Turning Time

di Sasita
(/viewuser.php?uid=91603)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Quando il fato ci mette lo zampino ***
Capitolo 3: *** Girare il coltello nella piaga ***
Capitolo 4: *** Happy Funeral ***
Capitolo 5: *** Due morti e un temporale ***
Capitolo 6: *** Tra lavoro e privato non buttar fiato ***
Capitolo 7: *** Red loving Table ***
Capitolo 8: *** Acting half-truths ***
Capitolo 9: *** Possession, Passion and confession ***
Capitolo 10: *** Sospetti ***
Capitolo 11: *** A midsummer night dream ***
Capitolo 12: *** Problems ***
Capitolo 13: *** It's gonna be okay? ***
Capitolo 14: *** End or beginning? ***
Capitolo 15: *** Impasse ***
Capitolo 16: *** Waiting for Life ***
Capitolo 17: *** Ombre di vita ***
Capitolo 18: *** Choices ***
Capitolo 19: *** Slowly Going Down ***



Capitolo 1
*** Prologo ***






Come aveva potuto Hightower spedirci senza tanti preamboli in Alaska?
Va bene che l'uomo ucciso era il viceprocuratore distrettuale; va bene che il procuratore aveva, espressamente, richiesto il CBI; ma perché noi?
E' anche vero che eravamo la squadra più capace della California, ma... insomma!
-Non ti stressare Lisbon, goditi il viaggio-
E Patrick Jane, l'uomo più irritante, egocentrico e immaturo che conoscessi, nonché l'uomo che sapevo di amare con tutta me stessa, si pose la mascherina sugli occhi.
-Non devi aver paura, gli aerei sono fatti per volare-
Mi strinse la mano.









Ed eccovi la mia nuova pazzia, quando si chiude una porta si apre un portone... così dicono... per cui, mentre le porte dell'altra storia si chiudono piano piano, un nuovo portone si apre, con tale pazzia!!!
Detto ciò, mi piacerebbe vedere qualche recensione, e mi scuso se, probabilmente, non sarò in grado di aggiornare velocemente, finché non avrò finito l'altra storia!

POLVERE FOR PRESINDENT & AL ROGO LA SENSITIVA
sasita 

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Quando il fato ci mette lo zampino ***


Quando il fato ci mette lo zampino
 

 

POV Teresa

-Aaah!- alzai gli occhi al cielo, il mio “simpaticissimo” consulente aveva qualcosa da dire. Era un’occasione imperdibile!
-Oh, Jane, sentiamo, cosa ti fa tanto sospirare?- dissi senza neppure guardarlo, ma dirigendomi verso il ritiro bagagli dell’aeroporto di Anchorage.
-Oh, niente. Semplicemente... la sentite l’aria pura che respiriamo?- disse giungendosi le mani dietro la schiena e stiracchiandosi come un cane che non vede l’ora di addormentarsi.
-V-v-vuoi dire il gel-l-l-o tremendo che ci sta a-a-a-assalendo!- alzai di nuovo gli occhi al cielo, girandomi verso i miei sottoposti. Ero già su di giri per il viaggio infinito che avevo appena vissuto, figuriamoci se potevo sorbirmi una che si lamentava e uno che osannava il luogo!
-Sentitemi bene, ora noi lavoriamo, finiamo e ce ne andiamo! Greace, non voglio lamentele! Jane, non voglio neppure grandi elogi sul posto dove siamo! Cavolo, girati … qui c’è solo ghiaccio … ma credo che finiremo presto! Quindi, muoviamoci!- dissi tornando a guardare verso il ritiro bagagli.
-Oh, Lisbon, tu non lo credi davvero, tu ami la tranquillità e... lasciami indovinare, se tu dovessi scegliere tra Edward e Jacob, Twiligth, sceglieresti Edward, il freddo passionale e tranquillo! Quello proibito!- trassi un profondo respiro, non so come feci a mantenere il controllo …
Aveva azzeccato, come sempre del resto, ma non l’avrei mai ammesso e, in quel momento, ero davvero incazzata!
-Jane, dimmi, come credi che c’entri tutto ciò con il caso?-
-Ma non mi hai smentito! Jacob è troppo caldo e … normale e ordinario, di indole violenta ma non pericoloso, mentre tu ami il rischio, e sei attratta da ciò che è proibito! Sei una donna controversa e …-
-Jane ti tiro un pugno se continui! E, mio caro, Edward è troppo giovane per me!-
-Ma se ha 109 anni!-
-Dettagli, caro mio! E...-
-Capo? Van Pelt sta congelando! Possiamo entrare nell’aeroporto?- presa dalla ennesima lotta persa contro Jane non mi ero resa conto di essere ancora fuori dalla porta d’entrata.
-Oh… ehm… sì sì, entriamo!- lanciai uno sguardo eloquente a Patrick ed aprii la porta, muovendomi, quasi correndo, a prendere la mia valigia.
L’aeroporto di Anchorage non era grande come mi aveva raccontato il ragazzo Aleuta conosciuto mentre aspettavo di chiudermi in bagno, per scappare dal continuo canticchiare di Jane, sull’aereo.
Sì, perché Jane, compratosi Ipod e cuffiette, si era messo a cantare tutte le canzoni che si era fatto accuratamente scaricare da Van Pelt, e io me lo ero sorbito per ben 12 ore di viaggio.
L’aeroporto era decisamente piccolo e poco affollato, piuttosto silenzioso per essere il più importante di tutta l’Alaska.
La gente camminava tranquilla per i gate, sorridente, con i figli per mano e i mariti sotto braccio.
Il tutto aveva un aria famigliare e serena; niente a che vedere con il caos e il nervosismo di Sacramento; per un momento desiderai un marito, una famiglia, l’amore e la tranquillità.
Sogni utopici per una stacanovista come me!
-Oh, ma ce l’avrai una famiglia prima o poi, Lisbon…- mi soffiò in un orecchio dal mio maledettissimo biondo.
-Come fai ad entrare nella testa delle persone?- chiesi, assottigliando gli occhi, con voce più stridula di quanto avessi voluto.
-Io ho poteri sovrannaturali!- gli si stampò un sorrisetto beota sulla faccia
-E io sono la regina Elisabetta!- esclamai, scuotendo la testa.
-Decisamente più giovane e carina...- rispose lui, provocatorio.
-Ecco la valige- sviai il discorso, che sarebbe stato un'altra causa persa nell’arco di tre minuti, e mi fiondai a raccogliere il mio bagaglio: una valigia della Segue, celeste, comprata appositamente per il viaggio una settimana prima della partenza.
Van Pelt sembrava completamente congelata, tremava e aveva elemosinato un capo d’abbigliamento a tutti, io le avevo ceduto la sciarpa, Rigsby il giaccone, Cho il cappello da montagna e Jane i suoi guanti di Prada, che, a dirsi di Cho (che aveva commentato quel capo appena lo aveva visto), dovevano essere molto vecchi per essere guanti e decisamente costosi.
Quindi Greace sembrava un attaccapanni, il gracile corpicino era diventato invisibile, per via della giacca di Wayne, che le arrivava alle ginocchia e a cui, per farla arrivare ai polsi, aveva arrotolato le maniche una decina di volte.
Rigsby non sembrava neppure far caso al freddo, sembrava perfettamente a suo agio,anche senza giacca. E sghignazzava guardando tutte le bancarelle, nel aeroporto, che vendevano alimenti.
Cho era impassibile e pensai che, avendo fatto parte nell’arma, fosse abituato a situazioni estreme. Non dava segno di disagio né di beatitudine.
Jane gongolava e sorrideva come un idiota, come se fosse il posto più bello del mondo, non sapevo se ci fosse già stato o se, più semplicemente, si sentisse più a suo agio in un luogo lontano da Sacramento e, quindi, da un possibile Red John.I ricci biondi un po’ scompigliati, gli occhi cerulei felici, la giacca aperta che faceva intravedere un nuovo vestito, un tre pezzi chiaro, sul beige. Tutto ciò lo rendeva diverso, ancora più affascinante e umano.
E la sua voce era più calda del solito. O forse era il freddo che avevo intorno a farlo sembrare più caldo?
Io ero abbastanza infreddolita, ma, come aveva ribadito Jane ad alta voce, mi piaceva quell’aria fredda, tranquilla e famigliare. Mi piaceva vedere, un po’ in lontananza, le montagne completamene innevate, anche ai piedi, ero felice di sentirmi comoda nei vestiti, impresa ardua con il caldo di Sacramento.
Stavo bene, mi sentivo in perfetta armonia con me stessa.
Mentre  ero persa tra i miei ragionamenti arrivammo ai taxi, dove ci doveva aspettare fratello della vittima: l’ex procuratore.
Vidi un uomo, sulla cinquantina, brizzolato, occhi color ghiaccio con in mano un cartello con su scritto “Lisbon CBI”
-Buonasera- dissi avvicinandomi e stringendogli la mano.
-Lisbon, suppongo- disse sorridendo.
-Proprio io- aggiunsi
-Lei deve essere Jane, Patrick Jane, il famoso sensitivo- rivolse il suo sguardo al mio consulente, che sapevo cosa stesse per dire …
-La correggo, non sono un sensitivo, non esistono i sensitivi, chiunque si spacci per tale è solo un truffatore! Sono un mentalista e sono il consulente della squadra, comunque, sì, sono Patrick Jane-
… Io sarò pure stata un libro aperto, ma, dio, come era prevedibile quell’uomo!
-Questa graziosa signorina deve essere Greace Van Pelt- fece il baciamano alla rossa e si beccò una eloquente occhiataccia da Rigsby –lei è sicuramente Wayne Rigsby- fece un sorrisino e gli strinse la mano –E, lei, ovviamente, è Kimball Cho-
-Esatto- mi inserii nel discorso, vedendo Greace iniziare a battere i denti rumorosamente –Ma ora non dovremmo andare?-
-Sì, non avete idea di come sia in crisi tutta la mia famiglia, io e mio fratello non avevamo un buon rapporto fin da bambini, ma, ecco, manca a tutti ed è stato uno shock-
-Ce l’abbiamo un idea, signor Lank e, scusi la precisazione, per lei non è stato uno shock, anzi, la considera una liberazione. Ma non è stato lei a uccidere suo fratello- ed ecco che il mitico “mentalista” iniziava la sua scalata verso un ennesima rottura del proprio naso, …
-Cos’è, sono un sospettato?-
-Lo è?- … il suo immancabile giochino mentale …
-Scusi signorina Lisbon, ma questo dove l’avete preso? Sa che potrei denunciarlo per le infamie che mi sta tranquillamente elargendo?- … e le mie pratiche legali da firmare.
-Lo so, ma la prego di non farlo, si scuserà di ciò che ha detto appena avrà riflettuto un po’, vedrà!-
-Io non ci scommetterei, Lisbon, ma se vuoi farti false illusioni …-
-JANE! Sta zitto!- dissi sgranando gli occhi e puntandogli un dito contro –Idiota.- sillabai, ma trattenendomi dal ridere per lo sguardo innocente del mio biondo consulente.
-Lo scusi, la prego. Allora, andiamo?-
-Sì, venite-
Fummo accompagnati fino a un piccolo pulmino rosso porpora con gli interni tessuti con strani motivi colorati.
L’autista partì velocemente e iniziammo ad attraversare un paesaggio sempre variato, c’erano foreste di quelle che, mi informava Patrick, erano betulle, fonti azzurrissime, praterie, ogni tanto vedevo qualche enorme gatto bianco spuntare dai cespugli; il tutto su uno sfondo di montagne perennemente innevate.
Passò un tempo che mi sembrò infinito, tanto che solo verso le 6 di sera, dopo aver percorso una strada sterrata praticamente invalicabile, arrivammo nella radura dove era stato trovato il corpo.
-Qui è stato trovato il corpo di mio fratello.- disse con un tocco di amarezza nella voce James Lank
Ci fermammo e scesi dalla macchina, seguita a ruota da Jane e i miei due agenti maschi. Van Pelt era rimasta un po’ indietro
-Qui è meno freddo!- la sentii pronunciare poco dopo con James Lank come ricevente.
-Siamo più a valle rispetto ad Anchorage.- fu la risposta farfallina dell’uomo.
-Agente Lisbon?- mi distrasse un poliziotto locale
-Sì sono io, cosa abbiamo qui?-
-Il procuratore della… California. – disse con un po’ di astio l’ultima parola –Ucciso con un colpo alla nuca, sparato da vicino. Ci sono segni di bruciature da sfregamento sulle braccia e sulle caviglie, per cui crediamo che sia stato rapito e “torturato” per qualche ora, poi ucciso brutalmente. Qui intorno non c’è sangue, per cui non è qui che è stato ucciso. Avremo tra  domani e domani l’altro il responso della scientifica … Ehi, ma che sta facendo quell’uomo? Sta toccando e... sniffando la vittima?- chiese come sorpreso, schifato e molto contrariato.
-Sì.. sta annusando Terrie Lank e, sì...-accidenti Jane i guanti!- lo sta toccando.-
-Oh scusa Lisbon, hai ragione!- disse Jane fissandosi le mani e infilandosi un guanto a una mano e ricominciando ad ispezionare il cadavere …
… Con l’altra mano.
Mi passai una mano sugli occhi, sconcertata nonostante non fosse né la prima né la seconda volta. In realtà ne avevo già contate una trentina di volte che aveva fatto una cosa del genere ed io davvero mi chiedevo se fosse stupido, o se lo facesse apposta.
-Capo, abbiamo trovato qualcosa- Cho mi riscosse dalle mie elucubrazioni insensate –La pistola che probabilmente ha ucciso la vittima.-
-Bravi ragazzi.-
-Oh! Oh! Oh! Lisbon vieni un po’ qui.- mi avvicinai a Jane
-Guarda qui.- guardai dove indicava il mio consulente
-Rossetto?- chiesi in base al fregaccio rosso sul collo del procuratore.
-No, Lisbon! Pennarello rosso da lavagne.-
-Ah… oh, bé, è ovvio. Perché non c’ho pensato subito!-
-Il che farebbe pensare a una scuola o un qualcosa del genere. Poi odora di detersivo per pavimenti ed è coperto di pelucchi di quegli aggeggi con cui si puliscono le superfici. In oltre ha la giacca piena di macchie di acido...-
-Quindi?- chiesi mentre lo osservavo rialzarsi e pulirsi le mani sulla giacca –Deduzione geniale?-
-Mi sembrava di avertelo già detto che il sarcasmo è la più bassa espressione di umorismo.-
-JANE!- imperai
-Scuola, oggetti per pulire, pistola di bassa qualità e basso costo, uguale: bidello!-
-E' lui lo deduce da queste poche prove?-
-Sì- rispondemmo insieme io e Jane.
-O è matto, o è visionario, o è sensitivo- disse lo sceriffo.
-Non sono visionario né sensitivo, sul matto mi riserbo ancora il beneficio del dubbio, ma, credo, che in mancanza di prove scientifiche, si debba andare per deduzione!-
-Già, però ora andiamo a cercare un albergo dove mettere le valigie e tutto il resto, poi ceniamo e ci pensiamo domani a mente fresca.- dissi in preda a un fortissimo capogiro
Tutti i miei sottoposti mi guardarono sorpresi dalla mia affermazione
-Capo è sicura di stare bene?-
-Non è niente, ho solo un po’ di nausea e un forte capogiro-
-È INCINTA?- stridé la voce di Rigsby
Tutti lo guardammo con uno sguardo che tutto poteva sembrare tranne che un complimento per l’affermazione.
-Ma dici sul serio?- chiesi allibita –No, certo che no! È matematicamente impossibile.- quella frase fu la mia condanna.
-E' solo stanca per il viaggio.- sembrò difendermi Jane, che però mi scrutava con fare indagatore.
Girammo quattro alberghi, nessuno aveva camere libere.
A un certo punto a Cho squillò il cellulare
-Ehi.- rispose nel suo solito modo molto prolisso.
-Ciao amore..- ci arrivò dall’altro capo del telefono –..sono arrivata adesso e ho chiesto in aeroporto quale albergo avesse la disponibilità nell’arco di 40 kilometri-
-Ok- Eh sì, Cho era un uomo dalle mille parole.
-Sembra che l’unico abbia 3 camere matrimoniali … le ho prenotate.-
-Brava- le urlammo tutti.
La sentimmo ridere
-Avete cercato parecchio sembra-
-Già- Rispose con le solite contate parole, Cho.
-Bene, non vedo l’ora di vederti! Salutami tutti.-
-Lo farò, ciao-
-Ciao-
Riattaccò
-Elise vi saluta.-
-Mi togli una curiosità Cho?- domandò Jane
-Se posso.-
-Hai un numero contato di parole al giorno? È un fioretto? È una specie di contorta scommessa con Rigsby? Hai problemi a mettere in mostra il tuo stato d’animo?- concluse Jane
-Nessuna di queste.-
Ridemmo tutti di gusto, compreso l’autista.
-O tutte, non saprei dire!-
Ridemmo di nuovo.
Di certo Kimball era simpatico, nonostante la sua poca voglia di chiacchierare.
Arrivati all’albergo ci si presentò un problema a cui non avevo pensato: come dividere le camere?
Di certo ci saremmo ritrovati a dover scegliere le coppie…
La cosa più sensata sarebbe stata mettere Elise e Cho in una stanza, io e Greace, e Jane e Rigsby, come avevo proposto io.
Cho era d’accordo. Ma io non ero convinta, non volevo distrazioni per la mia squadra.
Jane, sempre alternativo, propose di estrarre le coppie.
Prendemmo un cesto e due bigliettini ripiegati di ogni stanza assegnataci : 150, 168 (sullo stesso piano) e la 501
Il primo ad estrarre fu Jane, ed usci la 50. Dopo di lui estrassero Cho e Van Pelt, che si ritrovarono uno con la 168 e l'altra con la 150, e Elise e Rigsby, che ebbero la 150 e la 168.
Mi sentii morire alla rivelazione che ebbi: io avevo, matematicamente, innegabilmente la stanza 501, la stessa di Jane.
Cho sorrise, Grace mi guardò preoccupata, Rigsby era impaurito, Elise aveva i lacrimoni agli occhi.
Non capii la reazione di nessuno di questi.
Ma io volevo morire.
Una camera matrimoniale da dividere a tempo indefinito con Jane?
Cioè, con Patrick?
Con il mio biondo e affascinate consulente?
Con l’uomo più irritante della terra?
-Sarà un avventura conciliare il mio Tè con il tuo caffè-
Sorrisi, sarebbe stata un avventura resistere al uomo che amavo.

 

 

 

Dice l'autrice:
Buonasera a tutti quanti! 
Questi capitoli sono in fase di revisione, per cui, se sei capitato in questa storia adesso, sappi che se hai già letto questi capitoli e li stai rileggendo, è probabile che li troverai un po' diversi -Possibilmente migliori- di come li hai letti la prima volta.

Buona permanenza!

Sasy

 

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Girare il coltello nella piaga ***


Girare il coltello nella piaga



POV TERESA
Erano le undici di sera quando, mentre ero seduta sul letto matrimoniale della mia stanza, Jane rientrò dalla serata passata insieme a tutti gli altri miei sottoposti in un pub vicino al hotel.
-Divertito?- chiesi per aprire una conversazione con il mio coinquilino, ma senza alzare lo sguardo dal libro che stavo leggendo.
-Sì, direi di sì. Saresti dovuta venire!-
-Non mi sento molto bene Jane, se no sarei venuta-
-A me non sembra che tu stia male-
-Quale parte del mio corpo te lo sta dicendo?-
-Gli occhi.-
-Ok, certo, Jane. C’era tanta gente?-
-Sì, decisamente, mi sono sentito un po’ scomodo, in certi momenti…-
-Che tipo di momenti?-
-Oh, bé, a quanto pare interesso alle donne...-
Alzai lo sguardo dal libro, guardando l’affascinante biondo di sbieco. La sua immagine era tagliata a metà dal libro, sembrava fuori di sé e un po’ imbarazzato.
-Perché, te ne sei accorto ora?- chiesi divertita dalla sua ingenuità
-No, cioè, sì, oh… non lo so, ecco, l’argomento che tratto meno facilmente è quello donne e i loro gusti e pensieri nascosti. Sono così facili da leggere e così imbarazzanti a volte..- sospirò affranto –..e, devo ammettere che sono sempre stato molto imbranato con loro, potrei dire di capirne di meno del golf e della pallanuoto.-
-tu?-
-Sì, perché sei così perplessa?-
-Oh, non so, non mi sembravi così a disagio con la psichiatra, e, sinceramente, neppure con la sensitiva. O tanto meno con tutte la varie vedove che incontriamo …-
-Che c’è? Non sarai gelosa!- Chiese, con nuovamente stampato in faccia quel suo sorriso beffardo
-Io? Di te? Non direi proprio-
-Bugiarda!-
-Sì, hai ragione.- Affermai e lo vidi già gongolare -Sono gelosissima dei tuoi meravigliosi gilet, li vorrei tutti per me!- scherzai
-Devo davvero ripetertelo per la seconda volta in un giorno?-
-No, non ce n’è bisogno-
Seguirono altri minuti di silenzio, ripresi tranquillamente a leggere il libro, quando sentii inevitabilmente il bisogno di chiedere istruzioni per la camera. Avevo tremendamente sonno.
Guardai di nuovo Jane, cha adesso girellava per la stanza senza una meta ben precisa, guardava le tende della finestra, il cielo ancora luminoso,i quadri appesi al muro, poi posò gli occhi su di me e io domandai:
-Senti, ma per dormire come facciamo? In questa stanza non ci sono divani o poltrone… c’è il letto e la scrivania...-
-C’è anche il pavimento, sono abbastanza abituato a dormire vicino a terra.-
-No, non mi interessa come dormi a casa tua, ma scordati che ti faccia dormire sul pavimento.- mi morsi un labbro a ciò che stavo pensando e scacciai quel bollente spirito –Possiamo chiedere una branda, però. Spazio c’è...-
-Ma allora ci tieni a me!- mi provocò lui.
-Ho cambiato idea, o chiedi da te o dormi sul pavimento!-
-E va bene- si avvicinò a me e si sedette sul letto, accanto al comodino, alzò la cornetta e fece il numero della reception
-Hotel Alaska buona sera, come posso servirla?-
-Può farmi avere una branda nella stanza 501?-
-Controllo.-
-Certo, faccia pure.-
-Allora, arriva subito, vuole qualcosa nel frattempo?-
-Uhm... Un tè con latte e tre zollette di zucchero..  e, mi raccomando, prima il latte, poi lo zucchero e infine il tè, ok?-
-Sì, credo di sì, signor…-
-Jane.-
-Ok, avrà tutto entro dieci minuti-
-Grazie-
Riattaccò la cornetta e si alzò, mettendosi a sedere sulla scrivania
-Si può sapere perché stressi tanto le persone? Non avrà capito nulla di come lo vuoi il tè quella povera ragazza.-
-La povera ragazza lavora nell’impresa di famiglia, ma vuole andarsene, adesso sta cercando un altro lavoro per andare in Europa. Le piacciono i bambini e vorrebbe fare la maestra. Ha problemi di incomprensione con il padre ed è figlia unica.- asserì lui, tronfio.
-Tanto ormai non mi stupisco più. Spiegami che c’entra con il tè?-
-E' ovvio! È chiaro che mi porterà il tè fatto come capita, perché al momento non pensa di certo a tutto quello che il cliente le dice-
-Ah! È una cosa che va a tuo favore!- esclamai, sarcastica.
-Certo che no, Lisbon!-
-E allora?- lo guardai storto, abbassando nuovamente il libro.
-Voglio metterla alla prova!-
-Tu e i tuoi pensieri contorti- dissi scuotendo la testa e lasciando il libro sul letto, alzandomi.
Andai in bagno e mi misi una vecchia maglia blu arancione e bianca con su scritto “Lisbon 99”, rientrai in camera e mi misi sotto le coperte. Non mi feci problemi in quel frangente, Jane mi aveva già vista in quello stato, ed eravamo da soli nel mio appartamento in quell'occasione.
-Dimmi la verità, ho azzeccato su Jacob e Edward?- fu la domanda a brucia pelo del mio coinquilino non appena mi fui rinfilata sotto le coperte.
-Ti interessa davvero tanto?-
-Tanto per fare conversazione-
-Perché?-
-Te l’ho appena detto-
-Ok, allora, seppur premettendo che è una saga da teenager, tra Jacob e Edward preferisco Edward, ma nel complesso io invidio Esme.-
-Ti piace Carlisle?-
-Detta così sembro proprio una ragazzina! Lo trovo affascinante, e, sì, proibito-
-E dannato-
-Sai, se è per questo non mi faccio troppi scrupoli- ammiccai, frecciandogli contro.
-Sì ma…-
Fummo interrotti dal trillo del campanello della stanza
-Buonasera, stanza dei signori Jane?-
Mi andò di traverso la saliva e iniziai a tossire come un idiota.
-Siamo colleghi.- precisai
-Mi scusi.-
Patrick gongolante e sorridente aiutò il cameriere a portare dentro la branda e, mentre sorseggiava il suo tè, osservava il tale sistemargli la coperta.
-Arrivederci- disse con furia il ragazzo, a cui Jane regalò 5 dollari di mancia.
-Certo che il tè non lo sa fare più nessuno!- si lamentò
-Sei tu il pignolo!-
-Ma non è vero!-
-Sì, come vuoi tu Jane, buonanotte.- dissi, sorridendo.
Spensi la luce sul comodino e mi tirai le coperte fino alle orecchie. Stavo benissimo a quel calduccio, avevo addosso la mia vecchia maglia, la mia preferita ad essere sincera, e tre coperte: il lenzuolo, il piumone e la coperta di lana.
Mi stavo già appisolando, cosa rara per me, quando la voce ovattata di Jane mi giunse alle orecchie
-Lisbon? Ehi, Lisbon sei sveglia?-
-Adesso sì, grazie a te- biascicai ancora sotto le coperte –Che vuoi?-
-Mi chiedevo… quando hai detto che era matematicamente impossibile che tu fossi incinta, lo hai detto con un po’ d’amarezza nella voce…-
-Quindi?- sperai con tutta me stessa che facesse come faceva sempre e non arrivasse a fare nessuna domanda inerente a questo.
-Quindi, la mia domanda è: eri amareggiata perché vorresti un figlio o perché vorresti rischiare di avere un figlio?-
Ed ecco il mitico Jane e il suo tatto –Non li capisco i tuoi giochetti di parole.- Mentii spudoratamente.
-Oh, li capisci eccome. Ma se vuoi sarò più chiaro: quanto tempo è che non vai a letto con un uomo?- chiesi.
Sgranai gli occhi e spalancai la bocca
-La mia vita sessuale non ti riguarda!-
-Oh, sì, invece. Voglio sapere quanto rischio che tu mi scambi per un attore e mi stupri-
-Sei deficiente o fai apposta?-
-Dimmi tu-
-Non te lo dirò mai-
-Non tenerti tutto dentro Lisbon!-
Sospirai e aspettai qualche istante 
-Due anni.- risposi dopo un po’
-Oh oh!-
-Non infierire, non è bello girare il coltello nella piaga. Mi dedico al mio lavoro e solo a quello, non ho bisogno di un uomo.- dissi. Ma non era tutta la verità. Se fossi stata sincera avrei dovuto dire che l'ultima volta in cui ero andata a letto con un uomo, con Mashburne, ero stata bene, ma mi ero sentita come una fedifraga.
-Tu hai paura che l’uomo che un giorno amerai possa essere come tuo padre.-
-Jane ti prego...- gli occhi si fecero pesanti, e non per il sonno
-Tu meriti di più Lisbon, e non ti troverai con un sosia di tuo padre.-
-Grazie.- gli risposi.
Aspettai un po’ a fargli la stessa domanda, credevo di sapere la risposta, ma mi buttai comunque.
-tu?-
-Da quando è morta mia moglie ho fatto l’amore, se così lo posso definire, con la psichiatra. Quindi 6 anni.- rispose. E la cosa che mi sconcertò di più, quando poi ci ripensai a mente lucida, è che lo avesse detto con una quasi tranquillità.
Ne rimasi scioccata, credevo che non avesse mai avuto relazioni in quel senso, dopo la moglie.
-Poi ci sono andato vicino con Kristina-
Gli occhi si riempirono di lacrime, ma le nascosi
-Capisco- fu l’unica parola che dissi 
-L’amavi?- mi chiese poi con quel tono interessato
-Chi?-
-L’ultimo uomo con cui hai fatto l’amore.-
-Non con il concetto d’amore che ho adesso-
-In che senso?-
-Credo che fosse una semplice infatuazione-
-Ora sei innamorata?-
-No. Ora amo.- risposi.
Altro silenzio
-Tu?-
-Cosa? Se amavo Sophie o Kristina, o se sono innamorato di qualcuno in questo momento?-
-Tutti e tre, immagino...-
-No, ero fuori di me, depresso, non ne ero innamorato. Credevo di sì, mi sentivo molto vicino a lei, ma non so come definirlo, credo che fosse il fatto di avere molta affinità. In questo momento sono confuso, non sono sicuro, sai, un conto sono i sentimenti degli altri, ma con i miei non sono troppo bravo. Sono decisamente confuso...- sembrò rabbuiarsi.
-Confuso su ciò che provi per qualcuna?- chiesi, con un filo di inaspettata speranza che si faceva lentamente strada in me.
-Sì-
-Sono contenta di aver affrontato questo discorso. Anche se non ci riguarda la vita sentimentale dell’altro, credo che sia un bene avere qualcuno con cui liberarsi. Buonanotte Jane.-
-Hai perfettamente ragione. Buonanotte Lisbon.-
Stavo cadendo nel sonno, quando, poco prima di perdere i sensi, sentii un ultima frase
-Ma io potrei aprirmi solo con te, Teresa.-
Non so se fu un sogno o la realtà.

 

 

 

 

 

Dice l'autrice:
Vorrei ringraziare tutti coloro che mi hanno recensito il prologo e il primo capitolo! Ed ecco qui il secondo!! 
Spero che vi piaccia davvero! 
Detto ciò, questa storia è in fase di revisione, per cui se stai leggendo una seconda volta questo capitolo dopo del tempo, probabilmente lo troverai diverso, magari in meglio.

Recensite in tanti, eh!

Sasy

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Happy Funeral ***


Happy Funeral


POV JANE
-I funerali delle persone importanti sono sempre estremi e pieni di persone, soprattutto se la famiglia del morto prova piacere ad moltiplicare la propria notorietà.- spiegai con una certa nonchalance a Rigsby, che mi guardava come fossi un eretico.
Lui proveniva da una famiglia cristiana cattolica, la sua famiglia era abituata a “festeggiare” in compagnia il lutto, per rendere onore al defunto. Non concepiva il mio senso del dispiacere, della tristezza.
Soprattutto perché non aveva mai perso delle persone come le avevo perse io.
Quando morirono mia moglie e mia figlia non feci nessun banchetto, niente. Ebbero un funerale privato. C’eravamo io, i genitori, il fratello di mia moglie, una nonna e due amichette di mia figlia.
Nessuno mi rivolse parola.
Poco dopo entrai in cura per la tremenda depressione in cui caddi.
-Io non la penso così- mi rispose Wayne, sorseggiando il suo champagne –Secondo me è importante stare in compagnia e “festeggiare” in onore della persona che se n’è andata.-
-Sai Rigsby, quando muore una persona della tua famiglia a cui vuoi terribilmente bene, non ce la fai a fare niente, non sei in grado di ragionare, ti senti come se la tua vita andasse a pezzi.-
-Pensi a tua moglie e tua figlia?- pur constatando che non fosse una domanda fatta con molto tatto, il tono in cui la pronunciò non fu fastidioso come la maggior parte delle frasi che diceva.
-Quando perdi una figlia, o un figlio, non importa quanti anni questo abbia. Per un genitore è qualcosa di terribile, non ti rialzi mai. Ogni volta che credi di avercela fatta qualcosa ti butta giù di nuovo. Si crea una voragine dentro di te. Doni la vita a un essere e te lo vedi portare via in un soffio. È orribile.-
Ero convito di star mostrando degli occhi decisamente lucidi, ma non me ne vergognavo.
-Lo posso capire.-
-Soprattutto se è qualcuno che te lo uccide. Sai, finché succede con un incidente o per morte naturale ti puoi arrabbiare con qualcosa di cui non sei certo dell’esistenza. Ma quando una persona viene uccisa senti il bisogno fisiologico di farle vendetta.-
-Posso capire anche questo, anche se la legge non lo concepisce.-
Alzai gli occhi dal fondo del bicchiere di champagne e guardai Rigsby, indossava un due pezzi nero, camicia nera e cravatta come la giacca. Un vestito sicuramente non suo, comprato o, più probabilmente, noleggiato.
Eravamo seduti a un tavolino sulla terrazza giardino in cui si teneva la festa. Un giardino all’inglese che dava, al di sotto della terrazza, su un piccolo laghetto privato, davanti a noi, dietro la casa, le montagne innevate.
Ci saranno state un centinaio di persone, tutte così ordinarie e simili, tutte le donne con lunghi vestiti neri; tutti gli uomini con smoking scuri.
Io, per rispetto all’ambiente, indossavo uno smoking nero: prima di partire ero consapevole che saremmo stati invitati al funerale del procuratore Terrie Lank  e, ricercando negli armadi nella soffitta del mio appartamento, avevo ritrovato questo vestito: giacca da smoking nera di seta completata dai pantaloni e da una fascia bourdax da mettere appena sopra l’allacciatura di questi. Camicia grigia di cotone e papillon intonato alla fascia.
Ero sicuramente il più elegante, notavo le occhiate delle donne, esploratrici del mio corpo, e degli uomini, invidiosi sia del vestito che del mio successo.
Per me quel vestivo non significava altro che il periodo della mia vita in cui ero cieco, periodo in cui ero troppo presuntuoso, periodo per cui morirono le persone, all’epoca, più importanti della mia vita.
Guardavo tutti cercando facce familiari. Facce che esprimessero vero dispiacere per la perdita della famiglia Lank.
Ma, a parte i genitori e la sorella della vittima, nessuno sembrava così distrutto; molte delle persone presenti erano state invitate per comodità sociale.
Incrociai lo sguardo di ghiaccio di Cho che, nonostante la situazione di festa, aveva nell’orecchio una ricetrasmittente. Lui indossava un suo vestito di lana leggera grigio scuro, elegante a dire la verità, probabilmente comprato sotto indicazione di Elise.
Grace si stava servendo del punch con addosso un bel vestito bustier in raso nero lungo fino ai piedi. I tacchi neri, alti, che erano scoperti ogni tanto dai suoi movimenti le davano un aspetto ancora più slanciato e femminile. I capelli ramati raccolti in alto in una crocchia ben fatta e lasciati sciolti e mossi in basso.
Elise camminava sicura tra la folla verso Kimball, con indosso un elegante tubino nero, tagliato sotto il seno, a golette.
Continuai a cercare il capo della mia squadra, l’avevo vista uscire con una busta dall’albergo, dopo che l’avevo fatta arrabbiare per l’ennesima volta. Era stata una giornata dura, nessun passo avanti, un punto morto nell’indagine. Eravamo risaliti a ben 188 scuole tra materne, elementari, medie, superiori e università nella provincia Anchorage.
Nessun sospettato, nessun indizio.
Lei era stressata e io ero annoiato e, facendoglielo notare, l’avevo fatta incazzare parecchio.
Mi alzai dalla sedia, congedandomi da Wayne con un gesto della mano, entrai in casa dei signori Lank con l’intento di prepararmi un tè; mentre cercavo la cucina tra le tante stanze della casa, mi ritrovai davanti a una scalinata per salire al piano superiore della casa.
Colto dalla mia solita curiosità da detective “poco ortodosso” iniziai a salire le scale, imbattendomi in  un lungo e largo corridoio, poco illuminato. La casa era in stile montano, in legno e con arredamenti animaleschi e coperte pesanti. Uno stile che a me piaceva abbastanza, nonostante non fosse dei più raffinati. Perlustrai stanza per stanza, erano tutte aperte, in fondo.
Arrivai ad una stanza socchiusa e sbirciai dentro, sospettando che ci fosse qualcuno…
-Jane non ti provare ad entrare!- mi sentii imperare dall’altra parte della stanza
-Oh! Lisbon! Sei viva! Meno male!- dissi scherzoso
-Giuro che se entri ti sparo!-
-Trà, non entro! Ti aspetto infondo alle scale, va bene?-
-Se proprio devi-
-Come sei acida, Lisbon!-
-Lo so, grazie-
Scesi le scale correndo, sorrisi, quella donna aveva passato tutta la serata a lavorare, infatti non l’avevo vista al funerale, e si stava cambiando solo adesso per la festa.
Mi preparai il tè che avevo messo da parte e tornai sotto le scale appena in tempo per vederla scendere…
Non potevo certo spalancare la bocca come un deficiente, ma se non avesse potuto vedermi, l’avrei fatto.
Lisbon indossava un leggero vestito verdolino chiaro, tendente al  celeste, a golette: sembrava disegnato per il suo corpo e per i suoi lineamenti.
Le spalline del vestito piccole e strette, tagliato sotto il seno e corto poco sopra il ginocchio; trovai che fosse  veramente bella.
Un piccolo foulard nero legato morbido intorno al collo e i tacchi alti neri mostravano l’idea di lutto, per il resto potei paragonarla a una dea abbagliante.
Scese le scale lentamente, e mi sembrò di essere in un film, in cui il principe vede la ragazza che sembrava un brutto anatroccolo trasformarsi in cigno, scendendo le scale.
Solo che non avevo mai pensato a Teresa come ad un brutto anatroccolo, anzi.
I capelli lunghi erano stati lasciati sciolti, a cadere sulle spalle.
-Jane la smetti di fissarmi?-
-E chi fissava te? Guardavo il fantastico vestito che porti addosso!-
-Sei sempre simpatico tu, vero?-
-Vuoi che faccia un giochino di prestigio?-
La vidi scrollarsi i capelli e guardarmi, esplorò il mio completo con interesse.
-No, non credo. Bel vestito. Suppongo che non sia nuovo, vero?-
-Come fai a dirlo? È sciupato?- chiesi, continuando a guardarla negli occhi verdi.
-Oh, no, assolutamente. Solo che ti ho visto in trasmissione con un vestito proprio uguale a questo. Qualche anno fa.- ammise con un certo imbarazzo.
Non sapevo che mi avesse mai visto prima di conoscermi personalmente.
-Beh, mi hai beccato! Non è nuovo.- le concessi sorridendo.
Uscimmo dalla casa e trovammo tutti coinvolti in un ballo lento. Ci fermammo sulla soglia ad osservare le coppie.
Cho ballava con Elise, Van Pelt con James Lank, Rigsby con una ragazza bionda che, probabilmente, lo aveva invitato.
-Vuoi ballare?- chiesi a brucia pelo a Lisbon.
-Non credo-
-Non credere non significa non volere!- osservai.
-Jane, non posso, sono in servizio!-
-Lisbon, puoi, è una festa!-
-Vuoi che io balli con te?- domandò, imitando uno dei miei trucchi più riusciti.
-Se te l’ho chiesto probabilmente non mi dispiace!-
Le vidi saettare lo sguardo da me alla pista da ballo.
-Ok.- disse dopo poco.
Sorrisi e le presi la mano trascinandola delicatamente nella sala da ballo.
Seguimmo la musica ballando abbracciati, era difficile resistere al profumo che emanava, ai capelli che mi sfioravano il viso per il vento. E anche al suo corpo che si muoveva con il mio a tempo di musica.
Spostai leggermente lo sguardo e la trovai ad occhi chiusi, continuai a guidare il ballo finchè la musica non finì e fu il momento di tornare in albergo.
Per tutto il tragitto non parlai, era tardi e il taxi correva veloce verso l’hotel. Mi guardavo le mani, mi guardavo la fede.
Ero confuso. Mi piaceva Lisbon, fisicamente, psicologicamente. Provavo un certo affetto. Ma, non mi ero mai spinto a pensare che potessimo provare qualcosa di più l’una per l’altro. Di certo non era il momento giusto per scoprirlo, sarebbe stato troppo pericoloso.
Ma, quella sera, potei scommettere che i nostri cuori battessero all’unisono.

 

 

 

 

 

Dice l'autrice:
Ebbene, ragazze e ragazzi, uomini e donne, sappiate che ovviamente Jane e Lisbon devono iniziare a pensare ai loro sentimenti e soprattutto Jane, che è quello più confuso e insicuro. 
Questa storia è in fase di revisione, per cui se state leggendo questo capitolo un'altra volta dopo del tempo, sappiate che potrebbe essere diverso da come lo avete letto la prima volta.
Magari migliore, spero.

Recensite!!

Sasy

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Due morti e un temporale ***



Due morti e un funerale


POV Teresa
-Agente Lisbon voglio delle spiegazioni! Vi ho mandato in quel buco di posto perché trovaste l’assassino il più presto possibile, non riesco a capire come abbiate fatto in una settimana a non aver trovato neppure un indizio!-

-Signora Hightower, non so che dirle, è un assassino esperto o molto furbo, non so come definirlo… abbiamo interrogato quasi tutti i lavoratori delle scuole a cui abbiamo ristretto il campo, ma navighiamo in alto mare.-
-Questo lo so bene! Voglio che mi risolviate il caso in poco tempo, poi dobbiamo chiacchierare di persona, signorina Lisbon!- Hightower riattaccò.
Avevo paura di cosa avrebbe potuto fare, sapevo bene che non le stavo particolarmente a cuore e che mi avrebbe buttato fuori volentieri. 
Ma nel mio lavoro non si potevano fare le cose di fretta in modo da fare una bella figura con i procuratori, gli assassini venivano condannati a  morte in America, e non si doveva correre il rischio di uccidere un innocente solo per dare un volto e un nome alla paura dei paesani, e scoprire, più in là con gli anni, che l’assassino viveva ancora nel paese senza problemi.
Certo, l’Hightower era un bravo capo, anche lei lottava per la giustizia, ma le interessava anche l’opinione degli altri.
-Lisbon abbiamo un problema- Jane entrò nella camera d’albergo alla velocità della luce, io strinsi velocemente l’asciugamano intorno al corpo, arrossendo di vergogna (il brutto vizio di Jane di non bussare era ancora più irritante adesso che condividevamo una stanza) ero appena uscita dalla doccia –Oh scusa…-
-Il tuo eterno vizio di non bussare! Va bé, che è successo?-
-Abbiamo un altro morto.- mi alzai di scatto
-Merda. Che cosa? Dove, quando, chi?-
-Tayline Lalvie, sulle montagne al confine con il Canada, è stata trovata stamattina da alcuni alpinisti. La radura in cui l’hanno trovata è molto simile a quella di Terrie Lank.-
-Povera ragazza, dobbiamo andare?-
-E' nostra competenza, lo stile di assassinio sembra lo stesso.-
-Merda, abbiamo di fronte un assassino seriale?-
-Sembra- Jane sembrava turbato, aveva sicuramente notato qualcosa di diverso e strano.
-Ti dispiacerebbe illuminarmi con i tuoi pensieri-
-I serial killer sono persone psicopatiche che hanno una specie di forma di autismo, loro uccidono a intervalli regolari e con una certa logica, una certa categoria di persone, con un certo aspetto…-
-Come Red John uccide solo donne… se non quando fa errori che poi deve coprire.-
-Esatto-
-Certo… quindi?-
-Quindi qui sceglie le sue vittime a caso… più  o meno, vuole depistarci sulla farsa del serial killer mentre mira a uccidere la persona che vuole veramente morta.-
-E fin qui ci arrivo, ma quale sarebbe il punto in comune?-
-Le iniziali dei nomi, Lisbon, Terrie Lank = T. L. Tayline Lalvie = T. L.-
Dentro di me crebbe un incresciosa paura: io mi chiamavo Teresa Lisbon = T. L.
-E' sicuramente una coincidenza Lisbon, ci ho pensato anche io.-
Ero un po’ seccata dal fatto che, ogni volta che poteva, Jane mettesse in mostra i miei pensieri ma non mi arrabbiai.
-Dobbiamo andare a dirlo agli altri-
-Lo sanno, ero con loro quando ho ricevuto la chiamata del ragazzo che stava facendo sosta lì nella radura.-
-Aspetta solo cinque minuti, scendo-
Entrai in  bagno e mi cambiai, mi misi i miei abituali Jeans scuri e una maglia pesante grigio scuro, sciarpa e cappotto. Asciugai in fretta i capelli e uscii dal bagno.
-Puntualissima- disse Jane mentre scendevamo le scale dell’albergo

-Allora, ragazzi, adesso sapete come stanno le cose, Van Pelt, tu cerca qualcosa su questa Tayline Lalvie, Rigsby e Cho interrogate i familiari appena saprete chi è e di dov’è. Io e Jane andiamo sul posto.-
-Non è tardi capo?-
-Troveremo un posto lì. Domani saremo di nuovo qui.-

Io e Jane salimmo in un taxi e corremmo verso la provincia di Adak, il corpo era stato trovato in alto, chiamai lo sceriffo della zona, che mi informò che c’era un unico albergo di cui era libera una sola matrimoniale, senza servizio in camera né nessun servizio pubblico durante la notte.
Mi sentii morire, mentre Jane rideva di gusto. Conoscendolo non sapevo se interpretare bene la sua risata: lui rideva solo se nervoso.
Arrivammo sul luogo del delitto che erano le undici di sera, era buio e non c’era un anima nel albergo, si accedeva alla radura salendo su una strada tutta curve e, alla fine, ci fermammo in uno spiazzo di erba secca.
-Un posticino sereno.- commentò sarcastico Jane
-Agente Lisbon, agente Jane.- ci strinse la mano lo sceriffo –Sono lo sceriffo Cristian Tompson.-
-Piacere, ma io sono un agente, lui è un consulente-
-D’accordo- sembrava distrutto
-Sembra davvero distrutto, conosceva la ragazza?- chiese come leggendomi nel pensiero Jane.
-Io… no, cioè, ecco… io…-
-Aveva una relazione sessuale con la vittima?- domandò totalemnte senza tatto.
-No! Scherza? Assolutamente!-
Jane si avvicinò alla vittima, con una pila.
-Lisbon vieni qui-
Guardai la vittima: stesso fregaccio rosso sul collo, stessi vestiti stropicciati e pieni di gesso per lavagne, pelucchi di scopa e schizzi di acido. Odore di varichina. Colpo di pistola dietro la nuca.
-Avete gli stessi incisivi e anche gli stessi occhi… è sua figlia?-
Lo sceriffo si impietrì e aspettò molto a rispondere, poi, sotto lo sguardo penetrante di Jane si lasciò andare.
-Era mia figlia ma la madre non me l’ha mai fatta riconoscere.-
-Capisco.- commentò Jane ritornando a posare il suo sguardo sulla vittima.
-Tayline aveva 17 anni, e l’ha spezzata questa pistola.-
Lo sceriffo ci consegnò una pistola identica a quella con cui era stato ucciso Terrie Lank.
Jane la osservò e annusò, controllo l’intera arma e poi me la consegnò.
-E' una donna.- affermò alzando lo sguardo su di me –Mi dispiace per la sua perdita signor Tompson, secondo me avrebbe dovuto dirle che era suo padre, comunque. La ragazza le voleva bene e provava un certo affetto per lei, avrebbe capito.- Lo vidi stringere la spalla dello sceriffo come se stesse per avere un mancamento e guardare lontano con occhi vuoti. E poi, come se qualcun'altro parlasse al posto suo continuò:  -Dice che aveva sempre sospettato che ci fosse qualcosa che vi legasse ed è per questo che le è sempre stata vicino. Dice che la perdona per l'omissione e che sta bene, adesso. Anche se è triste perché non la può più vedere e non può più parlare con lei. Piange di commozione...- tossì e sbattè le palpebre -Se ne è andata...- disse poi. Fissando lo sguardo a terra e girandosi per andarsene.
Lo guardai stralunata per diversi attimi prima di capire che stava recitando. Era estremamente bravo a mentire. Tanto bravo che mi spaventò.
-Cos’è? Un sensitivo?- disse l'uomo. Palesemente sollevato.
-Una specie...- rispose Jane con gli occhi visibilmente gonfi.

