Ma... ma allora le storie che ho sentito non erano delle becere fandonie... allora voi...”
“Storie? Quali storie Colette?”
“La storia di un gruppo di soldati della guardia ribelli, comandati da una donna, che, con il loro coraggio hanno contribuito alla caduta della Bastiglia.”
Mi osserva, Colette, con la curiosità sul viso.
“Si, Colette, è tutto vero.”
La curiosità, in lei, muta in stupore.
“E ditemi, Madamigella Oscar, come sta André?”
Il cuore sembra come impazzito.
L'angoscia mi attanaglia l'anima.
Non questa domanda.
Respiro profondamente, carezzando, al di sotto del mantello, la rotondità del mio corpo.
“Colette...”
Respiro.
“...André è... cinque mesi fa... lui non... lui è...”
Non ce la faccio, non vi è modo di far uscire, dalle mie labbra, quella parola.
Non posso concepire che, quella nefasta parola, cammini al fianco del suo nome.
Non vi è modo di rendere, a parole, ciò che è indelebile nel mio cuore.
Gli occhi mi si riempiono di lacrime, abbasso il capo tentando, invano, di celare il mio dolore.
“No! Non ditemi che... no, non può essere.”
Sollevo il capo e ciò che mi si presenta, dinnanzi, è una versione così simile al mio tormento.
Scorgo, sul viso di Colette, le medesime lacrime sgorgate dai miei occhi.
Annuisco, tacitamente, alla altrettanto tacita domanda.
Un vento gelido ci sorprende, ghiacciando, sulle nostre gote, il pianto.
Scrutiamo, come animali, la nostra sofferenza, e ci coglie di nuovo l'inverno.
Gocce di pioggia, così simili alla neve, crollano dal cielo livido.
Colette posa una mano sul mio braccio.
“Madamigella Oscar, venite, casa mia è a due passi da qui. Venite a ripararvi.”
La seguo involontariamente, trascinata dalla sua morsa gentile attorno al mio braccio.
Mi trovo, senza quasi averne coscienza, in una casa analoga alla mia.

“Vieni tesoro, vieni a salutare Madamigella Oscar.”
La voce di Colette alle mie spalle.
“Piacere di conoscervi Madamigella.”
Un ragazzino alto e dai capelli rossi mi si para davanti, palesemente a disagio.
Un ragazzino che ha le fattezze di un ometto.
Un ragazzino che presumo di conoscere.
“Colette, non dirmi che lui è...”
“Jean Albert”
Jean Albert, il piccolo bambino che tenni in braccio 11 anni addietro, è ora quasi un uomo.
Un ricordo così vivo nella mia mente, un medesimo giorno di dicembre in cui, io e André, giocammo con quella piccola creatura che era, ai nostri occhi, strana e affascinante.
“Piacere di rivederti, Jean Albert.”
Scorgo nel suo viso, colmo di lentiggini come quello della madre, lo stupore.
“Comprendo la tua sorpresa, Jean Albert, non puoi certo rammentarti di me, ma io ti ricordo come fosse ieri, ti ho visto tanti anni fa, quando eri un neonato.”
L'ometto mi regala un sorriso sincero, un incerto inchino e, senza troppi complimenti lo guardo scappar via con l'impazienza della sua giovinezza.
“Scusatelo Madamigella Oscar, gli avevo promesso che questa mattina avrebbe potuto giocare con i suoi amici invece di aiutarmi.”
Sorrido.
“Sedetevi, ve ne prego, vi preparo una tazza di tè.”
Mi sorride, Colette, con un velo di tristezza ad offuscarle lo sguardo.
Guardo, Colette, con occhi diversi.
Guardo Colette, ora, con gli occhi di André.
Ora so, ora comprendo.
Ora comprendo ciò che vidi 11 anni addietro, ciò che vi era celato al di sotto di un bacio.
Ora so, dalle parole di André, cosa rappresentò, per lui, Colette.
Ed ora, guardandola, capisco, cosa fu André, per lei.
Comprendo qualcosa che neppure André riuscì a cogliere.
Lo hai amato anche tu, Colette, non vi è ombra di dubbio.

“Il tè sarà pronto tra poco Madamigella Oscar.”
La voce di Colette mi conduce al presente.
Disfo i lacci del mantello, facendolo scorrere, poi, sul mio corpo.
Un leggero imbarazzo mi colora le guance, la rotondità della nuova vita mi ha obbligato, senza possibilità di replica, ad abbandonare quegli abiti che mi sono congeniali, per vestirne altri più comodi al mio stato ma, meno adatti ad un animo come il mio.
Degli abiti che rappresentano, per me, paradossalmente, la scomodità assoluta.

“Oh... ma...”
La sorpresa nella sua voce.
La sorpresa nelle sue mani, così instabili da rischiare una rovinosa caduta del servizio da té.
La sorpresa nel suo sguardo, spalancato come finestre.
“Madamigella Oscar, voi... Congratulazioni! Vi siete sposata. Che imperdonabile stupida, scusatemi, vostro marito forse vi stava attendendo da qualche parte?”
Ferma nella mia posizione, punto, col coraggio del soldato, le miei iridi, sugli occhi di Colette.
“Non mi sono sposata Colette, avrei voluto ma non vi è stato il tempo.”
“Madamigella Oscar, ma...”
Non vi è bisogno ch'io ascolti le sue parole.
“Colette, il padre di questo bambino non c'è più, lui è...”
“...morto?”
“Si, Colette. Cinque mesi fa.”
Le lacrime compaiono ancora, prepotenti, alle soglie dei miei occhi.
Scorgo l'amarezza in questa donna dai capelli rossi.
Scorgo, un istante dopo, l'incredulità, nel dischiudersi della sua bocca.
Scorgo, in questa donna, egual lacrime, di nuovo simili alle mie.
“Madamigella Oscar, il bambino che aspettate è... non sarò il figlio di...”
“Si, Colette. Questo bambino è il figlio di André.”
Non vi è timore nelle mie parole.
Non vi è imbarazzo.
Vi è, su ogni singola parola, l'orgoglio.
In ogni singola parola, l'amore.
Il pianto di Colette diviene prepotente.
“Mi dispiace così tanto per voi Madamigella. Mi dispiace così tanto per André, oh, se solo voi sapeste, se solo voi... scusatemi, vi prego, non dovrei parlarvi in questo modo ma... ma lui vi amava, già in passato, come non ho mai visto uomo amare.”
“Lo so Colette, lo so.”
Il rimorso mi stringe la gola come fosse una mano, attorno al mio collo.
Dovrei confessare, a questa donna, la mia ignoranza.
Dovrei confessare, dinnanzi a lei, quanto io sia stata cieca, sorda, e tremendamente stupida per quasi tutta la mia vita.
Dovrei ammettere, ch'io ho odorato, questo amore sconfinato, troppo tardi.
Solo ora mi rendo conto, grazie alle parole di André, dell'amore che ha nutrito, per me, da sempre.
Come ho potuto non capire.
Come è stato che, lo scaltro erede della famiglia Jarjayes, non abbia capito.
Come è stato che, io, Oscar, non abbia sentito, a  pelle, l'amore di colui che mi è stato accanto dalla notte dei tempi.
Come è stato che non abbia percepito l'amore di colui che, da solo, ha riempito la mia esistenza.
Lui che colmava le mie paure infantili, con  un semplice abbraccio.
Lui che, con la dolcezza del suo sguardo, placava il fuoco delle miei iridi.
Lui che, con lo splendore delle sue labbra, disegnava in me il riso, dove, un istante prima vi era un ghigno.
Lui che ha cresciuto, con anni di devozione ed infinita pazienza, la fragile donna che dimorava nel mio interno.
Lui che ha dato un senso al battito del mio cuore, riempendolo, con soffi di respiro, di un amore che non poteva che scoppiare, come è stato, imbrattando, le mie membra, di vita.
Dovrei confessare ma, cupe perle di sale, palesano la colpa sul mio volto.
Abbasso il viso accentuando, ancor di più, il mio rimorso.
Non vi sono state parole ad annunciare.
Non vi sono stati suoni ad avvertire.
Le braccia di Colette si sono posate, su di me, col silenzio.
Il suo abbraccio è giunto, alla mia carne, con l'inaspettato.
Il suo abbraccio, di una genuinità inimmaginabile, mi è scivolato al di sotto della pelle.
Il mio abbraccio, attorno al suo corpo ha colto, di sorpresa, il mio cuore.
Non vi è stato verbo tra di noi.
Respiri, lacrime, calore.
Nient'altro.
Una muta conversazione ha legato le nostre anime, raccontando, ai nostri cuori, un amore che ci ha viste uguali, senza differenze di rango.
Un amore che ci ha riempito l'anima.
Uno stesso amore.
L'amore per un uomo che, con la sua scomparsa ha lasciato, in noi, un inesorabile vuoto.
Cammino per le strade di Parigi, con lievi fiocchi di neve a solleticarmi il viso.
Cammino per le strade di Parigi con la pace in grembo.
Cammino, stringendo il mio bambino.
Cammino pensando, con affetto, alla grandezza d'animo di una piccola donna dai capelli rossi che, in un passato che mi sembra ormai sfuocato, ha colmato, con un insolito amore, la solitudine di André.



Siedo sul letto, con la vita di André tra le mani.
Siedo sul letto con una mano sul ventre.
Siedo sul letto narrando, al mio bambino, una bellissima favola.
La favola di un uomo che portava, tra i suoi occhi, il verde degli smeraldi.
Un uomo che aveva, tra i suoi capelli, il colore delle notte.

“Un uomo che, piccolo mio, pur non sapendolo ti desiderava già, con un ardore smisurato...”

Carezzo il mio grembo, scostando il lembo di tessuto e mostrando, al mio sguardo, la nuda pelle.
Un terremoto tra le viscere.
L'ennesimo stupore.
Scorgo, sulla mia candida pelle, un rigonfiamento, un leggero bozzo al di sotto della carne.
Sfioro con tocco incerto la nuova scoperta.
Sfioro con mani tremanti.
Guardo, con l'ilarità sulle labbra, il rigonfiamento muoversi al lieve tocco delle mie dita.
Immagino, nonostante l'inesperienza, che siano, una manina od un piedino, gli artefici di tale meraviglia.
Rido la dolcezza del mio cuore.
Rido continuando a narrare, questa persona favola, al piccolo demonietto nel mio ventre.

“La prima nevicata di questo nuovo anno. Ripenso alle parole di Colette, che immagino, non rivedremo mai più.
Ripenso a Jean Albert tra le braccia di Oscar e al desiderio che mi avvolse quel giorno, un desiderio malsano, forse, di un figlio mio tra le sue braccia.
Ho smesso di sperare, ho smesso di illudermi, ho smesso di supplicare. Ho riposto tutto nella piccola soffitta decorata da ragnatele. Ho chiuso la piccola porticina e riposto la chiave, in un posto sicuro.
Ma lei... lei non posso dimenticarla.
Non posso smettere di amarla.”

Sorrido, con le lacrime agli occhi, di questa favola che sta mutando in realtà.
Sorrido immaginando, di qui a qualche mese, la realizzazione di quello che sembrava, al suo cuore, un volgare e malsano desiderio.
Sorrido, immaginando, di qui a qualche mese, suo figlio, tra le mie braccia.

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Capitolo 6
*** Sesto mese - Fantasmi ***


Gennaio.
La neve ha posato il proprio manto candido su ogni cosa, illudendo lo sguardo.
Abbindolando gli occhi con il candore.
Facendo credere, all'anima, che tutto può divenire puro e innocente.
Contemplo una veduta che ha radici profonde, nelle mie iridi.
Contemplo un paesaggio dipinto con l'odio e l'amore.
Guardo, al di là di questa finestra, il mio passato.
Poggio i piedi su di un pavimento lucido ed elegante.
Poso, il peso del mio corpo, su piastrelle che posseggono tutta l'opulenza  di un tempo lontano.
Calpesto il mio passato, passo dopo passo, in un paio di scarpette di raso che, fanno di me, un'estranea.
Calpesto l'antico col presente.
Percorro, nelle mie nuove vesti, la stanza che mi vide bambina.
Una bambina nobile.
Una bambina che possedeva tutto, e niente, nel medesimo istante.
Una bambina che credeva nell'amore di un titolo.
Un titolo la cui ricchezza risiedeva, unicamente, in un nome altisonante.
Un titolo che mancava di quell'amore che lei, la piccola bambina nobile, bramava più di qualsiasi altra cosa.
Un titolo che aveva le sembianze di un uomo elegante ed autoritario.
Un titolo che, quella stessa bambina, ha rinnegato, il giorno in cui ha compreso, nel cuore e nell'anima, il vero significato dell'amore.
Percorro, con vesti nuove, la mia vecchia stanza da letto a palazzo Jarjayes.
Poggio le mani sul ventre, carezzando l'evidente rotondità del mio corpo, avvolto in morbida stoffa bianca.
Carezzo il mio bambino, così presente nel mio interno, così vivo e pesante nel mio grembo.
Cammino nella mia vecchia stanza, stringendo il pancione e ricordando, col sorriso sulle labbra, i pochi momenti di felicità trascorsi, in questo luogo, col mio unico amore.
Racconto, al mio bambino, i fantasmi del passato, ancora fortemente presenti in questo luogo.
Racconto, al mio bambino, le risate di quel padre che non potrà mai conoscere.
Serro lo sguardo e posso quasi udire le voci, limpide, di ciò che siamo stati, innumerevoli anni addietro, io e suo padre.
Apro gli occhi e sfioro, con le dita, il grande letto che ho occupato fino a pochi mesi fa, lo sfioro sussurrando alla vita che sento muoversi al di sotto del mio palmo.

“Quando ero malata o venivo punita, in questo letto, il tuo papà veniva a portarmi un po' di conforto. Si infilava sotto le coperte, mi faceva poggiare la testa sulla sua spalla e mi narrava favole sempre nuove. E in questo letto, grazie a lui, mi sentivo serena ed amata.”

Siedo sul morbido materasso, sfioro, con la mano, il copriletto finemente ricamato.
Siedo sul letto, rammentando, col rimpianto nel cuore, il giorno in cui, André, cercò di liberare la donna che era prigioniera, nella mia anima.
Ricordo col pentimento sulle labbra, un amaro rimpianto che, se avessi odorato per tempo, mi avrebbe condotta, già allora, alla felicità assoluta.
Rievoco vecchie immagini.
Rievoco vecchie sensazioni.
La sua forza attorno ai miei polsi.
Il suo sguardo di fuoco.
Le sue labbra, così dolorosamente violente.
Il suo corpo, pesante, sul mio.
Se solo avessi compreso.
Se solo avessi permesso, alla donna incatenata al mio orgoglio, di sbirciare un lembo di quella vita, di quella realtà, che da sempre, con ostinazione le negai.
Se solo avessi ascoltato il canto delle mie lacrime.
Lacrime equivocate.
Un canto, quello delle mie lacrime, scaturito dal timore, per quella parte di me che mi era sconosciuta.
Se...
Se avessi compreso, in quel momento, forse, il mio André non si sarebbe perso nell'oblio.
Se avessi compreso tutto, in quell'istante, forse tu, piccolo mio, saresti giunto molto prima.
Quel tempo necessario che avrebbe permesso, a tuo padre, di conoscerti.
Un alito di respiro che sarebbe bastato, a tuo padre, per amarti di quell'amore che non ha limiti.
Se...
Odo delle voci al piano di sotto, Nanny e il resto della servitù probabilmente.
Solo loro ad occupare il palazzo, mio padre e mia madre, come molti nobili negli ultimi tempi, hanno lasciato, temporaneamente, le loro dimore.
La mia vecchia governante ha insistito ch'io venissi a trascorrere qualche giorno in quella che fu la mia casa.
Il rifiuto arrivò, alle mie labbra, ancor prima di un respiro, mai e poi mai avrei rimesso piede in questo luogo che non sentivo più parte del mio essere.
Mai e poi mai avrei varcato i cancelli di quella reggia che, dal giorno in cui venni al mondo, costituì per me, un involucro di falsità.
Non ci furono ne pianti ne suppliche, della vecchia Nanny, che mi fecero desistere.
Assurdamente, della semplice carta, e dell'inchiostro, riuscirono nella loro essenzialità, a persuadermi.


