In memoria

di Shichan
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Lui che ne avverte la responsabilità ***
Capitolo 2: *** Lui che, di prezioso, cos'ha? ***
Capitolo 3: *** Lui, che muore per vivere ***



Capitolo 1
*** Lui che ne avverte la responsabilità ***


Disclaimer: i personaggi utilizzati sono copyright di Amano Akira (e purtroppo, ci avrete sperato, ma sono ancora viva per rendere la vita dei personaggi un inferno 8D)

Disclaimer: i personaggi utilizzati sono copyright di Amano Akira (e purtroppo, ci avrete sperato, ma sono ancora viva per rendere la vita dei personaggi un inferno 8D)

Prompt: Se quella freccia aveva colpito me, allora non aveva colpito nessuno dei miei compagni e questo era l’importante. (Tabella)

Note: questa è una raccolta. O serie, come volete. Tratterà di nove oneshot, tutte con lo stesso tema (la morte, era intuibile dall’introduzione probabilmente 8D).

Una per guardiano, dove Mukuro e Chrome ne hanno due distinte o sarebbe venuto un patatrac assurdo, e una finale ha la sorpresina e probabilmente sarà una flashfic. Ma devo arrivarci per esserne sicura.

Comunque non odiatemi per tutta questa emoness x°

Ringraziamenti: a chi ha letto e soprattutto chi ha recensito “Solo stavolta”, ossia bleachnaruto e pralinedetective <3

Un grazie anche a Yoko891 che me l’ha commentata in diretta <3

 

Lui che ne avverte la responsabilità

Se quella freccia aveva colpito me,

allora non aveva colpito nessuno dei miei compagni

e questo era l’importante

 

Se guardano Ryohei, a tutti loro viene in mente un adolescente che grida.

Sembra stupido, e in alcuni casi può anche dare l’impressione di un’associazione un po’ irrispettosa, ma se ci si sofferma a pensarci un attimo è del tutto naturale.

Sasagawa Ryohei era esattamente quello: il senpai che tanto senpai non sembrava, che pareva avere l’impulsività nel sangue e a volte qualcosa che somigliava al voler attaccar briga.

Magari a qualcuno sembrava pure spaventoso.

Tsuna non è molto d’accordo: quando lo guarda, gli viene in mente la stessa cosa che pensò la prima volta quando il compagno non era molto di più del “fratello maggiore di Kyoko-chan”.

Ossia che Sasagawa Ryohei è una persona sincera.

Ha quell’indole – quella cosa che sembra un po’ circondarlo, un po’ che venga emanata – che ti mette a tuo agio; non ha il modo di fare snob di alcuni, e Tsuna è sempre stato convinto che tanti lati del carattere di quello che sarebbe poi diventato il suo Guardiano del Sole, erano solo facilmente fraintendibili in altri.

L’impulsività era anche spontaneità.

La volontà di attaccar brighe era solo sincerità nell’affrontare le cose, perché Ryohei non era mai stato tipo da pensare troppo a ciò che doveva fare o dire: lui, senza un filtro che collegasse la testa alla bocca, parlava semplicemente come si sentiva di fare.

A volte forse poteva sembrare rude, o magari poteva rappresentare un problema perché non era il massimo per mantenere un segreto, ma con il tempo tutti crescevano e cambiavano e Ryohei aveva capito che c’erano cose che nonostante la sincerità e la schiettezza non dovevano essere ripetute mai.

 

Il Guardiano del Sole, se lo guardavi ora, sembrava non fosse mai cambiato davvero.

Anche a distanza di più di dieci anni dal periodo adolescenziale, c’erano cose che nemmeno il tempo aveva reso mutabili.

Per esempio, con Gokudera non aveva mai smesso di litigare: forse perché erano due teste calde e soprattutto due testardi cronici. O magari perché, l’uno più “gentilmente”, l’altro molto più offensivo, erano entrambi troppo schietti per non riuscire a dirsi in faccia di tutto.

Dagli insulti, ai complimenti – quelli di Gokudera sempre mascherati da sufficienza – ai consigli che ci si dà solo fra amici.

Ryohei era ancora quello incapace di pronunciare una frase senza piazzarci dentro la parola “estremo”; era ancora la stessa persona che aveva cuore e fegato di piantarsi davanti ad Hibari e dirgli che sbagliava – forse più che coraggio era una sorta di complesso masochismo sviluppatosi negli anni, quello era ancora un mistero in verità.

Lui era ancora a dir poco iperprotettivo con sua sorella; forse ora arrossiva di meno quando si parlava di lui e di Hana, insieme, intesi come una coppia – i primi tempi era stato quasi divertente vederlo accendersi come una lampadina e urlare persino più forte di quanto già non facesse.

Ryohei, a ben pensarci era un po’ cresciuto, un po’ ragazzino: anche se ancora, tutti lo chiamavano “senpai” o “niisan”.

In un modo o nell’altro.

 

E dire che quando ne avevano parlato,

Ryohei aveva riso e aveva detto:

“Ce la faremo all’estremo!”

 

Per un attimo, a Tsuna viene da sorridere.

Non che sia il momento, ma gli è tornato in mente un fatto.

Ryohei, per forza di cose, si era diplomato l’anno precedente al loro e c’era stato quindi il periodo della loro terza media che era coinciso con il primo delle superiori per lui.

La sua scuola non era molto lontana – così gli aveva detto Kyoko – ed era capitato più volte che, quando gli orari lo permettevano, venisse ad aspettarli all’uscita in una sorta di richiamo dei vecchi tempi.

O almeno un tentativo di farlo apparire tale.

Inizialmente, Tsuna ricordava quanto fosse stato facile e logico attribuire la sua presenza in primis al non voler far tornare Kyoko a casa da sola e poi, ovviamente, anche al voler passare del tempo con loro.

Tuttavia era stato più certo il primo motivo che non il secondo, semplicemente perché Ryohei non era un tipo particolarmente malinconico – forse anche perché non sprecava molto tempo a pensarci più: era la classica persona che, se gli mancava qualcuno, sarebbe stata capacissima di andare a trovare il malcapitato anche in piena notte.

Nessuno aveva badato troppo alle volte in cui, avvicinandosi al cancello, la figura di Ryohei che agitava una mano in loro direzione era stata riconoscibile, mentre un «Oooohi!» gridato fin troppo forte e che attirava l’attenzione li aveva spesso messi in imbarazzo nel mezzo del cortile della scuola.

Poi, un giorno non si era presentato per la sorpresa di tutti i compagni – tutti tranne Hibari e, naturalmente, Mukuro che non erano lì.

Tsuna aveva dato voce al pensiero di tutti con un: «Chissà come mai oggi non c’è.» che era stato seguito da un paio di mormorii e una risata leggera e divertita, che in breve era stata attribuita a Kyoko, che aveva portato una mano a coprire la bocca educatamente.

I tre ragazzi l’avevano osservata perplessi e in breve lei aveva dato una spiegazione.

«Aveva una visita scolastica in città con la sua classe. Non sapete quante storie ha fatto questa mattina.» aveva detto destando la loro curiosità e lanciandosi in quella che Tsuna ricordava essere stata una delle imitazioni più spassose ai danni di Sasagawa Ryohei.

«Un vero uomo non può abbandonare la sorella per una visita al museo! I fossili dovranno venire da me, per essere osservati mentre tengo fede al mio impegno di venirvi a prendere all’estremo!» aveva pronunciato, alterando un po’ la voce – anche se l’effetto non poteva raggiungere un livello soddisfacente per assomigliare a Ryohei – facendo ridere di gusto Yamamoto e borbottare contrariato Gokudera.

