L'Archimaga di Ely79 (/viewuser.php?uid=61615)
Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.
Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Tavola 1 - Inquadramento ***
Capitolo 2: *** Tavola 2 - Rilievo ***
Capitolo 3: *** Tavola 3 - Studio di fattibilità ***
Capitolo 4: *** Tavola 4 - Progetto preliminare ***
Capitolo 5: *** Tavola 5 - Progetto definitivo ***
Capitolo 6: *** Tavola 6 - Progetto esecutivo ***
Capitolo 7: *** Tavola 7 - Confronti ***
Capitolo 8: *** Tavola 8 - Variante in corso d'opera ***
Capitolo 9: *** Tavola 9 - Fine lavori ***
Capitolo 10: *** Tavola 10 - As Buildt ***
Capitolo 1 *** Tavola 1 - Inquadramento ***
Tavola 1 - Inquadramento
«Che schifo!» mugugnò Ron scuotendo il piede.
Aveva appena calpestato qualcosa dalla consistenza imprecisata e
dall’odore disgustoso. Di certo non era la plastilina che suo
nipote Fred aveva sparso per mezza casa il week-end precedente.
«Dai, cioé, mica ci vorrà ancora molto, no?» bisbigliò Nigel lì accanto.
L’Auror era poco
più di una sagoma indistinta contro un muro ricoperto di
manifesti pubblicitari e scritte poco artistiche di writers alle prime
armi. L’incantesimo di Occultamento non era uno dei suoi preferiti, e si vedeva.
«Nigel?» intervenne la voce di Harry, poco oltre.
«Mmm?»
«Ti si vedono i piedi…»
«E allora?» poi guardò a terra e ricordò di
aver indosso delle scarpe d’ordinanza, il cui colore era stato
fatto variare dal tabacco al verde fosforescente. «Lawson, appena
ti metto le mani addosso…» ringhiò.
La squadra sghignazzò a mezza voce. Non potevano permettersi di
farsi scappare ladro e ricettatore. Stavano dietro a quei due da troppo
tempo.
«Avanti» disse Potter, muovendosi rasente il caseggiato.
Si affacciarono in una stradina dove i passanti camminavano frettolosi
tra i lampioni e le auto in sosta. Sotto l’insegna di call
center, un tizio dall’aria anonima sedeva su una panchina. Il
puntolino rosso della sigaretta brillava a tratti, confondendosi nelle
dense boccate di fumo.
Attesero, cercando di non spintonarsi. Mandare l’indagine a monte
finendo a terra come sacchi di patate, sarebbe stato imbarazzante come
minimo.
L’uomo sulla panchina si guardava intorno.
«Spostati, David, non ci vedo» sbottò Francis, troppo arretrato per allungare la testa sulla strada.
«E che cavolo vuoi vedere?» ringhiò quello, scrollando la spalla su cui stava appoggiato di peso il collega.
«Di certo non la tua faccia o il tuo culone quando ricomparirai»
«Ma senti chi parla, signor Ossicini-saltellanti-e-pancia-da-Burrobirra!»
«Clabbert chiappone!»
«A chi, brutto…»
«Zitti. Tutti e due!» ordinò sottovoce Harry.
Odiava la parte del capo autoritario. Imporsi non faceva per lui,
passava da despota ottuso quando ci si metteva. Preferiva un sano
scambio di vedute, calmo e pacato. Lo trovava più produttivo,
oltre che in linea col suo carattere. Ma doveva ammettere che sentire
quei due ventottenni comportarsi come bambini dell’asilo era
troppo divertente e l’aiutava a non prendere troppo sul serio il
lavoro.
Occorse più di un’ora perché finalmente la
situazione subisse un mutamento. Erano passate le diciotto e tenta
sulle lancette del vecchio orologio a bordo strada. Dal call center
uscì un uomo. Difficile dire di dove, a quella distanza e nella
cupa serata londinese poteva essere thailandese, cinese o di
chissà quale altro paese asiatico. Andò incontro a quello
seduto che si alzò, ed insieme si allontanarono parlottando.
Ancora abbarbicati sullo spigolo dell’edificio, gli Auror attendevano.
Ed ecco, nella breve pausa tra un drappello di passanti e la chiusura
del negozio, un’ombra si addensò dietro la panchina
deserta. Era piccola ed incurvata sotto il peso di un fagotto
bitorzoluto.
«Non ci credo…» bofonchiò Ron, incerto sul tono da tenere.
Harry scosse il capo, emettendo un sospiro rassegnato. Era assurdo. Per
mesi erano stati sulle sue tracce senza individuarlo ed ora scoprivano
che il manigoldo che aveva abilmente saccheggiato l’attico del
fratello del Ministro della Magia era una loro vecchia conoscenza:
Mundungus Fletcher.
«Ma quanti anni ha?» chiese al cognato.
«Che ne so? Ottanta? Novanta?» ridacchiò Weasley,
più per esasperazione che altro. «Lo fermiamo?»
«Aspettate» fece Marvin. «C’è qualcun altro»
In effetti, dal fianco di Mundungus si era staccata un’altra figuretta.
«Oh, bene… adesso ha pure gli aiutanti!»
«Dai, Ron, ha un’età. L’hai detto anche
tu» sghignazzò Harry allungando a tentoni una mano nel
vuoto, cercando inutilmente di dargli una pacca sulle spalle.
Naso lungo, orecchie puntute quanto il mento, braccia nodose. Indossava
un abito che una volta doveva essere stato elegante. Guardando bene
capirono che non si trattava di una persona, bensì di un
folletto. Un ex-dipendente della Gringott per essere esatti: Unci-Unci.
Strano che quella canaglia si fosse data ai furti, lo facevano
più tipo da truffe. Quello che stupì la polizia magica
non fu tanto la bizzarra coppia che avevano adocchiato, quanto chi
apparve poco dopo. Non era il ricettatore, bensì il vero ladro.
Per una volta, Mundungus era l’acquirente, anche se questo non
sminuiva la sua posizione. Ed il malvivente era una vecchia conoscenza
degli Auror: Dimitri Miles,
ex-attendente di Kingsley Shacklebolt. Era stato licenziato in tronco
due anni prima, proprio perché scoperto a sottrarre manufatti
magici proibiti dal magazzino dei sequestri. Da allora si era vendicato
sottraendo i manufatti magici dalle case dei maghi più in vista.
«E così non perde il vizio, eh?» borbottò Marvin, facendo scrocchiare le nocche.
Quando avevano cercato di catturarlo mesi prima, Miles gli aveva rotto
il setto nasale e lui se l’era legata alla bacchetta. Il nuovo
profilo da pugile non gli piaceva per niente e sarebbero occorse
settimane per rimetterlo in sesto.
«Aspettiamo il passaggio» suggerì Harry, auspicando
che si dessero una mossa al più presto. «Ron, Francis,
David, andate dall’altro lato della strada e per l’amor del
cielo, non litigate! Nigel, Marvin, con me»
***
Harry si Materializzò
come d’abitudine nel parchetto davanti al numero dodici di
Grimmauld Place. Era l’unico posto abbastanza anonimo
perché eventuali passanti scegliessero di tirar dritto senza
dare un’occhiata. Di tanto in tanto, qualche giovane mago
bazzicava da quelle parti con occhi sognanti, in cerca della casa del Salvatore del mondo.
La vecchia dimora era visibile in pianta stabile e pareva che i vicini
non avessero dato peso al fatto che questa fosse cresciuta fra una
proprietà e l’altra, gonfiandosi come un palloncino.
I mattoni bruni della facciata lo fissavano di rimando, severi e corrucciati intorno alle finestre riquadrate di bianco.
Attraversò la strada deserta e superò i due gradini che
lo dividevano dall’ingresso. Entrò ed appese giacca e
sciarpa all’appendiabiti, stiracchiandosi. Il freddo di quel
pomeriggio d’inizio anno gli aveva indolenzito tutte le ossa,
comprese quelle che non ricordava di avere. Persino la spolverata di
peli che definiva barba, non senza una punta d’imbarazzo,
sembrava fatta di tanti spilli ghiacciati.
«Papà-papà-papà-papà-papà-papà!»
trillò allegramente una vocina, un po’ troppo fragorosa.
Subito l’Auror si volse alla sua sinistra. Le tende si aprirono
rivelando l’enorme ritratto di Walburga Black, i cui strepiti
superavano quelli del bimbo che gli correva incontro.
«Come osate disturbare la mia quiete! Voi, luridi Sanguesporco!
Abominio! Orrore! Sozzura! Chi credete d’essere per dimorare
nelle mia illustre magione! Malerba infetta!» tuonò.
Due rapidi incantesimi si abbatterono sul tessuto pesante e consunto,
richiudendolo quasi all’istante. La voce sguaiata filtrava a
malapena, comunque fastidiosa. Kreacher, apparso all’istante,
diede una lunga occhiata al padrone e al quadro, borbottando un
malinconico “Il signorino chiassoso non capisce che la padrona ha
le orecchie delicate”.
«Merlino, troverò il modo di farla tacere una volta per
tutte!» sibilò irata Ginny, scendendo le scale con Albus
in braccio.
Si teneva stretta alla balaustra, cercando di non incespicare
rovinosamente nei gradini, alcuni dei quali avevano preso la pessima
abitudine di aprirsi sotto il suo piede nei momenti meno opportuni.
Intanto Harry aveva sollevato da terra il piccolo James che faceva
pernacchie alla nobildonna e sfoggiava un nuovo, ennesimo bozzo sulla
fronte.
«E questo?» domandò al piccolo che rispose orgogliosamente:
«Bennottoto!»
«Bernoccolo» lo corresse.
«Bettottolo!» sghignazzò.
«Bernoccolo, Jamie» insisté.
«Bettattolo!» rise, prima di spalancare le braccine verso
di lui, facendosi improvvisamente triste. «Abacio!»
mugolò abbattuto.
Era il suo modo per chiedere attenzione e comprensione, specie dopo aver combinato un guaio.
«Sì, sì, ci vuole un abbraccio per
quest’ometto che ha già troppe ferite di guerra»
rispose accontentandolo.
«Il solito ruffiano. Vorrei tanto sapere da chi ha preso» fece la madre, aggiustando il bavaglino del secondogenito.
Il marito sorrise, una mezza idea l’aveva. Suo padre. Da quanto
aveva potuto apprendere, James Potter era stato un’autentica
peste, un vulcano di guai, che però aveva saputo farsi perdonare
ed amare da chi aveva intorno. Evidentemente certe eredità
saltavano un generazione, perché lui non era affatto così.
In punta di piedi scesero in cucina, dove la tavola era apparecchiata da un po’.
«Com’è andata la giornata?»
«Umida, noiosa e molto, molto fredda. Tipico inverno
londinese» concluse, aiutandola a sistemare i pargoli nei
rispettivi seggioloni.
«Non vuoi fare una doccia prima di mangiare?» chiese,
preparandosi ad una nuova battaglia col neonato in fase di svezzamento.
La crema di mais che aveva preparato avrebbe avuto un aspetto poco
appetitoso anche per un mannaro digiuno da settimane ed Albus era dello
stesso avviso.
«No, Gin, sto bene. Ho troppa fame e l’arrosto di Kreacher
lo preferisco ben caldo. La doccia la farò dopo, quando
avrò preso la temperatura che c’è qui dentro.
Diamine, si muore di freddo…» fece, tirando gli occhiali
sulla fronte prima di stropicciarsi gli occhi.
Il passaggio tra l’esterno e l’interno doveva essere stato
troppo rapido, non provava alcun miglioramento. Quella sera il consueto
tepore domestico sembrava essersi trasformato nel freddo appiccicoso di
un freezer. Oppure il gelo era penetrato fin dentro le ossa, molto
più di quanto immaginasse.
«Padrone, Kreacher ha cucinato anche la Minestra Scozzese*, che piace tanto a Padron Harry!» lo informò l’elfo, indicando la pentola sul fornello.
Il mestolo si librò nell’aria, mostrando il contenuto denso e fumante.
«Splendida idea, grazie. Ci voleva proprio»
L’elfo rispose con un gran sorriso sdentato, dirigendosi ai
fuochi. Le larghe orecchie sbattevano da un lato all’altro,
sempre più cadenti. Il tempo passava anche per lui.
«Harry, stai sudando. Non ti sarai preso qualche accidente,
vero?» lo sgridò Ginevra, quasi stesse parlando con un
figlio capriccioso.
Rimproveri preventivi, metodo ereditato dalla madre. Eredità che comprendeva il fatto che restassero inascoltati.
Lui rispose prendendo posto accanto a James, che giocava con un cucchiaio.
«Sto bene, fidati. Ho solo bisogno di mettere qualcosa nello
stomaco» la rassicurò, soffiando tra le dita per
scaldarle. «Marvin è messo sicuramente peggio di me:
è stato annaffiato da un furgone di passaggio mentre inseguivamo
i sospettati»
«Non m’interessa se Marvin ha la febbre a quaranta o la Spruzzolosi acuta,
non devi averla tu! Dopodomani c’è il compleanno di Jamie
e non ho intenzione di gestire una nidiata di bimbetti e di ospiti da
sola, mentre tu te ne stai beato sotto le coperte!» disse,
ripulendo Albus che aveva preso a sputacchiare ovunque la sua cena.
«Tatti guii a meee! Tatti guii a meee!» canticchiò
soddisfatto il bimbo, accompagnandosi fuori tempo con la posata che
minacciava di sfuggirgli di mano in direzione del fratellino.
«Tranquilla, Ginny. Sarò della partita» disse,
sfilando l’arma impropria al festeggiato. «E poi, che festa
sarebbe senza qualcuno dei nostri nipoti che mi scoccia alla nausea
perché racconti della guerra?» scherzò, prendendo
il piatto di zuppa che Kreacher gli porgeva.
Le labbra della donna si curvarono leggermente verso l’alto, mascherando una risata.
«Che bugiardo! Tu e Ron vi divertite come matti a fare tutte quelle scenette!»
«Beh, però non potrei mai permettere a tuo fratello di prendersi tutti i meriti…» obbiettò.
In quasi nove anni non c’era stata una sola occasione in cui quei
racconti fossero stati omessi: anniversari di matrimonio, promozioni al
lavoro, feste comandate, nascite. Soprattutto durante i compleanni dei
più piccoli. Prima con Teddy, poi Victoire, Molly, Fred,
Roxanne, Dominique, Lucy, Louis. Infine, James, Albus e Rose. A cui
andavano ancora aggiunti i due nasciuturi: il loro terzo figlio ed il
secondo di Ron, entrambi in arrivo nel tardo mese di maggio. Ogni volta
qualche piccolo ospite attaccava con “zio mi racconti” e
nel tempo di un Accio, la brigata era già riunita intorno per
ascoltare attenta. Per rendere tutto più divertente e meno
tetro, lui e Ron mettevano in piedi delle rievocazioni con
travestimenti improvvisati, che terminavano quasi sempre con la
cucciolata che saltava addosso al Voldemort di turno.
«Cos’è successo a James?» domandò
più tardi, quando gli occhi dei figli erano spalancati sul mondo
dei sogni.
La moglie scosse il capo, raccogliendo a colpi di bacchetta i balocchi sparsi ovunque.
«Giocava a rincorrere quel modellino di Firebolt che gli ha regalato Neville a Natale»
«Quel coso orrendo?» domandò perplesso.
Definire a quel modo un regalo di un caro amico era poco gentile, ma
dopo che quell’affare gli si era piantato in un ginocchio, tra le
costole e Merlino solo sapeva
in quanti altri posti, c’erano poche altre parole per
descriverlo. Senza contare che, a completarlo, c’era una figurina
altrettanto orripilante. Un omino gracile vestito di rosso e oro, con
capelli arruffati e grandi occhiali tenuti insieme con lo scotch. La
sua immagine da ragazzo.
Allungò la mano, accarezzando i pochi capelli già ribelli
di Albus. Aveva la strana sensazione che si sarebbero somigliati
moltissimo quando sarebbe cresciuto. Spesso si domandava se anche suo
padre aveva pensato quelle stesse cose guardandolo dormire nella loro
casa di Gordic’s Hollow.
«E come ha fatto a farsi quel bernoccolo? Colpo di ramazza in testa?» ipotizzò.
«Al solito: è inciampato»
Suo figlio era particolarmente soggetto a quel tipo di incidenti:
probabilmente nei suoi due anni era finito a faccia in giù
almeno un milione di volte. Nonostante ciò, non mostrava alcun
timore verso il mondo o l’autorità dei genitori. Se
esisteva un modo per divertirsi, possibilmente facendosi male e
disobbedendo alle regole imposte, James riusciva sempre a trovarlo. E
la dimora sembrava dargli una mano, Materializzando ostacoli davanti ai piedini troppo frettolosi.
«Su cosa?»
«Su una piastrella, che si è sollevata appena ci ha messo sopra il piede»
«Ancora?»
«Ancora?!?» sbottò spazientita. «Harry…
ho perso il conto delle volte in cui ho dovuto interrompere quel che
stavo facendo per medicare qualcuno, me compresa! Questa casa sta
andando a pezzi! Ogni giorno qualcosa si scheggia, si muove, si stacca,
si rompe, si sposta! Potremmo dire che è viva… Abbiamo
due bambini piccoli ed un terzo in arrivo. Non possiamo continuare
così»
Harry la seguì in camera da letto. Si sentiva esausto dopo
l’appostamento, ma ripeté a sé stesso di tener duro
ancora per un po’. Sapeva dove sarebbero andati a finire con quel
discorso, perché non era la prima volta che
l’affrontavano. Grimmauld Place, col passare dei mesi, stava
diventando una trappola per ogni suo abitante.
«Ginny, io l’avevo detto che avremmo potuto comprare una
casa nuova mentre questa sarebbe diventata un perfetto museo della
guerra come aveva suggerito la McGranitt, ma tu hai insistito
tanto… dicevi che ti piaceva vivere a Londra e che non era il
caso di spendere uno zellino per acquistare un’altra casa quando
l’avevamo già»
Prima del matrimonio, aveva tentato per mesi di farla desistere
dall’idea, senza alcun successo. Sfortunatamente, l’essere
cresciuta in ristrettezze economiche giocava un ruolo fondamentale
nelle idee della sposa. Idee che non venivano minimamente smosse dal
favoloso contenuto della camera di sicurezza dei Potter alla Gringott.
Inoltre, Ginevra adorava la capitale, ben più del minuscolo
paesino di campagna in cui era cresciuta.
Dal canto suo, Harry provava un misto di amore e odio verso quel
palazzo. La commistione di ricordi che associava a quegli ambienti era
troppo eterogenea per propendere da un lato o dall’altro della
bilancia.
«Mi piace ancora adesso. Sirius te l’ha lasciata
perché cancellassi il ricordo dei Black da queste mura. Voleva
venirci a vivere con te, creare una nuova famiglia. Una vera famiglia,
quella che lui non aveva mai sentito di avere e che a te era mancata
troppo presto. Me l’hai detto decine di volte. Harry, ero e sono
più che convinta che questa e non un’altra, sia casa
nostra! Anche se ci sta cadendo in testa» puntualizzò,
schivando rapida un pezzetto di intonaco che precipitava dal soffitto.
«Quell’estate, nei pochi giorni che sei rimasto qui con
noi, passavo le notti fissando il muro e ti immaginavo dall’altra
parte, mentre dormivi»
Le sfuggì un mezzo singhiozzo mentre passava la mano sulla
parete. Lui mise una mano sulla sua e l’abbracciò,
posandole un bacio tra i capelli.
«Non ho dormito molto in quel periodo. E purtroppo nemmeno ti
pensavo, ero troppo concentrato su me stesso e su quello che mi girava
intorno per accorgermi delle tue preoccupazioni. Dovevo avere la testa
davvero piena» si scusò cullandola.
«Già. Avevi un sacco di altri pensieri. Anche non
tuoi» sospirò la donna, sedendo sul letto con i pantaloni
del pigiama in mano. «Ma adesso tutti i nostri pensieri devono
andare alla famiglia che stiamo costruendo, la nostra famiglia! I
nostri bambini!»
«Se avessimo comprato quella villetta nuova di zecca nello
Shropshire, questi problemi non li avremmo avuti. Però Grimmauld
Place esercitava su di te un’attrazione incontenibile!»
insisté lui, tentando l’ennesima sortita.
«Va bene, va bene! È solo colpa mia se siamo a questo
punto! Mia e della mia fissazione per Grimmauld Place! Contento?»
rimbrottò offesa, infilandosi con un brivido sotto le coperte.
«Questo non toglie che io adori questo posto»
Scrollando le spalle, Harry finì di cambiarsi e si distese
accanto a lei. Mancavano giusto quei discorsi a dare una mano ai suoi
ormoni impazziti per la gravidanza. Cercò di avvicinarsi
cautamente a quella creatura rannicchiata sul fianco, che pareva decisa
a starsene lontano dietro le spesse coltri. Quasi gli veniva da ridere:
stava facendo un appostamento in casa propria, nella sua camera, nel
suo letto, a sua moglie! Era assurdo. Riuscì ad avvicinarla
incolume grazie al prezioso aiuto dei suoi istruttori, che durante gli
anni di Accademia gli avevano inculcato l’arte della pazienza.
Profondersi in baci e coccole servì però a ben poco:
nella penombra del talamo, il broncio risentito di Ginny splendeva come
il sole. Non aveva intenzione di cedere. E purtroppo, il signor Potter
sapeva cosa significava.
«E va bene, amore. Troveremo una soluzione per sistemare questa catapecchia…»
La gomitata che minacciò di rompergli una costola lo spinse a
correggere “catapecchia” con “casa”.
Per sua fortuna, il gesto colpì nel segno. Il malumore si
dissolse ed Harry si ritrovò con le braccia occupate dal corpo
dalla consorte, ora raggomitolata contro di lui.
«Potrei chiedere a Annie» propose, sorprendendosi di non aver pensato prima a quella soluzione.
«Annie Corgan? La Battitrice di quando giocavi nelle Harpies?»
«No! Annie, la moglie di Kingsley! L’anno scorso hanno fatto sistemare la casa dove abitano ora da un Archimago
molto famoso. Ti ricordi che sono andata a trovarli quando si sono
trasferiti a Drury Lane? Accidenti, non mi ricordo più come si
chiama quel tizio… È stato bravissimo, ha fatto un lavoro
splendido! Non sai quant’era bella! Luminosa, accogliente,
spaziosa, ordinata, elegante, si-cu-ra!» rimarcò.
«Non saprei, Ginny. Questa casa è molto vecchia, è
piena zeppa di incantesimi che probabilmente non possono essere
annullati, fatture pensate apposta per la sicurezza della “nobile
stirpe dei Black”… senza contare quelli che sono stati
aggiunti dai membri dell’Ordine. Ogni tanto quell’immagine
di Silente nell’ingresso salta fuori ancora!»
«Già. James si diverte un mondo a fargli le boccacce!»
«Temo ci si impiegherebbe meno a buttarla giù e rifarla
daccapo, che non a sistemarla così com’è»
mormorò, suscitando uno sbuffo risentito della consorte.
«Su, Harry. Lasciami provare. Informarsi non costa nulla»
Tipica argomentazione da Weasley da non controbattere in alcun caso.
Arreso e sconfitto, Harry levò lo sguardo sul soffitto
sospirando. Ginny alzò la testa, aspettandosi di vederlo
rincorrere sfuggenti alternative, invece stava sorridendo.
«Ogni volta che mi chiedi di lasciarti provare a fare qualcosa mi lasci a bocca aperta. Letteralmente»
Aveva un elenco di prove a supporto della sua tesi tanto lungo da raggiungere Hogwarts.
«È un sì?»
Piegò la testa per guardarla meglio e le passò una mano fra i capelli, annuendo.
«Sì, signora Potter, è un sì. Stupiscimi ancora»
*Minestra Scozzese: zuppa di verdura con orzo, uova e panna fresca.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 2 *** Tavola 2 - Rilievo ***
Tav. 2 - Rilievo
«Affofa, fenfaffe fe affeffefà?»
Harry aggrottò la fronte, dietro il lieve vapore del the che stava sorseggiando.
«Ron, smettila di parlare con la bocca piena, poi i bambini ti
imitano!» lo riprese Ginny, allungandogli uno schiaffo sulla nuca.
Il fratello mandò giù il boccone di brioche, facendo una
buffa smorfia. Albus, in braccio al padre, lo fissava facendo bollicine
di saliva mentre James assestava un morso troppo grande al suo dolce.
«Dicevo… pensate che accetterà il lavoro questo
Goldstein?» tossicchiò, cercando sollievo nella tazza di
infuso che gli fluttuava accanto.
«Beh, Kingsley gli ha mandato la lettera solo due giorni fa. Mi
ha anche detto che è difficile avere un contatto perché
è un tipo impegnato. Pare che i suoi servigi siano molto
richiesti» rispose il cognato, cercando di liberare il
disgraziato croissant dalla boccuccia famelica del figlio.
«Hermione dice che ha lavorato anche per il furetto. L’ha letto su Strega Oggi» buttò lì con indifferenza, allungandosi con malagrazia sulla poltrona.
«Per Malfoy? Ginny hai sentito?»
La domanda aveva duplice significato: riguardava l’informazione
appena ricevuta ed il suono molliccio prodotto dal sederino del pupo
che teneva in grembo.
«Sì, lo sapevo» rispose prendendo in braccio Albus,
che aveva urgente necessità di essere cambiato. «Annie me
l’aveva accennato. Sembra che la scorsa primavera abbia dato una
bella rinfrescata al pied à terre che il nostro carissimo
compagno di scuola ha ad Edinburgo. Giusto in tempo per la nascita di
suo figlio. Proprio non capisco perché far partorire sua moglie
in Scozia…»
Il sottinteso restava lampante: figlio nuovo, casa nuova. Harry avrebbe voluto fingere di non averlo colto.
«Ora ti tocca competere con quello là anche a
distanza» ghignò Ron, ricordando la lunga inimicizia tra
Harry ed il pallido Purosangue. «Lui ha fatto mettere a posto
quattro stanze, tu un palazzo intero! Scommetto che quando avrà
la notizia gli andrà tutto di traverso. È invidioso come
pochi, quella serpe!»
«Fatti suoi, non ho intenzione di competere proprio con nessuno.
E poi, ancora non sappiamo se Goldstein accetterà. Potrebbe
avere clienti migliori di noi»
Quando Ron spalancò le braccia esterrefatto, il the
traboccò dalla tazzina sul pavimento e sul vecchio tappeto
damascato.
«Migliori del Bambino Sopravvissuto? Di Colui-che-ha-sconfitto-tu-sai-chi?
Miseriaccia, Harry, fammi il piacere! Te lo dico io, quello farà
carte false per accontentarti. E magari vi farà pure un bello
sconto» sbottò l’Auror spostando la tazzina che
beccheggiava ormai vuota per ammirare il laghetto dorato che si
allargava in direzione di un paio di pantofole delle Holyhead Harpies.
La proprietaria era contrariata, a giudicare dal battere cadenzato di
una suola. Per fortuna era solo un po’ d’acqua colorata,
sarebbe bastato asciugare.
«Guarda che disastro hai fatto, Ron! Esseca! E comunque, pagheremo tutto quel che occorrerà per rimettere a posto questa casa»
Ad Harry suonò molto strana quella frase in bocca a sua moglie e
decise di attribuire la cosa al suo stato di gestante. Probabilmente
più tardi si sarebbe rimangiata tutto, asserendo che riuscire ad
ottenere un ribasso del prezzo sarebbe stato non solo utile ma doveroso.
Udirono un ticchettio ritmato provenire dalla strada. Si voltarono e
videro una mascherina tonda e candida a pochi centimetri dalla finestra
del soggiorno. Un elegante barbagianni picchiettava col becco adunco
sul vetro.
Ginny andò ad aprire, seguita da James.
«Cejino! Cejino! Veni cejino!» esclamò, tendendo in alto le mani per afferrarlo.
Il barbagianni non si degnò d’allungare il collo per
scoprire da dove venisse tanto trambusto. Rimase immobile, la zampa
protesa in avanti in attesa che qualcuno slegasse la missiva che
portava.
«No, tesoro, non puoi giocarci. Quest’animale non è nostro e non è neppure Leotordo!»
Il povero gufetto di Ron era stato scambiato dal bambino per un Boccino
ed inseguito come tale fino allo sfinimento. Per la prima volta in
tanti anni, qualcuno aveva trovato il modo di zittirlo.
«Vojo!» piagnucolò James pestando i piedi.
«No, Jamie! E vai a chiedere a papà perché non puoi
averlo» lo incitò, indicando la strada col braccio.
Il bimbo guardò il genitore seduto sul divano all’altro
capo della stanza con fare accusatorio. Suo padre che gli proibiva di
avere un giocattolo nuovo, arrivato apposta per farlo divertire, era
per lui inconcepibile.
«Vojo cejino!»
Harry tese le braccia e lui vi corse in mezzo, in cerca di coccole.
«Jamie, quel portalettere appartiene ad un altro mago. Deve
andare a casa sua, non puoi tenerlo. E le cose degli altri non si
prendono. Te l’avevo spiegato, vero?»
«Papà, io vojo…» piagnucolò, cercando di intenerirlo.
Gli occhi castani del bimbo erano talmente simili a quelli di Ginevra
che per lui era difficile resistere. Avrebbe voluto accontentarlo, pur
sapendo di sbagliare.
«Ah, ma che devo fare con te?» chiese, trasfigurando un cuscino in un piccolo barbagianni di pezza.
Tutt’altro che soddisfatto, il piccolo sedette sul sofà
col finto rapace. Di tanto in tanto lanciava occhiate furtive a quello
vero, appollaiato sul davanzale.
Nel frattempo, la madre armeggiava con la lettera. Sulla busta, un elegante svolazzo color seppia riportava le iniziali C. G.
«Cosa dice?» s’informò Ron, addentando un’altra brioche.
Londra, 7 gennaio 2006
Alla cortese attenzione dei Signori Potter
In riferimento alla missiva
inviatami dal Ministro della Magia, Signor Kingsley Shacklebolt, e
stimata consorte, sono a comunicare il mio interessamento a quanto
indicato. Al fine di poter comprendere appieno le Vostre
necessità ed onde approfondire le questioni squisitamente
tecniche che si pongono alla base dell’opera, suggerisco un
incontro conoscitivo in data 13 c.m., ore 17:00, presso la Vostra
abitazione.
Per comunicazioni di qualsivoglia natura da parte Vostra, il mio messaggero provvederà tempestivamente al loro recapito.
Colgo l’occasione per porgere distinti saluti,
C. Goldstein
«Davvero molto professionale!» fece Ginny, dopo aver letto ad alta voce.
Era piacevolmente colpita dal tono distaccato e compito, in linea con i racconti di Annie e Kingsley.
«Sì, certo. Sembra uno Yeti! È gelido… manca solo che esca neve dalla busta»
«Neve! Neve! Dammi! Io! Io!»
James era balzato a terra e saltellava ai piedi della madre puntando
alla busta, sperando facesse la magia detta dallo zio. Ottenne la
lettera proprio con l’aiuto dell’uomo, il quale si
limitò a guardarlo sbattere il pezzo di carta nell’attesa
che apparisse qualche fiocco bianco.
«Mi sembra un buon inizio dato che ha chiesto un incontro per
valutare il da farsi» disse lei, allungando il biglietto al
marito.
Ron non sembrava affatto convinto.
