Donne che piangono

di LOVA
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** libro 1 ***
Capitolo 2: *** Libro 2 ***



Capitolo 1
*** libro 1 ***


libro 1 donne k p

Salve! Questa nasce come brave raccolta di vite di donne che non hanno nome ne identità, ma che si prestano solamente a quel gioco che chiamiamo “vita”. Tutte loro avranno una funzione importante nella vita degli altri, ma della loro vita non si saprà nulla, piuttosto si avranno delle percezioni. Il prossimo libro non è ancora scritto... diciamo che è ancora solo un'idea, ma cercherò di buttare giù qualcosa prossimamente!Ringrazio in anticipo quelli che leggeranno. Spero vi piaccia. Un bacio. Lorena




LIBRO 1

Un debole raggio di sole mi colpì in pieno viso, aggirando le tendine plastificate che facevano da scudo alla mia finestra. Era una giornata soleggiata per gli standard della piccola cittadina nei pressi di O. nella quale vivevo. A fatica mi alzai dal letto e scostai di poco la tenda. Pioggia. L'ennesima pioggia acida si abbatteva leggera sulla città: la strada era un fiume rosso ruggine che scendeva dalla collina poco lontana e la gente, con gli stivaloni in plastica scadente, correva riparandosi malamente con oggetti di fortuna.

Quella mattina mi sentivo più fiacca del solito: avevo la schiena indolenzita e mi pulsava la testa.

Avevo trascorso la serata al pub Kuiper e, con i pochi spiccioli che mi erano rimasti dalla paga mensile, avevo buttato giù un po' di vodka alla fragola, per tenermi al caldo. Come ci ero arrivata a casa mia non lo sapevo. Doveva avermi riaccompagnata Pavel.

Scostai leggermente gli infissi in legno per permettere alla stanzetta di arieggiare e liberarsi dell'aria pesante della notte.

Le voci dei passanti mi affollavano la testa. Certo che avevo proprio esagerato ieri!

Andai in bagno e mi sciacquai il viso con l'acqua del catino preparata stamattina da Sasha, in modo che si facesse tiepida vicino alla stufa a legno. In casa ero sola. La zia doveva esser già andata a lavoro. Il suo turno cominciava alle 5 del mattino, ed erano solo le 7: potevo prendermela comoda stamane poiché avrei cominciato solo alle 2. Andai in cucina per prepararmi un caffè. Erano 2 giorni che usavamo lo stesso fondo e ormai il caffè sporcava solo l'acqua, ma il denaro scarseggiava... Assaggiai la mia dose d'acqua sporca: faceva letteralmente schifo! Aveva un sapore di sporcizia misto a fango.

Dopo averlo buttato giù d'un sorso pulii la misera cucina e le stanze. L'odore degli agenti chimici mi disturbò in modo tale da costringermi a spalancare le finestre in pieno dicembre e respirare una boccata d'aria popolare.

In questo paese di cemento non cresceva più un filo d'erba da anni ormai e i negozi erano quasi tutti chiusi o mezzi vuoti.

Come tutte le mattine era doloroso alzarsi e cominciare un'altra giornata presumibilmente uguale alla precedente...


Di restare a casa non se ne parlava quella mattina. Mi sentivo troppo strana e irrequieta per potermene stare tra queste quattro mura aspettando le 2.

Stranamente quella mattina non avevo affatto freddo. Normalmente mi sarei lamentata per ore dell'acqua che aveva battuto insistentemente sul vetro della mia finestra stanotte e del ghiaccio che si era formato sul balconcino e che aveva sostituito le goccioline di pioggia. Il freddo della giornata invernale non aveva reso il mio animo più grigio di quanto non fosse di solito.

La mia vita sembrava non avere ne inizio ne fine. Se non fosse per il certificato che decretava la mia data di nascita avrei giurato di stare su questa terra sin dai tempi della pietra.

Dopo aver indossato jeans e maglione, presi il cappotto dalla sedia e mi avviai per le scale del pianerottolo dell'antica palazzina dove occupavo, insieme a mia zia Sasha, l'interno 16.

