You are my hero di AnnaBat (/viewuser.php?uid=98975)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo - Il vuoto che hai lasciato dietro di te ***
Capitolo 2: *** Rendiconto ***
Capitolo 3: *** Gocce di bugia ***
Capitolo 4: *** Puzza di fumo ***
Capitolo 1 *** Prologo - Il vuoto che hai lasciato dietro di te ***
-Smallville!-, lo chiamai entrando in casa.
Possibile che non ci fosse nessuno? Il suo pick-up era parcheggiato
proprio lì fuori.
Nessuna risposta. La casa era buia, le finestre ancora chiuse. Non
poteva essere lì.
Attraversai l’ingresso arrivando in cucina.
Era tutto così perfettamente in ordine, come se non ci
vivesse nessuno da qualche giorno, eppure era sempre venuto al lavoro
regolarmente. Anzi! Aveva anche trovato il tempo di darmi buca la sera
prima. Eppure adesso sembrava sparito, dissolto come una nube. Al
cellulare non rispondeva, in casa non si trovava e nemmeno da Chloe si
era fatto vedere. Dove diavolo poteva finire un contadino, non poteva
essersi perso in una balla di fieno. Nonostante tutto decisi di andare
a controllare nel fienile.
-Clark!-, lo chiamai ancora, riuscendo ad avere in risposta solo il
rumore della paglia sotto ai miei stivali.
Anche lì tutto nella normalità. Il trattore era
al suo posto, poggiai la mano sul cofano blu, un poco usurato.
Era freddo, nessuno l’aveva usato.
Non volava una mosca, tanto che perfino respirando mi sembrava di
inquinare quella quiete.
Il colmo per un
contadino? Piantare tutto e non tornare mai più.
Beh, incredibile ma vero, sembrava proprio il caso di
Clark.
Come poteva una persona ordinaria come lui sparire nel giro di una
notte, senza lasciare tracce?
Salii le scale arrivando al soppalco, ogni cosa era come
l’aveva lasciata.
La coperta smessa sul divano, il libro a terra con il segnalibro che
usciva dalle pagine, il suo baule dei ricordi chiuso contro la parete
accanto alla grande finestra.
Mi ci avvicinai.
Oh beh in fondo mi aveva dato buca e non si era nemmeno fatto trovare
per farsi strillare contro, mi meritavo un rendiconto adeguato.
La curiosità,
che brutto vizio. Senza tante remore aprii il baule, ne
uscì il suo profumo. Accidenti! Dovevo ricordarmi che
quell’idiota presuntuoso mi aveva lasciata sola al monster
truck rally, dopo avermici invitata ed spudoratamente illusa.
Okay, aveva detto che non era un vero appuntamento, e la cosa mi stava
bene. L’ultima cosa di cui avevo bisogno era
un’altra storia complicata con qualcuno che mi avrebbe
spezzato il cuore. Il mio era già pericolante a sufficienza,
non aveva bisogno di un’altra scossa, si sarebbe sgretolato.
Era già abbastanza tenere in piedi un’amicizia con
Oliver dopo la nostra storia che lui non si decideva ad archiviare come
avevo fatto io. Una parola: impossibile. Volevo bene ad Oliver solo
che... Non eravamo fatti per stare insieme.
Quando invece Clark aveva aperto bocca, in ospedale, invitandomi ad
uscire, delle farfalline che non credevo di avere si erano mosse
mettendomi in subbuglio lo stomaco.
“Smallville”. Chi l’avrebbe mai detto? Io
no di certo.
Ahhh Lois!
Smettila, è un ordine. I filmini mentali non fanno per te.
Allungai le mani, la prima cosa che mi trovai tra le mani era la sua
maglia rossa della divisa da football. Non feci in tempo a
riappoggiarla che un rumore da sotto il soppalco mi fece scattare come
una molla.
Ciao a tutti!
Sono nuova in EFP, ma
non posso dire di essere nuova alla scrittura.
Alla fine del 2008
è stato pubblicato il mio primo romanzo, nonostante tutto
devo dire che di fanfiction non ne ho mai scritte, quindi ho deciso di
fare un tentativo (che spero non farà avere ripensamenti a
quelli che hanno deciso di leggere il mio romanzo ahah :P)
Con questo prologo provo
a cominciare una storia che coinvolge Lois e Clark ( coppia che
letteralmente adoro :))... e speriamo in bene!
Aspetto di vedere con
qualche commento, di altri amanti e non di questa coppia, se la storia
vi piace.
Premetto che l'ho appena
buttata giù di getto e per ora non ho la più
pallida idea di come potrebbe andare a finire.
bacioni!
Anna
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Capitolo 2 *** Rendiconto ***
-Chi c’è?-, domandai indecisa prendendo la mazza
da baseball mezza sgangherata da dietro la scrivania.
Nessuna risposta, solo altri rumori.