«Ne sei sicura, sorellina? A me sembra che anticipi un disastro»
«La casa non è messa così male. Certo, domani
è il compleanno di Jamie, ma io Kreacher sapremo risistemarla
per tempo» ribatté, sperando in cuor suo di riuscirci.
«Non parlavo di quello. Hai notato niente?» chiese, sporgendosi verso l’amico ed indicando lo scritto.
Senza capire, Harry tornò ad esaminarlo, provando una gran
invidia per quella calligrafia pulita e filante, frutto -sperava- di
una penna autoscrivente.
«Tanto è inutile che mi scervelli, vero? Stai morendo
dalla voglia di dirmelo» rispose sistemando meglio il neonato che
cominciava ad agitarsi.
«Mah… non saprei…»
«Ron spicciati, devo cambiare Al!» l’aggredì.
Il furbastro si guardava bene dall’assumersi l’onere del
fasciatoio. Hermione gliel’aveva detto, per cui sapeva bene non
aveva la minima idea di cosa si stesse preparando per lei in quella
tutina verde.
«Mamma, Abbu pussa!» osservò James storcendo il naso schifato.
«Lo so, Jamie, grazie per avercelo fatto notare. Allora?» sbraitò.
«Tu non…?» chiese rivolgendosi questa volta ad Harry.
«No»
«La data dell’incontro» suggerì.
«E quindi?» incalzò Ginny, sempre più esasperata.
«Bella ricorrenza, vero?» ammiccò il cognato, incurante del rossore iracondo della sorella.
Ad un tratto, Harry si lasciò cade indietro, coprendosi la faccia con le mani.
«Oh, Merlino…» esclamò fra le dita.
Aveva capito di cosa parlava Ron. Certe date erano indelebili nella sua mente.
«Cosa? Cosa, Harry?»
«Il tredici gennaio… ricordi cos’è successo il tredici gennaio del Novantasei?»
«No, e piantatela di fare i misteriosi, ho fretta! Sì,
sì, Al, adesso questi parlano o li affatturo! No…
no… non piangere. Insomma! Cos’è successo?»
li incalzò spazientita, col piccolo ormai alle lacrime.
«I Mangiamorte fuggirono da Azkaban. Quel giorno saranno trascorsi dieci anni esatti!»
«Bellatrix Lestrange, Rodolphus e Rabastan Lestrange, Antonin
Dolohov,… Pessima scelta di data, pessima»
evidenziò Ron, sogghignando alla schiena della donna che si
allontanava scuotendo la chioma rossa.
«Siete due bambini…» ringhiò andandosene.
I due attesero di vederla sparire oltre lo stipite prima di lasciarsi
andare ad una sonora risata. Una voce severa li richiamò
all’ordine.
«Harry, sbrigati! Scrivi a Goldstein che va bene, e segnati in
agenda che venerdì non dovrai avere inseguimenti, appostamenti,
arresti o simili! Abbiamo un impegno a cui non devi mancare»
urlò dalle scale.
«Come se potessi deciderlo io…» borbottò appellando penna e inchiostro.
«Ti ho sentito!»
***
«Chi credi che sia?» domandò Harry, scostando appena la tenda.
Nell’umida pozza di luce di un lampione c’era una donna,
che scriveva fitto su un voluminoso blocco per appunti. Difficile
pensare si trattasse di qualche studentessa Babbana o di una turista
che si era persa: puntava dritta al dodici di Grimmauld Place.
«Non so, gira qui intorno da almeno un’ora. Forse è
l’assistente di Goldstein» rispose Ginny, sporgendosi a sua
volta.
Non ricordava se Annie le avesse parlato di assistenti o segretarie, ma
a quel punto, quando mancavano dieci minuti all’ora
dell’incontro, poteva anche essere. Se davvero l’Archimago
era così impegnato come lo dipingevano, poteva aver avuto un
qualche contrattempo ed aver inviato un membro del suo staff per
parlare ai nuovi clienti.
«Kreacher, per favore, prendi i bambini e portali in cameretta. Non ci vorrà molto» disse lei.
L’elfo prese il più piccolo fra le braccia e diede
un’occhiata sdegnosa al maggiore. La sua fiducia in quella
creaturina era prossima allo zero e Ginevra lo sapeva.
«Per favore, Kreacher… farà il bravo, vero Jamie?»
«Tì» promise, annuendo allegramente alla madre, ma il servitore non concordava.
«Anche Padron Sirius diceva così a Kreacher e poi…
povero Kreacher!» mugolò offeso, ma guardando il piccino
che tentava di afferragli il naso sorrise: «Per fortuna è
nato Padron Regulus, come è nato Padron Albus!» e si
avviò zoppicando su per la scalinata di legno.
Non Smaterializzava mai i
bambini, sapeva che poteva essere pericoloso. Gliel’aveva
proibito la signora Black decenni prima, quando aveva quasi Spaccato il
penultimo degli eredi della casata. E pensare che in seguito la megera
aveva rimpianto che non l’avesse fatto sul serio…
«Sarà più semplice rimuovere la memoria dei Black
da questa casa che dalla sua testa!» sospirò Harry.
In quel momento, bussarono alla porta. In anticipo di cinque minuti. Se non era un buon segno quello!
Oltre la soglia, avvolta in un lungo mantello, stava la donna di poco
prima. I capelli castano chiari erano raccolti in una severa crocchia
sulla nuca, che ad Harry ricordò quella della professoressa
McGranitt. Ma chi gli stava davanti non aveva certo la stessa
età della sua insegnante di Trasfigurazione: era molto
più giovane, avrebbe potuto essere una loro coetanea.
«Il signor Potter, presumo?» domandò lei, dietro un paio di lenti rettangolari.
«Sì, lei è…?»
«Goldstein, molto lieta» rispose, tendendo la mano.
Lui la strinse deciso.
«Piacere. E… suo marito dov’è?» chiese, frugando la via deserta con lo sguardo.
Gli occhi bruni superarono la sottile montatura degli occhiali, squadrandolo indispettita.
«Mio marito?»
«Fratello?» tentò di nuovo, ma al suo sguardo sempre più contrariato, iniziò: «L’Archima…» mordendosi la lingua un secondo dopo, quando realizzò la gaffe. «Lei è l’Archimago?!?»
«Preferirei Archimaga se non le spiace, signor Potter»
«S-sì, certo. M-mi scusi. Vuole entrare?» la
invitò, dandosi del cretino e maledicendo una certa coppia per
non averli avvertiti di come stavano le cose.
La Goldstein era quanto di più lontano avessero immaginato. Dai
racconti degli Shacklebolt era emersa una figura carismatica,
competente, arguta, fantasiosa senza eccedere, culturalmente elevata, a
tratti indisponente. La figura di un uomo. Ed era quella figura che si
aspettavano d’incontrare, non una signorina in tailleur indaco e
avorio che sedeva composta sul divano del soggiorno.
«È un errore in cui cadono parecchie persone. Sono poche le Archimaghe in circolazione. Meno ancora quelle che possano vantare un nome conosciuto» spiegò.
Sembrava che la cosa la disturbasse nonostante il tono vagamente
rassegnato. Ginny condivideva: al suo posto si sarebbe offesa a morte.
In molti settori del mondo magico c’erano ancora troppi maghi a
comandare e poche streghe a farsi valere. Persino nel Quidditch le
giocatrici venivano considerate brave ma su un piano inferiore rispetto
agli uomini e lei non l’aveva mai tollerato. Questa cosa
suscitò in lei un’immediata simpatia per la progettista.
«Suppongo vogliate vedere le mie referenze, prima di intavolare
una qualunque discussione» propose, porgendo loro quello che
sembrava essere un piccolo album di fotografie.
Dentro, una raccolta di lavori piuttosto considerevole. Si andava da
alcuni negozi alla casa del Ministro, passando per architetture meno
pretenziose, giardini e, ovviamente, per la dimora scozzese dei Malfoy.
«Col cavolo delle quattro stanze, Ron…» pensò
Harry osservando un grande atrio a due livelli su cui affacciavano non
meno di una decina di porte di quercia, disposte nel candore dei muri.
La luce si diffondeva da un lucernaio a cupola fin sulle scale in ferro
battuto che congiungevano i due piani, disegnando una leggiadra
curva nell’aria.
Per diversi minuti i coniugi Potter fecero scorrere quelle istantanee,
che parlavano di uno stile sobrio ed elegante, di cura nei dettagli e
attenzione alle necessità del cliente. Era impossibile trovare
due elementi uguali in due distinti progetti: erano tutte creazioni
personali e personalizzate, al pari di gioielli.
«Da quanto tempo esercita, signorina Goldstein?»
s’informò la giornalista sportiva, ormai avvezza a quel
tipo di domande.
«Una decina d’anni. Sei da libera professionista»
«Solo sei anni?»
«Ritiene siano insufficienti a fare di me una figura accreditata?»
«Più che altro, direi che sono pochi in rapporto a quanto
ha realizzato. Dev’essere veramente molto brava se è
riuscita ad ottenere tutte queste commissioni!»
Dietro al cenno di ringraziamento che fece, il padrone di casa lesse un
tacito invito a proseguire la conversazione su temi più
stringenti. Dopotutto, aveva chiesto quell’incontro per valutare
la situazione.
«Signorina Goldstein, potrei sapere cosa le ha detto esattamente il Ministro per convincerla a venire qui?»
In risposta, lei prese una pergamena dalla cartelletta e la
mostrò loro. Kingsley spiegava che la casa aveva bisogno di
essere rimessa a nuovo, cancellando l’impronta dei precedenti
proprietari e rendendola adatta alla presenza di bambini molto piccoli
che, in quel momento, correvano ogni sorta di pericoli.
«Mi rendo conto che stiamo parlando di un edificio storico, in
pieno centro Babbano per giunta. Un palazzo sicuramente poco malleabile
ed incline alle bizze da quel che mi pare di capire…»
«Non ne ha idea!» esclamò Ginny spazientita.
Giusto la sera prima aveva sbattuto la schiena contro una porta che
aveva deciso di chiudersi prima che lei finisse di attraversarla. Al
quarto mese inoltrato di gravidanza era tutto fuorché salutare.
«… e quindi le operazioni di ristrutturazione potrebbero risultare alquanto invasive, ma…»
«Scusi, cosa intende per invasive?» la fermò Harry, incuriosito dal termine.
L’Archimaga aggiustò gli occhiali sul viso.
«Vede, signor Potter, talvolta è necessario utilizzare le
maniere forti per farsi dar retta da questi vecchi muri. I costruttori
del passato erano usi intessere incantesimi di vario genere
direttamente entro le pareti. Formule orali, pozioni, addirittura
l’impiego di creature magiche debitamente soggiogate. Questi
incantesimi erano il risultato di conoscenze empiriche, spesso
instabili o soggetti al deperimento. Questi sono piuttosto semplici da
eliminare. Se invece si tratta di incantesimi erano ben articolati,
accade che col trascorrere del tempo divengano inscindibili dalla
materia stessa. Sovente si tratta di incantesimi protettivi o
anti-intrusione. A quel punto, voi capite, le misure da attuare devono
necessariamente essere drastiche»
Aveva accompagnato la spiegazione con gesti calmi ed eloquenti, che
mettevano in risalto la sua profonda conoscenza delle tecniche
costruttive.
«Quindi parla di… demolire qualcosa?»
«È possibile»
«Quanto, per l’esattezza?»
«Non glielo posso ancora dire, prima dovrei farmi un’idea della struttura in questione»
L’Auror si augurava che l’Archimaga
scoprisse un disastro totale, che alzasse le mani profondendosi in
scuse perché impossibilitata ad operare per un qualsiasi motivo,
tanto da convincere l’adorata mogliettina che la cosa migliore
fosse comprar casa altrove. Giusto il giorno prima aveva visto una
bella villa dalle parti di Chilton Trinity, nel Somerset.
L’idea della campagna fuori dalla finestra lo attraeva. Pensava a
quando da bambino, chiuso nel ripostiglio, fantasticava di lunghissime
gite in bicicletta o passeggiate nei campi col sole sulla faccia. Anche
Londra era bellissima, inutile negarlo, ma vederla dalle stanze di
quella casa talvolta la rendeva deprimente.
Pensava a quello, mentre insieme alla moglie mostrava il palazzo all’Archimaga.
Avevano cominciato dal seminterrato, dov’era la cucina e la
“stanza” di Kreacher, per risalire, un piano via
l’altro, fino all’attico, dov’erano le camere
da letto di Sirius e Regulus. Nessuno le aveva toccate in quegli anni e
dallo spesso strato di polvere che ricopriva ogni cosa era difficile
credere il contrario.
I coniugi Potter sbirciavano furtivi la donna, che seguitava a scrivere
fitto sul blocco. A Ginny faceva venire in mente Demetra Spices, la
segretaria di redazione, sempre intenta a stendere pergamene di appunti
per tutti i giornalisti di Quidditch Week.
La differenza stava nel fatto che l’impiegata utilizzasse una
penna incantata, mentre il tecnico annotava di proprio pugno ogni dato,
incantesimo e considerazione.
La udirono mormorare più volte Incanto Motis, Saltarina, Duro, Adesio Major
e altre fatture, alcune delle quali mai udite prima. Come riuscisse a
scoprirle o riconoscerle, era un mistero: procedeva senza ricorrere
alla bacchetta, osservando e tastando pareti, porte, corrimani,
pavimenti e quant’altro trovasse interessante.
Le raccontarono ogni necessità, ogni desiderio, ogni suggestione
venisse loro in mente, anche la più banale o astrusa. La stessa
Goldstein li aveva sollecitati in quel senso. A sua volta, lei aveva
posto domande di vario genere, dagli hobby al tipo di frequentazioni,
alle preferenze per materiali, stili o temi (in particolare per i
bambini). Aveva chiesto persino da quanti elfi domestici era composta
la servitù, spiegando che i loro spostamenti seguivano percorsi
chiamati “correnti spiraglio”, che potevano indebolire i
sortilegi costruttivi. Maggiore era il numero di elfi, più alta
era la probabilità di rendere instabile l’edificio.
«Qual è il suo responso?»
«Da quanto ho potuto vedere» disse la Goldstein,
riesaminando con attenzione gli appunti, «potrei dire che la
situazione è piuttosto promettente»
«Promettente?» chiese perplesso Harry.
Era proprio una delle parole che sperava di non sentirle pronunciare, dannazione.
«Sì. Ammetto che ci sono alcuni elementi che fanno
ipotizzare dei problemi, come gli oggetti adesi in modo permanente o la
scala, certamente affatturata con un incantesimo errato, ma nel
complesso l’edificio pare prestarsi bene ad una
ristrutturazione»
Il sorriso radioso di Ginevra assestò il colpo definitivo alle
speranze di Harry di trasferirsi in prossimità delle coste del
Canale di Bristol. I campi del South West si dissolsero, insieme alla
villetta.
«Ha già qualche idea? Perché, le dico subito,
l’atrio che ha realizzato dal Ministro è meraviglioso!
Credo che starebbe benissimo anche…» esordì la
donna, già lanciata in labirinti di stanze piene di sole e
colori vivaci.
«No»
La risposta dell’Archimaga fu dura da incassare come un Bolide in pieno stomaco.
«Come?»
«Ho detto no. Mi rifiuto di replicare quello che ho creato per un
altro cliente, in un altro contesto. Ogni progetto ha una storia a
sé, vive in ragione dei proprietari, delle loro richieste,
dell’ambiente circostante, della storia che lo permea. Riproporre
quello spazio a casa vostra sarebbe un’indegna mancanza, una
banale copia che anche la più scadente Fattucchiera saprebbe
fare. No, signora Potter. Nessun pedissequo Gemino» concluse
perentoria.
«Ma allora… cosa farà?»
«Datemi una settimana e preparerò un paio di ipotesi.
Quando avrete stabilito quale delle mie proposte si adatta maggiormente
ai vostri desideri, procederemo»
Eccoci alla seconda tavola di questo progetto.
E, di conseguenza, cominciamo con i primi ringraziamenti. Grazie ad aurora03, ginyullil, niettolina, Shenhazai, tappetta e _Lety_ che hanno inserito questa fic tra le Seguite. Grazie a data81, ginny74 e leloale che invece l'hanno inserita tra le Preferite.
Spero abbiate tutti quanti voglia di farmi conoscere i vostri pareri! Sono molto curiosa.
Per Foolfetta: Mi sono sempre
chiesta dove Harry avesse costruito la sua famiglia insieme a Ginny e
Grimmauld Place, per quanto tetra e decadente, è stata il dono
di Sirius. Sì, nelle mie idee, Hugo e Lily sono gli ultimi
nipotini di Molly.
Per Ginyullil: La prendo come un asfida. Chissà se riuscirò a vincere...
Per Circe: Siamo abituati a
vedere Harry e Ginny fermi agli anni di Hogwarts, o in mirabolanti
avventure al fianco della nuova generazione. A me interessava vederli
alle prese con vicende meno eclatanti, al fianco degli amici di tutti i
giorni. E, come hai potuto vedere, Ginny può contare sull'aiuto
(più o meno affettuoso) di Kreacher per la gestione della casa.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 3 *** Tavola 3 - Studio di fattibilità ***
Tavola 3 - Studio di fattibilità
Un Ron claudicante
entrò al Paiolo Magico. Era esausto e non vedeva l’ora di
mettere qualcosa sotto i denti. Fosse stato anche solo un piatto vuoto,
l’avrebbe divorato. Nigel, David e Marvin dietro di lui erano
altrettanto pesti e sfiniti. Dopo la missione notturna, la prospettiva
di una buona giornata stentava a concretizzarsi. Si diressero al tavolo
che Tom destinava loro abitualmente e, con grande sorpresa, lo
trovarono occupato dalla signora e signorina Weasley. Il volto
dell’Auror s’illuminò mentre le raggiungeva zoppicando.
«Ron! Che ti è successo?»
«Niente, niente. Ehi, patatolina di papà!
Hai portato mamma a farmi una sorpresa? Ma che brava la mia
streghina!» disse sollevando in aria la piccola che
cominciò a sgambettare allegra.
«Ron…»
«Sto bene, è solo una distorsione»
Hermione diede uno sguardo preoccupato ai colleghi del
marito che prendevano posto lamentandosi. Tutti e tre fecero segno che
le cose stavano come aveva detto. Affatto rincuorata, gli tirò
la mantella per convincerlo a sedere. Obbediente, il marito si
lasciò andare sulla sedia al suo fianco, allungandosi per
baciarla, ma una mano sulle sue labbra lo fermò.
«È whisky quello che sento?» domandò la donna, piuttosto seccata.
«Per la miseria, Herm, è solo un goccio. Il brindisi di fine caso, è tradizione!»
«Tradizione un corno! Lo sai che non devi bere
quando hai in braccio la bambina!» obbiettò, prendendo in
grembo Rose.
«Non è perché prendo in braccio
Rose, è perché bacio te! E tu non puoi bere whisky, cara la mia
astemia temporanea» fece lui, alludendo con perfidia alla dieta
della gravidanza. «Se avessi saputo che vi avrei trovate qui mi
sarei lavato i denti, ma avete voluto farmi una…» e
s’interruppe di colpo. «Tesoro... tutto… a
posto?»
La donna sorrise. Hermione aveva deciso di farsi
visitare da un normalissimo ginecologo oltre che dai guaritori del San
Mungo. Aveva convinto anche Ginny ad imitarla, se non
altro per orientare le scelte dei nomi e dei colori dei corredini.
«Tutto a posto» ripeté. «Il piccolo di casa saluta tanto il suo papà. O quel
che ne resta»
«Andiamo, non sono… piccolo? V-vuoi dire… maschio?!? È… è un maschio?!?»
La faccia incredula di Ron scatenò un tenero risolino della bimba.
«Maschio» confermò pacifica. «Finalmente ha deciso di farci sapere chi è»
Nelle due precedenti ecografie, il medico non era stato
in grado di dire nulla riguardo al sesso del nascituro, che teneva
ostinatamente le manine sul bassoventre. Ora però, pareva aver
cambiato idea.
Weasley balzò in piedi, riaccasciandosi subito dopo. La fitta alla caviglia non gli tolse il sorriso.
«Ragazzi, offro un giro! Avete sentito? È un maschio! Maschio! Tom, porta una bottiglia di Ogden!»
«Non ci pensare neanche!» tuonò la
moglie, ma lui non la sentiva: la gioia procuratagli dalla notizia
l’aveva reso sordo alle sue proteste.
«Aspetta almeno che arrivi Harry! A proposito, dov’è?»
«Infermeria» rispose spiccio Nigel.
«È ferito?»
«No, beh, sta bene. È andato ad accompagnare Lawson, cioé... lui sì che è messo male»
«Lui? Non l’Unicorno?» sghignazzò perfido David.
Proprio non riusciva a non punzecchiare l’altro, anche in sua assenza.
«Unicorno?»
La strega non era al corrente dell’operazione cui suo marito aveva preso parte.
«Beh, non potremmo parlare del caso, sai
com’è. Atti secretati» disse Ron con aria misteriosa
mentre, incurante del divieto uxorio, serviva ai colleghi un po’
di liquore. «Comunque, visto che c’è il tuo settore
ministeriale di mezzo… siamo andati a fare un controllo ieri
sera. Una soffiata sul contrabbando creature magiche. Unicorni per lo
più»
«Santo cielo, il contrabbando di unicorni
è vietato da secoli!» esclamò lei, rammentando la
pila infinita di leggi e decreti a riguardo e le pesantissime sanzioni
previste.
«Sì, okay amore. È vietatissimo, lo
sappiamo. Nei giorni scorsi Francis ha preso contatti, facendosi
passare per un compratore e noi l’abbiamo seguito…»
«Vorrei tanto sapere come c’è
riuscito, quel buffone…» domandò Marvin, versando
il secondo giro di whisky sotto lo sguardo irato di Hermione.
«Ehi, sto parlando io! Dicevo. Ad affare quasi
concluso siamo saltati fuori, ma i contrabbandieri erano in gamba
e…»
«Tutti danesi» intervenne Nigel.
«Insomma! Insomma, cominciamo a duellare. Schiantesimi, Deflagranti, Bombarde,…» ma la donna proruppe in un singulto strozzato per lo spavento.
«Oh, Merlino!»
«Non finisco più se continuate ad
interrompermi tutti quanti!» sbottò Ron, battendo un pugno
sul tavolo per ribadire il suo ruolo di narratore.
«Dunque… Duelliamo come pazzi e, nella fuga, quelli
liberano uno stallone che ha la bella pensata di caricare il primo
malcapitato che ha davanti»
Fece una pausa, aspettando che la consorte concludesse, ma quella lo fissava in attesa del proseguo.
«Francis!»
«Oh, certo. Francis. E… come sta?»
«Grazie per l’interessamento, sembro Semitrasfigurato in un panda» rispose una voce impastata.
Lawson era appena entrato traballando nella sala. Sotto
la scomposta zazzera bionda si scorgeva un occhio nero e semichiuso
nonostante l’unguento. Le lesioni da creatura magica impiegavano
parecchio tempo per guarire, anche se lievi.
«Mi sono spostato appena in tempo per non finire
incornato, ma quella bestiaccia ha scalciato. Il medimago dice che se
non mi ha sfondato la testa è solo perché m’ha
preso di striscio» spiegò, ancorandosi al tavolo nel
tentativo di raggiungere indenne la sedia.
I capogiri lo stavano uccidendo.
«Che peccato…» sibilò David.
«Per l’unicorno, dico. Poteva vantarsi con il branco di
aver spaccato la testa ad un Auror»
«Si sarebbe azzoppato, con la zucca dura che si
ritrova Law!» e Marvin esplose in una sonora risata, seguito
dagli altri.
«Ah, piantatela! Non me l’ha rotta, ma fa male lo stesso!» mugolò, tenendo il capo fra le mani.
«Dove hai lasciato Harry?» chiese Ron, guardando intorno mentre gli allungava il cordiale.
«Uh? Era dietro di me… starà parlando con Tom. Che si festeggia?»
«Mio figlio!»
Tutti attendevano un qualche battuta, ma Francis era
talmente frastornato che tacque, ingollando d’un fiato il
contenuto del bicchiere.
«Che fai qui?» chiese qualcuno dalla porta.
Harry li aveva raggiunti, tampinato dall’oste pronto per le ordinazioni, e fissava accigliato in direzione dell’Auror.
«Capo, siamo arrivati insieme, se te lo fossi scordato» osservò dolorante.
«No, scusami, non dicevo a te. Parlavo con lui» e indicò alle sue spalle.
Sul corrimano delle scale era appollaiato un
barbagianni. Alla zampa portava una lettera. Harry gli fece cenno di
avvicinarsi e l’animale, con due eleganti passi laterali, si
portò al limite del posatoio prima di planare sul tavolo.
«Lo conosci?» fece Nigel, allontanandosi un poco con la sedia.
Non aveva grossa simpatia per quei postini: uno gli aveva quasi cavato un occhio quand’era bambino.
«È Palladio. È dell’Archimaga»
Rose lo osservava con grande interesse e timore.
Probabilmente qualcosa nella testolina ricciuta le diceva fosse in
qualche modo imparentato con Leotordo.
«Cì-cì-cì» chiamò, indicandolo timidamente col dito.
«Sì, piccolina, è l’uccellino portalettere» confermò la madre.
«‘ao! ‘ao!» salutò educatamente lei con la manina.
Palladio rimase immobile, passando in rassegna con
sdegnoso contegno i presenti frattanto che il destinatario leggeva la
missiva.
«Problemi?» domandò Ron, sbocconcellando una fetta di pane.
«No. Voleva comunicarmi che sta completando lo
sblocco magico dell’attico in anticipo di due giorni sul
programma»
«Soddisfatto d’aver dato retta a mia cognata?» lo stuzzicò Hermione.
Sapeva che quella faccenda non lo aveva convinto del tutto.
«Cosa posso dire? Abbiamo fatto bene ad affidarle
i lavori. È in gamba, si vede. Ha molta esperienza per avere la
nostra età. Però mi dà un po’ i brividi. Non
è un molto socievole, è rigida, distaccata, fredda.
Secondo Ginny sbaglio, ma per me era a Serpeverde. Ho questa fissa da
quando l’ho incontrata la prima volta» ammise.
«Come si chiama?» s’informò David che era stato Prefetto per quella casa.
«Goldstein. Camille Goldstein»
«No, non è di Serpeverde»
replicò. «Ricordo tutti gli studenti da quando sono
entrato nell’Ottantanove a quando sono uscito. Un nome
così ce l’avrei stampato in fronte. Non si sente spesso,
ti resta impresso. Origini tedesche, olandesi, roba simile»
Harry fece spallucce, non aveva risposte. La vita privata della strega era top secret.
«Infatti, era a Corvonero. Devo averlo letto sulla Gazzetta.
Sapete, quando ha sistemato la casa del Ministro. Se ne parlò
per un po’. Il suo è un nome conosciuto in giro»
fece Marvin pensieroso.
«Solo io non avevo idea di chi fosse?» borbottò risentito Potter, prendendo parte al brindisi.
Il gruppo si mise a ridere. Era incredibile che il
più famoso eroe del mondo magico avesse così poca
cognizione degli alti nomi illustri del suo tempo.
«Smettetela ragazzi, Francis non sta bene!»
li zittì Hermione, indicando l’Auror che teneva le mani
premute sul viso respirando affannosamente.
«Francis?» chiamò Harry preoccupato.
Il giovane inspirò profondamente, tornando ad
appoggiarsi allo schienale. Era pallido da far spavento e lo sguardo
sembrava febbricitante.
«M-mi gira la testa. Capo… forse è
meglio… s-se vado a casa. Non… non mi sento per niente
bene»
«Marvin, potresti accompagnarlo?»
«Posso andare da solo. Ce la faccio» ma il collega gli aveva già artigliato un braccio.
«Non fare l’eroe. Ne abbiamo già uno in squadra, basta e avanza. Anche in tontaggine!»
***
Camille diede una scorsa agli appunti, confrontando
quanto aveva scritto con ciò che le stava intorno. Lo studiolo
dell’ultimo piano era il terzo ambiente che affrontava a
Grimmauld Place. Doveva ammettere che discutere a suon di fatture con
quei mattoni decrepiti era per certi versi affascinante e
sostanzialmente snervante. Specialmente quando si metteva di mezzo
quella specie di pipistrello guerriero che era l’elfo di casa.
Aveva fatto il demone a quattro quando si era avvicinata ad una delle
due camere da letto di quel livello. La signora Potter le aveva
spiegato che apparteneva ad una persona a cui Kreacher era molto
affezionato e l’aveva pregata di trattarla con riguardo,
modificandola il meno possibile.
«Trattarla con riguardo… ma stiamo
scherzando? Vogliono che ristrutturi questo posto o mi prendono in
giro? Non si può lavorare così» sibilò,
incurante dello scalpiccio sul pianerottolo. «Vorrei sapere chi
diamine mi ha convinta ad accettare quest’incarico. Quella no
perché l’elfo ci è affezionato, l’altra
neppure perché era del padrino di Potter e guai a togliere
quelle porcherie appiccate ai muri! Il buco dell’elfo no
perché è meglio resti così, il soggiorno grande a
doppia altezza magari potremmo abbassarlo e fare delle altre
stanze… Perché diamine non hanno comprato una
villetta in periferia se volevano dei loculi e non delle stanze degne
di questo nome? Giuro che non lo capirò mai. Agrippa*, che pazienza ci vuole!»
Udì una risatina che la fece sobbalzare.
La porta era aperta sul pianerottolo, dove il figlio
maggiore dei Potter la osservava divertito succhiando una bacchetta
magica di zucchero.
Aveva specificato sin dal principio che bambini ed elfi
domestici dovevano stare ben lontani dalle stanze interessate dai
lavori di ristrutturazione. Gli incantesimi che impiegava potevano essere
molto pericolosi e lei teneva molto alla sicurezza sul luogo di
lavoro, a costo d'essere pedante.
«Cosa vuoi? Non puoi stare qui» lo sgridò, visibilmente contrariata.
«Io ttego!» rispose baldanzoso il piccolo, sventolando una bacchetta di zucchero.
«Tu… cosa?»
La risposta l’aveva presa in contropiede,
più per il tono che per il suo significato. James le si
avvicinò, sfoderando un sorriso birichino. Fece appena in tempo
a bloccarlo, prima che mettesse i piedi sul Cerchio di Drómi**
che stava agendo sulle fatture più antiche. Sarebbe bastato
sbavare una runa per destrutturare l’equilibrio magico di
quell’ambiente e chiunque poteva facilmente intuire che in
assenza di quella condizione base sarebbe stato rischioso proseguire
nelle opere.
«Tu è ttega,» disse, poggiando le
manine sulla sua gamba per essere più eloquente, prima di portarsele
al petto e proseguire con un altrettanto significativo: «io
ttego! Gadda!»
La donna, basita, tentava di ricostruire una sintassi
comprensibile quando James prese ad agitare il dolcetto, simulando il
rumore prodotto dai sortilegi.
Acchiappare un marmocchio di due anni fu un’impresa ben più ardua del rimuovere uno Spiritello delle Pozzolane dalla cupola del Pantheon.: scivolava via dalle mani peggio di un Avvincino intinto nell’olio.
«Fuori e restaci!» ordinò quando riuscì a spingerlo nuovamente sul ballatoio, senza che
avesse miracolosamente operato alcun genere di danno.
Lui rispose continuando ad imitarla, muovendo convulso
le braccia nell’aria. Avrebbe voluto impartirgli una sonora
ramanzina, ma dubitava avrebbe capito i motivi che la spingevano.