Mentre camminavamo verso l’albergo aveva già recuperato la sua faccia da schiaffi.
-Cos’era quello?-
-Un modo per far stare meglio un padre.-
-Ma ti ha fatto stare male farlo, l’ho visto!-
-Sì, ma non è un problema… ci ero abituato!-
-Perché l’hai fatto?- domandai, scuotendo la testa senza capire.
-Perché, anche se ti sembrerà strano, le bugie a fin di bene non fanno sempre male. Kristina mi disse che mia figlia non aveva sofferto… prima di capire perché lo sapesse mi aveva fatto stare meglio.-
-Anche se potevi sospettare che non fosse vero?-
-Avevo pur sempre il beneficio del dubbio!-
Continuammo a camminare in silenzio
-Credo che dovremmo crearci una copertura.-
-Cioè?-
-Credo sia meglio se qui ci creiamo uno pseudonimo. Fingiamo di essere marito e moglie.-
-Ma sei pazzo?-
-No… e ho paura che rimarremo qui un bel po’, si sta per scatenare una bufera di neve… lo so che non le hai mai viste ne provate, ma, credimi, se la neve blocca le strade (e qui lo fa di continuo) non potremo venire via prima di tre o quattro giorni.-
-Cazzo, no!- esclamai, in preda al panico.
-E' così Lisbon. Non essere così scurrile!-
-Quindi?-
-Qui saremo Patrick e Teresa Jane. Sposini in vacanza.-
-Ma perché?-
-Per investigare senza rischiare che il killer si insospettisca… e se qualcuno si insospettirà vorrà dire che sa.-
-Capisco ma…-
-Sì dovremmo dormire insieme.-
-E…-
-Sì, dovremmo fingere bene anche in pubblico.-
-Ma…-
-Tranquilla, non ti bacerò!-
-Mmh… forse potremmo… ok, ci sto.- cedetti, leggermente irritata per l’ennesima dimostrazione di quanto fossi facile da leggere.
-Abbiamo una prenotazione a nome Jane.-
-A me risulta che abbiano prenotato Jane e Lisbon...-
-Amore, hanno usato il tuo nome di battesimo! Accipicchia, io e lei siamo sposati, siamo il signore e la signora Jane.- recitava tanto bene che l'avrei potuto credere reale anche io.
-Ok... auguri allora! Buon soggiorno!- ci sorrise la receptionist
-Grazie, vieni amore?-
-Eccomi.- 
Mi sembrava strano sentirmi dire “amore” da Patrick, ma, sinceramente, mi piaceva.
Sorrisi e mi avvicinai al mio finto marito 
Ci recammo nella nostra stanza, a piano terra, che aveva uno stile molto montano: il letto alto e non troppo grande, molte coperte pesanti, un tappeto a macchie bianche e nere, un LCD 32 pollici, un computer e una scrivania di legno scuro, pavimento di parquet scuro, il muro di un legno più chiaro, dietro il letto una scala che portava al bagno, molti quadri e un caminetto.
Era decisamente più accogliente e carino di come l’aveva descritto lo sceriffo.
-E' carina- si espresse Jane
-Sì, molto- confermai
Andai in bagno e mi cambiai, indossai la mia maglietta del “Dallas High school” e un paio di pantaloni di una tuta al ginocchio. Rigorosamente Blu.
Tornai giù e trovai Jane sotto le coperte con in mano un libro.
-Che leggi?- chiesi prima di notare la mise in cui si trovava
-Il ritratto di Dorian Grey- rispose.
-Jane! Ma come dormi?-
-In pantaloni di una tuta.- disse nello stesso tono di prima –Perché?- domandò poi, alzando lo sguardo verso di me.
-Perché sei a torso nudo!-
-E allora?-
-Io dovrei dormire con te?-
-Se vuoi c’è il pavimento-
-Mettiti una t-shirt-
-Non ce l’ho-
-Cosa significa che non ce l’hai?-
-Proprio quello che ho detto.- mi scrutò e sorrise malizioso –Ma che problema hai? Non ti ecciterò, mica?!-
-No, assolutamente.-
Entrai nel letto contrariata, e mi misi il più lontano possibile da lui, proprio sul bordo del letto.
Dopo qualche momento di incertezza e imbarazzo mi addormentai, subito dopo aver sentito iniziare a scatenarsi un temporale fuori dalla finestra.
Faceva freddo, molto freddo.
Mentre dormivo, senza accorgermene, mi avvicinai al centro del letto, trovando un cuscino molto più caldo. Sognai di essere sdraiata sulla sabbia del mar caraibico, con un busto sormontato da una testa bionda a farmi da cuscino con il suo petto.
Ma, in parte, era solo un sogno.

 

 

 

 

Dice l'autrice:
Buonasera a tutti! Si scalda la situazione, eh? 
Ok, come dicevo: Questa storia è in fase di rielaborazione, quindi se la state rileggendo, può darsi che sia un po' diversa, magari in meglio.

Recensite!

Sasy

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Tra lavoro e privato non buttar fiato ***



Tra lavoro e privato non buttar fiato
 

POV JANE

Sbattei le palpebre, abbagliato dalla luce del sole. Mossi un braccio e strusciai una mano sugli occhi, chiedendomi come potesse esserci tanta luce nella stanza.
Quando fui sveglio del tutto mi resi conto di non essere da solo nel letto, ne, tanto meno, di occupare uno spazio tutto mio.
Con la testa poggiata sul mio petto stava Teresa, i capelli corvini scompigliati, una mano sul mio stomaco e sdraiata per trasversale nel letto.
Era aggrovigliata a me e alle coperte in un modo decisamente imbarazzante, ma piacevole.
Non volevo svegliarla per cui non mi mossi, continuando ad osservarla, ero sicuro che non fosse tardi.
Il suo respiro mi provocava un leggero fremito sulla pelle.
Ad un certo punto si mosse, avvicinandosi a me ancora di più, strinse il braccio intorno al mio busto e si avvicinò con il corpo, attorcigliò una gamba alle mie e posò la testa sulla mia spalla, i nostri corpi aderivano perfettamente.
La cosa mi dava fin troppo piacere, per i miei gusti. Era un rischio piuttosto altro, per me che ero casto da sei anni, stare a questa vicinanza con una donna che mi attraeva tanto quanto faceva Teresa.
Cercai di non pensare a quello e mi concentrai sul fatto che a quel punto se mi fossi mosso anche solo di pochi centimetri l’avrei svegliata e lei si sarebbe tormentata per il giorno intero per essersi tanto avvicinata a me.
Volevo aspettare che si spostasse per alzarmi dal letto, ma di lì a poco, mi resi conto che era un utopia, non si sarebbe spostata.
Girai la testa in cerca della sveglia, pensavo fossero le 5 di mattina o, al massimo, le 6.
Mi prese un colpo guardando l’orologio
-Le undici?!- emisi in un gridolino
Lisbon si mosse appena. 
-Sta zitto Patrick- borbottò
Mi chiesi se stesse sognando
-Dai, lasciami prendere il sole. Resta qui a farmi da cuscino e leggimi “Romeo e Giulietta”, non urlare, dai!-
Sognava di me e lei insieme sulla spiaggia? Stranamente piacevole e imbarazzante.
-Lis… Lisbon?- chiesi
-Uhm… dai voglio prendere il sole-
-Lisbon? Su, dai, alzati!-
-Uffa!- 
Iniziò a sbattere le palpebre e a mettere a fuoco l’immagine che si ritrovava davanti.
Alzò leggermente la testa, osservando la condizione di attorcigliamento in cui ci trovavamo.
La vidi spalancare gli occhi e scattare in piedi a una velocità incredibile.
-OH CAZZO!- urlò
Risi, era così carina con i capelli tutti arruffati e la faccia rossa rossa per la vergogna.
Si osservò, constatando di avere tutti gli indumenti addosso, tirò un sospiro di sollievo e mi puntò un dito contro, sistemandosi i capelli con l’altra mano.
-Cosa mi hai fatto?-
-Io?- chiesi, aggrottando le sopracciglia.
-Sì, tu?-
Risi di nuovo.
-Assolutamente niente, sei tu che sogni di me e te sdraiati sulla sabbia tropicale a prendere il sole mentre io ti leggo Shakespeare.-
-Che… che dici?- chiese abbassando lo sguardo verso il pavimento e arrossendo ancora di più.
-Ripeto solo quello che hai farfugliato mentre dormivi.-
-Io dico che te lo sei sognato!- affermò incrociando le braccia e abbassando lo sguardo. 
-No no, Lisbon. Non l'ho sognato io, l'hai sognato tu. E comunque... oh, Lisbon, non è un delitto! Ti sei ritrovata attaccata a un corpo tanto perfetto e sei stata condizionata! È una cosa che succede!-
-Sei un deficiente egocentrico, sono pronta a scommettere che te lo stai inventando per vedere come influisce sulla mia odierna incazzatura! Sono più che sicura che hai istinti suicidi, ma se esplodo giuro che te salti per aria insieme a me! Tanto come minimo è colpa tua!-
-Donna di poca fede, sei una piccola rigira frittate, non è assolutamente vero! Se mi sogni a torso nudo è perché sei stata condizionata… e a prescindere dalla tua reazione posso dire che questo non è il primo sogno che fai di me.- la vidi arrossire profondamente –WOW! Non è neanche il meno casto!-
-Hai le allucinazioni! E tu non sai veramente leggere nella mente, altrimenti sapresti che ti sto mandando milioni di accidenti.-
-Ma lo so eccome!-
L’avrei presa in giro a vita, questo era certo!
-Si può sapere che ore sono?- dissimulò
-Le undici- affermai alzandomi e stiracchiandomi
-Che cosa?-
-Le undici- ripetei facendo un po’ di streching
-Ma non è possibile-
-Lisbon è così! Che sia possibile o meno- 
Si avvicinò alla finestra e scostò le tende.
-Oh mio dio! Dov’è la montagna che avevamo davanti?-
-Che stai dicendo?- le chiesi, piegando la testa di lato come se stesse dando di matto.
-Vieni a vedere-
Mi alzai dal letto, scostando le tantissime coperte e con passo svelto mi avvicinai alla finestra e cercai di guardare fuori, ma quello che vidi fu solo un inconsistente bianco. Sorrisi.
-Neve- asserii
-Ma su tutta la finestra?- mi chiese preoccupata
-Saranno più o meno 4 metri di neve, scesa stanotte. È strano che  non me ne sia accorto … di solito mi sveglio se succede qualcosa di strano … quelle poche volte che dormo.-
Già... io non dormivo quasi mai. Neppure imbottito di sonniferi riuscivo a dormire in modo quanto meno decente. Di solito mi svegliavo nel bel mezzo della notte, avevo incubi...
Non riuscivo a capire perché avessi dormito così beatamente tutta la notte e anche più...
-Grazie dell’informazione-
-Pensavo ad alta voce-
-Adesso che facciamo? Come torniamo dai ragazzi?-
-Semplice, non possiamo tornare! Ma hai internet, no?-
-Sì… ma abbiamo un caso importante tra le mani e la Hightower conta della mia presenza, credo che mi stia testando per controllare quanto sono utile al distretto.-
-Sa che sei importantissima per la squadra, sei l’unica che mi tiene in riga.-
-Tu? Non è vero, nessuno ti tiene in riga, io tanto meno!-
Ci sedemmo ai piedi del letto, chiacchierando.
-Oh Lisbon! Non crederai mica che voglia buttarti fuori?-
-Piacere non le piaccio. Perché non dovrei pensarlo?-
-Sei l’agente più competente del CBI! E poi ci sono sempre io a difenderti!-
-Tu e le tue parole al vento! La smetti di fare promesse inutili? Non ho bisogno di difensori!-
-Te l’ho già detto Lisbon, io ti salverò sempre, che tu lo voglia o no!-
-Sì, come ti pare, tanto non ti credo! Sei solo un grande attore, molto bravo a bleffare per far sentire meglio le persone sul momento, ma poi la bella illusione se ne va.-
-Sei troppo sfiduciata nei confronti delle persone, devi fidarti di me.-
-Come faccio a fidarmi di te? Quanto tempo è che lavoriamo insieme? quattro anni e mezzo? In tutto questo tempo, mi hai mai dato dimostrazione di mantenere le promesse? Mi hai giurato che non mi avresti più combinato casini e mi hai fatto espellere dalla Hightower poco dopo che era arrivata, mi avevi promesso di usare metodi più ortodossi e hai corrotto i miei agenti perché ti seguissero a mia insaputa, istighi le persone a picchiarsi e potrei andare avanti per ore, ma mi sembra inutile.- si alzò muovendosi verso il bagno –Quando torno ti voglio vedere pronto.- mi imperò.
Sorrisi amareggiato, non avrebbe mai avuto fiducia in me, mi ero comportato da bambino e lei mi aveva sempre difeso; era andata contro Bosco, Minelli, tutti i vari procuratori, avvocati, agenti, sceriffi, federali...
E io non l’avevo mai ripagata …
Avevo fatto tante promesse, tante parole che le avevano dato la felicità di un momento, ma poi? Non avevo mai mantenuto ciò che avevo detto, facendola soffrire.
Ma io avevo fatto anche promesse serie, promesse che avrei mantenuto se ci fosse stato bisogno.
L’avrei sempre salvata se si fosse trovata in pericolo, non l’avrei mai ferita, se fossi stato in punto di morte avrei chiamato lei, ci sarei sempre stato se avesse avuto bisogno di me, le avrei sempre regalato un attimo di felicità se avessi avuto l’opportunità …
Mi vestii e mi fermai a riflettere sulla nottata appena passata…
Avevo dormito come non facevo da anni, mi ero svegliato riposato, ero tranquillo, non avevo nessun bisogno recondito di rompere le scatole a qualcuno. Possibile che fosse per essere stato abbracciato a un donna tutta la notte?
Potevo comprenderlo, ma non volevo crederci. Non sapevo se fosse non essere stato solo nel letto o avere lei, proprio lei, accanto.
Non sapevo se sarebbe stato lo stesso con un'altra donna, o se, per potermi definire in pace con il mondo, avessi avuto bisogno di lei sola.
-Jane?- chiese da sotto la doccia
-Sì, Lisbon?- risposi, distraendomi dai miei pensieri
-Dici che è tutto bloccato fuori?-
-Sì, suppongo di sì, ma forse entro sera avranno sistemato le strade…-
-E nel frattempo?-
-Dobbiamo parlare con la piccola Grace, Cho e Rigsby.-
-E come?-
-Via chat.-
-Sì ma non è uguale.-
-Le linee telefoniche non funzionano, ho già provato.-
-Neppure il cellulare?-
-No.-
-E perché internet dovrebbe funzionare?-
-Perché c’è una chiavetta apposta-
La vidi uscire dal bagno con un asciugamano stretto intorno alla sua esile figura e uno con cui si stropicciava i capelli
-E accendi il computer allora!-
-In realtà io vorrei vedere i mondiali-
-JANE! Chi se ne frega dei mondiali! Dobbiamo lavorare!-
-Tu sei l’agente, io sono solo un consulente!-
-Infatti, io ho una pistola, tu no!-
Sorrisi divertito
-Va bene, capitano, ai suoi ordini!-
Accesi il computer entrando nella chat del CBI, contattando Van Pelt, che, ovviamente, era in linea.

‘Ciao Piccola Grace’
‘Ciao Jane, che vi e successo?’
‘Niente di che… problemi di sengnale’
‘Perché non rispondete al telefono?’
‘Bloccati da una tempesta di neve’
‘Accidenti, questo è un problema!’
‘Direi.’

-Jane? Ah, bravo, finalmente ne fai una buona.-
-Come sei simpatica Lisbon-
-Lo so Jane.-
Mi girai ad osservarla, si era vestita. Indossava un maglione pesante, di lana, le stava decisamente largo, tanto che non lo riconobbi come un indumento da donna. Jeans scuri, distintivo e pistola.
Osservai meglio ancora il maglione.
-Sì, Jane! È il tuo maglione! Che problema c’è? Lo so, lo so, non avrei dovuto, ma fa freddo, ho un'altra mia maglia sotto!-
-Non ho nessun problema! Puoi metterlo, tranquilla!-
-Bravo, e controlla che Van Pelt non se ne vada dalla linea.-

‘Mi spiegate come intendete tornare ad Anchorage?’
‘Siamo impossibilitati finché non sistemano le strade!’
‘E quindi come pensiamo al caso?’
‘Esattamente nello stesso modo in cui stiamo chiacchierando adesso’
‘Ok, capo, abbiamo degli aggiornamenti?’
‘Jane e convinto che il killer sia una donna’
‘Come fa a dirlo?’

-Già, Jane, come fai a dirlo?-
Si era seduta accanto a me su una sedia di canapa.

‘Semplicemente la ragazza odorava di profumo da donna’

-Possession, di Chanel, se posso precisare.-
La sentii sbuffare

‘Forse perché era una ragazza’
‘Non ho finito, sparo alla nuca, da vicino, sparato dal basso, quindi o è un diversivo o il killer e piu basso della vittima, se fosse un uomo sarebbe strano che fosse piùù basso di 1 metro e 70’
‘Questo non significa niente!’
‘Sulla pistola c’erano brillantini, la ragazza non aveva nessun tipo di trucco addosso, quindi non erano suoi’
‘Ok, controllerò quante donne lavorano nelle scuole a cui abbiamo ristretto il campo’
‘Di a Cho e a Rigsby di andare a interrogare la madre di Tayline… routine’
‘Va bene capo, spero che torniate presto’

-Sono ipotesi campate in aria.-
-Le mie sono sempre ipotesi campate in aria, ma sono sempre la verità.-
-E tu non sei un sensitivo?! Certo che sei contraddittorio! Che è? Fai la cristallomanzia con lo schermo del  computer?-
-Ah ah! Wow Lisbon, non si sa mai… ma tu non puoi tanto parlare… ricordati che io ho in potere la tua mente-
Mi alzai,  girandomi per la stanza
-Ragionando, come possiamo capire chi sia? Sicuramente è qualcuno che non ha un grande stipendio e che ha accesso allo sgabuzzino di una scuola… se solo trovassimo il luogo del delitto! Credo che sia sempre lo stesso, ma non so…-
-Ok, fin qui possiamo essere d’accordo, ma poi?-
-Donna, è sicuramente una donna, più o meno alta come te, uno e sessanta, simile peso, un po’ più formosa potrei osare e anche molto più passionale e ossessiva…-
-Tutto ciò lo deduci da…?-
-Ancora non mi conosci? I brillantini, il profumo, il tipo di sparo…-
-Ok, provo a darti retta, va bene?-
-Finalmente Lisbon, e… uff, io ho una gran fame, tu?-
-Sinceramente un po’, ma non troppo.-
-Fregatene della linea, Lisbon, sei perfetta!-
La vidi arrossire, ma non capii per quale delle mie affermazioni.
-Grazie per il “perfetta” ma io non lo sono e non me ne frega niente della linea-
-Sei una bugiarda, scendiamo, qualcosa ci serviranno di sicuro!-
Mi avviai alla porta e la lasciai uscire, aprendole la strada.
Mentre ci avviavamo verso la sala da pranzo la vidi legarsi i capelli in una coda alta, era affascinante, anche in quel stato semi sportivo in cui si trovava.
Mangiammo lentamente, chiacchierando molto e di argomenti differenti, ridevamo e scherzavano.
Un primo pomeriggio molto bello, leggero e tranquillo.
-Vado a fare un giro-
Mi disse abbassando lo sguardo
-Lisbon, non tentare di nascondermi ciò che vuoi fare, vai in palestra, se credi-
-Cretino! Chi ti dice che vado in palestra?-
-Il fatto che non hai un poligono a portata di mano e devi pensare, ergo, palestra-
-Esci dalla mia testa!- mi disse cercando di nascondere un sorriso
Si alzò da tavola e si incamminò verso le scale, puntava al 4 piano, dove c’erano degli strumenti da ginnastica, la osservai camminare lentamente e poi correre salendo le scalette, finché sparì dalla mia vista.
Lisbon era sicuramente una bella donna, sensibile e molto dolce. Una donna che si era costruita un muro dietro il quale nascondersi, dietro al quale proteggersi da ogni sentimento esterno.
Un muro dietro il quale si nascondeva anche dalle persone come me, che sparavano sentenze e improperi senza fare caso a quanto potessero ferire.
Lisbon era donna che mi piaceva, in ogni senso si possa esplorare quella parola.
-Ragazzo...- dissi, rivolgendomi al barman –...puoi portarmi un tè?-
-Subito signore.-
Ripensai alla notte appena passata, avevo dormito e questo mi stupiva, mi ero aspettato di non chiudere occhio, dato che avevo lasciato i sonniferi nella stanza dell’altro albergo, e invece avevo dormito come un bambino, riposato e tranquillo.
Non mi capacitavo di come fosse possibile, avevo la risposta ma non avevo intenzione di dichiararla a me stesso.
Iniziai a sorseggiare il mio tè e iniziai a camminare per le stanze del albergo, cercavo di concentrarmi, di analizzare cose che non dipendevano dal mio stato d’animo, ma più cercavo la concentrazione più la mia mente si perdeva ad analizzare la mia vita.
Mi resi conto di essere stato un leone chiuso in una gabbia da gatto, e, adesso che il leone aveva buttato giù una sbarra della sua misera prigione la sua forza interiore tentava di abbattere gli ostacoli.
Ma mi promisi che avrei tenuto a bada me stesso, almeno finché Red John non fosse morto, non potevo rischiare di perdere una altra persona, la donna che amavo.

 

 

 

Dice l'autrice:
Salve a tutti!
Il calore si alza! E aspettata ancora un po' e vedrete!!
Beh, ripeto: La storia è in fase di rivisitazione, ci sta che sia un po' diversa, possibilmente migliore di come era la prima volta che l'avete letta!

Recensite, please!

Sasy

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** Red loving Table ***


Red loving Table


POV VAN PELT
-Ma vi rendete conto?- esclamai appena chiuso il computer.
-Come sono carini!- Disse Elise, sotto il mio sguardo scombussolato.
-Amore, credo che questo sia un problema…- disse saggiamente Cho.
-Sì, me lo posso immaginare… ma provate a pensare bene a loro due, in una camera d’albergo con un solo letto matrimoniale, durante una tempesta di neve nel freddo dell’Alaska!-
Ci guardammo tutti, ognuno con un idea diversa, in cuor suo.
Io ero preoccupata: Il loro rapporto era pericoloso almeno quanto lo era per me e Rigsby, con l’unica differenza che io e lui non dormivamo insieme.
Elise sprizzava felicità da tutti i pori, doveva essere inguaribilmente romantica. Quasi più di me.
Wayne sembrava terrorizzato, ma non sapevo definire se lo fosse per il capo e Jane o per il suo fondo pensione. Mi aveva confessato, quando eravamo fidanzati, che aveva scommesso con Cho che Jane e Lisbon si sarebbero messi insieme. Lui aveva detto che una situazione sentimentale tra i due era “assolutamente impossibile”…
Ciò mi portò ad esaminare l’espressione soddisfatta e per niente turbata di Cho, un ombra di sorriso contaminava la sua impassibile faccia da Ice-man.
-Lisbon non cadrebbe mai tra le braccia di Jane.- Esclamò Wayne, che cercava di auto convincersi che una plausibile relazione tra il capo e il nostro consulente fosse impossibile.
-Tu non sei una donna, Rigsby, Jane è un bell’uomo, è intelligente e carismatico… io trovo che sia molto sexy!- affermo decisa Elise.
-Confermo.- mi unii, annuendo.
-Ovviamente non è il mio tipo.- si difese contro l’occhio gelido del glaciale Cho ingelosito –Ma posso scommettere che Lisbon sia innamorata di lui! Ci vuole l’occhio di una donna per rendersene conto.-
Gli uomini si girarono verso di me, in cerca di conferma.
-Io credo che tra di loro ci sia una forte attrazione, li trovo perfetti per stare insieme, ma credo che Hightower possa non gradire e che la nostra squadra possa essere sciolta.-
-Non è detto, infondo non infrangerebbero nessuna regola. Non ci sono divieti tra agente e consulente. Rigsby, vuoi cambiare scommessa?-
-No!-
-Sei testardo e orgoglioso!- lo rimproverai
-Cambiamo solo scommessa… altrimenti perdi di sicuro, torniamo all’originale!-
-Che vorrebbe dire?- chiesi incuriosita a Cho
-Semplicemente, avevamo scommesso, all’inizio, che tra Jane e Lisbon, prima o poi, ci sarebbe stato qualcosa, o in alternativa lui si sarebbe ucciso.-
-E questa la sapevo anche io!-
-Arrivati in Alaska abbiamo cambiato, appena sapute le divisioni delle stanze…-
-Cioè…?-
-Ho proposto di scommettere che antro la fine del caso Jane e Lisbon andranno a letto insieme, senza che ci sia un reale coinvolgimento emotivo tra i due. Ma solo dettati dalla... "situazione".-
-KIMBALL!-
-WAYNE!-
Urlammo io e Elise contemporaneamente.
-Che diavolo di scommesse fate? Sulla vita sessuale del capo?-
-No, di Jane.- disse Cho, serafico.
-Ma è uguale, se comprende Lisbon!-
-Non è proprio così.-
-Lo è.- lo intimò Elise
-Ok. Allora, Wayne?-
Vidi Elise alzare gli occhi al cielo
-Restiamo alla scommessa di adesso.- disse lui, caparbio.
 
-Agenti?- il sottosceriffo Brandly entrò nella sala computer dell’albergo
-Sì?- disse Cho, che, in assenza di Lisbon, avrebbe preso la direzione della nostra parte del caso.
-Ma … l’agente Lisbon e … il sensitivo … Patrick Jane-
-Consulente.- corresse professionalmente Kim –Bloccati ad Adak da una tempesta di neve!-
-Non ditemi che sono ancora lì?-
-Sì, perché?- mi intromisi.
-Sono caduti più di quattro metri di neve e hanno appena detto al TG che sono saltati gli impianti di riscaldamento di metà stato.-
Ci guardammo tutti.
-Quindi?- chiese Wayne, ingoiando a vuoto.
-O hanno un camino nella stanza o si riscaldano da soli.-
-Abbiamo aggiornamenti sul caso?- interruppe la conversazione Cho –Credo che ci siano cose più importati rispetto a come si debbano riscaldare Jane e il capo.-
Elise lo guardò di sbieco, con  fare accusatorio.
-Sì, ero venuto a dirvi che abbiamo trovato un probabile luogo del delitto …-
-Bene, veniamo.- ci avviammo verso un paesello vicino a Anchorage, Palmer.
Dopo 60 kilometri di curve insopportabili e termosifone rotto, ergo, freddo glaciale, arrivammo in un piccolo agglomerato urbano, in prossimità di un piccolo lago azzurro.
La scuola del paese era relativamente piccola, solo elementare, e il presunto luogo del delitto era uno sgabuzzino pieno di scope, una sedia girevole e un tavolino rosso al centro.
-La scientifica ha trovato tracce di sangue e di saliva su quella sedia lì .- disse, indicando la sedia girevole  -E una cosa molto curiosa proprio sotto il tavolo. Credo che potrebbe interessarvi...-
Incuriosita dalle parole dell’agente Brandly mi chinai sotto il tavolo, mentre Cho si faceva spiegare la dinamica seguita dall’indagine.
Mi piegai appena sotto il tavolino. Un immagine già vista e rivista moltissime volte, ma che, nonostante l’abitudine, creava una tanaglia che stringeva il cuore, mi apparve non appena fui abbastanza in basso per poterla vedere bene.
-Oh, mio Dio!- esclamai tra le lacrime.
Mi alzai, rovesciando il tavolino e scoprendo il suo segreto.
Uno smile di sangue rappreso era l’immagine che aveva scosso i miei sentimenti e avrebbe dato una svolta all’indagine. E non in senso positivo.
-John.- disse tra i denti Cho
-Questo cambia tutto...- commentò Rigsby.
-No, non cambia niente!- ribatté Kimball.
-Come no?- chiesi, intromettendomi e scostando gli occhi dal simbolo del male.
-Mi ha stufato questo John, adesso basta! Cos’è? È un assassino come lo sono tutti gli altri, va preso come prendiamo tutti!-
-Il problema è che sono anni che quest’uomo è un latitante e continua a uccidere senza lasciare tracce!-
-Lo so. Per questo adesso basta. E non ne discuto più.-
Mentre uscivamo Elise mi si avvicinò.
-Ha finito le parole del giorno!-
Sorrisi, lei non era un agente, ma era una donna intelligente e conosceva la storia di John il rosso, aveva capito che la scoperta mi aveva scosso e aveva cercato di distrarmi facendomi sorridere. Ma, sicuramente, non sarei stata io, da lì a un discorsetto in chat, ad essere la più distrutta.
 
-La cosa che non mi torna, però, è che Jane abbia detto che è una donna, il presunto assassino.- dissi mentre tornavamo verso la capitale.
-Mentre non l’ha mai neppure pensato quando si parlava di John il rosso!- mi completò Elise
-E sappiamo che Jane non sbaglia mai.- finii io
-Effettivamente…- iniziò Rigsby
-O è un emulatore, un seguace o… un assistente.- si intromise Cho mentre si guardava i piedi in macchina.
-Stavo dicendo...- ricominciò Wayne tossicchiando –... che effettivamente per queste cose ci serve Jane.-
-Lo credo anche io.- sospirai
Rientrando in città Elise mi propose di andare a fare un giro per le vie del centro, ero stanca e scossa e, in teoria, ero in servizio, ma, in pratica, un mio capo era a più di mille kilometri di distanza, l’altro sotto 4 metri di neve.
Ci congedammo con Cho e Rigsby iniziando a camminare, finché non ci fermammo in un pub per prendere una cioccolata calda.
-Se posso chiedertelo...- iniziai –...perché saresti contenta se Jane e Lisbon si mettessero insieme?-
-Sarei contenta perché Patrick maturerebbe una specie di passo avanti, avrebbe un esistenza meno tormentata e non si sentirebbe più solo. E Teresa è così sola e presa dal lavoro che… sì, credo che abbia bisogno di un uomo. E poi… che resti tra noi, però, mi sento minacciata di Teresa come fidanzata di Kimball.-
La guardai strabuzzando gli occhi
-Ma Cho ti adora!-
-Sì, lo so, ma sai com’è fatto. Lui non parla, è difficile capire ciò che prova e poi… dovrai ammettere che Lisbon è una bella donna e che Kim ha una grande stima di lei.-
-Hai detto bene, stima.-
-Sì, ma la stima che prova lui è così morbosa a parer mio! E in questo ultimo periodo sembra così distante… come se volesse dirmi qualcosa che lo turba!-
-Lisbon è una grande donna!-
-Sì, è una grande donna e molto bella e intelligente, carismatica e grintosa. E poi è americana!-
-Perché, tu no? E comunque... questo che c'entra?-
-Sì, di nascita io sono americana, ma la mia famiglia ha origini giapponesi. E poi non è ciò che intendevo, io ho tratti somatici molto simili a quelli di Kim. Mentre Teresa ha tratti dolci, non ha lineamenti marcati, ha gli occhi grandi e la pelle molto più colorata della mia.-
-Sono solo dettagli, fisici tra l’altro, non credo che Lisbon e Cho siano compatibili-
-Gli opposti si attraggono, questo si sa. E poi Lisbon è così perfetta!-
-Lisbon è una donna quasi perfetta, tu sei perfetta per Cho, capisci la differenza?- mi aveva fatta distrarre molto bene
-Sì, la capisco.- disse sorridendo
-Lisbon è fatta apposta per Jane, se devo essere sincera, ho sempre pensato che prima o poi si sarebbero messi insieme o, altrimenti, lei lo avrebbe ucciso per una cazzata di troppo!-
-Questo che c’entra?-
-Voglio solo aiutarti a capire che non devi sentirti minacciata da lei come donna! Kimball e Teresa sono amici, grandi amici. La cosa si conclude lì.-
-Già, sono un po' gelosa, forse, ma lo saresti anche tu se ti rendessi conto di com’è Kimball. Sotto sotto è un uomo dolcissimo. E poi è bello e intelligente.-
-Sì, bé, tra stile Cho e stile Jane preferisco Jane, ma… sì, è un tipo affascinante. Anche se…-
-Sei ancora innamorata di Wayne?-
Abbassai lo sguardo, in imbarazzo e con gli occhi gonfi.
-Mai smesso di esserlo.-
-Non credi che sia il momento di riprendertelo?-
-Hightower non approverebbe!-
-Ma tu mica glielo devi dire!-
-Lo scoprirebbe, come ha già fatto una volta.-
-Le voci giravano già da un pezzo e, a quanto mi ha detto Kimball, non eravate poi così indiscreti…-
Arrossii ancora di più
-Sì, lo so, ma… cioè, io…-
-Se lo ami e lui ti ricambia fregatene di tutto il resto!-
-Hai ragione, ma ormai è tardi-
-Non è mai troppo tardi-
Passarono alcuni minuti di silenzio, in cui mi concentrai sul fondo della mia tazza di cioccolata, assorta dai miei pensieri.
-Jane non sbaglia mai quando ha ipotesi?-
Sorrisi, colta alla sprovvista
-Cosa?-
-Sì, ecco, siete tutti convinti di non essere in grado di fare granché senza di lui…-
-La maggior parte delle sue “sensazioni” si rivelano giuste. E poi, ogni volta che ha detto che non era John non lo era, o viceversa. Ci serve lui.-
-E poi John il Rosso è suo, giusto?-
-Lui dice così. Ma ho paura che a un possibile scontro finale sarà lui di John, più che il contrario!-
Sorridemmo entrambe
-Credo che dovremmo andare, Jane deve sapere cosa abbiamo scoperto.-
-Andiamo… però credo che per addolcire Rigsby in una possibile chiacchierata da “coppia” ti servano questi.-
La vidi pagare il conto e prendere un pacchettino pieno di cioccolatini, sorrisi.
-Sono al bailies, al rum, wiski, cioccolato bianco, fondente, al latte, con le nocciole…-
-Come fai a sapere che a Wayne piace il cioccolato? Oh... non importa! Ho capito! Va bene, proverò a parlarci.- dissi, con un sorriso sulle labbra.
In cuor mio, però, temevo che non mi avrebbe ascoltato.





Dice l'autrice:
Buona giornata amiche e amici miei! E' sempre un piacere leggere le vostre recensioni lo sapete? Ebbene, anche questo capitolo è corretto.
Quindi, se è la seconda volta che lo leggete forse avete notato delle differenze, magari positive, con la prima volta che l'avete letto. 
E con questo vi saluto!

Recensite!!

Sasy

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** Acting half-truths ***


Acting half-truths

 

POV LISBON
Correvo sul tapirulant alla velocità massima, guardando fuori dalla finestra della palestra con le cuffie dell Ipod di Jane nelle orecchie, glielo avevo preso con il maglione, un po' incuriosita dalle canzoni che gli avevo sentito canticchiare in aereo. E poi volevo non pensare a niente, non pensare a ciò che avevo fatto nella notte appena passata e a come avevo dormito bene…
Che poi non avevo fatto niente, mi ero avvicinata quel tantino a un corpo molto invitante in un momento di estrema inconsapevolezza delle mie azioni.
“Dormivo, cazzo!” cercai di difendermi dai continui fendenti che mi tiravo da sola.
Mi concentrai sulla canzone che era appena iniziaa, cercando di distrarmi da ciò che, inconsapevolmente, avevo lasciato capire a Patrick. Lui aveva capito, in un qualche modo, che ero attratta da lui. Ma, forse, già lo sapeva. 
 

 In a little while from now 
If I'm not feeling any less sour 
I promise myself to treat myself 
And visit a nearby tower 

 
Capii trattarsi di “Alone Again Naturally”, una canzone che ascoltavo quando ero poco più che adolescente e che avevo sentito una volta in un film... come si chiamava? I miei primi 40 anni, mi pare. 
 

And climbing to the top will throw myself off 
In an effort to make it clear to whoever 
What it's like when you're shattered 
Left standing in the lurch at a church 
Where people saying: "My God, that's tough" 
"She stood him up" 
"No point in us remaining" 
"We may as well go home" 
As I did on my own 
Alone again, naturally 

 
Riflettei sulle parole, con la paura nel cuore, chissà quante volte Jane aveva pensato al suicidio…
Certo, non era proprio la stessa situazione della canzone, ma sicuramente anche lui avrebbe voluto far capire a tutti come si sentiva quando era a pezzi. Nella sua immensa solitudine.
E quanti pochi lo avevano capito. Io ero una di questi. Io avevo capito come stava, come si sentiva. Non facevo parte di quelli che inorriditi lo sentivano dire quanto la sua vendetta sarebbe stata reale. Io ero tra qui pochi che lo capivano, nonostante non condividessero la sua visione del mondo. 
 

To think that only yesterday 
I was cheerful, bright and gay 
Looking forward to, who wouldn't do? 
The role I was about to play? 

 
E, inevitabilmente, mi ritrovai a raffigurarmi anche io in quella canzone, anche io ero sola. E non ero più un'adolescente che la ascoltava senza capire davvero le parole della canzone. No, in realtà io non  l'avevo mai ascolata con le orecchie di una ragazzina. Io, da quando mia madre era morta, avevo sempre saputo cosa fosse la solitudine di trovarsi a difendere sè stessa e i miei fratelli dagli impervi affondi di tutto il resto del mondo.
 

But as if to knock me down 
Reality came around 
And without so much as a mere touch 
Cut me into little pieces 
Leaving me to doubt 
Talk about God in His mercy 
Who, if He really does exist, 
Why did He desert me? 
In my hour of need 
I truly am indeed 
Alone again, naturally

 
Patrick non credeva in dio spezzato dalla realtà di ciò che involontariamente aveva procurato alla sua famiglia e a se stesso. Forse un tempo ci credeva. L’essere solo era una punizione che infliggeva a se stesso, e se la infliggeva sa solo, perché sapeva che, se solo lo avesse voluto e ci avesse provato, avrebbe potuto avere tutte le donne ai suoi piedi. Avrebbe potuto essere felice e non dovere mai più pensare alla tristezza del suo cuore solo... Ma io ero più che sicura che lui non volesse essere felice. Che si sentisse in dovere di stare solo. Per rispetto alla famiglia o per i sensi di colpa... beh, non saprei dirlo.
 

  It seems to me that there are more hearts
Broken in the world that can't be mended
Left unattended
What do we do? What do we do?

