Red wire

di Tersy
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo: Troppa polvere ***
Capitolo 2: *** Capitolo I: Dietro di me, la gabbia ***
Capitolo 3: *** Capitolo II: Davanti a me, il deserto ***
Capitolo 4: *** Capitolo III: Io, nell'occhio del ciclone ***



Capitolo 1
*** Prologo: Troppa polvere ***


Vincitrice del concorso "Fenomeni paranormali" indetto dal Writers Arena

Prologo
Troppa polvere

Alcune strade portano più ad un destino che a una destinazione.
- Jules Verne -



L’Autunno è la stagione più vicina all’uomo.
La sua caducità ci ricorda che non possiamo resistere troppo a lungo attaccati allo stesso ramo. Dobbiamo lasciarci andare, prima o poi.
Questo non significa necessariamente arrendersi, scivolare in un turbine di foglie secche, senza speranza di vita e di morte. La rassegnazione è una delle vie che portano alla serenità, la più facile, ma non l’unica e non la migliore. Non è importante abbandonare questa o quella sfida, l’importante è non abbandonare se stessi.

Per anni ho graffiato lo stesso tralcio, ho affondato le unghie nel legno, certo che fosse l’unico modo per non cadere.
Ma sbagliavo: le foglie devono piombare al suolo. Ero sopraffatto dal dolore e non mi accorgevo della mia vita che continuava il suo corso, senza sosta.
Credevo di essermi fermato, per riflettere o per commiserarmi o per qualunque altro motivo. Invece indugiavo a proseguire.

Il fatto è che ci sono sempre spiegazioni per ciò che accade; il vero problema è crederci ed accettarle in ogni caso.
Ero precipitato in un mondo senza stelle e c’era troppo polvere sul mio coraggio per ammettere che mio padre era morto e che niente avrebbe potuto farlo tornare in vita.

Avevo fin troppa sete di “perché”.

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Capitolo 2
*** Capitolo I: Dietro di me, la gabbia ***


Capitolo I
Dietro di me, la gabbia


Fumo acre. La stanza è troppo piccola per contenerlo e sgattaiola fuori dalla finestra. Vetri in frantumi ovunque. Perché questo squarcio nel muro? Puzza di zolfo. Alte fiamme bloccano l’uscita . Inghiottono il nostro ossigeno. Che sta succedendo? Urla assordanti, non riesco a ragionare, non riesco ad impazzire. Posso aspettare di essere salvato. Sì, aspettiamo, dobbiamo restare calmi. No! Che state facendo? Non gettatevi!

« Peter?» una voce s’intromise nelle sue frequenze celebrali.

L’uomo si guardò intorno, strizzando le palpebre, quasi si fosse appena risvegliato da una notte travagliata. Entrambi i gomiti poggiavano sul tavolo lucido, mentre le dita, muovendosi in cerchio, massaggiavano la pelle del viso.

«Sei stanco? Abbiamo appena iniziato e dobbiamo finire questo piano marketing entro stasera. Altrimenti caput!» enfatizzò sbattendo un blocco di fogli dinanzi al collega.

« Niente Will, non preoccuparti. Sto bene, è solo un po’ di stress e insonnia...» si stiracchiò la schiena, allungando le braccia verso l’alto.

« Allora » disse afferrando e sfogliando pigramente il fascicolo.

« Chi è il cliente? »

« L’ “America West Airlines”. Ormai tutte le compagnie aeree hanno iniziato una pressante campagna pubblicitaria. Nessuno vuole più prendere l’aereo. Roba da matti, una follia di massa. » Uno strano silenzio fece la sua comparsa nell’ufficio.

« Cioè... Non che pensi che chi ha paura di prendere l’aereo sia folle, in fondo è vero che di questi tempi non si è mai sicuri di niente. Insomma... » tossì, recuperando un po’ di voce

« E poi i treni sono così comodi , no? Ed economici. Hai notato che i prezzi per un volo sono diventati esorbitanti? Insomma! Un povero lavoratore come fa...»