“Oscar,
con questa missava trovo il coraggio di esternare ciò che a parole, per carattere e cultura, non potrei pronunziare.
Solo con questa epistole, figlia mia, potrò dirti, a testa alta, quelle parole che di persona non valicherebbero le mie labbra.
Ho creduto di morire, all'istante, quando voci maligne mi giunsero alle orecchie.
Ho creduto di sentir arrestare il cuore, quando quelle stesse voci mutarono in dolorosa realtà, una realtà che faceva di te, Oscar, una traditrice.
Mia figlia, Oscar Francois de Jarjayes, aveva tradito la corona, il proprio titolo e suo padre.
Ho pregato che tu perissi nel momento in cui io, tuo padre, ti ripudiavo, dinnanzi agli occhi della gente, e nel mio cuore.
Ho sperato la tua fine.
Me ne vergogno, ma è ciò che provai quel maledetto giorno.
Ho ringraziato il padre eterno quando, dopo giorni di silenzio, mi raggiunse la notizia che tu eri viva.
Ho gioito, con le lacrime a rigarmi il volto, quando mi dissero che, “il comandante dei soldati della guardia ribelli”, era sopravvissuta ai tumulti della presa della Bastiglia.
Ho ringraziato il signore per aver risparmiato quella figlia ribelle che, andando contro tutto e tutti, si unì al popolo per la libertà di una Francia oppressa.
Ho celato il mio giubilo al di sotto della rabbia.
Ho urlato sul dolore di tua madre, ho imprecato sulle lacrime della vecchia governante.
Ogni sorta di espediente per nascondere la mia felicità.
Non ti ho perdonata, Oscar, il generale, il nobile, insito in me, non potrà mai farlo.
Ti ho perduta, irrimediabilmente, il giorno in cui lasciasti questo palazzo, il 12 luglio 1789.
Ho perduto mio figlio, colui che avrebbe dovuto succedermi.
Ho perduto il mio erede.
Ho perduto quella figlia che, per tutta la vita, aveva avuto, per me, rispetto e amore.
Ho perduto quella figlia che, stupidamente, ho creduto d'amare.
Non ti ho amato Oscar, non come un padre dovrebbe amare i propri figli.
Ho fatto di te un burattino, un folle gioco tra le mie mani.
Ho sbagliato, come ti dissi tempo addietro, nel trasformare la tua esistenza.
Ho sbagliato nel crescerti come un uomo, o forse, ho fatto solo il tuo bene?
Vi sono pensieri contrastanti nel mio cuore, pensieri nati dalle disperate rivelazioni della nostra Nanny.
Pensieri percepiti in passato tra le parole e i gesti, altrettanto disperati, del nostro André.
Ho saputo.
Ciò che mai avrei voluto udire, ha colpito, prepotentemente, il mio essere.
Ho saputo, da voci estranee, della donna comandante dei soldati della guardia ribelli, straziata dal dolore per la morte del proprio uomo.
Un soldato.
Un uomo del popolo.
Un uomo che io, ingenuamente, ho messo al tuo fianco.
Un uomo che mai avrei pensato potesse divenire qualcosa di diverso, per te, se non un servo.
Un uomo che invece, abbattendo le mie convinzioni, è divenuto tutto, per te.
Un uomo da cui attendi un figlio.
Ho saputo anche questo, Oscar.
Ho fatto dunque bene, figlia mia, a crescerti come l'erede maschio che non ho mai avuto?
Solo tu ne custodisci la risposta.
Sono troppo vecchio e stanco per cercare di giungere all'origine della verità.
Sono così stanco di questa vita che, in pochi anni, ha cambiato le proprie spoglie, troppo velocemente.
Sono troppo vecchio e stanco per combattere ancora, contro il mondo e contro di te.
In qualche modo, mia cara Oscar, sono lieto di sapere, che in te, sta crescendo una vita.
Mi consola sapere che, in qualche modo, non sarai sola, così come mi duole immaginare il dolore per la perdita di André.
Io stesso soffro la perdita di quel ragazzo che se fosse stato nobile, non avrei esitato a prediligere, come tuo sposo.
Comprendo il tuo dolore ma, comprendi me, Oscar, se non vi è modo ch'io ti perdoni.
Non posso perdonare il tuo tradimento.
Non posso perdonare l'aver calpestato quel titolo che ti donai concependo la tua vita.
Non posso perdonare che tu abbia rinunziato a tutto, per un uomo del popolo.
Non credere, Oscar, ch'io non ti abbia nel cuore, rimarrai sempre mia figlia, e come tale nutro per te quei sentimenti che mi hanno portato, in passato, a gesti insensati forse, ma dettati dall'amore.
Sarai sempre e comunque mia figlia e, come tale, desidero che tu abbia ciò che ti spetta.
Tua madre ed io, come molti nobili, lasceremo la Francia per qualche tempo, e desidero che in questo periodo d'assenza, tu faccia ritorno in quella che fu la tua casa.
Desidero, con forza, che tu trascorra in questo palazzo, un viaggio nel passato, in quei luoghi che ti hanno vista felice, se non per merito mio, almeno, spero, per merito di André.
Voglio riparare al male.
Voglio rimediare agli innumerevoli errori.
Ho dato disposizione che ti venga corrisposto tutto ciò che ti spetta.
Hai ripudiato il tuo nome, hai rinnegato il tuo titolo, ne sono consapevole e ne rispetto la tua scelta, ma  non mi si può impedire di fare dono, del mio patrimonio, ad una donna che ha fatto parte della mia vita per più di trent'anni.
Non posso perdonarti, Oscar, ma non posso, mio malgrado, smettere di amarti, figlia mia.
Auguro ogni bene a te, e a tuo figlio.
Perdonami, se ti è possibile.

Tuo padre.”


Non vi sono state lacrime a solcare lo sguardo, quando gli occhi hanno percorso la grafia elegante di mio padre.
Non vi è stato alcun tuffo al cuore quando, la mia lingua, ha pronunciato le parole; amore, mia cara Oscar, figlia mia.
Non vi è stato nessun tumulto, nel mio essere, una volta piegata, e riposta, la lettera.
Non vi è stata reazione, in me, non per mancanza di sentimenti ma, paradossalmente, per la presenza di questi.
Non ho mai dubitato dell'amore di mio padre.
Mi ha amato, più di qualsiasi altra cosa, mi ha amato errando, ma, come lui stesso ha scritto, vi è stato tale sbaglio, per amore.
Ho perdonato mio padre, non ora, tra le righe di questa confessione.
Ho perdonato mio padre il giorno in cui ho accettato, nel mio cuore, l'amore che nutrivo per André.
Non vi sarebbe stato amore così forte, nella mia vita, se il generale Jarjayes non avesse preteso, in me, un erede maschio.
Non vi sarebbe stato, nella mia esistenza, il verde così simile allo smeraldo, se lui, mio padre, non avesse perpetuato la sua folle smania di un figlio.
Non ci sarebbe ora, nel mio ventre, un esserino concepito dall'amore, se vi fossero stati per me, come per le mie sorelle, bustini, pizzi e merletti.
Non sarei la donna che sono, se mio padre non mi avesse amata di un amore folle.

Abbandono la mia stanza e scendo, con studiata lentezza, la scalinata che ho percorso infinite volte.
Attraverso il corridoio che conduce alle stanze della servitù, compio questo tratto con la rivolta nel cuore.
È la prima volta che entro nella sua stanza, da quando Lui è...
Afferro la maniglia ed ogni singolo muscolo del mio corpo pare essersi pietrificato.
Un respiro profondo e imprimo, sulla porta, tutta la forza del mio essere.
Il passato dinnanzi agli occhi, ho come l'impressione d'essere tornata indietro nel tempo, mi sorprendo a credere che, da un momento all'altro, io possa udire parole di consuetudine.
“Oscar hai bisogno di qualcosa?”
Dio se mi fosse permesso di sentire, ancora, per un istante, la sua voce.
Un gesto improvviso rapisce un sussulto dalle mie labbra.

“Oscar tesoro, ti ho spaventata?”
“Oh, sei tu Nanny.”
E non posso togliere, alla mia voce, un velo di delusione
“Ti serve qualcosa prima di andare a letto? Devo farti preparare un bagno caldo?”
“Nanny io... io dormirò qui stanotte.”
Lo sguardo della mia vecchia governante si dipinge di un colore che ricorda le vesti luttuose.
“Oscar... non credo sia il caso che tu...”
“Non ti preoccupare, sto bene, davvero. Voglio semplicemente dormire in questa stanza, non vi è nulla di strano, non ti pare.”
Cerco di rassicurarla, con un sorriso.
“Oscar ma, io... io non ho toccato nulla da quando André... io... io non ho sostituito nemmeno le lenzuola del letto... lascia almeno che lo rinfreschi con della biancheria pulita.”
Percepisco un'innocente ed umile vergogna, tra le sue parole.
Sorrido con puro affetto, sorrido con l'amore ad imbellettarmi le labbra.
“Non ti preoccupare, va bene così, non c'è bisogno di cambiare nulla.”
Non voglio cambiare alcunché.
“Come vuoi Oscar, buonanotte.”
“Buonanotte Nanny.”
Sento la porta chiudersi alle mie spalle e nel medesimo istante i miei arti muovono i  primi passi verso il letto di André.
Sorrido, ancora, della preoccupazione della vecchia governante, sorrido del disagio che nella propria ignoranza, lei, crede d'avermi arrecato.
Sorrido, invece, di quel disagio che è un dono, per la mia mancanza.
Cado pesantemente sul letto, affondando, senza esitazioni, il viso sul cuscino.
Sfioro con le gote, in un insolita carezza, la federa, cercando con la bramosia sulla pelle, la più piccola traccia di lui.
La più minuscola essenza della sua esistenza.
Ricerco, sulla stoffa, tra la trama e l'ordito, il suo profumo.
Odoro a pieni polmoni il mio André.
Ricerco quel primordiale aroma che giaceva sui suoi capelli, quel profumo che riusciva a calmarmi, da bambina.
Odoro con testardaggine, odoro e finalmente penetra, nelle mie narici, l'essenza della giovinezza.
Penetra, in me, il fantasma di un André bambino.
Profumo di capelli imprigionati in un nastro azzurro, profumo di capelli ribelli a solleticarmi il viso, profumo di un infanzia che non ci ha mai abbandonati.
Improvvise lacrime bagnano il guanciale, sorprendendo i miei occhi e le risate, nate senza preavviso, dalla mia bocca.
Con la follia nel cuore privo il mio corpo di quelle vesti che mi sono estranee.
Abbatto il delicato indumento cereo, gettandolo esanime sul pavimento.
Nuda, esposta in ogni dove.
Nuda, privata d'ogni barriera.
Nuda e libera in tutta la mia femminilità.
Dissemino, sul campo di battaglia, un altro ferito.
Getto, sul pavimento, l'arido copriletto.
Nuda, cerco tra le lenzuola, l'ombra di ciò che fu il mio André.
Nuda, tra le lenzuola, ricerco la sua pelle, e mi pare di sentire, tra le dita, la consistenza della sua carne.
Mi pare di percepire, nella mente, il suo profumo di uomo, quell'essenza che ho conosciuto troppo tardi, ma che ora non vi è modo di cancellare dalle mie membra.
Nuove risa, nuove lacrime, un movimento che è divenuto consuetudine, nel mio ventre.
Tranquillizzo con amorevoli tocchi il terremoto nel mio grembo.
Copro il mio corpo con la camicia di André, che è diventata, oramai, seconda pelle.
Osservo il candido tessuto, un tempo morbido, tendersi ora, con prepotenza, sulla mia figura.
Osservo con una sorta di imbarazzo quegli impertinenti bottoni, al di sotto del colletto, che da settimane non vi è modo di unire alle asole.
Osservo, con stupore, le forme morbide e materne del mio seno.
Seno che non mi è più possibile nascondere.
Quella parte che mi rende donna, in tutto e per tutto, quella parte di me che, da mesi, è esposta, spudoratamente, agli occhi di chiunque.
Rido, nuovamente.
Rido senza controllo.
Rido come non mi capitava da tempo, scatenando, nel mio pancione, il finimondo.

“Oh, qualcuno deve essersi svegliato...”
Sussurro ai fantasmi di questo luogo.
Sussurro a lui, il mio André.
“André...”
Invoco il suo nome, invoco la sua presenza.
Che lui mi stia ascoltando?
“L'avresti mai immaginato, André... avresti mai immaginato che il comandante dei soldati della guardia, Oscar Francois de Jarjayes, sarebbe stata, un giorno, una madre?”
D'istinto abbasso lo sguardo, sentendo nascere, in me, un lieve imbarazzo.
Una fitta al ventre.
“André... tuo figlio non fa altro che scalciare... sarà sicuramente un demonietto.”
Sorrido ad una presenza che vive nel mio cuore.
“Un demonietto come la sua mamma, vero? È quello che stai pensando, non è così André?”
Un perpetuo sorriso mi si traccia sul viso.
“Io vorrei che somigliasse a te, vorrei che nostro figlio avesse in sé i tuoi tratti, vorrei poter rivedere, in questa piccola creatura, il tuo volto. Lo spero con tutta me stessa. Spero che questo bambino ti assomigli, André.”
Il piccolo demonietto non ha nessuna intenzione di riposare questa notte.
“E va bene piccolo, vediamo se riusciamo a calmarci un pochino...”

Carezzo con le dite quelle pagine che sono divenute la mia vita.
Sfoglio, con cura, l'amore di André.
Narro, al nostro bambino, la favola della sera.
Racconto, al nostro bambino, quelle stesse storie che suo padre narrava a me.
Racconto, al nostro bambino, favole dissimili, eppure uguali, nella loro essenza.
Essenza d'amore.

“Rimango con Oscar, mi infilo sotto le coperte con lei.
Oscar avvicina la testa alla mia, scotta, ha ancora la febbre e io tossisco di nuovo.
Sta provando a dirmi qualcosa, ma la voce non c'è ancora.
“Piccoletta non parlare.”
Sospira e chiude gli occhi.
Mi piace dormire con Oscar.
Quando sono con lei o con la nonna non mi viene da piangere, quando sto con loro mi sento bene.
Mi manca la mia casa, mi mancano i miei genitori, ma quando sto con Oscar mi sento meno solo, quando sto con la “piccoletta” mi dimentico che odio questa casa.
Le voglio bene come voglio bene alla mia nonna.
Respiro, la tosse si è fermata.
Chiudo gli occhi.
“Buonanotte piccoletta”
Oscar non può rispondere, mi abbraccia forte forte.
Sorrido.”

Racconto la favola di due fantasmi ormai lontani.
Racconto la favola di due bambini colpiti dal medesimo dolore.
Narro la favola di due anime accostate per caso e divenute una cosa sola, col tempo.
Narro la nostra favola, André.
Cullo il nostro bambino con le tue parole.
Cullo il nostro bambino, che ora, al di sotto del mio abbraccio pare essersi placato.
Cullo nostro figlio immaginando il suo suo volto.
Cullo me stessa nell'abbraccio del tuo amore.
Quell'amore che ha oltrepassato la morte.
Quell'amore che è vivo e prepotente in ogni fibra del mio essere.
Quell'amore che ha il potere di placare la mia sofferenza.
Socchiudo gli occhi ricercando il sonno.
Serro gli occhi invocando il tuo fantasma.
Serro gli occhi supplicando un segno, illogico, della tua presenza.
Serro gli occhi, ricordando il tuo amore.

“Buonanotte André.”