Tsuna era rimasto perplesso, ma non negativamente.

C’era qualcosa che gli era sfuggito di Ryohei per tutto quel tempo e che solo quella volta aveva davvero compreso.

Perché anche se parlava spesso senza pensare, non significava che l’altro abusasse della parole senza conoscerne il peso; se aveva detto “impegno”, non era stato casuale.

Di quello Tsuna si era accorto mentre Kyoko-chan raccontava ridendo.

 

Mentre quelle parole ancora, impietose,

rimbombavano nelle sue orecchie,

Tsuna si guardava intorno,

e si ripeteva che avrebbe dovuto saperlo.

 

Da quella volta Tsuna aveva guardato Ryohei con un rispetto nuovo, diverso.

Non era tanto quello che si rivolge naturalmente ad un compagno più grande, ma somigliava più a quando un amico fa qualcosa per te e nonostante tu sapessi quanto potesse essere un compagno fedele, ne rimani così meravigliato che non puoi fare a meno di sorridere e sentirti scioccamente un po’ in soggezione.

Anche ora, mentre guarda Ryohei che sta in piedi ferito e gli intima di restare indietro perché “ce la farà combattendo come sempre all’estremo”, Tsuna non distoglie lo sguardo da lui perché animato dallo stesso tipo di rispetto.

Anche se deve prestare attenzione alla propria battaglia, e al tempo stesso ai suoi compagni – se Reborn lo vedesse lo sgriderebbe, perché davvero non è un lusso che può permettersi quello di non focalizzare l’attenzione sul proprio avversario – lo sguardo torna su Ryohei istintivamente.

Parte della Famiglia. Ma anche della famiglia.

Tsuna questa differenza l’ha sempre marcata: spesso qualcuno l’ha ripreso con un sorriso bonario, fra i suoi sottoposti.

A volte, quando parlava davanti a tante persone e non usava “Famiglia” ma l’equivalente in giapponese, qualcuno lo definiva persino carino.

Si confonde con la lingua madre, è normale, gli viene istintivo, dicevano.

E Tsuna sorrideva; lui non sbagliava, lo faceva coscientemente e di proposito.

Perché la Famiglia era il legame della Mafia che li univa tanto quanto minacciava di dividerli con la morte.

La famiglia invece era un tipo di legame che non era di sangue come avrebbe dovuto essere forse, ma uno nel quale Tsuna riusciva a riversare molti più sentimenti e tanta, tanta fiducia in più.

Forse, ingenuamente voleva qualcosa con un concetto simile ma che il pericolo e la morte non potessero strappare via.

 

Spesso il lieto fine non esiste.

 

Tsuna avrebbe dovuto saperlo.

Sente un gemito e incautamente si volta; individuare il Guardiano del Sole che boccheggia a terra è facile e inquietante per quanto si rivela semplice.

Concentra le fiamme, scatta in avanti.

Deve salvarlo. Non lo può perdere.

Non può perdere nessuno di loro.

Assolutamente.

Per nessun motivo.

Se morissero, lui che Boss sarebbe?

Se morissero, lui che uomo sarebbe?

Se morissero, lui… che amico sarebbe?

Non può e non deve permetterlo.

Per niente al mondo, perché non c’è niente che valga la loro vita.

Nessuna Mafia, nessun potere, nessun anello, nessun futuro.

Nemmeno la propria stessa vita vale la loro; perciò non fa nulla se il suo avversario sta approfittando della sua distrazione – tale la crede, lo sente perché lo intuisce, perché il proprio potere è sempre stata un’arma a doppio taglio a suo dire.

Lo sente, che il colpo di qualcosa parte – non sa se è l’arma del suo avversario, la sua abilità, o la sua Box Weapon.

A dire il vero, anche se sa che non è molto saggio ammetterlo né è qualcosa di cui vantarsi, non gli interessa; non riesce a pensare alla propria incolumità al momento.

Non è masochismo, né voglia di fare l’eroe.

È solo che il Decimo Boss dei Vongola è così, non ci riesce e basta.

I suoi Guardiani lo sanno.

Anche Ryohei.

 

Anche se inizia bene,

qualcosa non è detto che debba finire ugualmente bene.

 

E dire che Tsuna dovrebbe saperlo da quel giorno di più di dieci anni fa.

Da quando Kyoko-chan ha fatto quell’imitazione e chi più chi meno ha riso.

Proprio lui che se ne è accorto, avrebbe dovuto calcolarlo, prenderne atto, immaginarlo.

E fare di tutto per impedirlo.

Lui l’aveva capito, che Ryohei era proprio quel tipo di persona che sente su di sé responsabilità che nessuno ha mai contribuito ad affidargli, ma che appartengono a quella categoria che ti addossi da solo senza chiedere niente agli altri.

E che, se anche ti dicono che non sono cose che ti competono, una volta che te le sei fatte aderire addosso come un vestito non puoi più ignorarle o cancellarle.

Che, molto tempo prima, Ryohei aveva deciso di occuparsi di tutti loro.

Come un fratello maggiore.

Perché probabilmente, proprio lui era stato il primo ad accorgersene.

Di quanto quella famiglia fosse importante per tutti loro.

 

Poi, ci sono quelle volte lì.

 

Tsuna allunga una mano, ma Ryohei si alza.

Un sorriso sollevato che lo fa sembrare nuovamente un quindicenne un po’ ingenuotto nasce sulle sue labbra e muore l’istante dopo.

Quando Ryohei stringe i denti.

Vuol dire che ovunque lo abbia colpito l’avversario, deve far male.

Vuol dire che il sangue che vede, non è un gioco da illusionisti.

Vede Ryohei allungare la mano, e afferrargli la spalla con tutta la forza – non ne ha poca, e Tsuna istintivamente chiude un occhio in un gesto istintivo – e spingerlo via.

Sente il contatto col terreno duro, e gli scappa un gemito leggero, più che altro quando sbatte la testa.

Si tira quasi subito su però, perché di perdere tempo non se lo può permettere.

Apre gli occhi, e la prima cosa che vede lo porta a sperare e pregare contemporaneamente per la prima volta.

Ma qualcosa dentro di lui si rende conto che non serve.

Quasi gli suggerisce che Dio la Mafia e chi la compone non la osserva mai – forse punisce tutti i suoi appartenenti per i delitti commessi proprio così.

E dire che di morti ne ha viste, Tsuna, da quando è il Boss dei Vongola: ma forse, sono quelle cose a cui non ci si abitua mai.

Ryohei ha un’espressione dolorante mentre una macchia scarlatta si allarga sotto di lui come una fiume che straborda dall’argine e si estende ad una velocità nauseante e terrificante.

Tsuna non sa cosa lo spaventa di più: se è la velocità del sangue, la vista dello stesso, o la consapevolezza che è qualcosa di grave.

Di tanto grave.

Qualcosa che aveva promesso di non far accadere.

Assolutamente.

Assolutamente.

Per nessun—

«Ohi, Sawada…»

Lo fissa, lo ha sentito.

Ma non riesce a muoversi.

«Visto? Ce l’ho fatta… all’estremo, no?»

Se è una battuta, non è in vena.

E se invece è un gioco di parole, beh lui non ce l’ha la lucidità di risolverlo adesso.

Perciò…

«…fratello, non è divertente.» sussurra.

Infondo, è e rimane un bamboccio questo Boss dei Vongola.

Ryohei ridacchia, o è a lui che sembra tale quel colpo di tosse che gli fa sputare sangue?

«Non lo è. Ma all’estremo io… vi ho protetti.»