-Chiunque tu sia, mi sento in dovere di avvisarti che mio padre, il
generale mi ha addestrato come un marines, so essere un’arma
micidiale-
Impugnai con maggior decisione la mazza, coprendo le insegne mezze
scolorite con le dita tremanti.
La sollevai, pronta a colpire ma soprattutto quello che cercavo di fare
era di ricordarmi tutte le barbose lezioni di mio padre.
Tutti quei piccoli dettagli del tipo: “Mantieni la
concentrazione Lois” o “Non abbassare mai la
guardia, resta pronta a colpire. Netta a precisa”.
La maggior parte delle volte anziché ascoltarlo mi lasciavo
distrarre dall’ultimo sergente arrivato.
-Lois?- la voce di Clark mi fece svuotare i polmoni. Sospirai sollevata.
Sciolsi la posizione tornando in una posa più naturale, la
tensione si dissolse,
inutile dire che avevo ascoltato solamente metà delle
centinaia di regole di papà
perché altrimenti avrei aspettato di vedermelo davanti in
carne ed ossa prima di lasciarmi andare alla tranquillità e
alla delicatezza della sua voce così familiare.
-Smallville!-
fu più un’imprecazione che altro.
Sbucò dalle scale salendo solamente i primi gradini.
Si passava un asciugamano sulle mani pulite.
Sentivo il suo profumo di pulito da dov’ero, senza nemmeno il
bisogno di avvicinarci, il che era positivo per la sua
incolumità.
-Cosa ci fai qui Lois?-
Bah! Cosa ci facevo?
Maledetto idiota! Affascinante e bagnato pezzo di sciocco!
Si passò le mani tra i capelli scuri ed umidi, al che
dovetti definitivamente abbassare la mazza da baseball, arrendendomi
alla consapevolezza che era troppo… no non potevo
davvero pensare che Clark fosse sensuale, eppure mentre scuoteva la
chioma, schizzando ovunque goccioline d'acqua, era proprio
l’aggettivo che gli avrei affibbiato.
-Davvero minacciosa-, sghignazzò passandosi
l’asciugamano sul capo per strofinarci i capelli zuppi,
lucidi in quella loro tonalità fango scuro, quasi nero.
-Se fossi stato un ladro te l’avrei spiaccicata sulla testa-
-Ti assumerò come cane da guardia insieme a Shelby-,
scherzò buttandosi infine l’asciugamano sulla
spalla.
-Davvero, davvero
divertente Smallville. Ti meriteresti ben di peggio di una mazzata
sulla testa-
E pensare che la sera prima, preparandomi per la nostra uscita ero
arrivata perfino ad immaginare di poterlo baciare.
Di sentire che mi stringeva le mani o mi carezzava il collo.
Come avevo fatto ad essere così… stupida!
Mi aveva ferita.
La verità era che lo sapevo bene, era solo colpa mia.
Fin dal nostro primo incontro, inevitabilmente, avevo capito quanto
fosse diverso e
per quanto non lo volessi era riuscito a farsi spazio a forza di
battibecchi nella mia vita.
Ma l’errore più grande l’avevo fatto
tutto da sola: con il passare del tempo avevo finito per metterlo su di
un piedistallo.
Convincermi che lui fosse diverso da qualunque altro uomo non era stato
affatto saggio.
Lo vedevo sempre così… Troppo ingenuo. Puro. Era
brillante, per un contadino.
Spiritoso, per essere uno di campagna.
Di sicuro aveva imparato a tenermi testa, e questo era solo un punto a
suo favore, non avevo mai sopportato i bamboccioni.
Clark Kent.
Il ritratto del ragazzo più gentile e premuroso al mondo.
Chi avrebbe mai pensato che invece avrebbe peccato come gli altri.
Non avrei mai, mai immaginato che potesse abbandonarmi così.
Uno come lui non poteva fare una cosa simile, invitare una ragazza e
non presentarsi all’appuntamento, senza nemmeno avvisare.
Oltretutto era sparito, facendomi preoccupare. Che rabbia, e dopo tutto
questo non riuscivo neanche a fargliela pagare.
-E’ per questo che sei qui?-, si schiarì la voce
imbarazzato.
-Sì e no-.
Lo studiai, squadrando quel volto scolpito le cui guance si erano
velate di un debole rossore.
-Lois, mi dispiace. Sul serio, è stata
un’emergenza di lavoro, non immaginavo di non riuscire
a…-.
Volevo vederlo da vicino, guardarlo negli occhi e credere ancora in
lui.
Mi aveva mollata per motivi di lavoro? Io ero il suo lavoro. Se seguiva
una nuova pista perché non ne sapevo nulla?
Mi stava tradendo anche come collega?
Feci quei pochi passi, scendendo un gradino alla volta, lentamente per
la paura di dovermi ricredere,
di dover realizzare che era proprio così, che mi aveva
voltato le spalle, o peggio usata per fare carriera.