«Will! Per l’amor di dio, smettila! Non sono un bambino, puoi anche piantarla di trattarmi con i guanti di velluto. Ho paura di prendere l’aereo dopo l’attentato, ma questo non mi impedisce di pensare che sia una follia. E non c’è bisogno di sentirsi in imbarazzo ogni volta che si parla di aerei. Sono davvero frustranti tutte queste stupide smancerie, cazzo! Speravo che almeno tu non fossi come tutti quegli stronzi là fuori » indicò col braccio la finestra

« Con l’ipocrisia impressa sul volto, che mi salutano come se volessero darmi le condoglianze. Ma io non sono morto! » La sedia avvertì nettamente il suo sospiro pesante e liberatorio.

« Scusami, hai ragione.» Will si grattò dietro la nuca, palesemente a disagio.

« Okay, adesso torniamo a queste scartoffie. Credo che dovremmo puntare sul concetto di sicurezza, affidabilità. Qualche immagine di hostess formose e sorridenti con dello champagne e uno slogan d’effetto. Che ne dici? » cercò l’appoggio dell’amico, che però sembrava viaggiare su altri binari. Un paio di iridi perla che scrutavano un indefinito niente.

« Will? Che fai, adesso sei tu quello che non è più qui?»

« Ma no. Sto appunto pensando ad uno slogan...» Fece qualche passo allontanandosi dalla scrivania, con entrambe le mani nelle tasche dei pantaloni grigio topo.

« Ecco, bravo. Fa’ il tuo mestiere. Io intanto vado a pranzo.» Afferrò il cappotto dall’attaccapanni e lo indossò in fretta.

« Non vieni con me? » domandò mentre una mano già reggeva la maniglia della porta. Will scosse il capo prima di negare apertamente.

« No, preferisco restare qui a lavorare ancora un po’.» tono serio e distaccato,accentuatamente grave. Peter scrollò le spalle per nulla sconvolto.

«Come vuoi. Ci vediamo più tardi. Ciao.» ondeggiò il palmo destro accennando un rapido saluto, prima di diventare una sagoma oltre la porta a vetri.

In quell’ufficio si respirava un’aria cattiva. Almeno era questo l’assillante pensiero dell’uomo, che volle tentare di liberarsi da questa oppressione, spalancando la finestra, da cui era possibile scorgere, in lontananza, Central Park. Posò entrambe le mani sul davanzale, facendosi scompigliare la cravatta dal nodo leggermente allentato. Gli orli della camicia erano scombussolati dalle raffiche che raggiungevano il cinquantesimo piano del grattacielo. C’era una pace primitiva lassù, distante anni luce dalle migliaia di strade strozzate dalle automobili e dai pedoni. Un silenzio parziale che portava ugualmente benessere e angoscia. Dipendeva dalla mente di chi l’avrebbe accolto. E la mente di Will era fin troppo fustigata per trovarne sollievo.

« Mi dispiace... » un piccione, che volava ad alta quota, fu l’unico ascoltatore di quel sospiro nero.

Sette anni sono tanti. Possono trascorrere facilmente o possono pesare come singole gocce che piombano da un rubinetto guasto. In alcuni casi rappresentano il periodo più fertile e proficuo della propria vita o quello più maledetto e corrosivo. Quanti bambini nascono in questo arco di tempo? Quanti ne muoiono? Per molti, sono solo una misera percentuale, una frazione di esistenza. Invece sono una grossa porzione. Sette anni sono tanti. A volte troppi. Soprattutto se l’inesorabile scorrere accorcia i mesi che conducono alla mezza età, quando i momenti ancora a disposizione diventano sempre meno rispetto a quelli già bruciati. E cominci a fare un bilancio, a sorridere delle beffe e morderti le labbra per i rimorsi. Comprendi di star passando, ma non sai a che punto del percorso sei e, in particolare, come ci sei arrivato. Se ti hanno spinto o se le tue gambe hanno viaggiato da sole. Invecchi, in breve.

Peter pensava a tutte queste cose, mentre addentava un hot dog, comprato en passant sulla trentaduesima strada. Era irriconoscibile nella perenne folla che assilla i marciapiedi della Grande Mela, ma perché, poi, qualcuno avrebbe dovuto notarlo? Un impiegato come tanti, art director già da prima che nascesse la pubblicità. Icona del newyorkese medio che si lamenta dei tassisti, che gufa i Red Sox quando sono in cima alla classifica, che disprezza la sua città in proporzione al suo morboso attaccamento ad essa. Che canta l’inno nazionale per poi gridare: “God bless America!”