Sono le ultime parole che sente.

Le ultime pronunciate.

Un sospiro vago e un silenzio nel chiasso di una battaglia che lo sta per trasformare in un mostro.

Se lo sente addosso.

Si sente tirare via, lontano da un corpo che di vita non ha più nulla se non un tepore che tanto diventerà gelo prima che quella battaglia sia finita probabilmente.

«…Lasciami, Hibari-san.»

Un colpo secco e diretto che gli fa voltare il viso.

«Non morirò per un Boss da cui non accetto ordini. Ma tantomeno morirò per uno così debole come te.»

Sa solo incurvare le labbra a quelle parole, ma il Guardiano della Nuvola gli ha già voltato le spalle.

Qualcuno ride di lui.

Qualcuno vicino al corpo di Sasagawa Ryohei.

Nemmeno lo guarda, scatta solo in avanti.

Ti ammazzo.

 

Quelle volte in cui,

persino,

inizia male.

 

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Capitolo 2
*** Lui che, di prezioso, cos'ha? ***


Disclaimer: i personaggi utilizzati sono copyright di Amano Akira

Disclaimer: i personaggi utilizzati sono copyright di Amano Akira.

Prompt: È bizzarro. Per me, avere qualcosa che desidero “proteggere”… mi chiedo, non mi fa sembrare come se fossi “umano”? (Tabella) 

 Note: seconda shot della raccolta; no, non ero morta, è il periodo esami che manda in giro voci che sostengono io lo sia u_u

Mi scuso da adesso se troverete un Hibari OOC. Ho cercato seriamente di ragionare come lui per trarne qualcosa più IC possibile, ma essendo una che ragiona molto alla Tsuna, credo sia stata un’impresa davvero.

Segnalate pure senza problemi se lo trovate assolutamente “non-Hibari” >_<

Ringraziamenti: a i lettori e coloro che hanno recensito il precedente capitolo in particolare, ossia Xemyd e pralinedetective.

 

Lui che, di prezioso, cos’ha?

È bizzarro. Per me, avere qualcosa che desidero “proteggere”…

Mi chiedo, non mi fa sembrare come se fossi “umano”?

 

 

«…Lasciami, Hibari-san.» sono le parole che ha sentito pronunciare a Sawada Tsunayoshi, con quel tono che è sempre stato tipico di lui da quando era un ragazzino delle medie e che, allo stesso modo, ha sempre irritato Hibari.

Un colpo secco e diretto è quello che si scontra con il viso di Tsuna, seguito dalla voce imperiosa del Guardiano della Nuvola che è raro si faccia sentire, ma quando accade lo sanno tutti che non è un bene.

«Non morirò per un Boss da cui non accetto ordini. Ma tantomeno morirò per uno così debole come te.» sono le parole che seguono quel colpo che non è stato un ceffone, dal momento che a causa della battaglia che imperversa lì attorno a loro non ha potuto di certo prendersi la briga di abbandonare i tonfa.

Non che se la sarebbe presa comunque.

Hibari non rimane ad aspettare che Tsuna alzi lo sguardo come in quelle scene da film scadenti che suo malgrado almeno una volta nella vita ha intravisto; si volta e gli dà le spalle, per tanti di quei motivi che ci sarebbe da spiegarli uno per uno.

Ma Hibari Kyoya non è mai stato uno loquace, e il Boss lo sa meglio di chiunque altro.

Per questo non lo ferma, non azzarda a rimproverarlo, non dice nulla: l’unica cosa che Hibari sebbene di spalle lo avverte fare, è scagliarsi contro quello che ha colpito Sasagawa.

Al cui corpo lui rivolge lo sguardo per qualche istante – non è che la battaglia sia finita, o che lui ne sia fuori: semplicemente forse è convinto di potersi permettere un lusso come quello.

O forse è il movimento che segue a renderlo ancor più altezzoso di quanto non sia già fin dalla tenera età adolescenziale; si abbassa velocemente, il tonfa che implacabile e con un movimento secco si pianta nello stomaco dell’imbecille che ha cercato di prenderlo alle spalle.

Non si dà nemmeno la pena di lasciarsi sfuggire uno “tsk” dalle labbra, forse considerandolo fin troppo per uno così.

Hibari fissa quel presunto avversario – decisamente ed immancabilmente non alla sua altezza – piegarsi in avanti, dolorante e con un gemito, le mani portate a coprire istintivamente la parte lesa.

Se Hibari Kyoya fosse un Guardiano obbediente, ora dovrebbe stordirlo, e dedicarsi agli altri avversari nello stesso modo.

Se fosse della stessa pasta del suo Boss – ingenuo, stupido e sempre schifosamente debole a dispetto del miglioramento delle sue doti combattive negli ultimi dieci anni – dovrebbe seguirne senza indugio la linea di condotta.

Se Hibari Kyoya non fosse il Guardiano della Nuvola, e non fosse semplicemente “Hibari Kyoya”, probabilmente farebbe tutto ciò.

Ma lui è esattamente questo.

E tutti loro, adesso, sono in guerra.

Se ne frega, di quanto Sawada Tsunayoshi piagnucolerà alla fine, guardandolo come se Hibari fosse stato un bambino cattivo e col coraggio – forse unico altro cambiamento rispetto a dieci anni fa – di dirgli che non è assolutamente d’accordo con quello che ha fatto; lo ha già detto una volta, e non ama ripetersi.

Non ha nessuna intenzione di morire per lui.

Le labbra si incurvano in un sorriso che i suoi nemici hanno imparato a temere e riconoscere, senza poter tuttavia sfruttare la cosa a loro favore.

Avanza veloce, silenzioso; colpisce.

Non per stordire.

Per uccidere.

 

Ci sono volte,

in cui Hibari ancora se lo domanda.

Perché mai si sia fatto coinvolgere.

 

Come in uno stato di trance, Hibari ha notato fin dalla prima volta che quando uccide la sua mente si svuota completamente.

Di solito, qualcosa invece dovresti pensarla eccome: può variare dalla paura di sporcarsi le mani del sangue altrui, o dall’idea di stare privando qualcuno della vita.

Oppure può essere il senso di nausea, l’odore di sangue e di morte che penetra così a fondo nelle narici che sembra mandarti in pappa il cervello, persino.

Ma Hibari di questo non ha mai sentito nulla.

Nemmeno il senso di vittoria o la voglia di combattere ancora, e ancora, sperimentate entrambe in tutti gli scontri fatti alla costante ricerca di “qualcuno ancora più forte”.

La prima volta che ha ucciso, Hibari se la ricorda bene: in realtà non rammenta cose come il volto della sua vittima, o le notti passate in bianco tormentato dal rimorso di un atto così orribile – al contrario, non ha mai avuto il sonno disturbato da cose simili.

Quando ci pensa, la maggior parte delle volte involontariamente e con l’unico risultato di innervosirsi più del solito, a Hibari torna in mente il se stesso di sette anni prima.

Il Guardiano della Nuvola che appena diciannovenne, in un vicolo e fradicio fin dentro le ossa per il diluvio che sembrava sfidare la sua già scarsa pazienza, osservava ai propri piedi un corpo senza vita.

La presa sui tonfa più debole anziché rafforzarsi, lo sguardo annoiato anziché colpito da qualcosa – disgusto, rabbia, oppure senso di vittoria, anche quello sarebbe andato bene.

Nulla.

Forse, una vaga sfumatura di delusione senza nemmeno poterla quantificare o collegare a qualcosa di preciso.

L’unico pensiero che Hibari aveva formulato era stato: “E quindi?

