libro 1 donne k p
Salve!
Questa nasce come brave raccolta di vite di donne che non hanno nome
ne identità, ma che si prestano solamente a quel gioco che
chiamiamo
“vita”. Tutte loro avranno una funzione importante
nella vita
degli altri, ma della loro vita non si saprà nulla,
piuttosto si
avranno delle percezioni.
Il
prossimo libro non è ancora scritto... diciamo che
è ancora solo
un'idea, ma cercherò di buttare giù qualcosa
prossimamente!Ringrazio in anticipo quelli che leggeranno. Spero vi
piaccia. Un bacio. Lorena
LIBRO
1
Un
debole raggio di sole mi colpì in pieno viso, aggirando le
tendine
plastificate che facevano da scudo alla mia finestra. Era una
giornata soleggiata per gli standard della piccola cittadina nei
pressi di O. nella quale vivevo. A fatica mi alzai dal letto e
scostai di poco la tenda. Pioggia. L'ennesima pioggia acida si
abbatteva leggera sulla città: la strada era un fiume rosso
ruggine
che scendeva dalla collina poco lontana e la gente, con gli stivaloni
in plastica scadente, correva riparandosi malamente con oggetti di
fortuna.
Quella
mattina mi sentivo più fiacca del solito: avevo la schiena
indolenzita e mi pulsava la testa.
Avevo
trascorso la serata al pub Kuiper e, con i pochi spiccioli che mi
erano rimasti dalla paga mensile, avevo buttato giù un po'
di vodka
alla fragola, per tenermi al caldo. Come ci ero arrivata a casa mia
non lo sapevo. Doveva avermi riaccompagnata Pavel.
Scostai
leggermente gli infissi in legno per permettere alla stanzetta di
arieggiare e liberarsi dell'aria pesante della notte.
Le
voci dei passanti mi affollavano la testa. Certo che avevo proprio
esagerato ieri!
Andai
in bagno e mi sciacquai il viso con l'acqua del catino preparata
stamattina da Sasha, in modo che si facesse tiepida vicino alla stufa
a legno. In casa ero sola. La zia doveva esser già andata a
lavoro.
Il suo turno cominciava alle 5 del mattino, ed erano solo le 7:
potevo prendermela comoda stamane poiché avrei cominciato
solo alle
2. Andai in cucina per prepararmi un caffè. Erano 2 giorni
che
usavamo lo stesso fondo e ormai il caffè sporcava solo
l'acqua, ma
il denaro scarseggiava... Assaggiai la mia dose d'acqua sporca:
faceva letteralmente schifo! Aveva un sapore di sporcizia misto a
fango.
Dopo
averlo buttato giù d'un sorso pulii la misera cucina e le
stanze.
L'odore degli agenti chimici mi disturbò in modo tale da
costringermi a spalancare le finestre in pieno dicembre e respirare
una boccata d'aria popolare.
In
questo paese di cemento non cresceva più un filo d'erba da
anni
ormai e i negozi erano quasi tutti chiusi o mezzi vuoti.
Come
tutte le mattine era doloroso alzarsi e cominciare un'altra giornata
presumibilmente uguale alla precedente...
Di
restare a casa non se ne parlava quella mattina. Mi sentivo troppo
strana e irrequieta per potermene stare tra queste quattro mura
aspettando le 2.
Stranamente
quella mattina non avevo affatto freddo. Normalmente mi sarei
lamentata per ore dell'acqua che aveva battuto insistentemente sul
vetro della mia finestra stanotte e del ghiaccio che si era formato
sul balconcino e che aveva sostituito le goccioline di pioggia. Il
freddo della giornata invernale non aveva reso il mio animo
più
grigio di quanto non fosse di solito.
La
mia vita sembrava non avere ne inizio ne fine. Se non fosse per il
certificato che decretava la mia data di nascita avrei giurato di
stare su questa terra sin dai tempi della pietra.
Dopo
aver indossato jeans e maglione, presi il cappotto dalla sedia e mi
avviai per le scale del pianerottolo dell'antica palazzina dove
occupavo, insieme a mia zia Sasha, l'interno 16.
Arrivata
al secondo piano mi fermai titubante alla porta di Pavel.
Sicuramente
a quell'ora era completamente immerso nel mondo dei sogni e, magari,
stava sognando i suoi magnifici paesaggi tropicali o semplicemente
una bella città vivace e colorata.