Appallottolò la carta argentata e la gettò nel cestino che trovò lungo il percorso. Avrebbe voluto fare lo stesso col suo recente passato. Accartocciarlo e fingere che non fosse mai accaduto nulla, che settembre fosse un mese qualunque, che due titanici edifici osservassero ancora la metropoli, proteggendola dall’alto delle bianche nubi.

Non era ancora riuscito a tornare lì. Quando era possibile, sviava il luogo prendendo un vicolo secondario e se non poteva farne a meno, prendeva un mezzo qualsiasi, uno affollato e si metteva al centro della vettura, di modo tale da non essere in grado di sbirciare oltre il finestrino. Non era mai riuscito a riappropriarsi del coraggio, a dire la verità. Odiava lavorare ancora in un grattacielo, odiava prendere l’ascensore, odiava il rumore dei motori di un aereo di linea. Odiava essere compatito per questo, ma era esattamente ciò che si meritava. E lo sapeva, e ne aveva paura. Un terrore viscerale. Si ripeteva che sarebbe migliorato, che lentamente si sarebbe ripreso dallo shock. Era solo una questione di tempo. Forse questa era l’unica cosa su cui aveva ragione. Cronos sarebbe venuto a bussare alla sua porta, ma non per una semplice visita di cortesia. L’attentato alle Torri Gemelle aveva lasciato molte più vittime di quelle che erano nei cimiteri. Ricordare, questa era lapide di chi restava.

Come un malessere lo colpì all’improvviso. Avvertì un risucchio a livello dello stomaco ed il respiro si fece più articolato, complesso da effettuare. Si accasciò con la schiena contro una parete, mentre con le mani stringeva il cappotto proprio sotto il diaframma.

Credeva che sarebbe svenuto di lì a poco e che non avrebbe avuto la forza di gridare per chiedere soccorso. Invece non perse i sensi. Li acquistò.

Una porta laccata in legno. È socchiusa. Non riesco a guardare con esattezza, ma posso sentire abbastanza bene ciò che viene detto.

Sembra un gruppo, una dozzina di persone. Dal timbro vocale, suppongo siano adulti maschi. Il loro linguaggio è piuttosto serioso, forse la riunione di un’azienda. Poggio il viso sullo spiffero e cerco di aguzzare la vista. C’è un lungo tavolo ovale, anch’esso dello stesso legno della porta.

Dei figuri in giacca e cravatta siedono attorno ad esso. C’è silenzio,eppure qualcuno si sta alzando proprio in questo momento.

«Miei cari, abbiamo faticato tanto per raggiungere questo obiettivo. Molti di noi non sono qui per festeggiare. Ma ora ci siamo, abbiamo tutto a nostra disposizione. Possiamo finalmente portare a termine la nostra missione. Accadrà presto, molto presto e l’umanità ce ne sarà grata. »

«Presto quanto? Non possiamo aspettare ancora per molto. »

« La data è stabilita da tempo. E non ho intenzione di mandare tutto a monte. A settembre, l’undici. »


Il passato è una lurida gabbia. Se ci entri, non potrai più uscirne.

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Capitolo 3
*** Capitolo II: Davanti a me, il deserto ***


Capitolo II
Davanti a me, il deserto


“Profumo di stelle, spighe di grano. Suoni e fiabe di un tempo lontano. Vento notturno, tepore di fiamma. Non temere, c’è qui la tua mamma.” Mamma, che succede? Perché queste persone scappano? Mamma, dove stiamo andando? Dov’è papà? Perché cade tutto, mamma? Ho paura... Piango, ma non sono triste. Mi è entrato qualcosa negli occhi. Mamma?! Mamma! Dove sei? No, lasciatemi! Sto cercando la mia mamma! Io non vi conosco! Mamma! Papà!

« Boy don't try to front. »
« I - I know just what you are-are-are! 1»
« Mamma... » sibilò tra le sue labbra lucenti.
Non sarebbe stato udito da nessuno in altre circostanze, ma quel microfono era troppo vicino alla sua bocca e il suono si propagò limpido nella stanza. Le altre due ragazze rimasero impietrite, quasi fosse arrivato un intruso. E in qualche modo, quella parola avulsa dal contesto lo era. Un ronzio distorto fece riprendere alla terza ragazzina i sensi.

« Ehm... Scusate, non so... Io non.. non volevo dirlo. » balbettò cercando una giustificazione plausibile, che era lì, nella sua mente, ma che aveva timore ad esternare. Non era affatto cool rimembrare il passato.