 
Sorrisi a sentire quella strofa, ma, a un certo punto, qualcuno mi tolse un auricolare dell’orecchio.
Mi girai, dimenticandomi di essere su un tapirulant e rischiando di cadere, facendomi molto male.
Scesi e guardai in faccia la causa del misfatto.
-Jane?!- chiesi appena lo vidi, sbiancato e terribilmente abbattuto, accasciato a un divanetto –Jane, che è successo?- gli domandai preoccupata, facendolo sedere. Sembrava sconvolto.
-Io… non ce la faccio. Non ci riesco a fingere di avere la forza di andargli contro… io…-
-Jane inizia dal principio, perfavore… non so leggere tra le righe!- tentai di sdrammatizzare.
Mi afferrò per le spalle e le strinse forte, avvicinandomi a lui.
-E' John! E' John il Rosso, Lisbon.- esclamò
-Ma non… non è possibile, non è la sua tecnica, non… l’hai detto anche te, non può essere.-
-Non è John in persona, ma è qualcosa di molto molto simile. Non è un emulatore che lui ucciderebbe, è un complice… una complice!-
-Come fai a dirlo?-
-Hanno riallacciato il telefono e i ragazzi mi hanno chiamato, sconvolti.- confessò, con lo sguardo perso lontano.
-E che è successo?- proferii, cercando di catturare il suo sguardo, mentre una profonda paura si impadroniva di me.
-A quanto pare hanno trovato un ipotetico luogo del delitto.-
-Quindi?- sospirai –C’è la sua firma?-
-Sì- esalò, annuendo.
-Jane, questa è la volta buona, lo prenderemo!-
-Non è così, accidenti, come fai ad essere così cieca? Non lo capisci? Non è qui per me, o meglio, sì, per colpire me, ma è qui per te!- sputò con amarezza e disperazione quelle parole
-Che… che stai dicendo?- mi sentii avvampare e mi girava la testa, quelle parole mi colpirono come un macigno.
- Terrie Lank: T.L. ; Tayline Lalvie: T.L. , mi sembrava di avertelo già spiegato, e non è una coincidenza… ucciderà ancora, poi si terrà l’ambita preda per ultima: tu!-
-Questo non accadrà mai! E poi sono convinta, voglio credere che non sia io, colei che vuole.-
-Tu non capisci, lui vuole te per ferire me.-
-Perché dovrebbe colpire me per far del male a te?- chiesi, perplessa.
-Perché tu sei importante per me, Lisbon. E Lui lo ha capito.- confessò, mordendosi le labbra.
Lo guardai stralunata. Cos'era? Una sottospecie di dichiarazione? Scossi la testa scacciando il pensiero. Impossibile, mi dissi.
-No, sei tu che non capisci. Jane, sei stato uno stronzo deficiente in passato, ma ora tu sei diverso e so che non vuoi davvero uccidere la tua nemesi. Ma l’altro essere non è cambiato, John è pazzo, ha una mente perversa… ma se stiamo uniti non succederà niente. Non avrà la meglio, come non l’ha avuta quando ha cercato di uccidermi già una volta.-
Feci una sosta pensando a quel momento in cui Jane, imbracciato un fucile, aveva sparato all’uomo che avrebbe potuto rivelargli l’identità di John, per salvare me.
-Lui mi voleva morta, tu hai fermato colui che aveva incaricato di adempiere a questa sua volontà.-
Lui non parlava, guardava in basso, il pavimento di legno della palestra.
Scosse la testa e alzò lo sguardo
-Lo voglio morto, Lisbon, quel mostro deve morire. Che lo uccida io, che lo uccida tu o che lo faccia la legge.-
-E' quello che succederà.-
-Ma se, per puro caso, non dovesse essere ucciso dalla legge non ci penserei un minuto ad entrare in prigione con il tesserino del CBI e con una pistola fregata da qualche parte e sparargli.-
Mi percorse un brivido gelido lungo la schiena, sapevo che stava dicendo la verità.
-Non avrai bisogno di farlo. È un serial killer, i suoi omicidi sono premeditati e avrà senza ripensamenti la pena di morte- cercai di consolarlo e di dissuaderlo
-E' anche un malato di mente, incapace di intendere e di volere… potrebbero dargli 3 ergastoli.-
-No, Jane, non lo faranno. E non ho più voglia di parlarne, capito, Amore…- dissi scorgendo qualcuno arrivare dalle scale e spiarci dalla porta, non avevo una pistola, non potevo fare nient’altro.
Jane mi guardò con un sopracciglio alzato un momento, poi, vedendo i miei occhi, sembrò capire.
-Certo tesoro, vieni qui.- mi porse le braccia, lì per lì ero un po’ esitante, ma mi decisi e mi strinsi a lui, chiusi gli occhi e posai la testa sulla sua spalla.
Io, al contrario di lui, non stavo certo recitando, e sarei rimasta così per un tempo indeterminato. Egoisticamente.
Quando ci allontanammo e aprii gli occhi l’ombra non c’era più.
-Patrick...- dissi a bassa voce, per non farmi sentire, ma mantenendo un grado di intimità nel caso dovessero spiarci ancora –...a quanto pare qualcuno dubita che siamo marito e moglie.-
-Già, Teresa.- disse. I suoi occhi trasmettevano tutta la paura e la voglia di vendetta che portava in cuore.
-Che ore sono?-
-7 e mezzo-
-Ora di cena-
-Ci vieni con il mio maglione a cena?- chiese sorridendo. Sapevo che la tempesta emotiva dentro di lui non era finita, ma sapevo anche che per sopravvivere non poteva fare altro che portare la sua maschiera.
-No.- risposi ridendo
Scendemmo le scale fino al pian terreno ed entrammo in camera.
-Mi cambio in due minuti, quando esco dal bagno voglio vederti pronto, capito?-
-Ai suoi ordini, mammina!-
Sorrisi e mi chiusi in bagno, guardandomi allo specchio.
Mi lavai la faccia e indossai una gonna beige al ginocchio, una camicetta bianca completata da un gilet lasciato aperto dello stesso colore della gonna, e un foulard  panna. Calze color carne e tacchi banchi.
Mi guardai compiaciuta del mio aspetto, dovevamo fingerci marito e moglie, potevo approfittarne.
Sorrisi ed uscii dalla stanza, ritrovandomi un Jane pronto a leggere un libro di poesie.
Indossava il completo di quando era partito da Sacramento, marroncino chiaro, camicia bianca e gilet sbottonato, giacca appoggiata sul braccio. Era tremendamente affascinante, mi morsi un labbro, consapevole che non poteva vedermi.
-Che leggi?- chiesi incuriosita dall’argomento trattato dal libro.
Di solito leggeva annali delle prigioni, studi sul mentalismo (che commentava con disprezzo) e a volte libri di storia o Sheakespeare.
-Poesie.-
-Quello l’ho visto, di chi?-
-In generale.- evitava l’argomento. Alzò gli occhi verso di me –Bellissima.- asserì
-Ok, andiamo.-
-Lo sapevo che eri realmente attratta dai miei gilet.-
-Lo sapevo che eri un cretino.- risposi sullo stesso tono scherzoso che smorzava le mie parole.
 
Entrammo in sala da pranzo e ci sedemmo al tavolo che ci era riservato, a quanto pare l’albergo era pieno di persone, più di quante non ce ne fossero a pranzo. Pensai che fosse inpossibile che ci fosse così tanta differenza.
-Ma noi siamo arrivati a pranzo alle 2... A quell'ora tutti avevano già finito.-
-Che ne sai che stavo pensando a questo?-
-Ho accesso a tutti i tuoi pensieri più reconditi.-
E io, inevitabilmente, arrossii.
-E allora che ci fai nella mia testa?- domandai
-Mi assicuro di non rischiare di essere ucciso da te.-
-E' sicuro che rischi, dovresti saperlo senza violare la mia privacy.-
-Non è vero, non puoi vivere senza di me, amore.-
-Sicuro, Patrick!-
-Come sei scettica, amore mio.- Nonostante sapessi che stava recitando, non potei fare a meno di sussultare internamente.
Abbassai la voce –Riguardo al caso…- lo vidi scuotere energicamente la testa.
-Ti ricordi di quando cercavo funghi nel Bosco?- mi disse. –mi è costato caro mettere quell’orologio!- completò guardandomi negli occhi e sillabando impercettibilmente “prigione”.
Non capii subito, ma quando ci arrivai una fitta di paura mi attraversò tutto il corpo.
Prigione. Jane. Bosco. Spia. Cimice. CIMICE!
Jane era stato messo in prigione da Bosco perché aveva messo una cimice sotto il tavolo del suo ufficio per spiare gli svoglimenti del caso John il Rosso.
-Ho capito tesoro mio, ma non lo troveremo più il tuo orologio nel Bosco.-
-Hai ragione, però ho visto in un negozio proprio sotto un pergolato di legno... un orologio davvero bellissimo. Pensavo di comprarlo.-
Tastai sotto il tavolo non trovando niente.
-Dici quello con il cinturino di stoffa simile a quella di una tovaglia?- provai.
Lo vidi tastare la tovaglia anche sotto il piatto, e scuotere la testa.
-Sì, quello nella vetrina bellissima dell'altro giorno... già, che sciocco, c'era anche te.- disse –La ricordi? Era tutta decorata con la paglia...- disse, alludendo.
Annuii e toccai sotto la mia sedia, mentre lui faceva allo stesso modo.
-Mi sembra perfetto. Sì, mi era piaciuto molto.- dissi, tirando via una cimice e facendo attenzione a non rovinarla, né coprire il piccolo microfono contenuto.
Ci guardammo per  un tempo interminabile, poi arrivò il cameriere, ordinammo e iniziammo a parlare del più e del meno, anche inventando di sana pianta. Non potevamo andarcene, per non dare nell’occhio, e qualcosa dovevamo pur mangiarla.
-Cosa ti è piaciuto di più del nostro matrimonio?- mi chiese, sgranocchiando il pane tostato del suo cacciucco. Con un sorriso impertinente sulle labbra.
-Ovvio, tesoro, tu!- risposi provocatoria –A te?-
-Toglierti la giarrettiera!- disse sullo stesso tono
-Patrick! Sei uno sporcaccione!-
-Non è vero, è tradizione, amore.-
Ridemmo e scherzammo tutta la sera, ben consapevoli che, però, quel piccolo microfono significava guai.





Dice l'autrice:
Allora... che dirvi? Questo capitolo l'ho parecchio modificato. Mi sembrava... poco completo, ecco. E poi, siamo fatti per migliorarci sempre di più, no? Quindi, se avete letto questo capitolo per la seconda volta e lo avete trovato molto diverso, sperando in meglio, sappiate che la storia è in via di rivisitazione. 

Recensite!

Sasy

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** Possession, Passion and confession ***


Possession, passion and confession
 

-Patrick…- mi girava la testa, dovevo aver alzato un po’ troppo il gomito durante la cena –…senti, credo che… forse, dovremmo andare in camera… penso di..-
-Sì, Teresa, forse hai bevuto un po’ troppo… ti senti bene?-
-Mi gira la testa, sono lucida, solo un po’ scombussolata.-
-Ok, ho capito, vieni dai.-
Ci alzammo da tavola e Patrick rimise, piano piano, senza farsi notare, la microspia sotto la mia sedia e, facendomi lanciare un gridolino di sorpresa, mi prese in braccio.
-Che fai?- già mi sentivo più vigile
-Ti porto in camera!-
-Ma perché così?-
-Lo sai che sono un tipo originale.-
-Jan… Patrick, dai, mettimi giù, ti farai male!-
-Non credo proprio, sei leggerissima.- mentre parlava camminava verso la camera, con passo deciso.
-Sì, certo, come no!-
-Uhm, vedo che stai già meglio!-
-Non ho bevuto troppo, solo che anche la più piccola quantità di alcol mi fa girare la testa…-
-Sì, l’ho notato.- eravamo arrivati davanti alla camera –Senti, credo che dovresti aprirla te la porta, sono leggermente impedito, in questo momento…-
-Va bene.- presi le chiavi dalla tasca della gonna e le girai nella serratura, aprendo la strada verso la camera.
Mi portò fin dentro la stanza e mi mise giù, andando ad chiudere.
Provai a fare un passo ma rischiai di inciampare nel tappeto e cadere. Fortunatamente Jane mi riprese appena in tempo perché non sbattessi al suolo.
Mi ritrovai a pochi centimetri da lui, il suo braccio mi teneva dietro la schiena ed io ero inarcata contro di lui con il ventre. Sorrideva sornione, lui, guardandomi negli occhi con una strana luce un po’ troppo maliziosa.
-Sei  davvero tremenda, non stai ferma un secondo!-
-E tu potresti evitare di starmi sempre addosso, si dice che sbagliando si impari, ma se non me ne lasci la possibilità…-
Sorrise di nuovo, senza lasciarmi andare. Mi avvicinai a lui quel poco che bastava per sentire il suo respiro sulla fronte.
I miei freni inibitori dovevano essere stati annientati dall’alcol, ma non me ne facevo problemi. Chiusi gli occhi e poggiai la mia testa sul suo petto, strinsi le braccia attorno al suo busto, abbandonandomi tra le sue braccia.
-Teresa, che fai?- mi chiese imbarazzato.
-Ti abbraccio.- risposi senza pensarci due volte
-Sì, l’ho notato-
Alzai la testa, guardandolo negli occhi, in quei suoi pozzi cristallini, che riflettevano tutta la profondità del suo essere, tutte le afflizioni e tutte le sensazioni, ma che contenevano anche quella luce giovanile di un bambino che non se n’era mai andato.
Mi alzai in punta di piedi per raggiungere un altezza simile, saettando gli occhi dalle sue labbra ai suoi occhi, per capire le sue reazioni.
Mi morsi un labbro e sorrisi, fissando lo sguardo sulla sua bocca, così rossa e invitante, apparentemente morbidissima e dolcissima.
-Nota questo.- sussurrai sulla sua pelle, prima di avventar mici sopra.
Le nostre labbra aderivano perfettamente, sembravano essere fatte apposta per questo. All’inizio lui era restio, sembrava volersi divincolare, poi socchiuse la bocca, permettendomi di approfondire il bacio, e si unì anche lui in questa danza appassionata.
Le sue dita corsero esitanti tra i miei capelli, accarezzandoli dolcemente, mentre con l’altro braccio mi teneva stretta a se, stringendomi dietro la schiena.
Le mie mani erano strette alle sue spalle, ne spostai una tra i suoi riccioli biondi, giocandoci. Oh, quanto avevo sognato quel momento.
Spostò la mano che era sulla mia schiena alla mia gamba, alzandola e facendola aderire alle sua, mentre io incrociai le braccia dietro il suo collo, stringendomi con forza.
Finché a un certo punto lui si ritrasse, contro la mia volontà
-No, perché?- chiesi, guardandolo negli occhi
-Perché non sei in te, sarebbe approfittare e non voglio che succeda, non così.- disse.
-Non sono ubriaca, Patrick.-
-Non sei ubriaca, è vero, ma non sei neppure te stessa, la Lisbon che conosco io non farebbe mai così.-
-La Lisbon che conosci tu è una copertura a ciò che è realmente, sono abbastanza brilla per non sapermi mettere freno, ma abbastanza lucida per assicurarti che domani mattina mi sveglierò con la completa consapevolezza di ciò che ho fatto. Hai ragione, se fossi in me non ti avrei mai detto che ti desidero, avrei avuto vergogna, ma questo sarebbe solo un impedimento! È la verità, Patrick, ti voglio! Ti giuro, ti giuro Patrick, che domani sarò la felicità fatta persona!-
-Credimi, Teresa, non è il momento!-
Lo guardai intensamente, occhi negli occhi. I suoi bellissimi occhi azzurri esprimevano tutta la sua guerra interiore, erano lucidi, scuri e più profondi e seri del solito.
-Io non ti piaccio, vero?- affermai con le lacrime pronte a scendere e sgorgare silenziose.
-Non è assolutamente vero, tu mi piaci tremendamente, te lo dimostra il fatto che io abbia risposto al tuo bacio e…-
-Tu non sei pronto, sei ancora innamorato di tua moglie.- dissi, allontanandomi da lui e alzando le mani, come fossero infette.
-No, no, non è questo, capiscimi Teresa, io… io… senti.- prese la mia mano e la posò sul suo cuore, perché potessi sentire il suo battito correre irregolare e velocissimo -Io so di provare qualcosa per te. Non voglio rovinare tutto correndo in questo modo.-
-Correndo? Ma cosa dici? Sono cinque anni che lavoriamo insieme e io mi sono innamorata di te fin da subito e poi, un giorno, ho capito di amarti.-
-Tu sei innamorata di me?-
-No. Io ti amo.-
-Tu mi ami?-
-Ma buongiorno! Sì  ma..-
-Come può un essere tanto perfetto come te innamorarsi di un uomo come me?-
-Lo hai detto anche tu, le donne sono attratte dagli uomini proibiti. Tu sei il mio angelo dannato!-   
Non so quell’espressione come mi fosse venuta.
-Ma tu non mi ricambi…- affermai mentre le prime lacrime scendevano silenziose sulle mie guance.
Cercai di allontanarmi di nuovo da lui, ma mi fermò stringendomi delicatamente i polsi e attirandomi a se.
-Ed è qui che ti sbagli! Io ti amo, tu mi hai rubato il cuore ma, te lo ripeto, ciò che stavi per fare non è quello che realmente vuoi.-
Spostai lo sguardo dai suoi occhi, adesso supplichevoli, osservandolo interamente per poi inchiodare nuovamente lo sguardo nei suoi occhi.
-Ti sbagli, lo voglio eccome.- esclamai, senza permettergli di ribattere, e mi lanciai di nuovo sulla sua bocca, stavolta rispose subito al bacio, lasciandosi avvolgere dalle sensazioni come se stesse mangiando un sufflè al cioccolato. Insinuò le mani sotto la mia camicia, sulla mia schiena. Tastando con i polpastrelli la mia pelle.
Sorrisi sul suo bacio e, determinata, posai le mani sulla sua camicia, tirandola energicamente fuori dai pantaloni, per togliere il gilet non ci volle troppo, essendo già sganciato.
-A-a-spetta…- cercò di balbettare –…sei s-s-icura?- chiese senza togliere le sue labbra dalle mie
-Sì, anche se non è da me-
-Non è per niente da te. E non è neppure da me… Teresa… io non posso.-
-Si che puoi. Hai detto che mi ami, allora cosa c’è di sbagliato?-
-Io… - mi liberai dalla mia camicetta e lui mi guardò estasiato. –Assolutamente niente…- disse, leccandosi le labbra. Sorridemmo entrami. Chiusi le mani sui bordi della sua camicia e, strattonando forte, questa si aprì facendo saltare qualche bottone, ma che importava? Aveva tantissime camicie, infondo.
Misi le mani sul suo petto caldo, accarezzando la sua pelle morbida.
In men che non si dica cademmo sul letto.
-Lis… Teresa, sei sicura sicura?-
-Sicurissima.- la nostra voce era roca per via del desiderio e chissà cos’altro ci animava in quel momento.
-Io non sono… certo, che sia il momento più adatto…-
-Non aver paura.-
-Potrei ferirti un giorno, non voglio che accada.- ansimò quando i nostri corpi si sfiorarono –Ti prego fermami, io non ce la posso fare da solo.- emanò poi con un gridolino.
-Perché dovrei fermarti? Io ti voglio, tu mi vuoi, sarebbe una tortura.- dissi con voce rotta dal bisogno che divampava dentro di me a ogni momento di esitazione in più.
-Perché io non sono più…- iniziò, ma sembrò ripensarci –È pericoloso.- affermò con poca convinzione
-Non voglio preoccuparmene per stanotte.-
-Ho paura- confessò infine. –E’ così tanto tempo che...-
Capendo che la sua paura era di orientamento più fisiologico gli sorrisi, sfiorandogli il viso –Non devi averne, andrà tutto bene, mi fido di te. E poi, la teoria dovresti ricordarla…-
Lo vidi sorridere, mentre entravamo sotto le coperte.
 
Sbattei le palpebre alla luce del nuovo giorno, sorrisi con gli occhi ancora chiusi.
Sentivo il suo corpo abbracciato al mio, sotto le coperte, e mi morsi le labbra, estasiata.
La mia testa era sul suo braccio, il suo respiro mi stuzzicava i capelli sulla nuca, l’altro suo braccio mi teneva stretta a se, e le nostre dita erano incrociate insieme.
Come avevo sentito in un film, eravamo abbracciati a cucchiaio. L’uno con l’altra, senza poter capire dove iniziasse uno e dove l’altro.
I nostri cuori battevano insieme e i nostri capelli si mescolavano, il suo odore era nella stanza e mi riempiva le narici.
Ero felice.
Non mi interessava che ore fossero e non mi sarei mai alzata fosse stato per me, sicuramente in quella piccola stanza d’albergo eravamo molto più al sicuro che da ogni altra parte del mondo.
Mi girai, mettendomi proprio di fronte a lui, tirai la coperta fino al mento e posai la testa più vicina possibile alla sua spalla. Infine posai una mano sul suo petto e incrociai l’altra al suo corpo.
-Buongiorno.- sussurrò
-Scusa, non volevo svegliarti.-
-Non ti scusare, non vedevo l’ora di svegliarmi per poterti vedere.-
-Grazie.- dissi arrossendo
Inspirai profondamente l’aria satura del mio e del suo profumo, ormai irrimediabilmente mescolati, e fissai i miei occhi nei suoi, l’imbarazzo svanì appena lessi nei suoi occhi luccicanti. Era felice come me.
-Allora, Primo pensiero al risveglio?- mi chiese dolcemente, spostandomi una ciocca di capelli dal viso e accarezzandomi un guancia –Ti sei pentita di ciò che abbiamo fatto?-
-Non sono pentita assolutamente, te l’avevo promesso, no?-
-Lo dici per me o è la verità?-
-Ti sembra che io possa dire qualcosa solo per darti un po’ di orgoglio? Con tutto l’ego che ti ritrovi…- dissi scherzando, ancora occhi negli occhi.
-Sono felice che tu la veda così.-
Chiusi gli occhi sorridendo e stringendomi a lui ancora di più -Non è stata un avventura, Patrick, io ti amo.-
-Speravo che lo dicessi. te Quiero, mi amor!-
Mi morsi entrambe le labbra per reprimere l’urlo di gioia che cercava di sovrastarmi.
-Oh, sei maledettamente adorabile quando fai così!-
-Adulatore!- dissi in un sussurro
Inspirai l’odore della sua pelle e sospirai.
-E’ stata una notte meravigliosa.- affermai
-Lo è stata, sì.- confermò in un sospiro -Però, forse, dovremmo alzarci…- provò
-E perché?- chiesi contrariata
-Beh, sai, è mattina e i ragazzi hanno bisogno di noi.-
-Non ancora.-
-Ok, mi spaventi, questo non è assolutamente da te… soprattutto adesso che sei sobria.- rideva appena
-Questo non è da agente Lisbon, è da Teresa!-
-Ah… credo che Teresa mi possa piacere molto!-
Ci baciammo ancora una volta e poi mi alzai, lasciandolo lì. Mi tirai il lenzuolo addosso e mi diressi verso il bagno.
Stavo per infilarmi a fare la doccia, quando la porta si spalancò, mostrando un Patrick Jane, con una federa stretta in vita, che dava tutta l’impressione di voler venire in doccia con me.
Sorrisi guardandolo: era perfetto. La giusta dose di muscoli, non depilato ma effettivamente vicino all’essere glabro, le gambe dritte, il bel viso e i capelli arruffati. Bello.
-Mi sembrava strano che tu bussassi- dissi ridendo.
Entrò in bagno senza parlare, ed si infilò in doccia con me.
-Sei un bambino malizioso…- gli sussurrai sul collo, mentre eravamo abbracciati.
-Lo so. Adesso che mi hai risvegliato non ti stacchi più da me…-
-Felice di saperlo.-
E mentre facevamo l’amore di nuovo, sotto la doccia, pensai a quanto amavo quell’uomo, a quanto la sua vicinanza mi rendesse felice e mi riempisse i polmoni più dell’aria.
Ed era sempre stato così, fin da quando lo conoscevo, lui aveva tutto di me ed era tutto per me.
Sentivo che non sarebbe stato facile,  che sarebbe stato inaspettato, forte e intenso. Sarebbe stato come niente che avessi provato prima.
Lui, l’uomo accecato e rancoroso che pensava alla vendetta come a un espiazione. L’uomo irritante e casinista più affascinate della terra.
Io, una donna piena di lavoro, dedita in modo morboso alla legge e alle regole. Una donna cinica e sfiduciata nei confronti del mondo.
Lui che era il centro del mio universo in quel momento era tra le mie braccia, sotto una doccia bollente.
Lui che mi contagiava con il suo carattere, con la sua controversa forza vitale.
Mai avevo amato qualcuno a punto tale prima. Sapevo che prima di poterci definire una coppia dovevamo sistemare molte cose, Red John in primis, sapevo che rischiavo tutto. Tutto ciò che mi ero costruita in una vita di sacrifici poteva crollare sotto i miei piedi in un singolo momento, per un singolo errore.
Ma non riuscivo a vedere le cose troppo scure, avevo voluto, desiderato, sognato Jane con tutta me stessa e lo avevo ottenuto.
Mi sentivo appagata, completa. Mi rendevo conto di quanto tempo avessi perso, e di quanto avessimo da recuperare entrambi.
-Certo che per essere senza esercizio da quasi sei anni…- non finì la frase, troppo imbarazzate per completarla.
-E’ stato più facile di quanto mi ricordassi.- rispose sorridendo –Tu non sei da meno.-
-Sono perfettamente conscia della mia bravura strabiliante!-
In quel momento mi resi conto di non aver mai sentito realmente ridere Patrick Jane, una risata cristallina, pura, felice, piena si sprigionò dalle sue labbra. Mi unì a quel suono meraviglioso, facendo le giravolte per la stanza d’albergo.
-Credo che sia meglio che usciamo da questa stanza, rischierei di farmi assalire dal desiderio per la terza volta.-
-Non che a me dispiaccia, però…-
E ancora sorridenti, mano nella mano ci dirigemmo a fare colazione.





Dice l'autrice:
Bah, al momento scrivo molto meglio di come scrivevo qui. Ma non importa. Ho migliorato diverse cose, rispetto ad una prima stesura, per cui...
Beh, se avete letto questo capitolo per la seconda volta e avete pensato che era un po' diverso... ci avete visto giusto, perché la storia è in via di rivisitazione. 

Recensite!!

Sasy

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** Sospetti ***


Sospetti


POV ELISE
“27 luglio”, pensai guardando il mio cellulare, “com’è possibile che in piena estate qui faccia così freddo?”
Mi alzai dal letto e mi vestii, dirigendomi verso la sala da pranzo dell’hotel, dove tutti gli altri avevano appuntamento.
Infatti li trovai tutti lì, intenti in cose diverse…
Grace era tutta concentrata sul suo computer a cercare chissà cosa su chissà chi; Cho interrogava la madre di Tayline Lalvie, che era arrivata quella mattina sull’improvvisato bullpen del CBI; Rigsby compilava moduli con estrema attenzione.
-Ciao!- dissi il più discretamente possibile
-Ciao.- risposero tutti.
Mi sedetti al tavolo addentando una ciambella e sorseggiando del caffè, osservavo tutti lavorare con impegno e, quando Kimball finì di interrogare quella donna, straziata dal dolore, mi sedetti accanto a lui.
-Passi avanti?- chiesi, interessata
-No.-
-Avete chiamato Jane e Lisbon?- domandai
-Ci hanno riattaccato…- disse con tono preoccupato e pensoso Grace
-Riattaccato?!- chiesi incuriosita
-Già…- sospirò Rigsby –…hanno detto qualcosa che non abbiamo capito e poi hanno riattaccato.-
-Che tipo di cosa?-
-Occhi di lince ficcanaso come nel Bosco; guai in vista come nel Bosco.-
Ragionai sulla frase attentamente per alcuni minuti, mentre gli altri riprendevano a lavorare.
Mi erano sempre piaciuti gli enigmi, avevo sempre provato un certo fascino nel risolverli, e questo doveva essere una specie di messaggio in codice…
Doveva essere successo qualcosa per cui non potevano parlare.
“occhi di lince… lince… lince, l’animale furbo e con la vista lunga, ficcanaso…”
-Le linci sono animali svegli e vispi. Hanno occhi che spiano. Bosco non era anche il vostro ex collega morto? Occhi di lince, guai e Bosco… chi si è cacciato nei guai per essere stato troppo vispo nei confronti di Bosco?- analizzai e spiegai.
-Jane è stato arrestato per aver messo una microspia sotto…- Grace si mise le mani sulla bocca –Oh!-
-Brava amore, era difficile.- mi disse Kimball mettendomi una mano sul ginocchio
-Dopo un infanzia passata a risolvere indovinelli questo era abbastanza semplice!- dissi con falsa modestia.
Mi sorrisero tutti.
-Questo significa che li stanno spiando, forse ci chiameranno loro dalla camera…-
Come se avessero letto nei pensieri di Wayne, il telefono squillò…
 
Adak
POV JANE
-Ragazzi?- chiese quando le risposero al telefono.
-Dica, capo, è in vivavoce.-
-Ok, allora, ci stavano spi-spiando…- le baciai il collo, non mi interessavano quei piccoli dettagli. –…mentre cenavamo, ieri sera.- le insinuai le mani sotto maglia che indossava, facendola sospirare -Dicevo, mentre cenavamo ci siamo resi conto che c’e-e-ra  una microspia sotto la mia sedia.-
-Ok, quindi qualcuno sa chi siete… è saltata la copertura.- commentò Grace dall’altro lato del telefono. Aveva un tono di voce un po’ strano, sinceramente. Ma ero troppo preso a baciare la pelle candida dalla mia bellissima Teresa per preoccuparmene.
Le tirai su la maglia, liberando la schiena dalla stoffa, mi lanciò uno sguardo di odio puro –No, Grace, la copertura non…- le baciai la schiena e lei coprì la cornetta.
-La vuoi smettere? Comprometti la mia serietà.-
Tolse la mano dal microfono del telefono e ricominciò a parlare –…non è saltata e… Ah! Cazzo! Scusate, dicevo…- le avevo morso delicatamente un orecchio, mi tirò una spinta e mi misi a ridere -… solo il complice o la complice come sostiene… Jane!... lo sa- gridò quando la strattonai leggermente verso di me.
-Capisco, va tutto bene, capo?- le chiese Cho, indagatore. Scommetto che stava sorridendo.
-Alla grande! Ho battuto il piede, tutto qui.- sentii qualcuno ridere dall’altro capo del telefono e mi immaginai che fosse Elise, ma non glielo feci notare.
-Scusate, hanno bussato alla porta, devo riagganciare…- disse, poco convincente.
 
Anchorage
POV ELISE
-Patrick, Questa me la paghi… vieni qui!- sentimmo gridare da Adak.
-Oh, tesoro, non è colpa mia, sei così invitante.- sentimmo le risate di Jane, una bellissima risata, ad essere sincera.
-Invitante, eh? Ti faccio vedere io, cosa comporta farmi fare la figura della cretina davanti ai ragazzi!-
-Nessuno si è accorto che ti stavo baciando il collo, Tess…-
-Il collo? E la schiena? E la maglia che hai cercato di togliermi? E il morso all’orecchio; “ho battuto” mi hai fatto dire… Non ti è bastato stanotte?!-
-No!-
-Quando ti prendo…-
-Non vedo l’ora!-
Vidi Grace chiudere la comunicazione. Rossa in viso come i suoi capelli.
TU TU TU TU TU TU TU TU TU TU TU TU TU…
-NO!- esclamarono Kim e Wayne.
Mi misi a ridere, felice e sinceramente divertita.
-Wayne, non sono affari nostri!- lo ammonì Van Pelt
-Ma era divertente.- disse con un ombra di sorriso Kimball
-Lo confermo!- mi unii –Wayne, mi sa proprio che hai perso!- dissi poi, sedendomi per il troppo ridere
-Me ne sono accorto, ma pagherei qualsiasi cifra per poter sentire ancora questi due!-
Tutti lo guardammo sconvolti, ma cos’era? L’uomo della gaffe sempre pronta?
-Che c’è? Che ho detto?- Sì, lo era! E il bello è che non se ne rendeva neppure conto.
Ridemmo ancora
-Niente, Wayne.-  disse con una nota di rassegnazione Grace.
-Allora, i miei soldi?- chiese Cho
-Eccoli!-
Wayne tirò fuori il portafoglio ed estrasse 200 dollari, consegnandoli a Kimball.
-Non sono tutti.- commentò il mio fidanzato.
-Non essere così pignolo!- gli dissi, tirandogli una pacca sulla spalla.
-Le scommesse si pagano.- rispose serafico.
-A rate, però.- rispose Rigsby -Ora però mi dici come facevi a saperlo-
-Calcoli e sospetti.- rispose evasivo -Bene, ragazzi, tornando al caso. il fidanzato di Tayline Lalvie ha un bel po’ di precedenti per spaccio e furto. Abita in una palazzina in periferia di Anchorage.- ci informò Kim
-Andiamo a fargli una visitina?- chiese ancora giù di morale Wayne
-Direi.-
-Sapete cosa è strano? La ragazza abitava qui ad anchorage e con tutta probabilità è stata uccisa a Palmer… perché portare il corpo ad Adak? Perché così lontano?- feci notare mentre ci dirigevamo verso la macchina.
-Scena? Spettacolo? Egocentrismo?- provò Wayne
-Trappola.- sentenziò Grace
-Depistaggio.- era la teoria di Cho
-Con molta probabilità tutte quante!- ragionai ad alta voce
-Mai pensato di fare da consulente a una squadra investigativa?- mi chiese Wayne.
-Pensavo di presentarmi al CBI, sì.- dissi –Sono brava in queste cose...-
Tutti mi sorrisero.
 
Arrivammo nella periferia della fredda città e camminammo fino all’appartamento del ragazzo. Una piccola palazzina tra molte altre simili, al piano terra.
-Jonathan Pagger?- chiese Wayne alla porta.
Dopo qualche momento di esitazione gli fece eco anche Cho, ma nessuno rispose.
-Apra o buttiamo giù la porta.- ululò il mio compagno –Io vado alla porta dietro, voi restate qui e al mio tre buttate giù la porta!- disse rivolto solo Rigsby e Van Pelt
-Elise, torna in macchina.- mi ordinò poi
Non me lo feci ripetere due volte e mi incamminai verso la macchina, quando sentii lo sbattere di una porta e l’urlo ripetitivo di:
-CBI,CBI, dipartimento investigativo…-
Poi passi confusi di corsa, verso di me.
Mi girai, trovandomi ad affrontare un muro di un metro e ottanta che mi correva incontro sguainando un coltellino da cucina.
Credevo fosse la fine.
Vidi arrivare Rigsby e Van Pelt di corsa, dietro a Pagger, poi questo mi si piantò dietro puntando l’arma al mio collo.
-Fermi o la sgozzo!- alla mia vista in qualità di ostaggio i due agenti si fermarono –Giù la pistola.- non ubbidivano –GIU’ LA PISTOLA O LA AMMAZZO!- sentivo che la mia vita era agli sgoccioli.
Però mancava qualcosa, dov’era Kim?
Vidi Grace e Wayne saettare lo sguardo per un millesimo di secondo dietro la testa del malcapitato fuggitivo, e abbassare le pistole.
SBANG!
In un solo colpo con il calcio della pistola Kimball aveva steso il mio aggressore.
Istintivamente le mie dita corsero sul collo dove era strusciata la lama e  dove era affiorato un lieve taglio. Mi girai e strinsi a me l’uomo che mi aveva salvata.
Il mio Kim dalle poche parole! Che uomo meraviglioso! Lo abbracciai piangendo. Era stato forte lo shock in quegli eterni 2 minuti.
-Va tutto bene.- Mi consolò –Ammanettate questo stronzo! Ha una nuova piaga nel suo curriculum da carcerato!- disse astioso Kim, stringendomi a se.
La sua faccia era impassibile, ma sentivo che aveva avuto paura per me.
-Grazie.- sussurrai semplicemente, di risposta lui mi strinse ancora di più a se, accarezzando leggermente la mia schiena.
Rimasi in silenzio per il resto del giorno, seguendo distrattamente le indagini o leggendo un romanzo rosa.
Non c’era nessun precedente strano per Jonathan Pagger, mai stato detenuto con gente che avesse a che fare con John il rosso, non era un bravo ragazzo, questo lo avrebbe capito anche un bambino, però non sembrava poter avere a che fare con il caso.
In più per l’ora del delitto della fidanzata, Tayline Lalvie, aveva un alibi di ferro…
Per quanto quest’alibi mettesse in discussione anche la sua fedeltà con la ragazza. Una prostituta del luogo affermava ciecamente di essere stata con lui e il cameriere del motel dove si erano rintanati confermava la sua presenza fino alle sei del mattino, sin dalle 2 di notte.
La vittima era stata uccisa tra le quattro e le cinque del mattino.
Un vicolo cieco, un buco nell’acqua.
 
-A che pensi?- mi chiese Kim in stanza…
Poco tempo dopo che io e Grace avevamo avuto quella chiacchierata liberatoria avevamo deciso di dividere le stanze in modo diverso: coppie effettive.
-A oggi, al caso e a questo stramaledetto libro.-
-Mi dispiace.- disse abbassando lo sguardo sulla punta delle sue scarpe.
-Di che?- chiesi incuriosita
-Dovevo aspettarmi che sarebbe uscito dalla cantina.-
-Non potevi prevederlo. È andato tutto bene…-
-Sì.-
-Già finite le parole?-
-No.-
Sorrisi, e mi rimisi a leggere il libro che tanto mi rovinava l’esistenza…
Indovinate un po’ che stavo leggendo?! Ovvio, orgoglio e pregiudizio. Libro letto e riletto, un miliardo di volte ma che, ogni volta, mi faceva piangere e sospirare.
-Elise?-
-Sì, dimmi Kim.- mi voltai nuovamente a guardarlo
-Devo chiederti una cosa…- lo guardai di sbieco. Era arrossito? Ovviamente le sue parole non dimostravano nessuno stato d’animo particolare, ma avrei giurato che quella fosse emozione.
Mi salirono le palpitazioni…
Cosa poteva esserci di tanto emozionante da smuovere anche Kimball Cho? L’uomo più inespressivo visto sulla faccia della terra?
Avevo una certa risposta, ma aspettai la domanda.
Annuii e lui continuò.
-Elise…- tirò fuori un piccolo cofanetto -… vuoi sposarmi?- le parole erano due, ma, cavolo quanto erano dense di significato!
Lo guardai adorante e l’abbracciai, singhiozzando come in un film struggente fino alle lacrime, e sussurrando fino allo sfinimento “sì”.
Lo guardai di nuovo in volto. Adesso era sovrastato da un ombra di sorriso.
Lo baciai delicatamente e lo tirai su di me. Continuando a baciarlo sempre più appassionatamente.
“ti amo” furono le ultime parole che formulammo, quella sera.




Dice l'autrice:
Buonagiornata a tutti, ebbene, un altro capitolo corretto. Anche questo molto, devo dire. Ma, vabbeh, non  importa. Ciò che è importante è che sia migliore di come era la prima volta che l'avete letta. xD
Per cui...

Recensite!

Sasy

Ritorna all'indice


Capitolo 11
*** A midsummer night dream ***


A midsummer night dream



Solo su una spiaggia desolata.
Solo di fronte a un mare cristallino.
Solo mentre assaporo l’aria pulita.
Solo quando il sole mi bagna la pelle.
Solo per un po’ di vento che mi scompiglia i capelli.
Solo e mi rendo conto di star sognando.
Sorrido.
“Bè, almeno sono sicuro di star dormendo.”
Mi alzo dalla sabbia camminando verso il mare, calmo e placido, che sbatte piano le sue onde contro la riva bianca.
“Sarebbe una consolazione?” sobbalzo dallo spavento e mi guardo intorno, curioso di scoprire la fonte delle parole.
-Chi sei?- grido
“Sono la tua coscienza, stupido, non c’è bisogno di urlare!”
“Devo aver mangiato troppa cioccolata calda con la panna, ieri sera!”
“Non cambiare discorso e ascoltami, Patrick, io sono te.”
“Ragionamento sensato…” ridacchio
“Invece di consolarti pensando che, anche se, purtroppo, questo è solo un sogno, vuol dire che il tuo corpo sta riposando, pensa a perché nel sogno sei solo!”
“È il mio sogno, non so perché sono solo.”
“Strano, la tua concubina sogna di te e lei su spiagge dorate, montagne innevate, bambini per l’ufficio, laghi, una casa insieme e tutte queste cose che si sognano quando si è innamorati. Tu invece sogni di essere solo!”
“Cos’è? Mi sto auto psicanalizzando?”
“Non è una psicanalisi, è una constatazione, non c’è Teresa con te!”
“Lei c’è nella realtà, io la amo!”
“Questo lo sappiamo tutti, lassù, ma purtroppo questo non basta perché tu ti lasci andare del tutto!”
“Aspetta un secondo… ‘tutti lassù’… che vorrebbe dire?”
“Non cambiare discorso! Allora, per capire cosa provi davvero per la donna che dorme con te ti verranno a trovare tre persone che hanno fatto e fanno parte della tua vita… ahem, ok, quattro… che ti faranno presente tutto ciò che hai passato e che stai passando. Fino a quello che passerai se non ti sbrighi ad aprire gli occhi e il tuo cuore!”
“Fantastico, lo sapevo che guardare ‘A Christmas Carol’ con una caraffa di cioccolata calda zuccherata e panna non era proprio il massimo alle 10 di sera!”
“Va bene, credo che tu abbia capito! Adesso, io resterò con te. Ovviamente, sono te… Ma non parlerò finchè le visite non saranno finite!”
“Ok.” ero un po’ intimorito, per essere un sogno era molto vivido e strano.
Mi siedo sul bagno asciuga osservandomi da capo a piedi. Sono effettivamente un bell’uomo, piacente, affascinante, con il fisico giusto, i capelli color del grano e gli occhi di un intenso celeste cielo.
In conformità con la spiaggia indosso un costume hawaiano rosso e bianco, lungo fin poco sopra le ginocchia.
Stringo a me le gambe guardando il mare e inspirando l’aria salmastra dell’acqua e chiudo gli occhi per approfondire quel sapore salato sulle labbra.
-Papà!- grida una voce dolce dalla spiaggia.
Spalanco gli occhi, ritrovandomi di nuovo a guardare il mare, mi alzo di scatto, girandomi intorno a cercare la fonte di quella voce tanto amata e adorata, quanto persa.
-Charlotte!- urlo con quanto fiato ho in gola.
-Papà, papà, sono qui!- mi giro di nuovo verso il mare e inizio a guardare lungo la costa, finché, poco lontano, non noto due figure vestite di bianco, che corrono verso di me ad una velocità strabiliante.
Inizio a correre incontro alla mia bambina e a mia moglie. Con le lacrime agli occhi per la felicità e la commozione.
-Amore mio!- urlo stringendo a me la mia piccolina, appena le arrivo incontro. La stringo a me forte e respiro i suoi capelli, ricci e biondi come i miei e di sua madre.
-Ciao!- dico poi abbracciando mia moglie come una vecchia amica.
-Ciao, Patrick.- dice Angela –Io e Charlotte siamo qui per aiutarti. Ma abbiamo poco tempo e tu devi aprire bene le orecchie.-
-Sì, papà. Ascoltaci bene!-
Sorrido e mi piego sulle ginocchia, baciando sulla guancia il mio angelo salito al cielo.
-Ditemi.-
-Riguarda il tuo passato, Patrick, noi siamo qui per mostrarti la tua vita passata, dobbiamo farti capire cosa stai sbagliando, rapportandolo a cosa hai sbagliato, a come sei cambiato. In modo che tu possa capire, e vivere a pieno il tuo presente.-
-Sei pronto papà? Ti facciamo viaggiare nel tempo!- prendo in collo la mia bambina e la metto sulle spalle, annuendo a Lily, che sorride.
In un batter di ciglia, senza metafore, mi ritrovo in una nursery, dove moltissimi bambini dormono o si agitano. Non la riconosco come quella di Ashley, per cui capisco doversi trattare del mio ospedale.
Mi affaccio e Lily mi indica una culla con dentro un bimbo pieno di riccioli biondi biondi, quasi bianchi. Che si guarda intorno dai vetri della culletta e si studia le mani, con degli occhioni blu spalancati a osservare tutto il mondo circostante. Sorrido e una lacrima scende sul mio volto, in quel momento desidero con tutto me stesso poter rivedere una scena del genere, e sorridere felice davanti a un bambino o una bambina mia e di Teresa.
 
-Non ci siamo capiti, Harry, il figlio è nostro, ma è stato affidato a me! Lo capisci? Il giudice ha detto che è mio! Tu mi hai abbandonata e adesso vuoi tenerti nostro figlio? Scordatelo! Sei un mostro e vivi in un circo! Non ti permetterò di rubarmi il bambino.-
 
Sobbalzo “Mamma?” penso.
“Chi se no, furbone?”
“Ma tu non dovevi stare zitto?”
“Uhm”
 
-Non credere che sia finita qui, Carla! È nostro figlio e troverò il modo di riprenderlo, fosse domani, fra un anno o fra otto!-
 
Mi percorre un brivido: mio padre.
Mi giro a guardare i due litiganti, ma l’immagine cambia e mi ritrovo a guardare un bambino seduto su un muretto, intento a giocare facendo rimbalzare una pallina blu. Lo guardo meglio, riconoscendomi in lui.
Un bimbo dai capelli d’oro e gli occhi profondi, di chi ha già vissuto mille disgrazie alza la testa guardandomi fisso negli occhi. Mi scruta tanto profondamente che penso mi veda. Lo osservo per bene, quel bambino con poche lentiggini sul volto abbronzato.
-Tranquillo, non ci può vedere. Eri molto bello, papà, lo sai? Anche adesso lo sei, però.- mi sento sussurrare dalla mia piccolina, mentre con una manina mi carezza il viso.
 
-Patrick!- vedo il piccolo me abbassare lo sguardo e scuotere la testa –Vieni, dai, dobbiamo andare!-
-Ma papà, doveva venirci a trovare la mamma…-
-Piccolo, devo darti una cattiva notizia. La mamma è morta.-
 
Una lacrima mi scivola sulla guancia al ricordo della tristezza di quella notizia e di quel momento.
 
-Cosa? No no no! Perché?-
-Ha avuto un incidente!-
-Non è vero, non può essere morta, mi ha mandato una lettera ieri!-
-Infatti è morta stamattina, mi hanno appena chiamato da New Orleans, ha avuto un incidente d’auto!-
-Oh papà, sono anni che non la vedo.-
-Piccolo mio, sono tre anni lo so! Ma adesso sei un ometto, hai quasi undici anni.-
-Non si smette mai di soffrire per la perdita di qualcuno. E non c’è un età in cui il dolore si deve sentire di meno…- esclama saggiamente il piccolo me.
-Come lo sai?-
-L’ho letto nelle persone, credo-
-Come?-
-Sì, riesco a capire cosa provano le persone, cosa pensano, il loro passato…- il piccolo me sorride fra le lacrime -… a volte capisco anche i loro  nomi-
-Ma è formidabile Patrick! Mi è venuta un idea…-
 
-NO!- urlai più forte che potevo
-È inutile, non ti sentono, Patrick.-
-Ma… Ma… Ma…-
-Niente ma! Da lì tu sei cambiato, anzi, hai iniziato a cambiare. La morte di tua madre e tutte quelle cose che hai scoperto…-
-Già papà, sei diventato un sensitivo. Sei diventato una star dei maghi!-
-Io non so…-
-Shhh!- vedo farmi da Angela
Mi zittisco, “Charlotte non sa che era tutta una finzione?”
“Te lo dico io: no! Ci sei stato troppo poco! Certo, per quel poco che ci sei stato eri il padre migliore che si potesse desiderare, però…”
“Non complicare le cose!”
-Allora, Patrick. Alcune cose le hai già rivissute, giusto? Avevo cercato di mandarti un imput, ma non l’hai preso! Che sensitivo sei se non capisci te stesso? A noi, lassù, c’hai fatto mettere su un bel teatrino!-
-Già, papà, dovevi vedere che casino! Erano tutti impazziti nel girone angelico dove stiamo!-
Sorrido, senza capire cosa intenda mia figlia.
-Per cui, ti mostrerò una cosa del tuo passato che tu non hai vissuto in prima persona, ma dovrai vedere. Mi dispiace, Patrick, ma mi è stato ordinato. E… mi dispiace anche per quello che vedrai, prima di… quella cosa.-
La guardo sbarrando gli occhi.
-No! No! No! Il vostro assassinio, no! Non puoi farmi vedere!-
-Devo.-
 
In un nanosecondo sono in casa mia, qualcuno bussa alla porta, e Angela si avvicina a guardare dallo spioncino, e sorride.
-No no no!- inizio a dire, ma la porta si apre e io non riesco a vedere il viso dell’uomo appena entrato, ne il nome appena pronunciato da Lily.
La vedo baciarlo sulle labbra e portarlo in casa, sul divano.
-Patrick tornerà verso le sei.-
-Lo so.- mi sembra di aver già sentito quella voce ma non capisco dove.
 