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Capitolo 7
*** Settimo mese - Addio ***


Febbraio.
È notte fonda quando, come accade da più di un mese, non posso far altro che cedere all'insistenza del mio pancione.
Abbandono il tepore del letto, lasciando dietro di me il caldo rifugio delle coperte, per scontrarmi con il freddo.
Il gelo mi colpisce ai piedi, scalzi, posati sul pavimento con noncuranza.
Il gelo striscia, come una serpe, lungo le gambe, dal polpaccio fin oltre le ginocchia, fermandosi, con astuzia, alle cosce.
Un brivido si insinua nei lombi e lungo la mia schiena.
Sento la pelle delle braccia intirizzirsi ed espandere il freddo ad ogni lembo, esposto, della mia carne.
Un respiro e il mio labbro inferiore è vittima di una danza improvvisa.
La mia bocca, divenuta gelida, trema senza controllo.
Avvolgo il mio corpo in una mantellina, senza però trovarne beneficio.
Ogni notte la stessa storia, ogni notte lo stesso rituale, ogni notte lo stesso dolce tormento.
Cammino verso la cucina alla ricerca di un po' di calore.
Apro la stufa e, con soffio leggero, ravvivo le braci addormentate.
Un alito di respiro e, da dormienti, mutano in tizzoni ardenti, così forti da scottarmi il viso.
Sacrifico piccoli legnetti, un dono per il dio fuoco.
Una tazza di the è il solo rimedio per scaldarmi le viscere e, se la fortuna è dalla mia parte, placare il mio bambino.
Seduta su di una poltrona attendo il ribollire dell'acqua, attendo, con impazienza, quel liquido caldo che è divenuto una sorta di pozione, un infuso, che potrebbe ricondurci al sonno.
Attendo, cercando di calmare le movenze del mio ventre.
Attendo tentando di calmare, con infinite carezze, l'esserino insonne.
Avvolgo la pancia con le mani, dando, di tanto in tanto, dei lievi colpetti al grembo, l'ennesimo tentativo per quietare il piccolo demonietto, ma tutto ciò che ottengono i miei sforzi è una sfrontata ribellione, ad ogni dolce colpo delle mie dita, dal mio interno giungono, di rimando, poderosi calci.
Un sospiro sorprende le mie labbra, nel medesimo modo in cui, la mia mano, sorprende gli occhi, posandosi sulla fronte e portando le tenebre sull'azzurro delle mie iridi.
La stanchezza ha vinto la mia mente.
La stanchezza ha avuto la meglio sul mio corpo.
Per un battito di ciglia disprezzo la vita che mi sta crescendo nel ventre.
Per un battito di cuore sento un moto di stizza, prepotente, per il figlio che porto in grembo da 7 mesi.
Ritorno lucida e piomba, sulla mia anima, la vergogna, il senso di colpa, lo sprezzo per me stessa.
Ritorno lucida e maledico il mio nome.
Io non posso essere madre, io non sono nata per crescere un bambino.
Io non merito di possedere tale dono.
Nutro rabbia per questo figlio che ancora non è venuto al mondo, che razza di madre potrà essere una donna che ha, in sé, sentimenti tanto orribili?
Una donna.
Io, una donna da così poco tempo.
Io, che ancora fatico a definire in tal modo la mia persona, come posso accettare, in me, la manifestazione per eccellenza, dell'essere donna?
Come posso sopportare tutto questo?
Come posso affrontare un percorso così tortuoso?
Come posso?
Come posso farlo, da sola?
Se lui fosse qui.
La mano sulla fronte muta la propria forma, trasformandosi in un pugno
Stringo le dita, con una tale forza da farmi male, così intensamente da rendere bianche le nocche.
Comprimo le labbra, serro i denti, odo, rimbombare nelle orecchie, il dolore.
Lo sento correre impazzito, nella mia mente, e non posso far altro che lasciarlo andare.

“André perché? Perché non sei qui? Perché mi hai lasciata sola?”
Un grido, straziante, nella notte.
Centenarie lacrime oltrepassano gli occhi.
Vecchie compagne di viaggio tornano a farmi visita, ed io le accolgo con la cortesia che si riserva agli ospiti, accogliendole sulle mie gote.
Piango sciogliendo l'abbraccio attorno al ventre.
Piango per me soltanto.
Piango per André.
Piango per quel “noi” che non ci è stato concesso di assaporare.
Piango rinnegando, con forza, la mia condizione.
Vorrei che lui fosse qui, in quest'istante.
Vorrei le sue mani, forti, attorno alle mie spalle.
Vorrei sentire, sul collo, il suo caldo respiro.
Vorrei udire, ora, la pacatezza della sua voce.
Vorrei, ora, la sua dolce voce a rassicurarmi.
Con la follia nel cuore formulo parole raccapriccianti.
Con la pazzia nella mente desidero l'indicibile.
Desidero, con la mancanza ad avvelenarmi il sangue, il mio uomo al posto della vita che accresce il mio ventre.
Vorrei barattare questo bambino, con il mio André.
Nuove lacrime sconvolgono il mio viso, tormentandolo con il sale della sofferenza.
Io non volevo essere madre, io volevo essere una moglie.
Io non volevo in me una vita, io volevo accogliere, in me, l'amore di André.
Io non desideravo, sulla mia carne, il peso di un bambino, io desideravo, sulla mia pelle, il peso di un uomo.
Io non desideravo un figlio, io volevo un marito.
Il pianto è divenuto convulso, non vi è modo di fermare il male, non ho la forza di arginare lo strazio.
Un grido tra i denti e tutta la pesantezza del mio egoismo, della mia disumana crudeltà.
Il suono dell'acqua che ribolle sul fuoco cattura la mia attenzione, portandosi via, per un secondo, la pazzia che si è avvinghiata, questa notte, alle mie membra.
Alzandomi dalla poltrona impongo al mio corpo un gesto che pare disumano.
La stabilità dei mie arti pare, ancor di più, impossibile.
Cammino a fatica verso la stufa scostando la pentola dalle fiamme.
Osservo, con vista incerta, il vapore dell'acqua, osservo con devozione un particolare insignificante.
La mancanza annienta i miei sensi, senza preavviso, afferrandomi per le braccia e scaraventandomi a terra.
Scivolo sul pavimento, coi palmi poggiati, pesantemente, a terra.
Scivolo sul pavimento con le gambe nude posate sul gelo.
Giaccio a terra col capo chinato, come fosse una punizione, per la sconcezza dei miei pensieri.
I lunghi riccioli biondi celano il mio volto, il viso di  una madre snaturata.
Il mio pianto incontrollato diviene brutale.
La violenza si insinua nel mio grembo, rendendo spasmodico il suo movimento.
Imploro un po' di pace, supplico la creatura al mio interno di quietarsi, col pianto, le urla, i sussurri.
Supplico con il pianto a spezzarmi la voce.
Supplico con il dolore a rubarmi il respiro.

“Shhhh... shhhh... ti prego smettila!”
La voce bloccata dai singulti.

“Shhhh... shhhhh... basta! Smetti di tormentarmi! Shhhh... shhhh... ti supplico di fermarti... ti prego... basta!”
La ragione mi sta abbandonando, di nuovo.

“Basta! Basta!”
Le urla mi fuoriescono dalla bocca così intensamente da bruciarmi la gola.
Con un moto di stizza porto le mani alla pancia, con violenza, ma, in prossimità di quella rotondità ormai più che pronunciata, il tocco diviene lento seppure deciso.
Stringo le dita attorno alla carne, attorno a quella pelle tesa e dura, del mio ventre.
Affondo le dita spinta da una sorta di rabbia, esasperata da un tormento che sembra non voler allontanarsi dalla mia mente, dal mio cuore, da ogni cellula del mio essere.
Le lacrime non hanno cessato di rigarmi il viso e bagnare l'indumento che ho indosso.
Il respiro, pesante come un macigno, non mi è d'aiuto in questa corsa contro qualcosa a cui non so dare un nome.
Una battaglia contro i mulini a vento.
Una folle guerra contro gli spiriti.
Un insensato scontro verso qualcosa che non ha consistenza, qualcosa che non ha materia.
Io, una brutta copia del Don Chisciotte.
Impassibile, ignorando l'intelletto, affondo, ancora, le dita nella carne, fin quasi a sentir dolore.
Una fitta nelle viscere, un movimento sconosciuto al mio corpo, una movenza che nulla ha, a che vedere, col calciare che ho avvertito in questi mesi.
Le lacrime si ghiacciano sulle gote, il respiro, finalmente libero, oltrepassa le mie labbra in un gemito, le dita, ancora premute sul rigonfiamento del mio addome, si scostano come fossero state scottate dal fuoco.
Il terrore mi si tinge dinnanzi agli occhi.
La colpa ha trovato la propria punizione.
Le mie preghiere hanno avuto risposta?
L'assurdità dei miei malsani desideri ha avuto la propria soddisfazione?
Che io sia stata ascoltata?
Io, una pazza.
Io, una donna malata di mente.
Io, una donna meschina.
Io, una povera donna sola, abbandonata dall'unica persona che l'amava.
Io, una madre.
Madre.
Madre sulle mie labbra.
Madre sul mio cuore.
Madre fin dentro le viscere.
Madre, ora, nella ragione.

“Il mio bambino...”
Un sussurro fuggitivo.
Un sussurro che spaventa le mie orecchie.

Ho il terrore d'aver fatto del male al mio bambino.
Ho paura d'averlo avvelenato, col mio odio.
Temo d'averlo ferito, irrimediabilmente, col dolore.
Sfioro, con dita tremule, il mio ventre.
Tasto, con dita incerte, la rigidità del mio grembo.
Imprigiono il respiro, in attesa di un segnale.
Guardo la mia pelle, candida, sporcata da imperdonabili segni rossi.
Neonati lividi rossi a marcare il mio disdicevole smarrimento.
Tasto, coi palmi, pelle contro pelle, lo stato del mio bambino.
Il bacio dei santi.
Prego supplicando il perdono.
Ho mentito.
Ho mentito alla parte di me che vuole vivere.
Ho mentito alla mia parte di anima che ha la gioia come veste.
Ho ingannato, quella parte di cuore, che ama e desidera questo bambino.
La parte di me che è morta, 7 mesi addietro, ha avuto la meglio, questa notte.
Quella parte di me che è morta con l'ultimo respiro di André.
Una Oscar defunta ha giocato, questa notte, le sue ultime carte.
Una Oscar estinta ha gridato il proprio dolore, tentando, con ogni mezzo, di condurmi nel suo mondo luttuoso.
Quella parte di me ha perduto.
Bacio, sulle labbra bianche e gelide, la me stessa trapassata.
Abbraccio, con infinita dolcezza, quella parte di me che non ha più vita, in sé.
La conduco, tenendola per mano, in quel luogo che non ha luce, in quel luogo che ospita le anime perdute.
La saluto con l'invidia sulla lingua.
Invidio colei che con la morte in ogni dove potrà ricongiungersi a Lui, l'uomo che amo.
Ritorno a me stessa, a questa parte di me che vuole vivere, che vuole amare.
Questa Oscar che ama di un amore sconfinato il figlio che non è ancora venuto al mondo.
Questa Oscar che vuole essere madre, nonostante la ragionevole paura per questo ruolo sconosciuto.
Ritorno al mio pancione, sfiorandolo con innumerevoli carezze.

“Piccolo ti prego... non volevo farti del male... dio, fai che stia bene...”
l'angoscia mi prosciuga la bocca.
Una flebile mossa al di sotto della mia carne, un evidente rigonfiamento del mio ventre, un delizioso bozzo delinea la mia pelle.
Nei miei polmoni ricompare la vita.
Il mio cuore, a metà, pulsa con vigore.
Il sorriso illumina le mie rosse labbra.
L'amore scorre, di nuovo, in ogni fibra del mio essere.

“Piccolo... mi senti?... piccolino, sono la tua mamma...”
Abbraccio il mio pancione, lo coccolo senza tregua.
Innalzo il mio corpo e mi accingo a preparare la “pozione” della notte.
Sdraiata su di una poltrona sorseggio l'infuso, assaporando ogni singolo aroma.
Lascio scorrere il liquido caldo nella bocca e scivolare, poi, lungo la gola.
Faccio oscillare il mio corpo in una danza d'amore, cullando, nell'utero, il mio bambino.
Amo mio figlio con mille carezze.
Amo la vita che mai potrei rinnegare.
Amo quella piccola creatura che ha in sé un potere smisurato.
Il potere di ricordare al mio cuore, ogni singolo giorno, la mancanza di suo padre.
Un potere così profondo che mi ricorda il motivo per cui vivere, ogni singolo giorno.
Socchiudo gli occhi con il grembo tra le braccia.
Socchiudo gli occhi e mi pare di sentire, sulle spalle, l'abbraccio del mio André.
Serro gli occhi e sento, chiaramente, il suo profumo.
Un brivido lungo la schiena, un lievissimo movimento tra i miei capelli.
Sorrido.
Sei tu André?
Follia.
Voglio credere alla follia, voglio crogiolarmi nell'illusione.
Voglio credere, questa notte, che Lui, il mio André, abbia quietato suo figlio, con una carezza.
Voglio credere che André, questa notte, mi abbia perdonata, con un dolce abbraccio.
Sigillo lo sguardo e mi pare di vederli camminare sulle vesti della dama nera.
Li scorgo, senza dubbi.
André, in quel luogo che è divenuto la sua casa e, quella parte di me che non poteva far altro che seguirlo, senza remore, fino al termine della vita.
Quella parte di me che non poteva che divenire la sua ombra, fin oltre la morte.

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Capitolo 8
*** Ottavo mese - Voglie ***


Marzo.
Un delizioso profumo di cioccolata m'invade le narici, svegliando gli occhi.
Le ciglia del mio sguardo sciolgono il loro abbraccio facendo penetrare, con diffidenza, la luce del mattino.
Aroma di cioccolato in ogni angolo angusto della stanza.
Aroma di cioccolato come un velo, sul mio corpo ancora addormentato.
Stropiccio le palpebre per allontanare il sonno.
Allungo le braccia per destare i miei arti.
Carezzo la forma sinuosa del mio ventre, sfiorando, come fosse pelle, l'indumento che ha accompagnato la mia gravidanza.
Carezzo il mio grembo divenuto smisurato, per vegliare, con l'amore, il riposo del mio bambino.
Siedo a fatica sul bordo del letto, abbandonando le gambe, nude, penzoloni.
Porto le braccia dietro la schiena poggiando, con fermezza, i palmi sul materasso.
Getto la testa all'indietro cercando un po' di sollievo, la schiena mi duole, incessantemente, da settimane, il peso del bambino è aumentato a dismisura lasciandomi stupita e dolorante.
Fragranza di cioccolata.

“Mmmmh...”
La voglia si palesa sulla mia lingua.
Spoglio il mio corpo dell'abbraccio di André, posando con cura quasi morbosa, la cerea camicia sul letto.
Cammino fino allo specchio e vi sosto dinnanzi osservando il mio corpo discinto.
Guardo la mia figura, così diversa dalla donna che per più di 30 anni mi è stata davanti agli occhi.
Guardo la mia figura così lontana dall'algido comandante che ha dimorato, in me, per una vita intera.
Osservo il mio corpo, prepotentemente cambiato, dissimile, nella forma, da ciò che fu solo qualche mese fa.
Esamino ogni dettaglio del mio nuovo involucro.
Il viso, un tempo sottile e dai lineamenti decisi, ha adesso, in sé, i segni della maternità, le gote piene e lievemente rosate, le labbra gonfie e rosse, il naso, così simile a quello di mio padre, ha assunto una morbida rotondità sulla punta.
I capelli sembrano aver moltiplicato la propria quantità, mi appaiono d'una lucentezza quasi irreale.
I lunghi riccioli biondi hanno accentuato le proprie curve, rendendole, se possibile, più flessuose.
Il seno, croce e delizia della mia ragione.
Avvolgo, in un abbraccio, il petto, per constatarne la consistenza.
Il mio seno è divenuto l'essenza della femminilità, una femminilità arrogante.
Scruto, con turbamento, le soffici rotondità che racchiudono il nutrimento vitale, per il mio bambino.
Seguo con lo sguardo la grande corona scura dei capezzoli, all'apparenza delicati, ma turgidi al tatto.
La mia pelle è come velluto, morbida e delicata su quasi tutto il corpo.
Guardo l'enorme rigonfiamento del mio ventre.
Guardo la sinuosità del mio grembo curvarsi largamente alla base, tendendo la pelle fin quasi a renderla lucida.
Percepisco la pesantezza della maternità sulle gambe, anch'esse mutate nella forma, anch'esse lievemente ingrossate.
Percepisco il peso, ora più che mai, di questa vita che sta per venire al mondo, e mi sorprende questo miracolo, mi sorprende che io, una persona che non credeva, fino a poco tempo addietro, di poter amare, sia stata in grado di creare la vita.
Profumo di cioccolata, di nuovo, forte nelle mie narici.
Vesto il mio corpo con indumenti consoni al mio stato e mi dirigo verso la cucina dove, la cara Nanny, sta preparando la colazione.
La mia dolce governante ha preteso e ottenuto di restare con me, durante questi ultimi due mesi d'attesa.
“Non potevo lasciar sola la mia bambina, ho annunciato che sarei venuta qui, il Generale tuo padre ha borbottato qualcosa, ma alla fine non ha fatto storie”, così si è espressa il giorno in cui l'ho trovata, dritta come un fuso, dinnanzi alla mia porta.