« Sono pronta adesso, possiamo ricominciare. »
Fece un paio di colpi di tosse per schiarire la voce e mostrarsi preparata al prossimo attacco della base. Attacco. Non riusciva nemmeno a pensare a questa parola, però fingeva di farlo. E ci riusciva benissimo.

« Fancy, ehm... Sei sicura di stare bene? Senti, cioè, lo so che sei, come dire... »
Barbara non aveva una grande proprietà di linguaggio, come la metà degli adolescenti della sua età, così si aiutava con i gesti. Muoveva il collo da destra verso sinistra e contorceva le mani. Sembrava una pseudo coreografia hip hop, invece era un banale tentativo di comunicazione.

« Ecco, un po’ scossa. Come dire... » Come dire? « Cioè, tesoro, quella storia dei grattacieli. Sappi che ti siamo vicine, okay?»

« Barbara!»
Violet le tirò un pizzicotto sulla coscia, tentando di non farsi vedere da Fancy, e le lanciò un’occhiataccia che era inequivocabile: “sta’ zitta!”

« Quello che stava cercando di dire Barby » iniziò « è che siamo tue amiche. Se per qualche motivo, sei giù e vuoi sfogarti con noi, non devi far altro che chiedere. Se non ti va di cantare, non devi sforzarti. In fondo questo è solo un divertimento. Quello che davvero conta che tu stia bene. »
Posò una mano sulla schiena di Fancy e la strofinò per bene.
La giovane improvvisò una smorfia, torcendo appena le labbra verso l’alto. Era impossibile definirlo un sorriso. Ma alle altre due ragazze bastò, forse immaginavano che non avrebbero ottenuto di meglio. Le loro sei braccia si intrecciarono. Il calore dei singoli corpi venne trasfuso ai restanti. In quel momento, era la sensazione più piacevole che Fancy avesse mai provato. O ricordasse di aver mai provato.

« Grazie, davvero. »
Piegò ulteriormente quell’accenno di smorfia, che assomigliava maggiormente ad un sintomo di serenità. Eppure restava un velo oscuro sul suo volto, che fu impalpabile per le sue amiche, indecifrabile. Erano fin troppo superficiali per accorgersi del marcio che stava scavando una profonda galleria dietro a quel faccino pesantemente truccato come un’idol. Si distaccarono da quell’abbraccio estemporaneo e furono rapide a glissare la conversazione.

« Piuttosto...» Violet incrociò le braccia dinanzi al petto, mentre il mento di sollevò di alcuni centimetri.
« Che ci racconti della “serata”» enfatizzò mimando delle virgolette con l’indice ed il medio di entrambe le mani , a sottolineare che ci fosse stato qualcosa di più « con Ted? » ammiccò, mescolando infantilismo e malizia.

« Bene, insomma. Dipende da cosa vuoi sapere... » roteò le pupille, fingendo indifferenza.

« Oh avanti! » Barby si intromise nello scambio di battute.
« Avete fatto sesso? »
A lei non importava molto della cornice. Voleva solo qualche particolare assai piccante da raccontare in giro. Perché certe cose non le avrebbe mai tenute per sé. E questo Fancy lo sapeva benissimo.

« Che dire? Ci siamo andati molto vicino... »
Lasciò intendere che chissà quale rimorso moraleggiante o impedimento d’altro tipo li avesse fatti desistere, benché era nell’intenzione di entrambi andare fino in fondo. Le amiche restarono alquanto perplesse, forse non credettero in toto alle sue parole. In un certe senso, era una giusta sensazione.

« E così niente? Che peccato... »
Nel volto mortificate, soprattutto Barbara. Aveva appena perso un succoso argomento per l’indomani ed ora sarebbe stata costretta ad inventarsi qualche frottola credibile da propinare alla frotta di ragazzine invasate che lo lodavano come una diva.

« Eh già.. » piazzò le iridi confuse al pavimento, sfregò i palmi tra di loro per poi verbiare.
« Beh, ragazze, credo che si sia fatto davvero tardissimo. Forse sarebbe meglio finire domani. Oggi abbiamo lavorato abbastanza. »
Afferrò il telecomando collegato alla saracinesca del garage e pigiando sul bottone, ordinò a questa di aprirsi per consentire l’uscita delle due fanciulle.