Arrivata al secondo piano mi fermai titubante alla porta di Pavel.

Sicuramente a quell'ora era completamente immerso nel mondo dei sogni e, magari, stava sognando i suoi magnifici paesaggi tropicali o semplicemente una bella città vivace e colorata.

Questi però sarebbero rimasti solo sogni. Per noi non c'era colore se non il bianco della neve e il verde degli agenti chimici che usavamo per ripulire le cisterne e i macchinari della fabbrica.

Pavel Lazareva lo conoscevo da quando avevo 10 anni, quando mi trasferii qui da mia zia dopo l'abbandono da parte dei miei genitori.

Lui mi aveva trovato piangente, seduta su di un gradino di pietra del palazzo.

Che fai?” mi chiese, con tutta l'innocenza che un bambino di 11 anni può avere.

Piango. Non si vede?” risposi io. Un po' troppo acida per essere una bambina.

E perché?”

Perché voglio andare via.” dissi, con la voce rotta dal dolore.

Dai, non fare così. Sai, anche i miei dicono sempre di voler andare via. Io però gli ho promesso che, quando sarò grande e diventerò ricco, andrò a vivere in una città stupenda, di quelle che si vedono solo in TV, e li porterò con me. Puoi venire anche tu, se ti va.”

Grazie.” risposi in maniera automatica, e gli sorrisi. Dentro di me però vi era solo il desiderio di assecondare la sua illusione, infondo cos'è la vita senza illusione e senza sogni? Beati coloro che vivono di fantasie, perché non guardano ogni giorno in faccia i dolori della vita e vivono sempre di nuove speranze.

Da allora Pavel non aveva mai smesso di sognare, nemmeno dopo la morte dei suoi genitori, quando aveva dovuto rimboccarsi le maniche e provvedere a se stesso.

Noi eravamo amici, fratelli, amanti... per lui io ero tutto e mi adorava come una musa. Trascorrevamo intere giornate insieme.

Il suo era un affetto speciale: lui non cercava solo il mio corpo e non aveva bisogno di me per non sentirsi solo. Pavel mi amava di un amore illimitato, impossibile, inspiegabile. Un amore sincero e naturale, vissuto nella più suprema ingenuità e che purtroppo io non riuscivo a corrispondere in maniera così genuina.

Anche io, a modo mio lo amavo. Per me lui era tutto. Era lui che mi faceva sorridere, che mi tirava su il morale, che mi consolava e che mi tendeva la mano. Ma io ero diversa. Io non ero in grado di amare. Non so da dove partisse il mio problema, ma l'affetto che rivolgevo agli altri era intriso di compassione. Eppure non sarei mai stata capace di vivere senza di lui.

Dopo aver indugiato per qualche minuto sulle scale decisi di bussare, ma non ebbi neanche il tempo di far scontrare le mie nocche con il duro legno della porta che questa si aprì e delle labbra morbide e tiepide premettero sulle mie con passione.

Ah”sospiro soddisfatto Pavel, una volta staccatosi da me.

Hey!!” dissi io con disappunto “ ma ti pare il modo? Mi hai fatto prendere un colpo!”

si” disse semplicemente lui, e mi baciò ancora.

Io sorrisi sulle sue labbra e passai le dita tra i suoi morbidi capelli castani. Il bacio divenne più passionale e per farlo smettere gli tirai leggermente una ciocca alla base della nuca.

guarda che siamo ancora sul pianerottolo di casa...”

si?”

si..”

beh, allora perché non ti accomodi?” e sfiorò col suo naso la punta del mio.

Spalancò la porta ed io mi accomodai.

allora, mi fai vedere qualche nuovo capolavoro?” gli chiesi mentre mi dirigevo in cucina alla ricerca di un caffè decente. Si, Pavel era un artista o meglio, oltre ad essere un operaio era un artista: dipingeva, intagliava, scolpiva, e il suo studio era off-limits per tutti gli esseri dotati di cuore e polmoni.

Recentemente erano venuti a fargli visita degli amici dalla Germania e avevano rifornito il suo frigo di cose di alta qualità (biscotti, pasta, caffè... ), ed io mi sentivo più che in diritto di approfittarne!