“Buongiorno Oscar, hai dormito bene?”
“Buongiorno Nanny, si ho dormito bene, grazie.”
“Siediti e bevi la tua cioccolata.”
Bevo il liquido caldo assaporandolo, lentamente, nella bocca.
Bevo quel liquido caldo che è stato, nel corso della mia esistenza, cornice delle giornate liete e consolazione dei giorni tristi.
Bevo questo liquido zuccherino che mi addolcisce le viscere.
Bevo l'aroma della mia infanzia, che ha il sapore dell'amore e dell'affetto.
Accolgo, tra le mie labbra, l'ennesimo sorso di cioccolata, socchiudo gli occhi e la mia lingua intraprende una danza col liquido dolciastro.
Ricordo di palazzo Jarjayes.
Ricordo di risate a colazione.
Ricordo di occhi color smeraldo dinnanzi ai miei.
Ricordo di chiacchiere davanti al fuoco.
Ricordi di un passato tessuto coi rimpianti e i rimorsi.
Ricordi di un passato concepito con l'odio e l'amore.

“Oscar... Oscar...”
la voce di Nanny, forte e squillante, come sempre.

“Ehm... si...”
“Ti senti bene?”
“Si, mi sento benissimo, non ti preoccupare, mi ero persa nei ricordi.”
Mi carezza i capelli con tocco leggero.
“Sto bene Nanny, davvero.”
Le sorrido, senza finzione.

“Manca tanto anche a me.”
Mi sussurra, col pianto tra le parole.
L'abbraccio, questa vecchina che comprende la mia anima senza bisogno di parole, questa vecchina che ha, sulle spalle, il peso di anni difficili.

“Allora, bambina, hai qualche voglia particolare per la cena di stasera?”
Si stacca da me portandosi le mani sui fianchi e fissandomi col sorriso sulle labbra.
“Voglia?”
Lo stupore nella mia voce.
“Si, Oscar... capita che una donna incinta abbia delle voglie.”
“Io non ho nessuna voglia Nanny.”
Lo dico col broncio sul viso, lievemente risentita.
“Oscar, tesoro, non è un disonore avere le voglie, è la cosa più naturale del mondo.”
“Ti dico che non ho nessuna voglia!”
Fa capolinea sulle mie labbra, il rigoroso tono da comandante.
Nanny trattiene a fatica una risata.
“Davvero io...”
Tento in qualche modo di porre rimedio alla mia insolenza, ma non mi è possibile terminare il pensiero.
“Va bene Oscar, non ti agitare.”
Il riso fuoriesce dalle sue labbra senza controllo, ed io, con l'offesa marchiata sulla pelle, tuffo lo sguardo nella cioccolata, unica consolazione di questa mattina.
La osservo, di sottecchi, tornare a svolgere le consuete mansioni tra pietanze e piatti sporchi.
Accolgo sulla lingua l'ultimo sorso di cioccolata, assaporandone l'intenso sapore e lasciandolo scorrere, poi, lungo la gola.
Mi scordo dello scherno subito e alzandomi, a fatica, dalla sedia, mi dirigo lentamente verso la camera da letto.

“Esco a fare due passi, Nanny, credo proprio d'averne bisogno.”
“Va bene. Metti qualcosa sulle spalle Oscar, l'aria è ancora un po' rigida.”
“Non ti preoccupare, credo d'essere abbastanza cresciuta per certe raccomandazioni, non credi?”
Le dico mentre poggio, sulle spalle, una corta mantellina.
“Oh Oscar, per me rimarrai sempre una bambina... la mia bambina.”
Mi avvicino a lei, le poso un braccio attorno alle spalle e lascio un lieve bacio, sulla guancia raggrinzita.
“A più tardi.”
“A più tardi Oscar.”

Cammino per le vie di Parigi, con passo lento, l'unica andatura che mi è consentita, da un paio di mesi, a causa del peso del piccolo demonietto che grava, pesantemente, sul mio grembo.
Cammino tra le vie devastate, quelle stesse vie della mia infanzia che ora fatico a ricordare.
Calpesto quelle stesse vie che, 8 mesi fa, mi hanno vista in uniforme.
Quelle vie che, durante un afoso mese di luglio, hanno portato, sulle proprie spalle, un comandante ribelle, una figlia traditrice, una donna innamorata.
Percorro, irrazionalmente, quelle stesse strade che ho calcato con logica precisa, mesi addietro.
Logica nata per contrastare ciò che ero stata fin dalla nascita, una strategia per colpire quei soldati a cui, fin dai miei 14 anni, ho impartito ordini.
In queste stesse strade ho schierato la mia mente ed il mio cuore con il popolo, rinnegando la nobiltà, rinnegando quella che fu, un tempo, la mia Regina.
Ho rinnegato tutto per la libertà, la giustizia, ho ripudiato ciò che mi era stato insegnato, per lui, un semplice uomo, André.
Persa nei miei grovigli di pensieri mi rendo conto, solo in questo istante, d'essere giunta nel punto in cui vi fu la discesa di Oscar Francoise De Jarjayes.
Una discesa senza possibilità di ritorno, la caduta nell'oblio.
In questo luogo ricordo d'aver sfidato, sul mio cavallo bianco, un gruppo di nobili.
Serro gli occhi e mi pare d'udire il silenzio, quel silenzio che piombò su ognuno di noi nel momento in cui, con incoscienza, alzai il braccio invitando i miei uomini a puntare i fucili.
Mi sembra di udire la mia voce, fredda, atona, la voce del comandante, annunciare la ribellione.
La mia voce, sbattere con insolenza, la libertà dinnanzi agli uomini del Re.

“Il mio nome è Oscar Francoise, ed ora io non ho più ne grado ne titolo.”
Sussurro a me stessa ed a quei fantasmi che sento, come pioggia sulla pelle, in questo luogo.
Sussurro a me stessa, con nuova voce.
Ripeto al vento di marzo parole che sembrano d'un altra vita.
Riacquisto il movimento dei miei piedi allontanandomi dal passato.
Passeggio tra i mendicanti ai bordi della senna e i bambini che si rincorrono col sorriso, innocente, sui volti sporcati dalla fame.
Passeggio col tepore di marzo a scaldarmi la pelle.

“Madame, vi prego, una moneta per il mio bambino. Vi prego, non abbiamo di che mangiare.”
Mi si accosta l'ombra di quello che immagino sia stato un giovane uomo, la cui bellezza è divorata dalla fame.
Il fantasma di un uomo che tiene, tra le braccia, un bambino scarno, un bambino con la morte negli occhi.
Non proferisco parola, anche volendo, non vi sarebbe modo di obbligare la lingua a muoversi.
Carezzo il viso del bimbo, in quel punto dove, per natura, vi dovrebbe essere una guanciotta polposa, ma, in quel punto le mie dita incontrano il vuoto e, di tanto in tanto, delle ossa spigolose.
Prendo le mani del piccolo tra le mie, sorrido con la dolcezza sulle labbra, sorrido con l'amore negli occhi.

“Come ti chiami?”
Gli domando con ancora le sue manine imprigionate tra le mie.
“Jules.”
Sorrido, di nuovo, sperando d'infettare, col riso, il cuore di questa sfortunata creatura.
“Piacere Jules, io mi chiamo Oscar.”
Mi guarda con questi suoi occhietti cerchiati di nero, mi osserva con lo stupore posato su di essi.
Mi avvicino al piccolo, portando la mia mano a coprire un lato del mio volto, il segno eloquente che si compie quando vi è un segreto da rivelare.
“Lo so... Oscar è un nome da maschio, è strano non è vero? Una femmina con un nome maschile, non ne esistono, e tu, mio caro Jules oggi ne hai conosciuta una... potrai vantartene con i tuoi amichetti e se vorrai, un giorno, ti insegnerò ad usare la spada. Va bene?”
Scorgo i suoi occhi aprirsi come finestre, e nascere, lentamente, il sorriso sul suo volto.
“Si, mi piacerebbe Madame Oscar.”
Sorrido, io stessa, di rimando.
Infilo la mano in tasca e poggio, sulle sue manine, delle monete, le sento tintinnare, le vedo luccicare, colpite dai raggi del sole.
“Vi ringrazio. Che Dio vi benedica Madame.”

Smarrita nuovamente nei miei pensieri passeggio per le vie della città, incurante delle persone che mi camminano al fianco, indifferente al vociare, ai rumori, ai profumi e gli odori, disinteressata ad ogni cosa.
Vago per la mia Parigi.
Una Parigi vuota e silenziosa, nella mia mente.
Vi è il buio ad avvolgere i miei occhi, la bambagia a tappare le mie orecchie.
Il nulla al di sotto dei miei piedi.
Galleggio sui miei ricordi senza scorgerne, nitidamente, le immagini.
Vago trasportata da mani invisibili, posate su ogni parte del mio corpo, le sento spingermi in avanti, indietro, di lato.
Una vertigine mi sorprende, lasciandomi ansimante e nauseata.
Lo sguardo abbandona la notte, donando, ai miei occhi, il presente ed il passato, fusi in un amplesso di emozioni.
Dinnanzi al mio sguardo una piazza qualunque, gremita di individui, una piazza che è divenuta una sorta di povero mercato, un luogo dove offrire e vendere quel poco che si possiede.
Una piazza che ricordo, nel passato, anch'essa gremita di persone, ma in quella stessa piazza regnava il silenzio, un silenzio che preannunciava l'arrivo di una bellissima donna.
La dama nera.
Questa, come allora, la piazza che accolse, tra le proprie braccia di cemento, il corpo stanco di André.
Lo vedo, come fosse oggi, il letto di fortuna su cui Lui venne posato.
Lo vedo, come fosse oggi, il suo bellissimo viso imperlato di sudore, bagnato dalla sofferenza.
La sento, come fosse oggi, la sua mano, sedotta dall'ombra della morte, diventare gelida.
Percepisco, al di là dei miei occhi, le vecchie lacrime, le sento spingere con forza.
Le sento urlare il loro dolore liquido, le sento lusingare il mio sguardo, farebbero qualsiasi cosa, queste maliarde, pur di venire al mondo.
Con la fermezza del soldato impedisco la loro venuta, rimandandole indietro, con un respiro.
Abbraccio il mio grembo, la costanza della mia vita, la ragione che mi impedisce di cadere nell'oblio, la forza che mi sprona ad andare avanti.
Carezzo il mio bambino sussurrando l'amore.
Carezzo il mio bambino raccontandogli il passato.

“In questo luogo, piccolo mio, la tua mamma ha chiesto al tuo papà di diventare sua moglie.”
Sorrido nell'udire queste parole sgorgate da un posto sconosciuto.
Sorrido riflettendo su di una domanda che porta, in sé, la stupidità.
Comprendo, solo ora, d'aver pronunciato quella domanda, nel passato, per rassicurare André, per rendere lieti gli ultimi istanti della sua esistenza.
Mi rendo conto solo ora d'essere stata sua moglie da sempre, anche quando l'amore non era ancora giunto ai miei occhi, al mio cuore, alla mia mente.
Io e lui, marito e moglie da tempo immemorabile.
Io e lui, un'unica essenza dal primo giorno.
André ed io, una cosa sola, dal momento in cui gli sguardi hanno incontrato i nostri occhi.
L'azzurro e il verde fusi in un ignoto colore che, nella propria unicità, ha imbastito le basi di quello che sarebbe stato Amore.
Un amore senza tempo, un amore così forte da sfidare il lutto.
I palmi delle mie mani scossi dal movimento del nostro bambino.
Un movimento che è vita.
Un movimento che è fonte d'energia per il mio cuore.
Mi congedo da questo luogo funesto.
Saluto, con un bacio, le ombre del passato.
Saluto, con una preghiera, il sonno eterno del mio amore.
Ritorno sui miei passi, ripercorrendo, nel presente, le vie, di nuovo affollate, di Parigi.


“Oscar, bambina, finalmente sei di ritorno. Ero in pensiero.”
Mi accoglie con la consueta inquietudine, la vecchia governante.

“Nanny, dovresti stare più tranquilla, non fa bene agitarsi alla tua età.”
Le dico col riso ai bordi delle labbra.
“Alla mia età? Non fare l'impertinente con me ragazzina!”
Urla, voltandosi verso di me e mettendosi nella posizione che da sempre le ho visto assumere.
Le sopracciglia corrucciate, le labbra così strette da divenire bianche per la troppa pressione, le mani, a pugno, posate sui fianchi.
“ah ah ah ah... Nanny non cambierai mai!”
L'abbraccio forzando le mura della sua collera.
L'abbraccio sentendo, qualche istante dopo, la sua rabbia crollare, arresa, all'affetto.
Mi abbraccia, questa piccola donnina dal cuore grande.

“Qualche volta mi pare di rivedere, in te, il mio André.”
Mi sussurra in un soffio di respiro, ed io non posso che aumentare la forza del mio abbraccio.
Io e André, fusi, anche ora, in un'unica anima, in un solo cuore.
In passato.
Ora.
Sempre.

“Su, su... vai a prepararti, è quasi ora di cena.”
Nanny si scioglie dal nostro abbraccio, asciugando col grembiule le lacrime ed invitandomi, con una pacca al fondo schiena, ad allontanarmi dalla cucina.
Mi immergo nella lettura del diario di André, leggendo con infinita lentezza ogni singola parola, assaporandone il significato, leccando, con gli occhi, ogni curva sinuosa della sua grafia.
Declamo le sue parole, penetrando con dolcezza, nel suo passato.
Declamo i suoi pensieri carezzando l'inquietudine al di sotto della mia carne, carezzando con tocco deciso l'esuberante caratterino di nostro figlio.

“Oscar, la cena è pronta.”
la voce di Nanny, autoritari al pari di quella del Generale Jarjayes.
Mai, nemmeno sotto tortura, confesserei tali pensieri ma, è più che evidente che, la mia vecchia governante, abbia assunto negli anni i medesimi atteggiamenti di mio padre.
Il tono di voce severo e autoritario.
La fermezza dei gesti, quando vi sono nell'aria, comportamenti a lei poco graditi.
La durezza, così simile a quella di un soldato, nell'impartire punizioni.
Rido, senza controllo, con le lacrime agli occhi.
Siedo al tavolo per desinare con Nanny, quando un tocco leggero al di la della porta di legno ci sorprende.

“Dio del cielo, chi mai può essere a quest'ora.”
Odo l'agitazione nel suo tono di voce.
Sorrido.
“Avanti.”
“Buonasera Madamigella Oscar, Buonasera Nanny, scusate se vengo a disturbarvi mentre state cenando.”
La piccola Rosalie ha l'imbarazzo scolpito sul volto, mentre sosta sulla porta con un cestino tra le mani.
“Entra pure Rosalie, non stare li impalata, sei sempre la benvenuta.”
“Grazie Madamigella Oscar.”
Entra e posso notare, sul suo viso, un delicato rossore.
“Madamigella Oscar io... ho preparato questa torta di mele per voi.”
Un invitante profumo avvolge i miei sensi.
“Ti ringrazio Rosalie, sarà certamente ottima.”

Altri colpi alla porta di legno, poderosi colpi che ci fanno sussultare.
Osservo l'agitazione di Nanny nel suo tormentarsi le mani, prima di avvicinarsi alla porta ed aprirla.

“Buonasera Nanny, state bene? Avete il terrore dipinto sul volto!”
“Alain! Disgraziato, vuoi farmi stramazzare a terra per la paura? Ti sembra l'ora di venire a bussare nella casa di due donne?”
Non vi è risposta da parte di Alain, solo risate, di cuore, così sincere da contagiare me e Rosalie.
Nanny si allontana da noi, offesa.
“Buonasera Oscar, come stai?”
Mi domanda Alain con un sorriso insolente sulle labbra.
“Sto bene Alain, grazie.”
“E... come sta il piccolo Grandier?”
Il sorriso insolente muta in sfacciataggine senza ritegno.
“Sta benissimo anche lui, Alain. Cosa ti prende?”
Chiedo incuriosita.
Il caro Alain, che fino a quel momento aveva nascosto le mani dietro la schiena, le mostra, ora, portandole sul davanti, e rivelando ai nostri occhi, un oggetto poco definito avvolto da un canovaccio.
“Oscar, ho chiesto alla signora Dumont, una vecchia amica di mia madre, di prepararmi una torta di mele... spero tanto che sia di tuo gradimento.”
Ringrazio con un lieve imbarazzo nella voce.
Imbarazzo che si fiuta, chiaramente, tra i miei due ospiti, entrambi consapevoli d'aver portato, in questa casa, lo stesso dono.
Nanny ritorna tra di noi, svestita dallo scherno, sembra quasi vendicarsi posando, su di lei, la beffa.
Burlandosi di me.
Le sento sogghignare poco prima di dire.