Chiuse la porta, ripetendo dentro di sé di non farsi intenerire
da eventuali suppliche o scenate.
Recuperò il blocco caduto a terra e controllò il Drómi.
I contorni del cerchio erano ancora verde-azzurri, segno che non aveva
ancora concluso lo sblocco dei Difensivi, mentre le rune, ormai di un
giallo pallido, indicavano che i Dissimulanti, i Silenzianti ed i Distorsori erano stati annullati.
Un tonfo fuori, sulle scale. Pochi attimi di silenzio. Un pianto dirotto.
«Oh, Agrippa santissimo,
ma cos’ho fatto di male?» borbottò fra sé,
pestando un piede per sottolineare quanto quelle perdite di tempo la
infastidissero.
Spalancò la porta e trovò il bambino raggomitolato a faccia in giù sul pavimento che piangeva disperato.
«So che me ne pentirò» mormorò fra sé, inginocchiandosi accanto al fagottino.
Posò una mano sulla schiena che sobbalzava ad
ogni singhiozzo e sforzandosi di apparire il meno seccata possibile,
gli domandò il perché di tutto quell’inutile
chiasso. Un poco alla volta, tirando sul col naso, James si mise a
sedere sconsolato.
«Otta! Otta!»
«Otta?» chiese Camille, senza capire.
Le porgeva la bacchetta di zucchero, spezzata irrimediabilmente in tre parti dalla caduta.
«Ttega aggiutta! Tu aggiutta!» la incitò.
«Aggiu… Vuoi che aggiusti questa roba? Ma non si può! È impossibile!»
«Ttegga aggiutta! A maggìa!»
«La magia non serve, il cibo rientra nelle
eccezioni di Gamp, lo sanno tutti. Il cibo non si crea dal nulla e non
si modifica, è una qualità intrinseca che nessun mago
può cambiare. Ricreare il legame tra questi frammenti per
renderli un unicum come da principio, è impossibile»
spiegò, rendendosi conto che il suo interlocutore
doveva ignorare il significato di quelle parole. «Rimarranno
così. Stringi, o ti cadranno sulle scale» e gli fece
chiudere le dita sulle astine appiccicaticce.
Tornando nello studiolo, si domandò quanto
sarebbe trascorso prima che le lacrime del bimbo esplodessero
nuovamente, obbligando l’elfo a raggiungerli e a portarselo via
una volta per tutte. L’interrogativo rimase tale: James taceva,
rannicchiato un po’ su sé stesso. Di sicuro stava
rimuginando qualcosa, e l’Archimaga aveva tutta l’intenzione di restarne all’oscuro. Aveva pensieri ben più complessi da seguire.
Il perimetro esterno del Drómi
era impallidito. Le tracce lasciate dal gesso sul parquet stavano
lentamente tornano al candore originario. Attese ancora qualche istante
perché l’ideogramma completasse il suo corso,
verificò con un incantesimo la sua effettiva efficacia, e lo
dissolse con un colpo di bacchetta.
Spuntò dall’elenco delle procedure lo
svincolo di quel locale dalle protezioni magiche e cercò nella
borsa le ampolle per la fase successiva: pulizia e consolidamento. Pozione Solvente per eliminare le vecchie carte da parati tarmate, di un tenue color zaffiro, ed il Filtro Amun-Ra**,
che spandeva una tenue aureola dorata, per dare nuova vita alle
strutture e agli incantesimi che le sorreggevano. Rilesse con
attenzione le istruzioni, meditando eventuali ritocchi alla stregoneria
che si apprestava a compiere. Era sempre bene ripassare ogni dato, ogni
aspetto, per non cadere in errore. L’Archimagia non ne ammetteva.
Prese un piccolo contenitore d’argento e
versò dieci gocce della prima pozione e sei della seconda,
mescolandole con un bastoncino d’olivo. Il liquido cambiò
colore, divenendo opaco e violetto. Emanava un odore freddo e pungente
che cominciò a spandersi nell’aria. La donna socchiuse gli
occhi, ignorando il leggero senso di stordimento che le provocavano i
vapori. Con l’ausilio di un Levitante,
fece in modo che il preparato andasse a spandersi lungo lo zoccolino,
cominciando ad agire immediatamente. Aloni dal margine iridescente
andavano allargandosi con esasperante lentezza sui rivestimenti logori.
Sedette sul profondo davanzale della finestra, frugando ancora nella borsa, e ne trasse una clessidra.
«Due ore dovrebbero bastare» meditò, valutando la resa della pozione.
Agitò l’orologio d’ottone e lo
posò sul pavimento. Prese gli schizzi di quel piano, tornando a
valutare per l’ennesima volta le varianti chieste dal cliente.
«Mantenere le camere così come sono, che
idea assurda» brontolò per l’ennesima volta.
«Avrei creato un magnifico terrazzo a pozzo con un accesso
nascosto alla guferia ed un angolo relax molto intimo. Sarebbe stato
uno splendido angolo di Bali in piena Londra. Invece no, conta di
più la camera del padrino morto da idiota piena di
oscenità vecchie di trent’anni!» sbuffò.
Stava per posare la penna d’aquila sulla
pergamena ed apportare una correzione alla dicitura quando un suono si
sovrappose allo sfrigolio della tappezzeria che si dissolveva. Un
raspare, insistente e sottile, faceva da sottofondo alle frasi
incantate che guidavano il risanamento. La cosa la impensierì
non poco. Aveva letto di Demoni delle Soffitte e dei Ghoul
e dell’uso che ne era stato fatto in un passato non troppo
remoto. Era possibile che ne avessero costretto uno fra quelle pareti?
Non aveva molto senso. Occorreva un tipo di Anatema
molto complesso ed instabile; era un sistema impiegato per la difesa
nei caveau o di quei luoghi in cui venivano custodite ricchezze e
manufatti magici. A quanto ne sapeva, lo praticavano esclusivamente i
folletti della Grigott, che mai e poi mai l’avrebbero esteso ad
una semplice abitazione. Meglio comunque accertare se fosse opera di
magia ordinaria prima di avanzare ipotesi. Poteva trattarsi di un
Gratta e netta lanciato per dispetto dall’elfo di casa.
«Encanto Revelio!» ma non apparve alcun scia luminosa.
Il rumore era generato da qualcosa all’esterno. Qualcosa di normale.
«Oh, no. Agrippa
aiutami…» supplicò levando gli occhi al soffitto,
quasi che l’antico mago romano potesse venirle in soccorso.
Lentamente, socchiuse l’uscio ed abbassò
lo sguardo sul legno consunto. Il guastafeste era sdraiato sulle assi e
vi sfregava un avanzo della bacchetta. Cosa rappresentasse
l’intrico di linee ondulate che si spezzavano in corrispondenza
delle venature, riannodandosi in gomitoli disordinati qua e là,
non era dato sapere.
James si girò a guardarla. Sotto i capelli
arruffati aveva lo sguardo ancora arrossato ed il naso che colava, ma
sorrideva. Aveva il sospetto che qualunque cosa stesse per dire o fare,
l’avrebbe trovata sgradevole.
«Io didegno» esordì fiero.
La strega strabuzzò gli occhi. Le parole in sé erano poco significative, eppure l’avevano lasciata sgomenta.
«Di… disegni? Che cosa?»
Di solito non perdeva tempo in quel genere di incontri,
le era capitato altre volte di avere intorno mocciosi pestiferi, che
però riusciva ad allontanare con una sola occhiataccia.
Perché il signorino Potter era diverso? Perché non era
corso a cercare conforto dalla madre? E poi, che le importava di quel
scarabocchiava a terra?
Il piccino allungò il collo, tirandosi goffamente a sedere per spiare oltre la soglia.
«Ello» disse, accennando deluso all’interno.
«El…»
Camille si voltò di scatto, seguendo il ditino di James. Stava indicando dove prima era il Cerchio di Drómi.
Dunque la sua voleva essere una versione primitiva e piuttosto
personale, ma indiscutibilmente attinente di uno dei più
articolati incantesimi di rottura esistenti?
L’Archiamga
riesaminò il prodotto di quell’improvvisazione infantile.
Due cerchi concentrici esterni, o qualcosa di simile almeno, il Pentacolo ridotto ad una nuvoletta spigolosa, tanti segnacci al posto delle rune,… certo mancavano le Linee di Ahtisaari, i Nodi Intermedi di Koivisto, l’Ideogramma di Rehn-Vatanen e molto altro ancora, ma la base era stata identificata con inquietante destrezza.
«Jamie, che stai combinando?» domandò una voce dal piano di sotto.
«Didegno co a ttega!» rispose, sbraitando allo stesso modo.
Disegno con la strega. La stava imitando ancora. No. Era impensabile, improponibile. Non si poteva fare.
Lo fissò e lui di rimando. Due tondini
d’ottone brillavano irriverenti sopra le guance gonfiate da un
sorriso da topo. Quel sorriso che sua madre aveva definito
“peggiore di un Imperius”.
«Non ci provare neanche. Con me serve altro!» rimbrottò, rientrando.
«Io ttego! Come atte!» e soffiò forte tra i dentini.
Cercava ancora di riprodurre i suoni che aveva ascoltato.
«Ne dubito, sei piccolo» lo accusò.
La peggiore affermazione da rivolgere a James. Il cupo
broncio che sostituì all’istante la sua gioia pareva
minaccioso.
«Butta, ttega!
Iooègaandeetubuttacattìa! Iooputteegodittega!»
urlò senza versare una lacrima né prendere fiato tra le
due frasi.
Non erano parolacce, solo la rivendicazione torrenziale
e poco discorsiva del suo essere un maghetto con un ego fuori taglia,
che non sentiva di meritare quell’insinuazione. Per Camille fu la
prova che la fattibilità in tempi brevi delle opere
necessitava di un ritocco al rialzo: era certa che quel marmocchio non
l’avrebbe lasciata in pace.
*Agrippa: in
questo caso, Marco Vipsanio Agrippa. Generale, amico e genero
dell'Imperatore Augusto, edificò moltissimi edifici nell'Antica
Roma.
** Cerchio di Drómi: nella mitologia nordica, Drómi è una delle catene che gli Asi usarono per immobilizzare il lupo Fenrir e che lui spezzò.
***Amun-Ra: dal dio egizio omonimo, incarnazione del sole e della creazione universale.
Un ringraziamento a chi mi sta seguendo questa storia e mi ha inserito tra le sue preferenze: ArwenBlack, domaris72, DANINO, irymat, sbrilluccica. Attendo con ansia i vostri commenti.
Per Foolfetta: l’equivoco iniziale è lecito, e nel proseguo scoprirai perché. E Ron è sempre Ron!
Per Circe: ci
sono diversi personaggi che ruoteranno intorno a questa fiction, tra
cui proprio Ron e Kreacher, ma preferirei non svelare oltre.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 4 *** Tavola 4 - Progetto preliminare ***
Tavola 4 - Progetto preliminare
La sequela d’insulti attaccò puntuale all’apertura della tenda.
«Abominio! Orrore! Chi osa insozzare la mia gloriosa magione? Biechi Mezzosangue! Macchiare il mio antico blasone con la vostra sporca imperfezione! Ignominia! Indecenza della magia!»
Tutt’altro che impressionata, la donna schiarì educatamente la voce.
«Perdonatemi, milady. Sono dolente d’arrecare disturbo a
vostra illustre signoria, che certamente anela solo un poco di meritata
quiete»
Walburga le rifilò una delle occhiate assassine che un tempo era
solita infliggere ai servi ed al maggiore dei suoi figli.
«Chi siete? Cosa fate nella mia dimora?»
«Permettete che mi presenti, o nobilissima. Mi chiamo Goldstein e sono un’Archimaga» rispose inchinandosi con eleganza.
«Archimaga?!? Sangue di
Salazar! Da quando in qua alle streghe è fatto obbligo
d’adempiere a simili basse occupazioni? Infamie da mentecatti maghinò!» strillò disgustata.
«Da quando i maghi calpestano ed usurpano impunemente il
più alto dei discernimenti, mia signora: quello femminile. Ci
costringono a levare la voce per essere udite, a metterci in mostra.
Atto spregevole che in altri giorni non sarebbe stato tollerato.
Suppongo comprendiate a cosa mi riferisco»
Si era documentata. L’altrettanto defunto marito era stato una
figura di poco spessore, mero esecutore degli ordini impartiti dalla
risoluta consorte. Donna di grande carisma ed alta istruzione, era
sempre stata lei a gestire gli affari di famiglia, muovendosi
nell’ombra del fantoccio Orion Black. Aveva sempre agito protetta
da uno scudo invisibile, che la metteva al riparo dalle dicerie ed al
tempo stesso la esponeva alle lodi della società. Far leva sul
lato tradizionalista avrebbe potuto rivelarsi un asso nella manica.
«Non cerchi di blandirmi, non sono una sprovveduta. Non mi lascio
incantare da chicchessia» ringhiò la matrona, dissimulando
magistralmente quanto apprezzasse quelle velate lusinghe.
«Goldstein, avete detto?»
«Sì, signora. Per servirvi»
«Voi non siete di Londra»
A quell’affermazione, gli occhi scuri della strega brillarono.
«No, madam, dite bene. Né londinese, né tantomeno
britannica. La mia famiglia proviene da Hannover, in Germania»
mentì spudoratamente. «Mi sono trasferita in Inghilterra
solo alcuni anni fa»
In un vecchio carteggio aveva scoperto che quell’arrogante crosta
di vernice aveva sempre avuto grande considerazione per le influenti
stirpi magiche teutoniche. Un’omonimia provvidenziale quanto
casuale le era venuta in aiuto, a sostegno delle sue frottole.
«Dunque, dovrei credere siate Purosangue?»
«Assolutamente, madam Black!» finse ancora, apparendo
più sdegnata possibile dall’insinuazione. «Ardirei
forse parlarvi, se non lo fossi? Sarei tanto villana da rivolgermi a
chi mi sarebbe indubbiamente superiore?»
A Ginny scappò da ridere. Nascosta nelle scale che portavano
alla cucina, ascoltava la strega venire a patti con la megera che per
anni era stata l’incubo di tutti i visitatori. Era riuscita a
convincere la Goldstein ad intervenire al più presto su quella
scomoda presenza, spostandola in cima alla lista degli interventi. In
realtà aveva dovuto attendere tre settimane per gustare quel
momento: l’Archimaga
aveva voluto predisporre un piano d’attacco che non lasciasse
scampo al dipinto. Ginny non immaginava che per rimuovere in sicurezza
un Adesivo Permanente
occorresse l’assenso di chi l’aveva scagliato. Anche se
questo era ridotto ad una pellicola pittorica zeppa di crepe. Senza
quello, nessuna fattura avrebbe avuto effetto o peggio, ne avrebbe
avuti di devastanti sul resto dell’abitazione.
Un ruolo importante lo giocò Kreacher, il quale si offrì
di badare alla padrona per il resto dei suoi giorni. E dire che
Hermione si batteva perché gli elfi non dovessero essere
asserviti ad alcun padrone…
Finalmente, con un sinistro crepitio, la cornice si allontanò
dalla parete lasciando scoperta un’ampia porzione di intonaco
rosa antico, fresca come appena dipinta. La prospettiva di una
crescente presenza di indegni Mezzosangue o peggio, di NatiBabbani,
entro quelle nobili mura, aveva convinto la provata lady Black a
spostarsi altrove: la camera dell’amato figlio Regulus. Per
quanto battagliera e impavida, avrebbe potuto fare ben poco contro una
massiccia occupazione. Gli urli da Banshee
indiavolata non avrebbero respinto gli invasori. Nessuno la temeva e la
rispettava come in passato. La promessa d’essere accudita dal suo
eterno valletto, pronto a sorbirsi ogni genere di invettiva e di
sopruso verbale, aveva fatto il resto.
Sostenuto dal domestico perché non urtasse, il dipinto
imboccò le scale. Raggirata con le sue stesse armi, Walburga
Black s’apprestava a sparire per sempre dall’atrio di
quella casa.
«Allora?» domandò Ginevra, abbandonando il nascondiglio.
«Trovo inconcepibile vogliate destinarle un’intera stanza,
quando un qualunque ripostiglio ben insonorizzato sarebbe stato
sufficiente allo scopo» rispose Camille, togliendo della polvere
dalla gonna.
«Ripostiglio? Se esistesse un modo per farla stare zitta e
immobile l’avrei regalata a qualche museo anni fa!»
ribatté stizzita.
«Destinazione appropriata» convenne perfida l’Archimaga.
«Di certo qualcuno l’avrebbe scambiato per un eccelso
esempio di ritrattistica di fine Settecento, magari della scuola di
Anthony van Dyck. Immagino la dicitura: “Autore ignoto, Ritratto
di nobildonna, olio su tela, 1780 circa”. Cielo, quanto sanno
essere ciecamente entusiasti i Babbani per non accorgersi della magia…»
***
Bussarono e subito dopo, il volto sorridente di Francis apparve dietro la porta.
«Mi cercavi, capo?»
Harry detestava sentirsi chiamare a quel modo. Dai membri della sua
squadra in particolar modo, perché tra di loro c’erano al
massimo due o tre anni di differenza, in più o in meno. Non era
il capo proprio di nessuno. Solo perché il gruppo seguiva le sue
direttive ciò non significava che avesse un grado superiore. O
meglio, era stato eletto Capitano, ma disapprovava le gerarchie. Erano
appellativi inutili quanto i soprannomi affibbiatigli negli anni. Bambino Sopravvissuto, Eroe di Hogwarts, Salvatore del mondo magico, Capo. Assurdi.
Potter sollevò la testa dal documento che stava tentando di
completare tra sforzi disumani. La burocrazia era la parte peggiore del
lavoro di un Auror, e dire che Tonks l’aveva messo in guardia anni prima.
«Vieni, Lawson. Siediti» e indicò la poltroncina davanti alla scrivania.
«Ahi, brutta storia…» mormorò il collega, abbandonandosi con un tonfo sgraziato sul cuoio.
«Perché?»
«Mi chiami per cognome quando devi farmi una ramanzina, ma giuro
che non centro niente» si schermì, levando in alto le mani.
«Con cosa non centri niente?» s’informò, temendo la risposta.
«Con qualunque cosa ti abbia raccontato Conway del suo… ritrovamento» disse, trattenendo un risolino.
«Quale… ah, lasciamo stare. Sbrigatevela tra di voi! Non
voglio sapere che scherzi vi state facendo tu e quell’altro
piantagrane»
«Piantagrane? Ma David è così simpatico! Come puoi…»
«Smettila adesso. Non è per fare spettacolo che ti ho
chiesto di venire. Devo redigere la valutazione annuale del team»
Era ora di abbandonare la faccia dell’amico e indossare la
maschera più odiosa del caposquadra. Detestava quella parte, ma
rientrava nei suoi compiti.
«Mi devo preoccupare?» domandò Francis accigliandosi.
Quell’espressione severa lasciava presagire un discorso poco piacevole.
«No, non direi. Ma ci sono alcune cose di cui vorrei discutere con te»
«Mi devo preoccupare» sentenziò.
«No, Francis. Sono cose banali, niente di che»
«Allora perché vuoi parlarne?»
«Perché non vorrei peggiorassero, obbligandomi a licenziarti»
La frase, detta a bruciapelo per non essere trattenuta e addolcita,
lasciò a bocca aperta l’altro, che rimase a dondolare
sulla poltroncina per qualche istante prima di rispondere.
«Vedi che avevo ragione, capo? Mi devo preoccupare» ribadì, sfoderando un ghigno irriverente.
Spazientito dalla troppa leggerezza, Harry lo minacciò con la bacchetta.
«Preoccupati invece se questa sera andrai a casa camminando con
le mani al posto dei piedi o peggio» lo avvisò. «Una
delle cose di cui dobbiamo discutere è proprio questa
tua… ehm… come posso dire?»
«Ilarità?» suggerì.
«Esatto. Non che ci sia qualcosa di male nel prendere le cose con
un sorriso, anzi, è ottimo. Aiuta a non farsi trascinare troppo
dalla serietà e dalla pericolosità di quel che facciamo.
Spesso le tue spiritosaggini servono ad allentare il nervosismo mentre
siamo in missione, sono una benedizione da quel punto di vista. Ma
ultimamente la tua ilarità è peggiorata e parecchio. E
non solo nel senso che le tue battute fanno schifo»
All’improvviso Francis divenne serio, cosa che Harry non
s’aspettava. Era un cambiamento troppo repentino per uno come
lui, sempre pronto a scherzare.
«Ritieni che possa influire negativamente sulle prestazioni mie e del gruppo?»
«Con l’andar del tempo, sì» ammise.
Perché diamine toccavano a lui quelle rampogne? Le odiava.
Trovava insopportabile intimidire una persona, anche quando meritava
una strigliata. I suoi obblighi verso il Dipartimento però lo
spingevano a tenere quella linea: tutti credevano molto in lui e nei
suoi colleghi, erano la miglior squadra del Ministero. Non avevano la
possibilità di sgarrare come gli altri.
L’Auror si limitò
ad annuire pensieroso, lasciando il suo superiore ancor più
confuso. Di solito aveva una faccia da mascalzone impunito quando
taceva, chiunque avrebbe capito che rimuginava qualcosa, ma in quel
momento era esattamente l’opposto. Era solo un uomo che
rifletteva sulla remota possibilità di perdere il lavoro. Un
lavoro per cui si era impegnato a fondo.
«Okay. Prendiamo il Graphorn
per le corna» sospirò, lo sguardo azzurro insolitamente
torvo. «Se stai dicendo che devo darmi una regolata e devo stare
al mio posto…»
«Calmati, Francis. Non dobbiamo discuterne ora» lo fermò, prima che partisse con un monologo.
Era già abbastanza indispettito dagli interminabili resoconti
sulla fuga di Dimitri Miles che gli avevano consegnato. Libbre di
inutili incartamenti che non avrebbero riportato in cella il criminale.
Un’altra fiumana di parole l’avrebbe fatto impazzire del
tutto.
«Ah, no?»
«No. Ne parleremo a cena, da me»
«Da te?»
Francis esitava. Quell’invito giungeva imprevisto.
«Esatto. L’ho fatto anche con gli altri quando ci sono stati problemi»
«Harry, hai la casa sottosopra per i lavori e vuoi organizzare una cena per me? Guarda che basta una Burrobirra al pub… Anzi, dovrei essere io ad invitarti a cena, per dimostrare la mia buona volontà, non credi?»
La proposta era gentile e sincera, ma colma di pericolose insidie.
«So da fonti certe che la tua cucina fa pena, per essere buoni»
Francis fu costretto ad annuire a denti stretti. Aveva toccato un tasto
dolente e la cosa buffa era che lui gli aveva offerto lo spunto per
arrivarci.
«Nigel, eh?»
«Già. Ha raccontato a tutti di quando l’hai ospitato
dopo il litigio con Corinne e che l’hai quasi spedito al San
Mungo per intossicazione alimentare. Preferirei evitare questa fine,
sai, ho una famiglia da mantenere. Una moglie, dei figli, un elfo
domestico…» considerò, sentendosi molto simile al
suocero mentre lo diceva. «E comunque, ci sono sere in cui la
cucina di Ginny ricorda da vicino quella di un pub»
«E se la trovo in serata giusta?»
«Quelle sono le serate giuste»
Non le faceva una colpa se era poco versata nelle arti gastronomiche.
Appena terminata Hogwarts, sua moglie era stata ingaggiata dalle
Holyhead Harpies, che aveva lasciato poco meno di tre anni prima,
quando era rimasta incinta. Poi era nato James, e nel giro di pochi
mesi si erano succedute la gravidanza di Albus e quella in corso. Con
una coppia di bambini piccoli a cui badare, di cui uno fin troppo
vispo, era già un miracolo che ricordasse quale stanza associare
alla parola cucina.
«Quindi…»
«Spera che cucini Kreacher» concluse Harry, laconico.
Un quarto d’ora più tardi, Francis attraversò Long
Lane, giungendo illeso sul marciapiede opposto. A quell’ora il
traffico del rientro era denso come una pozione impazzita. Entrò
sotto le arcate metalliche e variopinte dello Smithfield Market,
s’infilò in una delle tradizionali cabine telefoniche
scarlatte e raggiunse L’Unicorno Ubriaco. Il pub era semideserto: pochi maghi e streghe lo frequentavano a quell’ora.
«Egnogni, gnignagnàgno!» tuonò una sgradevole voce nasale.
Ad uno dei tavoli sedevano Marvin Truman e David Conway, suoi colleghi
e migliori amici. Il secondo portava ancora i segni
dell’improvvido ritrovamento di un Boletus Mollifer, meglio noto come Porcino Afflosciante.
Lawson gliene aveva messo un pezzo nella giacca. Quando David aveva
ritratto la mano dalla tasca, annusando la traccia bruna sulle dita,
orecchie e naso avevano raggiunto all’istante le clavicole. Ora
le orecchie erano quasi normali, mentre il naso, di tanto in tanto, si
allungava di nuovo fino al mento, ciondolando da ogni lato.
«Ti ha dato del disgraziato» ridacchiò Marvin.
Dopo quasi due ore aveva imparato ad afferrare il senso delle frasi strampalate dell’altro.
«Immaginavo» abbozzò, accennando l’ordine all’inserviente.
Una bottiglia di Burrobirra
ben fredda lo raggiunse rapido come un Boccino. I primi due ripresero a
discutere della partita tra i Grodzisk Goblins e gli Appleby Arrows per
la coppa europea di Quidditch, mentre un taciturno Francis beveva dalla
bottiglia.
«Mi dispiace Dave, ho un po’ esagerato questa volta»
si scusò ad un tratto. «Spero che Emily non se la prenda
troppo se ti vede arrivare conciato come un Erkling»
I due lo guardarono stupiti.
«Che ti prende Law? Non gli hai mai chiesto scusa in cinque anni
che stai con noi! E nemmeno a sua moglie, tra l’altro»
Lui non era in vena di parlare e si limitò a far spallucce, sorseggiando la Burrobirra.
«Ehi, gno gnono migna mogno» insisté l’altro.
Potevano anche scornarsi da mattina a sera sui suoi stupidi scherzi,
mandarsi a quel paese ogni dieci minuti, ma Lawson era un buon Orco, difficilmente gli aveva portato rancore per più di un week-end.
«Dice che non è mica morto» ma Francis era troppo abbattuto per sostenere le sue tesi.
Restarono senza parlare per alcuni minuti, durante i quali Marvin e David seguitarono a lanciarsi sguardi interrogativi.
«Ghe voneva Bodder?» riuscì a domandare Conway, in
un momento in cui il naso sembrò abbastanza stabile.
Si sentiva come se tutti i raffreddori del mondo fossero concentrati nella sua testa.
«Mi ha invitato a cena, mercoledì prossimo»
Truman si morse le labbra.
«Ahi, brutta storia»
«È quel che ho detto io» confessò Francis, totalmente depresso.
«Quante volte ti ho detto di andarci piano a fare il gretigno… oh, gno! Agnoa!»
Marvin scoppiò a ridere, vedendo il naso dell’amico
tuffarsi precipitosamente nel boccale, interrompendo con eccezionale
tempismo la ramanzina.
«Non ha detto nulla del fatto che sei distratto?»
«No, niente. Davvero vi sembro distratto?» nicchiò.
«Trovati una donna, imbecille!» sibilò rapido David,
premendo le narici contro la faccia in un disperato tentativo di
apparire normale. «Non hai una donna fissa da quando ti
conosciamo. Quante ne hai cambiate? Una quindicina? Hai ventotto anni e
sei uccel di bosco, ma almeno non vai a pagamento…» lo
prese in giro il Serpeverde.
«Non mi serve una donna» obbiettò amaro.
«Giusto! Sei puro e casto come i gargoyle
di Hogwarts… Ehi, quando mercoledì vai da Harry, potresti
farti presentare quella tipa che gli sta sistemando casa!»
propose Marvin.
Al giovane andò di traverso una sorsata.
«L… l’Archi… chimaga?» sputacchiò mezzo soffocato.
«Per favore, Marv, non dire cretinate» sbottò David.
«È una importante, gira con quelli che contano.
Mirerà a gente più altolocata di uno come noi! Magari se
ha un’assistente, una segretaria, una galoppina… ma la
Goldstein? Andiamo, sii realista! E poi in dieci giorni non
c’è incantesimo che possa dare un aspetto decente a
Francis!»
«E perché non dovrebbe interessarle Lawson? Spalle solide,
gran lavoratore, vestito da pinguino dovrebbe fare la sua figura. E poi
è uno stallone in astinenza… le donne farebbero la fila
per un partito come lui» insisté Truman, dandogli una
scarica di vigorose pacche sulle spalle che gli fece aumentare la tosse.
«Sì, partito. Nel senso “via di testa”!»
«Finiscila Dave! Potrebbe essere la donna della sua vita. Non mi ricordo che faccia ha, ma… »
«No!» tossicchiò ancora Francis, paonazzo.
«Non se ne parla e comunque, il capo ha detto che se ne va sempre
alle sei del pomeriggio, io devo essere là per le sette meno
venti»
***
Sedeva sul pavimento da una decina di minuti. Accanto,
un’ordinata pila di doghe di legno appena ritornate alle loro
dimensioni originali. L’Encanto Ianus*
stava agendo sull’orrenda boiserie tarlata, staccandola dalle
pareti senza tanti complimenti. Una volta terminata anche la pulizia
delle superfici soprastanti, avrebbe dato un autentico colpo di spugna
alla camera padronale. Sarebbe stata un capolavoro: le due grandi
finestre ad arco avrebbero illuminato il nuovo pavimento di quercia
rossa, lustro come il ponte di una nave. La volta a specchio, con cui
contava di sostituire entro sera il pesante soffitto a cassettoni con
l’insegna dei Black, avrebbe alleggerito l’immagine
d’insieme della stanza. Le pareti avrebbero riprodotto un
paesaggio incantato di colline provenzali (scelto dalla signora Potter
per fare un regalo al marito che tanto agognava un po’ di verde),
mascherando l’ingresso della grande cabina armadio, illuminata da
lampade stregate che avrebbero cambiato colore a seconda
dell’umore di chi vi avesse messo piede.
A terra, sparpagliati al suo fianco, cataloghi, campionari e schizzi.
L’arredo sarebbe stato fondamentale per il completamento
dell’opera. Mobili dal design essenziale, pulito, contemporaneo.
Niente fronzoli, volute barocche, putti e gnomi sparsi qua e là,
come aveva suggerito quella campagnola della suocera. Camille riteneva
impensabile che, nel Ventunesimo secolo, qualcuno appezzasse ancora
quelle cianfrusaglie antidiluviane.
Si allungò, lasciando cadere la testa all’indietro. Gli
occhiali le scesero un poco, così che sulle prime non
riuscì a mettere a fuoco la sagoma variopinta che si stagliava
contro la porta. Lo riconobbe un attimo dopo, quando
l’inconfondibile scricchiolio di carta indicò l’ora
della merenda.
Cercò di ricomporsi, pronta a scacciare per l’ennesima
volta l’intruso. Perché nessuno capiva quanto il suo
lavoro fosse complicato e delicato? E richiedesse calma e
concentrazione anche quando era seduta immobile sul pavimento a
riprendere fiato? Perché doveva sempre ribadire che voleva
essere lasciata in pace? Dopo tutto le idee della signora Black non
parevano prive di fondamento.
«Vattene» sibilò.