-Tu mi tradivi con John il rosso?- sputo con astio, allontanandomi da lei e cercando di non guardare la scena.
-Non sapevo che fosse un assassino, e tu non c’eri mai, quando mi sentivo sola lui c’era, per me. Finché l’amicizia non è diventata qualcos’altro. Non amore, no, quello non c’era. E, essendo uno spirito sono tenuta a dirtelo, c’era comprensione, che con te non avevo, c’era solidarietà e… tanto sesso.-
Rischio di vomitare e punto di nuovo lo sguardo sulla scena, cercando di non guardarla davvero.
 
-Però, mia cara, oggi non sono qui per te. Sono qui per me.-
-Che intendi dire?-
-Sono qui per saldare un conto appena aperto.-
-Ok, che vuol dire?-
-Mi dispiace Angela, io mi ero davvero innamorato di te!-
Vedo la figura indistinta prendere un mattarello dalla ventiquattro ore e colpire mia moglie alla testa, facendola svenire.
Sono costretto a seguire l’uomo fino alla porta di camera mia, dove la mia piccolina dorme tranquilla.
Urlo, mi dispero, grido, impreco e chi più ne ha più ne metta.
Mi copro il viso ma la scena la vedo lo stesso.
Alza il coltello.
 
-NONONONONONONONONONONONONONONONONONO! Ti prego Angela, no!! Perfavore! Cazzo, basta, non ce la faccio!-
Senza rendermene conto sento di nuovo lo sbattere delle onde sulla sabbia. Apro gli occhi, ritrovandomi davanti di nuovo mia moglie e mia figlia. Più trasparenti e chiare.
-Smetti di darti tutte le colpe, Patrick, non è solo colpa tua. E io e Charlotte ti abbiamo perdonato. Basta! Guarda avanti! Vivi! Accidenti, devi vivere la tua vita! Noi sappiamo che ci terrai sempre nel cuore, ma devi andare avanti.-
-Sì, papà, giurami che vorrai bene alla signorina Lisbon.-
-Ma io le voglio molto bene! Io la amo.-
-Sì, ma non basta!- vedo sospirare Angela - Ti sei costruito un futuro, più o meno, e adesso che fai? Ti fermi e cammini all’indietro, guardandolo mentre diventa passato. Girati, guarda avanti, la vita va avanti, il tempo va avanti, non lo perdere, quello non tornerà mai! Un giorno ci rincontrerai, e, se posso chiedertelo, inizia a credere. Così, forse, nel tuo cuore troverai molta più pace!-
-Non solo papà, senti che ti dice mamma!-
- Non importa dove tu corra, finirai sempre per imbatterti in te stesso! E non vale la pena avere la libertà 
se questo non implica avere la libertà di sbagliare.-
-Sì papà, sii felice. Fallo per me!-
-Guarda avanti Patrick, guarda avanti.-
E in questo istante spariscono.
Mi avvicino a una palma e mi ci accascio. Cado a terra a peso morto, sbattendo il sedere sulla sabbia resa dura dall’acqua.
Piango. Affondo la faccia nei palmi delle mie mani, intreccio le dita ai capelli e piango.
Ho visto morire mia figlia, tradirmi mia moglie e ho quasi visto in faccia John il Rosso.
Troppo per la mia mente labile. Singhiozzo, urlo e grido. Se non fossi completamente solo credo che mi rinchiuderebbero in un ospedale psichiatrico, di nuovo.
Continuo a disperarmi e a piangere, Finché non mi ritrovo in silenzio, come liberato da un enorme peso. Mi sento quasi diverso. Ma non saprei come definire questa sensazione, perché non la sento completa.
“Lei mi tradiva.” Penso, deluso.
“E di brutto, ragazzo mio! Ma faceva più che bene, cavolo… ti rendi conto che se c’eri stavi con i clienti, ogni tanto giocavi con tua figlia e facevi il bagno nella baia?”
“Sono stato un pessimo padre e un pessimo marito.”
“Sei stato un pessimo marito, non un pessimo padre.”
“Comunque la rigiri resta colpa mia!”
“Comunque la rigiri, sei sempre un idiota.”
 
-Non è stata totalmente colpa tua, Jane. Smettila!-
-Teresa?- alzo lo sguardo, incrociando gli occhi verdi come due smeraldi della mia compagna.
-Da quando mi chiami per nome? Jane, per quanto la cosa mi renda tremendamente triste, sento che tu non sei vicino a me come vorrei. Quindi facciamo una capatina a vedere cosa sta succedendo nella realtà mentre tu dormi … Ci vorrà pochissimo, va bene?-
-Sì, Teresa-
-Smettila! Io sono lo spirito di Lisbon, il tuo capo, non Teresa la tua ragazza! Capisci? La cosa mi condizionerebbe!-
“Sì, lo so, è un ragionamento contorto… le donne!”
“Zittisciti!”
“Uff…”
-Va bene, Lisbon.-
-Perfetto.-
 
Sbatto gli occhi per il forte fascio di luce che mi investe e quando li riapro sono nella mia camera d’albergo, ad Adak, sdraiato nel letto con le coperte tirate fino alle orecchie.
Non c’è nessuno accanto a me.
Giro lo sguardo per la stanza e trovo Teresa seduta su una sedia con una tazza di caffè bollente tra le mani.
Mi osserva con un sorriso malinconico sul volto e poi posa il suo sguardo sulla finestra, mi affaccio anche io e noto che la neve che ricordavo esserci si è sciolta.
-Da domani torneremo Jane e Lisbon, te lo prometto Patrick…- sussurra al mio corpo sdraiato sul letto –…non posso forzarti in una cosa che non vuoi.- la vedo sospirare e lasciar cadere una lacrima sulla mia pelle.
La sento, sulla guancia. Mi sfioro e uguale fa il mio io presente.
 
-Puoi sentirmi?-
-Secondo te posso? Che dici? Mi vuoi far venire un infarto? Già non ti sopporto, figurati se ti dovessi sdoppiare!-
-Che cosa è successo?-
-Oh, niente che tu non faccia sempre! Hai fatto una specie di marcia indietro. Mi hai detto che, pur essendo innamorato di me, non sai se sei pronto ad affrontare una storia d’amore. E, in più, hai ribadito il fatto che, in questo momento, la tua principale aspirazione è uccidere John il rosso.-
SDANG!
-Ahi! Perché mi hai tirato uno schiaffo?- dico dolorante, tanto che il mio io presente si muove nel sonno
-Perché un giorno mi promettesti che non mi avresti mai fatta soffrire. Io avevo sperato che le tue parole avessero un senso, ma a quanto pare mi sbagliavo. Mi hai ferita, lo capisci?-
-Sì.- sospiro.
SDANG!
-Ahia! E adesso, perché?-
-Se lo capisci perché non hai evitato di aprire bocca?-
-Non lo so.-
Fermo la mano di Lisbon appena in tempo per evitar un'altra sberla.
-Devi pensare prima di agire!-
-Ma io…-
-Niente ma! Sai benissimo che se tu avessi il coraggio sarei tua!-
-Lo sei già!-
-No! Come mai non lo capisci? Fare l’amore con una persona significa donarsi a questa e fidarsi! Io non mi fido di te, senza la fiducia non siamo posseduti da nessuno e non possediamo nessuno!-
-Il ragionamento non fa un piega!- sorrido amaramente
-Avolte per il bene di entrambi si lasciano anche le persone a cui si tiene di più, ma è solo la soluzione più facile, non è la soluzione migliore. Eppure è quello che stai facendo!-
-La fai facile tu! Come fai a credere che sia facile dirti che non sono pronto, farti soffrire? Non è facile, e non è neppure la soluzione migliore… è una via di mezzo!-
-Siamo troppo vicini ora per scappare via.-
-Ma io non scappo! Cerco di proteggerti!-
 
-Sai, credo di averti amato fin dal primo istante in cui ti ho visto.- Teresa si è seduta sul letto accanto a me. Stringendo a se le gambe e dondolandosi, mentre con un'altra mano asciuga piano una lacrima rimasta prigioniera. –Tu, così particolare, strano, malinconico, triste eppure così sorridente, enigmatico, carismatico… e poi intelligente e bello. Eppure lo sapevo, lo sapevo che sarebbe finita così! Sapevo  che ci sarei caduta! Mi sono ripetuta per cinque anni, cinque cazzo, che non eri giusto, non eri adatto, eri “dannato”! E proprio quando stavo riuscendo a convincermi, quella stronza dell’Hightower ci ha mandato in questo buco di posto dove io rischio di perdere la vita e sono finita nel tuo letto! Oh, quanto mi odio!-
 
-Perché ti tratti così?-
-Prima di tutto sono i residui di un infanzia e una adolescenza di complessi, e poi perché noi donne troviamo sempre il modo per incolparci.-
-Sei uno straccio, non posso vederti così!-
-È colpa tua, sei troppo chiuso in te stesso. Sei un muro impenetrabile! Quando è stata l’ultima volta che ti sei lasciato andare con qualcuno, da quando tua moglie è morta?-
-Mi sono fatto travolgere dalle emozioni quando ti ho detto che se stessi per morire chiamerei te, o quando ti ho promesso di esserci sempre e di salvarti sempre.-
-E quando mi hai promesso di non ferirmi mai? Dov’eri? Era una bugia a fin di bene?-
-Non era una bugia.-
-Strano, avrei detto di sì!-                                                                 
 
-Però, Patrick, Non ho nessun rimorso.. ogni dolore affrontato, ogni ostacolo superato è stato un passo avanti per portarmi qui da te, e, a parer mio non è mai tardi per ricominciare.-
 
-È orribile volerti aiutare e non avere nessun modo per farlo!-
-È quello che credo anche io, Jane. Non sai quanto desidererei aiutarti, ma non ho modo. Tu non ti fai aiutare. Ti autopunisci.-
-Non dovrei?-
-Credo che possa bastare! Va avanti, apri gli occhi e il cuore. Ama! Apriti di nuovo con me, o, se non con me, con chi ti pare. Basta che tu ti renda conto che facendo così fai davvero del male. Che questa è una tua colpa, l’assenza, il fuggire… queste sono le tue colpe. Non ne hai altre. Correggi queste cose e sarai pronto per vivere la tua vita. Capisci che non è mai troppo tardi, ma se aspetterai troppo la tua vita se ne sarà andata.- sono le ultime parole prima di sparire.
 
“Fantastico, adesso mi aspetta il futuro!”
“Già”
“Non è che posso evitarlo? Ho capito!”
“Non rompere le palle e guarda l’ultima parte! Poi ti sveglierai e se avrai capito, bene, se no ti aspetta quello che stai per vedere!”
 
-Ciao, Patrick.-
Alzo lo sguardo
-Mamma?- domando, stralunato
-Ebbene sì!-
-Mamma!- mi avvicino a mia madre, abbracciandola teneramente e alzandola da terra.
Sorrido tra le lacrime. Poi mi insorge una domanda.
-Come fai ad essere parte del mio futuro se sei morta?-
-È una cazzata che si è inventato tuo padre. Ma non posso parlare, mi dispiace. Seguimi-
Senza aprire più bocca, aspetto di vedere dei cambiamenti.
 
E così è. Mi ritrovo a guardare me stesso, più o meno della mia stessa età, forse un anno o due di più.
Seduto su un letto che somiglia tanto a quello di un ospedale quanto a quello di un carcere. Mi avvicino al mio io futuro, studiandolo. Sembro in coma, ma ho gli occhi aperti e fissi sul pavimento, in un punto imprecisato dove ho sparpagliato dei fiori e dei pezzi di carta. Sono immobile, fisso, magro, sfinito.
-È una situazione critica, dottore, non si muove, non mangia, non dorme… non beve neppure.-
-Si sta lasciando morire, è l’unico modo che ha per farlo…-
-Ma non possiamo lasciarlo fare.-
-Se continuerà dovremo iniettargli una flebo di liquidi energizzanti.-
-Alimentazione forzata?-
-Sì.-
-Poverino, doveva amarla moltissimo. È romantico, infondo. Ci fossero uomini così!-
-Può darsi. L’ultima volta che è stato ricoverato è stato rinchiuso un anno.-
-Ora sono tre anni che è qui.-
-Credo che non si risolleverà.-
-Sarebbe un peccato, è un uomo così… bello. E sembra anche intelligente, romantico...-
 
Sento una mano dolce posarsi sulla mia spalla. Mi prende una paura tremenda.
 
Mi avvicino al mucchio di sterpaglie per terra. Ci sono foto e fiori, e quella che credo sia una lettera strappata.
Guardo meglio la foto.
-NO!- grido riconoscendo Teresa in quelle foto
Bip bip bip bip bip bip bip bip bip
-Oh, no!-
-Codice blu!-
Poso di nuovo lo sguardo sul Patrick che sarò notando che ha roteato gli occhi all’indietro e ha quella che credo sia una crisi epilettica.
L’immagine scompare e mi ritrovo in un cimitero, sono sempre io, leggermente invecchiato, con i capelli bianchi. Il corpo è lo stesso, ma si notano i segni della vecchiaia e il dolore ricevuto e donato.
-Sai, all’ospedale mi hanno detto che adesso sto meglio e posso venire a trovarti ogni volta che voglio.-
Poggia dei fiori su una tomba. E io so già di chi è, mi avvicino di più per vedere la sua foto e il mio viso.
E lì, in un ovale che non le rende minimamente giustizia, c’è il suo viso. Incorniciato da quei suoi dolci capelli neri e gli occhioni verdi che esprimono tutta la sua forza interiore: Teresa.
-L’altro giorno è venuto a trovarmi Kim, è l’unico che continui a farmi visita, ma temo che prima o poi smetterà, come hanno fatto gli altri. Lui dice di no, dice di essere mio amico. Sono felice di averlo conosciuto. Mi ha detto che ti ha portato i fiori e che sono venuti anche Grace e Wayne.-
Il mio io futuro carezza la foto nell’ovale.
-Te l’ho detto che sono diventati nonni? Già, la loro figlia ha avuto due gemellini. Me lo ha detto Cho, che mi ha anche raccontato che James, figlio suo e di Elise, si è laureato in legge.-
Si alza infilando, come mio solito, le mani nelle tasche della vecchia giacca –Ti amo Tess, mi dispiace, è solo colpa mia per quello che ti è successo. Sono un mostro. Scusami.- con un veloce bacio si allontana.
L’immagine cambia di nuovo e mi ritrovo in un altro cimitero, si sta facendo un funerale. Guardo le facce dei  presenti, quattro persone: Kimball, Elise, Grace e Wayne.
Quanto sono invecchiati.
-Scusate, ma io non ce la faccio. Mi dispiace, me ne vado.- sono le parole di Grace
-Non dovevi forzarci, Kim. Lo sai come era legata a Lisbon e che non ha mai perdonato Jane!-
-Sì, ma è morto e sono passati 27 anni!- si giustifica sempre impassibile Kimball
-Non importa, poteva evitarle la morte! Ha preferito uccidere John, piuttosto che salvare Teresa.-
-Non sapeva della coplice!-
-È uguale, lui ha scelto la morte. Ha sbagliato! E adesso noi ce ne andiamo!-
E così ecco che arriva il sacerdote
-Solo voi due?-
-No, me ne vado anche io!- dice scuotendo la testa Elise
-Solo lei?-
-Sì.-
-Parenti?-
-Nessuno.-
-Amici?-
-Solo io, a quanto pare.-
-Figli, moglie?-
-La donna che ha amato è morta. Si è sempre dato la colpa per questo.-
-Dio perdonerà i suoi peccati.-
-Lo spero, nonostante tutto era un brav’uomo.-
 
In un lampo bianco mi ritrovo nuovamente sulla spiaggia. Mi butto sulle ginocchia urlando con tutta la forza che ho in corpo.
-NO! NO! NO! NON PUO’ SUCCEDERE!-
-Potrebbe, non deve per forza, dipende da te e da ciò che hai imparato.-
-Sulla tomba, sulla tomba di Teresa, c’era una data.-
-Sì.-
-Qual è?-
-Non posso dirtelo!-
-Devi!-
-Tesoro mio... Senti, se farai come hanno programmato lassù tutto andrà per il meglio, ma quello che hai visto è ciò che inevitabilmente succederà se continuerai con questa tua pazza caparbietà!-
-Ma perché?-
-Non c’è un perché! La vita non chiede perché! Niente chiede perché! Perché ti sei innamorato di Teresa? Potrei chiedertelo, mi sapresti rispondere? Perché John il rosso ha iniziato ad uccidere? Sono tutte domande che abbiamo creato noi uomini. La natura non chiede perché!-
Silenzio
-Non permetterò che accada!-
-Bravo, figlio mio. Prima o poi capirai anche perché faccio parte el tuo futuro…- Sospira -Credo che ti farà piacere avere un piccolo dettaglio su di te, quando eri un bambino e vivevi con me. Prima che tuo padre ti portasse via.-
-Sì…- dico, alzando gli occhi su di lei.
-Eri un bambino bellissimo e avevi una grande fortuna con le bambine, solo che tu eri tutto timido e non ti ci avvicinavi mai. Poi, un giorno, conoscesti una bambina, si chiamava.. Sarah, mi sembra.. e venisti da me, tutto felice, senza un motivo preciso, dicendomi, “Oggi mi dichiaro! Mi sono innamorato! Voglio Sarah!”.. io ti sorrisi.. è un dettaglio importante. Uno scrittore disse che un bambino può sempre insegnare tre cose ad un adulto: a essere contento senza un motivo, a essere sempre occupato con qualche cosa e a pretendere con ogni sua forza quello che desidera.-
Rido stringendo di nuovo mia madre a me.
-Spero di rincontrarti, nella vita reale!-
Tutto diventa sbiadito, chiaro, finché non si confonde con un inconsistente “niente”.

******** 

 
Sbattei le palpebre e aprii gli occhi. Ero sveglio.
Mi girai nel letto, guardando accanto a me.
Teresa era accoccolata al mio fianco e mi chiesi se non fosse successo niente di ciò che ho visto, ma mi resi conto che quella era la realtà e non esistevano le magie, avevo fatto un sogno e non ero stato sottoposto a una vera prova. Ma la cosa era servita, avevo capito.
-Tess?-
-uhm?-
-Tess, ti prego svegliati!-
-Dimmi, Jane.- aprì gli occhi e mi guardò, erano un po’ gonfi e io sapevo perché.
L’abbracciai forte, stringendola a me. Con la paura nel cuore. Sorrisi tra le lacrime, quasi stritolandola per sentirla il più vicina possibile.
-Ti amo, ti amo, ti amo!- dissi
-Che c’è? Hai già cambiato idea?- era fredda e distaccata e si allontanò da me.
-No, non l’ho mai cambiata! Ti amo talmente tanto che non riesco neppure a pensarmi senza di te. Non importa quanto sia sbagliato, non lo sarà mai quanto lo è starti lontano!-
-Eppure hai detto quelle cose!-
-Ero fuori di me! Avevo paura. Ho paura per te! Non posso perderti, ma mi rendo conto solo ora che se ti lascio andare ti perderò per sempre e io rischierei di impazzire.-
-Tu mi hai fatta soffrire.-
-Lo so, ti avevo promesso di non farlo mai, e non ho mantenuto la promessa! Sono una testa di cazzo! Ma ti prego, perdonami.-
-Perché dovrei?-
-Ti amo! Non posso vivere senza di te! E perché io sono l’unico in grado di cambiare il tuo umore in meglio euna persona che ha l’energia di migliorare il tuo umore è davvero importante! E perché sì!-
-Non lo so…-
-Ti prego!-
-È l’ultima chance che ti do!- la vidi sorridere e la baciai avidamente.
-Che ti è successo?-
-Ho sognato.-
-Embeh?-
-Non ha importanza, voglio che tu sappia solo una cosa: “io ci sarò”, non ti dico per sempre perché niente è per sempre, ma ti prometto che ci sarò finché lo vorrai. Finché non mi manderai vai a insulti , finché ti stuferai della mia presenza e delle mie parole, quando non vorrai più i miei abbracci e i miei sorrisi, solo in quel momento me ne andrò!-
-Ottimo, vuol dire che non te ne andrai mai! Non mi stancherò mai di te.-
-Promesso?-
-Promesso!-
-Ti amo.-
-Anche io, tremendamente!-
-Perdonami.-
-Già fatto.-
Ci abbracciammo e tornammo a riposare. Non feci altri sogni per quella notte. La amavo, non potevo più sbagliare, lei era mia, io ero suo. Ci appartenevamo e avrei fatto di tutto perché lei si fidasse di me. E, dal momento in cui lo avrebbe fatto, sarebbe stato per la vita.





Dice l'autrice:
Salve, gente!
E anche questo capitolo è fatto. Piaciuto? Io spero di sì! Risistemato molto anche questo, sì. Accorgimenti di punteggiatura, contenuto, stilistica. Che fatica!
Bah, spero sia migliore di come era quando l'ho scritto, un anno fa. Cavolo, ragazzi, quasi un'anno è passato da quando ho pubblicato questo capitolo. Nove mesi, toh! Il tempo di una gravidanza. Mamma mia, come passa veloce il tempo.
Ma non importa. Eccolo qui corretto.

Recensite!!

Sasy

Ritorna all'indice


Capitolo 12
*** Problems ***


Problems


POV CHO
-Non ti sembra che il capo abbia uno strano profumo?- Mi chiese Rigsby
-Non saprei, non vado ad annusare Lisbon!- risposi evasivo, come mio solito.
-No, lo so, ma non ti sembra che abbia un odore molto simile a Jane?- lo guardai di sottecchi
-Tanto meno annuso Jane!- gli dissi
-Certo che sei incorreggibile! Ma ti schiodi mai dalla tua posizione?-
-No.- lo guardai e alzò gli occhi al cielo, ma che potevo farci io, ero così! –Ok, Lisbon, odore diverso. Capito.-
Si illuminò.
-Secondo me è il dopobarba di Jane…- e poi diceva che ero io l’incorreggibile.
-Secondo me è il suo profumo.- ribattei
-Scommettiamo?- mi chiese febbricitante
Abbozzai un sorrisetto sbilenco –No.-
Tornai ad ascoltare il riepilogo del caso, fatto da Grace, per informare meglio Jane e Lisbon. Loro non erano a conoscenza della nostra scoperta sulla loro relazione, ma, molto probabilmente, Jane l’avrebbe intuito presto. Dai risolini soffocati della  mia futura moglie, che fingeva di leggere un libro, e dallo sguardo da pazzo di Rigsby.
Io  ero impassibile, mi faceva piacere che Jane avesse, in minima parte, superato la faccenda del “mi punisco vietandomi l’amore e il contatto fisico”, come mi aveva detto; ed ero fiero di Lisbon, perché era riuscita ad esternare i suoi sentimenti, quando poteva benissimo rischiare di essere respinta.
-... così siamo arrivati alla conclusione che John il rosso e l’omicida che sta spargendo delitti qui, in Alaska, siano correlati, come se fossero alleati. Se non proprio la stessa persona...-
Certo era strano che Jane si fosse dichiarato proprio in questo momento...
Che non si fosse accorto della somiglianza di tutte le vittime? Impossibile che non avesse notato le iniziali dei nomi. Era stato sicuramente il primo a notarle, eppure ad Adak non ci aveva pensato due volte ad andare a letto con il capo.
O, magari, ci aveva pure pensato, ma, poteva darsi, che fosse stata Lisbon a dichiararsi...
Molto strano anche questo. Per quanto io non avessi le capacità di un mentalista, mi ero reso conto del muro impenetrabile che Lisbon si era creata intorno, in modo da non rischiare mai di ferirsi e non esporsi.
Per cui se si era dichiarata aveva avuto qualche aiutino. Alcol?
Mhm poteva essere...
Ma Jane le avrebbe offerto dell’alcol? Improbabile. Allora vino a cena...
Certo, fingendosi “sposini freschi” erano stati “costretti” a fingere una certa intimità, quindi a cena insieme ogni volta. E, ovviamente, vino.
E si poteva capire che Jane si fosse lasciato andare, come si poteva rinunciare a una donna come Lisbon che ti diceva di amarti e ti desiderava? Impossibile.
Però era altrettanto impossibile che Jane non si fosse impelagato nelle sue solite seghe mentali...
Quindi, ipotizzando che Jane ci avesse ripensato, cosa sarebbe potuto accadere perché, al momento, fossero trepidanti dalla voglia di tenersi per mano, guardarsi, sorridersi?
Teresa non era una persona che supplica, quindi doveva averci ripensato di nuovo. Infondo mi era sempre sembrato che Jane fosse un po’ mollaccione.
Ripensato e poi scusato? Lui sì che era un tipo da pregare le persone...
Era una scena che avevo già visto, quella di pregare Lisbon.
-... prendendo in considerazione che l’uomo... –
-Donna.- corresse Jane
-... la donna che ha ucciso queste persone sia dalla parte di John, più o meno come lo era Rebecca, dobbiamo ipotizzare che sia una persona che conosciamo?-
John il rosso...
Come era messa a quel punto la voglia di vendetta di Patrick? Si era un po’ smorzata, in modo da non rischiare di perdere Teresa in qualche modo? Oppure era solo nascosta sotto un’altra maschera?
E se non era più la massima priorità, allora avrebbe iniziato un processo di maturazione? Avrebbe cercato di pensare in modo coerente, e non distorto, al caso?
Avrebbe iniziato a sedersi a una scrivania e studiare in modo “umano” i file e tutte le ipotesi?
Avrebbe iniziato a lavorare in modo più ortodosso?
Avrebbe smesso di fare il cazzone per proteggere la carriera di Lisbon?
Il mio parere era contrastante, secondo me Jane amava Teresa davvero, lo avevo capito subito, solo che la sua natura di cretino cronico gli impediva di essere una persona seria, e, probabilmente, finché John non fosse morto, la vera natura di Patrick non sarebbe venuta a galla.
Molto probabile che avrebbe continuato a covare la sua voglia di vendetta, sfociando la sua rabbia inespressa su tutti quelli che gli capitassero a tiro...
Cose del tipo: “piacere di averla conosciuta, lei è un coglione ma di buone intenzioni”
O pizzicare il naso a un avvocato, creare una messa in scena per cui tutti credano di morire entro 2 ore…
Sì, insomma, cose alla Jane.
Ma, nel caso che John fosse morto cosa sarebbe cambiato? Avrebbe iniziato a pensare più a se stesso e alla sua vita, forse.
-Benissimo, ottimo riassunto, Van Pelt.-
-Grazie capo.- disse aprendosi in un grande sorriso Grace
-Allora, io, Jane e Cho andiamo a fare una visitina a Jonathan Pagger. Van Pelt, Rigsby, voi chiamate la scientifica e controllate i risultati effettuati sul sangue dello smile sotto il tavolino.-
-Elise, per favore, non cacciarti nei guai, ok?- dissi alla mia fidanzata.
-Contaci!- mi rispose, lasciandomi un leggero bacio sulla guancia.
Gli sorrisi piano.
Mi avviai alla macchina che la polizia locale ci aveva gentilmente fornito, in modo da evitare di pagare taxi continuamente, Lisbon si mise alla guida e Jane si sedette dietro, lasciando a me il posto davanti. Come sempre.
Non mi scomposi, mi sedetti e misi la cintura.
-Quando glielo hai chiesto?- mi domandò Jane durante il tragitto.
Maledetto mentalista. Non lo avevamo detto a nessuno.
-Cosa?- chiesi facendo finta di niente
-Dai, non fingere di non capire! Hai compreso benissimo la mia domanda, Ice-Man!-
-Non so di cosa tu stia parlando!-
-Eddai! Senti, il tuo corpo non mi urla, sei davvero bravo in questo, però qualche lieve sussurro è arrivato fino a me. Quando hai chiesto a Elise di sposarla?-
Lisbon si strozzò con l’acqua che stava bevendo.
-Lo dici tu.-
-dai!dai!dai!dai!dai!dai!dai!dai!dai!...-
Eccolo. Ecco che usciva di nuovo il Jane supplicante.
-Ieri l’altro sera.-
Lisbon si girò verso di me e inchiodò.
-Davvero?- chiese strabuzzando gli occhi e facendo crescere la fossetta tra le sue sopracciglia, e tenendo la bocca spalancata.
Quell’espressione mi fece ridere. Non dico sorridere, RIDERE! Nel vero senso della parola.
Lisbon, se possibile, spalancò ancora di più la bocca e gli occhi.
-È caduta in uno stato catatonico.- commentò Jane
-Sta zitto Jane!- lo intimò lei lanciandole uno sguardo tutt’altro che intimidatorio.
-Sì, ho chiesto ad Elise di sposarmi!-
-Incredibile...- si girò verso la strada con gli occhi sconcertati -... Ice-Man si sposa.-
Non ci potevo credere, Jane le aveva inculcato pure il nomignolo?
-Ehi, Tess, se non ti senti in grado di guidare ci penso io.-
Entrambi ci girammo verso di lui.
Lei era rossa come un peperone e io seriamente divertito, ma impassibile.
-Tess?- chiesi, guardandolo
-Bé, tu sei Ice-Man, Grace è piccola Grace, Rigsby è Burt e Lisbon è Tess.- cercò di riparare
-E tu?- chiesi
-Io? Non ho un soprannome!-
-Questo lo dici tu!- gli dissi
-Davvero?- i suoi occhi si accesero –E qual è?- 
-Non te lo dirò mai!-
-Ter… Lisbon?-
Lei fece spallucce.
Ripartimmo e arrivammo velocemente al carcere dove era detenuto Pagger. Scendemmo dall’auto e Lisbon andò velocemente verso la guardia, mentre io trattenni Jane.
-Una curiosità.- dissi –Si è dichiarata Lisbon, vero?-
Lui sorrise sornione.
-Sì.-
-Aveva bevuto?-
Il suo sorriso scomparve, lasciando il posto a una smorfia amara.
-Sì.-
-Quant’è che sei innamorato di lei?-
Sorrise di nuovo.
-Un po’. Pensandoci bene credo di averlo capito quando le ho salvato la vita la prima volta.-
-Capito. Andiamo.-
Mi incamminammo verso Lisbon.
-Sei perspicace!-
-Lo so.-
Lui rise. Rise sul serio e, pur essendo un uomo, dovetti notare che la sua risata era davvero bella, quasi contagiosa.
 
Arrivati nella sala interrogatori del piccolo carcere di Palmer, ci sedemmo tutti e tre davanti al ragazzo della seconda vittima della killer, Tayline Lalvie.
-Allora, Jonathan, lo sai cosa è successo alla tua ragazza?-
-Sì, me lo hanno raccontato.-
-Non sembri dispiaciuto.-
-Sa cosa le dico, bella poliziotta, nella vita ho imparato a non mostrare i miei sentimenti e a non farmi mai prendere dallo sconforto. Si impara, sa, quando passi la vita tra le violenze e i crimini.-
-Lei ti amava?-
-Sì, così diceva.-
-E tu?-
-Forse, chi può dirlo…-
-Tu puoi dirlo.- si intromise Jane, guardandolo torvo –Avevate una relazione sessuale?-
-Certo.- rispose quello con aria ovvia
-Da quando stavate insieme?- anticipò Lisbon, lanciando uno sguardo simil-torvo a Jane.
-Da quando lei aveva 15 anni.-
-Tu ne hai 25, vero?-
-Esattamente.-
-Quanto tempo era che andavi a letto con quella povera ragazza?- chiese Jane, piuttosto rabbioso.
-Stavamo insieme da un mese.-
-Piccolo bastardo irrispettoso e pedofil...-
-JANE!- lo bloccò Lisbon.
-Ok, hai ragione.- si infilò le mani in tasca –Oh, suppongo che ora stia a me. Ok, hai ucciso tu Tayline?-
-No!-
-Guardami negli occhi, Jonathan...- posò una mano sulla spalla del ragazzo e picchiettò due volte, Lisbon alzò gli occhi al cielo sibilando tra i denti una frase incomprensibile -... hai ucciso tu Tayline?- chiese di nuovo
-No...- rispose con voce leggera il ragazzo
-Ok. Hai mai visto persone che potessero mettere in pericolo la tua ragazza?-
-Forse, credo... c’era una donna, bionda, alta più o meno come lei, la poliziotta sexy...- Jane strinse la presa sulla spalla, tanto che mi sembrò di sentire uno scricchiolio –AHO! Era, ahia, accidenti, più muscolosa, ma meno formosa, aveva un seno che era la metà di quello della poliziotta... ha detto di chiamarsi Lisbon, vero? Ahia!-
-Com’era questa donna? Cerca di ricordarla, zooma l’immagine...-
-Non lo so, porta una sciarpa sulla bocca e dei grandi occhiali da sole, indossa un cappotto vintage e ha dei bellissimi tacchi a spillo rossi...-
-Ok, bravo Jonathan.- picchiettò altre due volte sulla spalla del ragazzo, che uscii dalla trance.
Poi strinse di nuovo forte la spalla del ragazzo, che lanciò un gemito. Lisbon trattenne a stento una risatina.
-Ehi, signorina, dica al suo uomo di non maltrattarmi i detenuti, non voglio casini.-
Lisbon arrossì.
-Non… non è il mio uomo.-
-È uguale.-
-C-certo-
Uscimmo velocemente dalla stanza e vidi Jane sfiorare lievemente la mano di Lisbon, che si lasciò andare in un sorriso caloroso.
BANG! BAAAANG! BANG!
Questi tre suoni ci portarono a girarci, iniziammo a correre verso dove eravamo prima, corremmo nella sala degli interrogatori.
Jonathan era morto, riverso a terra con il sangue che usciva fiotti dallo sterno.
Sul momento non facemmo caso che sulla porta c’era uno smile di sangue.
-John...- disse Jane tra i denti –Era qui, cazzo, era qui!- ansimò.
Sul tavolo c’era un foglio, scritto in bella calligrafia, con una penna probabilmente stilografica, con inchiostro rosso.
 

Ehi, Jane, come ti butta amico?
So che te la spassi.
Se ti dessi un'altra pista su cui ragionare e spremerti?
“Mentre gli astri perdevano le lance tirandole alla terra
e il paradiso empivano di pianti?
Fu nel sorriso che ebbe osservando compiuto il suo lavoro,
Chi l’Agnello creò, creò anche te?”

Perché non provi a ragionare anche su questo?
Scommetto che non sei ancora venuto a capo dell’altro pezzo di poesia che ti ho recitato! Ma stai seguendo il metodo sbagliato, sai? Mi chiedo perché tu non abbia ancora capito come devi esaminare l’indizio. Pensa all’autore, Patrick. William Blake. Cosa ha fatto? Oltre a scrivere poesie, intendo.
 Peccato, ti ritenevo più sveglio.
Ci vediamo presto, tanto, non ti preoccupare.
Salutami la tua concubina sexy.
:) 

 
Pur non capendo il significato dell’intera lettera, comprendevo che vi si celava una minaccia, le ultime due frasi facevano intuire che avrebbe agito presto. Il tempo per trovarlo stava per scadere.
Il dopo era un mistero.




Dice l'autrice:
Piaciuto il capitolo? Caspita, mi sembra ieri che iniziavo l'anno scolastico e invece è già finito. Mi manca tutto, tutto. E, beh, soprattutto lui. Ovunque tu sia, professore, sappi che mi manchi. 

Recensite, eh.

Sasy

Ritorna all'indice


Capitolo 13
*** It's gonna be okay? ***


It's gonna be okay?



POV LISBON
Le indagini andavano a rilento, niente piste, niente testimoni, niente indizi…
L’unica cosa era quella lettera, lasciata sul tavolo della sala interrogatori davanti al corpo esangue di Jonathan Pagger. Avevamo fatto anche il test sulla calligrafia per controllare che non combaciasse con quella di qualche ex detenuto. Invece eravamo rimasti sbigottiti da cosa avevamo scoperto, la scrittura era del ragazzo, Jonathan.
L’avevo notato anche io: Jonathan Pagger, J.P., Patrick Jane.
Era l’unica cosa che potesse essere di conforto, più o meno. Ora era chiaro che si trattava di John, Jane era uscito di testa completamente, imprecava: non era da lui assolutamente.
Non solo non dormiva più, ma era perennemente chino sui documenti relativi al caso…
Li spulciava, li rileggeva, li ricontrollava, fotocopiava e sottolineava, cercava qualcosa che potesse essergli sfuggito, che potesse essere sfuggito a tutti noi. Come se non sapesse già tutto a memoria, anzi, più di tutto, lui sapeva anche il superfluo.
Si agitava, girava per la stanza alla ricerca di un appiglio di salvezza, cercava di salvarmi. Non gli importava di salvarsi!
Come se non sapesse che se lui fosse stato in pericolo mi sarei buttata anche nelle fiamme per aiutarlo.
Non per morire con lui, o per lui. Mai avevo pensato al suicidio come una pena, no, perché il suicidio è una espiazione, a volte, per le anime in pena.
Questo era un motivo per cui ero contro la pena di morte: il condannato non è mai triste quando sta per essere ucciso, perché sa che non avrà tempo di rendersi conto di ciò che ha fatto, sa che non riuscirà a soffrire, sa che non avrà il tempo di elaborare nella sua mente la sadica pazzia che lo ha reso cieco e malato al punto da uccidere una persona. La vita, invece, offre i sensi di colpa, la rielaborazione. E ti fa sentire il verme che sei in realtà.
La morte è facile, serena. La vita è molto più difficile.
Però sto divagando, insomma, Jane si muoveva a scatti, non mangiava, era un continuo cantilenare la poesia di Blake, non si faceva avvicinare, però, quando mi vedeva giù, abbattuta e sola, mi abbracciava e io cercavo di consolarlo, perché, ogni volta, finiva col versare lacrime su lacrime.
Come in quel momento. Lo stringevo al petto, sdraiata sul letto, con la sua testa in grembo. Lui mi abbracciava la vita e affondava il viso nella mia camicia da notte della squadra di Lisbona, una gamba attorcigliata alla mia e l’altra mano a stringere energicamente a pugno il tessuto elastico dell’indumento che indossavo.
Piangeva silenzioso, facendo sgorgare lacrime su lacrime, che gli rigavano il volto e inzuppavano la mia maglietta, facendomi gelare fino alle ossa. Gli accarezzavo i ricci, scuri a causa dell’umidità, passando le dita e sentendoli scorrere sulla pelle della mano.
-Patrick, ti prego, non ce la faccio più a vederti così.- gli dissi, stringendogli i capelli, fino a tirarli, per fargli alzare il viso.
-Tu sei fin troppo buona e comprensiva, con me. Tu sai che io mi apro solo con te e con gli altri rimetto sempre la solita maschera del burlone, ciarlatano. Come fai a sopportare la mia identità sdoppiata, come fai a sopportare che io sia sempre così distante da te?- mi chiese con voce rotta, nascondendo il viso coperto di lacrime salate alla mia vista.
-Patrick…- gli dissi  in modo quasi materno -…che domande stupide fai? Io so che tu hai paura per me e che la doppia identità la usi solo per difenderti. Ma con me non sei così, cioè, lo eri.Ora, invece, lo sei solo sporadicamente e solo per difendermi. Io ti amo, non mi interessa quanto ti senti un verme o cose del genere, già il fatto che tu ti senta tale determina che non lo sei.- mi guardava di traverso, con gli occhi lucidi ma un ombra di sorriso sulle labbra.
-Il mio angelo.- sospirò, avvicinandosi a me e baciandomi con passione. Pensandoci bene erano quasi 4 giorni che non mi baciava.
Mi mancava quel contatto, tanto intimo quanto importante da mostrare alla luce del sole.
Mi mancava il sapore delle sue labbra dolci e carnose e mi mancava il senso di marcamento del territorio che la sua lingua mi infondeva. Gli appartenevo.
Mi mancava tutto di quel bacio.
Probabilmente anche a lui, perché mi si avvicinò e si puntellò sulle braccia, tenendo le mani a un palmo dalla mia testa, intrecciai le braccia dietro il suo collo e lo avvicinai a me ancora di più.
In quel momento non pensavo che a una cosa.
Il suo corpo era coperto ancora da tutti gli indumenti, io indossavo solo la maglia di Lisbona e l’intimo.
Non ci volle molto perché ci ritrovassimo completamente spogli di quasi ogni protezione di stoffa e iniziassimo a esplorare i rispettivi corpi come se fosse la prima volta. Il suo petto, le sue braccia, erano come le mura di una fortezza, per me. 
Eppure in tutti quei movimenti intensi e passionali, sentivo ancora una forza che lo tratteneva, come se avesse paura, come se tutto dentro di lui fosse in frantumi.
-Non è giusto che io ti desideri in questo modo!- disse, staccando le labbra dalle mie per guardarmi negli occhi
-Non sarebbe giusto che tu mi precludessi la possibilità di farti sfociare su di me tutto il tuo desiderio.- dissi, con una punta fin troppo accennata di malizia, mentre passavo le labbra sul suo collo fino all’orecchio.
-Sei una piccola pervertita.- mi disse in un brivido
-Lo so.- ammisi con una risatina ansiosa.
Mi sorrise, di quel suo sorriso malinconico e rotto, ma solare e vicino, lui era lì accanto a me, su di me, non era distante, la sua mente, il suo cuore, erano nella stessa posizione in cui si trovava il suo corpo. E questo era rassicurante. Lui non era restio nell’amarmi, aveva paura di qualcosa che sarebbe potuto succedere, una conseguenza funesta del suo essere irrimediabilmente dannato per il resto dei suoi giorni!
O, almeno, questo credeva. Per me al mondo non c’era anima più dolce e pura. Tutti commettono degli sbagli, alcuni irrimediabili, altri  sicuramente riparabili.
In fondo tutti sanno che l’IO, l’individuo, nasce egoista. Quindi inutile nascondersi che in quel momento poco mi importava come si sentisse distrutto e come fosse in preda ai sensi di  colpa, lui c’era, mi bastava, più o meno. Staccai le labbra dalla sua mascella e lo guardai negli occhi, nel buio della notte risplendevano come zaffiri, luccicanti e umidi, gli accarezzai la guancia e abbozzai un sorriso, ma probabilmente mi uscii fuori una smorfia impietosita. Lui lasciò cadere un ultima lacrima, che mi bagnò l’incavo del collo e poi sorrise di rimando, chinandosi a liberarmi dalla piccola goccia salata con le sue stesse labbra. Chiusi gli occhi, mentre lui si sdraiava di nuovo sopra di me, dolcemente, e lo strinsi con forza.
-Ti amo.- dissi, inspirando il dolce profumo dei suoi capelli –Non mi interessa quanto ti senti stronzo, io ti amo lo stesso. Però, se mi fai perdere il lavoro ti butto fuori dal CBI e da casa a calci!- dissi, aprendo piano un occhio per vedere la reazione sul suo viso, poggiato sul mio seno. Sorrise.
-Mi stai proponendo di venire a stare da te?- disse, alzando la testa e spostandosi di lato. Poggiò il gomito al cuscino e su avvicinò a me, intrecciò una gamba alle mie e si sporse per baciarmi lieve le labbra. Come una carezza.
-Chi lo sa…- risposi evasiva, incapace di pensare in modo, anche se di poco, più coerente.
-uhm... è una proposta allettante...- con la punta dell’indice iniziò a percorrere il profilo delle mie labbra -... anche se preferirei che tu venissi da me, sai com’è... casa mia è più grande, più adatta a contenere un numero maggiore di abitanti...-
Pensai un secondo alle sue parole, perché mi suonava strano? Casa mia era perfetta per due. Magari non era perfetta per più di due...
Accantonai quel pensiero un secondo, scossa dal fatto, a quanto pare mi ne accorsi solo dopo, che mi avesse proposto casa sua.
Probabilmente il mio sbigottimento mi si doveva leggere in faccia.
-Ma che vai a pensare, stupidina...- mi rimproverò debolmente con una risatina nervosa, la sua voce era arrochita, ma non sapevo dirmi se per il pianto o qualcosa di più profondo e fisico -... non QUELLA casa, il mio appartamento a Sacramento, intendevo!-
Tirai un sospiro di sollievo e poi mi ricordai il primo pensiero, e arrossii.
-Adesso cos’è che ti passa per la testa?- chiese, con un espressione penetrante in volto.
-N-niente...- mentii miseramente
-Sei una bugiarda... a cosa... - mi avvicinai a lui mettendomi di fianco, e gli presi la mano, posandola sul mio ventre piatto e vuoto -... Oh, Oh.-
-Lo so, sono una stupida, chissà quanta altra sofferenza ti provoca sapere che io desideri un figlio. Ma ormai non ho più l’età... Scusa, mi dispiace...-  dissi, rendendomi conto di avergli provocato del dolore.
Ma avevo frainteso.
Mi guardò negli occhi con intensità, passione, desiderio, amore. Eravamo entrambi di fianco, alzò il gomito, sostituendolo con una mano e avvicinandosi a me fino a sovrastarmi. D’un tratto mi ritrovai spinta con la schiena sul materasso, lui era sopra di me, mi guardava con gli occhi fiammeggianti, adesso erano due lapislazzuli scuri, che lanciavano fiamme blu intense. Mi sentii piccola e insignificante davanti a sì tanta potenza e perfezione. si lanciò sulle mie labbra con una forza che mi fece gemere di aspettativa, gli tirai i capelli e aspettai che mi liberasse delle ultime e praticamente inutili protezioni, mentre io facevo lo stesso, a lui.
-Ti voglio. Ti voglio per sempre.- mi sussurrò nell’orecchio, un attimo prima di entrare in me, mi chiuse le labbra con le sue, appena fui sul punto di lasciare andare un urlo e iniziò a muoversi, sinuoso, dentro di me.
 