L’altro ricordo è molto più fastidioso, invece, ed è forse l’unica cosa che avrebbe potuto farlo esitare in merito all’uccisione di qualcuno – ma solo per il tempo sufficiente a far pace con se stesso del fatto che ancora una volta Sawada Tsunayoshi avrebbe messo a dura prova i suoi nervi.

 

Mentre uccide quello che probabilmente è il terzo avversario senza che l’espressione muti minimamente, Hibari si dice che non ha tempo di stare a fare il sentimentale abbandonandosi ai ricordi.

Avverte poi in quel momento qualcosa toccargli le spalle, alla quale non reagisce perché è un tipo di presenza che – purtroppo, sostiene lui – si è abituato a riconoscere.

E l’attimo dopo la voce del Guardiano del Cielo lo raggiunge con la frase che meno di tutti ha voglia di sentirsi rivolgere. Men che meno con quel tono.

Quello del Sawada ragazzino che non sopportava già alle medie, figurarsi adesso.

Perché non si può essere così… buoni.

«Hibari-san… non farti uccidere.» lo sente pronunciare alle proprie spalle.

Si morde il labbro inferiore, trattenendosi dal dare le spalle a chi si ritrova a fronteggiare per assecondare il desiderio pressante di pestare lui a sangue anziché i teorici nemici.

«Lo stai raccomandando a me o a te stesso, Sawada Tsunayoshi?» è l’unica replica che gli concede.

Poi, scatta in avanti.

 

Di solito, non si dà una risposta.

Non perché non ce l’abbia.

Semplicemente, l’unica trovata non gli piace per nulla.

 

C’è un momento in cui l’unica cosa che gli arriva all’orecchio sono i rumori della battaglia.

Fosse un altro, potrebbe voltarsi per cercare con lo sguardo i compagni nel terrore che quel silenzio sia dovuto alla loro sconfitta.

Non lo fa perché in primo luogo non pensa a loro come compagni.

Tanto più, poi, che se fossero rimasti uccisi non sarebbe effettivamente affar suo, se non per il dover riconsiderare il numero di nemici che da lì a qualche secondo punterebbe a lui.

Ma appunto per questo, dal momento che sono ancora un numero decisamente basso, la cosa lascia supporre che ci sia ancora qualcuno di vivo, o che si siano uccisi a vicenda.

Poco male, in tutti e due i casi.

Dei suoi avversari ha perso il conto; di alcuni, lo ammette, non si è nemmeno dato la pena di controllare se fossero effettivamente morti o solo fisicamente non in grado di alzarsi ancora una volta ed essere una minaccia.

Nella sua testa, non c’è nulla.

Non pensa a come muoversi, gli viene istintivo.

Non pensa a “cosa succederà dopo”; nemmeno se un dopo ci sarà.

Non se ne stupisce nemmeno.

La sensazione di vuoto è troppo familiare, per iniziare a preoccuparsene dopo anni.

Come il motivo per cui combatte: si è così abituato a trovarlo guardando una qualsiasi strada o parte di Namimori, che non serve davvero pensarci.

Con la coda dell’occhio nota un movimento alla propria sinistra, che comunque sarebbe stato evidenziato dalla voce di Tsuna che notandolo, ha gridato: «Ryohei!» come se il Guardiano del Sole potesse ancora rispondergli o prestargli attenzione.

Hibari si è mosso d’istinto, senza soffermarsi a capire il motivo di quel richiamo; veloce, ha colpito alla base del collo la causa di quel movimento notato da solo e si è ritrovato fra gli avversari e il corpo di Sasagawa.

«Hibari-san!» si sente richiamare dal Boss dei Vongola e stavolta ne ha davvero le palle piene di quella voce che dimostra quanto persino quell’inguaribile ottimista di Sawada si stia lasciando manovrare da qualcosa che somiglia fin troppo alla disperazione.

Lo stesso tono di un ragazzino che continua a fingere di non stare piangendo quando l’adulto davanti a lui nota il continuo singhiozzare e gli occhi lucidi.

Hibari, nel caos di quella battaglia che ha mandato a farsi fottere la sua pazienza già da un pezzo, rivolge uno sguardo a Tsuna, uno soltanto.

Ed è almeno dieci volte più inquietante di quelli che normalmente lancia quando sta meditando sul serio di toglierti di mezzo una volta per tutte.

«Sta zitto.» è tutto ciò che sa dirgli, con un tono che sembra più che altro assicurargli che quando avranno finito con questi, toccherà a lui.

Torna a guardare di fronte a sé.

 

L’unica cosa, di quella storia dei Guardiani,

che Hibari avesse mai accettato,

era il fatto che lui potesse agire liberamente.

Senza mescolarsi a quei bambocci.

Specie Sawada Tsunayoshi.

 

Quello che evinse dalla sua prima uccisione, è forse l’unica cosa che ha tenuto a mente di sua volontà per tutto quel tempo.

Ossia che, se uccidere non gli trasmetteva nulla di particolare, allora era probabile che fosse particolarmente tagliato per farlo.

Che forse, lui dalla morte non veniva toccato – perché o per come, non gli interessava granché.

Con gli anni aveva persino azzardato una spiegazione logica; non che ci avesse perso troppo tempo a pensarci su: era solo scivolata silenziosa nella sua mente, come un’ovvia deduzione, e lì si era stabilita prima ancora che lui se ne accorgesse.

Forse, uccideva con facilità perché non c’era qualcosa che temesse di perdere.

Magari un po’ era anche la cosiddetta “sventatezza”: dal momento che uccidere implicava tenersi pronti ad essere uccisi a propria volta in un ambiente come la mafia, e visto che lui dei propri mezzi non aveva mai dubitato, non conosceva la paura che avrebbe animato ogni persona normale.

Ne aveva dedotto, senza sentirsi particolarmente toccato nemmeno da quello, che forse “normale” non era.

E si era ritrovato a sorridere ironicamente al pensiero delle voci che avevano spesso popolato i corridoi della scuola media Namimori.

Hibari-san non è umano, ti dico!

…E chissà che non tornasse utile, si era detto.

Perciò alla luce di tutto questo, si stupisce un po’ della situazione al momento.

Prova quasi ad immaginarla vista dall’esterno – il fatto che sembrino aver vinto quella battaglia, a giudicare dai cadaveri che li circondano e dalla ritirata dei pochi che si suppone siano sopravvissuti, e che quindi gli altri Guardiani lo stiano ora fissando preoccupati e agitati aiuta abbastanza, oltre ad innervosirlo.

Incurva le labbra in una smorfia di scherno.

Chissà se anche le sue vittime sono state tanto schifate sentendo il sangue sgorgare da una ferita.

Chissà se loro erano animate dal terrore, anziché da un misto di sensazioni come irritazione e derisione,  inadeguate ad uno che sta morendo.

«Hibari! Non azzardarti a morire, che cazzo!» sente sbottare con la solita finezza il Guardiano della Tempesta e Dio solo sa quanto rimpiange di non vederlo bene abbastanza da far affondare dolorosamente un tonfa in una qualsiasi parte del suo corpo.

Lo vede agitarsi e non ci vuole nemmeno credere che sia così idiota, quando sente qualcosa che è inconfondibilmente stoffa tamponare il punto da cui il sangue sta uscendo.

«Yamamoto, dove cazzo è la squadra medica?!»

«Sta arrivando, Lambo li ha chiamati un attimo fa!»

Agitati e casinisti come al solito.

Allunga una mano per togliere di mezzo quella di Gokudera Hayato, che probabilmente intuisce il movimento che sta per fare o più semplicemente lo aveva già messo in conto.