-Risparmiati le tue patetiche scuse. Sono una giornalista anche io, so
come funziona questo lavoro.
Come sono certa di aver appreso il significato di "team"-, mormorai
avvilita.
-Pietose ma sincere. Credimi,
mi dispiace. Si trattava di una soffiata, niente di importante, si
è rivelata una buffonata. E’ troppo tardi per
rimediare?-
Affievolì la voce e io volevo credergli sopratutto
perché stavamo entrando in una zona pericolosa: una
discussione seria in cui né io né lui ci saremmo
sentiti a nostro agio. Mi avrebbe ricordato che non era un vero
appuntamento.
Mi avrebbe fatta sentire una bambina alla prima cotta e non avevo la
minima intenzione di farglielo credere.
Io sono Lois Lane.
Mi ripetei.
Non mi faccio scaricare
dal primo campagnolo che passa, anche se ha gli occhi di un colore
misto allo smeraldo ed il cielo e di nome fa "Clark Kent".
-Per tua fortuna, nella mia innata
clemenza, sono venuta ad offrirti l’occasione di
farti perdonare su un piatto d’argento-
-Ah. E
questa preziosa occasione ha forse qualcosa a che fare con la montagna
di valigie che affollano il sedile posteriore della tua auto?-
-Perspicace, Smallville. È per questo che non ti ho ancora
scaricato a qualcun’altro al giornale. Ma mettiamo in chiaro
solo una cosa, questa è solo la prima rata del rendiconto.
Non esiste che Lois Lane accetti di essere bidonata, non
accadrà oggi e non accadrà mai. Quindi ritieniti
fortunato-.
Era l’unica arma di difesa che avevo, fingere che non mi
importasse ma allo stesso tempo ricordargli che non avrei dimenticato.
Un momento, se aveva visto la mia auto, doveva esser uscito dalla porta
principale, e allora perché quand’ero stata in
casa sembrava non esserci nessuno?
-Ti ringrazio-.
Strinse le labbra in un sorriso. Se fosse scoppiato a ridere gli sarei
saltata al collo, sbranandolo. Invece abbassò di poco lo
sguardo, mortificato.
-Comunque sì, ha a che fare con le valigie. Il nostro
appartamento è allagato, dico sul serio, letteralmente,
sembrava di nuotare in mezzo all’acqua saponata questa
mattina… Certo, potrebbe anche avere a che fare con il fatto
che ho accidentalmente
lasciato nella lavatrice la pistola che mi ha regalato papà
a Natale… ma questo non ha importanza-.
La mia voce, spedita e logorroica come di consueto agitò
perfino me. Lui sbiancò.
-Lois, tu
hai una pistola?-
-E anche una mazza tra le mani, se sono le armi che ti preoccupano-, me
la passai da una mano all’altra stringendo
l’impugnatura per farla roteare.
-Ma non è questo il punto. Mi serve, anzi no, mi devi un posto
dove stare e la fattoria dei Kent è piuttosto allettante
vista la valanga di lavoro che ci ritroviamo questo week end-, conclusi
soddisfatta.
-Lois, io-, fece una pausa.
Fissò la mazza e con una smorfia mi convinse a lasciarla
andare sul divano.
– Io non credo che sia una buona idea, dividiamo
già la scrivania e la maggior parte delle ore della giornata.
Forse vivere anche sotto lo stesso tetto è
esattamente… l’ultima cosa di cui abbiamo bisogno.
Non vorrei svegliarmi con la tua pistola puntata alla testa una di
queste mattine-
-Tranquillo Smallville, dopo il lavaggio è da buttare, me ne
farò arrivare un’altra per il prossimo Natale...
ciò significa che hai almeno tre mesi in cui, diciamo che ti
puoi dire quasi incolume.
Non si sa mai di cosa mi potrebbe capitare tra le mani nel frattempo,
se ti scordi ancora di avvisarmi di una nuova pista-
Gli diedi uno scherzoso pugno al braccio, scontrandomi con un ammasso
di muscoli che non avevo mai notato prima.
Lo superai andando verso la macchina prima che trovasse una scusa
convincente per farmi andare in un albergo che non mi potevo permettere.
Aprii il bagagliaio che al pari del sedile posteriore era stracolmo di
valigie.
Avevo preso tutto di fretta e la maggior parte della roba sapeva un
insopportabile e penetrante profumo di detersivo alla lavanda.
Troppo forte e dolciastro per i miei gusti, e sinceramente non ero
nemmeno sicura che fosse nei gusti di Chloe.
-Ti serve davvero tutta quella roba?-.
La voce di Clark mi sbucò alle spalle mentre disperatamente,
facendo leva sul paraurti con il piede destro,
cercavo di sfilare il beautycase da sotto la valigia degli stivali.