Avrebbe dovuto sentirsi spazientita dall’ennesima interruzione,
in realtà era imbarazzata. Quando operava, Camille smetteva gli
abiti raffinati con cui si presentava ai clienti in favore di altri
più comodi e decisamente poco eleganti. Vecchi vestiti logori ed
impiastricciati di avanzi di pozioni, pieni di strappi e troppo larghi
per la sua figura esile. L’unica eccezione era stato per il
distacco della matrona dell’ingresso: non poteva presentarsi da
lei in tenuta da lavoro. Ma in quel momento, farsi vedere in quello
stato con i capelli arruffati e le lenti degli occhiali piene di
polvere, la metteva a disagio. Anche se a guardarla era un lattante.
James si limitava a fissarla, tenendo un grosso sacchetto sotto il
braccio mentre nascondeva il suo sorrisetto da topolino dietro la
merenda. Sembrava cosciente di quanto le sue apparizioni la
innervosissero.
«Bitotto»
«Eh?»
«Bitotto!» e James allungò un pasticcino, conciliante.
Era perplessa a dir poco. Anche perché quello che le mostrava era uno scone**, non un biscotto come asseriva.
«P-per… me?»
Lui le andò vicino, il pacchetto sottobraccio mentre tendeva l’altra manina.
«Non l’hai leccato, vero?» indagò sospettosa.
Non si fidava di quel nanerottolo che sbucava da tutti gli angoli,
peggio d’un fantasma indiscreto. Quando lo vide negare con
decisione ed infilarsi in bocca un altro dolcetto, decise che poteva
concedergli il beneficio del dubbio. E quella merendina, punteggiata di
gocce di cioccolato, aveva un aspetto troppo invitante per essere
ignorata. Specie considerando che aveva saltato il pranzo per
convincere il quadro di quell’ottusa megera a levarsi
dall’ingresso.
Mangiarono in silenzio, tenendosi d’occhio a vicenda.
«Ci vorrebbe qualcosa da bere» meditò Camille tra sé.
Stava per addentare l’ultimo boccone di scone, quando James, che l’aveva sentita, trillò a squarciagola:
«Chiiiccè! Chiiiccèèè!»
Con un flebile crack, l’elfo si Materializzò nella stanza.
«Il padroncino chiama Kreacher?» domandò stancamente la creatura.
Era la quintessenza della svogliatezza.
«Ittè! Pemmè e peattega» chiese altezzoso.
Voleva del the per entrambi. Recitava la parte del bravo padrone di
casa, ospitale e premuroso. Chissà da chi l’aveva visto
fare.
«Sì» sospirò affranto l’elfo, scomparendo.
«Lo tieni in riga, eh?»
«Io paddone! Chiccè fa»
Un’osservazione degna di un nobilissimo Purosangue.
Strano che Walburga Black non avesse notato quanto quel bimbo
corrispondesse ai suoi canoni di perfezione, dose di sangue misto a
parte. Sicuramente l’avrebbe resa più malleabile.
«Non ricordo il tuo nome»
«Jeccijut» ciancicò con la bocca piena.
«Jec… oh, sì. James Sirius» ricordò, aggiustando una ciocca che le ricadeva sulla fronte.
«Ettu?» chiese.
«Cosa?»
«Ettu ti chiama ttega?»
Le occorsero un paio di secondi per tradurre la richiesta da quella lingua misconosciuta ad un idioma comprensibile.
«Se mi chiamo strega? No, non mi chiamo strega. Strega è
un titolo, uno status, ed io sono una strega, casomai. Come tua
madre» lo corresse. «Mi chiamo… Camille»
Se c’era qualcosa che la faceva sentire più imbarazzata
che i suoi abiti da lavoro, era il suo nome. Le ricordava
un’orrenda storia d’amore che sua nonna l’aveva
obbligata a vedere quand’era bambina. La protagonista era una sua
omonima, ma l’aveva sempre trovata una stupida oca incapace e
svenevole. Non si assomigliavano affatto.
«Ca-mi-lllll» ripeté lentamente, riuscendo nell’impresa di non coniare una parola nuova.
«Splendido» pensò sarcastica. «Il mio nome lo sanno pronunciare persino i bambini!»
*Encanto Ianus: per la mitologia romana, Giano era un essere bifronte, simbolo della dualità.
**Scone: piccoli panini dolci.
Ben arrivata a Jaslyn e a tutti i lettori ancora anonimi! Coraggio, non siate timidi! Se state leggendo, un'idea ve la sarete fatta, no?
Per Circe: non importa se la
recensione è breve! Mi fa piacere riceverla, per sapere cosa ne
pensate di quel che leggete. Penso che i nostri eroi si siano cresciuti
pur mantenendo i loro tratti caratteristici, così Hermione
è sempre la saccente, Ron quello un po’ casinista…
La mitologia e la storia trovo siano la giusta base per questa fic (e a
quelle a sfondo magico ingenerale), visto che sono legati agli edifici
cultuali più antichi e mistici.
Per Foolfetta: grazie per i complimenti. Gli Auror
vivono per gran parte della giornata fianco a fianco, quindi la
reazione da amiconi è in qualche modo inevitabile. Quanto alla
Goldstein, pur essendo stata informata della storia del palazzo, lei
cerca di trarne il massimo. E James Sirius… credo che in questo
capitolo non si sia smentito! Ah, dimenticavo. Grazie per la recensione
della one-shot!
|
Ritorna all'indice
Capitolo 5 *** Tavola 5 - Progetto definitivo ***
Tavola 5 - Progetto definitivo
La strega sobbalzò come se l’avesse colpita una Fattura Pungente, trovando il volto corrucciato della Potter ad un metro dal suo.
«È sicura di sentirsi bene? È un po’ pallida»
«S-sto bene. Ho solo dormito poco» boccheggiò, ma
gli occhi bruni erano sfuggenti, guizzavano lungo le pareti in cerca di
chissà cosa.
Ginny riprese a sfogliare il campionario. Fingendo d’essere in
dubbio tra bianco avorio ed il bianco ghiaccio per i copriletto degli
ospiti, la scrutava con la coda dell’occhio. Tecnica delle Harpies per disorientare l’avversario quando le partite si dilungavano: simulare indifferenza. Da qualche tempo l’Archimaga
era nervosa, ben più del solito. E non sembrava dipendere dalle
continue intromissioni di Jamie nei lavori. L’aveva vista
affacciarsi spesso alle finestre, controllando spasmodicamente la via
quando arrivava o se ne andava. Era tesa, ma prima di parlarne al
marito aveva deciso d’indagare per conto proprio.
Dopo aver acquistato il necessario per completare le camere destinate
ai visitatori, uscirono in Diagon Alley. Raggiunsero un negozietto dove
la strega ritirò un voluminoso pacco che, stando
all’etichetta, conteneva materiale per Strutture archimagiche verticali. Ginny stava sbirciando tra gli scaffali zeppi di Filtri Lustra-incera, scatole di Turbini Inghiottipolvere, Ragni Penelope Notturna e
altri ausili magici di cui non indovinava lo scopo, quando vide Camille
voltarsi di scatto, toccandosi i capelli. Le monete caddero tintinnando
a terra.
«Signorina?» chiamò allarmato l’inserviente.
«Va… tutto bene. Era… solo…
un’impressione» ma la faccia contrariata di Ginevra che la
fissava a braccia incrociate era tutt’altro che
un’impressione.
Appena pagato, la progettista venne trascinata da Fortebraccio e fatta
sedere ad un tavolino con qualcosa da bere, pronta per fornire
un’esauriente spiegazione.
«Tobias Elder» sbuffò.
«Sarebbe?» domandò Ginny, attendendo impaziente che la piantasse d’indugiare sulle risposte.
«La deontologia professionale m’impone di definirlo un collega»
«Lasci perdere. Chi è?»
Indecisa, Camille giocherellò con l’Acquaviola che aveva davanti.
«Una carogna» sputò, stringendo il bicchiere. «È un Archimago
molto influente, sulla piazza da quarant’anni. Negli ultimi due
decenni gli sono stati affidati i lavori più importanti del
mondo magico. Lo stadio della Coppa del Mondo di Quidditch del
Novantaquattro, la ristrutturazione del Ministero e di Hogwarts dopo
gli attacchi di Voldemort, il rimaneggiamento di Azkaban a seguito
dell’esonero dei Dissennatori. Solo per citare i più noti»
«In gamba» osservò la strega, cercando una posizione dove il pancione non l’infastidisse.
Purtroppo sua figlia aveva deciso di mettersi comoda per origliare, cosa che costringeva lei a fare la contorsionista.
«Ha uno stile basato su ambienti cupi, austeri, rigidi,
impersonali. Pensa che sia la funzione a dover caratterizzare
all’edificio, non viceversa. Si rifà allo stile che i Babbani chiamano Neogotico. Retrò ed indubbiamente scenografico, ma è antemerliniano.
Piega il contesto alle sue regole, evita di adattarsi a ciò che
trova. Non c’è innovazione nelle sue opere. Molti critici
l’hanno attaccato aspramente, dicono che dovrebbe ritirarsi per
dar spazio ad altri. Il problema è che ha costruito una rete di
contatti molto fitta, conosce sempre il nome giusto, sempre un piano
più in alto rispetto a dove una persona può arrivare.
L’ho incontrato due settimane fa, qui vicino. Era molto
amichevole, gentile, prodigo di consigli. Fin troppo, considerando i
nostri pessimi rapporti»
«Crede che voglia soffiarle il lavoro? Perché può star fresco, non abbiamo intenzione di fare una Finta Wronsky proprio ora»
Bevve un sorso prima di scuotere il capo.
«Allora perché questo Elder le dà tanti pensieri?»
«Ero rientrata dal tirocinio in Irlanda ed stavo cercando di
farmi conoscere come libera professionista quando mi volle con
sé come collaboratrice. Andavamo d’accordo, nonostante
idee e caratteri divergenti. C’era una buona alchimia. Purtroppo
non ha mandato giù il fatto che, pochi mesi dopo il mio arrivo,
gli abbia soffiato uno dei suoi maggiori clienti»
Alla ex-Cacciatrice
sembrò di rivivere la scenata fatta dalla Caldwell, quando
scoprì d’aver perso il posto in squadra in favore
dell’astro emergente: lei.
«Appartiene ad una delle famiglie magiche più note
d’Inghilterra. Gente che ama spendere migliaia di galeoni e sa
come fare per ottenere ciò che vuole, col massimo dello sfarzo e
del clamore. Potrei definirlo il mio mecenate, il primo che mi abbia
dato fiducia»
L’altra annuì, facendole intendere d’aver afferrato l’allusione.
«Ernest Macmillan è un autentico speculatore edilizio: ha
un incredibile senso degli affari, una capacità di muoversi nel
settore immobiliare che oserei definire unica»
«Ernie Macmillan?!?»
In realtà aveva dato per scontato parlassero di Draco Malfoy,
che sembrava stesse seguendo le orme poco pulite del padre. Mai avrebbe
immaginato che quel pomposo Tassorosso sarebbe stato in grado di
realizzare qualcosa d’importante in vita sua. L’aver fatto
parte dell’ES non lo metteva in cima alla lista degli auguri di
Natale.
«Immaginava parlassi del padre, non è così? In
effetti è molto abile, ma il figlio lo supera di gran
lunga» e nel dirlo pareva particolarmente ammirata, suscitando la
curiosa impressione che fra i due ci fosse qualcosa di più di un
semplice rapporto di lavoro.
«Non capisco cosa centri tutto questo con quel tizio» fece Ginevra, ricomponendosi dalla sorpresa.
«Si batte per impedire ai giovani talenti di emergere. Elder sta
aspettando una mia mossa falsa per screditarmi davanti
all’opinione pubblica e riprendersi il cliente. Per questo credo
mi stia tenendo d’occhio: vuole essere presente al mio errore.
Con tutte le amicizie importanti che ha, per lui sarebbe un gioco da Babbani
far finire la mia carriera sulla scorta di semplici dicerie. Speravo mi
avrebbe lasciata in pace visto che avevamo collaborato, ma è
più comodo distruggere una persona capace che tenersela cara.
Specialmente quando la si è cresciuta, professionalmente
parlando»
«Quindi» concluse Harry quella sera a cena, «è una questione di concorrenza?»
«Così sembrerebbe»
«È ridicolo» sghignazzò, cercando di far
prendere una cucchiaiata di minestra a James, che si sottraeva ad ogni
tentativo.
«Sono d’accordo, ma ha ragione d’essere preoccupata.
Si sta dando molto da fare. Tu non l’hai vista, passa ore ed ore
a fare incantesimi su incantesimi. Mi viene la nausea dopo dieci minuti
che la guardo!»
Harry si morse la lingua per non sottolineare che i motivi di quelle nausee fossero di ben altra natura.
«Mangia mentre lavora -ammesso che mangi, non l’ho mai
vista-, è sempre in movimento. Dubito persino vada in
bagno… Non riposa nemmeno la notte! Stamattina ha portato altri
due schizzi per la cameretta di Lily. Ce n’è uno stupendo
con i Cavalli Marini… E poi, questo Elder sembra pericoloso. Uno con tante amicizie altolocate mi sa del Mangiamorte latitante»
«Andiamo, tesoro, non esagerare»
Parlare di maghi oscuri a tavola gli mandava la cena di traverso.
«Non possiamo permetterle d’ammazzarsi di lavoro per tenere
a bada un concorrente troppo ottuso per ammettere che è brava, e
star dietro a tutto quello che ci salta in mente. A proposito, oggi ha
ordinato la porta nuova per la vecchia stanza del tuo padrino. Solo la
faccia esterna, come volevi tu!» sottolineò stizzita.
Concordava con la Goldstein che rinnovare l’intero palazzo,
lasciando quel locale in uno stato pietoso, era veramente stupido, ma
Harry era irremovibile: nessuno avrebbe affatturato la camera di Sirius.
Un piatto andò in pezzi sul pavimento.
«A proposito di chi si ammazza di lavoro…» sospirò l’Auror raggiungendo i fornelli.
Kreacher stava raggomitolato sui cocci, che non riusciva ad afferrare.
Un pomeriggio intero con i bambini l’aveva quasi ucciso e lui, da
bravo domestico, non se n’era lamentato. Levò i grandi
occhi tondi sul padrone, che sorrise e raccolse la porcellana per lui.
***
Un’elfa minuscola, abbigliata come una vecchia bambola logora, seguì l’Archimaga
fin nella sala da bagno. Delle dodici stanze del suo appartamento, era
indubbiamente quella di cui andava più orgogliosa. Un piccolo
ambiente quadrato, affacciato sulla città attraverso un
bow-window. Le pareti erano lisce, spoglie, dipinte d’ametista
con sottili sagome bianche di canneti. Sul pavimento in doghe di
bambù era posata una candida vasca, che ricordava un uovo
tagliato di sbieco. Nella parte più alta e stretta era stata
cesellata una ghirlanda di fiori, dai cui petali sgorgava gorgogliando
l’acqua calda ed invitante. Minuscoli gomitoli luminosi
fluttuavano nella stanza, diffondendo un lieve alone dorato.
I larghi piedi della servetta sbattevano sul pavimento come ciabatte
deformi. Mentre la donna si spogliava dietro un elegante paravento
damascato, la creatura si diresse ad un tavolino posto accanto alla
vasca. Disposti in bell’ordine, i contenuti di alcune boccette
incrostate d’argento disegnavano un minuto arcobaleno sulla
tovaglietta di fiandra.
Si voltò verso la sagoma sottile nascosta dietro la tela
dell’impalpabile schermo. Lappie, questo il nome dell’elfa,
era preoccupata. Vedeva la sua signora smunta e debole, nonostante lei
insistesse nel dire che non era mai stata meglio.
«Come si sente la padrona questa sera, padrona?» domandò.
«Stanca. E parecchio indolenzita» sospirò Camille, immergendosi.
A quell’abituale risposta, l’elfa prese a scorrere le
bottigliette con aria estremamente concentrata. Si prese a pugni in
testa dopo aver ritratto la mano più volte mentre stava per
afferrarne una. Infine decise per quella che conteneva un liquido
violetto e la porse trepidante alla strega, che lesse l’etichetta
d’argento. Il suo silenzio allarmò la domestica.
«Lappie, quante volte ti si devono ripetere le cose, prima che ti
entrino in testa?» domandò atona, osservando il liquido
ondeggiare mollemente.
Quella sbarrò lo sguardo terrorizzata e prese a balbettare torcendosi le mani.
«La-Lap-pie… L-Lappi-pie è…»
«Quante volte ho dovuto ripetere quali oli essenziali devi portarmi quando sono affaticata e dolorante?»
«D-dic-ciotto, p-padrona» ammise tremando.
«Diciotto volte» ripeté assorta. «Per fortuna
non siamo arrivate alla diciannovesima» disse, guardando un filo
sottile colare dall’ampolla.
L’essenza era abbastanza densa da non sciogliersi subito ed arrivava a solleticarle lo stomaco.
La creatura si accostò timorosa, gli occhi tanto sporgenti da
correre il rischio di ruzzolare fuori dalle orbite. Aveva sbagliato
molte volte in quei primi tre anni di servizio, facendo arrabbiare la
sua padrona. Era stata punita con mezze giornate di digiuno, cosa che
secondo Lappie era tutt’altro che un meritato castigo: la sua
signora era troppo buona con lei che era tanto stupida.
«L-Lappie è stata b-brava, p-padrona?»
Un tenue sorriso distese le labbra della donna.
«Molto brava, ma questo non ti autorizza a dimenticare ciò
che hai imparato come fai di solito. È chiaro?»
ribadì con dolcezza.
Al colmo della gioia, Lappie annuì mugolando, tenendo le
orecchie premute sulla faccia. Le iridi enormi scintillavano sopra i
padiglioni auricolari. Riuscire a rendere felice colei che serviva era
quanto di meglio potesse fare.
«La padrona desidera mangiare dopo il bagno?» domandò giuliva.
La donna rifletté un istante.
«No, una tazza di latte caldo sarà più che
sufficiente. Fammela trovare in camera quando avrò finito»
Ancora festante, Lappie svanì.
Camille si lasciò scivolare in basso, circondata dal calore e
dall’aroma di violetta che cominciava a spandersi nel vapore. Di
solito un lungo bagno cancellava le tensioni, liberava i pensieri dalla
spossatezza, ma col passare dei giorni quella pratica risultava sempre
meno efficace.
Passò le mani fra i capelli, districandoli nell’acqua,
massaggiando tempie e nuca. Un brivido scese lungo la schiena. Era una
sensazione piacevole, delicata, simile a quella provata nel pomeriggio,
quando aveva creduto di sentire una mano sfiorarle la testa.
L’idea che Tobias la pedinasse come aveva fatto con Gordon Alcott
era grottesca, un’assurda paranoia, se ne rendeva conto. Di certo
si sarebbe guardato dall’accarezzarla. E non avrebbe mai osato
metterle pressione a quel modo: il rischio di fare una figuraccia
sarebbe stato eccessivo anche per lui, dato che quei clienti erano
molto più in alto di dove sarebbe mai riuscito ad arrivare.
L’Eroe del mondo magico
e famiglia. Era certa che l’avrebbero difesa, se mai si fosse
realizzata la remota possibilità che sbagliasse qualcosa. Ma
sapeva di essere brava, era ben consapevole di quel che faceva. Elder
avrebbe masticato amaro per decenni. Ammesso che non si strappasse i
denti per la rabbia, quando avesse visto il lavoro ultimato. Sì,
perché era fermamente intenzionata ad invitarlo
all’inaugurazione.
«Basta» si disse. «Meglio organizzarsi per domani»
Appellò una penna ed un biglietto. Toccò l’autoscrivente, e dettò:
Richiedo appuntamento nel mio appartamento, domattina, ore nove. Solito trattamento.
Esigo la massima puntualità, nonostante sia sabato.
C. Goldstein
Appena terminato, il biglietto si richiuse.
«Palladio?»
Rapido, il barbagianni planò sul bordo scivoloso della vasca.
«A Penny Collins, West Ham Lane. Se trovi la finestra chiusa, ti autorizzo a buttarla giù»
Il rapace arruffò le penne.
«Smettila di fare il difficile. Penny non ti piace, ma è
la miglior esperta di wellness del mondo magico, oltre che
un’affezionata cliente. Ho bisogno di lei per essere in piedi
lunedì, altrimenti puoi dire addio alle tue quaglie, mio
caro» lo avvisò.
Con un frullo d’ali stizzito, Palladio sparì alla volta dell’indirizzo indicato.
«Ma tu guarda se devo litigare con quel pollo insonne… non
bastavano i Potter, pure lui ci si mette» protestò,
lasciandosi andare sott’acqua.
Certo che quei due si erano proprio trovati alla perfezione. Lei voleva
fare senza spendere, lui voleva spendere e non fare. Per dar retta ad
entrambi stava rischiando l’esaurimento nervoso.
L’elenco di ulteriori aggiustamenti e modifiche richieste dai
proprietari di quella disgraziatissima magione si srotolò
rabbioso davanti ai suoi occhi. Quella mattina i Potter si erano
scambiati quindici gufi prima di consultarsi via camino, per decidere
se nel bagno degli ospiti sarebbe stata meglio della rubinetteria di
linee moderne, come volevano lei e la signora, o più classiche,
come pretendeva lui. Alla fine aveva vinto la consorte con ampio
margine sul marito, che aveva simulato malamente un profondo scorno.
Era facile indovinare che in realtà apprezzasse tutta la
cocciutaggine che la sua dolce metà profondeva in quelle
questioni, che lui doveva ritenere tutt’altro che sostanziali.
Visto il riemergere dei pensieri lavorativi, decise fosse giunta l’ora di andare a dormire.
Anche il letto, come la vasca, era posizionato al centro della stanza,
circondato da un incantesimo che impediva la caduta dei molti cuscini
che ospitava. Un’altra vetrata guardava in direzione della
cattedrale di Westminster, di cui s’intravvedevano le guglie. La
parete opposta era occupata dalla cabina armadio. Da lì,
attraverso una scala a chiocciola in ferro battuto, si accedeva allo
studio, nel sottotetto. A Camille non piaceva ingombrare lo spazio con
troppi mobili, le toglievano il respiro.
Accanto al letto, fluttuava una tazza. Lappie aveva aggiunto due
biscotti ai mirtilli. Ogni tanto ricordava i gusti della padrona.
Sedette, sorseggiando il latte e rimirando lo skyline. La notte si
mescolava alle note del blu, del violetto e del bianco della camera.
Niente luci, tranne quelle di Londra.
Invidiava i Potter. Avevano un paio d’anni meno di lei e tre
figli. Una famiglia così non l’aveva mai sognata. O forse
sì, ma quella era un'altra Camille Goldstein. Accarezzò
le lenzuola, domandandosi se le mancava una figura accanto. Qualcuno
contro cui rannicchiarsi in cerca di sostegno, affetto, sicurezza o,
semplicemente, calore. Un’immagine prese forma al suo fianco. Una
sagoma sfocata, protesa per darle un bacio. Strinse gli occhi per
scacciarla, nascondendo la testa dietro un cuscino. La tazza
ondeggiò lontano nell’aria.
La solitudine poteva essere dolorosa come un Cruciatus,
anche se non ne aveva mai ricevuto uno. Ben peggiore era però
far sanguinare nuovamente il cuore che aveva faticato a ricomporre.
Erano ferite che si era ripromessa di dimenticare per sempre.
«Ernest, pensa a Ernest» s’impose.
Il suo benefattore trovava sempre un modo per farla sorridere, per
darle un po’ di sollievo, anche quando sfoderava tutta la sua
tronfia, tirannica magnificenza. Sarebbe stato un ottimo diversivo.
Invece le venne in mente Ginevra Potter, seduta accanto a lei in
gelateria. Per quanto potesse sembrare assurdo, quel pomeriggio le
aveva detto che tutte le sue tensioni sarebbero passate se fosse stata
fidanzata o sposata. Un uomo in carne ed ossa dava grattacapi
più concreti di certe fantasiose manie di persecuzione. Le aveva
proposto di conoscere prima suo fratello scapolo di stanza in Romania,
poi qualche collega del marito, asserendo che magari uno fuori del suo
giro sarebbe stato il tipo giusto per scordare il lavoro. Oppure poteva
aspettare sedici anni ed accasarsi col suo Jamie, visto che lui
l’adorava.
«Perché diamine lo chiameranno Jamie? Gli hanno dato un
nome altisonante per ridurlo ad un banale diminutivo. È
sciocco» rimbrottò stendendosi.
Sollevata sui gomiti, guardava le sfavillanti luci londinesi, colorare e tremule fra i palazzi.
«James. Sirius. James Sirius. James Sirius Potter»
scandì lentamente, quasi masticasse una caramella. «Suona
benissimo. Da principe delle favole. Peccato che sia troppo cresciuta
per crederci ancora» ridacchiò.
Non c’era sarcasmo, era sincera. Tuttavia, non si sarebbe
lasciata trascinare in giochetti da improvvisata agenzia matrimoniale.
Ci mancava solo quello. Desiderava accasarsi almeno quanto vivere senza
bacchetta.
Si stiracchiò, tentando di trovare una posizione che conciliasse
il sonno prima che i pensieri ricominciassero a mettersi in moto contro
la sua volontà.
***
Guardò i vestiti buttati sul divano-letto, invidiandoli. Non
aveva tempo, doveva decidersi alla svelta. Erano le tre del mattino e
stava morendo di sonno, dopo un doppio turno massacrante alle calcagna
di contrabbandieri di oggetti magici non autorizzati. Mesi
d’indagine serrata e di Miles ancora nessuna traccia. Pareva
essersi volatilizzato.
«Oh, respira che mi metti l’ansia!» borbottò
Nigel, la testa infilata nel frigorifero in cerca di un paio di Burrobirre.
La fidanzata lo aveva messo alla porta per l’ennesima volta e lui
aveva piantato le tende dall’amico, nella speranza di non
ripetere l’esperienza gastronomica precedente.
«Cioè, è una settimana che fai Mr. Auror-dell’-anno!
Dai… Puntuale, divisa in ordine, poche battute, scherzi di basso
livello,… addirittura hai messo giù un rapporto!
Cioè, comincio a pensare che Harry sia ricorso alle Arti
Oscure»
«Non essere stupido, ragazzino» mormorò assorto,
spostando una camicia da un paio di pantaloni ad un altro. «Certe
cose ancora non riesci ancora a capirle»
«Oh! Ragazzino a chi?» sbottò, sfilandogli la
bottiglia da sotto il naso. «Non sono mica così
piccolo!»
Francis lo squadrò da capo a piedi. I cinque anni che li
dividevano all’anagrafe diventavano almeno il doppio di persona.
Nigel era un nanerottolo tarchiato con la faccia da lattante. Senza
incisivi lo si sarebbe potuto scambiare per uno di otto anni. Lui ne
dimostrava trentacinque invece dei suoi ventotto, ma era sempre
sembrato più grande, anche da adolescente. Avrebbe potuto fare
l’esame di Smaterializzazione
in anticipo di due anni, se qualcuno gli avesse retto il gioco. E se la
McGranitt non l’avesse pescato mentre cercava di intrufolarsi di
straforo al corso.
«Harry ha ragione. Lo scherzo va bene, ma ci sono modi e tempi.
Stavo esagerando a fare il buffone. Rischiavo di combinare qualche
guaio e di metterci tutti in pericolo»
«Ma smettila!» ridacchiò il ragazzo, dando una
memorabile testata ai pensili mentre con un balzo si metteva a sedere
sul piano del cucinino.
Ignorando i suoi mugolii di dolore, Francis si voltò a fissarlo, scuro in volto.
«Nigel, cosa sarebbe accaduto se quella volta a Bristol
anziché affatturare Ron perché miagolasse, l’avessi
fatto ruggire come una Chimera o come un Drago?
Quei vampiri ci avrebbero assaliti prima che potessimo immobilizzarli.
Qualcuno di noi poteva non essere vivo, o peggio» rispose aspro,
riprendendo a spostare gli abiti da un capo all’altro del divano.
Il tempo scorreva veloce. Doveva dormire un po’, fare spesa,
infilarsi nella doccia e rendersi presentabile per la cena
chiarificatrice dal capo. In una casa che gli appariva come una
trappola preparata apposta per lui.
«Tengo agli Auror e
voglio restare in servizio. E se questo passa dal darmi una calmata,
beh, direi che è ora. A novembre compirò ventinove anni.
Un po’ di sana disciplina mi servirà. Basta fare il
cretino come te, che non sai discutere civilmente con la tua
fidanzata» osservò mesto, ignorando le imprecazioni del
collega. «E comunque sono sempre stato puntuale e in ordine, o mi
avrebbero cacciato tempo fa. Era la prima cosa che pretendevano in
Accademia»
Si fermò, mani sui fianchi, valutando i risultati ottenuti.
Pantalone nero, camicia bianca, giacca nera sportiva. Oppure
pantalone grigio, camicia azzurra, giacca nera sportiva. Era
l’unica buona che possedesse, le altre erano sciupate da
appostamenti e inseguimenti. Sperando d’aver messo insieme
qualcosa di decente, pregò che la famosa Ginny Weasley in Potter
fosse davvero la persona informale che dipingevano le cronache sportive
ed il marito.
Benvenuto a marco111284, aspetto i tuoi commenti.
Grazie a chi sta leggendo la fic! Spero proprio vi piaccia!
Per Gaea: Perché ti
spaventa la cara Camille? Ma no, vai tranquilla. Sono solo coincidenze!
Anche se si dice che tre indizi fanno una prova… Sto scherzando.
Ehm, piccola correzione. Kreacher adora Albus, non Hugo,
casomai… Sai com’è, è ancora nel pancione.
Per Foolfetta: già, dici
bene. Camille non ha scampo al fascino di James Sirius (e con un nome
così, cosa ci si poteva aspettare?). Come vedi l’ho
ribadito anche in questo capitolo. Quanto agli sviluppi di un possibile
incontro, dovrai aspettare il prossimo capitolo. Ormai è
martedì mattina nella fic. Poche ore e Francis sarà a
Grimmauld Place.
Per Circe: grazie mille per i
complimenti, troppo buona! D’altra parte bisognava pur trovare un
modo per far sloggiare quella befana dall’entrata, anche se ormai
non la calcolava più nessuno…
|
Ritorna all'indice
Capitolo 6 *** Tavola 6 - Progetto esecutivo ***
Tavola 6 - Progetto esecutivo
«Fammi capire
bene» chiese, premendo le labbra contro il palmo di Rose.
«Vorrebbe convincere l’elfo a prendersi un po’ di
riposo?»
«Esattamente. Trovo sia un’idea magnifica, darebbe a
Kreacher la possibilità di riflettere sulla sua condizione di
assoggettato. Potrebbe rendersi conto che…»
S’interruppe. Il marito non l’ascoltava. Osservava serio la
figlia, quasi aspettasse di sentirla pronunciare il più grande
incantesimo di tutti i tempi.
«Sai, fiorellino mio? Tuo zio è ufficialmente rimbambito»
«Ron, non parlarle così!» ma la piccina rideva,
cercando d’afferrare il naso del padre. «Ed Harry non
è rimbambito» aggiunse.
«Adesso sei tu che dici brutte parole» sghignazzò,
facendole segno di avvicinarsi. «Herm, da quanti anni ti batti
per la liberazione degli elfi domestici? Per il C.R.E.P.A.?»