« Okay tesoro. Ci vediamo domani sera. Buona notte. »
Violet la salutò vistosamente con sorriso che pareva un grande triangolo candido. Altra si limitò ad agitare spaziosamente la mano verso di lei, mentre si riversavano in strada.

Sola. Condizione di una sera, condizione di una vita. Sì, perché per una bambina sette anni sono tutto ciò che la separa dalla nascita. Che ne fossero trascorsi altri sette, a lei non faceva alcuna differenza. I suoi seni crescevano, i suoi fianchi si facevano sempre più larghi, l’utero non era più un organo invisibile. Ma non lo percepiva, non aveva la minima sensazione di aver vissuto per ancora un lustro e un biennio. A rammentarle la sua età ci pensavano le sue amiche, con quelle frasi sconclusionate, con in petto i desideri di Cenerentola, ma una quotidianità scialba in cui è difficile intravedere le carrozze.
C’erano i ragazzi che la guardavano come una fonte di eccitazione, come un appiglio primitivo per inaugurare la loro adolescenza. Lei non provava istinti sessuali, non ne sentiva il bisogno. Non aveva attrazione verso i ragazzi (o le ragazze). Fancy era intonsa, casta, immacolata, ma solo nell’anima, nella mente, nei pensieri che le scrosciavano via dalla testa quando si concedeva una riflessione sul mondo che correva, correva. Aveva perso la verginità a soli tredici anni, ma lei non era mai diventata una donna, e nemmeno una ragazza.
Si dice che i bambini che subiscono un forte trauma maturino più in fretta. Non è sempre vero. Fancy era rimasta in quel giorno di settembre del 2001. Era sola, e più era circondata di gente più si rendeva conto di esserlo. Non voleva crescere, infinito presente. Lei desiderava essere cresciuta, infinito passato. Ma non era in suo potere stabilire il quando o il come. Eppure le restava un flebile perché.

Il suo corpicino esile era disteso sul pavimento del garage. Supina, con gli occhi sbarrati e le braccia aperte orizzontalmente. Affannava il respiro, aiutandosi con la bocca. Gemette quando attorno a sé tutto cambiava, si sbiadiva, perdeva consistenza reale. Imbizzarrirono i suoi occhi, scattando da un angolo all’altro delle quattro mura. Non potette fermarlo, lo scorrere del tempo. Dovette correre, correre.

Sono in un luogo affollato. La gente mi passa di fianco, mi spintona pur di passare. Sono tutti di fretta e la calca scorre rapidamente. Riesco a imboccare quella che appare un’uscita, ma mi rendo conto ben presto di essermi maggiormente addentrata in questo luogo. Sollevo il capo: sono in un sotterraneo. Mi faccio strada fino al bordo del marciapiede: ci sono delle rotaie. Non c’è dubbio. Sono nell’Underground. Un treno è in arrivo, mi scanso di qualche centimetro per non farmi scompigliare dalla velocità del mezzo. Sbatto le ciglia.
Non sento più nitidamente. Ho le orecchie tappate e i rumori arrivano lenti e distorti. C’è fumo, troppo. Metto una mano alla bocca per evitare di respirarlo. Volano detriti metallici. E’ meglio andar via di qua. C’è un odore acre e sgradevole: quello dei corpi carbonizzati.


Il futuro è più arido di un deserto. Chi cerca acqua, muore assetato.

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Capitolo 4
*** Capitolo III: Io, nell'occhio del ciclone ***


Capitolo III
Io, nell'occhio del ciclone


Vedrete che andrà tutto benissimo. Hanno chiamato i pompieri, saranno qui in pochi minuti. Prendete le scale, usate un fazzoletto per coprire le vie respiratorie. Mi raccomando: restate sempre vicini. Non abbiate paura, dovete essere lucidi, non fatevi prendere dal panico. Io? Aspetterò qui, di certo avranno bisogno d’aiuto con i feriti. Non preoccupatevi per me, so badare a me stesso. Sono o no il figlio di un vigile del fuoco?