-Sono una donna complicata, Smallville, e sono una giornalista. Ho
bisogno di essere sempre pronta a tutto-
-Non credo ti servirà questo per…-
Imbarazzato si ammutolì quando si rese conto che quello che
aveva tra le mani era esattamente il mio bikini patriottico in
paillettes.
-No-, mi schiarii la voce, -Questo non credo mi servirà-
Glielo sfilai dalle dita.
-Frena i bei ricordi cowboy,
a meno che non ci capiti un’altra situazione del tipo
“salviamo il mondo da un night-club”, non credo che
avrai altra opportunità di rivedermelo addosso-.
-Ad ogni modo, nella tua vecchia camera dovrebbe esserci ancora
qualcosa di tuo. Jeans, magliette. Il necessario per pochi giorni-
Come avesse enfatizzato "pochi" era ben poco sottile.
-Bene!-, esclamai ignorando la frecciatina e mollando la valigia dei
vestiti da giorno che scivolò pesantemente sopra alle altre.
- Allora entriamo, mettiamoci comodi-.
Lo oltrepassai portandomi dietro solamente il beauty.
-Chiudi tu, giusto?-
-Sì-, mormorò soprapensiero mentre lo abbandonavo
alle prese con il bagagliaio, marciando decisa verso la porta
d’ingresso.
-No, mah, Lois!-, reclamò non appena si rese conto che avevo
preso d’assedio casa sua.
-A proposito, dov’eri? Quando sono arrivata la casa sembrava
deserta-
-Facevo la doccia-, sospirò sconsolato.
-Ottimo!-,
le mie labbra si aprirono in un sorriso smagliante.
-Significa che il bagno è libero, per diciamo... le prossime
tre o quattro ore!-.
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Capitolo 3 *** Gocce di bugia ***
Quando arrivai in bagno avrei giurato che nessuno l’avesse
usato, non quella mattina per lo meno.
Clark sosteneva si stare sotto la doccia eppure non c’era
nemmeno una goccia contro la parete di piastrelle,
né un accenno di vapore o asciugamani bagnate a terra.
O lui era in grado di aspirare il vapore e pulire il bagno alla
velocità della luce o non me la raccontava giusta.
Oh beh, immergermi nella vasca d’acqua bollente era il
miglior modo per cominciare il sabato mattina.
E anche se effettivamente non mi avesse detto la verità? Non
aveva nessun obbligo nei miei confronti.
Non mi doveva niente, anche se dovevo dire di non essere abituata a
dovermi confrontare con un Clark Kent bugiardo.
Probabilmente la stavo davvero facendo più grande del
dovuto. Lasciai che l’acqua calda salisse fino ad arrivarmi
alla punta del naso.
Ma dove cavolo era stato la sera prima?
Non mi aveva risposto al telefono, e anche per l’essere
più controllato di questo mondo come lui, dopo venti
telefonate e altrettanti messaggi in segreteria, avrebbe ceduto e alla
fine avrebbe
risposto. Se c’era una cosa in cui era bravo Clark era
proprio prendersi le sue responsabilità.
Ossessiva,
Lois!
Se non fossi stata io ad accusarmi avrei risposto con la mia solita
non-chalance che fare domande era parte del mio dna,
stava esattamente tra il gene del colore dei miei capelli e quello che
mi faceva essere completamente dipendente dai mostruosi
camion con le ruote alte due volte me.
Un rumore.
Per lo meno era ancora in casa, non avrei dovuto inseguirlo ancora, e
prima o poi avrebbe cantato!
Le bolle ormai si erano sgonfiate. Ma quanto tempo ero rimasta nella
vasca da bagno?
Le lancette dell’orologio mezzo appannato sul ripiano dello
specchio indicavano che ero stata già quasi due ore, immersa
in quella specie di salamoia al profumo di muschio.
Uscii dalla vasca, poggiando i piedi nudi sul pavimento freddo e
bianco.
Fregandomene di lasciare le impronte bagnate per tutto il bagno.
Se era così bravo a pulire il bagno, farlo due volte nella
stessa mattina non gli avrebbe creato un problema.
Vendicativa!
Avrei potuto cominciare a scrivere una rubrica di quelle sdolcinate e
femministe del tipo: “Non stuzzicar la donna
ferita”.
Blah! Che
schifezza.
Meglio lasciare certe mielosaggini
a Sandy, l’inquilina della scrivania accanto alla porta del
Daily Planet, esattamente a meno di un metro dall’uscita.
Il che doveva pur voler dire qualcosa!
Il primo piano non era esattamente quel che si poteva dire "stare ai
piani alti" ma me l’ero sudata quella mezza scrivania che ora
condividevo con Clark. Avevo sputato sangue, avevo scalato talmente
tanti muri e scale antiicendio arrugginite, indossato tanti di quei
travestimenti per ricavarmi quel misero pezzo di tavolo che, me lo
sarei tenuta stretta anche a costo di dovermelo trattenere con i denti.