La donna si rabbuiò. Quel discorso la faceva sentire una
nullità. Per quanto credesse in quel progetto, certe volte lo
reputava il suo più grande fallimento.
«Quanti?» ripeté Ron, in attesa della risposta.
«Tredici»
«Miseria, già tredici anni? Però, passa il tempo!
Comunque. In tutti questi anni, quanti elfi sei riuscita a
convincere?»
«Tre» sbuffò, sempre più torva.
«E che fine hanno fatto?»
«Sono tornati tutti dai loro padroni» rispose, sedendo scomposta sul divano accanto a loro.
Erano alla fine di aprile, mancavano poche settimane alla nascita di
Hugo e si vedeva. Soprattutto si sentiva: era un macigno tale e quale
al padre e amava farlo sapere a suon di calcioni e rivolgimenti. Non ne
poteva più, agognava le doglie e la rottura delle acque
più di qualunque altra cosa al mondo. Aveva imparato ad odiare
la gravidanza e si era ripromessa di non averne altre in vita sua.
Ginny e Fleur dovevano essere due pazze furiose per averne avute tre.
C’era qualcosa di perverso in quella scelta.
Ron le cinse le spalle, tirandosela vicino.
«Tesoro, non devi fare rivoluzioni per tutti. Capisco che tu ci
tenga, che un essere reso schiavo sia triste da accettare, ma a loro
non interessa! Sono felici così, te l’hanno provato un
sacco di volte. Se non fosse come dico io, ne avresti liberati migliaia
ed ora ti festeggerebbero come “la strega degli
elfi”» sorrise, dandole un bacio sulla fronte.
Hermione sorrise incerta, nonostante l’abbraccio di Ron la
facesse sentire meno abbattuta. Consolarla in quei momenti era
diventata una sua specialità.
«Mettiamola così: la loro natura garantirà la
sopravvivenza di molti maghi. Per la miseria, ti immagini tutti quei Purosangue che non sanno farsi neppure un uovo al tegamino? Cosa farebbero senza di loro?» scherzò scrollandola.
«Quello non lo sai fare nemmeno tu. E senza che tu abbia mai
avuto un elfo domestico» osservò, prendendo in braccio
Rose che sbadigliava.
«Perché dovrei imparare, visto che ho per moglie una cuoca provetta?»
La strega lo fissò a lungo, cullando la bambina. La stanchezza
del turno non impediva al suo uomo di trovare una frase o un gesto
abbastanza buffi da strapparle un sorriso. Meravigliosa dote degli
Weasley.
«Va bene, hai vinto. Le tue dita non toccheranno altro che le
posate per mangiare» fece alzandosi. «E tutto il resto
delle stoviglie lo laverai con gli appositi incantesimi domestici
mentre faccio addormentare la nostra principessa»
Preso in contropiede, Ron sgranò gli occhi sulla consorte che si allontanava verso le camere.
«Ma… Hermione! Lavare i piatti? Io?!?»
«Se sarai bravo ed obbediente, e Rose chiuderà subito gli occhi, forse avrai un regalino» ammiccò.
«Qualcosa di bollente?» suggerì l’uomo, sfregandosi le mani.
«Ron, sono incinta» sibilò risentita.
«Mi accontenterò di qualcosa di tiepido, allora»
***
Gli occorse qualche istante per rendersi conto che chi stava sulla
soglia era Francis. Non era abituato a vederlo tirato a lucido. O
meglio, non lo era più da almeno quattro anni, cioè da
quando era entrato in squadra. Di solito vestiva in maniera molto
pratica, sportiva, senza eccessi. Quel genere di vestiario Babbano
gli si confaceva molto più della divisa, dato che spesso le
indagini lo portavano a muoversi tra le persone normali. A pensarci
bene, anche Tonks non aveva mai portato l’uniforme degli Auror,
se non ricordava male perché aveva compiti analoghi a quelli di
Francis. Anche Malocchio non la portava, ma lui, si sapeva, era un
altro genere di Auror. Vedere
Lawson abbigliato di tutto punto, con i capelli tagliati e sbarbato per
giunta, lo faceva sospettare che qualcuno avesse usato un Giratempo per fargli incontrare un’altra persona.
«Eccessivo?» chiese, cercando d’allentare un po’ la cravatta.
Non ne allacciava una dal giorno del diploma all’Accademia ed il
nodo sembrava essersi animato per errore: stava cercando di
strangolarlo.
«N-no, no! Anzi, hai l’aria di essere tu il capo, fra noi due» scherzò Harry facendolo accomodare.
Ridendo, Francis entrò nel famoso numero dodici di Grimmauld
Place. Era diverso da come se l’era immaginato, nonostante le
descrizioni fioccassero. L’ingresso sembrava quello di una dimora
d’altri tempi, alto, stretto e male illuminato. Ma un grande
riquadro rosa, contornato da orrendi drappi, attirò la sua
attenzione.
«Prove di colore?» chiese, incuriosito.
«Ehm, no. C’era un quadro. L’abbiamo fatto togliere.
Non era… intonato all’ambiente» si giustificò.
«Bell’idea. Dà luce all’entrata»
«Trovi?» chiese Harry, esterrefatto per l’osservazione.
Aveva ragione: quello squarcio dava un po’ di respiro
all’ingresso. Lo faceva apparire meno tetro del solito. Per non
parlare della pace che accompagnava chi metteva piede in casa.
«Harry, con chi parli?»
«È arrivato il nostro ospite»
La ex-Cacciatrice fece
capolino dal soggiorno, curva sul figlio minore che avanzava
traballando. Albus aveva difficoltà a stare in piedi,
specialmente dopo essere finito a faccia in giù durante i primi
tentativi di camminata. A differenza del fratello, si era spaventato a
morte ed aveva rifiutato di camminare per un mese intero. Aveva ripreso
coraggio solo dopo aver scoperto che l’unico modo per non farsi
sottrarre i giocattoli, era portarseli via.
«Pacciiino, pacciiino, accoa pacciiino» ripeteva premuroso James, camminandogli accanto.
«Giusto, un passettino alla volta. Bravissimo, Al. Fai come il
tuo fratellino» lo incitò la madre. «Scusa Francis
se non ti saluto, ho le mani impegnate»
«Nessun problema» rispose, chinandosi un poco verso il
collega per bisbigliare imbarazzato: «Avrei dovuto portarle
qualcosa? Fiori, vino?»
«Va bene così, Francis, sei tra amici» lo rassicurò.
«Scusa, mi sento uno stupido, ma è una vita che non mi
capitano occasioni simili. Credo di essermi dimenticato come si sta ad
una cena» si giustificò.
«Stai andando benissimo, credimi. Devi solo rilassarti un po’. E levati quella cosa per favore!»
Francis obbedì con un sorriso grato. Non ne poteva più di quella tortura.
«Signor Potter?» chiamò una voce dall’alto.
La Goldstein si era accorta troppo tardi dell’uomo che le dava le spalle.
Era alto quanto il suo cliente, con capelli biondi molto corti.
Francis era rimasto con un dito infilato nel nodo della cravatta, immobile come se l’avesse centrato un Petrificus.
Sgranò gli occhi su Harry, boccheggiando un silenzioso quanto
violento “avevi detto che non c’era” mentre lei si
scusava per aver disturbato.
I passi si avvicinavano, gradino dopo gradino. Restare in quella
posizione sarebbe stato meglio, ma non poteva sentirsi accusare di
essere stato anche sgarbato. Si voltò lentamente, incontrando il
viso dell’Archimaga.
Allora fu lei a restare immobile, un piede sospeso nell’aria a
pochi centimetri dallo scalino. La mano con cui teneva il corrimano
sembrava essersi trasformata in un artiglio pronto a stritolare il
legno.
Harry ricordò che mezz’ora prima la strega gli aveva
chiesto di discutere alcuni dettagli riguardo l’ultimo piano,
onde valutare la gestione degli accessi alle camere. Qualcosa a che
vedere con un Artificium Sigillaria
o roba simile. Se n’era dimenticato e l’aveva lasciata ad
aspettare. Non c’era da stupirsi che fosse scesa nel momento meno
opportuno.
«Bene, adesso penseranno che stavamo combinando un appuntamento
al buio…» pensò tra sé, cercando una via
d’uscita da quell’imbarazzante situazione.
Ginny aveva ventilato l’ipotesi di far incontrare
“accidentalmente” i due, sperando nel colpo di fulmine.
Senza volerlo le aveva dato una mano. La guardò abbozzare un
sorriso compiaciuto, quasi avesse intuito i suoi pensieri. Sembrava
volergli dire che tanto valeva invitare l’Archimaga
per cena e vedere come evolvevano le cose. Harry sospettava che dietro
a quelle manovre ci fosse un disegno più articolato, che puntava
inequivocabilmente alla riduzione del costo delle opere per gratitudine.
«Mi scusi, signorina Goldstein. Permette che… ehm… che le presenti…»
Francis lo precedette, avanzando di un passo verso le scale.
«Come stai, Cam?»
Il saluto cadde nel vuoto. La donna tacque, limitandosi a fissarlo con
odio da dietro le lenti appena lucidate. Riprese a scendere impettita,
ignorandolo.
«Potrei parlarle, signor Potter? Ci sono alcuni dettagli della…»
Benché calmo, il tono della voce non faceva presagire nulla di
buono. Una sottile venatura di rancore serpeggiava tra le sillabe.
«Potresti almeno rispondere» sibilò l’Auror quando lei gli passò accanto.
La strega evitò di replicare per la seconda volta. Fra i due
passava una quantità tale di repulsione magica che la si sarebbe
potuta tagliare col coltello.
«Ma… vi conoscete?» chiese Ginevra, stupita della rivelazione.
«Sì» ammise Francis, subito contraddetto da Camille, inviperita. «Andiamo, è la verità, cornacchia»
«E tu te la cavi bene con la verità, non è
così?» ringhiò senza guardarlo, prima di appellare
la giacca ed indossarla frettolosamente. «Perdonatemi signori, vi
lascio alla vostra serata. Discuteremo domani»
Aveva deliberatamente sorvolato sul nomignolo, perché era la
parola che sopra tutte l’aveva ferita, ancora più della
presenza di quell’uomo.
Strinse cortesemente la mano ai clienti, come di consueto.
Aggiustò la voluminosa borsa sulla spalla e, tremando per la
collera, fece per andarsene.
«Se ti ostini ad andare in giro con quell’affare, prima o
poi cadrai nella buca all’angolo della Saint James’s. Ma tu
detesti le borse piccole» la schernì Lawson, pentendosi
all’istante.
A quella beffa, la donna si volse, ormai fuori di sé. Rimase
dov’era, quasi la disgustasse l’idea di avvicinarlo per
riempirlo d’insulti e fatture come meritava.
«Tu! Eri tu a seguirmi!» urlò.
«Maledetto… Come ti sei permesso? Come hai potuto? Mi hai
spaventata a morte!»
«Non volevo. Stavo solo…» tentò di spiegare, l’altra però non era disposta ad ascoltarlo.
«Bugiardo!»
«Sai che non sto mentendo. Tu lo sai» sottolineò rassegnato.
«Bugiardo» ripeté, la voce le tremava.
Era prossima a scoppiare in lacrime, lo sentiva. Aveva una
dignità e di certo non l’avrebbe persa davanti ai Potter
facendo una sceneggiata da adolescente isterica. Aggiustò gli
occhiali sul naso e la borsa.
«Camille» chiamò, ma lei si diresse all’uscita, le labbra strette dalla rabbia.
Francis non cercò di giustificare quel gesto, al contrario
pensò all’ennesima offesa e l’afferrò per un
braccio prima che raggiungesse la porta.
«Fermati, accidenti! Voglio solo parlarti!»
«Toglimi le mani di dosso» gli intimò.
«Smettila di fare così, non ti ho fatto niente»
L’espressione di feroce incredulità sul volto della strega
lo lasciò sbigottito. Tirare a indovinare sarebbe stato inutile:
la sua era una muta imputazione.
«Non essere ottusa» insisté conciliante, incurante del minaccioso pallore della donna.
Stava per parlare ancora, quando una gragnola di colpi lo investì.
«Laccia! Laccia! Butto!»
James si era scagliato con tutta la sua insignificante mole contro la
gamba di Francis, prendendola a pugni e calci. La furia infantile
andò a segno sul malleolo sinistro dell’uomo che
barcollò pericolosamente contro la parete, lasciando la presa.
«Butto! Tu… tufaabiaeattega…
eeettegaciaabbia… eeepiagge eeee… e tu è butto!
Cattio!» lo accusò, continuando a colpirlo mentre la madre
tentava di trascinarlo via. «Cattio! Toll! Butto Toll!!
Molello!»
Se Harry non fosse stato tanto furioso dentro di sé per quel
poco che aveva appena visto e udito, avrebbe riso del figlio che dava
del Troll monello al suo compagno di lavoro.
«È meglio che vada. Buona sera» salutò tesa.
«Sono d’accordo, signorina Goldstein» concordò Potter, livido. «Buona serata»
Moriva dalla voglia di avere delle spiegazioni e non sarebbe stato molto tenero.
«Ttega! Ttega!» pianse James, vedendola aprire la porta.
Era già sul pianerottolo quando lui riuscì a divincolarsi e a raggiungerla, tirandole la gonna.
«Ttega» pigolò fra i singhiozzi.
Sulle prime, Camille cercò di non guardarlo. Difesa da un marmocchio in pannolino.
Quando sentì nuovamente le manine strattonarle l’orlo del
vestito, le iridi brune scesero ad incontrarne un paio castane e umide.
«No piaggi, ttega» la supplicò, anche se a piangere era lui.
Allungò la mano fra i capelli corvini, facendogli una carezza.
«Ci vediamo, James Sirius» e si allontanò.
La madre sollevò il bimbo dalle pietre fredde, riportandolo in
casa. Sperando di tranquillizzarlo, Ginny gli disse che la cena era
pronta. Disgraziatamente, suo marito aveva altri piani, che prevedevano
un ritardo considerevole del pasto.
Appena l’Archimaga se
n’era andata, aveva trascinato il collega nello studio al piano
superiore. Erano state poche le occasioni nella sua vita in cui si era
sentito frustrato come in quel momento. Chiuse la porta con un Colloportus perché nessuno li interrompesse ed attaccò senza mezzi termini il giovane.
«Ora tu mi darai una spiegazione per quello che è appena
successo. E voglio, anzi, esigo che sia una spiegazione sensata e priva
di qualunque tua solita battutina idiota. Non sono disposto a
tollerarle, come non tollero certe sceneggiate in casa mia, davanti a
mia moglie e ai miei figli!» gridò, sottolineando la cosa
con un pugno al muro. «Francis sono il tuo caposquadra ed ho
bisogno di essere messo a conoscenza se c’è qualcosa che
non va, quando non va e perché! Fa parte dei miei compiti,
quello di far funzionare il gruppo a dovere. Niente intoppi, niente
liti, niente di niente. E per farlo, devo sapere se qualche ingranaggio
non gira a dovere!»
«Io giro benissimo» ribatté asciutto.
Potter lo fulminò con lo sguardo.
«Sai benissimo di cosa parlo. E sai che se perdo le staffe do di
matto. Ci tieni così tanto a vedermi quando sono fuori di me?
Perché mio cognato se lo ricorda ancora dopo dodici anni, se
vuoi chiederglielo!»
«Harry… non è il caso» fece lui, provando a
tranquillizzarlo, ottenendo solo d’innervosirlo di più.
«Ah, no? Non è il caso? Non è il caso?!? Non è il caso un corno di Erumpent!»
ruggì. «Voglio sapere perché non mi hai messo al
corrente dei tuoi rapporti con quella donna!»
«Perché non ce ne sono»
«Lawson, ti avviso che stai mettendo a dura prova la mia
pazienza» e nel dirlo era onesto e minaccioso. «A che scopo
tanti misteri, a che scopo tacere a me che sono il tuo superiore,
quando eri perfettamente consapevole che la tua presenza qui dentro
avrebbe provocato una reazione? E non t’azzardare a negarlo: era
evidente che ti aspettavi che accadesse qualcosa, altrimenti non mi
avresti proposto un incontro da te e poi al pub, anziché a casa
mia?»
L’Auror sembrò in difficoltà: le cose stavano proprio come le aveva descritte.
«Perché tante storie? Perché tutti questi misteri per non incontrare quella donna?»
«Io… io volevo vederla» confessò impacciato.
La rivelazione fu un ennesimo schiaffo per l’altro uomo. Aveva
pensato d’aver instaurato un rapporto di fiducia e collaborazione
reciproca col suo gruppo, evidentemente sbagliava.
«Francis, ti rendi conto di cos’hai appena detto?»
ringhiò. «Tu volevi vederla?!? Hai fatto tutte quelle
scene per poi… Era questa la tua intenzione dall’inizio?
Tutte quelle scene per depistarmi e poi venire qui a conoscerla solo
perché ora è una persona importante?»
Potter nemmeno si rendeva conto che quell’ipotesi non stava in
piedi: l’incontro tra i due era ben lungi dall’essere stato
intenzionale.
«No… no, Harry, tu non capisci» bofonchiò quello, passando le mani tra i capelli appena tagliati.
«Certo che non capisco! Spiegati una buona volta!»
sbraitò, lasciandosi cadere sulla poltrona dall’altra
parte della scrivania.
«Io… non la vedevo da sei anni» sospirò abbattuto, stringendosi nelle spalle.
«Continuo a non afferrare il motivo di questa buffonata. Se avevi
tanta voglia di rivedere una vecchia amica che ora è
all’apice del successo, perché diamine non le hai mandato
una lettera? O il tuo Patronus?»
Finalmente Francis si decise ad alzare il capo, fissandolo negli occhi.
Il poco sonno e lo scoramento gli davano un aspetto da derelitto.
«Camille non è una mia amica, Harry. È la mia ex»
***
Alle nove e tre quarti bussarono alla porta. Una serie di colpi
familiari obbligarono la padrona di casa a lasciare i figli per correre
all’entrata.
«Buon giorno, Ginevra. Domando scusa per il ritardo, ho avuto da fare» esordì piatta la Goldstein.
«Camille! Sei venuta!» esclamò sorpresa la donna,
perdendo il distacco abituale. «Cielo, credevo non saresti
tornata. Non oggi almeno, visto cos’è successo ieri sera.
Credimi, Harry è mortificato per…»
La mano destra dell’altra si levò a zittirla, perentoria.
«Ho preso un impegno con voi, ed intendo mantenerlo. Che razza di
professionista sarei, se abbandonassi i miei clienti, per una simile
banalità e a lavori incompiuti per giunta?» rispose lei
gelida, varcando la soglia.
«Banalità?» disse Ginny, affatto convinta.
«Dov’è James Sirius?»
La domanda riguardo al piccolo ficcanaso la riportò ai toni dei loro abituali discorsi.
«In soggiorno, ma… a me quella di ieri sera pareva
tutt’altro che una banalità e, si fidi, la pensa
così anche mio marito. Dopo che se n’è andata, ha
torchiato Francis per almeno un’ora prima di…»
«Mi scusi» la interruppe bruscamente. «Sono qui per
lavorare e per parlare delle vostre esigenze, delle vostre idee, delle
opere che sto realizzando e di eventuali problemi ad esse collegati.
Quanto che è accaduto in quest’ingresso non deve essere
menzionato mai più. È un favore personale che mi azzardo
a chiederle, signora Potter. Per me è una faccenda chiusa»
Quel che le aveva accennato le era piaciuto pochissimo. Dunque, quella
sgraditissima presenza aveva aperto la bocca e spifferato ai suoi
clienti quanto era accaduto anni addietro? Cosa voleva fare? Metterla
in cattiva luce? Minare la sua credibilità professionale sulla
base di rapporti personali defunti? Che l’avesse assoldato Elder?
Impossibile, Tobias non aveva mai indagato sul suo passato, a lui
interessava il presente. Comunque, non avrebbe permesso a quella storia
di rovinarla. Avrebbe raddoppiato gli sforzi per concludere la
ristrutturazione e consegnare ai Potter un autentico capolavoro di Archimagia, cancellando quelle inutili malelingue.
«Ttega!» cinguettò una vocina dal divano.
James saltò giù, dimenticandosi del gufo di pezza con cui stava giocando, e le corse incontro.
«Eccoti qua, piccolo rompiscatole»
Diversamente da quanto si era aspettata, Ginny vide la donna posare a
terra la borsa ed inginocchiarsi, quasi volesse trovarsi alla
stessa altezza di suo figlio. Camille lo fissò a lungo,
accennando un sorriso, subito ricambiata. Ripensò alle parole
del Ministro, quando l’aveva messa in guardia su quel giovane
rubacuori: “Stia attenta a non cadere nella sua rete o non ne
verrà fuori”. Troppo tardi per opporsi, c’era finita
in pieno e senza nemmeno accorgersene. Sospirò, chinando il capo.
Quel gesto fece impensierire il bimbo.
«Tu no piaggi, io abacio ttega!» e le si gettò fra
le braccia, minacciando di farla finire a terra per il troppo slancio.
«Grazie, non ce n’è bisogno. Non ho pianto»
mentì. «Però sei stato davvero in gamba e molto
coraggioso»
Lo vide gonfiare il petto orgoglioso, piegando le braccine a mostrare muscoli inesistenti.
«Io foootte! Io Ghiffoddoho»
«Agrippa, speriamo di
no…» sospirò Camille, recuperando il sorriso un
attimo dopo. «Visto che, a quanto pare, tu non hai la minima
intenzione di star lontano dai posti dove lavoro e considerato che ti
sei dimostrato in grado di superare ostacoli più grandi di te,
meriti un premio» e prese dalla borsa un nastro rosso, che
tratteneva una medaglia d’argento.
Raffigurava la facciata di un palazzo, molto simile a quelli di
Grimmauld Place. Il bambino guardò estasiato il regalo che gli
pendeva dal collo, sul viso una gioia tanto grande da arrossargli le
guance.
«Credo potrò insignirti del titolo di Capomastro. Ogni
cantiere che si rispetti ne dovrebbe avere uno. Tu potresti essere il
mio: sei sempre presente in loco, controlli le fasi di lavoro, tieni
d’occhio gli orari… Ti và James Sirius Potter? Vuoi
essere il mio Capomastro?»
«Caccomatto?» chiese, sfoggiando la solita aria furba.
Aveva sbagliato di proposito. Voleva giocare.
«Ca-po-mas-tro» scandì l’Archimaga.
«Ca-po-ma-tto» ripeté.
«Sì, può andare. Sei abbastanza fuori di testa da essere anche quello»
Ben arrivati a alix black, FrankyDamix, LaMiry, potterina88 e Tali. Come sempre rinnovo l’invito a farmi conoscere i vostri pareri.
Per Circe: che curiosa! Non
posso dirti nulla, o toglierei il gusto della lettura. Anche se avviso,
la storia non sarà molto lunga!
Per Foolfetta: stai tranquilla,
la serietà di Francis è solo momentanea. Certo, dopo
questo capitolo probabilmente farai fatica a crederci, ma è
così. E il fatto che Camille sia un po’ severa con Lappie
dipende solo dal fatto che sia un pochino svampita, non certo
perché non le vuol bene!
|
Ritorna all'indice
Capitolo 7 *** Tavola 7 - Confronti ***
Tavola 7 - Confronti
Come ogni
venerdì sera, la squadra di Harry si ritrovò in piscina a
fine turno. Quella sera mancavano due persone all’appello: Ron e
Nigel. Il primo era corso a casa dalla moglie, come lui stesso diceva,
per farle da elfo domestico per ogni maledetta quisquilia. Il secondo
aveva avuto a che ridire con una porzione di fish&chips, dove la
cosa più sana era risultata essere il cartoccio che conteneva il
cibo.
Fare due bracciate prima del week-end era un modo per sciogliere le
tensioni accumulate durante la settimana e tenere unito il gruppo,
facendo leva sul cameratismo sportivo. Harry aveva mutuato l’idea
dalle riunioni post-partita delle Harpies. Ginny diceva che se la
quadra andava tanto bene in campionato era anche merito di quei piccoli
momenti di relax.
Chiacchieravano del più e del meno, delle famiglie, delle
partite di Quidditch, delle inevitabili spese da fare, dei progetti per
le ferie.
Uscirono quando erano appena passate le diciotto e trenta. L’aria
di marzo era gravida di pioggia e costrinse il gruppo a salutarsi
rapidamente, Smaterializzandosi ciascuno a casa propria.
Harry sollevò gli occhi sulla ruvida facciata di Grimmauld
Place. Si domandò a che punto fossero i lavori e quando sarebbe
riuscito a mettersi in testa che alle file di mattoni smangiati
corrispondesse casa sua. Lo fece ben sperare il profumo di calderotti appena sfornati che lo accolse entrando.
La porta si chiuse, cancellando la lunga lama di luce che arrivava fin sulla strada.
Un lampione sembrava prossimo ad emettere l’ultimo bagliore. Auto passarono senza fretta.
Un vecchietto uscì dal numero nove, seguito da un bastardino
altrettanto datato. Caracollavano lenti, attraversando pozze di luce
cerea. Il cane procedeva con muso sul marciapiede, starnutendo ad ogni
odore nuovo. Passarono sotto il lampione morente e nello stesso istante
la luce mancò con un crepitio. L’uomo imprecò a
bassa voce contro il governo, trascinando il ritroso animale verso il
palo successivo. Il Babbano
non poteva sapere che la bestiola non puntava al praticello urbano o
all’albero che vi sorgeva, bensì a chi era vi Occultato.
«È da parecchio che non ho bisogno della scorta, Francis»
Trasalendo, l’Auror ricomparve. Harry era alle sue spalle, le braccia incrociate e l’aria di chi attendeva una doverosa spiegazione.
«Ma… come…?»
«Sono andato sul retro e mi sono Smaterializzato qui» rispose semplicemente.
«Mi avevi visto?»
«Ti ho sentito comparire dietro di me, quando sono arrivato. Vigilanza costante» motteggiò divertito.
«Già, vigilanza costante»
In quel momento la porta del numero dodici si aprì e ne uscì l’Archimaga. Lawson si fece piccolo contro il tronco per non farsi notare. Vedendo il Babbano
sul marciapiede, molto vicino a dov’era lei, Camille
sollevò il bavero e finse d’avviarsi verso King’s
Cross. L’ondeggiare della mantella seguiva il ticchettio ritmato
delle scarpe di vernice. Teneva la voluminosa borsa stretta sotto il
braccio, camminando un po’ sbilanciata sulla destra e strappando
un sorriso a Francis. Svoltò rapida all’incrocio con Saint
Chad’s Street. Probabilmente si era Smaterializzata dietro l’angolo del palazzo. Andata. Anche quella sera.
Tornò a guardare Harry. Gli occhi verdi brillavano d’attesa e curiosità.
«Posso spiegarti tutto» esordì con un sorriso vagamente ironico, ma lui l’interruppe:
«Senti, Ginny è da sua madre e all’angolo c’è un pub. Ti va di parlarne davanti ad una birra Babbana?»
***
Conobbi Camille al secondo anno di Hogwarts.
Ammetto di non essere stato
uno stinco di mago: da buon Grifondoro amavo cacciarmi nei guai ed un
giorno, mentre me la davo a gambe dopo aver dato manforte ai gemelli
-sì, Harry, quei gemelli-, andai ad infilarmi in un ripostiglio.
Non sentii il rumore che fece il pavimento, ero interessato ai passi di
Gazza nel corridoio.
Quando pensai
d’averla fatta franca, udii qualcuno singhiozzare. Fu allora che
mi accorsi di avere i piedi infilati in qualcosa che scricchiolava. La
bacchetta illuminò una ragazzina rannicchiata nell’angolo.
Era spaventata a morte ed al tempo stesso furibonda. Quello che avevo
calpestato, e di cui teneva un pezzo fra le mani, era un modellino a
cui stava lavorando.
Mi urlò di sparire,
di andarmene e cercò di spingermi fuori. Non volevo finire in
punizione, la McGranitt non me l’avrebbe perdonata, e non so come
la convinsi a farmi restare.
«Cam Goldstein» si presentò, una volta calmata.
«Cam?»
«Camille» disse, con gli occhi bassi.
Quel nome la faceva vergognare, lo trovava troppo melenso.
«Francis Lawson»
Mi raccontò che si
rinchiudeva lì dentro per costruire dei diorami, delle piccole
immagini tridimensionali. A Corvonero si prediligeva il lavoro
intellettuale, i lavori manuali erano guardati con sdegno. Quella che
avevo distrutta era l’aula di Storia della Magia, con tanto di
studenti ai banchi e riproduzione simil-ectoplasmatica del professor
Rüf. L’avevo presa per una di quelle stupidissime case di
bambola, roba da femminucce. Mi offrii di aiutarla a ricostruirla per
scusarmi. Glielo dovevo. In fondo, grazie al fatto di non avermi
cacciato dal nascondiglio, avevo scampato un castigo.
Chi avrebbe mai detto che
saremmo diventati amici? Un Grifondoro ed una Corvonero. Amici. A
dodici anni, poi. Di solito noi ragazzi cominciamo a considerare quelle
dell’altro sesso un po’ più avanti. E non
perché ci piace studiare con loro. Io e la mia amica invece
adoravamo studiare insieme, chiacchierare e costruire miniature.
Mentre lavoravamo ad altre
rappresentazioni, Camille mi insegnava i rudimenti
dell’Archimagia, man mano che lei stessa li apprendeva dai libri
che studiava nel cuore della notte. Amava l’idea di creare
qualcosa che fosse utile per gli altri, sfidando le leggi del tempo e
dello spazio. Aveva una passione viscerale per l’apprendimento.
Sarebbe stata un’osservazione banale per una semplice Corvonero,
ma Cam non era né semplice né banale. Era una
Natababbana, aveva scoperto il nostro mondo a otto anni per merito di
un incantesimo che aveva involontariamente praticato dopo una lite con
i suoi. Il Ministero le era piombato in casa nel giro di mezz’ora
per sincerarsi dell’accaduto e comunicare ai Goldstein che la
loro figlia minore era una strega. I suoi genitori erano operai di
Manchester, gente abituata alla realtà Babbana, fatta di fatica
e cassa integrazione, la cui prospettiva più lungimirante era
arrivare a fine mese senza debiti. Non sapevano sognare, la magia li
disgustava. La trattavano come una squilibrata. Un discorso già
sentito, eh capo? Già, proprio come i tuoi zii.
«Gli faccio
schifo» confessò una volta. «Dicono che con questi
trucchetti da quattro soldi diventerò un’accattona.
Hogwarts è la cosa migliore che potesse capitare. A me e a
loro»
Durante le vacanze andava a
stare dalla nonna, in famiglia non la volevano. Ci scrivevamo spesso,
raccontandoci dei compiti, dei progetti, di cosa ci aspettava a scuola.
Al quinto anno, quello del
Tre Maghi, Camille divenne strana. Perlomeno ai miei occhi. Dopo
un’estate divisi mi sembrò diversa, cambiata, maturata.
Quando le parlavo, le parole mi restavano incastrate fra i denti e se
era lei a parlare, non capivo più niente. Mi si azzerava il
cervello. Anche quel gesto nervoso con cui sistemava gli occhiali sul
naso mi mandava in brodo di giuggiole.
Ero innamorato di Camille, anche se restavo mascherato da amico. Il suo solo amico.
Glielo dimostrai al Ballo
del Ceppo. Non avendo molto denaro, alla prima uscita a Hogsmeade
andò da Stratchy and Sons, dove comprò un abito da poche
falci che volle risistemare da sé. La cosa la tenne impegnata
fino alla mattina del Ballo, quando le chiesi con chi sarebbe venuta.