A Ground Zero c’era un silenzio frustrante. Quasi ci fosse stato un anomalo buco nero che invece di risucchiare e imprigionare fotoni, si nutriva di suoni di varia natura. Ingordo, insaziabile. Più si imponevano frastuoni roboanti e ossessivi, più ne traeva vantaggio e li ammortizzava fino a farli cessare. Più appariva sopraffatto dal caotico, ma sano andirivieni del circondario, più ne usciva vincitore assoluto. Più riceveva vita e speranza, più regalava morte e disperazione. Chiunque passava di lì, anche tutti i giorni, per un motivo o per un altro, era costretto a fare i conti con quella realtà sospesa e a sé stante, un’isola avvolta da nebbie fitte e massacranti, un Avalon spoglio di bellezza leggendaria.
Troneggiava funesta ma contrita, assegnata per Caso o Destino al suo Golgota, a cui doveva quella forma, poiché non era quello il suo impianto originale: una croce dai bracci scuri come il ferro di cui erano costituiti. Simbolo del martirio, della sofferenza, del disagio, della preghiera, della distruzione e forse della rinascita. A Manhattan non si poteva restare impassibile a quel trancio d’asfalto. Chi dimostrava di essere troppo impegnato per curarsene, chi ammaestrava colleghi e amici al proprio modus vivendi, non faceva altro che alimentare l’ipocrisia radicata secondo cui non pensarci era un modo onesto per tirare avanti. Eppure c’era ancora chi non demordeva. C’era chi non voleva tacere.


« Abbiamo il diritto di sapere! Il governo tace, i mass media occultano tutto. Nessuno ci ha detto la verità. Ci hanno propinato menzogne su menzogne per anni. Perché continuate ad ignorare la verità? Che il presidente ci riveli come sono andate le cose - signore, prenda un volantino. - Che i membri del Consiglio si mettano davvero dalla parte dei cittadini per una volta. L’America vuole giustizia! »

A squarcia gola si imponeva sul vociare dei passanti. Dietro il suo tavolino arrangiato per l’occasione, su cui giacevano una grossa quantità di manifestini cartacei disposti a ventaglio, aizzava (o meglio cercava di farlo) la folla, inveendo contro le autorità statunitensi. Alle sue spalle un cartellone lungo almeno due metri, sul quale erano incollate alla meglio molteplici fotografie. Erano i suoi ex colleghi, vittime anche loro al World Trade Center. Di nero vivo la sua divisa, particolare che poteva essere interpretato in duplice maniera: o era da poco diventato un firefighter o ci teneva molto all’uniforme tanto da non badare a spese per la tintoria. Erano vere entrambe le cose.

Philip - Phil, per tutti - aveva sostenuto solo da alcuni mesi l’esame d’ingresso nei vigili del fuoco. Non gli era risultato assai difficile: in fondo, essere il figlio di un pompiere, caduto sul lavoro per giunta, doveva avergli spianato non poco la strada. Indubbiamente questo lo avevo fatto irritare in più occasioni, ma era il mestiere che aveva sempre desiderato di fare e perciò cercava per quanto possibile di non badarci troppo. I sensi di colpa non gli sarebbe serviti a niente.
Era giovane e aveva tutte le buone qualità per divertirsi e plasmare il suo oggi come un parco giochi. Perché non lasciava andare i suoi capelli castani su di un cuscino? Perché non si era sbronzato per reprimere l’amarezza e la tremenda solitudine? Perché non accettava gli squilibri del passato per approdare serenamente verso il futuro? Sete di giustizia, come diceva lui. Sete di vendetta, come dicevano gli altri. C’era stato un complotto, un intrigo internazionale, un sotterfugio, un affare di Stato. Una squallida scelta oligarchica di potenti e capitalisti. Non c’entravano niente le rivendicazioni. Era così evidente a suoi occhi che fosse un lurido pretesto che provava rigetto per coloro che si erano bevuti questa storiella. Qualcuno aveva condotto suo padre nella fossa e qualsiasi cosa fosse accaduta avrebbe fatto sì che quei balordi lo avrebbe seguito presto, ma senza medaglia al valore.

« Potrei avere anch’io un volantino? » una voce cupa e stagionata si rivolse a lui. Era un vecchio, un barbone probabilmente, che si avvicinò discreto al tavolino.

« Sì, certo. Ovviamente. »
Afferrò il primo del blocco e lo porse, gentilmente, all’anziano.