Mi alzai di soprassalto nella notte che andava disfacendosi nel giorno, la luce passava tenue tra le tende della finestra della camera, avevo alzato il busto troppo in fretta e fui neutralizzata da un forte giramento di testa. Ero accaldata e agitata, mi guardai intorno. Mi calmai neppure un secondo più tardi, Patrick era lì, steso a pancia in giù sul letto, con un braccio dove poco prima ero io e l’altro che penzolava fuori dal letto.
Le coperte erano in fondo ai piedi e il lenzuolo gli copriva leggermente le gambe.
Mi fermai ad ammirarlo, nudo. Bé, ovvio che lo fosse, dopo la notte appena passata.
Wow, non avevo mai pensato che una settimana di astinenza potesse essere così potente da scatenare tutta quella passione. Insomma, lui, prima di me, erano 6 anni che non toccava una donna, io due e mezzo che non toccavo un uomo.
Neppure la prima volta era stata così bramosa.
Un brivido mi percorse la schiena e decisi di alzarmi senza svegliarlo, non volevo rovinargli il sonno che non giungeva da giorni.
Mi feci una doccia veloce, mi lavai i denti e mi infilai un paio di pantaloni da ginnastica larghi con una maglia dell’università di Albuquerque. Comprata  in una vacanza spensierata qualche anno addietro.
Mi preparai un tè –E già,Patrick mi aveva contagiata, ora bevevo anche tè, oltre che il solito liquido nero e intenso che era il caffè.
Gli tirai la coperta fino al collo, non volevo che prendesse freddo.
Mi sedetti su una poltrona vicino al letto e aprii le tende. Dormiva profondamente non si sarebbe svegliato neanche con una cannonata.
Mi strinsi un ginocchio al petto, continuando ad ammirare l’uomo nel letto dell’albergo. Bello e tormentato…
Mi ricordai sorridendo quando pensavo che l’amore non potesse essere come nei libri, non potesse essere come in Twilight, perfetto e eterno, nonostante tutto.
Non avevo mai pensato che un giorno sarei arrivata a preferire la vita di una altro essere piuttosto che la mia, mai avrei sperato che un giorno un uomo potesse sacrificarsi per me.
Avevo pianto, amato e riso, leggendo quella saga e, alla fine, avevo avuto ciò che avevo tanto sognato...
Certo, meno pericoloso, dannato e, ovviamente, immortale. Ma esattamente il mio ideale di uomo.
Anche se, ad essere sincera, io avevo sempre preferito i mori… deformazione familiare, chissà.
Quegli occhi, quelle labbra, mi facevano sentire leggere come una piuma, come se il mio cuore battesse tanto veloce da somigliare più a un colibrì.
Sospirai e portai nei miei polmoni il dolce aroma di Tè alla vaniglia, il preferito di Jane, con il latte.
All’improvviso, però, un altro odore e un altro sapore si attaccò come una tenaglia alla mia mente, mentre perdevo conoscenza: sangue.
Dovetti rivedere i miei standard: Jane non era immortale, ne tanto meno dannato, ma essere una persona vicina a lui significava guai…
Jane era pericoloso. Almeno finché il mio aggressore, nonché il suo incubo più grande, fosse stato vivo…
Lo riconobbi subito, perché capii all’istante ciò che stava succedendo, mi aveva colpita, mentre qualcun altro avevo colpito Patrick.
Chiusi gli occhi, che si erano annebbiati e riempiti di macchioline scure, sicuramente capillari che si rompevano. Era lì.
Mi si gelò il sangue: ero in balia della morte dopo la notte più bella della mia vita.
L’aguzzino rise di gusto.
Red John.





Dice l'autrice:
Guten Abend, meine Freunde! (Buonasera, amici miei! xD) Come avrete notato, questo capitolo non è che lievemente modificato in piccole cose come la battitura o la punteggiatura. Ero già migliorata molto. Quindi... beh, che dire... niente se non questo: Se state leggendo per la prima volta, spero vi piaccia. Se la leggete per la seconda, spero vi sia piaciuta ancora di più!
Un bacio, carissimi!

Recensite!!

Sasy

Ritorna all'indice


Capitolo 14
*** End or beginning? ***


End or beginning? 



POV LISBON
“ti amo” erano le ultime parole che avevo sentito.
Poi ricordavo di essermi addormentata nella mia stanza d’albergo, accanto all’uomo che amavo. Mi ero alzata per una tazza di tè e poi...
Il vuoto.
Sbattei le palpebre, aprendo gli occhi a fatica, non riuscivo a capire dove mi trovassi.
Mi faceva un male terribile la testa ma non riuscivo a muovere nessuna parte del mio corpo, ero come paralizzata.
Tentai disperatamente di muovermi, senza successo alcuno, iniziai ad ansimare e tentai di abituare gli occhi all’oscurità.
Vedevo a chiazze, come se il mondo fosse diventato maculato di viola e giallo improvvisamente.
Quando la sensazione di smarrimento passò riuscii a mettere a fuoco le immagini intorno a me.
Mi trovavo in uno scantinato, supponevo, c’erano scatoloni polverosi ovunque e un odore di marcio permeava l’aria. Alzai lo sguardo per capire se c’erano finestre o cose simili, ma la stanza sembrava completamente chiusa, e io completamente sola.
-Patrick!- gridai
Non mi rispose nessuno
-Jane!-
Ancora niente
-vi prego, se c’è qualcuno, mi aiuti!-
Il silenzio mi uccideva
Continuavo ad urlare, gridare e scatenarmi, senza risolvere niente.
Iniziavo a riconquistare un po’ il movimento del mio corpo.
Mi guardai, ero coperta di graffi e tagli, non avevo ancora notato in che stato mi trovassi.
La maglia che ricordavo di avere addosso era stracciata e i pantaloni della tuta non c’erano più, come l’intimo.
Avevo le mani e i piedi legati con una corda molto resistente e grossa.
Ero una maschera di lividi violacei che affioravano lentamente dalla pelle.
Non riuscivo a ricordare, ma dovevo farlo. Il mio stato mi suggeriva qualcosa, ma come saperlo con certezza. So che cominciai a sudare.
Respirai affannosamente, sentivo sempre più caldo e un tachicardia assassina mi perseguitava.
-PATRICK! AIUTATEMI!!- gridai in preda al panico.
Non avevo nessuna risposta.
Tentai di alzarmi ma ricadevo per terra, continuai a guardare la stanza, cercando dettagli importanti.
Notai una piccola lucina rossa puntare poco lontano da me e vidi una telecamera inquadrarmi instancabile.
-Chi sei? Stronzo pervertito! Chi cazzo sei? Fatti vedere in faccia se hai coraggio, bastardo!- imprecai in direzione dell’incuadratura.
Mi costrinsi a ricordare che cosa fosse successo…
 
POV JANE – Flash Back
-ora vedrai la tua bella soffrire un pochino!- disse  l’uomo mascherato alle mie spalle
“7 agosto, questa doveva essere la data scritta sulla bara di Teresa”
Non riuscivo a parlare, ad esprimermi.
Ero legato come un salame a una sedia ancorata al pavimento. Non potevo muovere neppure la testa per distogliere lo sguardo dal vetro della vecchia stanza, che un tempo era un interrogatorio poliziesco.
-Basta, uccidi me, non fare del male a lei-
-Non è divertente in questo modo…-
-Dici? Oh, mamma mia. LASCIALA ANDARE!-
-No-
Mi rifilò due pacche sulla spalla facendo risuonare quella sua risatina malefica.
Non potevo chiudere gli occhi a causa di un intruglio versatomi nella cornea, non potevo muovere il collo perché costretto da un collare, non potevo muovere il mio corpo e non sentivo più scorrere il sangue nelle vene. Era doloroso non poter battere le ciglia, gli occhi frizzavano in maniera terribile. Ed ero stretto in una camicia di forza. Maledizione.
Nella stanza che osservavo era appena entrato l’uomo mascherato che sapevo essere John.
-Buongiorno, signorina Lisbon, come si sente?-
Teresa si raggomitolò in un angolo, stringendosi le ginocchia al petto. Ovvio, mai andare contro un uomo con un coltello in mano. Desiderai morire all’istante, subire l’elettroshock, ardere vivo in una piazza, fulminarmi sulla sedia elettrica. Non volevo e non potevo vedere quello che voleva farle. Non che lo sapessi con certezza, ma ero certo di avere un idea discretamente possibile.
In oltre non potevo correrle in aiuto, ero fissato immobile a una sedia. Volli piangere, ma non potei farlo.
-Dove è lui?- chiese come una pantera ruggente Teresa.
-Il tuo insignificante amichetto?-
-Dove è Patrick?- disse, quasi scattando in avanti. Mi salì un groppo in gola e gli occhi bruciarono.
-Non manterrei troppe speranze di rivederlo, fossi in te.-
Teresa si guardò intorno, gli occhi sbarrati. Vidi passare sulle sue labbra una frase come “è morto” ma troppo debole perché venisse udita da qualcuno. Sul suo viso passarono mille emozioni diverse...
Stupore, sconcerto, rabbia, sconfitta, tristezza. Poi urlò.
-Come hai potuto?- si alzò in piedi –Come diavolo hai potuto fare una cosa del genere? Come hai potuto ucciderlo? Dopo tutto quello che ha passato in questi anni? Non ti bastava avergli rovinato la vita? Dovevi pure ucciderlo, con la consapevolezza che avresti ucciso anche me? Gli hai ucciso la moglie, la figlia. Sei uno stronzo maniaco e non mi frega niente di offenderti, tanto mi ucciderai comunque, no? Tu e quei tuoi scagnozzi credete di farla franca, sei pazzo. Se non c’è giustizia in questo mondo, sicuramente prima o poi ci sarà. Magari Patrick si ricongiungerà alla sua piccola Charlotte. E tu? Tu sarai un verme strisciante per almeno altre 20 vite, e verrai schiacciato come un insetto.- mentre parlava, gridando, con una punta di isterismo ma una grande componente di furia, lacrime salate le colarono sulla faccia, sul collo, fino a bagnarle la maglia. –O finirai all’inferno e vi brucerai.A quante persone hai rovinato la vita?-
John sospirò a mo’ di scherno.
-Ma lo sai che il discorso più lungo che abbia mai permesso di fare a una mia vittima? Divertente.- e rise di gusto, assaporandosi una battuta tutta sua. -Oh, hai ragione. Io brucerò all’inferno, ma non hai idea di come me la sono spassata in vita. Oh, sì, ho ucciso delle persone, ma l’ho fatto per loro. L’ho fatto per le loro famiglie, per i loro mariti. Gente accecata dal potere, dai soldi. Come puoi sapere che il tuo dio non mi accoglierà tra i suoi santi, alla sua destra. Io ho cambiato il mondo. Io l’ho pulito.-
-Tu sei un pazzo maniaco blasfemo. Dio non vedrà l’ora di buttarti all’inferno e io...-
-Non ho ucciso il tuo dolce amore, se è per questo che sei in collera con me. Non ancora almeno. Lui ti sa guardando. Prima soffri tu, poi tu muori, poi muore lui. Questo è l’ordine in cui accadranno questi avvenimenti.-
Rise di nuovo.
-Figlio di puttana.-
La sua risata si interruppe e le si avvicinò con uno scatto e alzando la mano
-Pensa alla tua, di madre, sgualdrina!- e le tirò uno schiaffo.
Lei barcollò ma rimase in piedi, le arrivò un altro schiaffo e stavolta volò a terra.
-Ti ho mai detto, Patrick, che mi facevo tua moglie?- disse, prima di piegarsi su Teresa e girarla malamente.
Lei si mosse convulsamente, iniziando a dimenarsi. Io gridai.
Gridammo insieme. –NO!-
Lei si girò verso di me, parve guardarmi. Mi sorrise e sulle sue labbra passò un'altra frase “per sempre”
Ricominciò a scalciare  in preda al panico.
Non so come ma riacquistai l’utilizzo delle palpebre, credo che le lacrime si fossero fatte strada attraverso il collirio e lo avessero dissolto. Battei gli occhi e parve che la leggere patina di pelle stridesse nel contatto. Contemporaneamente un fiume mi si riversò sul viso. Non singhiozzai, perché le lacrime andavano da sole, sembravo un fiume in piena, un alluvione.
Quando vidi i pantaloni della tuta di Teresa scaraventati da qualche parte serrai lo sguardo e iniziai a scatenarmi sulla sedia.
Non so come feci, probabilmente i lacci della camicia di forza non erano stretti bene, ma mi liberai.
Non persi tempo a togliermela di dosso, allentai le corde ai piedi e mi alzai, iniziai a provare ad aprire la porta. Partii avvantaggiato, sapevo che non dovevo fare rumore. Lui aveva una complice.
Sentivo Teresa urlare e implorare di smetterla e poi gridare di dolore. Mi girai solo un secondo, in tempo per notare ciò che non avrei dovuto vedere. Lei era legata e non poteva fare grandi movimenti, e lui stava approfittando del suo corpo. Il messaggio era chiaro “se anche dovessi sgamarla in qualche modo, avrei sempre il ricordo di me su di lei.”. E poi la picchiava. E Teresa sanguinava.
Tentai di nuovo di forzare la serratura, ma non successe niente. Non avrei potuto contare sull’effetto sorpresa, ma la chiave doveva essere fuori dalla porta. Dovevo trovare un modo per uscire. Una penna, un filo e un pezzo di carta. Iniziai a frugare nella stanza, ma pareva totalmente vuota.
Poi regnò il silenzio. Il mio cuore partì all’improvviso ancora più potente di come non fosse prima. Se gridava voleva dire che era viva. Se non gridava non potevo saperlo.
Alzai lo sguardo e la vidi per terra, boccheggiante. Era viva. Cercai per la stanza dove si trovava.
-Merda.- imprecai quando mi resi conto che lui non era lì.
Mi sedetti di nuovo sulla sedia e mi rimisi la corda intorno ai piedi. strinsi le braccia come sarebbero dovute stare. Per gli occhi non potevo fare molto. Certo, ero abituato a tenerli aperti più a lungo di quanto non facesse una persona normalmente, le persone in trance non hanno funzioni motorie da vivi, quando attraverso di loro parla una persona morta. Ovviamente in via teorica. Tecnicamente nessuno parla attraverso di loro e quelli si abituano a non sbattere le palpebre, tenere lo sguardo fisso e stare immobili. A volte simulano degli spasmi...
Così provai a tenere gli occhi aperti.
E lui entrò nella stanza nel momento stesso in cui ebbi finito di sistemarmi.
Mi vide e ricominciò a ridere, c’era cascato? A quanto pareva anche lui aveva doti piuttosto buone di mentalismo, ma ogni mentalista è bravo a mentire. Già. Avevo capito che era qualcuno del CBI, per cui l’avevo visto chissà quante volte, ma non mi ero accorto mai di niente.
-Così hai visto tutto. Fantastico, ancora meglio di quanto credessi, quel collirio ha tenuto, eppure avrai pianto. Femminuccia come sei hai pianto sicuramente.-
Rise di nuovo e io, per la prima volta, iniziai a valutare le ipotesi su chi potesse essere all’interno del CBI.
Iniziai a pensare a Cho, Rigsby... loro non mi avrebbero mai mentito o tradito. Cho potevo considerarlo un amico, un ottimo amico.
Rigsby era troppo buono e ingenuo e anche lui era un grande amico. Se prima avevo dubbi sul se fosse un uomo o una donna adesso non ne avevo più.
Quante persone avevo conosciuto in questi anni? Possibile che non lo avessi mai incontrato? No, impossibile.
-Se non ti spiace, adesso andrei a farmi un te nero.-
E richiuse la porta alle sue spalle, senti la chiave girare ma non uscire dalla serratura.
Mi accasciai sulla sedia, dovevo trovare un modo per uscire da quella gabbia. Dovevo salvare Teresa.
 
POV TERESA
Sentii i miei occhi pieni di lacrime ed ebbi l’istinto di coprirmi. Ma chissà quanto tempo era che ero in quelle condizioni.
Guardai verso il vetro della stanza. Adesso era tutto chiaro, ero in una specie di stanza degli interrogatori, molto vecchia. Mi alzai in piedi, anche se erano legati  e sanguinanti, mi avvicinai a quello, che sapevo essere lo specchio sull’altra stanza, dove sapevo esserci Patrick. Mi faceva male tutto e non mi stupii, ripensando a ciò che avevo appena passato. Una lacrima mi passò sul viso. Posai le mani sulla superficie e provai a guardarvi attraverso, anche se sapevo di  non ottenere granché. Mi stupii di vedere qualcosa tipo qualcuno in lotta, dall’altra parte. Non che li vedessi bene, ma notavo i movimenti, in oltre i miei sensi erano più vigili e riuscivo a sentire qualche parola.
C’era Patrick e c’era John. Jane gridava qualcosa del tipo “ti ucciderò” e l’altro rispondeva ridendo, ma in tanto erano in combutta. E se le davano di santa ragione.
Non ricordo cosa pensassi in quel momento, ma iniziai a battere sul vetro e vidi John distrarsi.
 
POV JOHN
Mi distrassi il tempo di un secondo e Jane estrasse una pistola.
Mi ritrovai a sorridere sotto la maschera. Furbo, aveva nascosto una pistola da qualche parte, la domanda era “dove l’aveva presa?” mi controllai in modo piuttosto disinvolto le tasche. Bene, uno di quei trucchetti da prestigiatore. Che stronzo. Ma io avevo un coltello e lui non aveva le palle per spararmi.
Mi puntò la canna contro.
Poi parve smarrirsi per un secondo, come se fosse in trance. I suoi occhi divennero vitrei e la voglia di uccidere che avevo visto nei suoi occhi fino a quel momento scomparve. Rimanendo con la pistola puntata contro di me guardò la donna dall’altra parte del vetro. Le sorrise. Io mi concentrai sulla pistola: Era una 45 millimetri, ed era la sua. Quella che gli avevo tolto dal cassetto, dopo averlo steso. La mia pistola di servizio, invece, era nella saletta che un tempo era il cucinotto.
Ripuntò lo sguardo su di me, e mi finsi costernato. Bè, per quel che poteva vedere, ovvio.
-Portami lì.- fece un cenno con la spalla verso la stanza adiacente –Subito. Ricorda che io ti posso sparare, tu hai uno stupido coltello a roncola. Il mio colpo arriva prima!-
-Non ho solo quella.- sghignazzai
La pistola puntò alla mia fronte. Sorrisi di nuovo.
-Come preferisci.- dissi e aprii la porta.
-Stai di spalle. Prova a fregarmi e ti sparo a freddo. Un colpo e sei morto.-
Uh, che minaccia paurosa, pensai.
Uscimmo dalla stanza e lo portai in quella accanto.
Entrammo.
 
POV JANE
Non resistetti. Quando entrammo e Teresa mi vide mi corse incontro e io la assecondai, allontanandomi da John.
Bé, sì, avevo perso il contatto visivo.
La strinsi a me, la abbracciai. Ma non riuscii a baciarla, quando lei ci provò.
Mi girai di nuovo verso il nostro aguzzino, ma era troppo tardi. Con un calcio la pistola mi fu tolta di mano, e con un pugno il mio naso fu rotto. Di nuovo.
Ma ad attaccarmi non era stato l’uomo vestito di nero, ma un'altra persona, probabilmente la complice, vestita allo stesso modo e ugualmente alta. Effettivamente non è che John fosse chissà quanto alto...
Era robusta, ma non grassa.
Teresa, tempestivamente, corse a raccogliere la pistola. Ma poteva farne ben poco, visto come era legata.
Il mio naso avevo preso a sanguinare. Merda.
Tentai di reagire e con una spinta piuttosto forte buttai a terra la mia seconda aguzzina.
Il primo tornò all’attacco e sguainò il coltello. Brutto affare.
Indietreggiai e cercai un modo per strapparglielo di mano. Inutile, non era possibile trovare un modo. Quella sala era piena di scatoloni marci, e io non avevo certo voglia ne fegato abbastanza per guardare cosa ci fosse dentro.
Ripresi la pistola a Teresa, ma prima che potessi sparargli era andato a tenere Lisbon, e le puntava il coltello al collo.
-Buttalo o le sparo.- dissi, mirando alla donna. E con il cuore che cercava di esplodere fuori dal petto.
-Sparale pure, non è un problema che mi compete, la sua vita o la sua morte.- e rise di nuovo.
In quel momento una terza persona entrò nella stanza, e gli altri due trattennero il respiro.
Io mi voltai e per poco non ebbi un infarto.
-Allora, che ci fate ancora a questo punto? Uccideteli e basta. Adesso. E lei... vestitela, per favore, non è una delle nostre solite vittime. Ah, che schifo. Vi affido un compito e non siete in grado di adempierlo, che inetti che siete.-
Kristina?
Ok, o stavo impazzendo, o ciò che vedevo era una mia distorsione mentale. Il che è uguale, quindi sì, stavo impazzendo.
-Sì, Patrick, sì. Mi stupisco che tu non lo abbia capito. È incredibile. Mio dio, eppure sei entrato in casa mia più di una volta. Non hai mai visto i libri di poesie? Ok, certo, un miliardo e mezzo di persone hanno in casa le poesie di Blake, ma, ehi... e poi, lui...- e indico l’uomo -... il suo cognome è Patridge, è Black ha dipinto un quadro con delle pernici…-
E lasciò la frase in sospeso.
Ok, ero impazzito.
-Sei indubbiamente un po’ troppo scettico, caro. Ovviamente è stato lui ad avere una relazione con tua moglie e ad ucciderla, come lui ha avuto una relazione con la bella cieca dai capelli rossi, o con Rebecca. Ma io sono il capo, qui!-
E a quel punto sentii Teresa contorcersi.
-Ragazzi, via le maschere. Forza.-
Teresa cadde a terra con un gemito. Era stata lanciata.
E i due si affiancarono a Kristina.
Contemporaneamente si tolsero le maschere. Ero troppo sconcertato per pensare “questo è il tuo momento, spara a tutti e fai festa finita”. Aspettai che i loro volti fossero chiari a me. E ciò che vidi mi sconvolse ancora di più.
Il primo, l’uomo, era l’ispettore della scientifica Brett Pattridge, la donna, con mio immenso dolore e stupore, era la psichiatra che sempre avevo creduto dalla mia parte. La donna che mi aveva aiutato ad uscire da quel coma post traumatico in cui ero caduto. Sofie Miller.
A quel punto non ci vidi più. Avevo ancora la pistola in mano. La puntai addosso a Pattridge e gli colpì la spalla e una coscia, Sofie era scattata e mi era piombata addosso, io le sparai addosso a caso, colpendola in pieno petto. Teresa si appiattì contro il muro di fondo della stanza, era pur sempre legata. Kristina, viola in viso, si avvicinò a lei e tirò fuori il coltello che avevo già visto.
Una roncola, solo un po’ più lunga.
Mi mancò il respiro, non ero propriamente bravo a sparare, non c’ero andato quasi mai al poligono a sparare. E il coltello puntava proprio sulla gola di Lisbon. Vidi la punta affondare leggera alla base della mandibola, sotto l’orecchio.
No! Non potevo permetterlo.
Impugnai la pistola con due mani e tentai. Sparai, sapevo che avrei potuto sparare a Teresa, ma infondo, come aveva fatto Rose a non trinciare una mano a Jack, in Titanic, quando non aveva idea di come usare un ascia? Aveva sperato, con tutta se stessa.
Ovviamente io non fui altrettanto fortunato, ma la colpii. Le presi il gomito e quella si accasciò a terra, mentre il coltello cadde. Non avevo calcolato che i proiettili della 45 millimetri vanno a fondo e, non avendo colpito l’osso del gomito, ma avendole portato via mezza carne da sopra di esso, avevo sfiorato Lisbon alla spalla. Così, lei, sanguinava sia dal taglio semiprofondo sul lato del collo, sia dalla spalla.
Le accorsi contro, e inciampai sulla gamba di Pattridge, che, essendo ancora vivo mi aveva messo i piedi tra le gambe per ostacolarmi, Vidi Kristina rialzarsi, ero stanco.
Sparai di nuovo, stavolta la colpii vicino a dove si dovrebbe trovare il fegato. Si accasciò a terra, dolorante e sanguinante. Accorsi da Lisbon e la strinsi a me.
-È tutto finito!- le sussurrai.
Ma non era affatto tutto finito. Ogni cosa stava per cominciare. A partire dalle nostre vite.
In primo luogo dalla mia. 





Dice l'autrice:
E pure questo, cari miei, è paro paro a come l'avevo scritto. Quindi beh... non ho corretto niente, a parte il font, per rendermo omogeneo al resto della storia. Sono sicura che così è molto più carina l'impaginazione di tutta la storia. I titoli tutti uguali, lo scritto tutto uguale... bah, pensavo che forse potrei mettere anche delle immagini, per illustrare la storia, ma forse non lo farò... magari più in seguito, per alcuni personaggi futuri...
Comunque, spero sempre che la storia vi piaccia sempre di più, perché sinceramente, rispetto agli inizi sono migliorata moltissimo.
Quindi...

Recensite!!

Sasy 

Ritorna all'indice


Capitolo 15
*** Impasse ***


Impasse



POV LISBON
In una settimana era cambiato il mondo, il mio mondo e quello di tutta l’America del nord.
John il Rosso era stato catturato, in primo luogo, e quello era ciò che aveva a che fare con gli stati uniti.
Io ero stata violentata da un complice di Kristina, Brett Partridge, e ero rimasta segnata da questo...
Ma non ero traumatizzata, non avevo mai subito violenze, neppure mio padre ci aveva mai provato, anche se verso i quindici anni avevo iniziato a pensare che con l’incrementare della sua dipendenza sarebbe arrivato anche a quello.
Ovviamente non si poteva dire che stessi bene, o che la mia vita fosse perfetta, o che tutto adesso fosse tornato alla normalità.
Anzi, tutto sembrava andare a rotoli, nella mia vita.
Per ciò che era successo, la Hightower aveva deciso di spedirmi da un altro psicologo, tutti mi avevano pianto addosso  e Jane non mi aveva più toccata.
Ovviamente secondo chiunque, queste sono piccolezze, in confronto a ciò che ho subito e da chi l’ho subito.
Compreso il mio psicologo, che sembrava un brav’uomo, nonostante la mia mancanza di volontà nel raccontargli ciò che mi passava per la testa, lui aspettava, parlavamo del più e del meno...
E sapeva che alla fine cedevo e parlavo, perché ne avevo bisogno, perché volevo sfogarmi con qualcuno, avevo un disperato bisogno di ascolto.
-Bé, vede, dottore...- iniziai a rispondere
-No, Teresa, quante volte ti ho detto di chiamarmi Andrew?- mi corresse
-Va bene, vedi, Andrew..- accentuai il nome -..il fatto è che la violenza mi ha fatto del male, e si aggiungerà a tutti quei ricordi terribili che ho della mia vita, a partire dalla morte di mia madre. Ma per quanto possa sembrare assurdo, io non sono tanto sotto shock per quello... come posso spiegarlo... ho passato una vita senza una granché aspettativa di potermi cambiare, di poterla cambiare. Ho passato un’adolescenza a subire botte e scherni, sono entrata in polizia. Sono stata sottoposta a pallottole, botte, sconfitte, perdite, ospedali... ho visto tanti corpi vuoti, tante persone vive ma svuotate dal loro essere che non posso che ringraziare di essere viva.. è assurdo, perché una persona, una donna dovrebbe essere totalmente fuori di se per… quello. Io non mi considero una donna forte, sono piena di insicurezze dettate da un’infanzia e un’adolescenza fatte di tristezza e dolore. Ma ci sono cose che si impara a sopportare, che si impara a chiudere in un cassetto, sperando di non doverlo mai più riaprire. Non sono cose che si dimenticano, purtroppo, ma sono sicura che siano cose che possono essere superate. Per questo voglio superarla e mi impegno con tutta me stessa per farlo.- dissi, liberandomi di tutto quel peso che sentivo di dover tirar fuori, inaspettatamente uscirono anche le lacrime.
Sorseggiai il mio caffè caldo, facendomi inebriare dal suo profumo intenso e amaro. Mi riscaldai la faccia e chiusi gli occhi dentro quella tazza, facendo cadere le ultime goccioline salate nel liquido scuro.
Feci un sorriso amaro.
-Perché vieni qui?- mi chiese il mio psicologo –Ti ho detto che appena me lo avresti chiesto ti avrei fatto un certificato... so che fare il poliziotto non è facile e costringere una persona a liberarsi di tutto ciò che ha dentro, se non è una decisione personale, è una imposizione estrema. Perché vuoi continuare a venire, nonostante tu mi dica che stai superando la cosa. Capisci che non ha senso? Ci vediamo tutti i giorni, Teresa!- disse, incalzante ma leggero, senza pressare.
Sospirai
-Forse ho bisogno di parlare con qualcuno... perché l’uomo che amo non mi tocca più, a mala pena mi parla e guarda, sembra pronto per una partenza imminente, la mia squadra non fa che commiserarmi, non ho grandi rapporti con i miei fratelli, che ho cresciuto... il mio mestiere di poliziotta pare farmi schifo ogni giorno di più...- alzai lo sguardo dalla tazza, quando finii il resoconto e mi sentii patetica.
-Quindi hai bisogno di una persona con cui sfogarti... bene, io sono qui per questo.- disse, sorridendomi.
Sorrisi di rimando, dondolandomi sulla poltroncina dove stavo seduta.
Una vibrazione del cellulare mi fece saltare sul posto.
Il dottore di fronte a me emise una leggera risatina.
Presi il cellulare e guardai il display, era la sveglia che avevo impostato per il processo.
-Merda!- ansimai
Andrew si incupì e mi guardò storto
-Devo scappare, il processo contro Kristina Frey e il complice Brett Partridge inizia tra meno di cinque minuti e da qui al tribunale ce ne metto quindici. Sono morta, letteralmente.-
Lui rise
-Ciao Teresa!- mi disse, facendomi segno di correre via
Sorrisi storto e corsi in macchina.
Mentre guidavo mi davo mentalmente della bugiarda, oltre che ritardataria.
Non era totalmente vero,  diciamocelo, io ero totalmente sotto sopra per quello che Brett aveva inflitto al mio corpo.
Inoltre la mia testa girava vorticosamente e avevo una fame pazzesca. Come se non avessi mangiato appena due ore prima.
Non stavo bene, e non potevo mentire a me stessa, anche se avevo imparato che farlo davanti agli altri implicava evitare di essere studiati a fondo, e quindi di far scoprire le proprie vere e profonde sensazioni.
Parlare della sera della sala interrogatori, della sera della violenza, della sera della verità faceva male.
Eppure era la sera della fine di un epoca, e l’inizio di un'altra. Era la fine del periodo vendicativo e vuoto di Jane, era l’inizio di due vite. La mia e la sua. E anche se io speravo che potessero ricominciare galoppando insieme lui non sembrava pensarla ugualmente.
Mi ripetei che ero una stupida e che lui era sicuramente turbato da quello che era successo, che non era ancora pronto ad accettarlo, come in realtà non lo ero neppure io. Ma io ero sicura di poter superare tutto, con il tempo, l’amore e la vita. Con il futuro si può dimenticare il passato. Basta solo un po’ di fiducia.
Sì, vabbé, ma chi volevo prendere in giro? Io potevo anche crederci, ma Jane? Patrick non era uno da “fiducia” non sperava, quindi la cosa finiva lì.
E al solo pensarci io mi sentivo morire.
Ed ecco che mi trovavo di nuovo a darmi della scema. Come potevo,  io, donna in carriera tutta d’un pezzo, farmi rovinare l’esistenza da un uomo?
Fermai i miei pensieri, addentrati in territori pericolosi della mia mente e scesi di macchina, dopo averla parcheggiata malamente nello spiazzo davanti al tribunale.
Probabilmente me la avrebbero portata via. Pace, ero in ritardo.
Corsi su per le scale davanti all’entrata e presi l’ascensore, diretta al secondo piano.
Arrivata nel tribunale notai felicemente che non era ancora iniziato niente, sospirai sollevata mi sedetti tra Patrick e Kimball.
-Ehi, Kim!- salutai, tranquilla –sì, si fa per dire, insomma.
-Ciao Teresa.- disse, con la sua aria impassibile ma profonda. Un’altra cosa che era cambiata in una settimana era il modo in cui tutti mi chiamavano, ora ero Teresa, non più capo.
Certo, lavoravamo insieme, ma da quanto, ormai?
Molto, troppo perché non ci chiamassimo per nome.
-Ciao, Patrick.- dissi, sorridendogli appena
Lui mi rivolse uno sguardo malinconico –Ciao.- disse
Scossi la testa e guardai il podio dove di lì a poco sarebbe stato il giudice.
In pratica Jane si stava ostracizzando, sembrava avere voglia di staccarsi da tutto e tutti, come già avevo detto al dottore, mi ritrovai a pensare a un imminente partenza.
E se fosse partito? Avrei cercato di fermarlo? Me lo avrebbe detto?
Se fosse partito l’avrei pregato di non farlo, ma non me lo avrebbe mai detto.
Quindi ero costretta a restare lì, in silenzio, mentre la mia vita andava a rotoli, e l’uomo che amavo odiava il mio corpo.
Due battiti di martello mi riscossero dai miei pensieri, stava iniziando il processo.
Ci alzammo tutti in piedi, mentre un uomo e una donna, ammanettati, facevano il loro ingresso con una scorta, e il giudice iniziava a parlare.
 
 
****
-...Quindi, per quanto decretato dalla legge, e dalla mia persona, le condanne per i signori Frey Kristina e Partridge Brett sono le seguenti: In quanto la signora Frey è accusata, e ha confessato, di essere l’attuatrice degli assassinii già elencati, nonché essere perfettamente in grado di intendere e di volere, e essendosi dichiarata ella stessa Red John, in cui John sta per Johanna, le viene inflitta una reclusione a 15 anni in una cella di isolamento nel carcere di San Luise, in seguito alla quale sarà effettuata la massima pena, attraverso l’iniezione letale. Per quanto riguarda il complice e assassino Partridge, viene considerato capace di intendere e di volere, anche se raggirato e, in partenza, sottoposto alle tecniche ipnotiche della signora Frey. Per questo, è stato deciso dalla corte di condannarlo alla pena capitale, senza intermezzi di reclusione. Il caso è chiuso.-
Guardai in viso Kristina, rigida al suo posto in prima fila, accanto a un Brett Partridge in lacrime e singhiozzi.
Ferma, quasi sorridente. Non provava emozioni, quell’involucro vuoto e malato, diabolico.
Quando posò il suo sguardo su di me, gelido, la vidi sorridere apertamente, prima di liberarsi in una risata piena di soddisfazione.
Sentii una mano sulla spalla, stringermi per infondermi forza. Guardai il suo possessore, sperando che fosse Patrick, ma dovetti ricredermi, e trovarmi comunque soddisfatta di scoprire che la mano che mi infondeva sicurezza era di Kimball.
Mi trovai spaesata, però, appena mi accorsi che Jane non c’era più.
Lo sentivo, la mia paura si stava avverando.
-Hai visto Patrick?- chiesi al mio orientale sottoposto
Scosse la testa –Vado da Wayne.- mi disse poi, comprensivo.
Mi guardai intorno, alla ricerca di una testa bionda che se ne andasse tra la gente.
Presi la mia giacca e la borsa e iniziai a cercarlo tra le persone, ma non avevo idea di dove potesse essere andato...
Quando uscii dalla corte lo trovai appoggiato a una colonna di legno, in fondo al corridoio davanti all’entrata del quinto piano. Gli corsi incontro con il cuore che andava all’impazzata.
Avevo sbagliato calcolo, lui mi avrebbe detto che stava partendo, e io avrei potuto pregarlo di non farlo.
Quando fui ferma davanti a lui, alzò lo sguardo.
In quel solo, singolo sguardo il mondo mi crollò addosso…
I suoi occhi azzurrini erano offuscati da una patina di lacrime recluse sotto quelle palpebre stanche, il viso era la maschera dell’angoscia.
Ricacciai un singhiozzo. Era la fine.
-Perché sei uscito?- chiesi, con la voce palesemente rotta dalla tristezza
-È finito il processo.- disse, con quella sua vecchia aria spocchiosa e un vecchio sorriso sghembo che fa sciogliere l’anima.
Sorrisi di rimando, ma il mio cuore era pesante.
-Teresa, senti io...- sospirò -... Ti prego, non fare cose tremendamente stupide.- disse, con gli occhi ancora più vuoti e lontani.
-Mi stai lasciando?- chiesi, mantenendo i miei occhi nei suoi, con una forza che non credevo di poter possedere. Di nuovo la parte chiusa e dura di me stava avendo il sopravvento su quella sentimentale. Misi le mani sui fianchi e storsi la bocca.
La parte di me sensibile e triste, chiusa a chiava in un angolino del mio cuore, piangeva e gridava, chiedendo di essere liberata, per poter pregare l’uomo che amava di non essere lasciata sola e inerme, in quel mondo che in  quelle settimane era diventato invivibile senza lui accanto.
Lui mi guardò come se volesse oltrepassarmi con lo sguardo e vidi una lacrima quasi cadere dai suoi occhi, tirò su le spalle, infilò le mani in tasca e tirò indietro le lacrime che rischiavano di cadere.
-Non so se è una fine... Teresa, io adesso devo andare… Non è colpa tua...-
-Sei un lurido pezzo di merda!- gli gridai, sgranando gli occhi -Almeno dillo, dillo che mi vuoi lasciare perché ti fa schifo toccarmi! Dillo che odi il mio corpo e che non hai la minima intenzione di stare con me! dillo che non mi ami, e che non te ne frega niente di me!- questa non era delusione, questa era rabbia, in piena regola. Dovevo avere gli occhi fuori dalle orbite e il viso arrossato, perché lo vidi indietreggiare e attaccare la schiena al muro dietro di lui.
-Teresa non è così...- disse, abbassando gli occhi e iniziando a gesticolare.
Gli tirai uno schiaffo sonoro
-Per il culo prendi qualcun altro, ci siamo capiti, Jane? Non mi ami? Bene, ok, vattene! Vai a divertirti con qualche sudafricana, fatti un viaggio in Italia, scopati una Geisha. Ma vattene! E sappi che se devi lasciare una donna, lasciala come si deve, non la prendere in giro, perché non farai che farti odiare a vita. Sei uno stronzo. Uno stronzo vigliacco.- girai i tacchi e me ne andai, indignata.
Penso che face qualche passo verso di me, perché sentii il ticchettio delle sue scarpe di cuoio sul pavimento avvicinarsi, ma si fermò.
L’ultima cosa che credo disse, fu un lieve, strozzato “a presto”. Ma non me ne resi conto, finché non rimasi sola, con me stessa.
Solo quando salii in macchina, sola, inerme e senza nessuno accanto, mi resi conto di ciò che avevo fatto…
Gli avevo lasciato la partenza su un piatto d’argento. Non avevo combattuto, non avevo tentato di fermarlo...
Piansi, sbattendo i pugni sul volante e imprecando a voce bassa, sfogando la mia rabbia sulla mia povera macchina.
Come si può soffrire tanto per una persona? Come mai alla prima occasione per ricadere nella trappola dell’amore ci ero ricascata? Perché mi ero fidata dell’uomo che avevo giurato a me stessa che non avrei mai guardato come un amante?
Ero stata una sciocca, una ragazzina alla prima cotta.
Le lacrime bagnarono i miei pantaloni, le mani, il viso e non potei fare a meno di ricordare le sue, quando ancora tutto doveva succedere, quelle stesse lacrime che io avevo curato...
Arrivata a casa, nel mio piccolo appartamento, ero vuota e stanca, priva di una funzione vitale che potesse essere definita tale. Come se di me fosse rimasta soltanto la corazza, dura e resistente di anni, mentre tutto quello che aveva racchiuso dentro fosse fuoriuscito d’un tratto.
Come se la me reclusa nel profondo del mio cuore avesse, alla fine, cessato di combattere, rimanendo chiusa in quella piccola cella, seduta, in silenzio, a guardare la mia, la nostra vita scorrere via dalle nostre mani, inevitabilmente.
Oh, ma che bello, ero crollata per un uomo. Che palle, che palle.
Non è possibile, io che mi ero ripromessa di non innamorarmi più di uomini che potessero ferirmi, che potessero rendere la mia vita un quadro, una foto di ciò che poteva essere e poi non era stato, ero caduta nella morsa di cupido, crollando tra le braccia dell’uomo che più avessi amato in vita mia.
Quando fui per buttarmi sul letto, col desiderio di dormire e piangere per ore, la vidi.
Una lettera, vergata da una scrittura elegante, che disegnava con le sue curve leggere di inschiostro azzurro il mio nome.
Avrei potuto riconoscere quella scrittura fra mille.
Ebbi l’impulso di buttarla nel cestino e non leggerla.
Ma non lo feci, buttai a terra la borsa e presi la lettera tra le dita, rigirandola con le mani tremanti, consapevole che non appena l’avessi letta avrei pianto di nuovo.
 

Cara Teresa,
è così difficile esprimere a voce quello che vorrei dirti...
Puoi non credermi se vuoi, puoi prendere questa lettera e bruciarla, puoi odiarmi a vita, ma sappi che i miei sentimenti per te non cambiano né cambieranno mai, non smetterò mai di amarti, non potrò mai non pensare ai giorni passati insieme…
non potrò mai dimenticare le tue parole, le tue carezze, le tue mani sulla mia pelle..
spero solo che mi perdonerai, un giorno, per averti lasciato così, adesso, in questo momento triste per entrambi.
Anche in questo momento, mentre scrivo questa lettera, e ancora non ti ho detto addio, mi manchi come l’aria.
Mi rendo conto che una lettera non cancellerà il dolore che ti avrò procurato, ma ti giuro, ti giuro mia Teresa, che il mio problema non sorge da te, ma da me stesso.
Devo trovarmi, devo cercare quella parte di me che se ne andata sbriciolandosi in tutti questi anni di vuoto.
So che non vuoi credere più alle mie promesse, e hai ragione, ma non posso che usare la parola “giuro” nel dirti che un giorno tornerò.
Non so quando, ma non tardi. So di non poter vivere senza la tua vicinanza. Capirò, se nel tempo in cui non ci sarò mi dimenticherai, anche se so che non lo farai, perché mi rendo conto di tutto il dolore che ti ho procurato.
Ma tu, mio piccolo angelo, mi hai cambiato la vita, piano piano. Mi hai reso un uomo migliore, lentamente. Mi hai fatto innamorare di te, senza rendertene conto. E io sono cambiato, ma sono una persona spregevole ed egoista, io non ti merito.
Ma se crederai di potermi ancora amare, quando avrò ricucito il mio cuore e la mia anima perduta, e potrai riaccogliermi nella tua vita, sappi che sarò pronto, allora, a ricominciare, con te.
Ti amo, Teresa.
Sei il mio angelo.
Al più presto possibile,
Patrick

 
 
E, letta quella lettera, seppi che la mia vita forse non era finita.
Non piansi che qualche lacrima di emozione. Mi aveva appena lasciata, ma mi aveva allo stesso tempo detto che non si sarebbe mai dimenticato di me e sarebbe tornato.
Potevo aspettarlo, con tutta la forza interiore di cui disponessi.
Stava iniziando una fase intermedia, un periodo di stallo. Forse sarei andata in vacanza.
Ero triste, sconsolata. Ma dentro di me un calore si diffondeva...
Avrei ricominciato sempre con lui, lo avrei aspettato.
Soltanto dovevo cambiare la mia vita...
E la sentii di nuovo, a quel punto, la mia me reclusa, che combatteva, forte e coraggiosa, sbattendo sulle porte della sua prigione. L’avrei liberata.
Tirai un respiro profondo, facendomi inebriare dalla mia forza.
Patrick mi avrebbe trovato di nuovo qui, e mi avrebbe trovato diversa, ma se davvero mi amava, poteva superare i cambiamenti che stavo per effettuare.
Sarei diventata me stessa, avrei distrutto quella maschera dura, di una pietra ripiena di crema, e sarei tornata ad essere la Teresa Lisbon che ero nata per essere.
Sarei cambiata.
 