Non oggi” mi rispose, spuntando improvvisamente dalle mie spalle e cingendomi la vita con le braccia.

come non oggi? Cos'è, illegale?”

no no, è una sorpresa... “

mmm... io odio le sorprese!” non era vero.

non è vero. Tu le adori e dici che non è vero perché speri che io ceda e ti faccia spiare.” Duh!

la sorpresa non è ancora pronta. Quando lo sarà potrai vederla.”

sei ingiusto! Non dirmi allora che c'è una sorpresa per me se poi non posso godermela! E poi è una sorpresa a metà se mi hai già detto che... “

Shhh... zitta. Sono le 8, ieri abbiamo fatto abbastanza tardi e stamattina abbiamo dormito poco. Smettila di blaterare.”

Fece per andare in salotto ed io lo seguii, accomodandomi sul divanetto a due posti e rilassando le gambe sulle sue. Pavel mi tolse le scarpe e mi massaggiò i piedi.

sono già gelati.” disse sottovoce, come dispiaciuto. Io avevo sempre gli arti gelati, e questo poteva infastidire molto le persone, dato che il freddo in questa zona non mancava.

eh si. A proposito, grazie per avermi riportata a casa sana e salva ieri. Beh, in verità io non ricordo molto...”

Pavel scoppiò in una fragorosa risata, ed io con lui, anche se non sapevo di preciso perché. Ma era sempre così: il suo sorriso mi metteva sempre di buon umore... per fortuna.

certo che non ricordi nulla”

ero brilla e... “

no, no. Non eri brilla. Eri sbronza! Ubriaca persa! Ieri dicevi perfino di voler avere un bambino!” altra risata “ lo chiedevi a chiunque al pub, e qualcuno ha anche risposto di si! Fortuna che c'ero io... tzè.”

scusa”mormorai imbarazzata “il mio comportamento deve averti molto infastidito. Ti capisco se vuoi farmi una ramanzina coi contro-fiocchi. E poi dovevo essere del tutto ubriaca per dire una del genere!!”

si, ti assicuro che lo eri o queste parole non le avremmo mai sentite da te.”

Gli diedi un pizzicotto giocoso sulla guancia per poi distendermi di nuovo sui cuscini.

Pavel si tirò addosso il plaid e si stese su di me, avvolgendomi col suo abbraccio e lasciando una scia di bacetti sul mento e sulla linea della mascella. La sua pelle leggermente abbronzata, i suoi occhi ambrati così penetranti, i suoi capelli così morbidi, le sue spalle larghe e le sue mani calde mi mandavano in paradiso e mi facevano sentire la donna più fortunata dell'universo, ma anche quella più egoista perché nei suoi confronti mi sentivo sempre ingiusta, inadeguata. Avrei voluto ricambiarlo in modo adeguato, come un uomo unico come lui meriterebbe, e forse io inconsciamente lo facevo ma non mi sembrava mai abbastanza...

dai...”

...dai che? Vuoi già passare oltre eh? Però, non ti facevo cos...”

ma non gli diedi il tempo di finire la frase che gli chiusi le labbra tra due dita. Come al solito aveva voglia di scherzare... e non solo.

volevo dire dai, no! Se mi lasciassi finire una frase ogni tanto ci capiremmo al volo. Tesoro” dissi cercando di prenderlo dal punto giusto “mi sono svegliata da un'ora più o meno, ho ancora la testa che mi pulsa e lo stomaco mezzo vuoto. Ti dispiace?”

no amore mio” disse lui con un sorriso. Ce l'avevo fatta: lo avevo respinto con grazia, se così si può chiamare il mio rifiuto. E ancora una volta mi baciò.

a che ora vai oggi? “

alle due e dovrei tornare a casa per le otto. Ceniamo insieme?”

non posso... io comincio alle 19, quindi non ci vedremo fino a domani, a meno che...”

a meno che...?

a meno che non pranzi con me oggi! Dai, ti preparo un pranzo degno di una regina!”

ok. Ma solo se lavi anche i piatti!”

scoppiammo a ridere e ci alzammo dal divano per riordinare casa e preparare il pranzo. Il piano di prendere una boccata d'aria fresca era andato in fumo...