Almeno a giudicare dalle parole che gli rivolge: «Per una cazzo di volta, collabora e lascia fare agli altri, imbecille!» con il tono di chi sta cercando di… salvarti la vita, sì.

Non c’è paragone più appropriato in effetti – in realtà, non è un paragone, ma la realtà.

Nel momento che si prende per recuperare abbastanza forza da rispondergli tagliente come farebbe ogni volta, Hibari è costretto a dargli atto di una cosa.

Di quel “imbecille” che il Guardiano della Tempesta gli ha rivolto.

Chissà cosa gli ha detto il cervello, a lui che a combattere è forse più abituato di tutti loro messi assieme, di fare una cosa tanto stupida come chiudersi in un angolo.

Con la coda dell’occhio, cerca qualcosa al proprio fianco e la individua.

Il corpo di Sasagawa, il sangue ancora fresco benché ormai abbia smesso di sgorgare ingrandendo quella macchia sotto di lui.

Socchiude gli occhi, mentre le voci di quei due iniziano ad arrivare un pelo più ovattate, come se ci fosse qualcosa che interferisce perché possano invece essere chiare e distinte.

Se solo pensa che sta morendo per essersi messo fra un corpo senza vita che di essere difeso non aveva bisogno e dei nemici, dandogli la possibilità di sopraffarlo, gli monta su una rabbia che nemmeno lui saprebbe come sfogare in condizioni normali.

Ecco perché con quelli non voleva avere niente a che fare fin dall’inizio.

Sente qualche movimento, e la voce di Yamamoto Takeshi che lo raggiunge poco dopo insieme alla sensazione di una pressione diversa della stoffa contro la propria ferita gli lascia supporre – per grazia ricevuta di un barlume residuo di lucidità – che il Guardiano della Tempesta si sia allontanato.

«Cerca di resistere.» lo sente dire, il tono asciutto.

Perché se deve dare atto di qualcosa a qualcuno, almeno il Guardiano della Pioggia è sempre stato uno che di fronte a situazioni come quella non ha mai fatto piagnistei inutili.

È forse l’unica cosa che ha imparato non ad apprezzare, ma almeno a non disprezzare di lui.

«Non puoi toglierci il gusto di prenderti in giro per aver finalmente mostrato un lato umano come tutti difendendo un legame importante.» aggiunge, con il tono stupido di quando era studente e sembrava geneticamente incapace di prendere sul serio qualcosa.

Hibari apre gli occhi, cercando di metterlo a fuoco.

Non ci riesce, ma finge di sì, incurvando le labbra nel sorrisetto arrogante che è parte di lui.

«Non offendermi.» è l’unica frase che gli rivolge.

Legame importante? Figurarsi.

«Non ho pazienza… di ascoltare i piagnistei del vostro Boss.» è la spiegazione che dà.

Non è casuale, quel “vostro”, Hibari col tempo aveva preso ad usarlo spesso.

Quasi a sottolineare tutte le volte, che lui è fuori da quella famigliola felice improvvisata.

«Hibari-san!» si sente chiamare e non vuole credere di avere così tanta sfortuna fino alla fine.

 

«Hibari-san, lo hai… ucciso?»

Era stata quella la domanda che gli aveva fatto,

guardandolo come se non volesse crederci.

E come sempre,

la risposta era stata uno sguardo rivolto altrove,

e il silenzio che riempiva la stanza.

«…Mi dispiace.»

 

«Hibari-san…?»

Nemmeno lo vuole guardare.

Sa già cosa vedrà: la solita espressione colpevole, di chi si addosserà completamente la colpa anche quando non è sua – non sarebbe la prima volta, d’altronde.

Vedrà la faccia dispiaciuta e che sembra costantemente suggerirti che hai la sua pietà.

E d’altra parte, Sawada Tsunayoshi ha sempre avuto compassione anche per chi non se la meritava, per chi la rifiutava e per chi non sapeva che farsene.

Come i nemici, tanto per dirne una.

O come lui.

«Hibari-san…?»

Ecco, se lo sente ripetere di nuovo il suo nome con quel tono da ragazzino piagnucolone che un boss della mafia di venticinque anni non dovrebbe avere, giura che sfrutterà il suo ultimo respiro per chiudergli la bocca una volta per tutte.

«Hibari—»

Ora basta.

«Sta… zitto.» sibila, il tono incrinato da una fitta di dolore, suo malgrado: «Non sopporto i tuoi piagnistei, erbivoro.» aggiunge, perfino.

Lo vede sorridere come l’idiota che è.

E chissà perché, gli è venuto di chiamarlo così dopo anni.

«Mi dispiace… Hibari-san.» lo sente pronunciare, e gli torna in mente quel ricordo che ogni volta che uccideva qualcuno faceva sempre capolino, come un infantile scherzo di pessimo gusto.

 

Quel “mi dispiace”,

che Sawada Tsunayoshi gli aveva rivolto,

lui cosa significasse lo aveva sempre saputo.

Non si scusava di averlo costretto ad uccidere.

Né di averlo messo in mezzo alla mafia.

Di quelle cose, si era scusato a sufficienza per anni.

Quello che intendeva, probabilmente, era…

 

«Appena mi alzo… ti morderò a morte.» lo minaccia.

Adesso è troppo stanco.

Per minacciarli oltre.

Per allontanare quell’inutile pezzo di stoffa impregnato di sangue.

Per prestar loro ancora attenzione.

Per dire addio.

 

…semplicemente “perdonami”.

Senza un motivo, o forse per tutto.

Tsk, degno di lui.

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Capitolo 3
*** Lui, che muore per vivere ***


Disclaimer: I personaggi sono copyright di Amano Akira

Disclaimer: I personaggi sono copyright di Amano Akira.

Prompt: “Our souls will surely meet again” (Tabella)

Note: io dovrei seriamente smetterla di scrivere della morte di questo pg. Mi uccide tutte le volte.

Perdono per il ritardo: la sessione estiva mi ha letteralmente sfiancata e questa raccolta ne ha pagato le conseguenze ^^”

Ad ogni modo sarà sicuramente completata, anche se a intervalli irregolari. Perciò, per chi legge, vedrete la fine, parola di Shichan u_u (che magari non suona rassicurante, ma facciamo di sì, su.)

Ringraziamenti: a chi legge e chi commenta. Nello specifico chi ha commentato il precedente capitolo Rocker 666 e pinkstone, e Lambo556 che ha commentato in separata sede <3

 

Lui, che muore per vivere

Our souls will surely meet again

 

Gokudera esce dalla stanza, richiudendosi la porta alle spalle e solo quando è certo che quella superficie in legno nasconda ogni suo gesto ed espressione azzarda a lasciarsi sfuggire un sospiro fra le labbra.

Yamamoto è lì, se lo ritrova quasi di fronte: poggiato al muro attende in silenzio, le braccia incrociate al petto.

Non sorride; persino uno come lui, può avere quell’espressione lì.

Gokudera la guarda, e stringe i pugni. Quell’espressione è quasi uno schiaffo che lo sveglia, che sveglia tutti loro e dice che “è così che sta andando davvero”.

Accanto a Yamamoto, Chrome ha lo sguardo che non nasconde la preoccupazione né la maschera, al contrario di quello che gli altri Guardiani fanno – o tentano di fare.

Cerca palesemente qualcosa nello sguardo di Gokudera che scuote la testa, e si morde il labbro inferiore – Yamamoto aggrotta appena le sopracciglia, arrabbiato e comprensivo al tempo stesso, come solo lui è in grado di essere. Quasi sente che tipo di pensieri stia facendo il Guardiano della Tempesta.