Non avevo osato farlo prima, perché l’avevo vista parlare
con il Prefetto di Corvonero ed ero convinto venisse con lui.
Dall’espressione sgomenta, capii che quel dettaglio le era
sfuggito. Presa dal confezionamento dell’abito, aveva dimenticato
di procurarsi un accompagnatore.
«Meno male che ci
sono io a mettere i Colloportus dove passi tu! Usi troppi
Alohomora» ridacchiai mettendole un braccio sulle spalle.
Non le dissi che, roso da
quell’inutile gelosia, avevo accettato l’invito di una sua
compagna, che non prese affatto bene l’essere piantata in asso a
poche ore dalla serata. Fu un errore colossale e a pagarne lo scotto fu
Camille. Quella sera mi allontanai per prendere da bere. Ero
felicissimo, stava andando tutto una favola, ma quando tornai al
tavolo, quella stava sbraitando contro Cam. Tirò fuori tanta
cattiveria da far invidia ad una Serpeverde.
«E questo sarebbe un
vestito di gala? Si vede che l’hai fatto tu, come tutte quelle
scatolette di cui vai tanto fiera: sembra un mucchio di stracci lerci!
Voi NateBabbane siete delle mentecatte, nemmeno un elfo domestico
l’indosserebbe. Non conoscete neppure il significato del termine
elegante! Dovete ricorrere a simili sotterfugi per colpire i nostri
ragazzi e portarceli via! Non avete alternative, sfruttate la
psicologia: mostrate loro quanto siete derelitte per elemosinare un
invito, impietosite la gente per riuscire in qualcosa perché non
avete le possibilità economiche e culturali adatte»
sghignazzò, strattonandola tanto forte da strappare le
decorazioni dalla manica. «E dovresti essere una strega? Sei una
miserabile!»
Cam fissava le perline
cadere. Era pallidissima. Il suo lavoro distrutto in un attimo. Cercai
d’intervenire, prendendo una buona dose d’insulti. Speravo
passasse qualche docente per mettere la cosa sul giusto binario, ma
erano tutti irreperibili. All’ennesima invettiva nei suoi
confronti, Camille le rifilò un ceffone tanto forte da farla
indietreggiare. Restò a fissarla in silenzio per qualche
istante, prima di dirle che a contare erano i fatti, non le sue stupide
parole. Poi se ne andò. Cercai di fermarla, inutilmente. Provai
per più di un’ora a convincere quella dannata maniglia di
Corvonero a farmi entrare. Dovetti arrendermi, nella speranza di
vederla l’indomani sull’Espresso. Niente da fare: era
sparita. Pensai fosse rimasta a Hogwarts, troppo avvilita per tornare a
casa.
Le mandai un biglietto, a
cui rispose giorni dopo. Riconobbi la carta: era quella che usava
quando stava dalla nonna. Andai a trovarla. La signora mi accolse
educatamente, anche se traspariva una vaga insofferenza nei miei
riguardi. Pure lei storceva il naso alla parola magia, ma amava troppo
la nipote per farle una colpa del suo essere strega. Cam tornò
con due grosse borse della spesa. Non s’aspettava di vedermi
almeno quanto io non ero pronto a vederla vestita a quel modo. Portava
un paio di scarponi fradici di neve, un vecchio giaccone da uomo sopra
una tuta troppo grande ed un cappello di lana calato fin sugli occhi.
Con gli occhiali appannati mi parve improvvisamente fragile e triste.
Andammo a fare due passi
nella periferia di Manchester. Parlai per ore come un idiota, senza
venir interrotto una volta. Di solito aveva argomenti da approfondire,
correzioni da fare, obiezioni da portare avanti,… il suo
silenzio era spaventoso. Cercammo un punto dove chiamare il Nottetempo,
ma non mi decidevo a tirar fuori la bacchetta per tornare a casa.
«Ma che c’è? Cos’hai Cam?»
«Niente»
«Niente è troppo poco» cercai di sorridere. «Non sarai ancora giù per il Ballo?»
«Perché non mi hai detto che eri impegnato?»
La sua, più che una domanda, sembrava un’accusa.
«Perché saresti rimasta sola»
«Non mentire. So quando dici una cosa per un’altra»
Ero un libro aperto. Mi scopriva sempre, anche quando lo facevo per farla ridere o farle un dispetto.
«Senti, ho sbagliato, ma ci siamo divertiti, no? Prima che arrivasse quella, intendo»
Tacque, continuando a fissare la neve sporca.
«Non tornerò a Hogwarts» buttò lì, quasi fosse un normale saluto.
Non ci credevo, non poteva averlo detto.
«Perché tornare? A che serve?»
«Ma sei impazzita? Il freddo ti fa male»
«No, sono sicura di
quel che dico Francis. Quella ragazza aveva ragione. Per diventare
Archimaga non basta il talento. Servono gli agganci giusti, le
conoscenze ed il denaro per gli strumenti, per i libri, per tutto. E
io… non ne ho»
Aveva gli occhi umidi.
«Ma io sì, lo sai. Faremo la Goldstein&Lawson, ricordi?»
Accennò un debole
sorriso. Avevamo fantasticato tante volte di mettere su uno studio
associato dove lei si sarebbe occupata dei progetti chiavi in mano e
io, beh, di quel che avanzava. Come Archimago sarei stato una schiappa.
«Non esisterà mai. I tuoi non mi sopportano»
«Sono teste dure, ma cambieranno idea»
«No, Francis. Lascia
perdere. Io lascio perdere. Non era destino che diventassi una strega.
Finiamola qui, nessuno deve più perder tempo per colpa mia»
«Tu stai male! Ma senti quel che dici?» urlai, scuotendola per le spalle.
Quando mi guardò,
era rassegnata. Le lacrime le scorrevano sulle guance, eppure
trovò il modo di sorridere. Merlino, era così infelice!
«È stato bello
sognare, Francis. Illudersi di avere un futuro nel mondo magico, ma ho
perso tutte le motivazioni. Non ho nulla che mi spinga ad andare
avanti. Nessuno ha mai creduto in me, né lo farà in
futuro. Sarà sempre così»
Quelle parole mi ferirono.
Il mio starle vicino non aveva significato niente? Era così
ottusa da non aver capito cosa provavo? Decisi senza pensare che fosse
ora di mettere le cose in chiaro, una volta per tutte e in pieno stile
Grifondoro. La baciai con tanta foga da farle quasi male.
«Adesso ce l’hai un motivo» borbottai allungando la bacchetta.
Mentre salivo sul Nottetempo, mi voltai. Era ancora lì, imbambolata, le lenti un po’ scese sul naso.
«Prova a non farti
trovare al nove e tre quarti e giuro che vengo a prenderti e ti
trascino a scuola anche se ti trovo nuda, parola mia!» minacciai.
Alla ripresa delle lezioni
stavamo insieme. Camille non mostrò più tentennamenti,
era tornata quella che avevo sempre conosciuto: intelligente, allegra,
fiera del suo essere NataBabbana. L’anno successivo fu difficile
da sopportare con la Umbridge e la sua squadriglia di cretini,
ciò nondimeno riuscivamo a trovare modi per stare vicini. Io e
la mia cornacchia. Era il soprannome che le avevo dato. Avevamo ripreso
con i modellini, cimentandoci in edifici veri e propri. Ci diplomammo
l’anno successivo, quando morì Silente.
I miei sono Purosangue, non
di linea diretta come i Malfoy, tuttavia ligi all’idea che un
mago possa sposare una strega solo se questa non annovera parenti
Babbani. Per cui la mia relazione con Camille non era vista molto bene.
Per niente. Finii diseredato. Camille perse la nonna pochi giorni dopo
i M.A.G.O. e insieme a lei l’ultimo legame con la sua famiglia.
Avevamo dei progetti per la
nostra vita: io sarei diventato Auror come sognavo fin da piccolo, lei
sarebbe entrata in uno studio di Archimagia. E poi una casa, dei figli,
una famiglia nostra.
Andammo a Valencia, Saint
Malo, L’Aia, ma la guerra imperversava e venivamo guardati con
sospetto. Trovavamo lavori che perdevamo sistematicamente dopo un paio
di settimane, un mese se eravamo fortunati. Eravamo sempre in viaggio
ed il poco denaro nelle tasche si riduceva rapidamente. Tiravamo avanti
a fatica. Infine, alla caduta di Voldemort, ci trasferimmo in Irlanda.
Affittammo un appartamento
fatiscente, stretto fra palazzi altrettanto malconci. Ricordava quello
in cui aveva vissuto sua nonna. Dalle finestre vedevamo i tetti di una
fabbrica dismessa. Risparmiavamo su tutto: cibo, vestiti, Polvere
Volante, riscaldamento. Persino sull’acqua della doccia. Chi
arrivava aspettava l’altro per lavarsi. Non era tanto male,
dopotutto aveva dei risvolti piacevoli.
Entrai all’Accademia
degli Auror a Dublino. Camille si barcamenava da uno studio
all’altro, lavorando sodo e studiando la notte, per sentirsi dire
che “aveva troppa esperienza per quel ruolo” e non potevano
tenerla: avrebbero dovuto pagarla il giusto, che per loro significava
sempre uno sproposito. Quando tornava, fingeva che non le importasse
del licenziamento, d’aver sfruttato al massimo
quell’esperienza per migliorare. Mentiva. La notte piangeva,
tentando di nascondersi, ma la scoprivo ogni volta. La consolavo,
facevo lo stupido per farla ridere, dicevo che sarebbe andato tutto
bene.
Nel frattempo, per non
gravare sulle nostre misere finanze -destinate all’acquisto di
strumenti per l’attività di Cam-, trovai un paio di
lavoretti: uno al porto come sorvegliante di carichi magici,
l’altro come cameriere.
Ci vedevamo pochissimo e
quando riuscivamo era solo per pochi minuti, prima che la stanchezza ci
facesse crollare. Eravamo sempre più distanti e stanchi, al
punto tale che non mi accorsi di quel che le accadeva. Cam era riuscita
ad ottenere un posto nello studio di Al Borders, un vate
dell’Archimagia contemporanea. Finalmente intravedevo un
po’ di felicità nei suoi occhi: pur pagata un pugno di
Billywig, si sentiva coinvolta in prima persona nel lavoro. Stava in
piedi fino all’alba per preparare progetti, modellini, documenti.
Parlava di Al come di una persona magnifica, che le stava aprendo gli
occhi sulla realtà della professione, sui suoi aspetti
più peculiari. E la mia gelosia tornava a galla, trascinata
dalla stanchezza e dalla fame. Il denaro non bastava mai e sembrava
perdere di valore ogni giorno.
Le cose precipitarono nel
giro di una settimana. Persi il lavoro come cameriere, bucai di netto
l’esame per diventare Auror e mi licenziarono al porto
perché sorpreso a dormire in servizio. Quando rimisi piede in
casa, la vidi provarsi un abito nuovo di zecca. Era fin troppo evidente
che doveva essere costato una fortuna. Le chiesi spiegazioni e disse
che era stata un’idea di Al. Le serviva un guardaroba migliore
per far colpo sui clienti. Avrebbe dovuto considerarlo uno strumento di
lavoro. Sapevo che doveva aver meditato a lungo su
quell’acquisto, che non era stato facile per lei sprecare quella
somma, ma fu la goccia che fece traboccare il vaso.
«Lavoro, lavoro,
lavoro! Solo questo esiste per te!» gridai infuriato. «Ne
ho abbastanza! Io non conto più nulla! Quello che faccio non
conta! C’è solo il tuo stramaledetto lavoro! Ogni cosa
è in funzione del tuo lavoro!»
«Tu non capisci! Per me è importante!»
«Importante? Io
dovrei essere importante per te! Io! Ma non te ne frega niente! Sono
solo il cretino che si spacca la schiena per farci sopravvivere! Ti
servo solo per pagare i conti! Se non ci fossi, saresti tornata dai
tuoi anni fa, con la coda tra le gambe! Avresti rinunciato ancora!
“Nessuno crede in me perché sono una povera
NataBabbana!”. Ecco cosa avresti detto!»
«Sei arrabbiato
perché sto riuscendo nel mio settore mentre a te è andata
storta! Non è certo colpa mia se non sei stato in grado di
superare quell’esame!»
«Già, non
è colpa tua! È colpa di quest’imbecille che pensava
di contare qualcosa per te! Invece conta meno di una bacchetta
rotta!»
Stavo dando i numeri e lei
ci mise del suo, ricordandomi quanto Al la stimasse come persona e come
professionista. Ci accusammo a vicenda di qualunque sciocchezza ci
venisse in mente, rivangando discussioni morte e sepolte sotto le mura
di Hogwarts. Non mi rendevo conto di quanto anche lei fosse stanca e
disperata. Fingevo di non sapere quante volte mi aveva ceduto il suo
piatto, inventando scuse assurde perché dovevo avere un
po’ di forze in più per l’addestramento e lei taceva
sui piccoli aggeggi che le avevo regalato per il lavoro e che avevo
sottratto di nascosto dalle casse al porto. Eravamo amareggiati e
frustrati, ad entrambi mancavano gli occhi per vedere in quali
condizioni versassimo.
«Ricordati solo questo, Camille: resterai sola per la tua ossessione del lavoro!»
Uscii sbattendo la porta. Fuori, Dublino era piena di sole e d’allegria. Io avevo voglia di ubriacarmi e vomitare.
***
Sbuffando, Francis si allungò sul divanetto, giocherellando con la bottiglia.
«Tornai dopo qualche mese. Ero diventato Auror,
mi ero rimesso in sesto. Credevo di sapere dove avevo sbagliato e che
lei fosse pronta a perdonarmi. Ma quando arrivai, Camille se
n’era andata. Nessuno dei vicini seppe dirmi dove, neppure il suo
capo. O meglio, capa. Si può dire capa?»
«Non credo»
«Beh, ad ogni modo Al era Albertina Borders, che mi fece quasi
sbattere dentro per tentata aggressione» e scolò il resto
della birra con una smorfia. «Cam non lasciò niente, un
biglietto, una Strillettera,
un buco nel muro. Nulla. Pensavo non l’avrei mai più
rivista. Sono rimasto a Dublino quasi un anno prima di chiedere il
trasferimento qui. Ci avevo messo una pietra sopra ed ecco che prima il
suo nome, poi lei tutta intera, saltano fuori. Pensare che ero riuscito
a scordarla!»
«Dici sul serio?»
Francis lo guardò interrogativamente, tentando di sviare la domanda. In realtà aveva capito benissimo.
«Durante la guerra speravo che Ginny mi dimenticasse, che si
rifacesse una vita, ma sai anche tu com’è andata a
finire» ridacchiò, mostrando la fede nuziale.
«Riaccalappiato» ghignò.
«Già. Non mi ha dimenticato come speravo. E ho motivo di
credere che la cosa valga anche per te. Vuoi fare come Ginevra, non
è così?»
Lui si girò, ordinando un’altra bottiglia.
«Francis?» insisté Harry, coinvolto nella faccenda tanto quanto sua moglie.
«Stavo cercando un modo convincente per dire no»
«Però il tuo è un sì, vero?»
L’Auror provò a tergiversare ancora, a far spazientire il superiore, ma alla fine dovette rispondere.
«Vero» sbuffò. «La rivoglio. Ma so già che mi farà morire, la mia cornacchia»
«È molto probabile»
Ben arrivata (o arrivato?) a 2424.
Ribadisco l'invito a tutti i lettori: come sempre attendo con ansia i vostri commenti. Tutto è utile per migliorare!
Per LaMiry: dunque, a scanso
equivoci: per quel che riguarda i rapporti con Elder, erano solamente
lavorativi; Hermione lavora al Ministero all’Ufficio Rapporti con
le Creature Magiche, come dichiarato dalla Row; Dobby invece…
beh, se hai letto i libri dovresti conoscere il suo destino. Se non
è così, preferisco non spoilerare oltre. Non avrei
nemmeno dovuto dirti di Hermione! Grazie mille per i complimenti.
Per Foolfetta: beh, immaginavo
che la parola cornacchia avrebbe suscitato qualche perplessità,
tuttavia spero che ora sia più chiaro che non era
un’offesa. E che sia più chiaro anche quel che è
accaduto nel passato di Francis e Camille.
Per Circe: che posso farci?
Adoro lasciare un po’ suspense in chi legge. Credo che Hermione
abbia continuato a battersi per i diritti delle creature magiche meno
fortunate, a prescindere dal suo lavoro da adulta. L’ho scritto
anche in altre due mie fic (come ben sai) e nessuno mi toglierà
quest’idea!
Per 2424: grazie. Spero che la cadenza settimanale sia sufficiente…
|
Ritorna all'indice
Capitolo 8 *** Tavola 8 - Variante in corso d'opera ***
Tavola 7 - Variante in corso d'opera
«Flamula!»
Fiammelle blu guizzarono in corrispondenza degli agganci della scala,
saldandola al muro di spina. Camille si avvicinò a quelli
più in basso ed osservò il risultato. Il metallo brunito
mandava ancora un lieve baluginio azzurro, segno che l’innesto
era riuscito. Si sfregò gli occhi, irritati dai vapori che
sprigionava la Pozione Protettiva che aveva applicato sulla struttura.
Era un effetto collaterale minimo, sarebbe svanito in pochi minuti.
Sfilò gli occhiali e tornò dal Capomastro, che sedeva
dove una volta era esposta l’antica porcellana dei Black. Le
tracce del passato Purosangue divenivano via via più
insignificanti, al contrario delle proteste di Kreacher, che invece si
lagnava ad ogni levar di bacchetta. Insisteva nel dire che quella casa
non era più quella di una volta, ed aveva ragione. I vetusti
paramenti lasciavano spazio al carattere dei nuovi proprietari, ben
diversi dall’antica casata che aveva eretto quelle mura.
«Anche questa è fatta» disse, cercando
d’asciugare le lacrime causate dalle esalazioni. «Ora
cos’abbiamo in programma? Vediamo…»
Prese gli appunti, facendo scorrere la penna d’aquila lungo una
lunga lista di locali completamente rimessi a nuovo, fronteggiata
un altrettanto interminabile elenco di fatture e pozioni poste in atto.
«Gratta-e-netta; Consolidante dopo dieci minuti; Stabilizzante per i gradini. Ed infine, Filtro Luci… James Sirius?»
Con la vista ancora annebbiata, scorse uno strano fagotto informe dove
il suo Capomastro era intento a giocare con le pedate in legno e marmo
della nuova scala. Averle ridotte alle dimensioni di un cucchiaino da
the aveva aperto nuove possibilità d’impiego, prima fra
tutte quella delle costruzioni giocattolo. Si era raccomandata col
piccolo che non le sbattesse a terra o le mordesse, visto che avevano
l’aria di cioccolatini bicolori e lui, diligente, aveva
cominciato a disporle una sull’altra per fare una casetta. Da
diversi minuti aveva però rallentato il ritmo di posa ed ora
scopriva perché: era l’ora del sonnellino pomeridiano ed
il bimbo si era allungato sul lenzuolo steso a terra. Rigirava
lentamente una delle pedate tra le dita, le palpebre pesanti.
«Oh, no. Non ti addormentare qui!» supplicò l’Archiamaga prendendolo in braccio.
«Ninna» sbadigliò, accoccolandosi contro il suo petto.
«Certo che mi sono scelta proprio un bel Capomastro! Guarda che
gli orari di cantiere li decido io, non tu» lo derise,
accarezzandogli i capelli.
«Ninna» sbadigliò di nuovo.
Istintivamente, anche Camille sbadigliò. La sua stanchezza la contagiava.
«Accidenti, James Sirius, così non finiremo mai. Cerca di
resistere ancora qualche minuto, fammi completare la scala e ti porto
di sopra. Proprio oggi tua madre doveva decidere di uscire con le
amiche e lasciarti qui?» sospirò.
Da quella posizione poteva vedere l’impalcato metallico della
scala torcersi e sparire dietro la parete per ricomparire al primo
piano, dove la terza rampa s’inerpicava verso l’alto come
un’edera scheletrita.
«Engorgio. Gradino locomotor. Balaustra locomotor. E… com’era? Ah, sì. Assembla unicum totalitatis» mormorò, riscuotendosi da un’improvvisa confusione.
Il grande salone a doppia altezza assomigliava vagamente ad uno stadio
di Quidditch durante una partita. Le girava la testa per il vorticare
dei predellini che andavano in cerca del loro alloggiamento.
Il corpicino del bambino premeva morbido contro di lei, accorciandole il respiro.
Coraggiosamente, James resisteva alla Fatina della Buonanotte
che gli bisbigliava dolci ninne-nanne all’orecchio. Cercava di
seguire il volo di quelli che erano stati fino a poco prima i suoi
giocattoli, con scarso successo.
«Presto, presto» bisbigliò la donna, gettando
occhiate impensierite al materiale che pareva non esaurirsi mai.
Non poteva portare il bambino nella sua cameretta finché tutte
gli elementi non fossero andati a posto ed avesse impartito
l’incantesimo di fissaggio.
James sbadigliò di nuovo, rigirandosi fra le sue braccia.
«Ancora un minuto, James Sirius… uno solo»
«Cola miuto» ripeté, sempre più intontito.
Non poteva attendere oltre o avrebbe dovuto bloccare tutto. Due ore di
ritardo come minimo. Sarebbe stato impossibile lavorare con il bambino
in braccio e non poteva certo farlo dormire per terra: doveva tessere
incantesimi molto complessi e di grande potenza, avrebbe rischiato che
qualche riverbero lo colpisse. Chiedere aiuto all’elfo di casa
era altrettanto impensabile: non essendo la sua padrona, non si sarebbe
abbassato a darle retta. Per James Sirius poi, meno ancora.
Odiava doverlo fare, perché sapeva quanto poteva essere
pericoloso, ma era l’unica soluzione che le venisse in mente.
«Mediofirmis!»
La parte di scala terminata ebbe un lieve tremito, mentre i
componenti ancora liberi seguitavano a fluttuare in cerca della propria
posizione.
Appoggiandosi al muro, Camille prese a salire con cautela verso il
secondo piano. Saggiava la stabilità dei gradini ad ogni passo,
prima di poggiarvi il piede. Alcuni vibravano, altri cercavano di
scivolare via. L’incantesimo non era stabile di per sé,
figurarsi in associazione a quelli enunciati in precedenza. Teneva
costantemente sotto controllo il compiersi dell’opera ai piani
superiori, fermandosi di tanto in tanto per lasciar passare qualche
elemento che vagava disorientato. Avrebbe concluso l’opera dal
pianerottolo, se l’avesse raggiunto incolume. Sarebbe stato un
punto d’osservazione perfetto, perché le avrebbe dato la
possibilità d’abbracciare con uno sguardo tutto il sistema
di collegamento verticale. Quel pisolino si stava dimostrando molto
più utile del previsto.
«E bravo il mio Capomastro» si complimentò.
James non rispose, sprofondato in un sonno beato.
Nel superare il primo piano, Camille diede un’occhiata allo
specchio posto nel corridoio. Per un fugace momento, si finse la madre
del bambino. Una volta l'aveva fantasticato più spesso. Avrebbe
voluto un figlio interessato all’Archimagia
fin da piccolo? Un figlio che la imitasse, dimostrando tutta la sua
curiosità per quel lavoro, che trovasse divertente infilarsi fra
mucchi di materiale da costruzione come in un luna park? Ma
soprattutto, desiderava un figlio? Scelse di non darsi una
risposta e riprese a salire. Era troppo stanca per fare congetture del
genere e poi mancavano pochi scalini alla cameretta.
Una vibrazione percorse la parte nuda della scala, scendendo fino al
piano terra. Strano, i montati della balaustra ed i gradini erano
guidati dall’incantesimo d’assemblaggio, non avrebbero
dovuto urtare da nessuna parte.
«Kreacher?» chiamò.
Nessuno rispose all’appello. La signora Potter aveva detto che
ultimamente il loro elfo era piuttosto debole e trascorreva gran parte
del tempo nella camera di Regulus a farsi tormentare dal quadro. Forse
era inciampato o era stato colpito da un legno. Meglio sincerarsi
dell’accaduto: il sangue di elfo era fortemente corrosivo, se
avesse intaccato gli ancoraggi della scala l’avrebbe fatta
crollare in un baleno.
Aggiustò la presa su James e, con maggior attenzione, imboccò l’altra rampa.
Arrivò fino all’ammezzato che precedeva l’ultimo
piano, bloccandosi spaventata. C’era un uomo, intento ad
armeggiare con la porta dello studiolo. Le mancò il respiro
quando udì scattare la serratura. Aveva sciolto l’Artificium Sigillaria in pochi istanti. Anche la porta della camera di Regulus era stata aperta.
«Chi è lei? Com’è entrato nel mio cantiere?» chiese, puntando la bacchetta con mano malferma.
Tutt’altro che spaventato, l’intruso si girò. Aveva
una faccia torva, per nulla rassicurante, e portava un grosso borsello
di pelle alla cintura, dal quale provenivano gemiti soffocati. Grilli Apriporta, attrezzatura da scassinatori, da ladri. Un brivido la percorse.
«La domanda è come farai ad uscire tu» ribatté Dimitri Miles, con un ghigno.
Arretrò d’un passo, tenendolo sotto tiro e parlando a
bassa voce per non svegliare il pargolo, che continuava a dormire
abbracciato a lei.
«Questa casa è piena di incantesimi di richiamo, gli Auror saranno qui…»
«Se non sono ancora arrivati, nessuna segnalazione magica
è apparsa nei loro uffici. Hai tolto tutte le protezioni, dovrei
ringraziarti del favore» rispose, dando un calcio ad un
pilastrino che volteggiava a mezz’aria.
Camille trasecolò. Improvvisa e violentissima, la certezza di
non aver riattivato alcuna fattura di sicurezza la colpì. Senza
quelle barriere, chiunque avrebbe avuto libero accesso, persino un Babbano.
Quel malvivente l’aveva tenuta d’occhio, sfruttando il suo
errore. Era la cosa più stupida che avesse mai fatto.
Strinse la mano sull’impugnatura della bacchetta.
«Non ti permetterò di saccheggiare questa casa» ma Miles non stava ascoltando.
Fissava il bambino con un’ombra cattiva dipinta sul volto.
«È il figlio di Potter, quello?»
Senza riflettere, Camille strinse a sé James e si mise in guardia.
***
Gli Auror rientrarono
trionfanti al Ministero. Zuppi fino al midollo, ma trionfanti.
L’acquazzone scatenatosi sull’Isola di Man non aveva
impedito loro di stroncare definitivamente il traffico illegale di
creature magiche. Un intero branco di unicorni era stato salvato da un
gruppo di lestofanti, che non stavano sicuramente cercando animaletti
da compagnia.
«Ehi, Harry! Succedono tutte a te e non mi dici niente?» esclamò ilare Kingsley, allungandogli un bicchiere.
Il Ministro si era presentato negli uffici della Polizia Magica con una
consistente scorta di beveraggi, per unirsi ai festeggiamenti. Era il
più grosso colpo inferto alla criminalità da almeno tre
anni a quella parte.
«Dirti? Merlino… Ginny!» strillò, scansando la bottiglia per gettarsi nella Metropolvere e raggiungere la moglie.
Il termine della gravidanza era fissato di lì a venti giorni, ma
poteva essere accaduto come con Albus, che aveva anticipato di una
settimana. Ma davvero Lily voleva nascere con tanto anticipo? E chi
c’era con Ginevra? Chi l’aveva portata al San Mungo?
Perché lui non era al suo fianco?
Il Ministro lo accalappiò per la mantella appena in tempo,
allontanandolo dal camino. Preso dall’ottimo risultato non aveva
soppesato a dovere le parole.
«Ginny sta benone a quanto ne so. È con Annie ed Hermione
a Diagon Alley, a far compere per i bambini. L’unica cosa a non
star bene saranno i nostri conti alla Gringott»
Potter si appoggiò all’amico, tirando un sospiro di sollievo.
«Parlavo di questo. Ora ti metti a fare il Cupido?» e gli mise sotto al naso l’ultimo numero della Gazzetta del Profeta.
Nelle pagine di cronaca rosa campeggiavano alcune fotografie della
Goldstein in compagnia di Ernie Macmillan. Passeggiavano per Piccadilly
Circus, ridevano, lui le apriva la porta di un locale dove li si vedeva
pranzare seduti l’uno accanto all’altra. In una si
abbracciavano. Scorse rapidamente l’articolo. Pareva che i due,
pur conoscendosi da tempo, avessero chiarito solo di recente i
reciproci sentimenti. L’autrice attribuiva lo sbocciare della
relazione alla lontananza causata dalle opere che la Goldstein stava
eseguendo a casa sua. Erano stati avvistati nel week-end presso
fioristi e negozi specializzati in allestimenti nuziali, dove avevano
fatto sfoggio della grande complicità che li univa. Nonostante
entrambi fossero molto presi dai rispettivi lavori (Macmillan era
volato oltremanica per affari la sera stessa), indiscrezioni li
volevano all’altare in settembre.
E così, uno dei più
ambiti scapoli d’Inghilterra si è lasciato circondare
dalle solide mura dell’amore.
concludeva romanticamente la giornalista.
Cercò Francis. Temeva la sua reazione al titolo:
“Macmillan. Le immagini della futura sposa”. Lo
trovò che sghignazzava in compagnia di alcuni colleghi. Era
ancora abbastanza sobrio.
«Ehi, capo! Dov’eri? Whisky o champagne? Nigel dice che
mischiati non sono male… a me fanno schifo» e gli
allungò un bicchiere dall’aria sospetta.
«Vieni con me»
«Ma… la festa?» protestò.
«Vieni!» ordinò.
Lo trascinò nell’ufficio, chiudendolo ed oscurandolo.
Meglio lo sapesse da lui, in un posto tranquillo dove poteva sfogarsi,
che in mezzo a dei colleghi su di giri.
Lo fece sedere e gli porse la Gazzetta. L’Auror
scrutò le pagine strizzando gli occhi per qualche istante, per
via dell’alcol. Appena mise a fuoco il servizio, la sua
espressione mutò. L’allegria trascolorò nella
confusione e di seguito nello sconforto. Non si capacitava di quel che
leggeva, guizzava ansioso tra le colonne e le foto. Camille aveva un
altro ed era una cosa seria. Fin troppo.
Chiuse gli occhi, mordendosi le labbra nel tentativo di scacciare dalla
mente quanto aveva letto, quasi si trattasse di un incubo. Quante volte
avevano fantasticato del loro matrimonio, là,
nell’appartamento di Dublino, con lo stomaco che protestava?
Milioni. Ed ora doveva assistere impotente al realizzarsi di quel
sogno. Un sogno di cui non faceva parte.
Sentendo il dovere di dargli una speranza, Harry gli pose una mano sulla spalla.
«È della Skeeter, non so quanto ci sia di vero. È
assurdo che qualcuno creda ancora a quello che scrive. Per esperienza
ti direi di non tenerne conto, sono certamente un mucchio di fesserie
che s’è inventata come al solito e…»
Francis ripiegò le pagine, tranquillo, quasi avesse appena
terminato i reportage più noiosi. L’accenno di sbornia era
evaporato di colpo, concentrandosi in un fastidioso groppo che premeva
in gola.
«Tutto bene?»
Era una domanda assolutamente fuori luogo, se ne rendeva conto.