Sei mesi dopo...

tok tok...” e mia zia aprì la porta senza aspettare una mia risposta.

Avanzò tendendomi le braccia e stringendomi la vita.

come va?” mi sussurrò all'orecchio con fare materno e comprensivo.

bene. Perché?”

tesoro non hai bisogno di mentire con me. Io so come ci si sente in queste situazioni.”

ma io sto davvero bene! Sono dieci giorni che continui a chiedermelo e a costringermi a confidarti le mie pene!io sto B-E-N-E!”

va bene, va bene. Non c'è bisogno di essere così acide!”

ah. Scusa. É che non sei l'unica a pressarmi per questa storia e, davvero, sono esausta.”

davvero stai bene? Tu e Pavel siete stati insieme per così tanto tempo! Come fai a non soffrire? Non ti manca? Non sei... gelosa?” disse, mentre mi poggiava le mani sulle spalle e mi scrutava dritta in viso.

no, non lo sono. Davvero. A dire il vero non mi interessa neppure. Va bene così. Non ci siamo mai promessi niente. Lui ha fatto la sua scelta, ed io la mia. È stato meglio così, credimi. Prima o poi sarebbe successo comunque, ma grazie per l'interessamento.”

tesoro, tu lo amavi.”

no zia, io non lo amavo.”e forse era vero. Pevel si era sposato il mese scorso. Era successo tutto così velocemente che, a dir la verità, non avevo nemmeno ben capito come.

Il regalo che Pavel mi aveva tenuto nascosto era un perfetto ritratto di me avvolta in una asciugamano, appoggiata ad una finestra con lo sguardo perso a guardare il mare.

ti piace?” mi chiese, cingendomi i fianchi e baciandomi una guancia.

si, è stupendo.”

ma non è l'unica sorpresa.”disse, nella sua voce ansia e impazienza.

eh?”

mi girò verso di lui, tracciò i contorni del mio viso e mi bacio dolcemente poi, lasciandomi imbambolata al mio posto, si chinò su di un cassetto e ne estrasse una scatolina in velluto scuro. Non ebbi il tempo di realizzare quello che stava per fare che lo vidi inginocchiarsi di fronte a me, con la scatolina di velluto tra le mani.

ti amo. Ti ho sempre amata e ti amerò per sempre. Vuoi sposarmi?”

Niente. Avrei tanto voluto parlargli, rispondere alla sua domanda, o alle mille altre che, in questi secondi che mi sembravano ore, i suoi occhi mi stavano ponendo, ma nulla. Il mio cuore sembrava immobile. Il respiro era lento, come se stessi dormendo. E poi, come a voler concludere velocemente quell'incontro sussurrai un “non posso. No.“ Mille emozioni passarono sul suo viso. Paura, dolore, frustrazione... e poi l'ultima:rabbia.

Ci scrutammo a lungo, occhi negli occhi, fin quando non fui io a prendere l'iniziativa, e uscii dalla porta dello studio.

Pavel mi rincorse e mi afferrò per un polso. Io non mi girai, rimasi con gli occhi incollati alla porta di ingresso.

Lasciami” sussurrai. Lui mi si avvicinò da dietro mki strinse un po' di più il polso e mormorò al mio orecchio:

ti lascio, ma non tornare mai più”.


È così che è terminata la nostra storia. Con un “mai più” sussurrato ad un orecchio.

ti aspetto fuori” disse zia Sasha, e si chiuse la porta alle spalle.

Mi voltai e, dando un'ultima occhiata alla stanza dalle tendine plastificate, chiusi con un gesto la valigia che avevo preparato.

Mi avviai pesantemente per le scale con un unico desiderio: la fine di questo viaggio non ancora iniziato.

Scesi i gradini piano, uno ad uno, senza fratta e senza badare troppo a ciò che mi circondava, fin quando non raggiunsi il secondo piano e mi scontrai con degli occhi azzurri che mi squadrarono da capo a piedi.