“Oscar ma...”

L'ennesimo suono, così usuale questa sera, al di la della porta.
“Avanti.”
Annuncia la mia vecchia governante, col riso sulla lingua, con una inconsueta sfrontatezza nel suo tono, con quella sfacciataggine di chi la sa lunga.
Bernard compare da dietro la porta, sorreggendo tra le mani qualcosa di consimile ai doni ricevuti questa sera.
Il riso di Nanny diviene irrefrenabile.
L'imbarazzo mi si palesa sulle gote.

“Buonasera Oscar, Buonasera Nanny... Rosalie? Anche tu qui?”
Un secondo di silenzio.
“Oscar, perdona l'ora... sono venuto a portarti la torta di mele che ha fatto mia madre.”
“Grazie Bernard, non avresti dovuto.”
Dico con poca convinzione.
“Certo che non avrebbe dovuto, con la sua le torte di mele sono tre! È naturale che Oscar debba mangiare per due ma... in questo modo esploderà.”
è Alain a rompere il silenzio col suo solito tono sarcastico.
“Certo ma lei...”
Dicono all'unisono Rosalie e Bernard.
“Lei vi ha detto che le sarebbe piaciuto mangiare una torta di mele...?”
Chiede, a fatica, Alain, quasi soffocato dalle sue stesse risate.
Il mio imbarazzo non ha più freni, il calore sta invadendo completamente il mio viso.

“Oscar, bambina... e tu non hai le voglie?”
Mi dice Nanny scompigliandomi i capelli.
Abbasso il viso, carezzo il pancione.

“Io... io non ne ho colpa, è lui che ha questo desiderio...”
Annuncio con un filo di voce.
“A quanto pare adora le mele, come suo padre.”
Continuo con voce emozionata.

“Bene, ora vogliamo mangiare tutto questo ben di Dio, prima che Oscar si divori tutto?”
Il solito Alain.
La felicità si spande in ogni angolo della casa.
La gioia si posa su ogni lembo dei nostri corpi.
Le risate baciano le nostre lingue.
Ridiamo col piacere nel cuore, ridiamo come non ci capitava di fare da tempo, come forse non è mai successo.
L'amore in ogni cosa, questa sera.
L'amore in ogni sua forma.
L'amore assoluto.
In una dolce torta di mele.
Sui volti delle persone amiche.
Sulla carezza di una vecchia governante.
Sul ricordo di una persona scomparsa.
Sulle labbra di una madre.
Sulla voglia di un bambino non ancora nato.

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Capitolo 9
*** Nono mese - Travaglio ***


Aprile.
Da un mese a questa parte ogni gesto è fonte di fatica, per il mio corpo e la mia mente.
Respirare.
Vi è un masso sui miei polmoni, un grosso e pesante macigno che impedisce anche il più lieve sospiro.
Un macigno che ha le sembianze di una creaturina che preme all'interno del mio utero, un esserino scalciante ed irrequieto.
Camminare.
I miei piedi, mai così piccoli e fragili come ora, hanno l'ingrato compito di sostenere un peso che pare incalcolabile.
Le caviglie sembrano spezzarsi come ramoscelli, da un momento all'altro, ogni qualvolta impongo, al mio corpo, il movimento.
Mangiare.
L'appetito è forte e incontenibile, la quantità di cibo che riesce ad ingurgitare il mio essere è vergognosa ed inconfessabile.
Cibo di ogni tipo, cibo ad ogni ora del giorno e della notte.
Cibo che puntualmente, il mio stomaco, si rifiuta di assimilare.
Dormire.
Da settimane mi è impossibile coricarmi di schiena, il peso del bambino grava sulle mie carni, tormentando i miei organi interni e procurandomi i più svariati malesseri.
Dolore, nausea, capogiri.
Da settimane l'unica posizione che mi è concesso assumere è su di un fianco, solo con quella postura i miei sonni sono sopportabili, i miei e quelli del piccolo demonietto.
Da più di un mese, come di consueto, indosso la camicia di André che è divenuta una seconda pelle, così congiunta al mio corpo da causarmi non pochi problemi, nell'infilarla.
Da più di un mese è impensabile, per i bottoni in prossimità del grembo, unirsi alle asole, ma è assurda, per me, l'idea di adagiarmi sul letto senza quella insolita reliquia che, dal giorno della scomparsa di André, ha vegliato su di me, e su nostro figlio.
Il nostro bambino.
Quel bimbo che non ho fatto che immaginare.
Quel bimbo che vedrò, di qui a poche settimane.
Quel figlio che amo, e dovrò amare, per entrambi.
Questo figlio che nascerà in primavera, quella primavera che si odora già in questi primi giorni di aprile.
La fiuto all'alba, nella brezza del mattino che mi intirizzisce le braccia.
L'annuso nel primo pomeriggio, mentre attraverso il mercato, passeggiando tra una bancarella colma di fiori, dai profumi più svariati, o tra cesti di frutta dai colori caldi e dai sapori zuccherini.
Ne sento l'odore sulla pelle baciata dal sole, quella particolare fragranza che assume, la mia carne, quando diviene imperlata di sudore.
La primavera in ogni cosa.
La primavera sui visi euforici dei ragazzini.
La primavera in quella pioggia testarda che sfida il sole, con insolenza, rubandone la scena.
Una pioggerellina che diviene protagonista nonostante vi sia, in cielo, la presenza del sole.
La primavera in ogni cosa.
La primavera, che accoglierà il mio bambino.

Siedo al tavolo della cucina.
Star seduta è tutto ciò che mi è accordato di fare.
Siedo sul letto, siedo sulla poltrona, siedo sulla sedia.
Anche il minimo passo in più mi è rimproverato da chiunque.
Oscar non devi affaticarti.
Oscar oggi hai camminato troppo, non ti fa bene.
Oscar forse è meglio che tu vada a riposare.
Oscar, sei un'incosciente, tutto questo sole ti farà svenire.
Oscar non puoi girovagare per Parigi da sola, così facendo questo bambino finirà per nascere prima del tempo.
Oscar no.
Oscar non devi.
Oscar starai male.
Oscar farà male al bambino.
Oscar, Oscar, Oscar.
Vorrei urlare! Vorrei che per un giorno, un solo, maledettissimo giorno, smettessero di preoccuparsi per me.
Vorrei che per un giorno ritornassero a scorgere Oscar, me stessa, ciò che ero, ciò che sono sempre stata.
Vorrei che mi vedessero come una singola persona, un individuo distinto e non uno stupido contenitore, la custode di una vita, una Madre.
Sorrido della sciocchezza dei miei pensieri, scaturiti dalla stanchezza, nati da questi estenuanti 9 mesi.
Sorrido al silenzio, alla pace di questa casa, oggi, un evento straordinario, un dono, per quella parte di me che ha le forme di un vecchio eremita.
Oggi ho concesso a Nanny, o per meglio dire, mi è stata concessa, da lei, una giornata di pausa.
Un intero giorno in cui potrò essere la Oscar di un tempo, libera, indipendente, forse persino incosciente e sciocca.
Non vi saranno rimproveri, raccomandazioni, attenzioni di ogni genere.
Oggi, io soltanto.
Anzi.
Io e il piccolo demonietto.
Questa mattina, molto presto, Bernard ha condotto Nanny a palazzo Jarjayes, dove vi resterà fino a domani.
La mia vecchia governante ha fatto ritorno, in quella che fu la mia casa, per radunare il necessario per il bambino.
Questa la sola spiegazione che le sue labbra hanno pronunciato, ma io so che vi è un altro motivo, Nanny è rientrata a palazzo per portare mie notizie, nostre notizie, ai miei genitori.
Mi ha confessato, con le lacrime agli occhi, d'aver custodito nel proprio armadio un piccolo baule.
Un baule che ha riempito negli anni con tutto l'essenziale per un nascituro, tutto quello che sarebbe servito per dei nipotini, quei nipoti che ha desiderato, da sempre, dal suo André.

“Non ho mai osato immaginare che saresti stata tu a darmi il mio primo nipotino, certo mi ero accorta dell'amore che mio nipote nutriva per te ma... una vostra possibile unione pareva irrealizzabile, e invece... eccoti qui, la mia bambina, che presto mi renderà bisnonna. Oh, se il mio André fosse qui, lui... lui...”
Ha enunciato queste parole, stamane, poco prima di lasciare casa.
Poco prima di affidare alle mie orecchie, ai miei occhi e ad ogni parete di questo luogo, una interminabile lista di raccomandazioni.

Ed eccoci qui, io, il mio pancione e un abito femminile, divenuti ormai inseparabili.
La vita è bizzarra, la vita ha uno strano senso dell'umorismo.
La vita non può che essere una donna, una dispettosa e maliziosa femmina.
Carezzo il mio grembo che mai avrei pensato potesse diventare così... così... enorme!
Mi domando come sia possibile che, dentro di me, vi posso essere una piccola persona.
Lo sento, ne percepisco la consistenza, la pesantezza, perfino le braccia e la gambe ma, a volte, ingenuamente, mi è difficile figurarmi un bambino, nel mio interno.
Come mi è impossibile ipotizzare come potrà, un esserino, seppur piccolo, munito di una testa, delle braccia, delle gambe, ed un busto, fuoriuscire dal mio corpo!
Il terrore si palesa in ogni fibra del mio essere.
La paura del parto è giunta, forte, nella mia mente.
Mi domando se saprò sopportare il dolore, mi chiedo se riuscirò a portare a termine il viaggio del bambino.
Vorrei comprendere, con precisione, cosa sentirò quando quel momento arriverà, vorrei essere preparata al dolore, sapere, prima del tempo, l'intensità di quel male.
La precisione del soldato ancora non mi abbandona.
Conoscere i propri nemici, i loro punti deboli, per poter agire di conseguenza, per studiare una strategia.
Il soldato non mi potrà essere d'aiuto, mi dico, e il panico mi toglie il respiro.
Se mi succedesse qualcosa durante il parto?
Se dovesse capitare qualcosa al bambino?
Il cuore comincia ad aumentare i propri battiti.
Sento il ventre scosso da un lieve terremoto.
Cerco di ricondurre, in me, la calma.
Mi dico che non vi è nulla di cui preoccuparsi, le donne partoriscono da sempre.
Non c'è nulla di cui preoccuparsi Oscar.
Mi sollevo dalla sedia, due passi hanno sempre avuto la capacità di calmarmi.
Innalzo la pesantezza del mio corpo ed una strana sensazione sorprende il mio cuore, avverto, tra la stoffa della biancheria ed il mio intimo, un insolita umidità.
Con passo veloce mi dirigo alla stanza da bagno dove, con l'angoscia tra le dita, privo il mio intimo dagli indumenti, indumenti che scorgo macchiati di un qualcosa di vischioso, una massa gelatinosa con piccole striature rosate.
Cerco tra i ricordi le parole di Nanny, parole che mi rassicurarono, qualche mese addietro, quando vidi qualcosa di simile.

“Piccola mia, non ti allarmare, è consueto, durante la gravidanza, avere delle perdite.”
Rammento, con gioia, la frase della mia vecchia governante.
Con ritrovata serenità indosso indumenti puliti e ritorno, con entusiasmo, ai miei progetti pomeridiani.
Abbandono la mia dimora per le strade di Parigi, passeggio tra le vie soleggiate, conversando con conoscenti ed estranei e godendomi il tepore di una primavera ormai alle porte.
Sto passeggiando da una buon ora quando il consueto dolore alla schiena mi obbliga a tornare a casa, il peso del bambino grava sulle ossa e sui reni.
Giunta alla soglia, una fitta  più intensa mi strappa un sussulto, non me ne stupisco, il piccolo demonietto ha aumentato di parecchio il proprio peso e questo non fa che risentirsi, su ogni parte del mio corpo.
Poggio sul tavolo le rose che di tanto in tanto acquisto da Madame Bonnet, cammino attraverso la cucina alla ricerca di un vaso che Nanny sembra aver nascosto con cura, rovisto in ogni angolo, aprendo e chiudendo le ante del mobile quando, un dolore acuto come una stilettata, giunge al basso ventre.

“Oh...”
Un gemito, un respiro mancato.
“Piccolo credo tu stia esagerando con i calci...”
Sussurro, con la fermezza di un rimprovero, alla causa del mio malessere.

Il mio ricercare ha dato finalmente i propri frutti, trovo, stipato in mezzo a utensili la cui funzione mi è oscura, il vaso, che riempio d'acqua e in cui, poi, vi adagio le rose, posandolo, con cura, al centro del tavolo.
Un sorriso, mancato, muta in smorfia, il fastidio alla schiena diventa sempre più intenso, così come il terremoto al di sotto della mia carne, il bambino è alquanto agitato questa sera.
Respiro profondamente mentre avanzo, con passo lento, alla volta della camera da letto.
Qualche ora sdraiata è ciò che ci vuole per placare il disturbo.
Un passo dopo l'altro con le mani sul grembo, persa tra i ricordi del passato e pensieri per il futuro, quasi non mi rendo conto di ciò che sta accadendo.
Sono colta, inaspettatamente, da una sensazione che definire inconsueta è riduttivo.
Sento qualcosa scorrere lungo le mie gambe nude.
Avverto, lungo le mie cosce, defluire del liquido caldo.
Come un fiume, tra le mie gambe.
La medesima sensazione che provai, da bambina, quando non feci in tempo a raggiungere la stanza da bagno e, con stupore, bagnai i pantaloni.
Il medesimo stupore che dipinge il mio volto, in questo istante.

“Ma, cosa...”
Domando al silenzio di questa casa.
I miei piedi, nudi, bagnati da quel fiume che sento, ancora, a lambire le mie gambe.
Le parole di Nanny nella mia mente, la paura nel mio cuore.
Il terrore nella mia voce.

“Le acque... si sono rotte le acque... il bambino sta...”
Il bambino sta per nascere, la voce nella mia testa conclude la frase al posto delle mie labbra.
Il bambino sta per nascere.
No.
Non ora.
No, no, no... non ora che Nanny non c'è.
Non in questo momento, non adesso che sono sola.
Devo scendere, devo semplicemente percorrere una rampa di scale, uscire per strada e bussare ad una delle porte delle case che vi sono accanto.
Semplice.
Compio un primo passo, poi un secondo, a rilento, cercando d'evitare la pozza di liquido che ha imbrattato il pavimento.

“Aaah...”
Una coltellata mi spezza la schiena, lasciandomi senza fiato. Porto la mano nel punto in cui è comparso il dolore, cercando sollievo in un incerto massaggio.
Un passo.
Un altro.
Un colpo, preciso e potente, al basso ventre, così violento da indurmi a piegarmi in avanti.

“No, no... Dio ti prego, non adesso.”
Gemiti come preghiere.
Il malore, così come è giunto, svanisce, riassumo la mia posizione eretta, il respiro è di nuovo regolare, così come i battiti del cuore.
Una lieve risata mi sporca le labbra, lasciando, su di me, un leggero imbarazzo.

“Che stupida, ed io che pensavo che stessi per nascere...”
Sussurro al mio bambino.
È stato un falso allarme, ho ancora un po' di tempo, mi dico.
Prendo tra le mani un canovaccio ed asciugo il liquido sparso lungo il pavimento.
Sciacquo la pezzuola nel lavabo, godendo dell'acqua fresca sui polsi, mi asciugo le mani e mi volto verso il tavolo per ammirare le magnifiche rose rosse poste al di sopra, le guardo ripensando a quelle che possedevo a palazzo Jarjayes e quelle, d'ogni più svariato colore, nei giardini di Versailles.
I palmi poggiati sulla tovaglia divengono pugni, stringo il tessuto bianco tra le dita, un'altra fitta alla schiena, mi ruba il respiro.
Un altro dolore al ventre, una contrazione delle mie carni.
Il male, sembra non aver fine.
La stoffa nelle mie mani, il mio corpo chinato su se stesso, l'ennesima fitta.
Un lamento che somiglia ad un grido, il mio.

“Aaaaaah...”
Stordita dal dolore non mi rendo conto d'aver strattonato la tovaglia, odo soltanto, quando ormai è troppo tardi, il rumore del vaso frantumarsi a terra.
Ci siamo.
Il bambino sta per nascere.
Sta per venire al mondo ed io non sono nemmeno in grado di stare dritta, figuriamoci camminare fino in strada.
Dannazione.