Questi
però sarebbero rimasti solo sogni. Per noi non c'era colore
se non
il bianco della neve e il verde degli agenti chimici che usavamo per
ripulire le cisterne e i macchinari della fabbrica.
Pavel
Lazareva lo conoscevo da quando avevo 10 anni, quando mi trasferii
qui da mia zia dopo l'abbandono da parte dei miei genitori.
Lui
mi aveva trovato piangente, seduta su di un gradino di pietra del
palazzo.
“Che
fai?” mi chiese, con tutta l'innocenza che un bambino di 11
anni
può avere.
“Piango.
Non si vede?” risposi io. Un po' troppo acida per essere una
bambina.
“ E
perché?”
“Perché
voglio andare via.” dissi, con la voce rotta dal dolore.
“ Dai,
non fare così. Sai, anche i miei dicono sempre di voler
andare via.
Io però gli ho promesso che, quando sarò grande e
diventerò ricco,
andrò a vivere in una città stupenda, di quelle
che si vedono solo
in TV, e li porterò con me. Puoi venire anche tu, se ti
va.”
“ Grazie.”
risposi in maniera automatica, e gli sorrisi. Dentro di me
però vi
era solo il desiderio di assecondare la sua illusione, infondo
cos'è
la vita senza illusione e senza sogni? Beati coloro che vivono di
fantasie, perché non guardano ogni giorno in faccia i dolori
della
vita e vivono sempre di nuove speranze.
Da
allora Pavel non aveva mai smesso di sognare, nemmeno dopo la morte
dei suoi genitori, quando aveva dovuto rimboccarsi le maniche e
provvedere a se stesso.
Noi
eravamo amici, fratelli, amanti... per lui io ero tutto e mi adorava
come una musa. Trascorrevamo intere giornate insieme.
Il
suo era un affetto speciale: lui non cercava solo il mio corpo e non
aveva bisogno di me per non sentirsi solo. Pavel mi amava di un amore
illimitato, impossibile, inspiegabile. Un amore sincero e naturale,
vissuto nella più suprema ingenuità e che
purtroppo io non riuscivo
a corrispondere in maniera così genuina.
Anche
io, a modo mio lo amavo. Per me lui era tutto. Era lui che mi faceva
sorridere, che mi tirava su il morale, che mi consolava e che mi
tendeva la mano. Ma io ero diversa. Io non ero in grado di amare. Non
so da dove partisse il mio problema, ma l'affetto che rivolgevo agli
altri era intriso di compassione. Eppure non sarei mai stata capace
di vivere senza di lui.
Dopo
aver indugiato per qualche minuto sulle scale decisi di bussare, ma
non ebbi neanche il tempo di far scontrare le mie nocche con il duro
legno della porta che questa si aprì e delle labbra morbide
e
tiepide premettero sulle mie con passione.
“Ah”sospiro
soddisfatto Pavel, una volta staccatosi da me.
“Hey!!”
dissi io con disappunto “ ma ti pare il modo? Mi hai fatto
prendere
un colpo!”
“ si”
disse semplicemente lui, e mi baciò ancora.
Io
sorrisi sulle sue labbra e passai le dita tra i suoi morbidi capelli
castani. Il bacio divenne più passionale e per farlo
smettere gli
tirai leggermente una ciocca alla base della nuca.
“guarda
che siamo ancora sul pianerottolo di casa...”
“si?”
“si..”
“beh,
allora perché non ti accomodi?” e
sfiorò col suo naso la punta
del mio.
Spalancò
la porta ed io mi accomodai.
“allora,
mi fai vedere qualche nuovo capolavoro?” gli chiesi mentre mi
dirigevo in cucina alla ricerca di un caffè decente. Si,
Pavel era
un artista o meglio, oltre ad essere un operaio era un artista:
dipingeva, intagliava, scolpiva, e il suo studio era off-limits per
tutti gli esseri dotati di cuore e polmoni.
Recentemente
erano venuti a fargli visita degli amici dalla Germania e avevano
rifornito il suo frigo di cose di alta qualità (biscotti,
pasta,
caffè... ), ed io mi sentivo più che in diritto
di approfittarne!
“Non
oggi” mi rispose, spuntando improvvisamente dalle mie spalle
e
cingendomi la vita con le braccia.
“ come
non oggi?
Cos'è, illegale?”
“no no,
è una sorpresa... “
“mmm...
io odio le sorprese!” non era vero.