La ormai signora Lazareva mi guardava con un'espressione indecifrabile sul viso. I suoi occhi mi penetrarono come due spine in cerca di qualcosa poi, con noncuranza mi superò, infilò le chiavi nella toppa e si chiuse la porta alle spalle. Io invece ricominciai a scendere le scale, molto lentamente.

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Capitolo 2
*** Libro 2 ***


li bro 2òulkh

Ecco a voi il secondo capitolo. Non l'ho riletto perché non l'avrei più pubblicato.Scusatemi gli eventuali errori. Rimedierò non appena troverò il coraggio di farlo! 


Recensioni:

Bea_XD : ciao! Tante grazie per aver recensito! Mi fa molto piacere che ti sia piaciuta.Vedi, io scivo in base a ciò che provo in un preciso momento della mia vita. Quando ho scritto il bozzetto precedente ero triste, insoddisfatta e apatica. Ed è un po' quello che è il personaggio che ho inventato. Puoi interpretare la storia in molti modi. Per me quello che lei sente è classificabile secondo le emozioni ma inspiegabile a parole. Diciamo che in realtà lui la amava abbastanza da capire e da lasciarla libera di non amare, come lei decide di fare. Lei non può amare gli altri perché prima di tutto non sa amare se stessa. È sempre a metà fra due cose. Sempre indecisa e incompleta. In lei tutto è il contrario di tutto, come in ogni donna. Spero che la mia spiegazione (da esauritaXD) sia esauriente. Un bacio



Buona lettura




LIBRO 2


La sveglia come al solito suonò alle sei in punto. Mi stiracchiai con vigore e mi girai dall'altra parte. John era già andato a lavoro; aveva il turno di notte e avrebbe passato l'intera mattinata all'ospedale. Questo mi sollevava. Con un ultimo sbadiglio mi misi seduta, intorno alle gambe le lenzuola ancora strette e Nuvola che dormiva sul mio copriletto color porpora.

“Hey dormigliona.” le dissi con la voce ancora impastata dal sonno.

Lei aprì un occhio, mugolò e lo richiuse tornando al suo sonno forse senza sogni.

“si,si. Buongiorno anche a te. Lo so che è presto. Torna a dormire.”

Dovevo esser diventata pazza per parlare con un gatto alle sei di mattina, così decisi di alzarmi -prima che il gatto cominciasse a rispondermi- e cominciare a preparare la colazione per la piccola peste che di lì a poco si sarebbe svegliata.

Stancamente tastai il pavimento con il piede in cerca delle ciabatte che puntualmente perdevo sotto al letto, così decisi di rinunciarci definitivamente e, a piedi nudi, mi avviai in cucina. Sul frigo notai un Post-it giallo:


Oggi non lavori. Dave mi ha mandato un messaggio. Ha detto che puoi prendertela di riposo dato che hai fatto 3 straordinari questa settimana. Che culo. Goditela.


A quelle parole il mio cuore avrebbe dovuto fare le capriole al contrario e avrei dovuto avere voglia di esultare. Insomma, tutti vorrebbero ricevere ogni mattina notizie simili, no? Ma per me non fu così. Meglio passare la giornata tra bendaggi e suture piuttosto che stare a casa. Come diavolo avrei impiegato la mia giornata adesso? Mentre mi deprimevo ancora col bigliettino nella mano sinistra e con la destra preparavo latte e cioccolato, un folletto dai capelli scuri mi si aggrappò alle gambe.

“Maaaaaa! Buongiorno!” cinguetto il mio folletto.

“ buongiorno tesoro. Ma non è un po' presto per te? Va a rimetterti a letto ancora un po'”

Scosse la testa con vigore in segno di diniego. “no, sono troppo troppo contentissimo”

“Roby, non si dice troppo contentissimo, ma troppo contento.”

“ e perché?” mi chiese, con la fronte aggrottata e una ciocca di capelli scuri tra le mani.

“ beh, perché... ah, non ti interessa per ora.”

Lui mi guardo confuso per un attimo poi, come se nulla fosse, corse ad accendere la TV.