“Non puoi farmi questo adesso. Non puoi nascere ora.”
Imploro la creatura che mi sta devastando il ventre.
Tento d'alzarmi e compiere un paio di passi, il dolore pare essersi placato.
Trovo pace per una buona mezz'ora, seduta su di una poltrona, solo il cuore sembra non trovare quiete, galoppa come impazzito al di sotto del mio petto.
La bocca è divenuta un deserto, richiamo le forze per alzarmi e toglierle la sete con un sorso d'acqua.
Un passo.
Due.
Tre.
Quattro.
La schiena mi si spezza nuovamente, le contrazioni al ventre hanno aumentato la loro potenza, piegata, di nuovo, su me stessa.
Lacrime ai bordi del mio sguardo.
Grida, strozzate, nella mia gola.
Dio, ti prego, non farmi questo, non puoi farlo nascere in queste condizioni, non puoi permettere che venga al mondo così, senza l'aiuto di nessuno.
Io non posso farcela da sola.
Dio, ti prego, non puoi farmi questo, non ho intenzione di rischiare il mio bambino.
Non puoi, Dio, portarmi via anche lui!
Perchè lo so, morirà se verrà al mondo senza l'aiuto di qualcuno.
Piango per il dolore che mi lacera le viscere.
Piango per la paura di perdere, ancora, un pezzo di cuore.
Piango per mio figlio che non deve, non deve, nascere ora.
Un attimo di quiete, la tregua nel mio corpo.
Respiro, profondamente, ereggendo la mia persona.
Le mani in grembo, rassicuro me stessa e il mio bambino, lo abbraccio infondendogli il mio amore, spaventato, ma pur sempre amore.

“Shhhh stai calmo piccolo, vedrai che andrà tutto bene.”
Mormoro con voce spezzata dal pianto.
Un lampo sulle mie iridi azzurre e il male, come una scossa, in ogni lembo di carne.
Dolore.
Spasmi.
Contrazioni, violente, senza fine.

“Aaaaaaaaah... Signore, aiutami... aaaaah.”
Una mano poggiata al muro ed il mio corpo nuovamente piegato.
Un rumore, inaspettato, al di là della porta.
Vorrei chiedere aiuto ma le parole svaniscono alle soglie delle mie labbra, perse, col respiro.
Una voce.

“Oscar...”
Alain.
Dio ti ringrazio.

“Aaaaaaaaaaaaah.”
Dolore, solo dolore, non vi è nient'altro ad occupare la mia mente ed il mio corpo.
Non lo vedo entrare ma so che c'è, il caro Alain, sento le sue mani, forti, sorreggermi.
Odo la sua voce.
La sua voce, tremante.

“Mio Dio, Oscar... cosa succede?”
Cosa pensi che stia succedendo? Vorrei aver la forza di rispondergli.
“Oscar, il bambino sta per nascere?”
Faccio un cenno affermativo col capo, il respiro è affannoso, cerco di sorridergli e scorgo, sul suo viso, il terrore.
Mi aggrappo a questo omone che ora mi pare più fragile di una donnicciola.
Il respiro torna regolare, il dolore svanisce.

“Alain... grazie a Dio sei arrivato tu...”
Trovo la forza di proferir parola, un attimo, giusto il tempo di una frase prima d'essere sorpresa, ancora, dal male.
Nuove contrazioni.
Nuovo dolore.

“Aaaaaaah... mio Dio!”
Alain aumenta la stretta attorno al mio corpo, parla, ma non comprendo le sue parole.
Respiro.
Lo guardo.
Il panico in ogni dove, sul suo volto.

“Oscar... devo chiamare qualcuno?”
Mi domanda, con un'ingenuità così stupida da far nascere, in me, una rabbia incontrollata.

“Tu dici?”
Urlo, con rabbia, tra i denti.
Una domanda retorica, la mia.
Una domanda nata dall'ira.
Sento Alain correre lungo le scale, lo sento gridare in strada.
Ti prego Dio.
Ti prego, piccolo mio, aspetta ancora un po'.
Ti prego, piccolo, non nascere ora.

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Capitolo 10
*** Parto - Nascita ***


Odo la voce di Alain in strada, lo sento urlare ma non ne comprendo le parole.
Sento il mio cuore battere all'impazzata, nel petto, lo sento pulsare nelle orecchie.
Il dolore alla schiena diminuisce di intensità, come le contrazioni nel mio ventre.
Riempio i polmoni d'aria e respiro profondamente.
Inspiro a rilento cercando una sorta di rilassamento.
Provo, con angoscia, a riprendere una posizione normale.
In piedi, dritta, per quel che mi è possibile.
In piedi, ma instabile, su un paio di gambe che hanno preso a tremare, come foglie.
Mi avvicino al lavabo e lascio scorrere l'acqua fredda sulle mani, sui polsi, fino a metà braccia.
Il freddo ad estinguere il fuoco, pulsante, del dolore appena provato.
Raccolgo l'acqua nelle mani e la porto al viso.
Un gesto che ha il potere di svegliare i miei sensi intorpiditi dal dolore.
Disseto la mia bocca con la medesima acqua, bevo con avidità, bevo come se non vi fosse altro a questo mondo.
Un movimento nel mio grembo, il bambino ricomincia la sua danza.
Lo carezzo con tocco incerto.
Avanzo con decisione verso la camera da letto, non permetterò che, questa volta, il male mi colga impreparata.
Giungo alla soglia della stanza e le doglie anticipano la mia strategia.
Stringo lo stipite della porta tra le dita, mentre l'altra mano preme sul grembo, in quel punto in cui vi è l'apice delle contrazioni.
Comprimo le labbra, impedendomi di gridare, richiamo in me il soldato.
Un soldato non mostra mai le proprie emozioni.
Un soldato non piange.
Un soldato deve dimostrare sicurezza e determinazione.
Un soldato deve essere caparbio e inflessibile.
Richiamo il respiro tra i denti, uccidendo, in gola, il nascere di un lamento.
Io sono un soldato.
Io, per più di vent'anni, ho controllato le mie emozioni, il mio essere.
Io sono un soldato.
Io non piango.
Io sono caparbia e inflessibile.
Io sono sicura e determinata.
Io sono un soldato.
L'ennesima contrazione, l'ennesima pugnalata ai reni.
Dolore, insopportabile, nelle viscere.
Io non...
Io sono un...
Io...

“Io non sono un dannato soldato... aaaaaah... i soldati non partoriscono!”
Le mie grida, senza controllo.
Le lacrime bagnano il mio sguardo e non vi è nulla ch'io possa fare, per arrestarne la corsa.
Le ginocchia mi si piegano sotto il peso del tormento.
Tengo il palmo della mano alla base del mio ventre, trattengo il mio pancione per impedire, follemente, ciò che è inarrestabile.
Percepisco, tra gli spasmi delle mie carni, il bambino.
Sento il mio bambino scivolare in basso, lo sento, chiaramente, pesare dolorosamente tra le mie gambe.
Ho paura.
Ho paura come mai ne ho avuta in vita mia.
Ripeto nella mia mente, come fosse una litania, che tutto questo non può succedere.
Non può nascere ora.
Non posso permettere che mio figlio nasca qui, sotto lo stipite di una porta.
Non posso permettere che il mio bambino nasca da solo.
Alain.
Dov'è Alain? Perché tarda?
Se non ci fosse nessuno a potermi aiutare?
Come potrò far nascere il bambino?
Non posso farlo da sola.
Non può farlo Alain.
Dio, dove diavolo è finito Alain?
Una fitta alla schiena, un dolore violento alla base dell'addome.
Le gambe faticano a sorreggermi, il busto cede su se stesso.
Serro lo sguardo e digrigno i denti.
Un lamento che sembra un ringhio.

“Alain!”
Grido con tutto il fiato che ho in corpo.
Grido con la forza della disperazione.
Cerco di raggiungere il letto, i piedi compiono un paio di passi, allungo la mano in prossimità del copriletto e la mia corsa si arresta.
Le contrazioni, sempre più forti, straziano il mio corpo.
Il dolore giunge ai miei arti come un ferro ardente.
Cado sulle ginocchia, coi palmi poggiati sul pavimento, ad arrestare quello che poteva essere un rovinoso schianto.
I miei lunghi riccioli biondi, cascano, senza vita, ai lati del mio volto, solleticandomi le gote.
Il bambino spinge, con prepotenza, alla base del mio grembo, creando, tra le mie viscere, spasmi che sembrano lacerarmi la carne.
Sta per nascere.
Sta nascendo.
Questo il solo pensiero che la mia mente pare essere in grado di formulare.
Questa l'unica convinzione del mio cuore.
Dio ti prego, non farlo nascere ora.
Il dolore, devastante, mi induce, involontariamente, a dischiudere le gambe.
Sta nascendo.
Dio, come puoi permettere una cosa simile?
Osservo le lacrime precipitare oltre le mie ciglia, le guardo cadere, ed espandersi, sul pavimento a pochi centimetri dal mio volto.
Il dolore, ogni volta più intenso, ogni volta più ravvicinato.

“Aaaaaaaah... oh signore, ti supplico!”
Grido a me stessa, in questa stanza vuota.

Un frastuono ai margini delle mie orecchie, del vociare concitato al di là della stanza da letto.
C'è qualcuno.
Alain ha trovato aiuto.
Oh Dio ti ringrazio.
Innalzo la testa e sorrido al nulla, sorrido a chiunque abbia esaudito le mie suppliche.

“Oscar... Oscar... scusami... scusa se...”
Alain mi è accanto, col suo vocione spezzato dall'angoscia e le sue braccia, forti, a sostenere il mio corpo.
“Alain non ti... aaaaaaaaaah...”
Non ero preparata a tutto questo.
Non ero pronto a tutto questo dolore.

“Madame, fatevi forza... vedrete che tra poco sarà tutto finito.”
La voce, dolce e quasi sussurrata, proviene da una donnina magra e dai capelli bianchi raccolti in uno chignon.
La guardo con il disprezzo negli occhi.
La guardo domandandomi se lei, così calma e pacata, abbia la benché minima idea di cosa stia accadendo al mio corpo.
Un corpo che si sta spezzando, con una crudeltà disumana, al cospetto di un bambino.
Non le rispondo, mi aggrappo alla camicia di Alain, issandomi in piedi e lasciandomi cadere, finalmente, sul letto.

“Oh...”
Un sussulto dalle mie labbra.
Il piccolo demonietto mi concede un attimo di riposo.
Giaccio spossata, immobile, sulla morbidezza del letto.
Una carezza sulla mia fronte, un tocco leggero tra i miei capelli, dischiudo gli occhi e vi trovo, dinnanzi, il caro vecchio Alain.
“Oscar, stai meglio?”
Bisbiglia.
“Adesso si Alain... grazie... grazie di tutto.”
Gli sorrido, forzando le mie labbra.

“Giovanotto, dovete lasciare la stanza. Qui non c'è bisogno di voi. Avanti, fuori.”
La voce della donna diviene dura ed autoritaria.
Alain avvicina il suo volto al mio orecchio, tanto da sentirne il respiro caldo.

“Io sono qui fuori Oscar, per qualsiasi cosa non esitare a chiamarmi. Mi raccomando, non farmi attendere molto per conoscere il piccolo Grandier.”
Vi è qualcosa nella sua voce che non ho mai udito prima d'ora, una tonalità delicata, un'essenza che mi è impossibile definire.
Mi carezza una guancia, questo grande uomo, con tocco gentile, ed io stringo le mie dita attorno al suo polso, posando, sul suo sguardo, l'ennesimo sorriso.
Vorrei poter dire tante cose, vorrei avere il tempo per ringraziare questo ragazzo che, da sempre, ha dimostrato a me, e ancora prima ad André, la sua lealtà, il suo buon cuore.
Vorrei poterti ringraziare Alain, per l'affetto che mi hai donato in questi 9 mesi.
Vorrei poterti ripagare ogni istante che hai trascorso con me, con noi, facendo le veci, del tuo migliore amico.
Ti ringrazio Alain, ti ringrazio con tutto il cuore.
Si allontana, il mio soldato, salutando la vecchia donnina con un improbabile inchino, e me, con la consueta follia.
Lo osservo portare la mano, ferma, sulla fronte.

“Comandante!”

Rimango da sola con questa donna di cui non rammento il volto, non mi pare d'averla vista prima d'ora.
Il dolore ricomincia a insinuarsi al di sotto della pelle, striscia lungo la spina dorsale e giunge, poi, ai lombi.
Il bambino riprende la sua discesa lungo il basso, spinge, con forza, e con lui si presentano, puntuali, le contrazioni.
Stringo le lenzuola tra le dita soffocando le grida.

“Come ti chiami, bambina?”
Mi domanda la vecchia donnina, lasciandomi sul cuore quel “bambina”.
“Oscar.”
Rispondo tra i gemiti.
“Bene, Oscar. Il mio nome è Faustine.”
Altri sussulti, dalle mie labbra.
“Oscar, ascoltami attentamente, ora dovrò alzarti la veste e privarti della biancheria. Una volta fatto tutto questo dovrò capire a che punto del travaglio sei, va bene?”
Faccio un cenno affermativo col capo.
Faustine compie ogni gesto preannunciatomi e, un istante dopo mi dischiude le gambe, posa una mano sul mio grembo e l'altra nel mio intimo, insinuandosi all'interno.
Percepisco le sue dita muoversi tra le mie carni.

“Oscar, ci vorrà ancora un po' di tempo prima che il tuo bambino venga al mondo, il tuo corpo non è ancora pronto. Adesso ti lascerò qui, per qualche minuto, io sarò nell'altra stanza, in cucina. Dovrò far bollire dell'acqua per lavare il bambino, e te, quando tutto sarà finito. Va bene? Vuoi chiedermi qualcosa?”
Mi sorride, con una dolcezza che mi ricorda tanto Nanny.

“Il... il bambino starà bene? Vero?”
Le domando poco prima d'essere colta, nuovamente, dal dolore.
“Ma certo, il tuo bambino starà benissimo. Sei una donna forte, non vedo nessun problema per questo parto.”
Una carezza ed un sorriso, da questa donna che ha, tra le sue mani, la vita di mio figlio.
Le contrazioni sono sempre più ravvicinate, e così intense da non lasciarmi il tempo di prendere fiato.
“Dio... quanto fa male!”
Non mi è possibile frenare le grida.
“Oscar, cerca di rilassarti, respira profondamente. Ecco, brava, così. Adesso dimmi, immagino che questo sia il tuo primo figlio, qualcuno ha avvertito il padre?”
Ed eccola, la sola domanda che non avrei voluto udire.
Dolore al ventre, dolore ai lombi, dolore al cuore.
“Lui... lui è... lui è...”
Il pianto si fonde alle grida.
Dolore del corpo unito al dolore del cuore.
Comprende, la vecchia Faustine, senza ch'io le debba delle spiegazioni.
Mi posa la mano sulla fronte e mi carezza i capelli, amabilmente.
Socchiudo gli occhi per godere di questo affetto sconosciuto e della pace, passeggera, nel mio corpo.
“Oscar, ora vado a preparare tutto l'occorrente per il parto, credi di poter rimanere qui da sola?”
Annuisco offrendole un sorriso.
Sola, ancora, in questa stanza, sola col mio bambino che diverrà realtà.
Dopo 9 lunghi mesi potrò guardare il suo volto, quel visino che ho cercato di figurarmi innumerevoli volte.
Dopo un tempo che mi è parso infinito potrò rivedere il mio André, nei tratti di nostro figlio.
Il mio André.
Come vorrei che fosse qui.
Darei qualsiasi cosa per poterlo avere accanto, in questo istante, per sentire la sua voce, calda, pronunciare parole rassicuranti.
Darei l'anima al demonio per averlo in questa vita, un momento soltanto, il tempo di un respiro, in cui gli mostrerei il suo bambino.
Se lui fosse qui.
Se fosse qui mi spronerebbe ad essere forte, con la fermezza nelle parole, e con l'amore dei gesti.
Se fosse qui soffrirebbe con me, come è sempre stato.
Se fosse qui impazzirebbe di gioia nell'assistere alla nascita del nostro bambino.
Se lui...