L’unica cosa che non sapevo era quanto la mia esistenza sarebbe cambiata, di lì a poco meno di due mesi.   




Dice l'autrice:
Hyvää iltaa, ystäväni! (sempre "buonasera, amici miei!", per la cronaca, ma in finlandese -la lingua che il mio butter butt ha voluto imparare *-*) 
Niente da dirvi se non: CONTINUATE A LEGGERE! E anche a commentare, magari...
Vi voglio bene, lettori, recensori, amici e quant'altro.
Siete la fonte di ogni mia gioia! xD
Un bacio!

Recensite!!

Sasy

Ritorna all'indice


Capitolo 16
*** Waiting for Life ***


Waiting for life



POV JANE
Non saprei dire cosa allora mi spinse a partire. Follia, dolore, repulsione, amore, passione. Talmente tanti sentimenti racchiusi in una sola esplosione emotiva che non riuscivo neppure a pensare. Non riesco a credere che riuscii a scrivere a Teresa una lettera di senso compiuto.
Kristina era John e quel Brett insieme con la mia ex psichiatra i suoi maggiori seguaci. Brett aveva violentato Teresa. Ma perché poi? John non aveva mai violentato nessuna delle sue vittime. Per non lasciare tracce, è ovvio, ma allora perché farlo adesso? Rispondeva ad ordini di Kristina? Che volesse incastrarlo?
Ormai non era più un mio problema. John sarebbe morto, avrebbe sofferto. Avevo la mia vendetta.
Ma allora perché? Perché non riuscivo a sentirmi felice? Potevo avere al  mio fianco la donna della mia vita, Teresa, ma la lasciai solo perché avevo repulsione del suo corpo.
Eppure non è totalmente vero.
Io amavo Teresa più della mia stessa vita, amavo tutto di lei. Il suo sorriso, il suo sguardo, la rughetta che si formava tra le sue sopracciglia quando era irritata. Il suo corpo, i suoi capelli e la sua intelligenza unità alla sua immensa umanità. Perché Teresa, nonostante tutto ciò che aveva passato, nonostante la maschera cinica e polemica, era una donna piena di dolcezza e forza.
Mi aveva accettato, e con me aveva accettato i rischi.
Ma allora cos’era che mi aveva fatto partire? È così strana la vita, così piena di sorprese e stranezze. Eppure un motivo c’era per cui avevo deciso di partire. Un presentimento. Un presentimento di cui non riuscivo a capire l’entità. Qualcosa si muoveva dentro Teresa, aveva una luce diversa nello sguardo, un colorito più vivace, le labbra più rosse. Aveva perfino un odore diverso. E tutto questo non era certo riconducibile a Patridge, o almeno non totalmente. Teresa era incinta. Lo sentivo che era incinta. Quello che non sapevo ne credevo di poter sopportare era di chi fosse il figlio. Del mostro o mio?
Avevamo fatto l’amore la sera prima che venissimo rapiti. Io desideravo darle un figlio, lei desiderava un figlio da me. Una bambina dai capelli neri e gli occhi azzurri, o un piccolo me con i ricciolini biondi biondi e gli occhioni verdi della mamma.
Ma se il figlio fosse stato di Patridge? Sarei riuscito a sopportarlo?
Non lo potevo sapere mentre facevo timbrare il visto per andare in Francia. E mi ci sarebbe voluto ancora molto tempo prima di capirlo.
Solo il tempo mi avrebbe saputo dire se fosse più grande l’amore per Teresa o l’odio per John, e finché non lo avessi capito, non avrei potuto fare altro che aspettare e pensare.
 
***********
 
POV LISBON
-Teresa stai bene?- Kim alzò gli occhi scuri verso di me e per un attimo vidi passare un’ombra di spavento in quel suo sguardo schietto e impassibile.
-No, non sto bene.- Asserii –Non sto bene per niente.- una lacrima mi scivolò sulla guancia.
Ero svenuta davanti a procuratore, scientifica, polizia, federali e medico legale non appena avevo visto il corpo straziato di una giovane donna, colpita da trenta coltellate in tutto il corpo. Uno spettacolo osceno, ma non il peggiore che avessi visto.
E comunque non era la prima volta che svenivo. Nel mio ufficio – mentre parlavo con Rigsby di giorni di straordinario – con Van Pelt – mentre prendevo in caffè –
Nausea al mattino, piccoli dolorini alla schiena, ritenzione idrica.
Non era importato il test perché lo capissi, era solo una conferma.
-Sono incinta, Kim.- confessai.
Kim parve stupito e confuso, mi sembrò che avesse aperto bocca per poi richiuderla. Sapevo cosa voleva chiedermi, avevo imparato qualcosa da Jane, dopo tutto. Si capisce dagli occhi, o da un piega delle labbra. Kim in realtà non era l’Ice-Man che tanto faceva sembrare di essere. Era un uomo, un essere umano e come tale aveva dei dubbi e delle tendenze che non sono facili da gestire.
Anche io mi stavo facendo, da qualche giorno ormai, la stessa domanda che adesso assillava Kimball: Di chi ero incinta?
-Non lo so. Non so di chi è il bambino.- chiusi gli occhi, tentando di trattenere una nuova lacrima solitaria. Erano ormai due mesi che Jane se ne era andato, mi mancava tanto. Se lui fosse stato accanto a me non avrei avuto dubbi, non avrei avuto incertezze. Se niente fosse successo lui sarebbe stato lì, al mio fianco. Il solito consulente rompiscatole che mi riempiva le giornate di luce. La sua luce.
Magari non saremmo stati insieme, non avrei mai assaggiato il sapore delle sue labbra, non sarei mai stata sua, non avrei mai passato le mani in  quei suoi ricci dorati. Ora non sarei stata incinta, ma lui sarebbe stato qui, con quel suo sorriso radioso e sfrontato che mi dava sempre un motivo per arrivare al giorno dopo.
-Pensi di tenerlo?- Kim aveva fatto la domanda cruciale, quella che avevo accuratamente evitato.
Trattenni un singhiozzo, ma la mia voce si spezzò.
-Sì.- Non dovevo aggiungere altro.
Ero nel mio ufficio con il mio migliore amico, e sapevo che lui avrebbe capito il motivo senza che glielo spiegassi.
Jane.
Patrick Jane.
Il bambino poteva essere di Patrick, e se anche non lo fosse stato era una vita che cresceva dentro di me. Come si può uccidere un piccolo essere innocente che ha appena iniziato la sua scalata verso la vita?
Che altro potevo fare se non sperare che il piccolo fosse figlio di Jane? Io volevo un bambino, volevo essere mamma. Patrick sarebbe tornato, l’aveva promesso, avrebbe mantenuto la sua promessa.
 
Jane. Jane. Jane. Jane. Jane. Jane. Jane. Jane. Jane. Jane. Jane. Jane. Jane. Jane. Jane. Jane. Jane. Jane. Jane.
 
Avrei stretto presto o un piccolo o una piccola Jane tra le braccia, volevo esserne sicura, nonostante tutte le possibilità, tutte le potenzialità e tutti i vari dubbi che mi perseguitavano io desideravo che ciò che cresceva dentro di me fosse il frutto dell’amore mio e di Patrick.
-Andrà tutto bene, ci penserò io, capo.-
-Kim, per favore, chiamami Teresa. Puoi farlo anche in ufficio, non ci sono problemi.-
-Teresa.-
Sorrisi. Avevo una famiglia attorno.
 
 
 
POV KIMBALL
-Secondo te cosa ha Lisbon?- Teresa me lo aveva ormai detto da tre o quattro giorni cosa aveva. Dolente o nolente aspettava un bambino e voleva tenerlo.
-E’ incinta.-
Wayne spalancò gli occhi e mi guardò. Non che lo vedessi, stavo leggendo, ma sapevo che mi stava guardando con gli occhi spiritati di un bambino che ha appena saputo i bambini nascono dalle donne e non sotto i cavoli.
-Non è possibile!-
-Tecnicamente sì, invece, è una donna.- sospirai, perché sapevo che mi stava ancora guardando come un bambino preso da una lezione anatomia –E’ una donna che ha fatto sesso con un uomo. I bambini nascono così, nel caso non lo sapessi.-
Wayne sembrava scandalizzato –Kimball lei, è il capo!-
Posai il giornale sulla scrivania e mi piegai verso di lui, per guardarlo bene in faccia –Dimmi Wayne, sei scemo o fai finta? Non hai sentito come “giocavano” al telefono in Alaska? Vuoi dirmi che non hai capito?- lo dissi con la mia faccia più lapidaria, ma dentro stavo ridendo come davanti a uno scary movie.
-Kim, non sono un’idiota. Intendo che non è possibile, perché se fosse davvero incinta potrebbe esserlo anche di Patridge.-
-Infatti, potrebbe.-
-Cioè non lo sa?-
-Sa quel che spera.- sospirai –E’ stata violentata, Wayne. La sera prima magari aveva fatto l’amore con Jane, il giorno dopo era in una buca piena di scatole marce e veniva violentata da un assassino. Quindi sa e crede quello che spera.-
Rigsby annuì e io tornai al mio giornale.
-Ma...-
-Abbiamo finito di parlare della vita sessuale di Teresa.- E non era una domanda, era un’affermazione.
Passarono pochi minuti di silenzio poi Wayne prese di nuovo la parola: -Io dico che è maschio.-
-Secondo me è femmina.- dissi con tono sicuro
-Scommettiamo?- sorrisi e lo guardai negli occhi
-Cinquanta dollari che è femmina.- asserii
-Ci sto!- e ci stringemmo la mano
 
**********
 
POV PATRICK
Parigi è una città sopravvalutata. Sì, bé, è bella e affascinante, si mangia bene e quant’altro. Ma ne percepivo un’aria così satura di buonismo e falsa modestia che mi faceva girare la testa almeno quanto i profumi francesi.
La Torre Eiffel la trovavo... teatrale, ma per un americano non poi una grande cosa. C’ero già stato a Parigi, come mia moglie e mia figlia, ed è strano pensare come io avessi cambiato la mia percezione dopo tutto quel tempo e tutti quegli avvenimenti. La morte di mia moglie e mia figlia, il mio decorso nell’ospedale psichiatrico, il CBI, tutti i vari attacchi di John, la faccenda della tigre e poi l’Alaska e Teresa e...
Insomma, tutto.
La vita a volte gioca davvero dei brutti scherzi. Quando andai a Parigi la prima volta mi sembrò una città vitale ed eccentrica. Giustamente, perché così è. Solo che rispecchiava il mio stile di vita dispendioso, sicuro e mondano, e la trovavo una città rigenerante. Adesso invece la vedevo come un... non saprei come definirlo se non un bordello. Ora, non voglio essere frainteso, Parigi è una città bellissima, vibrante, spettacolare, teatrale, storica, importante, artistica e un mucchio di altri aggettivi che non mi vengono in mente. Ma è uno di quei posti dove se hai i soldi ti viene tutto presentato su un piatto d’argento, che tu lo voglia o meno. E vieni sospinto da una massa informe di sballottamenti emozionali e seduttori verso la perversa realtà di ciò che puoi fare con il denaro. Donne, soprattutto; ma anche vino, cibo, spettacoli. È tutto completamente assorbito dalla sensazione di perfezione apparente: perché qui c’è Libertè, Egalitè e Fraternitè, e le parole non convincerebbero nessuno se non dessero una parvenza di realtà. Libertà, uguaglianza e fratellanza.
Comunque sia è falso, come false sono tutte le verità personali e cittadine. Esistiamo trasmettendo un film della nostra vita da proiettare in ogni salotto per definire la nostra verità ipocrita. Non è verità quella che ogni giorno diamo a vedere, è una maschera che viene modellata a perfetto stampo sul modello di quello che effettivamente siamo, ma che non abbiamo il coraggio di esprimere. Solo chi Vive la propria vita con l’intensità, il desiderio e la bramosia di non perdere neppure un secondo ha la possibilità di essere vero. Perché limitarci ad esistere significa modellarci a stampo dell’osservatore, che a sua volta si modellerà su un altro osservatore e così via: chi esiste non fa che recitare una parte. Chi vive non recita altro che se stesso, e come tale ha il coraggio di mostrarsi per quello che è.
Io un tempo esistevo, e tutte le città esistono, tutti sono in grado di esistere.
Ma adesso che vivo,e pochi hanno il coraggio di farlo, non posso non notare la verità: Parigi è una città meravigliosa, ma estremamente sopravvalutata.
Una vita è come una risma di carta. Ognuno ha cinquecento fogli su cui scrivere le righe del proprio destino. Per chi si limita allo sforzo di esistere, sostenendosi nell’autoconservazione e nell’autodifesa, finiti i suoi fogli si renderà conto si aver scritto 500 pagine di righe perfette, dritte, con parole tutte della stessa grandezza e dello stesso angolo di inclinazione. Saranno parole a stampo, innaturali quanto abituali e semplici. E tutto quello che questa persona che esiste aveva da scrivere starà quasi largo in tutte quelle pagine.
Ma per colui che vive, bruciando la propria esistenza nell’estrema ricerca del raggiungimento di un sempre nuovo obbiettivo, arrivato alla cinquecentesima pagina della sua risma avrà paura di scrivere l’ultima riga: Nonostante i suoi fogli siano scritti in una calligrafia veloce, minuscola, con parole e appunti negli angoli e tra le parole e tra le righe, con i post it attaccati qua e là, immagini spillate insieme a ritagli di giornale e disegni, nonostante non sia rimasto neppure un punto bianco in cui scrivere e a un osservatore occasionale possa sembrare il più accurato e intrepido e completo resoconto di una vita, a quella persona non saranno bastate tutte quelle pagine per scrivere tutto quello che avrebbe desiderato che fosse il suo destino.
Per colui che vive una vita non basta per essere vissuta appieno.
E a me ne restava solo metà di una vita: cosa avrei potuto scrivere in 250 pagine, dopo averne buttate altrettante tra cancellature e vuoti?
Avevo 40 anni e non sapevo cosa avrei fatto della mia vita. E purtroppo l’unica differenza tra la vita e una risma di carta è quella fatale. Una risma di carta può avere un supplemento o essere ricominciata dall’inizio: uno scrittore reale non spezzerebbe mai la sua storia a 500 pagine solo perché ha finito una risma. Ma se lo scrittore è il tempo tutto quello che hai sono quelle 500 pagine. Non si ricomincia e non si fanno aggiunte. Hai una sola chance ed è anche ristretta: finita quella è game over.
Io, Patrick Jane, mentalista egocentrico e casinaro, avrei dovuto sapere come va la vita e come sono le persone. Avrei potuto evitare di essere come tutti. Ma, si sa, ciò che importa a tutti è la sopravvivenza. Quello che poi è superfluo lo evitiamo, semplicemente perché non siamo tenuti a cercarlo. Ed io, come tutti, avevo tentato di sopravvivere… peccato che la cosa  non avesse funzionato.
Avevo rovinato la vita a me, ad Angela, a Charlotte e a Teresa. Cosa c’entri tutto questo con Parigi?
Sinceramente non lo so. Solo che avevo avuto questo attacco filosofico proprio in quella città, una sera mentre passeggiavo, mentre vedevo una ragazza appoggiata a un palo con indosso due stelline sul seno. E basta. E così pensai: Ma quella ragazza ce l’ha un obbiettivo? Perché si limita a sopravvivere in quel modo?
E non venitemi a dire che il mestiere della prostituta è importante. Il fatto è che a quella ragazza non importava la sua dignità. Lei sopravviveva, cosa poteva chiedere di più?
Ma io avevo qualcosa da chiedere di più. Solo che ancora, dopo due mesi, non avevo il coraggio di ammetterlo a me stesso.
 
************
 
POV TERESA
-E’ una femmina.- esclamai sventolando le ecografie mentre entravo nel bullpen seguita da una guizzante Grace Van Pelt.
Cho abbasso il giornale e mi sorrise, apertamente, mentre Rigsby mi guardò con occhi spiritati come se avesse appena perso dieci anni di vita.
-Un’altra scommessa?- chiese sconsolata Grace, lasciando a peso morto le braccia lungo i fianchi.
-I miei cinquanta dollari, Wayne.- Kimball rivolse al povero ed ingenuo Rigsby la mano, ma continuò a guardare me.
-Lo manderai in bancarotta, Kim.- dissi avvicinandomi e porgendogli le foto nella mano tesa a Rigsby. –Lasciagliela passare per una volta.-
-Una scommessa è una scommessa!- contestò Grace, con un cipiglio che di buono o affettivo aveva ben poco –Wayne dagli i soldi e smetti di sperperare tutto quello che hai in scommesse inutili.-
-Anche tu hai fatto una scommessa!- le fece una linguaccia Rigsby, facendo ridere tutti.
-Wayne sei proprio un bambino.- Elise uscì in quel momento dal cucinino, con una tazza fumante di cioccolato caldo tra le mani. –E poi la sua scommessa non è così consistente. Ha scommesso solo dieci dollari.-
-Abbiamo scommesso tutti dieci dollari, chi vincerà ne prenderà settanta.- replicò serafico Kimball
-Settanta?- feci io, guardandoli con un sopracciglio alzato.
-Dieci per ognuno: Grace, Io, Wayne, Kim, Madeline, Virgil, Tommy – il custode, non tuo fratello – e Brenda – l’addetta stampa.
Io li guardai sorridendo –Siete un caso patologico. E si può sapere cosa riguarda questa fantomatica scommessa?-
-Nomi.- rispose sicuro Cho
A quel punto, risi di gusto. Credevano davvero di poter indovinare il nome che avrebbe avuto mia figlia?
Ingenui.
-Bé, allora credo che riceverò ottanta dollari. Non lo indovinerete mai.- gongolai
-Ma l’hai già deciso?- chiese Wayne
-E’ ovvio. Ho già deciso come la chiamerò e anche come l’avrei chiamata se fosse stata un maschio.-
-Sei un mostro!- esclamò Hightower entrando
Mi girai e le sorrisi –Perché?-
-Ti programmi la vita così in anticipo? Di solito le mamme impiegano mesi a scegliere il nome!-
Una morsa di tristezza mi attanagliò lo stomaco e il mio sorriso svanì –Di solito le mamme hanno dei papà accanto con cui scegliere il nome.-
Seguirono pochi secondi di silenzio, poi mi ripresi e, sorridendo a tutti, mi sedetti sul divano di Patrick.
-Allora, sentiamo le proposte!- dissi, con un sorriso compiaciuto sulle labbra.
Fu Wayne a cominciare –July, va di moda.- disse convinto
-Acqua.- risposi spostando lo sguardo su Grace, proprio accanto a lui
-Tayla, avevi detto che ti piaceva, qualche tempo fa.-
-Acqua.- sorrisi e andai avanti
-Hope.- disse Cho e non ebbi bisogno di spiegazioni per sapere perché
-Fuochino.- dissi e il suo sguardo si illuminò –Ma non è quello e non hai altre possibilità!-
-Anne. Era il nome di tua madre.- disse Madeline
-Sarà il secondo nome, brava Madeline!- dissi
Mi guardarono tutti sbigottiti.
-Che c’è?- chiesi
-Quanti nomi hai scelto?- chiese Elise, per tutti
Arrossii –Quattro.-
-E poi saremmo noi patologici!-
Scoppiammo tutti in una risata familiare, tranquilla nonostante le intemperie che la vita ci riservava ogni giorno.
-Gli altri che hanno detto?- chiesi
-Virgil ha detto Clelia, che era la madre di Jane. E Tommy ha detto Shara, perché gli piace come nome.-
-Bene, mi dovete 80 dollari!- dissi, trionfante.
-Quale è il nome?- chiese Grace, con il volto illuminato da un’aria di palese felicità. –Sì, sono uforica. Ehm… lo so. E’ che non posso avere figli, quindi lo vivo per interposta persona.-
Quell’affermazione mi lasciò spiazzata. E anche tutti gli altri, tranne Rigsby, che le cinse la vita in un abbraccio affettuoso e consolatorio.
-Non puoi avere figli?- chiesi
-No… ma non mi va di parlarne. Allora come la chiamerai?-
Sorrisi conciliante. Ora avevo un motivo in più per darle quel nome. Vita, questo era quello che mi ricordava un bambino: una vita nasce nonostante tutte le brutte situazioni che vivere presenta.
-Zoe.- risposi –Zoe Anne Francisca Angie.-
E senza che ne spiegassi il significato, tutti capirono perché avevo scelto quel nome.




Dice l'autrice:
Ciaoooooooooooooooooooooooooooooooooo! Sì, beh, sono stanca, mi manca una certa persona, sono incazzata con i traduttori italiani che sono lenti e idioti, ho fame, sono impaziente perché sto aspettando una mail importantissima e fremo dalla voglia di fare una cosa che so che non potrò mai fare. Che palle. Ci sono giornate in cui butterei tutto dalla cupola del Duomo e ricomincerei tutto da capo. Ma, ahimé, non si può fare.
Insomma, spero che vi piaccia anche questo di capitolo!
Un bacio immenso e, mi raccomando,

Recensite!!

Sasy

Ritorna all'indice


Capitolo 17
*** Ombre di vita ***




Quando vedete l'asterisco (*) ascoltate insieme alla lettura "oltremare" di Ludovico Einaudi. Se volete, ovviamente. Lo trovate qui:  http://www.youtube.com/watch?v=R8MzHqkNBwo




POV PATRICK

THE TIMES. LONDRA. N° 110 dell’anno MMXI. 20 Aprile.

OMBRE DI VITA.

Di Patrick Jane

Così, d’improvviso, la vita ti si para davanti. Ti blocca la vista, ti annebbia il pensiero. Non sai perché sei vivo, non sai perché sei in un determinato posto. Non sai niente, se non quello che provi dentro di te. Una scatenata ed intensa forza si sprigiona dentro di te e non sai bene da dove arrivi né perché. Non sai bene cosa vuoi davvero o perché tale volontà ti sia arrivata così. Vuoi solo alzare gli occhi dal punto in cui vedi il baratro, in cui vedi l’oceano sconfinato e scuro che hai davanti e che devi attraversare, da solo, e girarti indietro. Vuoi incrociare degli occhi dolci e comprensivi aprirsi un sorriso radioso e scarlatto su un viso di una pelle rosea e colpita dolcemente da morbidi e profumati capelli scuri. Vuoi sapere come sei finito a un passo da un futuro che non conosci. Vuoi sapere come sei finito, in mezzo a una città caotica e piena di vita, a pensare che potresti morire da un giorno all’altro in quel buio e scuro baratro che si prospetta essere il tuo destino. Vuoi conoscere il motivo di questo pensiero e il perché di quel presentimento che ti rende ancora più angosciato. Perché in quell’oceano scuro dovrai morire solo? Perché non sei riuscito a tenerti accanto una donna? Semplice, se sei come me sei scappato da tutto quello che poteva essere un futuro simile a una strada di campagna illuminata da un sole battente, con intorno delle casette piene di persone sorridenti. Una strada che potevi percorrere per mano a una donna sorridente e felice, con un bambino che ride che scorrazza e fa le piroette sotto il sole davanti a voi. Vorresti sapere perché a quarant’anni passati non sei in un giardino a giocare a calcio con tuo figlio, o a pettinare i capelli di tua figlia. Vorresti sapere perché non hai una moglie e perché la tua vita va a rotoli. Bé, se sei come me, e non te lo auguro, sarà perché tua moglie e tua figlia sono state uccise. E non solo, quando ti sei ricreato una vita con una donna che ami, sei scappato da lei. Hai avuto paura di amare? No. Hai avuto paura di vivere. Di ricominciare a vivere. E Perché l’hai fatto? Non c’è un perché a quello che la nostra mente e la nostra anima ci portano a fare. Non c’è un perché in questo almeno quanto non c’è un perché per il sole che brilla e illumina. E’ la natura che ti porta a fare decisioni come è la natura che fa brillare il sole. Il sole brillerà sempre, e tu morirai. Da solo? Dipende. Da chi? Da te e te solo. Io non ho mai frequentato il liceo ma ho una cultura pari a un laureato perché ho deciso di studiare e imparare. Cosa deciderò sul mio futuro non lo so ancora. Non so niente di me. Ma so una cosa di te che leggi. Non perdere tempo a leggere delle parole troppo filosofiche di un uomo troppo sfibrato e sfinito per vivere. Alzati e corri verso colei o colui che vuoi al tuo fianco per il resto della tua vita. E se ce l’hai già vicino stringilo e sussurragli “ti amo”. Non lasciare che la tua vita scompaia come il sole scompare nel tramonto, la notte. Vivila e non permettere a nessuno di togliertela. E non preoccuparti per me, lettore, io un giorno sarò libero da rimpianti come devi esserlo tu.

 
 
Mentre camminavo per le strade di Londra rileggevo il mio articolo pubblicato sul Times, non credevo che me lo avrebbero pubblicato, ma a quanto pareva l’avevano fatto.
Mi era successo per caso di scrivere quelle parole. Così, d’improvviso, in mezzo a King’s Road mi ero bloccato, lasciando che le braccia mi ricadessero sui fianchi e che la mia mente vagasse lontana. Con un misto di stupore l’avevo visto. Quell’oceano che avevo descritto in quelle parole. Non avevo mai pensato al mio futuro finché il mio passato non mi si era rivoltato contro. Come se a un certo punto una spinta sulla schiena mi avesse costretto a voltarmi in avanti e guardare dove stavo cadendo. Come se una musica fosse partita nella mia mente e delle luci avessero illuminato il buio della strada che stavo per percorrere.
Come se non mi trovassi in mezzo alle tante persone che giravano ignare dei miei sentimenti, mi ero voltato guardandomi le spalle. Ero in mezzo al niente, solo una donna con un sorriso rosso sferzato da profumati capelli neri che mi guardava con quei suoi intensi occhi verdi mi stava di fronte. Inquietante e bellissima, come proveniente da un altro pianeta.
Aveva sussurrato delle parole che non avevo capito, qualcosa come “Ricordati che i treni non passano quasi mai due volte sotto la stessa finestra.”
Un battito di ciglia e tutto era tornato normale. Io ero in mezzo alle persone ignare e intorno non avevo altro che le strade di Londra.
Probabilmente stavo impazzendo davvero, stavolta. Le visioni sono l’ultimo stadio prima della pazzia e il primo della pazzia stessa.
Ma la mia mente aveva ragione, e io lo sapevo. Iniziavo a sentire qualcosa bruciarmi nel petto, qualcosa che mi stringeva lo stomaco, qualcosa che quando pensavo a lei mi faceva smettere di respirare. Sentivo il sangue al cervello come se fossi a testa all’in giù. Confuso, insicuro, innamorato e arrabbiato. Molto arrabbiato. Con me? Anche. Con Teresa? Forse. Con la vita? Molto. Con John? Sì.
Una rabbia che avvampava nei momenti in cui provavo l’amore e la passione di cui sapevo di avere bisogno.
Rabbia contro di me, perché mi ero ripromesso di cercare i pezzi di me che erano andati in frantumi. Contro Teresa, perché nonostante non la vedessi era lei che mi costringeva a quell’amore e quella passione che desideravo ma non meritavo ancora. Contro la vita perché mi aveva giocato fin troppi scherzi. Contro John perché era l’unica vera valvola di sfogo che avevo. Era il vero unico responsabile che potessi attaccare senza sentire dolore e rimorso.
Non riuscivo a capire perché non trovavo quella pace perduta. Ma prima o poi l’avrei trovata, dovevo solo capire che non l’avevo mai persa davvero.
 

***************

 
POV TERESA *
La piccola aveva iniziato a scalciare. Era una sensazione strana e affascinante allo stesso tempo. Un essere che muoveva i suoi minuscoli arti dentro di me. Al sicuro, protetto, vivo.
Ogni tanto parlavo con lei, le descrivevo quello che avevo intorno. Le parlavo di suo padre, o meglio, del suo possibile padre. Ma, se anche Jane non fosse tornato, lei avrebbe sempre saputo che lui era suo padre. Se anche non lo fosse stato, lei avrebbe saputo così. Magari sarebbe nata con dei bellissimi ricci biondi e mi avrebbe tolto ogni dubbio, magari no. Ma se anche avesse avuto i capelli scuri le avrei detto che li aveva presi da me. Vero o meno, questa sarebbe stata la sua realtà. La nostra realtà. Quindi le parlavo degli occhi di suo padre, che lei avrebbe ereditato sicuramente, le parlavo del cielo, del sole, dell’ufficio, degli zii, del mare.
Cho, Grace, Rigsby ed Elise avevano preparato una festa sulla spiaggia per l’anniversario dell’unione della nostra squadra investigativa. Era stato bello festeggiare tutti insieme quel giorno di festa. Avevo conosciuto quella che adesso era la mia famiglia. E guardando il mare blu davanti a me, sdraiata sulla spiaggia, una fitta al cuore mi ricordò che quel giorno, nove anni prima, avevo conosciuto quello che con il tempo avevo imparato a identificare con l’amore della mia vita. Patrick. Era strano e triste passare per la prima volta quella ricorrenza senza di lui. Era cambiato molto in noi durante quegli anni. Il colore del mare mi ricordava i suoi occhi, la spiaggia i suoi capelli e il sole, per qualche strano motivo, la sua pelle. E ne parlavo a Zoe, raccontandogli tutti gli aneddoti più divertenti che mi venissero in mente su Patrick.
Respiravo l’aria fresca e frizzante che veniva da luoghi lontani e lasciavo che la mente viaggiasse con quel lieve vento, accarezzasse monti, laghi, città, mari, isole e arrivasse a lui. E lo vedevo, camminava per le strade con il vento che gli scompigliava i capelli e le donne che gli passavano accanto che lo guardavano con interesse. Come potevo provare gelosia a distanza? Non sapevo realmente dove fosse. Io ero su una spiaggia assolata, gli occhi chiusi rivolti verso il cielo, mentre la brezza marina mi accarezzava la pelle. Lui chissà dove.
-Che pensi?- mi distrasse Grace, facendomi quasi sobbalzare. Mi ero quasi dimenticata che era sdraiata accanto a me.
-All’amore.- risposi, voltandomi verso di lei su un fianco e sorridendole –E’ vero che non puoi avere figli?- chiesi
Grace abbassò lo sguardo e iniziò a disegnare cerchietti sulla sabbia. La osservai in silenzio per secondi, forse minuti. Finché non batté la mano sulla sabbia e, con gli occhi lucidi, mi guardò dritto in viso
-Sì, è vero. L’ ho scoperto tre settimane fa. Sono andata a fare un controllo di routine e mi hanno detto che ero stata incinta e avevo avuto un aborto spontaneo dopo una settimana dal concepimento. Mi hanno chiesto se avessi avuto dei sintomi strani e io gli ho risposto che avevo avuto dei fortissimi dolori di stomaco per settimane. Il dottore mi ha risposto che dovevano fare dei controlli e è venuto fuori che le mie ovaie fecondate non restano attaccate all’utero come dovrebbero. Quindi si staccano e muoiono. E io non posso avere figli.- rispose –Ma non voglio parlare di questo.-
-Di cosa vuoi parlare, allora?- chiese Elise, arrivando dal mare con un asciugamano intorno alla vita. –Se non ne parli inizierai a provare rancore e diventerai come era Patrick. Una donna logorata dall’interno. Smetti di fare la stupida e parla con noi. Puoi fidarti.-
Grace la guardò come se la odiasse.
-Ti invidio, sai?- disse poi rivolta a me –Ti invidio perché puoi avere un bambino. Ti invidio perché l’amore che provi per Patrick ti ha distrutto, poi ti ha resuscitato e ti manda avanti. Ti invidio perché io ho avuto la forza di lasciare Rigsby per il mio lavoro e mi sono sposata con O’loughlin. Ti invidio perché tu non avresti mai potuto farlo perché quello che provi per Jane è l’amore vero. Io amo Wayne e sono riuscita lo stesso a lasciarlo perché ho preferito il lavoro. Non ho provato nulla per mesi. E adesso, anche se tua figlia potrebbe essere frutto dell’uomo che ti ha violentata tu ti aggrappi al pensiero che è figlia di Patrick, anche se non è detto. Hai la possibilità al cinquanta per cento che sia come vuoi. Potrebbe non esserlo ma non ti importa, perché potrebbe essere figlia dell’amore della tua vita. Ti invidio, perché nella totale infelicità del momento tu riesci a trovare qualcosa per cui essere felice.-
Elise si sedette infondo al mio asciugamano, io mi tirai a sedere e Grace si voltò a guardare Wayne che giocava a calcio con Kimball sulla spiaggia.
-Lo amo moltissimo. Ma se fossi costretta a scegliere di nuovo tra il lavoro e l’amore sceglierei il lavoro.- scosse la testa e mi guardò –Tu lo faresti?- mi chiese
-No.- risposi, sincera
-Appunto. E perché no? Patrick ti ha combinato così tanti casini...-
-Perché lo amo e se devo scegliere tra il CBI e Jane trovo un modo per farli combaciare e se questo modo non c’è poco male. Ma questo non significa niente. Siamo persone diverse e probabilmente non la penserei così se non fosse Jane quello di cui stiamo parlando e se non avessi in corpo tutti questi ormoni da donna incinta. Mi fanno diventare estremamente melensa e sentimentale.- tentai di sdrammatizzare una questione che io non vedevo nera come la vedeva Grace.
-E’ proprio questo il punto!- disse la mia rossa sottoposta, alzandosi di scatto dal telo e allargando le braccia –Da bambina sognavo di trovare il mio principe azzurro, sposarlo e avere tre figli. Mi sono innamorata di Wayne, sì, lo amo moltissimo ma non è l’amore della mia vita. E non posso avere figli.- disse
Mi alzai anche io, decisamente irritata –Senti, Grace, io proprio non capisco. Vuoi lasciare Rigsby perché lo ami ma non è il tuo principe azzurro? Vuoi lasciare Wayne perché vuoi cercare l’amore della tua vita? Io non l’ho cercato, mi è piombato tra capo e collo e mi ha tolto dieci anni di vita. Ho tentato di tutto per sbarazzarmi di quel sentimento scomodo e insano ma non è cambiato niente. Perché credi che Wayne non possa amarti come se fosse ciò che cerchi? Perché non ami Wayne come se fosse l’uomo della tua vita? Insomma. Hai sposato quel gran fico di O’loughlin ma non hai mai provato più di un’infatuazione per lui. Avete divorziato! Hai sempre amato Wayne, da quando l’hai incontrato. E ora vuoi essere invidiosa di me perché io, che ho vissuto una vita di merda per trent’anni, ho trovato l’uomo che tu hai sotto gli occhi e non apprezzi? Capisco che tu possa invidiarmi perché sono incinta e tu non puoi. Adotterete un bambino. Siete così giovani. Hai quasi quindici anni meno di me, Grace, ma non sei più una bambina! E’ bene che tu sogni, ma apri gli occhi e renditi conto che ciò che vuoi ce l’hai! L’hai sempre avuto. Se ti lasci mangiare da dentro non capirai mai quel che lasci che il dolore logori. Anche se non puoi avere figli puoi andare avanti. Puoi amare Wayne perché tu sei il suo amore della vita. E puoi amarlo perché se tu togliessi un attimo i paraocchi ti renderesti conto di amarlo almeno quanto lui ama te.- dissi, indicandolo, mentre lei rilassava le spalle e guardava verso il punto che indicavo –Ma tanto è inutile. Ho passato nove anni a dire a Jane che la vendetta e il rancore non portano a niente, ma non mi ha mai ascoltato. Per te non è molto diverso. O capisci oppure finirai come era lui.- finii.
Raccolsi il mio asciugamano e mi diressi verso l’acqua, a passo deciso. Non avevo nessunissima voglia di farmi rovinare la giornata dalle paturnie amorose di una ragazzina. Ci sono persone che vivono attaccate a una flebo, ci sono donne che passano la vita sotto un burqa e che non potranno mai amare davvero, ci sono donne che sono costrette a farsi esplodere insieme ai figli, perché il marito è un Kamikaze, ci sono donne che darebbero tutto pur di essere al suo posto e lei si lamentava perché voleva un uomo delle favole.
Sospirando scossi la testa, entrai in mare e mi bagnai i capelli, scrollandoli poi al vento, e tornai a pensare alla mia piccolina. Come sarebbe stata?
Bella, sicuramente. Con i capelli biondi e ricci oppure neri e lisci? E gli occhi? Verdi della mamma o azzurri del papà?
Il carattere probabilmente sarebbe stato un bel misto. Sia io che Patrick avevamo una personalità molto forte. O ne prevaleva una o sarebbero venute tutte e due. Risi al pensiero di una bambina con le capacità mentali e l’affabilità di Jane e i miei autocontrollo e autorità. Una bomba esplosiva che avrebbe  avuto vita e carriera meravigliose.
Però quel che diceva Grace su Partridge era vero. Se mia figlia fosse stata sua? Cosa avrebbe preso da lui? Chiunque finisca per fare l’assassino/seguace di qualcuno non ha una carattere forte, quindi con un pizzico di fortuna non sarebbe diventata violenta come lui. Non sarebbe diventata una mini-Kristina. Pensare a certe cose mi faceva male, ma dovevo. Era importante che io valutassi tutte le ipotesi.
-Teresa?- mi chiese lieve una voce alle mie spalle, mi voltai e incontrai Kimball, a pochi passi da me
-Va tutto bene.- dissi
-Non è vero, lo so che non è vero. Non mentirmi.- mi rispose
Guardai il cielo, sopra di me e poi il mare prima di riportare gli occhi in quelli neri di lui. –Sei il mio migliore amico, Kim, lo sai?-
-Fa sempre piacere sentirlo.- sorrise lui. Ogni tanto lo faceva anche lui.
-Mi piace il mare.- dissi
-Teresa... ti prego non divagare, parla con me.-
-Non sto divagando, Kim. Mi piace il mare. Voglio che mia figlia abbia gli occhi color mare e i capelli dorati. Voglio che sia figlia di Jane.-
Mi immersi nell’acqua e guardai il cielo da sotto la superficie increspata. Avevo sempre amato guardare il cielo da sotto la superficie, sembra diverso. Forse è il silenzio e la pace quasi inquietante che l’acqua porta con sé a renderlo tale. Riemersi e guardai la spiaggia, da dove Elise mi guardava sorridendo. Era una strana ragazza, fin troppo tranquilla dell’amicizia tra me e Kimball. Come fosse totalmente sicura che tra noi non ci sarebbe mai potuto essere niente. Non che avesse torto, ma Kim era un bell’uomo. Se il mio cuore non fosse stato catturato da Jane probabilmente sarebbe stato lui a conquistarlo, prima o poi.
-Ho paura.- dissi, con gli occhi persi nel vuoto
Lui mi sorrise, e mi abbracciò. –Non averne.- rispose
-Grazie, Kim. Non so cosa farei se non avessi te.- commentai, riconoscente
-Andresti dallo psicologo.-
Mi staccai ridendo. –Hai ragione! Devo dire che sei uno psicanalista perfetto-. Lo guardai di sbieco e poi posai lo sguardo sulla passerella di plastica a una decina di metri da noi, verso il largo. –Vediamo chi arriva primo.- dissi
-Non ti devi sforzare Teresa!-
-Hai paura di perdere?- chiesi, facendo la faccia sorpresa
-Questo mai, contro di te!- disse
-Dimostramelo!- lo sfidai, iniziando a nuotare –Gara all’ultima bracciata!- gridai
Lo sentii ridere, anche se non lo faceva quasi mai, e allo stesso tempo Zoe tirò un piccolo e lieve calcio nel mio ventre e mi ricordai di cosa avevo promesso a me stessa.
Non mi importava di chi fosse figlia, era mia, prima di tutto.
 
 
POV GRACE
Guardai Cho e Lisbon allontanarsi a nuoto verso la piattaforma, mentre mi avvicinavo a Elise, seduta sul bagnasciuga.
-Non sei gelosa?- le chiesi
-No. Amo Kim e lui ama me. E Teresa ama Patrick, non c’è proprio nessun motivo per essere gelosi.- risposi
-Mi dispiace per quello che ho detto a Teresa, io non...-
-Non dire che non lo pensi, perché sarebbe una bugia. Semplicemente devi capire che è sbagliato pensarlo. Sei una brava persona, Grace.- mi disse Elise
-Io amo Wayne.- risposi
-Non ne ho dubbi. E lo ami più di quanto credi, come ha detto Teresa-, commentò.
-Io... non lo so. Lei non lascerebbe Jane per il lavoro e io...-
-Sì, ho capito. L’hai già detto. Ma... sei sicura che lo faresti di nuovo? L’hai fatto una volta e non ti è andata bene. Hai sofferto. Pensi che lo rifaresti?- mi chiese
Era una domanda giusta. Se fossi stata di nuovo costretta a scegliere avrei deciso per l’amore o per il lavoro?
-E... Grace. Non vederla come una distinzione tra “amore” e “lavoro”. E’ una distinzione sbagliata. Hai sentito Teresa, anche lei sceglierebbe lavoro tra le due. Devi chiederti se sceglieresti Wayne o il CBI.-
Centro. Wayne o il CBI. Il mio cuore scalpitò. Sorrisi a Elise e scossi la testa.
Tra Wayne e il CBI sceglierei Wayne. Tra l’amore e il lavoro sceglierei il lavoro perché sono due enti astratti.
Sono cambiata molto da quando ero una bambina. Prima sognavo l’amore, ora sono una detective stacanovista. Prima sognavo un principe, ora  ho un uomo. Da irreale a reale, questo è il passaggio importante che non mi ero accorta di aver fatto.
Wayne è il mio uomo, che importa che non sia perfetto o ricco?
-Hai pienamente ragione.- risposi –Davvero pienamente ragione.- mi alzai, le battei una mano sulla spalla e iniziai a correre a perdifiato verso il furgone dove Rigsby era andato a recuperare i panini e le pizze per la cena.
-Wayne!- gridai, richiamando la sua attenzione.
Lui si girò, sorrise e mi corse incontro. –Tutto bene?- chiese –Ho visto che litigavate tu e Lisbon.-
Lo abbracciai forte e lo strinsi a me, assaporando il contatto con il suo corpo. –Non stavamo litigando. E va tutto bene.- dissi, separandomi da lui. –Va tutto benissimo!-
Mi morsi un labbro e, alzandomi in punta di piedi lo baciai lieve all’angolo delle labbra. Lui mi prese in braccio e mi mise a sedere sul cofano del furgone, baciandomi con passione.
Sapevo cosa pensava.
-Finalmente.- dissi, guardandolo negli occhi.
Lui mi accarezzò una guancia e annuì, cercando di nuovo le mie labbra. Ma io lo fermai, posai una mano sulla sua bocca e scesi dal cofano.
Lo portai sulla spiaggia e mi fermai vicino all’asciugamano di Kimball, inginocchiandomi davanti a lui.
Gli presi la mano e, sorridendo, la baciai.
-Wayne Rigsby, ti amo. Ti amo davvero moltissimo, e sarei la donna più felice della terra, se tu accettassi di sposarmi. Vuoi sposarmi, Wayne?- chiesi, sorridendo
Lui mi guardò stranito, poi si inginocchiò anche lui e, sussurrandomi all’orecchio, rispose alla mia domanda  –Sì, certo che lo voglio. Ho anche l’anello nel cassetto del comodino.-
Lo abbracciai di slancio e chiusi gli occhi, mentre il sole iniziava lentamente a calare e tuffarsi in mare, tingendo tutto di un profondo rosso arancio.
 