La sua colazione era ormai pronta e posta sull'isola, ma come al solito avrei dovuto ripetergli altre dieci volte di cominciare a bere il suo latte.

“Rob dai, ti prego, fai il bravo bambino solo per questa mattina? Vuoi rendere felice la tua mamma? Dai, bevi il tuo latte e ti prometto che al ritorno da scuola troverai una bella sorpresa.”

Mi scrutò per un po', in silenzio, incerto sulle mie parole, poi rispose: “cosa?”

lo vedrai stasera. Una bella cosa.”

E con riluttanza afferrò la tazza tra le mani e cominciò a sorseggiare il latte.


Alle otto in punto eravamo davanti al cancello verde della scuola elementare, dove centinaia di bambini piangevano, urlavano, litigavano e gioivano. Per molti di loro era il primo giorno di scuola elementare. Roby era tra quelli strafelici, che non facevano altro che guardare freneticamente a destra e a manca in cerca di vecchi compagni d'asilo e nuovi amici da farsi.

Io e lui eravamo seduti su una panchina un po' più distante dal caos, dove il suolo era ancora visibile.

Da una parte ero felice della giornata di riposo gentilmente- e meritatamente- concessami da Dave, così avrei potuto godermi a pieno il primo giorno di scuola di mio figlio, ma dall'altra temevo per queste otto ore che sarebbero risultate interminabili. Bloccata tra quelle quattro mura a far nulla proprio non era una prospettiva allattante per me.

La campanella finalmente suonò e Roby scatto in piedi.

“merenda?” chiesi

“si”

“quaderni e penne?”

“si. Dai mamma! Sono grande ormai! Vado alle elementari! Ci vediamo quando esco.”

“ok. Comportati bene e ascolta la maestra.” gli diedi un bacio sulla guancia e lo seguii fare le scale a due a due verso il portone della scuola, prima di entrare nella seconda porta a destra.


Arrivata in auto rimasi per qualche minuto a fissare il traffico che scorreva veloce, battendo ritmicamente le unghie sul manubrio della mia auto. Forse mi avrebbe fatto bene uscire, fare un po' di spesa e passare un po' di tempo al parco. Di tempo ne avevo da vendere, e non solo oggi.

In tre anni ormai credo di aver letto oltre trenta libri, aspettando fino a tarda sera il ritorno di John e, puntualmente, finivo per addormentarmi esausta dalla lunga attesa.

Eravamo sposati da sette anni. All'epoca non vedevo l'ora di sposarmi e metter su famiglia. John era il mio principe azzurro: alto, capelli biondo cenere, occhi verdi, lineamenti perfetti, sportivo... si, proprio il mio tipo. E lo amavo. Eccome se lo amavo! Fino a qualche anno fa sarebbe stato impossibile per me immaginare la mia vita senza di lui. Ci eravamo conosciuti al corso di anatomia il primo anno di college. Quattro anni dopo eravamo sposati.

Ma ora... eravamo abituati l'uno all'altra.

Avevamo un figlio meraviglioso. Rob era la mia ancora di salvezza, la mia ragione di vita. Non ne avrei voluta un'altra e forse non avrei potuto nemmeno averla.

Io e mio marito non avevamo più una vera vita sessuale. Ripensandoci era da più di 20 giorni che non facevamo sesso. Il lavoro. Il mal di testa e la stanchezza erano perlopiù le sue scuse preferite. Pur di non toccarmi.

Sbirciai distrattamente nello specchietto retrovisore. Eppure ero ancora bella! Intorno ai miei occhi non c'era traccia di rughe; le mie sopracciglia seguivano perfettamente la linea ad ali di gabbiano; le ciglia erano naturalmente lunghe e incorniciavano due occhi leggermente a mandorla di un marrone così intenso da sembrare nero.

Arrivai al parco alle 9.15 e scesi sbuffando dall'auto. Il traffico mi aveva indisposta come al solito. E che cavolo, dovevano uscire proprio tutti alle nove del mattino! Nessuno aveva nulla di meglio da fare che mettersi in auto? Ovviamente deliravo-come al solito.