“Aaaaaaaaaaah”
Una fitta, feroce, così differente dalle altre.
Un dolore devastante al ventre, un dolore così furioso da espandersi ad ogni fibra del mio essere.
Ereggo il mio corpo a sedere, continuando ad impugnare le lenzuola tra le dita.
Il mio grembo nudo sussulta ad ogni contrazione.
Le mie gambe, scoperte, si divaricano senza vergogna, ed io non ho più il controllo del mio corpo.
Il bambino pesa completamente alla base del mio addome, lo sento, distintamente, nel mio interno.
Lo sento scivolare ad ogni contrazione, ed io non posso far altro che...
Ed io devo...
Devo...
Devo spingere!
No, no, non puoi nascere, io non sono pronta.
Io non so cosa fare.

“Oh signore!... aaaaaaaaaaaaaah...”
Il dolore mi arriva alla testa, con la stessa potenza che vi è nelle mie viscere.
“Oscar! Dio del cielo! Credo che sia arrivato il momento...”
La mano di Faustine, un altra volta, nel mio intimo.
“Ci siamo Oscar, ci siamo...”
Cerco di respirare ma i polmoni sembrano pezzi di legno.
Sono così stanca.
Mi lascio cadere all'indietro, lascio che la mia schiena si adagi sui cuscini.
Reclino il capo e serro gli occhi.
Non ce la faccio, non posso sopportare altro dolore.

“Oscar! Oscar! Avanti! Devi collaborare, questo bambino non può venire al mondo da solo!”
Il rimprovero nella voce della vecchia donnina.
“Non ce la faccio! Non ne ho la forza!”
Le grido con insolenza.
“Credevo che una donna con un nome da uomo avesse qualcosa di differente rispetto alle altre dame, ma a quanto pare mi sbagliavo...”
Mi provoca.
“Tu... tu... tu non sai nulla di me! Io... io non sono come le altre donne, non ti azzardare a ripeterlo un'altra volta! Io... io ho comandato un reggimento di uomini! Io ho combattuto per la presa della Bastiglia! Io sono un soldato! Io... aaaaaaaaaaah... Dio, quanto fa male!”
Le urlo la mia rabbia, le urlo la mia stupida offesa, le urlo il mio dolore.
“E allora, soldato, combatti... tira fuori la tua forza e fai nascere questo bambino!”
Piango tra i lamenti.
“Spingi Oscar, spingi!”
Grida, Faustine, sovrastando la mia voce.
Spingo assecondando il dolore.
Spingo assecondando le contrazioni.
Il battito del cuore martella nelle orecchie, stordendomi.
Il mio respiro è affannoso, un momento, e flebile l'attimo dopo.
Sono esausta, ogni lembo del mio essere è sbrindellato dal dolore.
La mente è persa, confusa, svanita tra i fumi del tormento.
La gioia è mutata in rabbia.
L'amore ha assunto le sembianze del rancore.
Per un istante maledico quella notte di nove mesi addietro, quella notte che mi vide diventare donna.
Per un battito di ciglia maledico la passione di André, quella passione che ora mi sta lacerando la carne.
André.
Oh, amore mio, se fossi qui.
André, perché? Perché non sei qui con me?  
Il delirio mi inumidisce le labbra.

“André... André...”
Invoco il suo nome, avvinghiato al pianto, stretto attorno alle grida, insinuato nel dolore.
Avverto la mano di Faustine poggiarsi sul mio pancione e premere su di esso, con sempre maggior potenza.
Guardo la sua mano schiacciare il mio ventre, fortemente, fin quasi a sformarlo.
Odo le sue urla.
“Spingi Oscar, spingi! Vedo la testa del bambino... dai, ci siamo!”
La testa del bambino, si, la sento scivolare attraverso il mio grembo, la sento scivolare attraverso il mio intimo.
Un dolore lancinante, un lampo alle porte del mio sguardo, una pugnalata alla base della schiena.

“André... aiutami... André...”
Invoco nuovamente il suo nome, impregnandomi le labbra.
Invoco il suo nome nel momento in cui, con quelle poche forze rimaste, affondo le mani tra le lenzuola, portando il mio corpo in avanti, in direzione delle mie gambe, piegate e spudoratamente aperte.
Invoco il suo nome nel momento in cui spinto, con tutta me stessa.
Invoco il suo nome nell'istante in cui, il mio grido, così prepotente da infiammarmi la gola, accompagna lo strappo delle mie carni.
Pronuncio il suo nome quando sento il bambino giungere tra le mie gambe, nell'istante in cui la sua testa, ed il suo corpicino, si fanno strada, oltre il mio intimo.
Pronuncio il suo nome nell'istante preciso, in cui, nostro figlio viene al mondo.
Ricado stremata sui cuscini, col respiro convulso in gola e il viso imperlato di sudore.
Ricado stremata sul letto mentre un fiotto di sangue bollente fuoriesce dal mio corpo.
Gli occhi mi si chiudono involontariamente, per poi riaprirsi, come finestre, quando le mie orecchie odono il suono più dolce.
Un pianto.
Forte.
Il suo pianto.
Il pianto del mio bambino.
Allungo le braccia, una richiesta senza parole.
Faustine mi porge questa piccola creatura, me la poggia sul petto.

“E' una bambina.”
Mi dice.
Stringo tra le braccia questo esserino e le lacrime compaiono tra i miei occhi.
La guardo, la mia bambina, ancora macchiata di sangue.
Sembra stremata, come lo sono io.
Osservo le sue mani, così minuscole, le sfioro con una carezza.
Osservo il suo petto, alzarsi ed abbassarsi freneticamente.
Tocco le sue labbra, carnose, le guardo protrarsi, pronte a succhiare, verso il mio dito.
La stringo, con la paura in ogni gesto.
La guardo e vedo l'amore.
La guardo e vedo Lui.
La guardo e vedo la realtà.
Ho una figlia.
Sono una Madre.

La piccola trema nel mio abbraccio.
“Bisogna coprirla.”
Mi dice Faustine.
Allungo la mano e con sicurezza vi trovo ciò che cercavo e, con l'aiuto della donna avvolgo, in quella camicia che mi ha protetta per nove mesi, sua figlia.
Nostra figlia.
La guardo, stretta nel solo abbraccio che le potrà dare suo padre.
La guardo placarsi, così come accadeva nel mio ventre, tra la stoffa che ha le forme di suo padre.
Osservo questo piccolo amore che ha unito, per sempre, le nostre anime.
Il nostro amore, fuso, in questa piccola creatura.
Sussurro all'essenza che è presente, nel mio cuore, e in ogni fibra del mio corpo.
Sussurro, senza staccare dall'amore, l'azzurro del mio sguardo.
Sussurro alla presenza che sento, forte, accanto a me.
Sussurro, con le lacrime agli occhi e la felicità nel cuore, al mio unico e solo amore.
Sussurro sperando che lui possa sentire.
Sussurro sperando che lui possa vedere.
Sussurro al suo fantasma.
“Abbiamo una bellissima bambina, André.”

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Capitolo 11
*** Nostra figlia ***


Sono una mamma.
Chi l'avrebbe mai immaginato.
Mi sento sfinita, ogni singolo muscolo del mio essere è indolenzito.
Mi è difficile muovermi, anche il gesto più lieve è fonte di dolore, nel mio ventre.
Il sangue tra le mie gambe non accenna a bloccarsi, anche se, non è più così copioso.
Non mi debbo preoccupare, mi ha rassicurato Faustine, è perfettamente normale, mi ha spiegato.
Non mi preoccupo, ma devo dire che mi fa un certo effetto vedere questa enorme chiazza di sangue, macchiare le lenzuola bianche.
Sangue ovunque, sul letto, sulla mia bambina, tra le mie cosce.
Mi sento sporca, vorrei avere la forza per levare il dolore di poco fa, dalle mie gambe.
Giaccio sui cuscini, col sonno che tenta, con ogni mezzo, di sedurre il mio sguardo.
Vorrei cedere, vorrei dormire, ma non posso.
Non posso smettere di guardala.
Lei, mia figlia.
Faustine se ne sta occupando, la osservo mentre, con amorevoli gesti, pulisce il suo minuscolo corpicino.
È così piccola.
È perfetta.
E sana, senza ombra di dubbio, sana, solo una creaturina in piena forma può avere la forza di piangere in questo modo.
Urla con una tale potenza da far male alle orecchie.
Sorrido a questa vita colma di vigore.
Guardo al di fuori della finestra, ho perso la cognizione del tempo, dev'essere notte fonda, ma non ne sono certa.
Una frivola distrazione ed i miei occhi si posano, nuovamente, sulla piccola, il suo pianto si è placato, socchiude gli occhietti mentre Faustine le avvolge un panno tra le gambe e la posa, con delicatezza, nella culla.
La culla che fu di Alain e di Diane, il soldato Soisson ha insistito, al limite della pretesa, ch'io accettassi questo dono.
Non poteva farci un regalo più bello, non è vero piccola mia?
Una deliziosa culla, costruita con la fatica e l'amore di un padre, una semplice culla, priva di tutti quegli inutili gingilli che adornavano, invece, quella che mi accolse, il giorno della mia nascita.
Osservo questa donnina smilza avvicinarmisi, mi sorride, scosta una ciocca di capelli dal mio volto e dischiude le labbra.

“Sei stata bravissima Oscar.”
Le sorrido, con un affetto che mi è nato con prepotenza nel petto.
“Io non... io non avrei potuto farcela senza di te... io non so come ringraziarti... io...”
“Piccola, non devi ringraziarmi, è stata una gioia poterti essere d'aiuto. Faccio nascere bambini da una vita intera, e devo dire che questa bambina aveva una gran fretta di incontrare la sua mamma.”
Le sorrido e le lacrime ritornano a leccarmi le guance.
“Ora vediamo di dare una ripulita anche a te, vedrai che poi ti sentirai meglio.”
Faustine mi aiuta ad alzarmi in piedi e mi sorprende quanta forza vi sia in questa donna, all'apparenza, esile.
Sostengo il mio corpo, instabile, alla testata del letto, un capogiro mi sorprende.
Il dolore al ventre pulsa, all'unisono col mio cuore.
Faustine priva il mio corpo della veste che ancora avevo indosso, un abito chiaro macchiato di rosso, macchiato di quel sangue che sento, anche ora, scorrere lungo le cosce.
Socchiudo gli occhi abbandonando il capo dinnanzi a me, sono così stanca, eppure il tocco della benda, calda, che deterge la mia pelle sembra destare i miei sensi.
La donna mi porge una veste pulita, della biancheria, e delle pezzuole di tessuto che dovrò indossare fino a quando smetterò di perdere sangue.

“Ce la fai a rimanere in piedi ancora un attimo? Te la senti? Giusto il tempo di cambiare le lenzuola, va bene?”
“Si, certo, ce la faccio.”
Le rispondo in un soffio.
Volgo il viso, compio un paio di passi, ed osservo mia figlia dormire beatamente.
Vorrei avvicinarmi a lei, prenderla in braccio ma non vi è più forza in me, cadrei come una foglia se provassi a fare un altro passo.
Faustine m'informa d'aver quasi terminato la sistemazione del letto quando la porta della stanza da letto si spalanca, con forza.

“Madamigella Oscar!”
Ho dinnanzi Rosalie, pallida come un cencio.
“Rosalie...”
Le sorrido, ancora con le mani strette alla testata di legno.
“Oh mio Dio... Oscar, voi... Oh Dio del cielo...”
Piange, come al solito, la nostra Rosalie.
“Rosalie! Che ci fai qui? Conosci Oscar?”
“Faustine! Si, ci conosciamo da anni ma... dimmi... cosa... come...”
“Calmati Rosalie, è andato tutto a meraviglia! Abbiamo qui una bellissima signorina.”
Si porta le mani alla bocca, Rosalie, ed il pianto diviene convulso, si avvicina alla culla e la odo piangere e ridere, nel medesimo istante.
La vecchia donnina mi riconduce al letto, finalmente pulito, di nuovo candido, mi adagio su di esso con la stanchezza in ogni muscolo, felice, ma stremata.

“Madamigella Oscar, è bellissima! Guardate che piedini, e il nasino, è un amore.”
Rosalie è euforica.
“Mi dispiace così tanto di non essere stata qui per assistervi Madamigella Oscar. Alain è passato a cercarmi ma ero al lavoro.”
“Non ti angustiare Rosalie, davvero.”
Le sorrido a fatica.
Sentiamo bussare al di là della porta.

“Ehm... posso entrare?”
E' la prima volta che sento la sua voce così lieve e imbarazzata.
“Entra Alain...”
E' la prima volta che vedo Alain così turbato, mi pare di scorgerlo più piccolo di quel che è effettivamente.
“Giovanotto non stare li impalato, entra!”
Faustine mi ricorda sempre di più la cara vecchia Nanny.
“Oh, certo... io... io ho sentito piangere, potrei vedere il piccolo Grandier?”
Si gratta la testa e abbassa il viso.
“La piccola Grandier.”
Annuncio con un filo di voce.
“Una bambina? Per tutti i diavoli, André darebbe di matto se fosse qui!”
Lo dice, con la spensieratezza sulle labbra, con quella gioia che a me è ancora sconosciuta.
“Alain!”
Il rimprovero di Rosalie.
“Oscar, ti chiedo scusa, sono uno stupido.”
“Non è accaduto nulla Alain, credimi, la penso esattamente come te... Se fosse qui impazzirebbe di gioia.”
Mi rendo conto che i miei occhi stanno piangendo solo quando, una lacrima, mi si posa sulle labbra, risvegliando la mia lingua, col sapore del sale.

“Comandante, avete fatto davvero un ottimo lavoro, questa bambina è bellissima.”
Scherza, Alain, senza distogliere lo sguardo dalla piccola.
“Oscar...”
“Si, Alain...”
“Credo che abbia il tuo carattere.”
Mi dice voltandosi e fissandomi con espressione divertita.
“Davvero? E come mai questa affermazione?”
“L'ho sentita gridare! Credo che l'intera Francia l'abbia udita questa notte! Non c'è dubbio Oscar, questa bambina ha il tuo stesso caratterino! Ah ah ah ah!”
“Se solo avessi la forza di alzarmi... Ringrazia la tua buona stella Alain.”
Dico cercando di mantenere un'espressione seria, serietà che dura il tempo di un soffio, le mie risate echeggiano nella stanza.

“Sarà meglio che io vada, si è fatto tardi. È stato un piacere conoscerti, Oscar, mi raccomando cerca di riposare e per qualsiasi cosa non esitare a farmi chiamare da Rosalie, intesi?”
Mi posa una dolce carezza sul volto.
“E' stato un piacere anche per me. Grazie di tutto Faustine.”
Le stringo la mano e la guardo abbandonare la stanza.

“Bene, Alain, credo sia arrivato il momento che tu te ne vada, madamigella Oscar deve riposare.”
“Che modi Rosalie, adesso dovrò chiamare te, Comandante!”
Ride sguaiatamente il solito Alain.
“Vai via di qui Alain!”
Anche Rosalie fatica a trattenere le risate.
Si allontana da noi, quest'uomo grande e grosso, oltrepassa la soglia della camera da letto per poi farvi ritorno, un istante dopo, e domandare, con sincera perplessità.

“Oscar?”
“Si...”
“Che nome hai dato alla bambina?”
Un nome.
Non ci ho ancora pensato.
“Nessun nome per ora, Alain.”
Annuncio con un lieve imbarazzo.
“Pensaci Oscar, non potrà rimanere in eterno la piccola Grandier. E mi raccomando, niente nomi maschili!”
Lo sento camminare per la cucina e poi giù, lungo le scale, accompagnato dalle proprie risate.
Alain ha ragione, devo pensare ad un nome.
Il pianto, il suo pianto, mi distoglie dai pensieri, vedo Rosalie avvicinarsi alla culla, avvolgere la bambina in una copertina e avvicinarsi al mio letto.

“Credo che abbia fame...”
Mi posa la bambina tra le braccia, la sento piangere, la vedo agitarsi e il panico blocca ogni mio movimento.
Non so cosa devo fare.
Qualunque cosa debba fare, non so come farla.
“Rosalie io...”
Imploro, con lo sguardo terrorizzato, un cenno d'aiuto.
Con una pazienza infinita la piccola Rosalie mi spiega come nutrire la mia bambina.
Annuisco alle sue spiegazioni donandole un sorriso.

“Vi lascio da sola Madamigella Oscar, sarà nell'altra stanza, se avete bisogno chiamatemi. Buonanotte.”
“Buonanotte Rosalie e... grazie.”

Rimango sola con mia figlia, respiro profondamente e cerco di mettere in pratica le parole appena udite da Rosalie.
Faccio scivolare oltre la spalla, e poi giù lungo il braccio, la mia veste, lasciando scoperto il mio seno, gonfio.
Volto la bambina verso il mio petto, avvicino il suo visino, rosso per il pianto, al mio seno.