 

*****************

 
POV PATRICK
Girare per grandi città non mi aiutava affatto. Non mi svagava, non mi distraeva. Cinque mesi. Erano passati cinque mesi e non sapevo neppure se Lisbon era incinta per davvero. Cinque mesi di triste angoscia.
Posso dirlo? Ero un gran coglione, ma non me ne ero ancora reso del tutto conto. Accecato dall’idea di dover ricomporre la mia vita comprai il primo biglietto per l’Africa che trovai nell’aeroporto internazionale di Londra. Burundi. Capitale Bujumbura. Cosa mi attendeva? Tanti bambini con tante malattie e tante carenze alimentari, sanitarie e strutturali da poterci popolare una città.
E io andavo a fare quello che sapevo fare meglio: il pagliaccio.
Bé, non proprio. In realtà volevo trovare un posto a cui donare tutti i soldi che avevo vinto nei Casinò negli ultimi cinque mesi. Una volta ogni tre giorni entravo in un casinò diverso, vincevo come minimo 100'000 dollari e cambiavo alloggio. Avevo accumulato tanti soldi nel conto in banca che avevo aperto da poter finanziare una ristrutturazione in marmo di tutta Sacramento. Ma io non volevo quei soldi.
La prima volta che c’ero entrato, quattro mesi addietro, ero mezzo ubriaco e volevo solo dimostrare qualcosa a me stesso. Volevo dimostrarmi che ero ancora capace di fare le uniche cose che mi fossero mai riuscite. Riuscivo ancora a vincere perché le mie capacità mentali, a differenza di quelle sentimentali, erano intatte e vigili.
Non si può smettere di essere un mentalista con una memoria di ferro.
Certo, non sono infallibile. Ma in giochi tanto stupidi come il poker potevo fare faville.
Quello che adesso mi dava fastidio era il senso di sporco che quei soldi mi davano. Gli avevo rubati a delle famiglie ignare che i propri padri, mariti, nonni, figli o fratelli si giocassero lo stipendio con cui dovevano pagare le bollette.
E allora cosa potevo fare di meglio, se non dare una speranza a delle persone che non l’avrebbero mai avuta? Era semplice per me accumulare soldi, era semplice come bere un bicchiere d’acqua. Ma quei soldi non mi davano niente, ero già ricco abbastanza da poter vivere nell’agio più sfrenato, se avessi voluto.
Ma non volevo e così, biglietto per l’Africa alla mano, iniziai a salire sull’aereo.
-Signore?- mi chiamò una voce gentile alle spalle
-Sì?- mi girai
-Signor... Jane, mi scusi, è appena arrivata questa lettera per lei. Ce la manda il suo albergo via fax. Mi scusi per il disturbo.- disse, porgendomi un foglio scritto in videoscrittura fitta e piccola.
-Si figuri, Grazie.- risposi e tornai a salire le scalette, iniziando a leggere la missiva.
 

Caro signor Patrick Jane,
E’ mio profondo ed immenso rammarico informarla che il suo contratto lavorativo con il California Bureau of Investigation è stato questa mattina reciso in modo irremovibile. La decisione è motivata dalla sua imperdonabile effrazione del codice legislativo del dipartimento, in quanto lei ha ammesso, difronte una corte suprema, di avere avuto una relazione sentimentale e sessuale con l’Agente Speciale Teresa Lisbon, cosa che ella stessa ha confermato. Non è rilevante il fatto che lei e la signorina Lisbon non stiate più insieme, i vostri contratti lavorativi sono stati recisi dai procuratori distrettuali di California e Nevada. Dopo cinque mesi di duro combattimento sul se fosse giusto mantenere il lavoro all’Agente Lisbon, in quanto incinta e, quindi, in stato di protezione da parte dello stato, sono tenuto a riferirle che proprio il fatto che fosse rimasta incinta ha incitato i procuratori Del Norte, Silvans, Robinson e Haley a chiudere i contratti lavorativi di entrambi.
Seppur rammaricandomi della triste decisione che porterà l’agente Lisbon alla disoccupazione e all’essere sotto la custodia dello stato, devo sinceramente dire che trovo che sia stata la decisione più saggia.
E’ anche un messaggio a tutti gli agenti del CBI: non si possono verificare storie d’amore tra colleghi.
Anche i vostri colleghi Van Pelt e Rigsby sono stati licenziati con effetto immediato quando mi hanno riferito la loro decisione di sposarsi e l’agente Cho mi ha informato questa mattina di volere le dimissioni dal dipartimento, accusandomi di aver rovinato la California e di aver distrutto la migliore squadra investigativa che il CBI avesse mai avuto la fortuna di avere. Mi ha coperto di epiteti coloriti che mi hanno fatto decidere di recidere anche il suo contratto lavorativo.
Per quanto mi dispiaccia, sono certo di aver fatto il giusto lavoro che si compete a un Agente Capo.
Arrivederci,
J. J. LaRoche









 

Dice L'autrice:
Vi ho spiazzate almeno un pochino? Eh eh... LaRoche si dimostra il solito stronzo. Ma che ci posso fare, mi ci voleva un espediente per poterlo ...
Eh, no! Non ve lo dico! Come non vi dirò mai di chi sia figlia Zoe. O meglio. Ve lo dirò nel momento in cui lo dirò a Teresa... quindi dovete aspettare il parto e non solo, perché il parto... Uhm... no, non ve lo dico, se no tirate conclusioni affrettate!
Per quanto riguarda Jane, ho deciso di fargli fare quello che scrive nel secondo capitolo di Letters, cercate tra le mie storie, la troverete. 
Non so ancora se dirvi se tornerà o meno... insomma, perché spoilerarvi tutto? E non vi dirò niente di ciò che accadrà.
So che alcune di voi saranno, seppur contente della figura di cacca di Grace, un po' spiazzate dal suo comportamento. Ma la sto rivalutando. Scommetto che per amicizia (come si dimostra quando parla con LaRoche nel TF) riesce a fare quasi tutto, ma per amore no. La trovo ancora molto infantile e troppo attaccata a un'idea stereotipata della vita, quindi questo è quello che ne è venuto fuori. 
Detto ciò ho detto tutto. 

Un bacione enorme mie carissime amiche e lettrici. 

Sasy

Ps. Quasi dimenticavo! Rinnovo la mia vecchia abitudine di ricattare. Chiunque interessi che io aggiorni (beta e RG comprese) sappia che non lo farò finché non avrò come minimo sei recensioni. Perché sei? Perché adesso, oltre che le mie amiche del Web, c'è anche la mia beta che deve recensirmi!

Ritorna all'indice


Capitolo 18
*** Choices ***


Choices


Per qualche tempo mi dannai l’anima pensando a come fare per aiutare Teresa senza che lei se ne accorgesse. Ma dopo due settimane in cui non riuscivo a trovare un modo per farlo, decisi che non potevo fare altro che versare, ogni mese, una somma abbastanza alta di denaro nel suo conto corrente. Con la ripresa della Borsa internazionale e le puntate ai casinò che avevo fatto fino a pochi giorni prima avevo da parte molti soldi da poterle passare. Se ne sarebbe accorta, questo era certo, ma almeno non avrei lasciato che andasse avanti con il sussidio statale americano, che è praticamente nullo.

Niente di particolarmente impegnativo, comunque. 2500 dollari al mese sarebbero dovuti bastare per lei e il piccolo.
Quello stesso mese venni  a conoscenza del fatto che Van Pelt era sulle mie tracce e sapeva esattamente dove trovarmi. Come feci a saperlo? Beh, è piuttosto semplice: mi arrivò una mail alla nuova casella postale che avevo fatto. Mi diceva che ero un idiota, perché stavo facendo soffrire Teresa. Ma diceva anche che mi capiva, in un certo senso. Mi mise a conoscenza del fatto che Lisbon era incinta di una bambina che si sarebbe chiamata Zoe. Non disse altro, se non che Cho ed Elise si sarebbero sposati il primo di maggio.
Da parte mia, d’altronde, non feci niente che evitasse a Grace di trovarmi, era infinitamente meglio che lei sapesse i miei spostamenti e la mia posizione perché, nonostante mi fossi ripromesso di voltare le spalle a tutto per un po’, di non pensare a niente, di non preoccuparmi di ciò che mi ero lasciato dietro le spalle, alla fine ogni giorno era un’agonia che mi univa e mi trascinava di nuovo a Sacramento, preoccupato come non  mai di cosa succedesse a Lisbon e alla bambina e ai miei amici; gli unici veri che avessi mai avuto.
Il mio era un progetto egoistico che non riuscivo più a mantenere. Perché la mia vita era cambiata, le mie aspettative lo erano. Nella mia esistenza non avevo mai pensato a molto se non a me stesso e alla promessa che mi ero fatto da giovane, quando mi giurai che non sarei mai stato nella stessa situazione di mio padre: un uomo dedito all’alcol, allo sperpero e al gioco. Mi ero promesso che sarei stato ricco. Questa era la causa della mia cecità.
Non i soldi, non sono così santo da dire che i soldi mi avevano traviato. Non erano loro materialmente ma la mia brama di essi che si andava accrescendo ogni volta che ne arrivavano di nuovi nelle mie tasche. Ogni truffa, incurante com’ero delle necessità altrui, mi procurava quella felicità che solo un sostanzioso guadagno effettuato grazie alle proprie maggiori capacità può dare.
Ma negli anni trascorsi al CBI, con Lisbon e i ragazzi, il mio modo di vedere la vita, il modo stesso in cui vivevo, era cambiato.
Più che John il rosso e la sua follia assassina dettata dal voler purificare il mondo intero, era stato il tempo passato con degli amici, in una specie di famiglia allargata con le sue abitudini, i suoi vizi, il suo affetto e la sua compattezza a farmi capire cosa contasse davvero nella vita.
Quindi, in fin dei conti, le mie priorità erano diverse. Ero partito con la convinzione che qualsiasi cosa fosse successa nel posto da cui stavo effettivamente scappando non mi avrebbe toccato.
Eppure, anche con la consapevolezza che la bambina sarebbe potuta non essere mia mi ero già affezionato alla piccola Zoe. Già la immaginavo con dei morbidi capelli neri come quelli della mamma e i miei occhi turchesi. Sarebbe stata una bambina bellissima e dolcissima, con un carattere forte ed estroverso, aperto agli scherzi ma anche autoritario e sicuro, proprio come Teresa.
Comunque, ero ancora troppo testardo per ammettere che desideravo ardentemente tornare a casa, nella mia bella Sacramento.
Lì in Burundi c’erano tante persone da aiutare. Tante da far quasi venire le lacrime agli occhi, da voler gridare e scappare subito per l’incapacità dell’uomo di sopportare troppa tristezza quando pensa di essere la persona più triste al mondo. Solo in situazioni come quella in cui mi ero ritrovato mi ritrovai a pensare che forse Teresa aveva ragione quando diceva che ero una persona fondamentalmente egoista. Nonostante l’enorme tragedia che aveva colpito la mia vita, ero una persona fondamentalmente fortunata. Non felice, forse, ma fortunata. Avevo una casa, degli amici, una persona che mi amava, molti soldi, delle grandi capacità e una probabile figlia. Nella mia vita ero sempre stato io a procurarmi dolore.
Ma quei bambini orfani e spesso malati? Quelle famiglie che abitavano in baracche di lamiera? Quei ragazzini costretti a prendere le armi fin da giovani e a non avere un’istruzione, un futuro? Che avevano fatto loro per meritarsi tutto questo? Niente. Avevano avuto la disgrazia di nascere privi di ogni bene, privi di mezzi e di futuro, in un paese che segnava il loro destino come le ore di un condannato a morte. Ero certo che quella realtà mi avrebbe cambiato. Intanto, mentre girellavo per i centri abitati e cercavo qualcuno un po’ più benestante del posto che si accorgesse della situazione in cui versavano i suoi connazionali, nella mia mente già si formava un’idea di cosa fosse più importante a Bujumbura sul momento.
 
********
 
-Uffa! Non entrerò mai in questo vestito!- mi lamentai quando mi passarono l’ennesimo vestito di prova per fare la damigella.
-Non essere esagerata, Tess.- sospirò Grace, guardandomi osservare il vestito con una smorfia di disapprovazione –E’ proprio la tua misura, e poi sono certa che questo colore ti doni moltissimo.-
-Ha ragione, Teresa.- la spalleggiò Elise, che in quel momento volteggiava nell’ennesimo vestito da sposa che non la convinceva affatto –Il porpora sta bene a te, perché sei mora e ti farà risaltare il verde degli occhi. Ugualmente sta bene a Grace perché riprende il colore di alcuni riflessi dei suoi capelli e dà luce alla sua pelle chiara.- sospirò soddisfatta. –Sì. Quegli abiti da damigella sono proprio perfetti, non puoi non ammettere che sono perfetti. Sono assolutamente riutilizzabili al di là del matrimonio: basta tagliarli sopra il ginocchio e diventano due abitini meravigliosi. E anche così lunghi possono benissimo essere portati per una serata importante o qualcosa del genere. Vorrei tanto essere altrettanto convinta di uno di questi vestiti...- finì dunque, con una smorfia.
Io e Grace ci guardammo e sorridemmo contemporaneamente. Quello che Elise si stava già togliendo era forse il quindicesimo vestito che si provava.
Entrai nel camerino per provare il fantomatico vestito porpora convintissima che non potevano scegliere qualcuno peggiore di me per fare la damigella...
Bastava vedere come era andata a finire l’ultima volta che mi era stata proposta una cosa del genere. Ma d’altronde stavamo parlando del matrimonio di Kim e non potevo certo rifiutare al mio migliore amico di fargli da damigella.
Lo infilai piuttosto facilmente, nonostante le dimensioni ormai abominevolmente enormi della mia pancia di sette mesi e mezzo, e lo chiusi solo con un leggerissimo aiuto di Elise accorsa a vedere come mi stesse il vestito prima ancora che fossi uscita per mostrarlo a tutti.
Effettivamente era un bellissimo vestito. Con una sola spallina fasciava dolcemente tutto il corpo fino al ginocchio, da cui invece si apriva a formare una corolla che richiamava tanto un tulipano. Semplice ma perfetto in ogni dettaglio.
Annuii soddisfatta, nonostante la mia iniziale esitazione.
-Lo sai che avevi ragione?- dissi ad Elise uscendo dal camerino per vedere anche Grace bellissima nel suo vestito da damigella.
L’orientale sogghignò –Io ho sempre ragione.- disse, mettendo me e Grace vicine per osservare la sua opera quasi completa –In più ho già dato disposizioni perché tu possa cambiarlo quando partorirai, perché ovviamente allora non ti starà più e non ti sarà più utile. E poi, essendo un vestito molto versatile potete farvelo fare come preferite.-
Ci osservò ancora qualche secondo e poi si girò rigettandosi nelle file di vestiti da sposa color champagne. Sempre con il vestito da damigella indosso, mi misi a girellare anche io per aiutare Elise a cercare il vestito perfetto.
 
*******
 
Mi guardai intorno cercando Cho, che avevo perso in giro per la sartoria.
-Devo capire perché Elise voglia che mi vesta di marrone.- mi lamentai, trovandolo alla fine alle prese con una sarta armata di spilli.
-E’ color mattone.- precisò Kimball, girandosi per osservarmi nel mio completo da testimone nuovo di zecca.
La sarta sbuffò –Se non sta fermo il vestito glielo lascio fare da solo.-
Kimball tornò a girarsi verso lo specchio, con un cipiglio, nonostante lo nascondesse perfettamente, abbastanza irritato.
-Non risponde alla mia domanda.- commentai io, ridacchiando vedendolo così conciato e sottomesso nelle mani della donna.
Cho mi guardò attraverso lo specchio –Ti sta bene.- disse alla fine, senza aggiungere altro.
Sbuffai e mi guardai di nuovo nello specchio –Mi ingrossa.-
A quel punto Kim mi lanciò un’occhiata divertita e si mise a ridere apertamente –Probabilmente sono i quattro cornetti che hai mangiato un’ora fa.-
Incassai e sorrisi a mia volta –Forse. Sai che ore sono?-
Kimball si guardò l’orologio al polso, facendo arrabbiare di nuovo la sarta –Mezzogiorno e un quarto, perché? Non mi dirai che hai di nuovo fame!-
Io feci una smorfia colpevole e finsi di starmi di nuovo guardando nello specchio –E’ tipico delle persone sane avere appetito.- dissi alla fine.
-E’ tipico di quelli con il verme solitario mangiare all’infinito, è leggermente diverso.- chiarì una nuova voce.
Mi voltai per constatare che fosse il fratello di Kimball e gli strinsi la mano amichevolmente.
-Sempre questo umorismo...- mi difesi
-Non vorrai negare che potrebbe essere la verità!- incalzò Kimball, sceso dalla piattaforma per dare una pacca sulla spalla al fratello. –Alex, non mi aspettavo di rivederti così presto.- disse, sorridendo leggermente –Ti credevo in Francia.-
-Non potevo certo arrivare in ritardo per il matrimonio del mio fratellino.-
Kim e Alexander Cho, nonostante la ovvia parentela, avevano davvero poco in comune. L’aspetto, quello era quasi impressionante. Ma già dal modo di stare in piedi si distinguevano: Kimball, sempre distinto, sempre diritto e serio, dava l’impressione di un uomo autoritario e misterioso, mentre Alex, sempre a molleggiarsi sulle gambe, con le mani in tasca e il sorriso affabile sulle labbra, faceva subito capire che si trattava di un uomo easy, sempre sorridente e anche un po’ bonaccione.
Fin da quando l’avevo conosciuto mi ero sempre trovato bene con Alex, anche perché sembrava condividere appieno la mia passione per il cibo.
-Allora,- riprese Alexander dopo poco –Vestiti color mattone. Possiamo solo supporre che le signore siano vestite di rosso o qualcosa del genere... uhm... mi piace, adoro il rosso.-
Sia io che Kim lo guardammo storto –Sei sposato.- commentò il fratello, che prendeva la vita in maniera molto diversa da Alex. 
Con un gesto ampio della mano, il maggiore dei Cho liquidò la faccenda. –Che cosa ho detto di male?- sospirò e girò su sé stesso, sfoderando un sorriso a sessantaquattro denti –Allora, vogliamo prepararci o no? Stiamo preparando il matrimonio del secolo… il mio glaciale fratellino si sposa! Caspita, questo sì che è uno scoop!-
Io risi, dando una pacca sulla spalla ad Alex, mentre Kim nascondeva un sorriso dietro una smorfia di falso disappunto.
 
********
 
Camminavo in su e in giù davanti alla porta della navata. Presto sarebbe iniziata la marcia nuziale e sarei andata incontro all’uomo che avrebbe fatto parte della mia vita per sempre…
Era strano pensare che da quel giorno in poi sarei stata la signora Elise Cho. Suonava anche discretamente bene e l’idea di donare la mia fedeltà, il mio amore e la mia stessa felicità a quell’uomo mi riempiva di gioia.
Dopo tutto, nonostante tutte le differenze, eravamo due spiriti affini.
Lui così silenzioso e paziente era perfetto per il mio carattere a volte propenso al silenzio e a volte bisognoso di ascolto.
Certo è che l’ansia prematrimoniale sia sempre una prerogativa di coloro che si sposano. Anche quando stai per sposare la persona di cui sei più sicura al mondo, come nel mio caso, la paura e l’ansia si insediano nella mente, facendo perdere il controllo anche alle persone più tranquille e pacate.
Così stavo lì, di fronte a quella chiesa, a chiedermi cosa mai mi avesse spinto a fare questo passo assurdo e inutile.
Ma sapevo che erano solo le pazze idee di una quasi sposa.
Mi passai una mano dietro la nuca, chiusi gli occhi e mi concentrai sulla forma del viso del mio uomo. I suoi occhi seri e fermi, le sue labbra sottili. Tutto in lui mi donava un’immensa pace interiore.
-Elise, stanno per cominciare.- mi avvertì Teresa, mettendomi una mano sulla spalla.
Io annuii, incapace di dire anche solo una parola.
Mi voltai verso le mie damigelle, vestite tutte con quei bei vestiti rosso porpora.
C’era Teresa, con il suo pancione e la sua aria felice, Grace, quella ragazza testarda ma fondamentalmente piena di buoni sentimenti, e poi mia sorella Alise, con il suo sorriso fiero e il suo portamento forte, tipico di una soldatessa.
Mi sorrisero tutte e io mi preparai, mettendomi davanti alla porta, per il passo più importante che avrei mai compiuto nella mia vita.
Il mio matrimonio stava per iniziare.
Mio padre mi si avvicinò, abbracciandomi forte –Non potevo lasciarti per un uomo di minor valore…- mi sussurrò all’orecchio quando si staccò da me per guardarmi negli occhi, mentre nei suoi si addensavano lacrime di muta gioia.
-Ti voglio bene, papà.- gli risposi, sorridendogli felice.
Lui annuii, stringendomi forte le mani, per poi prendermi sotto braccio per attraversare la navata.
Le mie amiche e mia sorella si misero proprio dietro di me, ognuna con il proprio buquet di rose rosse e la porta si aprì.
Le note della marcia nuziale mi riempirono la mente e per un momento mi sentii stordita, avevo l’impressione di essere schiacciata tutto intorno a me. Pensai di star per svenire ma poi alzai lo sguardo dalle persone che mi stavano guardando, insistenti, e incontrai gli occhi scuri di Kim che mi osservavamo fieri e orgogliosi. Pieni di gioia inespressa ed emozione.
Respirai per la prima volta dopo diversi secondi e mi sentii finalmente bene, finalmente sicura.
Sorrisi, continuando a camminare a testa alta verso l’uomo che mi ero scelta, lentamente mettendo un piede davanti all'altro, fino a che non arrivai all’altare. Mio padre mi guardò mentre delle lacrime gli solcavano il volto segnato dall’età, baciò la mia mano e la lasciò lieve in quella del mio futuro marito. Da quel momento in poi, tutto fu come in un sogno.
 
********
 
Il padre di Elise aveva appena lasciato la mano della mia amica per andare al suo posto, quando il sacerdote iniziò a parlare. Era una sensazione strana quella di essere una damigella...
Volevo molto bene ad Elise e ne volevo ancor di più a Kimball, ma la tristezza che quel matrimonio mi metteva addosso rifletteva un egoismo che non avrei mai pensato di avere in me. Ogni tanto mi dimenticavo che Jane non era più lì con me e lo cercavo tra gli invitati, sorridendo e passando inconsciamente una mano sul mio ventre ingrossato. Ma ogni volta il sorriso mi moriva sulle labbra, perché Patrick non era lì, pronto a rispondermi con quei suoi occhi azzurri.
Nella mia anima c’era una tempesta di emozioni. Ero felice ed euforica per il mio migliore amico che stava sposando una ragazza dolcissima e intelligente, la donna perfetta per lui, ma ero anche triste e depressa perché l’uomo che amavo non era più con me.
Con un sorriso mi soggiunse il pensiero che io avevo subito l’imprintig, con lui. Con amara nostalgia rispolverai quei discorsi che facevamo su Twilight, prima che tutto accadesse. Io, come un Licantropo, avevo trovato in quell’uomo l’unico che potesse davvero completarmi nella vita. L’unico che avrei amato per sempre.
Mi aveva giurato che sarebbe tornato...
Ma quando sarebbe successo? Quando ormai avrei avuto cinquanta anni, una figlia di dodici e ormai poco da godere della mia vita? Speravo davvero che sarebbe tornato presto, entro un anno o al massimo due... Inutile mentire, io speravo tornasse subito, in poche settimane, magari anche pochi giorni, mi corresse incontro e mi stringesse a lui dicendomi che non poteva vivere senza di me.
E invece ero lì, gravida e agghindata da damigella, ad assistere a un matrimonio che se Jane fosse stato lì stato sarebbe stato anche mio.
Il prete iniziò a scandire la formula di rito, incitando i due sposi a dire le proprie promesse di matrimonio.
Mi distrassi dai miei pensieri cupi e mi concentrai sul lato lieto della giornata, sorridendo a Grace che piangeva dall’emozione.
Kimball giurò fedeltà, amore, rispetto e dichiarò di essersi innamorato di Elise grazie alla grazia dei pensieri e dei movimenti della giovane quasi-moglie.
Elise, tanto sopraffatta da parlare con una voce palesemente carica di pianto gioioso, giurò tenerezza, fiducia, lealtà, complicità ed amore, dicendo che erano stati gli occhi dell’orientale a colpirla per prima: nonostante fossero scuri e all’apparenza di molti potessero sembrare inespressivi, ella ci aveva trovato il mondo che confinava e combaciava con il suo.
A quel punto quasi tutta la sala era in lacrime. Il Pastore, con un sorriso lieto sulle labbra, disse di scambiarsi le fedi e un secondo dopo fece consacrare l’unione con un bacio.
Tutti si alzarono in piedi e iniziarono a battere le mani, chi asciugandosi il volto con una manica, chi lanciando riso, chi fischiando come Rigsby e il fratello di Cho…
Kimball ed Elise percorsero la navata di corsa, sotto i fiotti di riso, entrambi sorridenti, entrambi felici. Arrivarono alla macchina posta davanti alle porte della chiesetta e salirono immediatamente, precedendo gli invitati al banchetto.
-E’ stato un matrimonio bellissimo…- sussurrò Grace, stringendomi il braccio e guardandomi con gli occhi macchiati di mascara e ombretto per via delle lacrime che avevano sciolto il trucco.
-Grace sembri un panda.- le disse Alexander, il fratello di Kimball, avvicinandosi e sorridendole amichevolmente.
Van Pelt gli lanciò un’occhiataccia, avvicinandosi a Wayne e prendendolo per mano –Sei povero di spirito…- rispose all’orientale, fintamente offesa.
-Oh, ci sta. Ma adesso che il mio fratellino si è sistemato bisogna fare in modo che anche i suoi amici trovino posto accanto alle persone che amano e sorella… credimi ma così puoi trovare solo un panda maschio su un bambù.-
Grace sorrise alla battuta e Rigsby ridacchiò –Secondo me sei bellissima.- le sussurrò in un orecchio, portandola verso l’uscita per raggiungere i due sposini alla festa.
Io scossi la testa e mi avviai dietro di loro, pensando a quanto sarebbe stato bello avere accanto un uomo come Kimball o Wayne, con la loro premura e le loro, seppur differenti, dimostrazioni d’affetto.
Mi trovavo a pensare a quanto fossero fortunate Elise e Grace ad avere accanto due uomini così. Non ero invidiosa di loro, questo no, provavo solo una grande allegria  nel saperle felici. Quel che provavo però era di nuovo quella rabbia che mi aveva colta quando Patrick se ne era andato, prima che trovassi la lettera e scoprissi di essere incinta.
L’avevo odiato quando mi aveva lasciata in balia dei miei sentimenti e dei fantasmi che per colpa sua mi avevano infestato la mente. L’avevo odiato quando non aveva mosso un dito per fermarmi, quando me ne ero andata per tornare a casa dopo che avevamo litigato.
Avrei potuto essere felice come Elise o come Grace, se non di più, e non potevo per colpa di quell’uomo che mi aveva sedotta e poi lasciata, come nella peggiore delle commedie romantiche.
La rabbia che era andata via con la sua lettera d’affetto era nuovamente affiorata e cresceva, si intensificava con la consapevolezza che lui non stava neppure minimamente pensando a me. Ero così arrabbiata con Patrick che per lunghi momenti neppure riuscii a ricordare neppure un motivo valido per il quale mi fossi innamorata di lui.
-Mi concedete di accompagnarla alla vettura, signorina?- mi domandò facendomi sobbalzare Alexander, giocoso come sempre.
Sorrisi, riprendendomi un momento dalla sorpresa –Ma certo, signore.- risposi.
Il fratello di Cho mi accompagnò fino alla macchina e poi raggiunse sua moglie e sua figlia che lo aspettavano vicino al vialetto di ghiaia proprio davanti al portone della chiesa.
Mi sistemai la cintura e misi in moto, iniziando a guidare verso il ristorante dove Cho ed Elise avevano deciso di festeggiare le loro nozze.
 
**********
 
La festa era un successo e tutto andava a gonfie vele. Elise era bellissima nel suo abito da sposa con il lungo strascico e la scollatura profonda sulla schiena. Nell’acconciatura aveva incastrato una rosa rossa, che le avevo appena regalato perché un venditore ambulante si era fermato dicendo che la sposa bisognava di un bel fiore, per essere perfetta.
E così, in un giorno importante come il matrimonio, decisi di rendere felice anche quell’anziano venditore regalando una rosa a mia moglie e cinque dollari a lui.
Mi sforzavo di sorridere più di quanto non facessi di solito anche se probabilmente la mia felicità e la mia emozione era palese nonostante non tendessi a dimostrarla molto.
Certo è, però, che ero molto più spigliato e ridevo spesso, alle battute di Rigsby e tutti gli altri.
Teresa, nonostante la gravidanza, era bellissima nel suo abito porpora ed aveva in sé tutta l’eleganza di una donna di classe. Mi ripromisi mentalmente che avrei preso a pugni Jane quando e se fosse tornato per aver potuto abbandonare una creatura meravigliosa come la mia migliore amica.
C’era stato un tempo in cui l’avevo amata, ma quei momenti erano passati da tempo ormai, quando avevo trovato la donna che sapeva davvero cosa fosse giusto per me.
Grace non si staccava un secondo da Wayne, era cambiata ultimamente. La perdita del lavoro le aveva probabilmente aperto gli occhi su come ci fossero cose più importanti nella vita rispetto alla carriera.
Strano a dirsi, un tempo anche io ero più attaccato al lavoro e la carriera di quanto non lo fossi alle persone. Poi però avevo trovato una famiglia nella squadra e mi ero riconciliato con mio fratello e mia madre, le uniche persone della mia vera famiglia che avessero mai creduto in me. E poi avevo incontrato Elise.
-Amore, apriamo le danze… gli invitati vogliono ballare.- mi sussurrò mia moglie, prendendomi per mano.
Io accettai, anche se ero restio a ballare davanti a tutte quelle persone. I musicisti attaccarono un valzer e io ed Elise salimmo sulla piattaforma sotto il gazebo ricoperto di gelsomini, tutto intorno a me era di un colore bianco ed etereo, eccezion fatta per quei tocchi di colore che erano gli invitati e la rosa rossa nei capelli neri della donna con cui stavo ballando.
Danzammo per diverso tempo, ogni tanto scambiandoci un bacio fuggente. Non era proprio nella mia indole esternare i miei sentimenti, soprattutto in mezzo a tanta gente.
Poco più tardi iniziammo a cenare e fu il momento dei brindisi, ordinai ai camerieri di portare il vino e il primo a fare il suo discorso fu Alex, il mio matto fratello.
-Allora, signori e signore… questo è un giorno importante. E’ il giorno in cui il mio fratellino ha fatto il passo più importante della sua vita. Non avrei mai creduto che potesse riuscirci, con il suo cuore di pietra e invece… invece ha trovato una donna fantastica con cui so passerà tutto il resto della vita. Complimenti fratellino. –
Tutti gli batterono le mani e Rigsby chiese la parola, lo guardai sorridendo mentre si alzava un po’ impacciato e arrossiva.
-Volevo solo dire ad Elise che ha trovato un uomo fantastico e che sono sicuro che la loro storia durerà per tutta la vita. Sono due persone meravigliose e meritate tutto il bene di questo mondo… e poi… non vedo l’ora di accudire dei nipotini acquisiti!- se ne uscì, tornando a sedere all’istante senza neppure godersi gli applausi, come invece mio fratello non aveva mancato di fare.
A quel punto sarebbe dovuto essere il mio turno e invece fu qualcun altro a far tintinnare il bicchiere, alzai lo sguardo e vidi Teresa alzarsi in piedi, attenta a non rovesciare niente con quel pancione.
-Conosco Elise come una ragazza fantastica, dolce e intelligente e sono certa che riuscirà a rendere felice il mio amico. Ma tra i due, io conosco Kimball. E’ un uomo d’onore, un uomo che mi è stato accanto ogni volte che ne ho avuto bisogno. C’è sempre stato come amico e posso certamente dire che avrà una vita meravigliosa davanti a sé, una vita magica. Perché la vita che avrà lo rispecchierà proprio per come è: una persona magica. Sono certa che ti renderà una donna felice, Elise. So che non dovrai mai temere il suo affetto perché non te lo negherà mai. E’ una delle persone migliori che abbia mai conosciuto. Auguri Kim, anche se non ne avrai bisogno!- e detto questo si sedette, mentre tutti ripetevano le sue parole in tono ammirato.
La guardai e lei mi restituì lo sguardo, sorridendo.
Feci per alzarmi per iniziare anche io a parlare, ma un uomo nella tavolata accanto alla nostra cadde a peso morto sul tavolo rovesciando tutto per terra. Qualcuno accorse da lui gridando di chiamare l’ambulanza e una ragazza gli si avvicinò tentando di svegliarlo.
Mi allontanai dal tavolo per vedere cosa fosse successo e mi avvicinai all’ uomo apparentemente svenuto. La giovane continuava a scuoterlo senza successo, per cui mi accostai e presi il polso dell’uomo tra le dita, cercando di capire se fosse ancora vivo.
Non c’era battito e dopo parecchi secondi lasciai la mano impassibile –E’ morto.- asserii
La ragazza scoppiò in lacrime dicendo che non era possibile perché il suo fidanzato godeva di perfetta salute e non poteva essere morto.
Solo in quel momento mi cadde lo sguardo sul vino rovesciato sul tavolo dal bicchiere scivolato di mano al morto.
La tovaglia si stava piano piano corrodendo, come bruciando.
Guardai inorridito le labbra di quell’uomo e con un tuffo al cuore notai la schiuma che usciva ai lati delle labbra.
-E’ stato avvelenato.- conclusi.
Tutti trattennero il respiro e Teresa, Grace, Wayne e Hightower mi si avvicinarono per controllare loro stesse.
-E’ un omicidio.- disse Hightower e parve sul punto di darci degli ordini su come gestire la situazione e iniziare le indagini. Poi si ricordò che LaRoche ci aveva licenziati tutti e allora prese il telefono e chiamò la nuova squadra investigativa.
Io rimasi lì a guardare il cadavere sdraiato sul tavolo, impassibile.
L’unico pensiero che mi passò per la mente è che avrei tanto voluto scoprire io chi fosse stato a uccidere quel giovane.
 
*******
 
L’immagine di quel ragazzo morto mi fece venire la nausea. Non era un bene per me, incinta ormai all’ottavo mese, avere forti shock…
Mi allontanai celermente e mi appoggiai a una colonnina che reggeva il gazebo. La musica si era interrotta e tutti se ne stavano intorno a quel pover uomo appena morto.
Presi una boccata d’aria profonda e chiusi gli occhi cercando di cancellare la sensazione di nausea. Sobbalzai quando il mio cellulare suonò all’improvviso. Lo tirai fuori dalla borsetta guardando lo schermo per vedere chi fosse.
Aggrottai la fronte e risposi titubante quando notai che era la banca dove avevo depositato il mio conto corrente a chiamarmi. Cosa mai era successo?
-Lisbon.- risposi
-Signorina Lisbon? Sì, sono il direttore della sua banca. Ha un momento?-
Deglutii e mi passai una mano sulla fronte –Sì, certo, mi dica.-
-Volevo informarla che appena cinque minuti fa è stato effettuato un versamento anonimo sul suo conto corrente per l’ammontare di diecimila dollari.-





Dice l'autrice:
Salve a tutti! Questo capitolo non è revisionato perché sto aspettando che la mia beta sia di nuovo in vita per presentarle questo e il capitolo di Segno del Destino. Comunque, spero che per il momento non sia illeggibile, ma che sia comunque un capitolo carino. Allora, vi dico subito che questo capitolo ha avuto una lunga gestazione, come voi tutti avete potuto notare, tant'è che sono... quanti? Quasi quattro mesi che non aggiorno. Devo dire che ho avuto un blocco per diverso tempo e che l'ho scritto a spezzoni. Quindi non so... non so come sia venuto. Ditemi voi se vi piace, spero in una bella recensione da tutti coloro che mi seguono con tanta devozione. 
Dedico questo capitolo alla Polpetta, che adesso è in vacanza (o in ritiro... non l'ho ben capito...) e tornerà settimana prossima, perché aspettava tanto il famigerato matrimonio di Elise e Cho, che le avevo promesso come consolazione del fatto che non avessi infilato un capitolo davvero davvero Chisbon nella storia. Spero però si sia resa conto che per lei sono arrivata per fino ad accennare un po' di Chisbon.
Spero tanto, davvero tanto di non essere andata Out Of Character... anche se ho paura di aver un po' sforato con questo capitolo. Insomma, se non si fosse capito, non mi convince. 
Aspetto vostre nuove, critiche o positive che siano!
Un bacio a tutti, miei cari lettori!

Sasy

Ritorna all'indice


Capitolo 19
*** Slowly Going Down ***


N.d.a.
Allora, io avverto subito: questo capitolo è lungo. Molto lungo. Spero in questo modo di ripagare l'attesa. Non assicuro niente sulla correzione di alcune parti, perché non le ho rilette dopo averle scritte.
Ero troppo ansiosa di pubblicare.
Vorrei ringraziare con tutto il cuore e con tutte le parole che non mi basterebbero Giada, o Amy90 come è più conosciuta qui su EFP, che ha scritto praticamente tutto questo capitolo. Le avevo affidato il giallo e lei l'ha fatto con una maestria degna di una professionista.
E la ringrazio.
E' stata molto interessante questa scrittura a quattro mani e spero di rifarlo presto! :D
Non mi dilungo oltre: godetevi il capitolo e fatemi sapere che ne pensate!

 


Slowly Going Down

 
 
Teresa
Andava tutto bene. Tutto alla perfezione. Finalmente la vita stava riprendendo il suo corso. Il nostro ruolo al CBI era stato ristabilito, il killer era stato preso e tra lo stupore e lo sdegno di tutti, un traditore era stato scovato.
E alla fine, una vita era cominciata, separandosi dalla mia.
Avevamo fatto indagini senza permesso, ci eravamo introdotti al CBI utilizzando vecchi tesserini e avevamo avuto accesso a dati, database, prove...
Ci eravamo intromessi nelle indagini senza pensarci due volte. E Hightower sapeva tutto.
Ma non aveva mosso un dito per evitarcelo. Alla fin fine, quella donna non era male come avevo sempre pensato.
Si erano tutti congratulati con noi. Stavamo bene.
Io stavo bene.
O, almeno, era quello che continuavo a ripetermi.
Sto bene, sto bene, sto bene.
Ma non era vero.
Io non stavo bene.
Zoe era una bellissima bambina dagli occhi azzurro cielo e i capelli nerissimi, nata dopo una lunga notte d’agonia il nove di maggio.
Io sarei tornata ad essere l’agente capo della squadra 7 della Omicidi di Sacramento.
Grace e Wayne si sarebbero sposati in Settembre.
Kim ed Elise erano finalmente a vivere la loro desiderata luna di miele.
Ed io dicevo a tutti di stare bene.
Era vero: ero finalmente felice, libera da ogni pericolo.
Ma ero incompleta. Avevo bisogno di Patrick per essere davvero completa.
Avevo bisogno di sapere che Zoe era sua.
Avevo bisogno di due braccia e un corpo amato a cui stringermi la notte.
Avevo bisogno di un anima a cui affidare la mia.
Un compagno che mi aiutasse, che mi sostenesse.
Era finito il tempo della Teresa Lisbon tutta lavoro.
Amavo Patrick, ma lui era incostante, incerto, indeciso. E in più non era lì con me.
Avrei ripreso in mano la mia vita, qualsiasi cosa fosse successa sarei stata pronta a reggerne le conseguenze.
E allora, solo allora, sarei stata davvero bene.


Quattro giorni prima

 
 
Grace
Scatti di macchine fotografiche, flash e rumori metallici. Avere la scientifica intorno significa questo.
Dean Cooper giaceva ancora sotto il telo bianco, in attesa di essere trasportato all’obitorio. Tutti gli invitati erano stati allontanati. Alcuni poliziotti si stavano occupando della raccolta di testimonianze, ma sembrava che nessuno si fosse accorto dell’omicidio, fino a che il corpo di Cooper non era crollato sul tavolo, esanime.
Mi rivolsi al tecnico della scientifica che stava imbustando il cibo.
- Prelevate campioni anche dalle cucine. Ci aiuterà a scoprire dove e come è stato avvelenato – indicai la bottiglia di vino – Tenga conto specialmente di quella -  Il tecnico annuì e scomparve dalla mia vista, con un nuovo sacchetto per le prove, pronto a fare i suoi rilievi. In lontananza, vidi Rigsby mentre interrogava il cameriere che aveva servito il tavolo del signor Cooper. Mi avvicinai a loro, proprio mentre gli rivolgeva la domanda più importante. 
- L’etichetta sulla bottiglia è diversa dalle altre bottiglie servite ai tavoli. Può spiegarmi il perché? –
L’uomo si innervosì immediatamente. Ma la saggezza di un poliziotto insegna che la tensione del cameriere, tale Alan, non era determinata da qualcosa che aveva fatto, ma da qualcosa che gli era sfuggito, qualcosa che non conosceva.
- I vini che abbiamo servito stasera erano di due tipi. Devo aver confuso le bottiglie – rispose, balbettando un po’.
- Abbiamo controllato entrambe le bottiglie, ma non si tratta nemmeno della seconda – intervenni io – è possibile che qualcuno abbia sostituito le bottiglie? –
L’uomo scosse la testa – No, assolutamente no! Me ne sarei accorto! –
Rigsby sospirò – Conosceva quell’uomo? –
Il cameriere scattò come se qualcuno l’avesse punto sul braccio – Senta agente Rigsby, non lo conoscevo e tantomeno lo volevo morto. Ero nelle cucine, quando il capocameriere mi ha detto di portare altro vino al tavolo sei. Mi ha indicato il vassoio su cui erano già state appoggiate le bottiglie. L’ho presa, l’ho avvolta nel fazzoletto e l’ho portata al tavolo, l’ho aperta e l’ho lasciata lì. Era accanto a tutte le altre, potevo prenderne una qualsiasi –
Un dubbio aleggiò nella mia mente. – Lei non era addetto al vino –
Il cameriere annuì – Esatto. Ma Bryan era andato a prendere altra acqua dai frigoriferi in cantina. C’era urgenza, e così il capocameriere ha incaricato me –
 
Mentre raggiungevamo la cucina, Rigsby si girò e mi chiese – Come facevi a sapere che non era l’addetto al vino? –
Scrollai le spalle – Non l’ho mai visto con una bottiglia di vino in mano –
- Che occhio! –
Trovammo subito il capocameriere, un uomo che ricordava più un maggiordomo inglese che un direttore di sala.
- Stiamo cercando Bryan Milito – dissi.
- Deve essere in giro da qualche parte – disse, gesticolando con la mano verso la cucina.
- Signor Carlos, come mai una bottiglia del tutto estranea a quelle previste nel menù, è finita sul tavolo del signor Cooper? – chiese Rigsby.
- Non ne ho la più pallida idea – rispose con molta sincerità – ma le posso assicurare che non era nella mia cantina. Non ho mai visto quella bottiglia in vita mia –
- Chi aveva accesso alla cantina? – chiesi.
- Camerieri, io, cuochi se avevano bisogno. Solamente noi –
- Pensa che qualcuno possa essersi introdotto? –
- Ci sono bottiglie di grande valore. È monitorata da un avanzato sistema di allarme. È richiesta l’identificazione tattile. Solo noi possiamo accedervi –
- E nelle cucine? –
- Siamo stati lì per tutto il tempo. Se un estraneo si fosse introdotto dubito che non ce ne saremmo accorti –
 
 
Teresa
Grace si avvicinò e riassunse in poche frasi tutto quello che avevano scoperto.
- E questo Bryan che fine ha fatto? – chiesi.
- Nessuno riesce a trovarlo, ma il direttore di sala ci ha fornito il suo curriculum e la fotocopia dei suoi documenti – rispose lei.
Annuii e mi rivolsi a Rigsby – Tornate al CBI e cominciate dall’identità di questo Bryan. Io mi occuperò della famiglia. Cho è andato via con Elise: lo chiameremo solo se avremo estremo bisogno, ma per il momento possiamo cavarcela da soli –
- Vuoi un passaggio? – chiese Rigsby.
- No, grazie –
Mi incamminai verso un’ambulanza parcheggiata in strada. Mentre percorrevo lo stradino di ghiaia verso la strada principale, un’ondata di nausea travolse il mio stomaco. Il ricordo di ciò che avevo visto, si unì allo sgomento per la chiamata appena ricevuta.
Che cosa significavano quei soldi? Chi li aveva versati?
Provai a interpretare l’accaduto sotto diversi punti di vista, di cui il più ottimistico era sicuramente un errore di sistema. Forse quei soldi non dovevano arrivare al mio conto, ma sul conto di qualcun altro. Forse c’era stato un disguido e presto il direttore mi avrebbe richiamata per dirmi che si erano sbagliati e che presto il mio conto sarebbe tornato a posto.
Ma qualcosa, chiamatelo pure istinto da poliziotto, mi suggerì che non si trattava di un semplice errore.
Sentivo il bisogno di andare a fondo, di indagare. Volevo scoprire cosa fosse successo.
Se non si trattava di un errore, quali altre opzioni restavano?
 