Non avevo neanche pensato di portarmi un cambio, presi
l’accappatoio bianco, pulito e profumato…
ma soprattutto, perfettamente
asciutto da dietro la porta.
Altro indizio.
Decisamente Clark non aveva fatto la doccia.
Ciò non toglieva che con i capelli bagnati fosse ancora
più sexy, ma quello era un altro discorso.
Arrivai nella mia “nuova” camera, senza perdere
l’occasione di puntare l’orecchio verso il piano
inferiore.
Stava armeggiando in cucina.
La camera era sempre la stessa, stesse tende, stessa disposizione dei
mobili.
Era parecchio che me n’ero andata ma nessuno doveva aver
più usato quella stanza, in fondo Clark ora era solo.
Sbirciai nell’armadio.
In effetti ci trovai un paio di jeans che sembravano proprio i miei,
stavano piegati in due dentro ad uno scatolone sul fondo.
Con quelli ci trovai anche le magliette di cui parlava. Ne presi una
piegata,
quasi appallottolata, nell’angolo più remoto dello
scatolone.
La sollevai stendendola e guardandola, un po’ tra lo schifata
e l’inorridita.
Incredibile che fino a qualche anno prima mi sarei azzardata a mettere
una maglietta simile.
Quando me la infilai mi resi conto che l’effetto finale non
era migliore di quello che mi prospettavo.
Era rossa, arrivava di poco sotto al seno, sembrando più un
top che una maglietta e al centro sfoggiava lo stemma stilizzato
dell’esercito.
Ma non solo, la scritta parlava chiaro: “Io amo il corpo dei
marines".
Vecchio ricordino di un week end passato a trovare papà
sulla portaerei.
Quella volta avevo passato davvero poco tempo con lui e moolto con il corpo
dei marines.
Per fortuna anche Clark aveva lasciato qualcosa di suo, una volta tanto
non era stato il solito perfettivo.
La sua camicia a scacchi stava sulla sedia dietro la porta. Sarebbe
servita per farmi dimenticare che avevo una montagna di valige in auto.
E poi aveva detto che se avevo bisogno di vestiti avrei trovato tutto
senza bisogno di mettermi comoda,
tanto valeva accontentarlo e ricordargli bene che quello era il prezzo
per non farmi accampare in pianta stabile.
Non che fosse quello che volevo.
-Lois, cosa ci fai con la mia camicia? Ti sei portata mezza casa-.
Sfacciato! Prima mi invitava candidamente a non disfarle e poi si
offende
e ha da recriminare.
Arrossì, che tenero, era in imbarazzo nel vedermi la maggior
parte della pancia di fuori,
coperta appena dalla sua camicia legata sul davanti.
Mah quale "che tenero"! La solita vocina indiavolata mi riprese.
-L’ho trovata in camera mia. Camera mia, camicia mia-.
Lo canzonai. Era stato lui a parlare della mia vecchia camera.
Mi guardò di sbieco continuando e posizionare le ciambelle
in ordine preciso sulla teglia da forno.
-Da quando sei diventato il cuoco di casa?-.
-Mia madre sta a Washington da abbastanza tempo da farmi capire che mi
devo arrangiare,
inoltre ho bisogno di tenerti buona questa mattina, e le ciambelle sono
sempre la soluzione più immediata.
Ho avuto una nottataccia-.
Disse mettendo l’ultima prima di sfregarsi le mani
l’una contro l’altra.
-Tu?!-.
Digrignai tra i denti ripensando alla rabbia e alla delusione che mi
avevano fatta rigirare nel letto fino a farmi prender sonno solo alle
prime luci dell’alba. Poi era stato il turno della lavatrice.
Chloe doveva averla avviata prima di uscire, senza rendersi conto che
in fondo al carico che avevo già preparato c’era
la pistola.
La schiuma aveva invaso l’appartamento così in
fretta.
Avevo atteso di vedere le bolle arrivare fino alla porta di camera mia
prima di darmela a gambe.
La maggior parte delle valigie era già pronta.
Anzi era ancora
pronta visto che dopo esser tornata da una delle solite visite a
papà non le avevo disfatte.
Era passato quanto? Quindici giorni? Bah, il mio armadio vantava ancora
un gran rifornimento.
Non ne avevo avuto bisogno.
-Già-.
-L’implacabile ed imperturbabile Clark Kent.
L’essere più mite e pacifico che io abbia mai
conosciuto-.
Sospirai già impaziente di addentare una ciambella.
-Non te la saresti cavata bene nel medioevo. Ti sarebbe andata bene
solo a fare il prete o un monaco, una cosa così…-.
Lo guardai piegarsi in avanti, dovendo ammettere che era
impossibile evitare di notare quelle braccia guizzare in gonfi muscoli.