“ non è
vero. Tu le adori e dici che non è vero perché
speri che io ceda e
ti faccia spiare.” Duh!
“la
sorpresa non è ancora pronta. Quando lo sarà
potrai vederla.”
“ sei
ingiusto! Non dirmi allora che c'è una sorpresa per me se
poi non
posso godermela! E poi è una sorpresa a metà se
mi hai già detto
che... “
“Shhh...
zitta. Sono le 8, ieri abbiamo fatto abbastanza tardi e stamattina
abbiamo dormito poco. Smettila di blaterare.”
Fece per
andare in salotto ed io lo seguii, accomodandomi sul divanetto a due
posti e rilassando le gambe sulle sue. Pavel mi tolse le scarpe e mi
massaggiò i piedi.
“sono
già gelati.” disse sottovoce, come dispiaciuto. Io
avevo sempre
gli arti gelati, e questo poteva infastidire molto le persone, dato
che il freddo in questa zona non mancava.
“eh si.
A proposito, grazie per avermi riportata a casa sana e salva ieri.
Beh, in verità io non ricordo molto...”
Pavel
scoppiò in una fragorosa risata, ed io con lui, anche se non
sapevo
di preciso perché. Ma era sempre così: il suo
sorriso mi metteva
sempre di buon umore... per fortuna.
“certo
che non ricordi nulla”
“ero
brilla e... “
“no,
no. Non eri brilla. Eri sbronza! Ubriaca persa! Ieri dicevi perfino
di voler avere un bambino!” altra risata “ lo
chiedevi a chiunque
al pub, e qualcuno ha anche risposto di si! Fortuna che c'ero io...
tzè.”
“scusa”mormorai
imbarazzata “il mio comportamento deve averti molto
infastidito. Ti
capisco se vuoi farmi una ramanzina coi contro-fiocchi. E poi dovevo
essere del tutto ubriaca per dire una del genere!!”
“si,
ti assicuro che lo eri o queste parole non le avremmo mai sentite da
te.”
Gli
diedi un pizzicotto giocoso sulla guancia per poi distendermi di
nuovo sui cuscini.
Pavel
si tirò addosso il plaid e si stese su di me, avvolgendomi
col suo
abbraccio e lasciando una scia di bacetti sul mento e sulla linea
della mascella. La sua pelle leggermente abbronzata, i suoi occhi
ambrati così penetranti, i suoi capelli così
morbidi, le sue spalle
larghe e le sue mani calde mi mandavano in paradiso e mi facevano
sentire la donna più fortunata dell'universo, ma anche
quella più
egoista perché nei suoi confronti mi sentivo sempre
ingiusta,
inadeguata. Avrei voluto ricambiarlo in modo adeguato, come un uomo
unico come lui meriterebbe, e forse io inconsciamente lo facevo ma
non mi sembrava mai abbastanza...
“dai...”
“...dai
che? Vuoi già passare oltre eh? Però, non ti
facevo cos...”
ma
non gli diedi il tempo di finire la frase che gli chiusi le labbra
tra due dita. Come al solito aveva voglia di scherzare... e non solo.
“volevo
dire dai, no! Se
mi lasciassi
finire una frase ogni tanto ci capiremmo al volo. Tesoro”
dissi
cercando di prenderlo dal punto giusto “mi sono svegliata da
un'ora
più o meno, ho ancora la testa che mi pulsa e lo stomaco
mezzo
vuoto. Ti dispiace?”
“no
amore mio” disse lui con un sorriso. Ce l'avevo fatta: lo
avevo
respinto con grazia, se così si può chiamare il
mio rifiuto. E
ancora una volta mi baciò.
“
a
che ora vai oggi? “
“alle
due e dovrei tornare a casa per le otto. Ceniamo insieme?”
“non
posso... io comincio alle 19, quindi non ci vedremo fino a domani, a
meno che...”
“
a
meno che...?
“a
meno che non pranzi con me oggi! Dai, ti preparo un pranzo degno di
una regina!”
“ok.
Ma solo se lavi anche i piatti!”
scoppiammo
a ridere e ci alzammo dal divano per riordinare casa e preparare il
pranzo. Il piano di prendere una boccata d'aria fresca era andato in
fumo...
Sei
mesi dopo...
“tok
tok...” e mia zia aprì la porta senza aspettare
una mia risposta.