“Shhhh piccolina... non piangere.”

Compio innumerevoli movimenti, ma la bambina sembra non volerne sapere di attaccarsi al seno.
Respiro profondamente e tento nuovamente.
Con una mano le cingo il corpo, avvicinandolo, delicatamente al mio petto.
Poso l'altra mano attorno al mio seno, cercando, con la goffaggine di una giovane madre, di placare mia figlia.
Tento di trovare un contatto, sfiorando, col capezzolo, la boccuccia della bambina e, con immenso stupore sento, inaspettatamente, le sue labbra chiudersi attorno.
Guardo le sue labbra carnose succhiare con avidità.
Sento, attorno al mio capezzolo, la sua lingua e la sua bocca bere con forza.
Provo una sensazione che mi è difficile spiegare, un amore smisurato e la consapevolezza d'essere indispensabile, per la sua vita.

“Ahi..”
La dolce sensazione al seno diviene, senza preavviso, un delizioso supplizio.
La piccola mi infligge innumerevoli pizzicotti, il capezzolo mi duole ma non ho cuore di staccarla.
Attendo senza smettere di guardarla.
Attendo fino a quando, sfinita, si addormenta con le labbra ancora poggiate alla mia pelle.
Ed eccoci qui, noi due sole, io e la mia bambina.
La mia bambina.
La nostra bambina, non è bellissima André?
Osservo la sua carnagione rosata, la sua pelle così morbida.
Guardo le sue guance paffute, le sue labbra rosse e piene, il naso, piccolo e rotondo.
Carezzo la sua testa, ricoperta da una leggera peluria.
La osservo e mi pare di vedere i tratti di André, nel taglio degli occhi, nella delicata e quasi impalpabile forma delle sopracciglia.
Si, non vi sono dubbi.
Sorrido di questa nuova scoperta.
Sorrido chiedendomi quale sarà il colore dei suoi occhi, ancora celati da un velo scuro.
Avrai preso l'azzurro del cielo o il verde dello smeraldo?
Avrai lo sguardo della tua mamma o quello del tuo papà?
Guardo questa creaturina, questa vita che è al mondo per merito mio, ma ancor di più per merito di suo padre.
Se il tuo papà non mi avesse amata con una tale intensità, per tutti questi anni, tu non saresti tra le mie braccia, ed io sarei sola.
Sola senza un cuore.
Sola senza l'amore.
Sola senza di te, piccola mia.
Ma non lo sono, grazie ad André, non lo sono.
Grazie a lui ho compreso il mio cuore, grazie a lui ho scoperto l'amore, il suo ed il mio.
Grazie a lui ho avuto te, e tu hai dato un senso alla mia vita.
Questa vita che, in un certo qual modo, sarà sempre dura, non vi sarà giorno in cui io non sentirò la sua mancanza, non vi sarà giorno in cui, il mio cuore a metà, urlerà il proprio dolore, ma avrò te, ed in te rivedrò lui.
In te, piccola, rivedrò tuo padre.
Oh, André, se solo potessi vederla, se solo potessi vedere cosa abbiamo fatto.
Come vorrei averti accanto.
Come vorrei  poterti guardare con nostra figlia tra le braccia.
Come vorrei potermi perdere nel tuo sguardo, in quei bellissimi occhi verdi che splenderebbero guardando la nostra bambina.
Come vorrei poter dire, a parole, quell'amore che nutro per te, anche adesso, oltre la morte.
Come vorrei poterti dire mille volte ti amo.
Ti amo André, per ogni volta che hai placato le mie lacrime, da bambina.
Ti amo per ogni sorriso, ed ogni rimprovero, che mi hai donato.
Ti amo per tutte le volte che mi sei stato accanto, come un ombra, per proteggermi.
Ti amo per ogni volta che hai creduto nel mio amore spaventato.
Ti amo perché hai svegliato la donna che era sopita in me.
Ti amo perché mi hai amato dal primo giorno, nel bene e nel male.
Ti amo perché hai amato di me il bello e il brutto, il buono e il cattivo.
Ti amo perché mi hai insegnato ad amarti.
Ti amo perché mi hai donato lei.

“Ti amo André.”
Sussurro senza vergogna, a questa stanza vuota.
Un sussurro che si posa sulla mia bambina, destandola.
Muove le braccia, stringe la manine in delicati pugni e mi guarda, con quegli occhioni scuri, che ancora mi nascondono il loro colore.
Avvicino il mio viso al suo, inspiro il suo profumo, odoro l'aroma della sua pelle.
Mi avvicino al suo volto e le poso, sulle labbra, un leggerissimo bacio.
Un bacio che ne richiama subito un altro, ed un altro, e un altro ancora.
Bacio le sue piccole mani, i suoi altrettanto piccoli piedini.
Bacio la sua testa, il suo naso, le guance morbide.
Lascio, su ogni centimetro della sua pelle, i miei baci.
Si può amare così prepotentemente al primo sguardo?
Si può.
Io la amo di già, la amo più di qualsiasi altra cosa a questo mondo.
La amo perché è parte di me, la amo perché è parte di André, la amo perché è la purezza del nostro amore.
Ci guardiamo e sui nostri volti vi nascono espressioni interrogativi.

“Sono la tua mamma, piccola.”
Le dico sorridendole.
La guardo e penso che non potrò chiamarla piccola in eterno.
“Hai bisogno di un nome, piccola.”
La scruto cercando di scorgere, in lei, una sorta di rivelazione.
Sono impreparata ad un compito tanto arduo, durante i 9 mesi non ho mai pensato seriamente a dei nomi, cerco di pensare a quelli che sarebbero piaciuti ad André, ma non rammento, nei nostri discorsi, questo tipo di informazione.
Non vi è stato il tempo, tra noi, di palesare il desiderio di un figlio, tanto meno dei nomi che ci sarebbero piaciuti.
Guardo la mia bambina, posandole addosso, come soffi di respiro, i più svariati nomi.
Claude.
Julie.
Cécile.
Adèle.
Nessuno pare adatto al suo volto.

“Riuscirà la tua mamma a trovarti un nome?... che ne dici piccola... che ne dici... Marianne.”
Marianne.
Si, eccolo.
“Benvenuta... Marianne Isabeau Grandier.”




Arras - 13 luglio 1793


“Marianne per l'amor di Dio non ti rotolare così nell'erba!”
“ah ah ah ah”
“Oh signore, Marianne, no! Ti farai male!”
“Uuuuuuuuuh... ah ah ah ah... uuuuuuuuuuuuuh”

Sorrido osservando la vecchia Nanny affannarsi per rincorrere mia figlia.
Mia figlia, la guardo e in lei rivedo me e suo padre.
La guardo correre tra l'erba, da lontano, osservo il vento scompigliarle i deliziosi riccioli scuri che le incorniciano il viso.
Una piccola parte di me e di suo padre.

“La senti tua nonna, André? Non è cambiata in questi anni, è sempre la stessa. Marianne la fa diventare matta, non ne vuol sapere di comportarsi come una signorina, in questo deve aver preso da me! Ah ah ah.”

Siedo sull'erba, accanto alla croce bianca che sovrasta una piccola vallata di Arras.
Una piccola croce bianca su cui vi è inciso un nome ed una data.
Il suo nome.
André Grandier.
Siedo accanto a quella che è divenuta la dimora del mio unico amore, siedo accanto al suo spirito, con un caldissimo sole a baciarmi la pelle.
Siedo sull'erba con la serenità nel mio cuore a metà.
Siedo sull'erba conversando con lui, come se fosse qui, presente, al mio fianco.

“Marianne! Adesso basta!”
“Signora, non vi agitate, ci sono io con lei.”
“Alain! Disgraziato, non ti ci mettere anche tu! Alain, non farla correre!”

Rido, fin quasi alle lacrime.
Rido di Nanny che deve combattere contro Marianne, una personcina che ha, in sé, ciò che eravamo io e André, da bambini.
Due piccole pesti, due piccoli ribelli.
Rido di Alain che pare essere ritornato bambino, con lei.

“Guarda il tuo amico, André, il grande e grosso Alain, più che uno zio, per Marianne, sembra un fratello, un compagno di giochi.
Non fanno che giocare insieme, e lui le ha insegnato una serie infinita di boccacce, per la gioia di tua nonna! Ah ah ah.
In fin dei conti, però, Alain le vuole un bene dell'anima, credo che in lei riveda Diane, e Marianne impazzisce per lui.”

“Mamma!”
La vedo correre verso di me, con le braccia aperte e un enorme sorriso sulle labbra.
La guardo avvicinarsi avvolta nel suo abitino bianco sporcato d'ogni macchia possibile.
Sorrido quando il suo abbraccio, impetuoso, ci fa precipitare all'indietro.
Giaccio sull'erba di schiena, con Marianne sopra di me, le braccia attorno al mio collo e il suo visino a pochi centimetri dal mio.
Ride come una matta.
Ci mettiamo a sedere e lei mi porge qualcosa.

“Ho accolto un fioe.”
Mi dice con la sua parlata incerta.
“Hai raccolto una bellissima margherita Marianne!”
Mi sorride.
“Magheita!”
Le sorrido trattenendo una risata.
“Senti, Marianne, vuoi regalare questo bellissimo fiore al tuo papà?”
“Oh, si, si!”
Mi sorride, si alza dall'erba, compie un paio di passi e poggia, alla base della croce, il suo fiorellino.
La guardo posare un buffissimo bacio sul legno, tra le parole incise, e poggiare, poi, la testina sulla croce, stringendola tra le mani, in uno strano abbraccio.
Mi si stringe il cuore.
Continuo a guardare quello che è divenuto un rituale, per la mia bambina, qualcosa di “normale” nella sua insolita vita.
La guardo allontanarsi di pochi passi dalla croce, voltarsi di nuovo verso di essa, e salutare con la manina.

“Ciao papà!”
Le sento gridare.
La sento ridere e poi scappar via, di nuovo tra le mie braccia.
Osservo il suo volto.
Osservo i suoi occhioni, che pochi giorni dopo la sua nascita mi hanno rivelato il loro colore.
Osservo, con emozione, i suoi bellissimi occhi verdi, un piccolo dono di suo padre.
Guardo la sua pelle, candida come il latte, le sue labbra, piene, così simili alla mie.
Le carezzo le gote, rosse, per il troppo calore di questa giornata di luglio.
Mi guarda, la mia Marianne, mi sorride ed il cuore mi si allarga di quell'amore che non ha confini.
Mi sorride e rivedo il dolce sorriso di suo padre.
L'abbraccio stringendomela al petto e lei, la mia piccolina, risponde al mio amore, poggiando la testa sulla mia spalla e stringendosi, a sua volta, al mio corpo.
Rimaniamo unite per un tempo che pare infinito, fino a quando, l'impazienza della sua età si fa sentire.

“Uhm... io vado dallo zio Alain.”
Mi annuncia seria seria.
“Comportati bene con lui, mi raccomando.”
Annuisce col capo e si allontana in direzione di Alain.
Torno a conversare con André, una consolazione che concedo al mio cuore un paio di volte all'anno, quando veniamo quassù.
Nessuno sembra stupirsene, non più almeno.

“Diventa ogni giorno più bella, la nostra Marianne. Sono felice che abbia preso i tuoi occhi, è come se tu fossi ancora qui con me, ogni volta che poso il mio sguardo nel verde dei suoi occhioni.”
Socchiudo lo sguardo e respiro il calore di questa estate.
Odo la vocina di Marianne tra le risate di Nanny e Alain, la guardo fare la buffona tra loro due.

“La vedi André, nostra figlia? Ha compiuto 3 anni e si sente già una donnina. È caparbia, ribelle, estremamente intelligente, forse troppo per la sua età, ma sa essere anche dolcissima e riflessiva. Saresti orgoglioso di lei. Ti somiglia così tanto, ogni giorno di più.”

Cammino, lentamente, verso quella che è divenuta la mia famiglia.
Li scruto, in silenzio.
Nanny distende una tovaglia sull'erba, è quasi ora di pranzo.
Marianne attira Alain verso di sé, gli sussurra qualcosa all'orecchio e insieme, poi, si distendono sotto le fronde di un albero.
Mi avvicino ai due, senza farmi scorgere, li osservo rimanendo in disparte.

“Ancora Marianne?”
La voce di Alain, stupita.
“Si, zio Alain, accontamela ancoa, ti pego!”
La vocina di Marianne, supplicante.
“Eh va bene... piccola furbetta... C'era una volta, tanto tanto tanto tempo fa, una bambina che viveva in una grande casa, questa bambina aveva tantissimi riccioli come i tuoi, ma di un diverso colore, i suoi erano biondissimi! La bambina bionda era sola e il suo papà decise che avrebbe dovuto avere un compagno di giochi, così un bel giorno arrivò nel grande palazzo un bambino, un dolcissimo bambino con dei bellissimi occhi verdi, come i tuoi...”
“Il mio papà, il mio papà!”
“Si, Marianne, il tuo papà... vogliamo continuare la storia?”
“Si, si!”

Quasi non mi accorgo delle lacrime che mi scivolano sulle guance, delle lacrime lontane, amare, che di tanto in tanto scavalcano i miei occhi.
Provo una fitta al cuore nel vedere l'amore di mia figlia, per quel padre che non ha mai conosciuto con gli occhi, ma che ha imparato a conoscere, negli anni, attraverso le mie parole e quelle di coloro che l'hanno incrociato nella propria vita.
Provo un piccolo dolore nel guardare la nostra Marianne, stringere, tra le mani, un'ormai sgualcita camicia.
Quella camicia che l'ha avvolta, il giorno della sua nascita.
Quella camicia che ci ha protette durante la gravidanza.
Quella camicia che fu di suo padre.
Quella camicia che ora, è divenuta parte di lei.
Quella camicia da cui non si separa mai.
Guardo mia figlia che ha, in sé, un po' di me e un po' di André.
Guardo Marianne e vedo il nostro amore, fuso, in piccoli particolari di noi due.
Guardo Marianne e ringrazio Dio d'avermi donato questa vita.
Guardo nostra figlia e non posso far altro che ringraziarti, André, per avermi amata.
Ti ringrazio, André, per avermi insegnato ad amarti.
Ti ringrazio, André, perché potrò amarti ogni giorno, da qui all'eternità, guardando nostra figlia, nei tuoi bellissimi occhi verdi.


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Ed eccoci qua.
Ed eccoci giunti alla fine!
Alla fine di questa storia che è stata particolarmente difficile per me, questa storia che è nata così semplicemente nella mia testa, inizialmente, ma che si è complicata col passare del tempo.
Non fraintendetemi, ho amato e amo tutt'ora questa storia, l'ho scritta con piacere, ma è stata dura scrivere di qualcosa che non conoscevo.
È dura per me scrivere di ciò che non conoscono, di cose che non ho provato sulla mia pelle, ed in questo caso si tratta di gravidanza, non sono una mamma e quindi è stato complesso esprimere a parole delle sensazioni sconosciute.
Mi sono documentata parecchio ed ho attinto dalla mia vita, ho cercato di ricordare le gravidanze di amiche e parenti eheh
Quando ho iniziato a scrivere questa ff sapevo che sarebbe stata difficoltosa ma soprattutto incomprensibile per alcune di voi, alcune di voi che, giustamente, non contemplano una storia senza André.
Sapevo che questa storia avrebbe suscitato dei sentimenti contrastanti in voi, ma ho deciso di iniziarla perchè non mi è stato possibile ignorarla (le solite vocine nella mia testa eheh).
Durante questa “attesa” ho incontrato dei momenti di sconforto, dei momenti duri, in cui ho pensato seriamente di mollare la storia (ho il brutto vizio d'essere molto critica con me stessa), ma alla fine sono andata avanti, grazie anche alle vostre parole di incoraggiamento.
In particolare vorrei ringraziare Arte, le sue parole mi sono state di grande aiuto, parole a cui tengo molto.
Vorrei ringraziare tutte quante, tutte quelle che hanno lasciato recensioni e quelle che hanno semplicemente leggo.
Vi ringrazio perchè avete trascorso con me questo nuovo percorso, andando magari contro i vostri “gusti”, leggendo una storia che non comprendeva la presenza fisica di André.
Spero che il viaggio, anche questa volta, sia stato piacevole.
Grazie, infinitamente grazie a tutte voi.
Come sempre vi lascio un doveroso inchino.
Baby80

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