Uhllalà!
-O forse no-.
Alzai gli occhi al cielo. Quanto è dura avercela con una
persona se fa di tutto per farti dimenticare per cosa ti eri arrabbiata.
-Da quando sei un’esperta del medioevo?-.
-Da quando mi sono resa conto che la tecnologia attorno a me si sta
letteralmente fondendo.
Finiremo per dover scrivere gli articoli con calamaio e piume-.
Il mio cellulare non aveva ancora squillato quel mattino. Strano.
-Melodrammatica anche dopo il bagno? Devo aggiungere altra glassa-.
Borbottò tra sé guardando per aria.
-Già. Altra glassa, mio eroe-.
Dentro di me in realtà esultai. Zucchero, zucchero.
Avevo bisogno di zucchero per resistere a quella giornata.
Cominciai a scuotere il telefonino, possibile che fosse senza vita?
Possibile che non fosse arrivata nessuna telefonata.
Proprio da
nessuno. Nessuno?
Uffa!
-Qualcosa non va?-.
Mi interruppe da quella ispezione molto più simile
ad una vivisezione,
visto che l’avevo già aperto in mille pezzi per
vedere se fosse tutto apposto.
-Certo!-.
-Sembri preoccupata. Aspetti una telefonata?-.
-Chi io?-.
Sì e nemmeno uno dei due uomini che nel giro di quella notte
avrebbero dovuto telefonarmi si era fatto vivo.
Lui era uno dei chiamati in causa, e non era a suo favore.
-No! Aspetto solo che le ciambelle siano pronte-.
-Ci vorranno solamente pochi minuti, erano quelle surgelate, spero ti
accontenterai-.
-Sì, purché tu aggiunga quella glassa che mi
avevi promesso-.
Ricomposi il telefono alla velocità della luce, come fosse
un puzzle che ormai sapevo ricostruire anche dormendo.
Non fosse mai che almeno uno dei due si decidesse a chiamare proprio
ora.
Silenzio.
Ci fu un secondo in cui ci trovammo a guardarci.
L’uno di fronte all’altro, imbarazzati senza nulla
da dirci.
Avevo davvero voglia di offenderlo ancora, ma non ne ero
capace.
Volevo dirgli che non me lo sarei mai aspettata, non da lui.
Desideravo che mi chiedesse scusa, che mi dicesse che era pentito e che
voleva recuperare.
Sì, era proprio quello che volevo, che mi chiedesse una
seconda opportunità, ammesso che la volesse.
Magari per lui era stato il modo più semplice per evitarsi
un problema,
quello di dirmi che non ci sarebbe mai potuto essere
niente,
niente di
più di una collaborazione.
Il telefono improvvisamente squillò e il cuore mi
balzò in gola.
Entrambi scattammo sull’attenti.
Squillava davanti a me e vibrava come in preda alle convulsioni
contro il marmo del piano cucina.
Non era solo il mio, conoscevo la suoneria del suo telefonino e stava
strillando quanto il mio.
Ci guardammo indecisi. Non volevo rispondere per prima.
Sorrisi, sfidandolo a fare il primo passo.
Lo sfilò dalla tasca dei jeans e guardò il
display, leggendo il nome del chiamante.
-Cosa aspetti?-.
Lo incalzai già in ansia.
Se la macchia mi stava chiamando e io ero così stupida da
non rispondere per dare filo da torcere a Smallville...
ero proprio pazza.
Tirò su con il naso e si decise a premere il tasto di
accettazione della chiamata giusto in tempo.
Nello stesso momento io feci lo stesso prendendo la mia chiamata.
-Lois, sono Carlos-. Una voce roca bisbigliava.
-C’è una rapina in corso tra la Saint James e la
President Lincols.
Ti conviene muoverti, gli avvoltoi degli altri
giornalisti non tarderanno a lungo-.
La mia soffiata.
Sbirciai verso il salotto dove Clark si era rifugiato alla ricerca di
privacy.
Non voleva che sentissi la sua telefonata.
Possibile che anche lui
avesse un informatore e non me l’avesse detto?
Riattaccammo entrambi.
-Lois,
scusa, io avrei una cosa da fare…-, borbottò.
-Anche io, sembra che ci sia una rapina. Vieni con…-, mi
voltai solo un secondo per prendere la borsa ma,
quando feci per riguardarli, lui era sparito.
-... me?-, conclusi la frase al nulla.
Ma quanto sonno avevo perso quella notte?
Non avevo il tempo di stare a rincorrerlo, non quando il mio scoop
rischiava di scapparmi dalle mani.
ps: ci ho messo un pochino ma ç_ç sono sotto
esami quindi trovare tempo e testa per scrivere è dura :)
baci!