« Un complotto, eh? Phil, mio caro ragazzo, perché persisti in questa tua battaglia? Quell’uomo alle tue spalle non sarebbe fiero di te in queste condizioni... » affermò, senza aver letto nulla. Senza conoscerlo.
Il primo istinto di Phil fu quello di voltarsi, come se avesse momentaneamente dimenticato cosa ci fosse dietro di sé. I suoi occhi si scontrarono con quelli di suo padre. E non fu una sensazione piacevole.

« Sarebbe stato. Lui non c’è più. E poi scusa, come diavolo sai il mio nome? »

« Parleremo più approfonditamente quando arriveranno anche gli altri. »

« Altri? Altri chi?» sempre più confuso, sempre più favorevole all’ipotesi che fosse un folle. E lo assecondò per questo, principalmente.

« Shh! Eccoli. Manca poco. » lo zittì ponendo fine alla conversazione. Le sue pupille guizzarono da una parte all’altra della strada. C’erano ospiti in arrivo.

Peter si era infilato nel solito autobus. La masnada consueta del lunedì mattina lo opprimeva al centro del veicolo. Ma a lui stava bene così. Si sentiva protetto da uno scudo umano. Non aveva bisogno d’altro. Avrebbe oltrepassato Ground Zero in un batter d’occhio e poi avrebbe proseguito a piedi.

Fancy non era andata a scuola. Tipico, marinava quando ne aveva voglia, semplicemente “perché sì”. Era frivola, era infantile, era appunto fancy. Scorrazzava con le sue compagne per i negozi, facendo sudare sette camicie ai commessi di turno. Nella zona vicina alle ex Torri Gemelle era sorto un nuovo outlet di accessori. Doveva svaligiarlo.

« Adesso. » sussurrò allora il vecchio, ma Phil ebbe modo di udire distintamente.

Il mezzo pubblico frenò di colpo, facendo cozzare tra loro i passeggeri rimasti in piedi, che si guardarono confusi. L’autista annunciò che una gomma era sforata e invitò tutti a scendere, scusandosi per il disagio. Ognuno iniziò a maledire quella giornata, a suo modo. Peter fu restio a scendere, ma d’altronde non gli restavano molte alternative.

« Merda! » piagnucolò la ragazza, osservandosi la scarpa destra con un ginocchio flesso. Il tacco era rimasto sul marciapiede. Era fino troppo aghiforme per resistere ancora a lungo. Giunse anche per quello in momento di cedere. Zoppicò goffamente fino al palo dove sfilò la scarpa incriminata, pensando ad un modo per sistemarla. Le amiche la fissarono seccate e così fece segno loro che le avrebbe raggiunte più tardi.

Erano tutte e tre lì, per una coincidenza assai fortuita.

Il ragazzo li fissò intensamente con aria stupita. Non c’era nulla in loro di bizzarro. Un uomo di colore di mezz’età e una teenager bionda (sicuramente tinta). Nonostante questa palese normalità (concetto a New York molto più esteso che in altre città), non riuscì a staccare lo sguardo. Magneticamente attratto dalle loro figure senza entusiasmo.

« C’è un filo rosso che vi unisce. » tuonò l’anziano signore.

« Scusa, cosa hai detto? »

« C’è un filo rosso che vi unisce. » ripeté , scandendo.

«Eh? Filo rosso? Quanto e cosa hai bevuto? Guarda che sono ancora le nove del mattino, è un po’ presto per l’happy hour. » lo liquidò, senza dare un briciolo di credibilità alle sue parole, ma questi sembrò contrariato.

« Smettila di pormi quesiti! Inizia a scavare dentro te visto che non lo hai mai fatto in questi sette anni. » irritato, gli donò le spalle e proseguì verso altri luoghi, sparendo oltre le auto parcheggiate.

« Certo che in questa città si trovano certi psicopatici... » commentò Peter con il mento ancora rivolto verso quello strambo individuo.

« Già... Senti, dato che sei qui, daresti un’occhiata a questo? » gli allungò uno dei suoi fogli stampati.

« Cos’è? Una di quelle cose anarchiche di voi scapestrati? » aggrottò la fronte, severo.

« Anch’io voglio leggere!» si intrufolò tra i due uomini e rese nota la sua curiosità.

« Non credo ti possa interessare. Forse non lo ricordi neanche... » ipotizzò Philip. Non le dava nemmeno dieci anni.

Fancy strappò il volantino dalle mani di Peter e posò i suoi occhioni su quelle pochi righe. Due lacrime ornarono le estremità di ciascuna palpebra, prima di crollare, stanche.