Pochi minuti dopo, stavo parlando con la moglie della vittima. La donna non si era accorta di niente. Era astemia, perciò non aveva nemmeno toccato la bottiglia sospetta. Gli altri commensali al tavolo avevano i bicchieri pieni dalla bottiglia precedente, perciò non aveva preso il vino. La donna non aveva notato nulla di sospetto. Il cameriere aveva aperto la bottiglia di vino sul tavolo e poi si era allontanato. Solo il marito aveva toccato quella bottiglia, da quando era stata portata. Ne dedussi che l’avvelenamento del vino fosse una condizione precedente al servizio del cameriere.
Ma allora chi poteva averlo avvelenato? La bottiglia era sul tavolo assieme alla altre. Un cameriere avrebbe potuto prenderne una qualsiasi e soprattutto portarla a un tavolo qualsiasi.
Il pensiero accese una lampadina nella mia mente. Afferrai il cellulare e chiamai Grace.
- Grace, scava a fondo anche nella vita di Burt, il secondo cameriere. Scopri se aveva un movente –
- Pensi sia lui l’assassino? – chiese. In sottofondo sentii i tasti della tastiera.
- Se quella bottiglia era sullo stesso tavolo delle altre, poteva essere confusa o portata per sbaglio da un altro cameriere, o da Bryan che era l’addetto al vino. Eppure quella bottiglia è stata portata da Burt proprio al tavolo di Cooper: deve esserci una spiegazione –
- Ti chiamo appena scopro qualcosa –
Riagganciai e salii in macchina. Mentre guidavo, pensavo al caso e a quanto fosse complicato quell’omicidio.
Una bottiglia, presumibilmente avvelenata, sul tavolo assieme ad altre cinquanta, portata da un cameriere occasionale ad un tavolo di sette persone. Come faceva l’assassino ad avere la certezza che Dean Cooper avrebbe bevuto? E se non fosse stato Dean Cooper il bersaglio?
Un omicidio del genere, o era opera di un inesperto o era stato un colpo di fortuna. Oppure era stato studiato talmente bene da dare la certezza all’assassino che tutto sarebbe andato secondo i piani.
Le probabilità di riuscita erano molto basse. Perciò doveva esserci qualcosa su cui l’assassino contava, qualcosa di certo che poteva impedirgli di sbagliare.
Ma cosa?
 
 
Rigsby
- Perfetto, grazie –
Appoggiai la cornetta, chiudendo la conversazione, con un entusiasmo quasi fuori luogo. Ruotai la sedia verso la scrivania di Grace, con un aperto sorriso.
- Indovina? –
- Hai risolto l’omicidio? – azzardò lei, senza staccare gli occhi dallo schermo.
Ammiccai con la testa – Purtroppo no, ma forse ci sto andando vicino. Ha chiamato la scientifica: nel tappo di sughero della bottiglia c’è un piccolo foro da siringa. Il veleno è stato iniettato da lì. La cosa sorprendente è che quella bottiglia non risulta in nessuna delle ordinazioni. Non doveva essere presente alla cerimonia –
Lei staccò gli occhi dallo schermo e mi fissò – Come aveva detto Carlos  -
- Già, ma la scientifica è stata attenta anche alle altre di bottiglie. Portano tutte le impronte di Bryan, il primo cameriere, quello addetto al servizio del vino. Mentre la bottiglia avvelenata presenta una sola serie di impronte, e sono di Burt –
Grace sorrise – Quindi o Burt è il colpevole.. –
- O il vero assassino ha fatto in modo che quella bottiglia finisse su quel tavolo –
 
- In quante lingue ve lo devo dire? – il ragazzo si stava decisamente agitando.
- Thomas le tue impronte sono su quella bottiglia – puntualizzai.
Thomas Burt sembrava un’anima in pena. Sudava, si agitava, diventava collaborativo e supplichevole, poi cambia atteggiamento e si avventava contro di me.
- Non l’ho ucciso io! Non sapevo nemmeno chi fosse! – esclamò.
- Ricostruiamo i fatti – mi avvicinai a lui dall’altra parte del tavolo – Tu eri l’addetto alle portate. Eppure il direttore di sala ti ha detto di portare quella bottiglia –
- Bryan Milito non c’era, così ha mandato avanti me – giustificò Burt.
- Bene – confermai io – E perché Bryan non c’era? –
- Stava rimediando a un piccolo incidente in cucina. Una delle cameriere aveva rovesciato un vaso di salsa alle mele sul piano dove doveva essere appoggiata la torta. Era tutto appiccicoso, così Bryan, che era l’unico libero, si è messo a pulire. Quando sono tornato di là, Carlos mi ha detto di portare del vino al tavolo sei. Ho preso la prima bottiglia che ho trovato, dovevano essere tutte uguali! – la sua voce si incrinò, mentre fendeva l’aria con la mano e una lacrima scendeva lungo la sua guancia.
In quel momento, compresi due cose: la prima era che, a meno che Burt non fosse un eccellente attore e avesse sbagliato professione, era innocente. La seconda era che stava passando il peggior momento della sua vita.
- Non sei responsabile – commentai, a voce calma.
Lui scosse la testa, mentre altre lacrime correvano lungo la pelle arrossata dallo sfogo. – Quell’uomo è morto. Se avessi preso un’altra bottiglia.. –
- Thomas, lo volevano morto, avrebbero trovato un altro modo per ucciderlo. Non sei responsabile. Non è tua la colpa, ma di chi l’ha ucciso –
Burt annuì, un po’ rincuorato dalle mie parole.
Dovevo trovare quell’assassino, anche per un altro motivo: Thomas Burt avrebbe finalmente avuto un nome su cui scaricare il peso che stava portando.
 
Quando rientrai nel bullpen, Grace quasi mi investì. Mi corse incontro con un sorriso radioso.
- Ha appena richiamato la scientifica per quelle ultime analisi –
- E…? – chiesi impaziente.
- Abbiamo una pista! –
 
 
Teresa
- Ecco, vede l’ultima transazione? –
Il direttore della banca segnò con una linea nera una cifra a quattro zeri che ancora mi faceva rabbrividire. La transazione era avvenuta alle 10:50, provenienza sconosciuta.
- Non aspettavo questi soldi – commentai. Fu l’unica cosa che riuscii a dire.
- Ovviamente possiamo risalire a chi l’ha effettuata, ma ci serve un mandato –
Annuii con gesto meccanico. – Me ne occupo io –
L’uomo scoppiò a ridere – Già, dimenticavo che è il suo lavoro –
Mi sforzai di sorridere anche io. Salutai il direttore con una stretta di mano e uscii dalla banca con i fogli ben conservati nella mia borsa.
Passai da casa a cambiarmi e tornai al CBI: avevo un mistero da risolvere.
Trascorsi quasi due ore al computer. Io non ero Grace, perciò mi tolsi subito dalla testa l’idea di indovinarci al primo colpo. Seguii la procedura che avevo eseguito un milione di volte, poi applicai i trucchetti che Grace mi aveva insegnato.
Dopo mille cancella e riscrivi, arrivai a una conclusione: il lavoro sporco lo dovevo lasciare a Grace, ora e in futuro!
Ma fui fiera di aver ottenuto almeno un risultato: nonostante la perfetta copertura di chi aveva versato il denaro sul mio conto, avevo scoperto che la transazione era stata effettuata fuori dal confine degli Stati Uniti.
Già, brava Teresa, hai scagionato il tuo Paese. Ora ti manca solo da escludere il resto del mondo...
 
 
Grace
L’eccitazione era del tutto normale. Lo è sempre stata nel nostro lavoro. Quando ti capita in mano una pista non puoi fare a meno di frenare quel ribollio del sangue, un misto di adrenalina e frenesia pura. Bisogna sublimarlo, per evitare che influenzi il lavoro stesso, ma è una sensazione troppo piacevole per cancellarla del tutto.
- Ho fatto qualche ricerca. Bryan Milito era già nel nostro database – spiegò Rigsby, mentre si fermava al semaforo.
- Che ha combinato? – chiesi.
- Furto d’identità! Fino a due anni fa si faceva chiamare Omar McKallister, una falsa identità. Qui viene il bello: non ha mai confessato il motivo. La polizia non ha mai scoperto a cosa gli servisse quell’identità. Lui raccontò di essersela procurata per sfuggire a un brutto giro di teppisti, una sottospecie di banda a cui si era unito da adolescente –
- Ma immagino non sia vero! – commentai.
- Pare di no! Il punto è che Bryan Milito ha precedenti penali, e non solo sull’identità. L’anno scorso l’hanno preso con 100g di coca, non abbastanza per fargli scontare una pena molto lunga, ma abbastanza per gli arresti domiciliari. E poi, bum! – Rigsby mimò con le dita un’esplosione- scompare tutto! –
Aggrottai le sopracciglia – Che significa “Scompare tutto”?! –
Rigsby si esaltò e mi concesse un sorriso trionfante – Qualcuno ha convinto il procuratore a rimuovere la libertà vigilata, per buona condotta e mancanza di prove, cosa piuttosto stupida considerando i 100g di coca –
- E chi è stato? – chiesi, con il cuore a mille.
Rigsby cancellò il sorriso dal suo volto e abbassò le spalle – Non c’è traccia di quel rapporto. All’archivio dicono di aver perso la cartella, e non avendo altro, hanno aggiornato il dossier con un rapporto non ufficiale su quanto successo a Milito –
Puntai lo sguardo oltre il parabrezza, ma in realtà non lo stavo guardando. Arricciai le labbra in un’espressione confusa, cercando una risposta a quell’errore: una banale coincidenza o un vero e proprio sabotaggio?
- Deve significare qualcosa, per forza! – commentò Rigsby – E tu? Quale pista hai da offrire? –
Mi riscossi dai miei pensieri – La scientifica ha identificato il veleno: è comune arsenico. Quello che è rilevante, invece, è che la bottiglia proviene da una collezione privata. L’ha comprata un certo Carlos Paolini, gestore di un’importante azienda vinicola. Tre settimane fa ha subito un furto nella sua cantina: hanno rubato dieci bottiglie, fra cui quella usata per avvelenare  Cooper. Non avevano ancora un nome, ma una serie di impronte. La scientifica ha confrontato le impronte del furto con quelle delle bottiglie. E indovina? – aggiunsi con un sorriso.
Rigsby annuì – Sono di Milito –
-  Esatto! Ora dobbiamo solo trovarlo –
 
Dopo aver raccolto i dossier dalla scientifica, ripartimmo per andare a casa di Milito. Secondo il portiere del palazzo, non rientrava in casa da prima della cerimonia. Il suo appartamento era piccolo e disordinato. Impiegammo quasi due ore per rigirarlo da cima a fondo e non trovammo niente.
Ma qualcosa attirò il mio sguardo. Quel piccolo ago nel pagliaio, un dettaglio talmente minuscolo da sembrare quasi insignificante. Eppure, un poliziotto è attratto, spesso, dai dettagli più insignificanti, non da quelli palesi e scontati. E sono proprio quei dettagli a risolvere i casi. La maggior parte delle volte.
- Rigsby – mormorai.
Lui alzò lo sguardo da un mucchio di fogli sparsi sul tavolino della cucina. – Sì, dimmi –
Alzai l’indice guantato della mano destra e indicai la parete di fronte a me con decisione. - Noti niente di strano? -
Lui mi raggiunse e scrutò la parete con molta attenzione, piegando il capo da una parte all’altra con un’espressione smarrita. – Il quadro è  storto? –
Alzai gli occhi al cielo. – E...? –
- E non capisco dove vuoi arrivare –
Scuotendo la testa mi avvicinai al quadro. Aveva qualcosa di famigliare, ne ero sicura. Solo che non ricordavo dove lo avevo visto. Ma in una casa come quella, disordinata e senza la minima traccia di arredamento, un quadro come quello non aveva nessun senso.
- Dubito che Milito sia talmente devoto all’arte da comprare un quadro e appenderlo alla sua parete – commentai.
Rigsby iniziò a seguire la mia linea di pensiero .  – Magari l’hanno lasciato gli inquilini precedenti –  ipotizzò.
Io scossi la testa – No, ha qualcosa di famigliare –
Lui sorrise – Grace, è un quadro piuttosto comune, lo trovi in tutti i negozi d’arte –
- Sì lo so, ma… sai quando si mette in moto l’istinto? Ecco, io credo che questo quadro sia la chiave per risolvere il caso –
- D’accordo – commentò lui scrollando le spalle – Spostiamolo. –
Ci sistemammo ai lati del quadro e lo sollevammo dal chiodo alla parete. Sapevo di non essere impazzita. Sotto al quadro, nascosta dalla tela, una cassaforte era incastonata nel muro color salmone. Ovviamente era chiusa.
- Chiamo la scientifica – disse Rigsby, e uscì con il telefono in mano.
Sorrisi alla cassaforte.
Infondo, gli anni passati a lavorare con Jane erano serviti a qualcosa: fidati sempre della tua mente e non sbaglierai.
 
Quando la scientifica arrivò, Cho e Lisbon ci avevano raggiunti. Teresa faceva fatica a camminare e a muoversi e sembrava molto più stanca del previsto. Le rivolsi un’occhiata preoccupata e lei improvvisò un sorriso che mi convinse molto poco. Più tardi le avrei parlato.
La scientifica si mise al lavoro e un tecnico dall’aria spocchiosa cominciò a lavorare sulla cassaforte. Passò quasi mezz’ora, in cui tutti eravamo rimasti immobili a guardare il tecnico lavorare, senza fiatare. Solo Rigsby parlò e lo fece per aggiornare Lisbon e Cho degli ultimi avvenimenti. Quando il tecnico finì, prese lo sportello ormai scardinato della cassaforte e sparì dalla nostra vista, borbottando qualcosa di cui captai solo le parole “impronte digitali”, “mettere fretta” e “poliziotti”.
Lasciai l’onore a Rigsby di infilare la mano nel vano della cassa. C’erano solo una pistola, un mucchio di fogli e, rullo di tamburi, tre fiale di arsenico, o così almeno sperai. Facendo molta attenzione, li passammo a una ragazza della scientifica che li imbustò e li mise in una valigetta anticontaminazione.
- Cazzo!- esclamò Rigsby.
Ci voltammo tutti. Aveva aperto la cartellina e ne stava analizzando i fogli con uno sguardo sbigottito.
- Che succede? – chiese Lisbon.
- Non credo volesse uccidere quel povero uomo – commentò Rigsby.
Con un’espressione lugubre, girò i fogli verso di noi. Mi sentii mancare la terra sotto i piedi. Improvvisamente ogni frammento del puzzle tornò al suo posto e l’immagine che vidi non piacque per niente. Ora riuscivo a incastrare ogni cosa alla perfezione, ogni indizio aveva finalmente delle risposte. E non mi piacevano. Sentii ognuno di noi trattenere il respiro. La verità era davanti ai nostri occhi.
Anche se ancora non sapevamo perché.
 
Cho
La mia faccia.
La mia faccia in due, tre, quattro… dieci foto. Le contai passandole da una mano all’altra. Una busta bianca stropicciata accompagnava gli scatti con un semplice messaggio.
 
Uccidilo
 
 
Non aveva senso. Nulla in questa storia aveva senso. Che motivo aveva di uccidermi. Nemmeno lo conoscevo questo Milito.
- Cho , farò assegnare una scorta che ti terrà d’occhio a casa e in ogni momento – disse subito Lisbon, riprendendosi dallo shock.
Ero talmente distratto, che annui senza pensare veramente a quello che aveva detto. Continuavo a chiedermi perché. Cosa c’entravo io? Perché qualcuno avrebbe dovuto uccidermi.
E soprattutto, ora che aveva fallito, ci avrebbe riprovato?
 
Un’ora dopo eravamo tutti nel bullpen. Lentamente stavo riprendendo possesso delle mie facoltà mentali e iniziavo a distinguere le voci e i suoni. Il mondo stava tornando alla sua consistenza originaria e la mia razionalità stava lavorando alla velocità della luce.
Ok, qualcuno mi vuole morto, pensai.
L’unico modo per evitare di dargli vittoria era restare in vita. Non era un ottimistico punto di partenza, ma pur sempre un inizio. E l’unico modo per evitare di restarci secco era scoprire chi e perché mi volesse morto. Quando avviene un omicidio, la tecnica migliore per risolverlo è partire dalla vittima e andare a ritroso. In questo caso la vittima ero io, perciò dovevamo partire a ritroso da me. Ecco perché l’indagine non aveva dato i suoi frutti: eravamo partiti dalla vittima sbagliata.
- Ma perché?- riuscì a mormorare Grace. Era molto spaventata come tutti.
Io stavo recuperando il lume della ragione, cosa molto incomprensibile dagli altri che pensavano fossi sotto shock.
- Sappiamo che Milito era stato incaricato da qualcuno di uccidere Cho – iniziò Lisbon.
- Ma Thomas Burt prende la bottiglia e la porta ad un tavolo qualsiasi, senza sapere di aver appena causato la morte accidentale di Cooper –  continuò Rigsby.
- Quindi Milito scappa e scompare dalla faccia della terra – concluse Grace.
Intervenni io a chiudere l’opera.  – Perché sa di avere fallito e se il suo mandante lo beccasse potrebbe morire. –
- A questo punto resta solo una domanda – intervenne Lisbon – Chi lo ha mandato ad ucciderti? –
Scrollai le spalle – Non ne ho la più pallida idea. Forse non era per me, ma per Elise –
- Ma le foto erano le tue – commentò Grace, con sguardo apprensivo.
Annuii e mi resi conto di aver appena detto una cavolata. La mia capacità di poliziotto vacillava.
- C’è solo un modo per scoprirlo – aggiunsi – Trovare Milito –
 
Quella sera furono i ragazzi della scorta a riportarmi a casa. Elise mi aspettava sulla soglia: Teresa l’aveva chiamata e avvertita. L’aveva messa a conoscenza di quanto era accaduto. Gli svolgimenti di quella storia avevano un retrogusto stranamente agrodolce. Qualcuno voleva davvero vedermi morto, per un motivo o per l’altro. Mi era già capitato di essere in pericolo tanto da rischiare la vita, ma mai, mai così tanto.
Non feci in tempo a finire di salire le scale per arrivare sul pianerottolo dell’appartamento, che Elise mi corse incontro, stringendomi in un abbraccio che sapeva di rimorso. Il suo sguardo vacillò, senza incrociare il mio e rientrò in casa con me al seguito. Non avevo voglia di parlare, come sempre del resto quando c’erano di mezzo i miei sentimenti.
- Mi dispiace, Kim. – mi disse mia moglie, guardandomi finalmente negli occhi – Sono stata stupida ad arrabbiarmi perché volevi seguire le indagini invece di partire per la luna di miele. –
- Non preoccuparti. – le dissi, passandomi una mano sul volto stancamente e sedendomi sul divano. I miei occhi inchiodarono la televisione, dove le immagini piroettavano una luce cangiante. Il volume era spento quindi non avrei potuto capire cosa fosse quel programma neppure se avessi veramente prestato attenzione.
- E invece mi preoccupo. – Elise sospirò – Ho pensato… sai cosa ho pensato, insomma... Io non sono una persona gelosa. Tu questo lo sai. E non ho mai dubitato di te e Teresa... solo che... ci siamo appena sposati ed io... – tacque, rendendosi conto di non essere riuscita a mettere insieme un discorso coerente.
Mi faceva male la testa. – Elise, ti ho detto che non ti devi preoccupare. Capisco. – ripetei, alzandomi in piedi ed avvicinandomi a lei.
- Perdonami se ti ho accusato ingiustamente... E’ stato solo... ero semplicemente arrabbiata. Non penso quelle cose né di te né di Lisbon. –
Tentai un sorriso, ma non mi uscì che una smorfia. – E’ normale. E ti prometto che avremo la nostra luna di miele, quando tutto questo passerà... –
Lei mi abbracciò con tenerezza ed io le passai una mano sulla schiena: sembrava così fragile.
- Ti fa male la testa? – mi domandò quando tornammo sdraiati sul divano e mi vide passare per l’ennesima volta la mano sulle tempie e gli occhi.
- Sono solo un po’ stanco. – risposi. La faccia una maschera granitica.  Non volevo mostrarle la mia paura, la mia angoscia personale. Lei non meritava tutto questo, non meritava quello che già le avevo fatto passare più e più volte. Non meritava il pericolo che ricade perennemente sulle spalle di tutti coloro che commettono l’errore di voler bene a un poliziotto. La strinsi ancora a me, mentre lei mi osservava con una strana compassione.
- Andiamo a letto allora. – disse – Domani immagino dovrai tornare a lavorare. –
Annuì, grato di quella saggia iniziativa che non avevo preso io solo per paura di farla scattare di nuovo come quella mattina, quando le avevo detto che non saremmo partiti per la luna di miele per via di quel maledetto omicidio.
Quella notte dormii un sonno senza sogni, sprofondando nel buio tetro e profondo del riposo vigile, sempre pronto a qualsiasi stimolo esterno. Ci fai l’abitudine quando metti in carcere persone che sono fisiologicamente portate alla violenza. E in quel frangente lì, in cui ancora la persona che mi voleva morto non era finita dietro le sbarre, era ancora più importante per me e soprattutto per Elise che io fossi pronto a tutto; anche a un corpo a corpo nel bel mezzo della notte.
 
 
Rigsby
La stupidità dei criminali non smetterà mai di sorprendermi.
È bastato fare una telefonata alla madre di Bryan Milito e implorarlo di tornare a casa. Preso dal panico per la salute della madre, Milito è tornato indietro. Ha pensato bene di passare prima al suo appartamento, dove c’eravamo noi ad aspettarlo.
Tutto ciò che resta di quella spiacevole giornata è una confessione. Una confessione che cambiò tutto. Le nostre vite, la fiducia nelle persone su cui avevamo sempre contato. Cambiò i nostri incubi e risvegliò fantasmi che speravamo di seppellire per sempre.
Tutto ciò che resta di quella giornata è una lettera. Una lettera e un uomo in lacrime. Un uomo in lacrime e un altro uomo che ha tradito tutti noi.
Quando il colpevole è uno di noi, un poliziotto, il mondo sembra capovolgersi.
E quel giorno si capovolse..
 
 

Tre ore prima

 
 
Grace
- Abbiamo le foto Bryan – ripetei per l’ennesima volta. – E abbiamo la busta –
Milito continuava a fissare le prove disposte sul tavolo della sala interrogatori. Le fissava con sgomento, quasi stesse per vomitare. Aveva gli occhi stralunati, le labbra tremavano, la sua fronte sudava.
- Ora, ci sono due possibilità – ripresi – O mi dici subito chi ti ha dato queste foto, o ti riterrò l’unico assassino di Dean Cooper –
Milito sussultò, come se l’avessero punto con un ago, poi torno nel suo apparente stato di trans. Cominciò a muoversi ritmicamente avanti e indietro.
- Mia madre è malata – sussurrò, talmente piano che dovetti risedermi per sentirlo bene.
- Sta morendo, e la sua malattia è genetica. Due mesi fa i medici mi hanno detto che toccherà anche a me. Potrò salvarmi solo grazie a una nuova terapia, ma costa troppo, non ce lo possiamo permettere. Ho solo cercato di salvarmi la vita… volevo solamente vivere! – strillò, scattando improvvisamente e cominciando a piangere.
Provai un moto di compassione per lui, ma cercai di seppellirlo infondo all’anima: davanti a me c’era un assassino.
- Che cosa è successo? – chiesi.
Lui alzò lo sguardo e vidi tutta la disperazione che provava balenare nei suoi occhi.
- Un giorno squillò il telefono. Un uomo voleva che uccidessi un agente del CBI. Sapeva che lavoravo al ricevimento del matrimonio e sapeva anche che io avevo bisogno di soldi per guarire. Mi offrì una grossa somma di denaro. In cambio dovevo solo consegnare una bottiglia al tavolo di quell’agente –
Presi un lungo respiro – Se avessi portato tu la bottiglia ora un mio collega e caro amico sarebbe morto –
Milito scoppiò a piangere ma io non smisi di infierire.
- E per come è andata, è morto un innocente, una persona che desiderava solamente vivere –
- Anche io lo volevo – commentò lui tremando.
- E per colpa di ciò che ha fatto, nessuno ha ottenuto ciò che voleva - dissi. Fu la goccia che fece traboccare il vaso. Milito iniziò a singhiozzare e appoggiò la testa fra le mani ammanettate. Quando i singhiozzi cessarono, ripresi a parlare.
- Chi ti ha mandato, Bryan? –
La risposta arrivò. Ci volle qualche minuto, ma arrivò.
E mi tolse il respiro..
 
 
 

Due ore dopo

 
 
Teresa
Strinsi la lettera fra le mie dita. Un improvviso vuoto d’aria mi fece girare la testa. Mi appoggiai meglio allo schienale della sedia. Ormai eravamo rientrati tutti in ufficio. Fissavamo tutti il pavimento con aria smarrita. Nessuno aveva ancora avuto il coraggio di leggerla. Spettava a me, ma nessuno mi stava costringendo. Rigsby, Grace aspettavano. Cho era stato richiamato nel bel mezzo della notte a quella svolta improvvisa della situazione. Ed aspettava anche lui, con accanto Elise, che gli cingeva le spalle amorevolmente. Aspettavano tutti che io trovassi il coraggio di farlo. Grace allungò la mano e strinse la mia. Mi feci coraggio, cercai ogni briciolo della mia forza da ogni angolo della mia anima, e cominciai a leggere.
Ad ogni parola, inorridivo. Ma andavo avanti.
 

Mio caro amico. I tempi sono cambiati. Non sono più al sicuro, questo dovresti saperlo. La mia vita è in pericolo, la vita di tutti i nostri seguaci è in pericolo. E sai qual è il mio terrore più grande? Il pensiero che non lascerò niente dietro di me. Se io morirò, nessuno avrà il coraggio di portare avanti la mia causa. Come un fiume ghiacciato non riesce a sciogliere le sue acque con i primi raggi di sole. Deve arrivare il caldo, il sole deve essere più forte. Solo così l’acqua riprenderà a scorrere. Ma quando arriverà qualcuno più forte di me? Se io dovessi perire, chi si prenderà cura del mio disegno? Chi porterà avanti ciò per cui ho lottato? Ed è per questo che ti scrivo: sei il mio amico più caro, il suddito più devoto. Voglio affidare a te questo compito. Promettimi che porterai avanti la mia opera, affinché il palcoscenico non rimanga privo dei suoi attori. Lascia che il sipario si chiuda, lascia che la mia opera arrivi alla fine. Conduci i miei sudditi verso la fine del mio disegno, concludi ciò che io non potrò concludere. E se non troverò la morte, be’, meglio così! Ma se questa lettera ti verrà recapitata prima della mia presunta scomparsa, allora ti prego, rispondi il prima possibile. Sarai tu a portare questo fardello: il fardello del potere. Sii come sono stato io. Mi affido a te. Sai qual è il tuo compito. E sai quando dovrai svolgerlo.

 
Il silenzio piombò come una coltre scura su di noi. Nessuno ebbe il coraggio di commentare. Ma infondo, conoscevamo già la verità. Perché prima di leggere quella lettera, avevamo letto quella scritta da lui, dall’uomo che ci aveva traditi tutti.
- E’…- iniziò Grace.
- Orribile – concluse Rigsby.
Lasciai scivolare la lettera sul tavolo. Le immagini delle ultime due ore vorticarono nella mia mente. Mi sentii strana, confusa, come se qualcuno mi avesse colpito in testa. Le parole della lettera si mescolarono alle scene a cui avevo assistito. Essendo incinta non potevo eseguire io stessa l’arresto, così ero rimasta in disparte ad osservare gli altri.
Un vortice di immagini mi fece ripercorrere quello che avevamo appena vissuto, accompagnato da quelle parole che non volevano uscire dalla mia testa.
 

Mio unico amico, grazie. Sono onorato della decisione che hai preso. Prometto di servirti, di compiere il tuo volere, di continuare la magnifica opera a cui tu stesso hai dato vita e forma. Prometto di essere ciò che tu avresti sempre voluto che io fossi. Prometto di essere per i tuoi seguaci una guida giusta come lo sei stato tu.

 
Eravamo arrivati davanti alla casa armati e pronti a fare irruzioni. Altre due unità si erano unite per dare rinforzo. Non fu difficile sfondare la porta. Dalla mia posizione sicura in macchina vidi Rigsby sfondare l’infisso. E mentre gli agenti entravano, sentii le urla di Rigsby e Grace. Un moto di rabbia si impadronì di me, fino a farmi stare male.
Come aveva potuto?
 

Non commetterò errori. Sarò sempre il fedele amico e seguace che sono stato per te.

 
Quelle parole scorrevano ancora nella mia mente, come se le avessi appena lette.
Le parole che LaRoche aveva scritto a John il Rosso.
 
 
Grace
È rimasto immobile a guardarci, come se fosse sorpreso di vederci lì. Forse pensava di arrivare a Milito prima di noi. O forse pensava di essere abbastanza bravo da farla franca.
 
 

Il mio compito è iniziato. Ho già assoldato qualcuno perché uccida l’agente Kimball Cho. Presto Teresa Lisbon si sentirà minacciata, e quando vedrà i suoi colleghi morire uno ad uno, smetterà di proteggerlo e mi rivelerà dove si trova. Si sentirà minacciata, la paura prenderà il sopravvento. Comincerò con Kimball Cho. Poi sarà la volta di Wayne Rigsby. E poi toccherà alla giovane Grace Van Pelt. Nessuno si salverà. Il tuo ordine verrà eseguito.

 
In un attimo, Rigsby gli ha ammanettato i polsi. Sembrava quasi che non gliene importasse. È stato allora che sono scoppiata. È stato allora che ho perso la calma. Mi sono scagliata contro di lui, dopo aver messo la pistola nella fondina. Nonostante fosse molto più grosso di me gli ho afferrato i lembi della camicia e ho cominciato a tirare, urlando.
- Perché? – strillai.
Lui sorrise, come se fosse divertito da quella reazione così spontanea.
- Per concludere ciò che lui ha lasciato in sospeso –
Sentii delle mani afferrarmi la vita e strapparmi via. Ero così arrabbiata che non riuscivo a respirare. Fu allora che capii: era un mostro. Un mostro esattamente come lo era stato John il Rosso.
 

Non commetterò errori.
Moriranno. Tutti.

 
 
Cho
Strappai Grace dal petto di LaRoche, tirandola via con tutte le mie forze. Quasi mi sentii debole per lo sforzo che avevo fatto, o forse per la rabbia che sentivo montare dentro.
 

Patrick Jane. Anche lui morirà. Il coniglio smetterà di scappare e il suo carnefice lo caccerà fino all’ultima goccia di sangue che sarà in grado di versare. Non mi fermerò fino a che non l’avrò trovato. Sarà mio. E sarà la vittima per te. Ti ricorderò nel momento in cui il mio coltello penetrerà la sua carne. E allora il tuo volere sarà compiuto e io potrò ritirarmi e lasciare tutto in mano ai tuoi seguaci.
 

 
Rigsby lasciò LaRoche a degli agenti e noi cominciammo a perquisire la casa. Teresa era rientrata e ci stava aiutando. Sui nostri visi era palese il sentimento che ci legava tutti: la rabbia. Il disprezzo per un uomo che aveva tradito il suo stesso giuramento per unirsi a un pazzo assassino. Un uomo che aveva rinnegato i suoi colleghi e li aveva condotti al patibolo. L’uomo che aveva tentato di uccidermi, e che presto avrebbe ucciso tutti gli altri.
L’uomo che dava la caccia a Jane.
 
 
Teresa

Puoi fidarti di me. Il tuo segreto è al sicuro. La tua opera verrà compiuta. Kristina verrà liberata a breve. Ho già inviato una lettera ad alcuni amici. Sanno già come fare, sono pronti a liberarla. Quando anche lei verrà ad unirsi alla mia battaglia, la vittoria sarà assicurata. Forse le lascerò l’onore di uccidere Teresa Lisbon, ma solo se farà in modo di meritarselo. E alla fine del gioco, loro saranno morti.
E noi avremo vinto.
Addio, mio caro amico.

 
 
Fu in quel momento che la trovammo. La cassaforte in cui trovammo le lettere. Trovammo anche una ricevuta di un pagamento avvenuto poco prima del matrimonio. La somma che LaRoche aveva promesso a Milito dopo averlo assoldato, era stata versata sul suo conto. Quello incastrava Milito e LaRoche allo stesso tempo. La presenza delle lettere, lo coinvolgeva come principale complice di John il Rosso. Non l’avrebbe fatta franca. I giudici sarebbero stati molto più severi del normale, nonostante si trattasse di un ex poliziotto. Un poliziotto che aveva tradito il suo giuramento.
 
Scossi la testa e tornai al presente. Gli altri erano seduti intorno al tavolo e guardavano il legno come se stessero contemplando la stessa cosa che contemplavo io: le ore precedenti.
Mi riscossi per prima.
- Andiamo ragazzi – mormorai – Abbiamo chiuso questo caso. Ora dobbiamo pensare ad andare avanti –
- Un piccolo errore, un solo sbaglio, e saremmo morti tutti – rispose Cho.
- E Kristina sarebbe stata liberata – aggiunse Grace.
- E Jane… – iniziò Rigsby.
Un fremito generale scosse tutti. Me compresa. Persino la bambina scalciò. Rigsby scosse la testa e rinunciò a ciò che stava per dire.
Abbassai lo sguardo sul tavolo, improvvisamente stanca. Non avevo voglia di farmi coraggio, né di dare coraggio agli altri. Ormai era successo. Avevamo sventrato l’ennesimo tentativo di John il Rosso di ucciderci tutti. Combattevamo contro di lui anche dalla tomba. Cosa potevamo fare se non lottare? Ormai non ci restava altro. E ora che era finita, potevamo starcene seduti in pace a rivivere quelle ore infernali.
Dopo una breve telefonata, Cho era venuto a sapere che due criminali già conosciuti avevano cercato di fare evadere Kristina, ma erano stati presi dalle guardie. Infondo, il piano di LaRoche non era così efficace. Possibile che John lo considerasse il suo più fedele seguace? Di sicuro, non era superiore a lui. Ogni piano di LaRoche era fallito. E ora giaceva in carcere, pronto a essere condannato. E noi ce ne stavamo lì, a riflettere su quanto avevamo rischiato.
Mi alzai per prima, risvegliando gli altri, e tornai nel mio ufficio.
Il lavoro era finito. Ma per me no. Mi mancava un’ultima cosa da fare. Il pensiero delle parole di LaRoche aveva risvegliato in me il desiderio di sapere chi fosse il mio generoso donatore… soprattutto perché pensavo di sapere chi fosse. Ero così ingenua. Come potevo non averci pensato prima.
Durante una pausa caffè, poco prima della svolta nel caso Milito/LaRoche, avevo chiesto a Grace come rintracciare i versamenti sui conti correnti. Grazie a un mandato e alle sue abilità, mi misi al lavoro in fretta e furia, ansiosa di saperne di più. Una leggera contrazione mi prese la pancia. Secondo il medico era normale, soprattutto in momenti di forte stress. Non mi preoccupai e continuai a digitare freneticamente sulla tastiera. Sembravo una versione più lenta di Grace. In poco tempo trovai quello che cercavo.
Il versamento era stato effettuato nel Burundi, a Bujumbura. Chiamai l’ambasciata e dopo infinite ore di attesa e di passaggi di chiamata, rintracciai la persona giusta, che stilò un mandato speciale per farmi avere informazioni su quel versamento. Riuscii a convincerlo che ne andava della sicurezza di una delle agenti del CBI e quindi un livello più contenuto di un protocollo per la sicurezza Nazionale. Fui abbastanza convincente, in effetti.
Così arrivò la risposta.
Quella giornata era iniziata con un omicidio. Il giorno successivo era arrivato l’arresto, l’arresto di un agente corrotto. L’arresto di LaRoche, poliziotto e seguace di John il Rosso. Era arrivato l’arresto di Bryan Milito, un malato che voleva solo avere un’occasione in più per vivere. Un poliziotto corrotto, un assassino, aveva giocato con le sue paure e con i suoi desideri.
Era iniziata così.
E poi la verità: per tutto quel tempo, Jane aveva cercato di aiutarmi. Mi aveva mandato dei soldi, aveva fatto in modo di sostenermi. Come se sapesse la verità. Come se avesse veramente saputo del bambino.
Fu in quel momento che capii che quei due giorni non erano ancora finiti. C’erano altre domande a cui rispondere.
Perché Jane aveva versato quei soldi? Sapeva forse del bambino? E se sì, come faceva a saperlo?
Chiamai Grace, perché era l’unica persona che poteva aiutarmi a non impazzire del tutto. E mi resi conto, per l’ennesima volta, che quella sarebbe stata la giornata più lunga della mia vita.
 
E avevo ragione. Quella giornata mi stava distruggendo. Guardai Grace sbigottita, avvilita anche. La guardai con tristezza e rabbia, come se non riuscissi a credere a tutto quel che stava succedendo. Il cuore mi impazziva nel petto, il sangue mi si riversava sul viso, bollente.
La piccola scalciava.
- Tu… cosa avresti fatto? – le domandai, mettendo una mano avanti come a enfatizzare.
Grace si alzò dalla poltroncina dove un tempo si era seduto Jane per ipnotizzarmi – Gliel’ho detto. Gli ho detto che aspettavi una bambina. – rispose semplicemente, allargando le braccia.
- E, sentiamo un po’, con che diritto? – le chiesi, alzandomi a mia volta a aumentando il volume della voce quasi senza accorgermene.
Mi girava la testa. Non potevo credere che lui sapesse. Ma, più che altro, non volevo ammettere a me stessa che la mia più grande paura fosse che non sarebbe più tornato, adesso. Magari spaventato, magari incerto. Sentivo che l’avrei potuto perdere. Mi aveva promesso di tornare, ma quanto dare credito a delle parole scritte in un momento in cui l’amore, se d’amore si era mai veramente trattato, era forte e deciso?
- Io credevo che... insomma, lui è il padre. Deve prendersi cura di te! – si difese lei, lasciando cadere le mani lungo i fianchi.
- Io non so se lui è il padre, Grace! – gridai, portandomi una mano alla fronte e iniziando a fare su e giù per la stanza – Lo vuoi capire? –
- Ma lui aveva il diritto di saperlo lo stesso! In questo modo potrebbe anche... –
- Cosa? Potrebbe tornare? Tu credi davvero che dirgli che sono incinta lo spronerà a farsi vivo? – esclamai, gli occhi dardeggianti.
- Patrick è un brav’uomo alla fine... –
Si arrampicava sugli specchi, letteralmente. Gli occhi chiari saettavano sui miei, senza riuscire a focalizzarsi. Le guance rosse, le labbra tremanti: tutto mi dimostrava come si sentisse allo stesso tempo in colpa e in ragione. La cosa mi irritò ancora di più.
Volevo bene a Grace, anche se in quel periodo sembrava quasi fossimo coalizzate nei litigi.
- Non tornerà di certo per la bambina! Non siamo in  una fiaba, Grace! – dissi bloccando le braccia sui fianchi.
Una fitta mi trapasso la pancia, ma lasciai perdere. Ero troppo presa dalla discussione.
- Ma... –
- Da quanto tempo glielo hai detto? – chiesi, in tono di scherno.
- Quattro, cinque mesi. – rispose dopo qualche minuto. Affranta.
A quel punto, anche le mie più rosee aspettative crollarono. Non posso mentirvi, ma anche se avevo smesso di credere alle favole da molto tempo non avevo mai smesso di sperare che se mai Jane fosse venuto a conoscenza della bambina si sarebbe fatto vivo al più presto. Ma in cinque mesi aveva avuto solo la geniale idea di passarmi dei soldi.
Niente da dire, anche la peggiore ex moglie del mondo avrebbe potuto dire che da parte dell’ex marito, un contributo del genere era un qualcosa di fin troppo sostanzioso.
Ma io e lui non eravamo certo divorziati. A dire il vero non sapevo neppure come definirci. Eravamo mai davvero stati insieme? Mi aveva mai amata davvero? Era stata tutta una grande presa di giro? A questo punto non riuscivo più a capire cosa stesse capitando. Lui aveva detto di amarmi e io continuavo ciecamente a credergli.
Ma sarebbe tornato davvero? O sarei rimasta ad aspettarlo per troppo tempo, fino a che avrei perso gli anni della mia vita dietro a un sogno irrealizzabile?
- Teresa, va tutto bene? – mi chiede Grace, mettendomi una mano sulla spalla.
Io la guardai irata. No che non andava bene. Niente andava bene.
- Io non so proprio cosa ti sia saltato in testa... non ti prova… - dovetti interrompere la mia arringa, perché una fitta mi aveva spezzato il fiato. Uno strappo che partiva dall’ombelico e finiva all’inguine. Trattenni il respiro, aspettando che il dolore passasse.
- Teresa! – esclamò Grace, indicando il pavimento. E a quel punto la mia mente si spense.
L’ultima parola che mi balenò nella testa, prima di rendermi conto di cosa stava accadendo, fu una soltanto.
Patrick.
 
Dolore. Dolore insopportabile e insostenibile. Urlavo, stringevo i denti, insultavo tutte quelle persone che mi circondavano. Odiavo tutti.
Imprecavo, pregavo di essere uccisa, di essere liberata da quella vita che mi aveva solo fatta soffrire.
Gridavo di lasciar perdere, di smetterla, di togliermi di dentro quella cosa che mi stava facendo soffrire così tanto.
Non riuscivo neppure a chiamarla con il nome che le avevo dato, alla mia bambina.
Odiavo ogni cosa mi stesse attorno.
E gridavo. E spingevo.
I nervi tesi sul collo, le braccia arpionate al lettino, la bocca spalancata alla ricerca disperata di un respiro. Le lacrime a solcarmi il volto.
Mai, mai in tutta la mia vita avevo provato un dolore fisico più grande.
Non tutte le contusioni, tutti gli attriti, tutte i colpi presi durante il mio lavoro. Non i proiettili.
Mi ero sempre lamentata dei dolori di tutti i mesi. Dei mal di testa. Dei mal di schiena.
Che stupida.
Dolore.
Pulsante.
Gridai di nuovo.
Mi arrivarono delle parole, lontane. Dicevano qualcosa come “Spinga, ci siamo quasi. Un ultimo sforzo. E’ fuori...”
Mi dimenai, qualcuno mi fece pressione poco sotto lo sterno.
Spinga.
Mi faceva male anche la gola. Ma quasi non la sentivo.
Ci siamo quasi.
Guardai le persone che mi circondavano, nei loro camici verdolini. Una donna stava piegata davanti a me, si vedeva solo un cappellino color salmone spuntare da là sotto.
Mi gettai indietro con la schiena.
Un ultimo sforzo.
Giurai al cielo che Patrick me l’avrebbe pagata per questo. Anche se non sapevo se era davvero figlia sua, avrebbe pagato. Avrebbe pagato perché sì, perché indipendentemente da tutto lui meritava di sapere quanto mi aveva fatta soffrire, in tutto e per tutto.
E’ fuori.
Gridai un’ultima volta. Poi la vista mi si appannò e un pianto si riversò nell’aria.
Respirai a fatica. L’aria sibilava passando tra le mie labbra pallide e attraverso i denti, fino alla gola dove briciava, quasi scorticando la pelle viva. Un sapore amaro e salato in bocca.
Dovevo essermi morsa la lingua.
Qualcuno ridacchiò e poi qualcosa di caldo mi fu posato sul petto. Aprii gli occhi e osservai tra le lacrime quell’esserino minuscolo che piangeva su di me. Con le braccia tremanti la presi e la avvicinai al volto, la mia Zoe.
Era piccola e con una zazzera di capelli nerissimi sulla testa. Gli occhi erano chiusi, nascosti sotto le palpebre serrate e leggermente gonfie. La abbracciai, quasi dimentica del dolore che avevo appena finito di provare.
Una dottoressa me la tolse dalle braccia con delicatezza, mormorando qualcosa riguardo al “lavare” e “riposare”.
Ero madida di sudore, ma finalmente il respiro si stava regolarizzando.
Mi sentivo svuotata e contemporaneamente riempita.
Era una strana sensazione.
E poi, mentre osservavo la luce giallognola del neon sopra i miei occhi, mi addormentai.










Dice l'autrice:
Non ho molto da aggiungere se non che spero di ricominciare a pubblicare più spesso adesso. Spero, ma non vi assicuro niente...
Che altro posso dire? Spero che questo capitolo vi sia piaciuto e che mi perdoniate per questo mostruoso ritardo.
Wow. Che parto che è stato. Fin troppo simile a quello di Teresa. Fiuh...
Beh, sì, questo è quanto. 
Sasita è tornata con una delle sue long, gente. Recensite, mi raccomando! 

Sasy
 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=505643