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Capitolo 4 *** Puzza di fumo ***
Mi sistemai la gonna infilata al volo sul retro del taxi dato che la
mia auto sembrava più un camion per i traslochi che non un
mezzo di trasporto.
Per questo mi ero dovuta rifare ai trasporti pubblici e soprattutto a
un camerino improvvisato.
Durante il tragitto avevo dovuto riprendere un paio di volte il
conducente che,
fingendo di sistemare lo specchietto retrovisore, mi aveva degnato di
più di un’occhiatina
proprio quando avevo sostituito la minuscola maglietta rossa con la
camicia rosa di cotone.
Alla mia ramanzina acida come una frustata in piena faccia era dovuto
tornare con gli occhi a palla dritti sulla strada.
Poi era stato il turno della gonna e allora mi ero rannicchiata
nell’angolo più remoto dietro al suo sedile
sperando che almeno stavolta mi avrebbe risparmiata.
No!
Beccai il suo sguardo che mi analizzava con la cura di un gioielliere
davanti ad un diamante del quale non è sicuro
dell’autenticità.
Era là sbirciava sotto le pelose sopraciglia spioventi e
troppo vicine l’una all’altra.
A quel punto avevo fatto passare il braccio oltre il suo sedile
stringendogli il collo con l’interno del gomito.
Le sue guance erano diventate rosse scarlatte, la facciona gonfia e
tonda.
Faceva fatica a respirare e puzzava di tabacco. Era un fumatore.
-Amico, questa non è una vetrina e qui dietro non
c’è niente che tu possa avere quindi ti consiglio
di guardare oltre-.
Annuì debolmente, con la bocca aperta per prendere fiato. Lo
lasciai dandogli un paio di pacche sullo sterno.
-Ora andremmo d’accordo-.
Sì, anche perché ero praticamente pronta, mi ero
ritrasformata nella Lois Lane giornalista.
Infilai i tacchi alti dodici centimetri, un altezza dolorosa e che
portava sacrificio ma che mi serviva assolutamente.
Clark sembrava un gigante senza quelle magiche scarpe, inoltre
più di un piede mi aveva lasciato passare dopo che il mio
tacco si era fatto avanti.
Erano un’arma più che sfruttabile.
Il luogo della rapina era un vero disastro, se Carlos era convinto di
avermi chiamata appena in tempo, si sbagliava.
Le camionette della polizia erano tante quante i mozziconi di sigaretta
a terra.
C’era un susseguirsi di lampeggianti, di armi e divise, ma
soprattutto… ciò che più odiavo: le
transenne.
Ecco, quella però era l’occasione in cui invece i
miei trampoli firmati mi sarebbero stati inutili.
Non mi avrebbero nemmeno fatta avvicinare. Mannaggia, dovevo escogitare
qualcos’altro.
Un’esplosione.
Fumo dalle finestre che erano state tutte serrate da dentro. Qualcosa
tremò.
Era il momento di farmi avanti e buttarmi nella mischia, anche
perché quella bastarda di Cindy Shepherd stava arrivando
e sapeva usare quei trucchetti quanto me.
Okay, okay.
Tacchi inutili, secondo piano?
Mi guardai intorno sbirciando tra le divise tutte uguali, beh forse non
erano poi così uguali.
Il viso del poliziotto accanto alla transenna ad est era
l’esempio vivente di come una divisa potesse fare la
differenza.
Era biondino, capelli sparati al vento. Labbra fini e poca barba.
Giovane, all’incirca poteva avere la mia età,
forse addirittura un paio d’anni in meno.
Aveva l’aria da novellino. Lo sguardo ingenuo.
No! Forse i
miei tacchi vertiginosi e incredibilmente costosi non erano
così inutili.
Cominciai a camminare a falcate, dritta verso di lui.
Era distratto, ascoltava una ricetrasmittente con una certa indecisione.
-Mi scusi agente-.
Mormorai dolcemente, sbattendo le ciglia più che potei.
Fortuna che avevo portato con me proprio la borsa che conteneva quel
completo,
la gonna aveva un ampio spacco che mi scopriva quasi tutta la gamba
destra.
-Sì?-, rispose ancora immerso nei suoi pensiero. Rigido,
fino a che non sollevò gli occhi su di me.
-Posso fare qualcosa, per lei?-.
E dopo gli uomini si lamentavano anche di venire criticati.
Gli uomini sono babbei, vedono una bella gamba scoperta, una voce
languida e occhi da cerbiatta e puff!
Anzi, sarebbe servito molto meno per attirare la sua attenzione.
-A dire la verità una cosa ci sarebbe-.
Feci le labbra a cuore, slacciando con noncuranza il primo bottone
della camicetta.
-Qualsiasi cosa-.
Aveva già gli occhi di fuori, balbettava e ben presto
sarebbe crollato a terra.
Ah! Le forze dell’ordine non erano più quelle di
una volta.