«Mmmsì, direi di sì» fece lui, incrociando le
braccia dietro la testa. «Accidenti, capo. Questa non me
l’aspettavo proprio. Un Bolide nelle palle fa meno male. Mai provato?»
«No»
«Fortunato»
Gli occorsero alcuni profondi respiri per rimettere in sesto i pensieri
e ricacciare indietro le lacrime che minacciavano di tracimare senza
controllo. Da quando era diventato un sentimentale? Non aveva pianto
quando si erano lasciati. Piangere per una donna. Roba da romanzetti.
«Vuoi stare un po’ da solo? Dico agli altri che sei in bagno o che sei uscito a prendere aria»
L’uomo premette i palmi sul viso, inspirando con calma un’ultima volta.
«No, vengo di là»
«Francis, posso immaginare quanto sia dura»
«Non puoi, Harry. Tua moglie capirebbe, non tu»
La voce era graffiata dall’avvilimento, ma cordiale.
«L’ho vista con altri» tenne a precisare.
«Tu le sei stato portato via dalla caccia a Voldemort, sapeva che
avresti potuto non tornare. Era preparata a perderti. Quelli che
stavano con lei invece non te l’hanno tolta per sempre, non
l’hanno sposata» osservò alzandosi, diretto alla
porta. «Senti, ti ringrazio per avermelo fatto vedere qui. Con
Dave in giro chissà cosa sarebbe successo. Avrebbe capito al
volo e tanti saluti al mio orgoglio ed alla mia dignità di Auror»
Cercò di persuaderlo a sedere di nuovo, a prendersi del tempo,
ma non volle sentir ragioni. Per quanto si mostrasse sereno e
rassegnato, la sua sofferenza era lampante.
«Cam è riuscita a fare quel che non sono riuscito a fare
io. Ha superato la cosa, si è rifatta una vita. Ha trovato la
persona giusta. È il mio turno adesso. Forse, continuando a fare
l’idiota, ho solo rimandato l’inevitabile e la mia dolce
metà mi sta ancora aspettando»
Le iridi verdi lo squadravano sospettose.
«Non parli sul serio» sentenziò Harry aprendo la porta.
«No, per niente» ammise sbuffando, appoggiandosi allo stipite. «Merlino,
Macmillan… ha pure un anno meno di lei! S’è buttata
sui bambinetti, astuta. Cercava la bacchetta della vecchiaia. Oh, scusa
capo. Tu e quello siete dello stesso anno. Però tu sei l’Eroe di Hogwarts, c’è una bella differenza. Cliodna,
vorrei buttarmi sotto un Gigante che fa tip-tap, magari passerebbe
tutto. Ma anche affogare nel whisky potrebbe andare. Il Ministro ne ha
portato parecchio. Che dici, capo? Non possiamo mancare di rispetto
all’ospite»
Vederlo recuperare un po’ della solita goliardia fece ben sperare
Potter, che sorrise spingendolo fuori dell’ufficio.
«Che non diventi un’abitudine» lo ammonì bonariamente.
Anche se la risata che udì sapeva di forzato, non aggiunse altro.
«Padrone!» gracchiò una voce esausta nel corridoio.
«Kreacher! Che fai qui? È successo qualcosa?»
L’elfo barcollò verso di loro, sfinito e pesto.
«P-padron Harry… la casa… la signora…» balbettò, prima di crollare a terra.
***
Era occorsa un’ora per rimettere in sesto il povero elfo. Harry
non ricordava d’averlo visto tanto malconcio, persino dopo la
Battaglia di Hogwarts. Kreacher era venuto ad avvertirlo: un mago
sconosciuto era entrato in casa ed aveva fatto del male all’Archimaga
ed al padroncino. Lui aveva cercato di respingerlo, ma quello
l’aveva colpito ed era fuggito. Aveva tentato d’inseguirlo,
perché aveva portato via delle cose dalla stanza di Padron
Regulus e non poteva permettere che finissero in mani altrui.
«Kreacher è tanto stanco, Padron Harry. Kreacher non
è riuscito a punire il mago cattivo. Padron Regulus sarà
molto arrabbiato» aveva pianto il poveretto, mortificato come non
mai.
Aveva impiegato quasi un quarto d’ora a convincere Francis ad
accompagnarlo. L’idea di rivedere Camille e rischiare nuovamente
le sue ire, ora che sapeva di non poterla più riconquistare, gli
faceva troppo male. Harry, suo malgrado, si era visto costretto a
minacciarlo.
«O mi segui o ti faccio rapporto!»
Aveva assolutamente bisogno del suo aiuto: Francis conosceva gli incantesimi base dell’Archimagia
e sicuramente ce n’erano decine sparsi per casa. Avrebbe dovuto
neutralizzarli se si fossero rivelati d’intralcio ai soccorsi.
«Chi pensi fosse?»
«Miles» rispose Harry, spalancando la porta.
Ne era certo. Ai secondini che aveva sopraffatto nella fuga aveva gridato che si sarebbe vendicato del Sopravvissuto. Non serviva un genio per capire.
Entrarono circospetti. Il salone era ingombro di pezzi di marmo e
schegge di legno, come se qualcosa fosse crollato. Alcuni montanti
volteggiavano senza posa, sbattendo contro le pareti. Un silenzio denso
e pesante era calato su ogni cosa.
«Aspetta» lo bloccò Lawson, quando furono davanti alla scala.
L’Auror diede una leggera spinta al gradino che si mosse, strusciando rumorosamente sul ferro.
«Aeroimmobilis»
«A che serve?» chiese Harry mentre salivano.
«Stabilizza ponteggi e muri prima degli interventi. Non capisco
perché non l’abbia usato. È talmente ovvio»
Trovarono Camille riversa a terra, davanti alle camerette dei bambini.
I segni della lotta erano evidenti sui muri e nei gradini mancanti. La
bacchetta della strega era stata scagliata lontano, forse da un Expelliarmus.
Teneva James stretto fra le braccia. Il piccolo dormiva raggomitolato
contro il suo seno, i pugni vicini al viso, ignaro dell’accaduto.
Con molta attenzione, Harry liberò il figlio
dall’abbraccio salvifico, tirando un sospiro di sollievo. Non
aveva un graffio.
Francis riuscì per miracolo a mantenere il sangue freddo. Si
allungò, prendendola fra le braccia ed esaminando i segni che
portava.
«Camille? Camille, svegliati! Guardami!» chiamò
dandole leggeri schiaffi sul viso. «No, no… Guarda qui,
Harry. Fratture alla mano e al braccio, lividi, ha un taglio sulla
tempia… forse anche la gamba rotta… Camille! Camille,
rispondimi!» ma ai suoi richiami non seguì replica.
«Ha difeso entrambi fino a venir disarmata e colpita» disse Potter indicando il segno di uno Schiatesimo sulla felpa che indossava. «Colpita alla schiena, stava fuggendo»
Lawson tacque. Teneva stretta l’Archimaga,
maledicendo chi le aveva fatto del male e chi non l’aveva difesa.
Poco importava se quel compito spettava a lui o a Macmillan: nessuno
dei due si era trovato al suo fianco nel momento del bisogno. Ecco
perché non meritava più l’amore di Camille.
«Papà, ninna» piagnucolò James, fissando stupito il genitore.
Quando si svegliava suo padre non era mai lì, c’era la
mamma. Harry lo scostò un poco, osservandolo con apprensione.
«Jamie! Jamie, stai bene?»
«Ninna io» sbadigliò il bimbo, stropicciandosi gli occhi.
La lamentela fece fare una capriola al cuore dell’uomo. Lo
abbracciò, tastando le gambe e la schiena in cerca delle ultime
conferme. Lui rise, gli faceva il solletico. Ma quando si mise seduto
sulla sua gamba e si guardò intorno, le risate svanirono. Vicino
alla sua amica c’era la persona che l’aveva fatta
arrabbiare tanto, che l’aveva fatta andare via. Non l’aveva
dimenticato.
«Laccia! Ttega è mia! Butto Toll! Via! Via!» pigolò, agitando le braccia nel tentativo di colpire Francis.
«Jamie, smettila» lo sgridò Harry
«Butto! Mia! Mia ttega!»
«James!» chiamò, in un tono che non ammetteva
repliche. «La strega sta male. Francis vuole solo aiutarla»
Gli occhi assonnati del piccolo si posarono sul volto pallido della donna. In qualche modo sembrò capire.
«Tammale? Mette ci-ci?» chiese, posando la manina sulla fronte.
Indicava il panno bagnato che sua madre gli posava sul capo quando aveva la febbre.
«Sì, deve mettere il ci-ci» confermò il padre, prima di rivolgersi al collega: «Portala al San Mungo, sbrigati»
L’Auror tentennò qualche secondo, prima di sollevare il corpo e Smaterializzarsi.
«No! No! Mia ttega! Mia!» gridò il bambino, tendendo le manine verso il punto in cui i due erano scomparsi.
«Basta piangere, Jamie. Andrà tutto bene» cercò di rassicurarlo.
Da sotto giunse una voce concitata: Ginny era stata avvisata
dell’accaduto ed era tornata di corsa a casa. Harry scese col
piccino che piangeva disperato contro la sua spalla. La moglie gli
andò incontro, stanca e spaventata. La famiglia si strinse in un
abbraccio liberatorio, da tempo non provavano una simile angoscia. La
paura era una bestia terrificante per i coniugi Potter.
Albus, sentendo il fratello piangere, si unì al coro dei
singhiozzi. Ginevra lasciò il secondogenito al marito, prendendo
in braccio James per calmarlo. Il pensiero del bimbo era però
uno solo, e seguitava a ripeterlo fra le lacrime:
«Mamma, io vojo ttega!»
In primis, come sempre i ringraziamenti ai lettori e il benvenuto a Emily Doyle, Potterina_88_ e PrincessMarauders.
Aspetto come sempre che mi facciate sapere i vostri pareri.
Per Foolfetta: in realtà
il problema con cui si scontravano Francis e Camille durante la guerra
era la diffidenza verso due che apparivano fuggiaschi e non tanto la
questione dell’essere o meno Purosangue. Insomma, due così
o erano inseguiti o inseguitori! Comunque portatori di guai per chi li
avesse avuti vicini.
Per Circe: questa coppia ha certamente avuto una vita difficile, non c’è che dire. Sono stata cattiva.^^
|
Ritorna all'indice
Capitolo 9 *** Tavola 9 - Fine lavori ***
Tavola 9 - Fine lavori
Oltre la finestra, i
rami verdeggianti di un albero. Foglie stormivano lievi e vibravano
contro un cielo di lapislazzuli. La luce inondava ogni angolo tersa e
cristallina, ma Camille viveva un crepuscolo novembrino.
Guardava le spesse bende che avvolgevano braccio e ginocchio destri,
provando l’immotivato desiderio di sentirle stringersi in una
morsa. Eppure il dolore c’era, continuo e sfibrante anche quando
tentava di dormire. Scivolava fra le sorsate delle pozioni
ricostituenti, fra i granelli delle polveri disinfettanti, filtrava
dalle tende accostate. Talvolta si domandava perché cercarne
altro e la sola risposta che trovava era che se lo sarebbe meritata.
Ricordava ogni fitta provata sui gradini, contro i pilastrini della
balaustra, il peso del bambino stretto al suo petto, la paura.
Nessuno era andato a trovarla da quando aveva riaperto gli occhi e
questo, a suo giudizio, indicava della correttezza del ragionamento.
Ernest era lontano per affari, dubitava che qualcuno l’avesse
informato dell’accaduto: andava in bestia se veniva interrotto
mentre era all’opera, nel vero senso della parola. Fosse pure
risorto Voldemort una seconda volta, nulla l’avrebbe distratto
dalle contrattazioni. I Potter dovevano essere furiosi, visto che per
colpa sua un estraneo, un ladro, era riuscito ad introdursi in casa,
saccheggiando i preziosi ed arrivando molto vicino a far del male a
James Sirius. Aveva procurato loro un bel po’ di guai e li aveva
lasciati con la casa a metà. Bel servizio. Davvero di
prim’ordine. Degno dell’Archimaga
Goldstein. Se ne sarebbe vergognata, se avesse avuto ancora un
po’ di forze. Persino Lappie si era ben guardata
dall’avvicinarla. Probabilmente aveva preferito starsene a morire
di fame a casa, piuttosto che sincerarsi delle condizioni di
quell’ingrata padrona.
Inutili le moine dei guaritori e del personale sanitario per spingerla
a reagire: voleva solo crogiolarsi nell’amarezza e nel senso di
colpa. L’intenzione di autocommiserarsi a vita cominciava a
piacerle. Ipotizzava di tenere le bende, per ricordare l’accaduto
ogni volta che avesse visto riflesso da qualche parte
quell’obbrobrio che era la sua immagine. I medimaghi le avevano
spiegato di non aver proceduto con pozioni e incantesimi saldanti a
causa del suo stato di salute, tutt’altro che buono. Era arrivata
in clinica debilitata, allo stremo delle forze, difficilmente avrebbe
retto un paio di giorni ancora. A quel punto desiderava di non tornare
ad essere sana mai più. Avrebbe vissuto in qualche misera
abitazione di periferia usufruendo dei sussidi di disoccupazione Babbani, evitando di danneggiare altri clienti, esiliata dal mondo magico.
Sì, decisamente la migliore prospettiva a cui potesse ambire
un’incapace come lei. Aveva studiato tanto per cosa? Per mettere
insieme il peggior esempio di negligenza, un’enorme fiera della
mancanza, dell’errore. Elder doveva averlo saputo e probabilmente
stava già festeggiando. Una concorrente in meno e le sue tesi
sull’incapacità dei giovani avvalorate. Avrebbero fatto
bene a toglierle il M.A.G.O. e se non l’avessero fatto
d’ufficio, l’avrebbe chiesto lei stessa. Strega. Ma quale
strega? Era una pessima imitazione della peggior fattucchiera del mondo.
Alla fine, le parole di Francis si erano rivelate veritiere: era
rimasta sola. Aveva creduto di poter affrontare le sfide della vita in
solitaria, che la presenza di un’altra persona accanto non fosse
così determinante. Ma nell’immobilità forzata del
letto, scopriva quanto la solitudine la spaventasse a morte. Aveva
disperatamente bisogno che ci fosse qualcuno al suo fianco, anche solo
per rimproverarla o guardarla in silenzio.
Invece era sola, nessuno l’avrebbe difesa.
«Le ho fatto male?» chiese l’infermiera, sentendola trasalire.
Scosse il capo senza guardarla. Presa dai suoi grigi pensieri, non
l’aveva notata. In fondo, la cosa la sfiorava a malapena: entro
una settimana avrebbe lasciato il San Mungo e sarebbe tornata a casa.
L’avrebbe dimenticata, insieme a molte altre facce che vedeva
giornalmente.
«Ttega?» pigolarono lì accanto.
Sbarrò gli occhi, credendo d’essersi ingannata. Doveva
aver scambiato il cigolio del materasso per una voce. Chi avrebbe
portato un bambino là dentro?
Girò impercettibilmente lo sguardo sull’infermiera e la vide sorridere a qualcuno che stava in basso.
«James… Sirius?» azzardò timidamente, aspettandosi che quella domandasse chi chiamava.
«’ao!» salutarono un paio d’occhi castani dietro un piccolo dono.
Rimase qualche istante a bocca aperta, cercando d’inquadrare l’ospite che superava di poco il bordo del letto.
«Fioellino» spiegò, sventolandoglielo davanti al naso.
«Oh, ma che carino!» esclamò l’infermiera, facendogli un buffetto.
«No!» protestò James, ritraendosi.
«Che tipetto suo figlio!» fece il paramedico, tutt’altro che indispettita.
«Lui… non è mio figlio. È…»
«Capomatto!» rispose James indicando la medaglia sul petto.
Il suo piccolo apprendista che fingeva d’incantare i muri con una
bacchetta di cioccolato. Aveva ancora voglia di starle appiccicato,
dopo averlo trascinato giù dalle scale. Si morse le labbra per
trattenere un impulso strano e indecifrabile.
«Sì, il mio capomastro» confermò con un filo di voce.
Occorsero ancora alcuni incantesimi perché le bende pulite
prendessero il posto di quelle vecchie. Il lezzo nauseante degli
unguenti lasciò una breve traccia alle spalle della donna che
usciva, lasciandoli soli.
«Fioellino!» insisté il visitatore.
Con mano tremante, Camille sfiorò la minuscola spiga
d’erica che le porgeva. James le cacciò lo stelo tra le
dita, estremamente compiaciuto del suo stupore.
«Faianinna?»
Di nuovo, la maga perse la parola. Il marmocchio aveva quell’arcano potere.
«Ninna? Oh, n-no… non dormo»
«Nelletto» osservò, tirando le lenzuola.
«S-sì, è… è vero, sono a letto ma non devo dormire»
«Aia bua?» chiese, indicando le garze.
«Passa presto» e sollevò un poco il braccio, per mostrargli che non mentiva.
«Acchiio» e mostrò orgoglioso una consistente sbucciatura sul gomito.
Camille trattenne il respiro. La crosta rossastra era piuttosto recente.
«Come te lo sei fatto, James Sirius?»
«Caccato a giaddino»
«Sei caduto in giardino? Quello dietro casa?»
Si diede della stupida. Non Avrebbe dovuto sapere che prima o poi
avrebbe imboccato il passaggio che dall’atrio portava al piccolo
spazio verde. Era disastroso, pieno di gibbosità, radici
sporgenti, giocattoli abbandonati e non l’aveva ancora sistemato.
Aveva previsto di realizzare un piccolo patio rialzato, aiuole, un
piccolo sentiero in mattoni che… Chiuse gli occhi. Inutile
pensarci.
«Come sei caduto?»
«Igatto. Chiccè o deve buttae via!» si lagnò.
«Gatto? Quale gatto?»
«Igatto butto didiammione»
Camille era incapace d’afferrare di chi stesse parlando. Non
sapeva di Grattastinchi, il vecchio gatto della zia, e della loro
reciproca insofferenza.
«Dov’è tua madre?»
In risposta, il piccolo corse fuori chiamandola a gran voce. Pochi
istanti e la chioma rossa di Ginevra Potter si affacciò alla
porta.
«Vedo che il piano ha funzionato» sorrise, divertita
dall’espressione stranita della paziente. «L’ho
mandato in avanscoperta, perché non ero sicura volessi
vedermi»
Lei scosse la testa per nascondere il proprio disagio.
«Ero certa fosse lei a non volermi vedere» rispose con lo sguardo basso.
«E perché mai?» domandò, accomodandosi sulla sedia accanto al letto.
La gravidanza era prossima alla conclusione e le rotondità pesavano troppo per sostenerle a lungo sulle sole gambe.
«Per quello che è accaduto» rispose dolente.
«Io… non so davvero come chiedervi perdono e… se
riterrete opportuno affidare i… lavori ad un altro Archimago…
sono d’accordo. Anzi, se permette potrei farle nomi di
professionisti decisamente più abili ed attenti della
sottoscritta»
Ginny si sistemò sulla sedia, perplessa. Quella voce incerta era molto distante da quella a cui era abituata.
«Sono cose che succedono. I topi d’appartamento entrano ed
escono dalle case ogni giorno. E casa nostra è un bersaglio
più che appetibile. Era stata già svaligiata prima che
andassimo a viverci!»
«Ma è stato a causa dei miei errori se quell’uomo
è entrato. E James Sirius… avrebbe potuto…»
Avrebbe voluto dire altro, chiarire l’accaduto, ma il sorriso furbo del bimbo la fece distrarre.
«Abbu è co papà. È piccoo, piagge. Io
gaaande!» spiegò, seguendo un discorso tutto personale.
«Poteva fare, ma non ha fatto» l’interruppe la donna.
«Voleva vendicarsi di Harry per averlo arrestato mesi fa. Certo
Miles non credeva di doversi scontrare con un’Archiamaga
ed un elfo domestico tanto agguerriti. L’avete spiazzato e dubito
si farà rivedere tanto presto. Kreacher gli ha quasi fatto lo
scalpo, mentre sembra che lei abbia tolto a Marvin il piacere di
rifargli il setto nasale»
Ginevra trovava preoccupante la sua frustrazione e tentava di
risollevarle il morale con quei dettagli ridicoli. Le aveva sempre dato
l’idea di una persona molto forte e determinata. Stentava a
riconoscerla in quelle condizioni.
«Avete fatto i conti?» chiese ad un tratto la Goldestin, tormentando un lembo dei medicamenti.
«Conti?»
Che le dessero una scopa in testa se fosse riuscita a capire dove voleva arrivare con quella domanda.
«Per l’ammontare delle penali»
«Penali?!?» chiese la cronista, strabuzzando gli occhi.
Camille annuì, continuando a rigirare tristemente la garza.
«Erano indicate chiaramente nel contratto. “In caso di
ritardo nella consegna delle opere oggetto d’appalto,
verrà applicata una penale pari a…”»
citò, ma l’interlocutrice era di ben altro avviso.
«Andiamo, sii seria! Vuoi parlare di lavoro proprio ora? In una
stanza d’ospedale? Dovresti pensare solo a guarire!»
esclamò, perdendo l’abituale distacco cliente/Archimaga.
«Guaicci? Tì?» intervenne James, cercando di arrampicarsi sul letto.
La donna gli rivolse una rapida occhiata, accennando un mesto consenso.
«La mia salute conta poco. I danni che vi sto arrecando…»
«No!» protestò spazientita Ginevra, incerta se
rivolgersi a quella zuccona Corvonero o al figlio che tentava la
scalata. «Sai quanto me ne importa se sei in ritardo? Ti sei
ammazzata di lavoro per accontentarmi, ma soprattutto per dar retta a
mio marito e alle sue assurde paturnie! Sei finita qui per proteggere
mio figlio. Mi sembrano giustificazioni più che accettabili per
un ritardo di qualche giorno»
«I guaritori parlano di almeno un mese di assoluto riposo»
disse, posando l’erica sulla fasciatura. «Non potrò
concludere prima della nascita della bambina come stabilito. È
una mancanza oltraggiosa»
La sua totale dedizione agli impegni presi era quasi irritante.
«Finiscila!» sbottò, ma notando il malessere che
seguitava ad oscurarle il viso, cambiò tono. «Ti prendi
sempre così sul serio, Camille? Sai che esiste una cosa chiamata
perdono? E tu dovresti imparare a perdonarti»
«Perdonarmi non servirà a mantenere gli accordi» obbiettò.
La signora Potter pensò che quella strega meritasse d’essere presa a schiaffi.
«E allora? Non ho Voldemort che minaccia di farmi fuori se non finisci i lavori per fine maggio!»
«Butto, Voddemott!» trillò il bambino dando una pacca al letto, fingendo fosse il nemico.
«Molto brutto, Jamie. Picchialo ancora» concordò la
madre, soddisfatta nel vederlo obbedire per una volta. «Se questa
peste bubbonica è tutta intera e dorme beata nel suo lettino
dopo aver combinato ogni genere di guai, facendomi impazzire da mattina
a sera, lo devo a te. Hai fatto più di quello che ti veniva
chiesto. Quindi, prenditi tutto il tempo che ti serve per guarire e per
terminare i tuoi favolosi incantesimi di ristrutturazione»
«V-volete che lavori ancora per voi? A Grimmauld Place?»
Era incredula, lo sguardo sgranato lo confermava. Aveva dato per scontato il suo licenziamento in tronco.
«Non toglierei mai una pluffa ad un ottimo Cacciatore. Specie se quel Cacciatore gioca nella mia squadra. Che diritto avrei di farlo?»
«E… suo marito? È d’accordo?»
«Vorrei vedere! Se non lo fosse finirebbe gonfiato come una
mongolfiera. E non da me» disse, strizzando l’occhio.
«Sai a chi mi riferisco»
Ora Camille sapeva da chi James avesse ereditato la capacità di ammutolire le persone. Sua madre.
«Centro! Dieci punti!» esclamò ridendo
all’espressione attonita dell’altra, che aveva palesemente
indovinato chi fosse il mago in causa. «Harry e David
l’hanno trascinato via a forza. Avrebbero chiesto aiuto anche a
mio fratello, ma era talmente su di giri per la nascita del bambino che
praticamente camminava sul soffitto!»
«Oh… congratulazioni» sospirò, mentre James
saltellava canticchiando “cu-gi-e-tto, cu-gi-e-tto”.
«Grazie, ma non è di questo che stiamo parlando» le
rammentò. «Francis è stato qui da quando ti hanno
ricoverata fino a tre giorni fa. È più ostinato di un Cerbero»
«Tre giorni fa ero sveglia. Non c’era» ribatté
acida, prendendo quelle parole per una bugia inventata ad arte per
farla riavvicinare al suo ex.
«Ti dice niente il fatto che sia un Auror? Era Occultato,
furbona! Sarà ancora innamorato perso, ma non è
così cretino da rischiare di farti star male! I medimaghi sono
stati categorici sul tuo bisogno di tranquillità,
però… al cuor non si comanda!»
«Deve dimenticarmi» tagliò corto, guardando in cagnesco Ginny quando scoppiò a ridere.
«Sai che si dice dei Grifondoro? Che sono testardi e non si
arrendono mai, anche quando sono lì in un angolo zitti zitti.
Sperano sempre. Io lo so»
«Ttega!» le interruppe James.
Era davanti alla finestra e la indicava col dito.
«Butta finetta! Io cabbio!» e cominciò ad agitare le
manine soffiando, imitando il suono prodotto dagli incantesimi che lei
usava abitualmente.
«Potrei lasciartelo finché non ti dimettono. Mi sembra
d’aver visto una specie di sorriso…» sospirò
la madre, allusiva.
«Una specie» confessò, colta in fallo.
«Beh, vediamo se almeno questa notizia ti tira su il
morale» sghignazzò perfida e divertita. «Sai
cos’è stata l’unica cosa che Miles è riuscito
a portare via? Il ritratto di Walburga Black!»
***
Passarono altri giorni. La sua permanenza al San Mungo era prossima
alla conclusione. Il rametto d’erica colorava il bicchiere sul
comodino, dandole un po’ di sollievo. Lo preferiva al grande
mazzo di variopinte orchidee inviato da Ernest. Si scusava per la sua
assenza, avrebbe voluto esserle accanto dopo quello spavento, ma
qualcosa di nuovo ed importante lo tratteneva a Parigi. Qualcosa che
l’avrebbe resa estremamente felice, così diceva nel
biglietto.
Fu un tuono a svegliarla. Un rimbombo poderoso e selvaggio. Aprì
gli occhi sulla debole luce della camera. Aloni mobili sul soffitto e
sui muri le dissero che le cateratte erano state aperte.
Il ginocchio pulsava fastidioso. Cercò d’appoggiare meglio la gamba, quando si accorse di avere visite.
Avrebbe pensato ad un medimago venuto a controllarla, se non avesse
visto quella giacca posata in fondo al letto. Dopo la visita della
signora Potter, attendeva quella meno cordiale del marito, ma non era
lui che si muoveva silenzioso per la stanza. Per un attimo pensò
al ladro, venuto a vendicarsi del colpo andato a monte, rendendosi
conto però che solo uno stupido avrebbe atteso il suo risveglio
per mettere in atto tali propositi.
Le occorse qualche minuto per realizzare che la persona era Francis.
Non si radeva da giorni, aveva i capelli arruffati. Le guance scavate
facevano sembrare ancor più allungato il suo viso. Aveva
un’aria da degente peggiore della sua. Oppure era l’effetto
della pioggia che scorreva sui vetri.
Quasi avesse percepito il suo risveglio, si volse, avvicinandosi con un sorriso. Un sorriso gentile, caldo, sincero.
«Sei venuto a gongolare?» ringhiò voltandosi dall’altra parte.
Quella dolcezza minacciava di scatenarle una crisi di pianto. Uno sfogo che arginava da giorni.
«Dovrei?» domandò, reprimendo a fatica uno sbadiglio.
Nonostante l’avessero messo a riposo forzato, costringendolo a
starsene a casa con la scusa ufficiale di smaltire ferie arretrate
guardato a vista dai colleghi, non aveva chiuso occhio. La lontananza
da Camille l’aveva reso isterico e insonne.
«È andato tutto come avevi previsto, no?» borbottò rannicchiandosi.
«Perché? Cos’avevo detto?»
Mordendosi il labbro, l’Archimaga si fece forza. Le seccava dover ammettere come stessero le cose.
«Che sarei rimasta sola a causa del mio lavoro»
«Della tua fissazione per il lavoro» specificò
Francis, sedendole accanto. «Non sono la Cooman. Non ho il dono
della preveggenza, sempre che pure quella ce l’abbia. E nemmeno
mi ritrovo una connessione mentale con qualche mago oscuro come il
capo. Ero solo molto arrabbiato, stanco, affamato. E sessualmente
represso»
«Francis…»
«Ehi, non sono un Golem! Ho delle necessità. E tu le condividevi con un certo entusiasmo» sottolineò aspro.
«Se sei venuto a rinfacciarmi quel che è successo sei anni
fa, grazie, ho ben altro farmi star male» replicò,
scrutandolo accusatoria da sopra la spalla.
Lui cercò di controbattere, aprendo e chiudendo la bocca, senza
emettere alcun suono. Restò per un po’ a guardare quella
schiena, avvolta da semplici lenzuola di cotone, rivivendo ogni notte
in cui l’aveva sentita singhiozzare, là, a Dublino.
«Girati, Camille. Mi hai sempre detto che ci si guarda in faccia
quando si parla» disse allungando la mano, ma la strega lo
scrollò via, decisa a non farsi toccare. «Sei convinta che
io sia qui perché voglio riconquistarti, perché non ti ho
mai dimenticata, sei l’unico amore della mia vita, senza di te mi
sento solo un bambino troppo cresciuto con una bacchetta in mano che
non so come usare, perché è come se mi mancasse il
sole-la luna-il mare-l’aria e bla-bla-bla… ma posso
assicurarti che ti sbagli. Cioè, sì, è vero che ti
voglio ancora bene, ma tu non me ne vuoi. Non come prima. Per niente.
Hai voltato pagina e non hai più bisogno di me. E io…
insomma… ci siamo ritrovati, no? Siamo qui. Vorrà dire
qualcosa!»
«Mi fai venire il mal di testa quando parli così» sibilò, fingendosi risentita.
In realtà desiderava vederlo andar via per non dover fare i
conti con il desiderio, sempre più impellente, di lasciarsi
confortare. Francis era sempre stato molto bravo in quel genere di
cose, ma non poteva tornare ad essere la sua ancora di salvezza. Lui
non faceva più parte della sua vita.
«Lo so. Scusa. Quel che voglio dire è… è che
non sei sola. Un amico ce l’hai. Oltre al nanerottolo di Potter
intendo. Se mi vuoi come amico»
Sorpresa, tornò a volgersi un poco verso l’Auror.
Sapeva che il piccolo James Sirius aveva fatto breccia nel suo cuore?
Che era riuscito a farsi voler bene quando lei preferiva tenere le
distanze dai clienti?
Poi i pensieri cambiarono bruscamente prospettiva. Lo fissò a lungo, scettica.
«Sei un pessimo bugiardo, Francis. Lo sei sempre stato»
«È la verità, giuro!» rispose, levando le mani in alto.
Faticosamente, Camille si mise a sedere.
«Non giurare, Grifondoro. Non potresti tener fede a questa
promessa, ti conosco troppo bene. Parli d’impulso e finisci col
morderti la lingua»
«Mi stai dando dello spergiuro?»