A passi lenti, mi diressi verso l'ala est del parco – la meno frequentata per via del lago e delle zanzare- dove avrei trovato sicuramente libera la mia panchina preferita, quella che affaccia sullo stagno delle paperelle.

Quando ci venivo con John (ormai secoli fa), mi sbellicavo dalle risate. John ha paura degli uccelli ed ogni volta che attiravo una papera verso di noi lanciandole pezzi di pane, lui si muoveva agitato al mio fianco e si alzava nervoso, sgridandomi. Non so come è nata questa storia. Da piccolo deve aver avuto qualche brutta esperienza. Ridicolo!Ma poi, chi ero io per giudicare? Io che alla veneranda età di 32 anni ho ancora paura delle bambole e cambio canale vedendo ventriloqui in TV? No, no. Forse la più squilibrata tra i due ero io.

Seduta sulla panchina verde un po' incrostata ai lati, portai le ginocchia al petto e infilai i tacchi tra le sue fessure sperando ardentemente di non rimanerci impigliata come mio solito. Rimasi là minuti, secondi, forse un'ora intera, a fissare i bordi del laghetto che si increspavano lentamente spinti dal vento. Lentamente. Era l'avverbio esatto per descrivere la mia vita. Uno schifoso giorno dopo l'altro mi trascinavo lentamente tra lavoro e casa. E poi? E poi niente. Piatta. Vuota. Eppure io ero felice. Si. Ricordo di esser stata felice. Come quando è nato Rob, o quando abbiamo preso Nuvola al gattile. Quando mi sono laureata e quando ho ricevuto il primo stipendio. Ero felice quando, alle medie,diedi il mio primo bacio al ragazzino che mi faceva girare la testa – schifoso ma emozionante. Anche oggi sono felice. Ho una casa, un lavoro, una famiglia, bei vestiti Qui, in questo momento. Sola. A guardare le paperelle. Sono felice. Ma... c'è qualcosa che... non riesco a spiegarmi.

Ad un tratto vidi con la coda dell'occhio un ragazzo seduto al mio fianco. Aveva qualche anno meno di me. Forse 25. Masticava un chewin-gum probabilmente alla menta e teneva le cuffie infilate all'orecchio.

Ma è l'unica panchina del parco questa? Non vede che è occupata da qualcuno che evidentemente vuole star sola? Non mi guardava, ne io guardavo lui – almeno non direttamente. Indossava pantaloncini corti neri ed una maglietta grigia, intrisa di sudore. Era uno sportivo, e allora perchè non stava scarpinando per il parco?

Stizzita abbassai le gambe sfilando magistralmente i tacchi dalle fessure della panchina - e meravigliandomi di me stessa per la fluidità del movimento. Mi mossi nervosa, girandomi da una parte e dall'altra; afferrai la borsa e mi diressi a passo sostenuto verso l'uscita. Beh, se voleva mandarmi via ci era riuscito.



Un anno dopo


Feci la via del ritorno distrattamente, con ancora quella canzone che mi grava per la testa e l'immaginazione che galoppava a briglia sciolta.

una giornata libera. Forse...

Arrivai in garage, chiusi l'auto e raccolsi la mia borsa dal sedile posteriore. Feci le scale in silenzio, attardandomi di tanto in tanto ad aggiustarmi questo o quel capello fuori posto. Entrai in casa cercando di fare meno rumore possibile. Neanche il gatto mi venne in contro.

Feci due passi verso il corridoio che portava alle camere da letto e mi affacciai in quella di Rob. Dormiva. Altri due passi ed entrai in camera mia. Sfilai le scarpe che riposi l'una accanto all'altra sotto la sedia, mi sedetti sul letto ,cercando di non farlo cigolare per non svegliare John che dormiva placidamente dalla sua parte, e mi sfilai la camicetta. La portai al viso e inspirai forte.

L'odore di dopobarba la avvolgeva ancora. Il suo odore. Un sorriso ebete si disegnò sul mio viso.

Scivolai con la testa sul cuscino e sospirai debolmente.

Al parco, dopo quella mattina, ci tornai molto spesso.

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