Risi dentro di me pensando che sarebbe stato esattamente quello che
avrebbe detto papà.
-Vede, io vorrei…-.
-Lois!-.
Sussultai.
Non feci in tempo a terminare la mia frase, sapientemente modulata per
dare quel giusto effetto d’ipnosi, che lui, la mia piaga
d’Egitto, mi chiamò.
Strinsi i denti, infastidita.
No… incazzata!
Sollevai gli occhi al cielo.
L’effetto era svanito, il superiore di Phil, gli avevo letto
il tesserino, lo aveva richiamato a prestare attenzione alle operazioni.
Clark mi prese per il braccio trascinandomi via.
Per poco non barcollai su quei trampoli ma riuscii comunque ad
indirizzare una strizzata d’occhio a Phil,
sperando di tornare all’attacco non appena messo al suo posto
Clark.
-Si può sapere che diavolo credevi di fare?-.
Sembrava indignato. Infastidito. Geloso? Improbabile.
-Non criticare i miei metodi. Era tutto quello che avevo, visto che il
mio partner si è volatilizzato proprio nel momento di andare
in battaglia-.
-Volatilizzato?-.
-Non ho fatto nemmeno in tempo a finire la frase che te n’eri
andato lasciandomi lì.
Se hai deciso di volare da solo, vai. Spicca il volo e trovati un tuo
nido… la prima pagina è mia e si trova su quel
faccino d’angelo-.
Accennai a Phil, che ancora mi osservava di nascosto.
-Lois, sei tu che sei troppo lenta e, sinceramente, credo che dovresti
deciderti a cambiar metodo. Tra l’altro… hai la
gonna al contrario?-.
Precisò lasciandomi a bocca aperta. Mi guardai. Ah spacco
avanti o spacco dietro cosa cambiava.
-Mi sono vestita in macchina!-.
-Sì vede-. Ridacchiò rinfilando la manica della
maglietta rossa dentro la mia borsa.
-Ah-ah! Molto simpatico, allora sappi che ho regalato la tua camicia al
taxista-.
-Molto carina-. Sorrise. Dolce come solo lui sapeva essere.
La polizia d’un tratto rallentava i ritmi.
Alle mie spalle si sollevò un grande applauso.
Mi voltai di scatto e mi resi conto che la porta della banca era
aperta,
ne usciva del fumo grigio ma nessuno aveva fatto irruzione con i
fumogeni, non ancora.
Gli ostaggi uscivano tossendo, aggrappandosi l’uno
all’altra per sorreggersi.
Uno di loro per aiutarsi spingeva una sedia d’ufficio con le
ruote.
-Ma cosa… cosa sta accadendo-.
I poliziotti abbassarono immediatamente le armi, la maggior parte di
loro rimise la ricetrasmittente allacciata alla cinta della divisa.
Coloro che stavano dal lato più vicino cominciarono a
correre incontro alla gente per prestare soccorso.
-La macchia!- gridò una donna dietro le transenne indicando
la poltrona da ufficio.
La guardai, perplessa spalancando la bocca quando il suo simbolo
marchiato a fuoco sbucò nella mia visuale.
-E’ stato lui-, sorrisi colpendo Clark al petto.
-E’ stato lui, sì!- ripetei entusiasta.
-A quanto pare-, disse solamente con molta meno enfasi di me.
-Nessuno è come la macchia-, mormorai tra le labbra.
-Ha fatto un buon lavoro-, aggiunse con un mezzo sorriso.
-Buon lavoro?-,
lo ripresi con la voce di un paio di ottave superiore al normale.
-Io non sono un persecutore di eroi come te, però sì, ha
fatto un ottimo lavoro. Nemmeno una vittima-.
Storsi le labbra scimmiottandolo.
-Nessuna vittima,
nessuna vittima. Come lo sai tu? Sottuttoio che non
sei altro-.
-Dico solo che…-.
Lo interruppi quando mi accorsi di essergli troppo vicina.
-Puzzi di fumo e di bruciato-, mi avvicinai ancora allungando il naso
fino a quasi sfiorargli il collo.
-No…-, balbettò imbarazzato arretrando di un
passo. Si allargò il colletto della camicia come
se gli mancasse l’aria.
-Altrochè se è così-.
Ignorai il suo tentativo di mettere distanza tra noi.
-Hai della polvere sui capelli-.
A quel punto passai le mani sulla sua chioma morbida,
scompigliandogliela.
-Il pick-up ha avuto dei problemi al motore, ho dovuto sistemarlo per
strada-.
-Clark Kent! Sei sempre il solito!-.
Ci guardammo negli occhi per un istante, lui arrossì.
Sospirai e presi il blocco dalla borsa decisa almeno a correre prima di
lui ed accaparrarmi quell’articolo. La macchia era mia, e lui
lo sapeva. Avrebbe fatto meglio a rimanere qualche passo indietro.
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