«Dico che mi ami ancora e non ti rassegnerai mai al fatto che tra noi è finita»
Francis scattò in piedi per impedirsi di commettere qualche
sciocchezza. Camminò per la stanza, cambiando direzione ogni due
passi. L’Archimaga non
sapeva cosa pensare: non l’aveva mai visto comportarsi a quel
modo. Dopo qualche minuto si fermò, grattandosi nervosamente la
testa, e tornò spedito e minaccioso verso al letto.
Al diavolo l’orgoglio e al diavolo pure quel damerino di
MacMillan con i suoi soldi, i suoi contatti altolocati e tutto il resto.
«Okay, cornacchia!
È vero, è come dici tu. Ti amo ancora, ti adoro, ti
venero sopra ogni altra cosa, ti sogno ogni notte, ti penso ogni
secondo del giorno, ti vedo ovunque, ti rivorrei tra le mie braccia e
lotterei col mondo intero per questo» snocciolò e,
scorgendo un’ombra di tentennamento, proseguì
addolcendosi: «Ma visto che non cederai mai, perché sei
cocciuta come un Drago incartapecorito ed hai già un altro rompiscatole ad occupare la tua vita, mi arrendo. Cedo le armi. Hai vinto, cornacchia. Ma almeno, mi vuoi come amico? Uno di quelli che ti Smaterializzano
a casa quando esci dall’ospedale quando non c’è
nessun altro a farlo? Che ti portano la slavina di pergamene e libri
che compri ogni quindici giorni per tenerti aggiornata? Che stanno a
sentirti in silenzio quando la tua giornata è andata storta
anche se ne hanno avuta una ancora più brutta? Che ti preparano
una bella zuppa di cavolo nero con tanto tanto tanto
aceto…»
«Ti prego, non ho intenzione di restare a vita qui dentro»
rampognò la donna, storcendo il naso al ricordo del malsano
manicaretto che le aveva preparato anni addietro.
«Andiamo, ammettilo: nessun altro ti ha mai preparato niente di simile» fece lui, smorfioso.
Dubitava che Macmillan avesse mai messo piede in una cucina, escluse
quelle dei suoi lussuosissimi alberghi e ristoranti. E comunque, mai
con l’intento di mettersi a spadellare per lei.
«Grazie al cielo, no» ammise, cercando d’ignorare il sorriso affettuoso che le rivolgeva.
Francis le prese la mano mentre si lasciava cadere sul letto, che cigolò penosamente.
«Tienimi come amico. Sarò inoffensivo, lo prometto. Basta
solo che tu lo dica e sarò solo questo: un buon amico. Niente
più del tuo sciocco Grifondoro» aggiungendo dimesso: «So stare al mio posto, credimi. Me l’hanno insegnato bene negli Auror»
Il calore di quel contatto le diede le vertigini. Non era la mano del
suo fidanzato di un tempo. Era una mano sconosciuta, grande e ruvida,
eppure sentiva che quel tocco era rimasto lo stesso di quando stavano
insieme.
«Non sono sicura…» disse, sentendo la voce assottigliarsi.
«Dammi una possibilità, Camille»
Gli occhi azzurri dell’uomo apparvero di fronte a lei. Cercava di
persuaderla a dargli retta. Sapeva di non potersi fidare di un
Grifondoro. Di quel Grifondoro.
«Francis…»
«Per favore… amica mia. Una possibilità al tuo sciocco Grifondoro. Una sola»
Con questo capitolo ci avviamo alla conclusione. Il prossimo
sarà l’epilogo. Lo so, state già pensando di
trucidarmi…
Ben arrivate ad AundreaMalfoy, Cerenyse, Owly, superkina e _screps_. Anche se siamo agli sgoccioli, ribadisco che le vostre comunicazioni, di qualunque tipo, sono ben accette.
Per Emily Doyle: sintetica!^^
Per Circe: spero che questo capitolo abbia chiarito i tuoi dubbi.
Per Foolfetta: beh, complimenti
per aver indovinato la presenza di Francis al San Mungo! Come vedi
anche qui James non lesina sull’affetto che prova per la ttega.
Quanto a Miles, la sua vendetta (qualunque cosa comportasse) è
andata a monte, certo come ladro non è un granché, visto
cosa si è portato via… ^^
|
Ritorna all'indice
Capitolo 10 *** Tavola 10 - As Buildt ***
Tavola 10 - As buildt
Hermione era al
settimo cielo. Quella sarebbe stata la sua conquista più grande,
ne era certa. Guardò Hugo che dormiva nonostante il brusio di
sottofondo della festa e pensò quanto fosse bello non vedere
Kreacher aggirarsi portando vassoi e bicchieri, come era stato al
matrimonio di Harry e Ginny. Pochi giorni dopo il furto, l’elfo
aveva chiesto al padrone d’essere liberato per poter andare a
salvare la signora Black. La richiesta aveva parecchio stupito Harry,
che immaginava il domestico molto più attaccato al medaglione ed
alle poche cose di Regulus piuttosto che al quadro della megera
ululante.
«La padrona ha solo Kreacher e Kreacher non può lasciare sola la padrona!» era stata la sua spiegazione.
Commosso, Harry l’aveva accontentato, facendogli presente che
sarebbe stato sempre il benvenuto, qualora avesse deciso di tornare una
volta conclusa la missione di salvataggio.
«Certo, il motivo della liberazione non è
l’emancipazione sociale, ma è un inizio. Aspetterò
che la voce si diffonda e sono sicura che dovrò fare gli
straordinari per regolarizzare la posizione di tantissimi elfi!»
esclamò entusiasta, sorseggiando del succo di zucca.
Ginny era scettica a riguardo, ma non disse nulla.
Era il giorno dell’inaugurazione del rinnovato numero dodici di
Grimmauld Place ed il compleanno di Harry: avrebbe accuratamente
evitato qualsiasi forma di malumore, anche se le notti di sonno mancate
la rendevano piuttosto irascibile. Lily e Albus si volevano talmente
bene da avere le colichette contemporaneamente. E Jamie, per non essere
da meno, si svegliava appena i fratellini si acquietavano, con la
pretesa di giocare. Harry le aveva dato una mano quando aveva potuto:
in quei mesi era stato spesso fuori per dar la caccia a Miles. Era
diventata una questione personale, da sanare in tempi brevi.
Quell’uomo aveva passato il segno introducendosi in casa loro.
«Vorrei sapere chi mi darà una mano, ora che Kreacher se
n’è andato. Non posso chiedere a mia madre di fare avanti
e indietro ogni giorno» sbuffò, guardando supplichevole la
donna al suo fianco.
«Spiacente, anch’io ho il mio bel daffare. Due figli ed un
marito che potrebbe essere il terzo troppo cresciuto…»
sospirò Hermione, gettando uno sguardo tenero e preoccupato
all’ennesima rappresentazione della guerra.
Il ruolo del cattivo toccava a Ron ed era quasi sicura che sarebbe
tornato a casa con almeno un paio di bei lividi: Fred e Teddy spesso si
lasciavano trasportare come se avessero il vero Voldemort davanti. A
Natale Harry si era preso un morso su ciascun polpaccio dai due
improvvisati paladini. Hermione sperava che l’uniforme del marito
reggesse l’assalto. Ron ci teneva moltissimo, diventava pazzo se
scopriva una macchia o un filo pendente. Era cresciuto negli abiti
smessi dai fratelli o comprati al mercatino dell’usato,
vergognandosene, ed ora che poteva permettersi di acquistarli li teneva
con tutta la cura possibile. In particolar modo l’alta uniforme e
non solo perché emblema di una fulgida carriera: l’aveva
indossata per la prima volta il giorno del loro matrimonio, tre anni
prima. Quel giorno Hermione aveva scoperto quanto il grigio donasse al
suo uomo.
«Potresti chiedere consiglio a Fleur, anche lei ha tre figli» propose, ma Ginny dissentì.
«Madame Weasley-Delacour ha smesso di lavorare alla prima
gravidanza, è ovvio che riesce a star dietro alla famiglia. Fa
la casalinga mentre io lavoro per il Quidditch Week!
"Sci tonevo propriò a quel postò ala Gringòtt,
però i bombini sono trés piccolì…"
Pantofolaia d’un Veela» ribatté piccata, imitando la cognata.
Lily sbadigliò pigra accanto al cugino di pochi giorni
più grande. Li si sarebbero potuti scambiare per gemellini, con
quei buffi ciuffi rossi e la pelle di un rosa appena accennato. Molti
ospiti passavano a salutare e a congratularsi, scambiando ogni volta il
maschietto per la femminuccia e viceversa.
«Non è stata una bella mossa quella i vestirli con la
stessa tutina bianca» osservò Kingsley prendendoli in
braccio entrambi.
Contro la sua pelle scura e la veste blu notte, i neonati sembravano due minuscoli dolcetti alla panna.
«Per favore, non mettertici pure tu! Questa cosa del
rosa-femminuccia e azzurro-maschietto non la sopporto. È
ridicola! Io ho sempre detestato il rosa eppure sono una donna!»
sibilò Ginny, ripulendo il mento di Albus.
Riusciva sempre a svitare un po’ il tappo del biberon, facendo
colare il latte dappertutto. Nella lavanderia una pila di vestitini
aveva urgente bisogno di un lavaggio, le scorte di indumenti puliti si
assottigliavano drasticamente. E Al non faceva nulla per aiutarla.
«Mi spiace che Annie non sia potuta venire» fece Hermione.
«Purtroppo Zoe ha la varicella e detesta stare con mia madre
quando è malata. Non avete idea di cosa significhi avere a che
fare con una bambina di cinque anni!» disse il Ministro,
accomodandosi.
Solo quando fu seduto si rese conto degli sguardi irati che lo
trafiggevano da ambo i lati. Di certo i due cuginetti non
l’avrebbero aiutato a trarsi d’impaccio.
***
Francis si aggirava nella cucina come una belva in una gabbia troppo
stretta. La luce entrava dalle finestre rasenti il marciapiede. Aveva
abbandonato il bicchiere sul piano di maioliche rosse e oro, per
evitare di rovesciarselo addosso o di farlo a pezzi.
Non riusciva a fingersi felice. Per otto settimane era stato il
ritratto della cortesia e dell’amicizia, mantenendo la promessa
fatta al San Mungo, comportandosi da autentico amico. Non aveva mai
superato il limite che si era autoimposto. Camille apprezzava,
arrivando persino a sorridergli. Si sentiva un verme per averle
mentito, eppure al tempo stesso stava benissimo.
Aver visto la sua Cam al fianco del borioso Macmillan aveva però
ridotto ai minimi termini la sua capacità di reggere la
situazione. Lui le teneva una mano sulla schiena, la faceva ridere, le
porgeva pasticcini con la scusa che le opere l’avessero provata
oltre misura, le presentava gente influente che l’avrebbe
contattata in seguito per affidarle incarichi prestigiosi. La sua
galanteria era rivoltante, ma lei sembrava compiacersene. E vederla
così, gli faceva male.
Udì passi frettolosi sulla scala. Si nascose accanto al camino,
per avere il tempo di riordinare l’uniforme di gala. Quel grigio
fumo li faceva somigliare agli Avieri di Sua Maestà, ed aveva la
pessima abitudine di riempirsi di pieghe al minimo movimento. Per
portarlo senza problemi bisognava essere delle statue.
Chi entrò corse al lavandino singhiozzando e lì rimase,
sporgendosi sulla vasca. Gli ansiti riecheggiavano debolmente sulla
ceramica.
Era Camille. Perché era tanto sconvolta? Il primo pensiero fu
che quel dannato cascamorto l’avesse in qualche modo umiliata. Il
secondo fu d’imboccare le scale e andare a spaccargli la faccia.
Non poteva bistrattare la fidanzata il giorno della sua consacrazione
nel mondo dell’Archimagia.
«Che c’è Cam? Cos’è successo?»
La donna sobbalzò spaventata.
«F-Francis… c-cosa fai qui?» singhiozzò, cercando a sua volta di ricomporsi.
Il trucco le colava dagli occhi che sembrarono più limpidi, di vetro brunito.
«Beh… volevo un po’ di pace. Troppo chiasso» e indicò il soffitto.
Da sopra arrivava il baccano delle cucciolate Potter-Weasley al completo.
«Perché piangi?»
«Io… non credo di farcela»
«A fare cosa?»
«Ho… rilasciato… un’intervista»
Strana conseguenza per delle banali domande.
«Per… A… A…» balbettò.
«Aaa?» la invitò.
«Archimagical Digest» disse tutto d’un fiato.
«Archima… aspetta. Non è quel mensile dove pubblicano i lavori solo agli Archimaghi più affermati?»
Lei annuì. Francis rimase a bocca aperta.
«Camille, sai cosa vuol dire?»
Annuì ancora, un poco più sollevata.
«Ce l’hai fatta!» esclamò andandole incontro.
«Archimagical Digest! Archimagical Digest!» esultò l’Archimaga.
In un attimo era fra le sue braccia, ridendo e piangendo allo stesso tempo.
«Ce l’hai fatta! Ce l’hai fatta!» continuò a ripetere l’uomo.
Era uno dei traguardi a cui puntava fin da ragazzina. Avere una
copertina della rivista significava trovarsi nel gota del settore,
avere voce in capitolo. L’incidente non aveva intaccato la sua
credibilità professionale come aveva temeva. Ora poteva solo
continuare a salire, l’avrebbero trattata col rispetto che
meritava dopo anni di sacrifici e delusioni. Elder avrebbe dovuto
tacere e farsi da parte: il nome Goldstein era intoccabile.
A Camille sfuggì l’improvviso irrigidirsi di Francis, allo
stesso modo in cui dimenticò di star abbracciando
l’ex-fidanzato. Presa dall’euforia aveva cercato la sua
bocca, baciandolo con trasporto. Il mago, che avrebbe voluto
respingerla, si lasciò sopraffare dal desiderio di prolungare
all’infinito quell’incontro. Per troppi anni aveva sentito
la sua mancanza. Se avesse saputo a chi rivolgersi, avrebbe pregato
perché il mondo si fermasse in quel preciso istante.
Invece, tutto cessò un attimo dopo, quando l’Archiamaga si rese conto di quel che stava facendo. Impossibile ignorare che fosse lei a manifestare maggior partecipazione.
«N-non c-credere che s-significhi qualcosa» ansimò, allontanandosi con lo sguardo sul pavimento.
L’uomo si sarebbe morso le labbra, se ciò non avesse cancellato quel bacio.
«Ero troppo felice e… non avrei dovuto» proseguì timidamente la strega.
«No, non avresti dovuto» confermò stringendo i
pugni. «Tranquilla, non dirò nulla. Siamo amici, no?
Macmillan non verrà a saperlo»
Quel gesto ora sapeva di addio. Bruciava dentro, amaro come fiele.
«È una cosa che non lo riguarda» rispose Camille, sistemando il maquillage con un paio d’incantesimi.
«Tu dici?»
«La mia vita privata è affar mio, non suo»
«Che rapporto aperto avete! Ma sì, perché dare un
dolore al tuo fidanzato ad un mese dalle nozze?» ringhiò.
«Fidanzato?»
«Macmillan»
Camille lo fissò interrogativa.
«Vuoi dire che…tu e quello…»
«Certo che no. Come ti salta in mente? Ernest sposerà la
figlia dell’Ambasciatore danese, è scritto su… oh, Agrippa santissimo!» strepitò impallidendo.
A quelle parole, Francis ebbe la sensazione che della sabbia gli
scivolasse nel corpo. Ad ogni sillaba pronunciata, una minuscola mano
l’aveva sollevato, trasportandolo in cielo. Camille non avrebbe
sposato quel cicisbeo. Era libera. Poteva essere ancora sua.
Una gioia radiosa gli distese il viso, gioia che fece scattare una reazione indispettita nella strega.
«Smetti di ridere»
«Non sto ridendo. Sorrido, le feste mi mettono di buon umore» si schermì, ammutolendo subito dopo.
«Brutto bugiardo traditore che non sei altro» l’accusò, gelida.
Pessimo inizio. Francis provò l’irrefrenabile desiderio di
schizzare fuori e nascondersi da qualche parte. Decise fosse saggio
mettere le mani avanti.
«Posso spiegarti»
«Taci. Voi Grifondoro non eccellete nell’oratoria» lo
redarguì. «Quando Harry mi ha affidato i
lavori…»
«Non era il signor Potter?»
Lo fulminò sul posto. Mai interrompere una Corvonero arrabbiata mentre esterna. L’aveva dimenticato.
«Quando Harry mi ha affidato i lavori» riprese acida,
«hai cominciato a pedinarmi. Non so come, ma ho percepito la tua
presenza. Sentivo qualcuno al mio fianco. Mi stavi troppo vicino,
arrivavi a sfiorarmi e anche se non ti riconoscevo, sapevo che eri
lì»
Avrebbe giurato fosse arrossita nel dirlo, quasi la lusingasse.
Probabilmente era il contrario: era furiosa e tentava di dominarsi, ma
la gioia d’avere ancora delle chance con lei minava il giudizio
di Francis. E illudersi era dolce.
«Poi sei venuto a cena. Ginevra mi ha raccontato che avevi fatto
il difficile, prima di lasciarti convincere. Ed eccoti, un damerino
dell’alta società. Quello che saresti diventato se non mi
avessi incontrata. Avevi deciso di voler combattere per riavermi.
Sfortunatamente per te sei partito col piede sbagliato»
Riusciva ad essere drasticamente realista. Una fredda analisi dell’accaduto.
«Hai continuato a seguirmi, nonostante ti avessi detto di
smettere. Sei stato persino sul tetto del palazzo di fronte a casa mia,
ti ho visto! Una prestazione scadente per un Auror. Eri là anche durante il temporale, razza d’incosciente. Potevi prenderti un malanno»
La sua voce aveva un’incrinatura impercettibile. Lievissima, simile al velo di lucidalabbra che portava.
«Stavi mettendo nelle grane Harry, te n’eri accorto?» lo rimproverò.
«No» e nell’ammetterlo si sentì molto stupido.
Era un pensiero che non l’aveva mai sfiorato. Le sue distrazioni,
l’eccessiva allegria, le frequenti assenze nelle trasferte, la
stanchezza per i pedinamenti fuori servizio, una possibile denuncia per
stalking… Potter doveva aver fatto i salti mortali per
giustificarlo.
«Quando perdi la testa non ti guardi intorno e fai soffrire chi hai vicino»
«Anche a Dublino?»
Domanda dura, ma doverosa. Voleva capire se era stato così o c’era dell’altro.
«Sì, mi hai ferita anche se entrambi abbiamo avuto una parte allora. Ma non stavamo parlando di questo»
La pausa che seguì la contraddiceva. Desideravano chiarire,
spiegare quell’insensata sceneggiata che li aveva divisi.
«Mi hai fatto paura!» sbraitò, assestandogli un
pugno sulla spalla per ribadire quanto fosse adirata. «E mi hai
soccorsa comunque quando ne ho avuto bisogno, incurante del mio
divieto, salvo fingerti un amico in seguito! Traditore!»
«Cam, io…»
«Non t’azzardare a negare! Bugiardo!» urlò.
«“Non mi vuoi, starò al mio posto, c’è
un altro nella tua vita”! Credevo parlassi di James Sirius! Del
fatto che lo adoro e farei di tutto per un figlio come lui!»
singhiozzò, riprendendo l’invettiva prima di svelare altro
sul desiderio di maternità che aveva preso a tormentarla.
«“Tienimi come amico”… Che razza d’amico
vorresti essere, se fai una proposta del genere solo perché
credi che abbia un uomo? Cos’avevi in testa? Diventare il mio
amante? Mandare a monte una relazione creata dal cervello bacato della
Skeeter?!?»
Francis sgranò gli occhi.
«Q-quindi… sai…?»
«Dell’articolo? Eccome se lo so! Ed anche lei, fidati. Il
mio legale sta facendo pagare cara ogni singola goccia
d’inchiostro a lei ed al redattore della Gazzetta! Per non
parlare dell’avvocato dei Macmillan! La farà radiare
dall’ordine dei giornalisti. Lavoro con Ernest da anni e solo
perché ha voluto che l’accompagnassi dai fornitori che ho
selezionato per l’allestimento, non significa che…»
La strega si zittì di fronte a quegli spicchi azzurri brillanti di sorpresa. Sentì le ginocchia tremare. Agrippa, quanto le mancava la luce di quegli occhi?
Si ricompose e proseguì.
«Non sposerei mai uno come lui. Buono e caro quanto vuoi, ma
significherebbe lavorare ventiquattrore su ventiquattro! Ernest non sa
scindere gli affari dal privato, che razza di vita avrei fatto?»
spiegò, rendendosi conto in quel momento d’averlo fatto
esattamente per sei anni. «Se ci tenevi così tanto a me,
come hai potuto credere a quelle frottole, Francis? Come? Tu mi
conosci!» e conosceva la piega delle sue labbra, il loro tremito
leggero.
Quello del Ballo del Ceppo. Era amareggiata e delusa.
Basta fare il clown, doveva dirle la verità.
«Quando sono tornato a cercarti, non avevi lasciato nulla.
Pensavo volessi cancellarmi definitivamente. Mi odiavi ancora
così tanto quando eravamo là, nell’ingresso. E
quando ho letto… credevo ti fossi rifatta una vita, che fossi
felice. Avevo perso le speranze. Mi sarei accontentato di essere
un’ombra, nell’attesa di superare la cosa»
«Da quando uno come te perde le speranze?» domandò,
sistemando la camicetta con noncuranza. «Sei sempre stato tu ad
infonderle agli altri. Ne so qualcosa»
L’uomo cercò il calice. Doveva essere lì vicino.
Aveva bisogno di tenersi in piedi. Mentre le dita arrancavano sulla
maiolica, le parole di Camille lo lasciarono spiazzato, incapace di
procedere nella ricerca.
«Sei il più grande idiota del mondo. Un adorabile, bugiardo, ostinato idiota, Francis»
A rincarare la dose, c’erano le guance arrossate a coronare il timido sorriso che gli rivolgeva.
«Milly? Sei qui?» chiamarono dalla scala.
Macmillan la cercava.
«Arrivo»
«Milly» ridacchiò Francis.
Era talmente melenso quel diminutivo. Il genere di cose che lei detestava.
«Attento a quel che stai per dire, Grifondoro» l’avvertì, ma l’Auror si limitò a guardarla pieno d’emozione.
Camille raggiunse la scala con lo stomaco in subbuglio per la
contentezza. Aveva l’impressione che milioni di fiori le
germogliassero nel petto. Possibile bastasse così poco per
ripianare sei anni di vuoto? Sei anni di rancore e lacrime?
Sì, era possibile, anche se per una Corvonero il ragionamento
non avrebbe dovuto aver senso. Ma lei non era una Corvonero qualunque.
Era un’Archimaga, e nell’Archimagia
c’erano sentieri che con la logica avevano ben poco a che vedere,
fatti di sentimento e follia. Era abbastanza temeraria da percorrerli?
L’aveva fatto una volta, sbagliando. Ora conosceva il trucco,
poteva evitare che la voragine si aprisse sotto i loro piedi. Era la
tecnica del trilite: un architrave retto da due spalle. E ad entrambi
mancava una spalla per poter reggere la propria vita.
Si fermò al pianerottolo e lo chiamò.
«Francis, sono molto stanca. Avrei bisogno che un buon amico mi riaccompagnasse a casa»
***
Verso sera, gli ospiti cominciarono ad abbandonare la festa. Le strade erano punteggiate di Auror
in uniforme e figure ammantate che sparivano pian piano. Chi aveva
portato i figli con sé rientrava via camino, complimentandosi
per le comode dimensioni del focolare riservato a quel genere di
viaggi. Data la numerosa schiera di parenti dei Potter, la Goldstein
aveva provveduto ad installarne uno grande abbastanza da ospitare
contemporaneamente due adulti e due o tre bambini.
Quando l’Archimaga
giunse sulla porta con in braccio James, restavano pochi invitati.
Abbandonati i giochi con i cugini, il bambino era tornato da lei.
Voleva fare altre magie, cambiare colore e forma a tutto quello che gli
veniva in mente. Camille scrollava il capo divertita: i paroloni che le
sarebbero occorsi per spiegare perché non potevano Trasfigurare un muro portante in biscotto al cioccolato non avevano traduzione nel linguaggio del Capomastro.
Francis la raggiunse mentre prendeva congedo. James si agitava contro la spalla della maga, piagnucolando.
«No ciabae!» protestò, facendo scudo con le braccia.
Come tutti i bimbi della sua età, detestava farsi toccare la
faccia da altri che non fossero i genitori. E poi i baci erano cose da
femmine, gliel’aveva insegnato Fred che lo sapeva perché
era grande: aveva sette anni!
«Niente bacio? Che Capomastro sei, se non ti fai salutare dalla tua Archimaga?» lo punzecchiò Harry.
Il bambino ci pensò su, aspettando risposte dalla madre che
s’indicava il viso. Poco convinto, porse la guancia a Camille,
che la sfiorò appena. Si ripulì prontamente con la
manica, suscitando un coro di risate. Harry lo prese in braccio senza
accorgersi che il piccolo stava macchinando una delle sue trovate. Non
visto, aveva afferrato la lunga collana della strega, trascinandosela
dietro.
«James Sirius!» chiamò mezza strangolata.
«Lasciala subito!» lo sgridò Ginny, colpendolo
leggermente sul dorso della mano, ma lui strinse più forte,
tirandosi vicina l’Archimaga.
Lo sguardo vispo mise tutti in allarme: di solito preludeva un guaio.
James puntò Lawson, la tipica espressione di astuta
ingenuità dipinta sul faccino. Tese la manina, offrendo la
collana. Camille lo fissava incerta, non capiva cosa volesse fare.
«Io ti eggalo» disse.
«Jamie, non si regalano le persone!» scherzò il
padre, ma lui aveva tutta l’intenzione di farsi dar retta.
«Io ti eggalo a ttega, peò tuu faiibbavo e
noafaipiaggee» spiegò, agitando il ditino
all’indirizzo dell’Auror.
Ginny era ammirata dalla faccia tosta e dalla sensibilità del
pargolo. Disarmante e dolcissima. Jamie era un mago, non c’era
dubbio, e quello voleva essere il suo primo incantesimo. Sorrise
complice, incrociando le dita di nascosto e premendole sulla schiena di
Harry, per fargli sapere in cosa sperasse.
Francis prese il monile, scambiando sguardi straniti con la donna. Non
poteva dispiacere il figlio del suo capo, non dopo che aveva difeso
Camille dimostrandosi un osso duro per i suoi due anni. Negli Auror sarebbe stato perfetto. In un’altra squadra però. Avrebbe fatto volentieri a meno dei suoi calci.
«Va bene. Promesso» disse, sforzandosi di apparire colpito dal gesto.
«Pometto!» lo ammonì il piccolo, soddisfatto.
***
La luce entrava dal bow-window, tersa e vibrante, riflettendosi negli
occhi di Francis sopra di lei. Era interessante notare come il blu del
soffitto facesse risaltare il contorno scarmigliato dei suoi capelli.
«Buon giorno, cornacchia pigrona» sorrise.
«Buon giorno, sciocco Grifondoro»
sbadigliò languida. «Temo d’avere un serio problema
di memoria. Non avevamo stabilito d’essere solo amici?»
«Sì, l’avevamo stabilito» assentì.
«E… perché mi ritrovo nuda e a letto con te, che
dovresti essere al lavoro?» domandò, facendo scorrere le
gambe sotto le lenzuola fino ad intrecciarle con quelle dell’Auror.
«Perché oggi sono di riposo e, da buon amico, ti ho fatto
compagnia, cercando di colmare una terribile mancanza che sentivi da
anni» rispose, nascondendo il viso contro la sua spalla.
«Mancanza?» fece Camille sorniona, accarezzandogli le
spalle. «Credi che in sei anni non abbia avuto altre
relazioni?»
Lui si risollevò, serio in volto.
«Sono abbastanza adulto da ammettere che se ne ho avute io, devi
averle avute tu. Anche se non mi piace quest’idea. La detesto. Ma
non siamo Golem, te
l’ho detto. Però non hai fatto l’amore con quelli
come l’hai fatto con me» sottolineò, giocherellando
col lembo di lenzuolo che le copriva il petto.
«E come l’avrei fatto?» s’informò curiosa.
Il mago prese a darle piccoli baci sulle labbra.
«Con passione, dolcezza, desiderio, abbandonandoti a… è normale?»
Camille seguì il suo sguardo interrogativo, scoprendo accanto al letto una figuretta rosa e minacciosa.
«Lappie! Che fai? Metti giù quel mattarello!»
L’elfa agitò rabbiosa l’attrezzo da cucina all’indirizzo di Francis.
«Padrona, l’uomo cattivo ha fatto piangere la padrona e poi
l’ha fatta gemere e ansimare! Ha fatto male alla padrona e ora
Lappie lo punisce!»
Quella dimostrazione di lealtà era impagabile e buffa.
«Calmati Lappie, va tutto bene» disse l’Archimaga, intenerita da tanto attaccamento.
Era troppo giovane per avere una vaga idea di cosa accadesse nella
camera da letto di due esseri umani che si amavano. Ed era così
affezionata alla padrona che difficilmente avrebbe desistito
dall’intento se non le avesse fatto capire per filo e per segno
che non correva alcun pericolo tra le braccia di quell’uomo. Le
spiegò che la sera precedente aveva pianto tra le braccia di
quell’uomo, ma per il bisogno di sfogare tutte le paure che si
era tenuta dentro in quegli anni. Il resto era stato il modo di
Francis di farle tornare il sorriso e di riunire le loro vite.
«Allora la padrona è felice?» chiese dubbiosa.
Camille sbirciò l’Auror, steso al suo fianco.
«Sì, Lappie, sono felice» sorrise sincera.
Sulle prime l’elfa non parve convinta, continuando a rivolgere
occhiatacce indignate all’intruso che attendeva l’evolversi
della situazione.
«Francis potrebbe diventare il tuo padrone, insieme a me. Ti va, Lappie?» propose.
La creaturina lasciò cadere il mattarello sul pavimento, la
faccia nascosta dietro le grandi orecchie. Servire due padroni era per
lei una sorta di traguardo, un premio per aver fatto bene il suo
dovere. Cominciò ad esultare, battendo gli enormi piedi per
terra. Si fermò, gli occhi traboccanti di gioia e chiese:
«Padroni, quando Lappie può avere anche dei padroncini?»
Devo scrivere: “E vissero tutti felici e contenti”? Che
dite? O, come promesso anche per Draconarius, vogliamo dare una
sbirciatina al futuro di questa coppia? Dopo tutto, Lappie ha fatto una
richiesta precisa…
Grazie a LiTtLe_MissGiuly_, Finleyna 4 Ever, ika90 e a tutti coloro che hanno letto e recensito.
Visto che questo è l’ultimo capitolo, ribadisco ancora una
volta che attendo i vostri commenti e, dato che non potrò
rispondere dal capitolo, per ogni eventualità ci sentiremo via
mail! Vi invito ancora a dare un’occhiata alla mia storia
originale, un po’ ispirata a questa: Archimagia.
Alla prossima fic!
Per Circe: felice di aver
chiarito ogni cosa. James è piccolo, vede il mondo da un punto
di vista forse ancora più magico di quello dei maghi adulti. Ed
ora che sai come va a finire la storia (?) che mi dici?
|
Ritorna all'indice
Questa storia è archiviata su: EFP /viewstory.php?sid=507097
|