Avanzò
tendendomi le braccia e stringendomi la vita.
“come
va?” mi sussurrò all'orecchio con fare materno e
comprensivo.
“bene.
Perché?”
“tesoro
non hai bisogno di mentire con me. Io so come ci si sente in queste
situazioni.”
“ma
io sto davvero bene! Sono dieci giorni che continui
a
chiedermelo e a costringermi a confidarti le mie pene!io sto
B-E-N-E!”
“va
bene, va bene. Non c'è bisogno di essere così
acide!”
“ah.
Scusa. É che non sei l'unica a pressarmi per questa storia
e,
davvero, sono esausta.”
“davvero
stai bene? Tu e Pavel siete stati insieme per così tanto
tempo! Come
fai a non soffrire? Non ti manca? Non sei... gelosa?” disse,
mentre
mi poggiava le mani sulle spalle e mi scrutava dritta in viso.
“
no,
non lo sono. Davvero. A dire il vero non mi interessa neppure. Va
bene così. Non ci siamo mai promessi niente. Lui ha fatto la
sua
scelta, ed io la mia. È stato meglio così,
credimi. Prima o poi
sarebbe successo comunque, ma grazie per l'interessamento.”
“tesoro,
tu lo amavi.”
“no
zia, io non lo amavo.”e forse era vero. Pevel si era sposato
il
mese scorso. Era successo tutto così velocemente che, a dir
la
verità, non avevo nemmeno ben capito come.
Il
regalo che Pavel mi aveva tenuto nascosto era un perfetto ritratto di
me avvolta in una asciugamano, appoggiata ad una finestra con lo
sguardo perso a guardare il mare.
“
ti
piace?” mi chiese, cingendomi i fianchi e baciandomi una
guancia.
“si,
è stupendo.”
“
ma
non è l'unica sorpresa.”disse, nella sua voce
ansia e impazienza.
“eh?”
mi
girò verso di lui, tracciò i contorni del mio
viso e mi bacio
dolcemente poi, lasciandomi imbambolata al mio posto, si
chinò su di
un cassetto e ne estrasse una scatolina in velluto scuro. Non ebbi il
tempo di realizzare quello che stava per fare che lo vidi
inginocchiarsi di fronte a me, con la scatolina di velluto tra le
mani.
“ti
amo. Ti ho sempre amata e ti amerò per sempre. Vuoi
sposarmi?”
Niente.
Avrei tanto voluto parlargli, rispondere alla sua domanda, o alle
mille altre che, in questi secondi che mi sembravano ore, i suoi
occhi mi stavano ponendo, ma nulla. Il mio cuore sembrava immobile.
Il respiro era lento, come se stessi dormendo. E poi, come a voler
concludere velocemente quell'incontro sussurrai un “non
posso. No.“
Mille emozioni passarono sul suo viso. Paura, dolore, frustrazione...
e poi l'ultima:rabbia.
Ci
scrutammo a lungo, occhi negli occhi, fin quando non fui io a
prendere l'iniziativa, e uscii dalla porta dello studio.
Pavel
mi rincorse e mi afferrò per un polso. Io non mi girai,
rimasi con
gli occhi incollati alla porta di ingresso.
”Lasciami”
sussurrai. Lui mi si avvicinò da dietro mki strinse un po'
di più
il polso e mormorò al mio orecchio:
“ti
lascio, ma non tornare mai più”.
È
così che è terminata la nostra storia. Con un
“mai più”
sussurrato ad un orecchio.
“ti
aspetto fuori” disse zia Sasha, e si chiuse la porta alle
spalle.
Mi
voltai e, dando un'ultima occhiata alla stanza dalle tendine
plastificate, chiusi con un gesto la valigia che avevo preparato.
Mi
avviai pesantemente per le scale con un unico desiderio: la fine di
questo viaggio non ancora iniziato.
Scesi
i gradini piano, uno ad uno, senza fratta e senza badare troppo a
ciò
che mi circondava, fin quando non raggiunsi il secondo piano e mi
scontrai con degli occhi azzurri che mi squadrarono da capo a piedi.
La
ormai signora Lazareva mi guardava con un'espressione indecifrabile
sul viso. I suoi occhi mi penetrarono come due spine in cerca di
qualcosa poi, con noncuranza mi superò,
infilò le chiavi
nella toppa e si chiuse la porta alle spalle. Io invece ricominciai a
scendere le scale, molto lentamente.
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