Le parole che Gokudera pronuncia glielo confermano, anche se non ne avrebbe davvero bisogno.

«Se non riusciamo nemmeno ad evitare che si riduca a quel modo… perché siamo qui?»

 

 

Tsuna lascia che Gokudera si congedi, cercando di assumere l’espressione più rassicurante che gli riesce; sa fin troppo bene del vizio – che lui ha comunque sempre considerato un pregio – del suo braccio destro di preoccuparsi eccessivamente e costantemente.

Tuttavia, tira un sospiro di sollievo quando finalmente la porta si chiude alle spalle dell’altro.

Sposta il peso indietro, sulla poltrona che è dietro la scrivania e lascia che la schiena vi aderisca: le mani sono mollemente poggiate sul ripiano in legno, che normalmente è pieno di scartoffie.

Per un attimo al Guardiano del Cielo sembra di vedere i fogli ammonticchiati, e di sentire Reborn che lo minaccia di muoversi a visionarli e firmarli se non vuole ritrovarsi pieno di piombo per sopperire alla sua pigrizia.

Oppure gli sembra quasi di sentire le proprie lamentele in proposito, parole come “ma non ce la farò mai, sono una moltitudine!”, e puntualmente Gokudera che si offre di aiutarlo almeno con i documenti che Tsuna può lasciare a lui. Yamamoto di solito ridacchia divertito e si guarda bene dall’offrirsi al pari del Guardiano della Tempesta – Tsuna non se la prende, sa che Takeshi non è affatto portato per il lavoro d’ufficio, anni di decodificazione dei suoi rapporti quasi illeggibili glielo hanno insegnato.

Gli sembra di vedere Mukuro che in un angolo fa un sorrisetto divertito, perché dall’alto del suo sadismo il Guardiano della Nebbia come minimo si sta divertendo del terrore che Reborn con le sue minacce gli provoca; oppure Chrome che copre educatamente la bocca con la mano per non dargli un dispiacere facendosi notare nell’atto di ridacchiare divertita alla scena anche lei.

A quel punto, di solito, mentre persino lui – Tsuna – torna un po’ bambino e fa l’offeso arriva Ryohei che lo sprona a fare del suo meglio all’estremo, oppure Hibari-san lo minaccia di morderlo a morte come fa dagli ultimi dieci anni a quella parte sostanzialmente.

Persino lui che il Boss mafioso non voleva farlo, in quei momenti si chiede perché mai se è lui il capo lì, tutti alla fine non facciano altro che divertirsi alle sue spalle e minacciarlo – ma l’attimo dopo, è lì che ride con loro in verità.

Le mani stringono il bordo della scrivania e Tsuna si morde il labbro inferiore.

Non ci sarà più nessun “niisan” a spronarlo, e nessuno a minacciarlo di morderlo.

Ed è colpa sua.

Ha due morti sulla coscienza.

Una sorella è rimasta senza fratello maggiore.

E Hibari-san, che nessuno potrebbe mai sconfiggere, giace immobile in una bara di legno che non gli si addice.

Ed è colpa sua.

Tsuna per anni ha blaterato di non voler essere un Boss della mafia, di non voler avere assolutamente nulla a che fare con quel mondo e quella realtà.

Lui voleva restarne fuori, perché prima di molti altri e meglio di tutti loro aveva capito che non era un gioco, non era motivo di orgoglio.

Era solo andare a morire.

Tsuna per anni ha piagnucolato, ha pensato che non fosse giusto; si è sentito in colpa ogni volta che qualcuno dei suoi amici – che fossero ragazze, bambini o persino gente che nella mafia ci era nata – si è avvicinato involontariamente a quella cosa così spaventosa.

Lui voleva solo fare lo studente delle medie prima e quello delle superiori poi, magari andare ad un’università di poche pretese alla sua portata e provare a realizzare un sogno, a prescindere da quale sarebbe stato.

Una volta Tsuna si è silenziosamente arrabbiato con Reborn, quando non ne poteva davvero più e voleva mollare tutto quanto senza “se” e senza “ma” a fargli cambiare idea.

Tsuna è cresciuto, e infantilmente forse desidera ancora di andare alle medie, poi alle superiori e infine ad un’università di poche pretese alla sua portata – anche se ormai è cresciuto, e non può fare nulla di tutto questo.

Se ora si guarda le mani che prima pregava di continuare a proteggere le persone care, ora ne vede un paio sporche di sangue.

Tsuna ha la morte di qualcuno a pesare sulle sue spalle senza possibilità di chiedere perdono.

Per questo ora, mentre si alza e aggira la scrivania, ed esce dall’ufficio ritrovando i suoi Guardiani – quelli rimasti – in corridoio e sorpresi di vederlo, Tsuna ha un’espressione seria in volto.

C’è una cosa in cui persino lui è cambiato.

C’era una volta un ragazzino di quindici anni che scappava dalla morte per continuare a vivere lontano da tutto quello che lo terrorizzava e lo minacciava.

Dieci anni dopo, c’è un uomo che sta andando a trovare la morte per dirle che avvicinandosi a lui ha fatto un grosso errore e che non importa chi si è fatto suo ambasciatore: gliela farà pagare ugualmente.

Se non lo fa, non riuscirebbe a vivere.

Sawada Tsunayoshi non era mai stato portato per il senso di colpa.

 

 

Sente il proprio respiro affannoso, i muscoli dolere un po’ per la fatica.

Non ha fatto altro che allenarsi tutto il giorno, come se fosse tornato il ragazzino incompetente che era, quello che se non veniva messo continuamente sotto pressione da allenamenti impossibili non riusciva a rendere.

Si piega appena su se stesso, le mani sulle ginocchia mentre la schiena si alza e si abbassa e lui riprende fiato; qualche goccia di sudore cola lungo la tempia, scendendo fino al collo e perdendosi nella stoffa della maglia che indossa. Sulla schiena sente il tessuto aderirgli al corpo, quasi completamente inzuppato.

È lì da ore, anche se non serve davvero.

È li da ore quando dovrebbe riposarsi, ora che sono palesemente in guerra, o che qualcuno comunque mira a distruggere la sua Famiglia.

Ma non riusciva a calmarsi, rimanendo seduto ad aspettare.

Quella palestra a dire il vero è un supplizio: lì si sono allenati tutti insieme almeno una volta – persino Hibari, anche se in realtà lui si stava allenando da solo e tutti loro si sono aggiunti senza chiedere – e ovunque si giri c’è qualcosa che somiglia ad un ricordo e lo distrae.

Occhieggia la porta.

Prima ha intravisto Gokudera sbirciare all’interno convinto di non essere visto e lui, Tsuna, non gli ha detto nulla: ha immaginato che se gli avesse parlato, il Guardiano della Tempesta avrebbe cercato di convincerlo a riposare almeno un po’.

Ma Tsuna adesso non vuole riposare.

Anche se allenarsi non ha senso ha bisogno di muoversi.

Se non si muove, non ha nulla da fare.

Se non ha nulla da fare, pensa.

Se pensa, gli tornano in mente sangue, sorrisi e morte.

…scuote la testa, si lancia contro un nemico immaginario con tutta la forza che ha: i muscoli gridano quasi mentre si tendono al massimo e le mani vengono avvolte da quelle fiamme che non bruciano.

Non può permettersi di piangere.

 

«Ecco, questo era l’ultimo.» decreta Lambo mentre applica un cerotto sul dorso della mano del castano, dedicandosi quindi a rimettere a posto la cassetta del pronto soccorso. Tsuna apre e chiude la mano quasi a fare una prova, dopodiché gli sorride in quel modo che è sempre stato in qualche modo “suo”.