« Certo che me lo ricordo » singhiozzando, interpretare le sue parole diventò ogni secondo più complesso « Io non volevo disobbedire, ma non volevo starmene sola a casa. Mamma e papà si arrabbiarono molto, dissero che non dovevo andare a trovarli al lavoro... »

« I tuoi genitori lavoravano alle Twin Towers? » ritornò la voce di Peter, colpito da questo particolare. La ragazza si limitò ad annuire col capo.

« Allora anche tu sei tra i sopravvissuti... » l’uomo voltò il capo di qualche grado e strinse gli occhi.

« Come “anche tu”? » Philip si intromise, si sentiva fin troppo alienato. Lo puntò con l’indice.
« Eri lì l’11 settembre? » palesemente sgomento, con la bocca semi aperta.

« Dovevo esserci, ci lavoravo in quel postaccio. » Incrociò le braccia dinanzi al petto. Gli costò quest’azione, rivangare il passato.

« Incredibile... »
Le sue iridi castane spaziarono dal viso mogano di lui ai boccoli flavi di lei, andando avanti e indietro, ripetutamente.
« Ero andato in visita scolastica. Anch’io mi sono salvato, anche se ... » indicò l’immagine esattamente dietro di sé.
« Mio padre. » unì le mani sulle cosce, storcendo le labbra.
Fancy si sporse oltre il bordo del tavolo per mettere a fuoco quel viso.

« Ma io ho già visto questo signore. E’ lui che mi ha salvata dalle fiamme. »

« Lui... ? Dici sul serio?»

« Sì, mi ha preso in braccio e mi ha portavo via.» racconta, mimando le azioni.
« Non potrei averlo dimenticato. E’ stato un eroe. »

« Già... Lo sono stati tutti. » S’inumidirono le sue retine, senza che potesse controllarlo.
« Quel tipo mi ha detto che siamo legati da un filo. Abbiamo vissuto tutti e tre la stessa esperienza. Siamo ancora qui per raccontarla. Credo che sia questo il significato. » Anche se restava un mistero come ne fosse a conoscenza.

Il suo braccio si distese nella loro direzione. « Philip »

La prima a rispondere fu la ragazzina. « Io sono Fancy. » gli strinse la mano e sorrise cortesemente.

« Legati da un filo, eh? » disse scettico. « Peter. »
« Cosa facciamo qui? Proteste illecite? Questa è appropriazione di suolo pubblico.» Un agente di polizia giunse spauracchio interrompendo i convenevoli fra i tre.

« Agente, non è come crede. Ho una regolare autorizzazione. Aspetti, gliela mostro. Deve essere qui, da qualche parte.» Si tastò la divisa e iniziò a perlustrare le tasche.

Un foglio viene infilato nella tasca interna di un giaccone.
Peter scosse la testa per rimuovere dalla mente quel fotogramma.

« Allora? » il poliziotto dava segni di nervosismo.

« Un attimo, non capisco come sia possibile. Sono sicuro di averla portata con me. » gli iniziarono a tremare le mani, come ogni qualvolta si sentiva insicuro.

« Ehm... Prova... Prova a guardare nella tasca interna... » bofonchiò Peter, tossendo di tanto in tanto.

Philip tirò giù la cerniera lampo e indagò all’interno. Inarcò un sopracciglio mentre estraeva quel pezzo di carta porgendolo all’ufficiale.

« Bene. E’ tutto in ordine. Tolgo il disturbo. » in quattro e quattro otto l’agente fece dietrofront e se tornò da dove era venuto.

Un rettangolo biancastro rotola per il marciapiede.
Fancy trattenne una risatina, mettendo una mano sulla bocca.

« Perché ridi? »
La ragazza mosse le mani davanti al viso.
« Niente, niente. Non farci caso. Senti perché non ci teniamo in contatto? Ti lascio il numero di cellulare, così possiamo mandarci tanti sms! » capovolse il volantino e vi appuntò una serie di cifre.

« Ah la prossima volta, ricordati di fissarlo meglio, se no vola via.» Questo disse prima allontanarsi nella direzione diametralmente opposta a quella imboccata da Peter.

«In che senso?» Una folata di vento trascinò inesorabilmente il cartellone con sé.

Nel presente si vive in balia del ciclone. Non è così facile capire...

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