«Grazie, e scusa per averlo chiesto a te.» dice, osservando il Guardiano del Fulmine sistemare la cassetta in un armadietto lì nella stanza ormai adibita ad infermeria da anni.

Quando si volta, Lambo incurva le labbra in un sorrisetto leggero e alza appena le spalle: «Di nulla. È strano, ma non è un problema.» assicura.

«Strano?»

«Di solito delle tue ferite, anche solo dei graffi, se ne occupa quello scemo di Gokudera.» spiega meglio, e rimangono in silenzio per un po’.

Tsuna, mentre si guarda le mani senza un reale motivo, sorride a quell’appellativo che non è mai cambiato e al quale l’altro Guardiano risponde ancora con “scemucca” come quando Lambo era un bambino.

Sorride anche perché Lambo è ancora un po’ fifone, ma gli scontri e il tempo hanno cambiato anche lui e il rapporto che aveva con tutti loro: ora è capace di difendersi consapevolmente, è capace di mettere da parte il suo lato capriccioso, ed ha persino rispetto per Gokudera – anche se ammetterlo è tutt’altra questione.

«Non voglio si preoccupi, sono appunto solo graffi.» ammette.

Lambo rimane seduto di fronte a lui, come se ci fosse qualcosa che Tsuna deve ancora dire e che lui ha in qualche modo percepito e per la quale sta quindi aspettando pazientemente.

«Lambo, ascolta» esordisce quindi Tsuna: «avrei bisogno di un favore da te. Dovresti andare a recuperare un oggetto. Non è lontanissimo da qui: puoi fare questo per me?» gli domanda.

 

 

C’è agitazione tra le fila dei Vongola.

Il nemico sembra aver calcolato perfettamente i propri tempi, riuscendo persino a far sì che non coincidessero minimamente con quelli della loro riorganizzazione interna.

Con disappunto di tutta la Famiglia, i funerali non si sono svolti, e chissà quando potranno iniziare.

Tsuna è a definire qualcosa con Reborn, cosa assolutamente non da lui mentre i suoi sottoposti stanno facendo ciò che è comunemente e grossolanamente definito come “guadagnare tempo”.

I Guardiani stanno guidando il resto della Famiglia in sua vece.

Nel momento in cui un lato è rimasto scoperto, sono delle fiamme arancioni ad evitare il peggio, inconfondibili per tutti loro e che riescono a suscitare un sorriso sollevato mentre intorno imperversa una battaglia che li vede più vinti che non vincitori.

Eppure qualcosa decisamente non va, lo notano tutti e insieme nessuno, ed il primo a dargli un nome è Gokudera molto probabilmente; ma forse, dopotutto, lo capiscono tutti quando la figura di Tsuna rientra nel loro campo visivo.

Non ha niente di formale il loro Boss, come sempre: anche stavolta, quando chiunque del suo ruolo dovrebbe avere quel qualcosa nell’aura che si porta dietro a distinguerlo, lui trasmette quella innaturale sicurezza che tutto andrà bene.

Anche nel vestire, le maniche della camicia arrotolate fino ai gomiti come quando si andava a scuola e la cravatta allentata come in un’uscita informale fra vecchi amici, qualcosa li porterebbe quasi a credere che non sono davvero in guerra e che è stato tutto un malinteso.

Da sotto i guanti avvolti dalle fiamme si intravedono dei bendaggi che potrebbero allarmare.

Poi però, quel particolare che attira la loro attenzione più delle bende rende tutto chiaro: al braccio sinistro di Sawada Tsunayoshi, una fascia rossa con ideogrammi dorati e l’aria un po’ consunta fa abbassare lo sguardo a qualcuno.

Lambo lo guarda: lui lo sapeva già.

 

Vorrei che andassi da Kusakabe-san.

Lui dovrebbe ancora averla:

la fascia di quando Hibari-san era ancora nel comitato disciplinare.

 

«Juudaime…»

Tsuna avanza a testa alta, una sicurezza che forse non ha mai ostentato volontariamente come ora.

Non fa vagare lo sguardo sui suoi Guardiani, e al tempo stesso li abbraccia tutti insieme con uno solo.

L’attenzione si focalizza però sui sottoposti della fazione nemica che, quasi sconcertati da un arrivo che non si aspettavano, si sono fermati nel momento stesso in cui il Decimo Boss dei Vongola ha fatto la sua apparizione.

Se li contasse, Tsuna è certo che li troverebbe troppo numerosi per giustificarne un’ipotetica morte.

Se ora li guardasse uno ad uno e non nel loro insieme, catalogandoli come “nemici” e niente di più, Tsuna ha la sensazione che una parte di sé – quella che Hibari Kyoya ha sempre definito a suo modo troppo buona – gli impedirebbe di fare quello che si è prefisso.

Non ci è abituato, ma è per non vacillare come suo solito che ha indossato quella fascia che era chiusa in un cassetto da tanti anni.

Nonostante la gravità della situazione attuale, per un solo momento Tsuna si concede una debolezza e si morde il labbro inferiore in un gesto quasi dimenticato; forse, se non ci fosse stato lui, Hibari-san ora sarebbe a fare chissà quale lavoro e un suo ipotetico figlio verrebbe cresciuto per essere un giorno come suo padre, magari anche lui a capo del Comitato Disciplinare.

Stringe i pugni perché non ci sarà mai nessun figlio di Hibari Kyoya.

 

Cosa? No, non mi serve per il funerale.

Prima… voglio usarla per andare in battaglia.

Voglio che ci sia anche Hibari-san.

Lambo, secondo te si arrabbierebbe,

se sapesse che la prendo in prestito?

 

Mentre sembrano tutti forzatamente in una situazione di stallo, più di qualcuno capisce.

Le bende non sono per delle ferite.

Quelle fasce bianche che sicuramente coprono anche i pugni sebbene nascoste dai guanti che Tsuna usa come arma, hanno lo stesso significato di quella fascia estranea alla sua figura che è sul braccio sinistro.

Probabilmente, se denudassero interamente le mani e controllassero, scoprirebbero che le bende sono messe nello stesso identico modo in cui le teneva anche Sasagawa Ryohei.

In realtà nessuno se ne stupisce davvero, quasi come se tutti in fondo se lo aspettassero.

Tsuna è quel tipo di persona, lo è sempre stato: si carica del peso di tutti, lo rende suo, lo poggia sulle proprie spalle e continua a camminare. Ogni tanto vacilla, barcolla un po’ quando si fa così pressante da minacciare quasi di spezzargli la schiena.

Tsuna si morde appena il labbro inferiore, abbassa la testa per riprendere fiato qualche istante, poi torna a camminare. Lui non ha mai chiesto aiuto, in quello.

Non ha mai permesso a nessuno di farsi carico di quella responsabilità che sentiva solo sua.

Non ha mai permesso a nessuno di sfiorare le sue spalle abbastanza a lungo da percepire quel peso; lui ha semplicemente chiesto scusa tante volte perché sapeva di far preoccupare gli altri, e poi aveva continuato a tenere tutto sulle spalle perché altri modi di chiedere perdono per i peccati che rendeva suoi non ne conosceva.

Non erano poi veri peccati, o forse lo erano ma non da addossare completamente e totalmente ad una sola persona.

Ma Tsuna, queste cose che tutti gli ripetevano, non le ascoltava mai.

Egoisticamente, diceva lui; forse, non era tanto errato.

 

 

I Guardiani sono troppo impegnati nella battaglia per potersi davvero permettere il lusso di guardare unicamente il loro Boss per tutto il tempo.

D’altra parte i movimenti sono così veloci, che non potrebbero nemmeno volendo forse.

Con la coda dell’occhio o con gli sguardi fugaci che riescono a lanciargli mentre combattono, vedono solo una scena che si ripete da un avversario all’altro: veloce e preciso si muove fra i corpi – vivi o morti – di nemici di cui probabilmente guarda il viso il tempo necessario a riconoscerli e niente più.

Colpisce, ma mai in maniera letale e Dio solo sa se quello non sia un errore; è Reborn a coprirgli le spalle più possibile, perché è il più vicino.

Sawada Tsunayoshi sta cercando qualcosa nel caos di un campo di battaglia dove balla la morte.

Cerca qualcosa, ma non è solo la vendetta.

Scorge qualcuno, aumenta la velocità, e come se questo fosse un muto cenno concordato in precedenza i Guardiani si muovono quasi all’unisono, mossi da un filo invisibile.

Quasi frettolosamente si liberano dell’avversario più pressante per poter voltare lo sguardo.

Tsuna si spinge in avanti.

C’è un urlo fra le urla che riempiono quel campo di battaglia, l’odore di morte e sangue si fa più forte di un po’, solo un po’.

Un morto in più.

 

Se è così che doveva finire… perché?

Perché devono esserci dei Guardiani, Reborn?

Per essere il Boss dei Vongola,

il requisito necessario è forse essere il carnefice delle persone importanti?!

Non era nata per proteggere,

questa Famiglia?!

 

No.

Sono due.

«Juudaime!»

 

 

Non esistono nella realtà cose che rispecchino le frasi fatte dei libri come: “il tempo sembrò fermarsi” o “sentirono gelarsi il sangue nelle vene”.

Un urlo di solito non è “agghiacciante” nel senso proprio del termine.

Non è vero che “le parole trafiggono come lame”.

Però… però…

«Juudaime! Juudaime!»

«Gokudera-kun… mi stai rompendo i timpani così…»

È una replica debole mentre sorride.

Gokudera lo tiene tra le braccia quasi col terrore di potergli fare male, incurante del sangue che sgorga troppo in fretta e troppo copiosamente.

Sente i pantaloni umidi, caldi, appiccicaticci; lo stesso per il braccio che passa dietro le spalle di Tsuna.

«Hayato, portalo via!»

«Lo so, cazzo, lo so!»

È nel panico più totale, mentre gli altri Guardiani guadagnano tempo per lui.

Si guarda febbrilmente intorno, alla ricerca di un fottutissimo posto in cui mettere al sicuro il Decimo.

«Gokudera-kun…?»

Lo sente che gli tira la manica, e lo sguardo è istantaneamente su di lui; non c’è traccia dell’espressione di un uomo che è divenuto il degno braccio destro del Boss dei Vongola.

Quello è solo… un bambino terrorizzato.

«Ho delle cose… da dirti. Mi ascolti?»

Annuisce, ma continua a guardarsi intorno: deve esserci un punto al riparo, deve, deve, deve.

«Pensavo che… se sporco di sangue la fascia di Hibari-san, potrei rischiare seriamente un attentato alla mia vita appena ci rivediamo. Puoi… toglierla?» mormora con un sorrisetto che è la replica esatta di quando, quindicenne, l’idea di un Hibari arrabbiato con lui non era esattamente confortante.

Gokudera esegue come meglio può, con l’unica mano libera che non sorregge il corpo ferito dell’altro.

«Grazie…»

«Juudaime, non serve parlare, può dirmi tutto dopo!»

«A me… dispiace sai? Sono un Boss che più che altro è un impiastro. Anche… a distanza di anni, eh?» lo dice ridacchiando, e mentre lo fa tossisce e sputa un po’ di sangue.

L’espressione sofferente in corrispondenza dei colpi di tosse lascia ad intendere che il corpo non apprezza tutto quel movimento.

Gokudera guarda il viso, ora il corpo.

Non riesce a fermare il sangue.

Scorre, scorre, scorre e lui lo guarda e non riesce a fermarlo in alcun modo.

Fa… tremendamente paura.

«Non è affatto vero, Juudaime!» assicura, anche se il tono è incrinato.

Non è per incertezza delle proprie parole, però.

«Gokudera-kun… mh. Hayato.»

Non pensava che avrebbe mai pregato di non essere chiamato per nome proprio da Tsuna.

Però lo sta facendo.

«Di solito non mi piace… affidarti qualcosa che faccio io, ma… mi servirebbe un favore.» ammette, osservandolo anche se lo sguardo vaga un po’ sul viso.

Il Guardiano della Tempesta deglutisce: da quando avverte l’impulso di piangere come una femminuccia?

«È che… sei l’unico a cui lo posso chiedere.»

«V-Va bene, Juudaime.»

«Dovresti, per un po’… prenderti cura degli altri.»

Perché proprio a lui, una condanna come quella?

«Chrome piangerà un po’. Mukuro… lui si arrabbierà perché l’ho fatta piangere. Lambo e I-Pin sono… giovani. Fuuta lo stesso. Kyoko-chan e Haru… loro piangeranno tanto. E a Kyoko-chan dovrei… chiedere scusa. Per Ryohei. Non l’ho ancora… incontrata da allora. Dovresti… dire a Bianchi di occuparsi delle ragazze. E… aiuta Takeshi per favore. Lui cerca di… essere come Ryohei ora che lui non c’è. Però Takeshi avrà bisogno… di una spalla. Lui sorride ma poi… ha davvero bisogno di potersi arrabbiare ogni tanto. Poi starà meglio. E tu, Hayato… non mostri mai le preoccupazioni che hai, specialmente a me… però con Takeshi sì. E allora… datevi una mano fra di voi, mh? Solo… per un po’.»

È questo che fa un braccio destro?

Per la prima volta, Gokudera Hayato sta odiando tutto quello: la mafia, il suo ruolo e se stesso.

Si sforza di sorridere.

Il Boss dei Vongola non ha bisogno di un braccio destro che gli dà ulteriori preoccupazioni.

Che se ne fa, Tsuna… di un amico così?

«Va bene, ma… lo hai detto, giusto? È solo per un po’. Finché non sarai guarito.»

Gli dà del tu per la prima volta.

Non dovrebbe. Sembra quasi credere che sia l’ultima volta che parlano, e non è così.

Non è così. Vero?

«Solo per un po’… finché non ci incontriamo di nuovo, Hayato.»

Sorride flebilmente e la voce è solo un sussurro ormai.

«Ohi… sembra più… un testamento, Juudaime. Non è divertente. Non parlarmi come se mi stessi dicendo a voce le ultime volontà prima di morire, che diamine.»

Uno sbuffo che dovrebbe essere una risata.

Chiude gli occhi, e si rilassa appena fra le braccia dell’altro.

«Hayato, ma… io sto morendo. È questo che sta… succedendo.»

Le parole non “danno la nausea” davvero, letteralmente.

Eppure Hayato sente di non stare bene affatto.

«Non… riesco a vedere.»

«Cosa?»

«L’assassino di Ryohei… non lo vedo.»

«È a terra. È… morto.»

«Hayato… piove?»

Si morde un labbro per non singhiozzare.

Non vuole che Tsuna pensi che è colpa sua, se persino uno come lui piange.

Ha il tono di quando sorride, quando gli risponde.

Ma non è affatto felicità.

«Sta iniziando… a piovere, sì.»

 

Solo… finché non ci incontriamo di nuovo.

 

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