Caos

di y3llowsoul
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Primo capitolo, prima parte ***
Capitolo 2: *** Primo capitolo, seconda parte ***
Capitolo 3: *** secondo capitolo, prima parte ***
Capitolo 4: *** secondo capitolo, seconda parte ***
Capitolo 5: *** terzo capitolo ***
Capitolo 6: *** quarto (e ultimo) capitolo ***



Capitolo 1
*** Primo capitolo, prima parte ***


Caos 1_1 Disclaimer: Numb3rs e i suoi caratteri non appartengono a me. Peccato.
Annotazione: Probabilmente non sarebbe necessario dirvelo, ma l'italiano non è la mia lingua
materna. Ma siccome ho trovato una beta grandiosa (mille grazie, Alchimista!!!) e siccome adesso lei ha anche corretto questo primo capitolo, potete veramente capire le mie storie. Almeno, la lingua non dovrebbe essere più un problema.

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«Ehi, Charlie, c’è un problema con il tuo algoritmo di ricerca. Potresti venire qui per favore?»
Algoritmo? Che algoritmo? Ah, questo.
«Che problema?» chiese Charlie via cellulare mentre lasciava frettolosamente scivolare i suoi occhi nel suo ufficio. Dov’era quel dannato libro?
«In realtà non ci è chiaro tutto il sistema» rispose Don e Charlie levò i suoi occhi al cielo. Facendolo, i suoi occhi  beccarono il dorso di una dissertazione matematica. Col cavolo che il suo ufficio era in disordine.
Tirò verso di sé il libro che cercava posizionato sotto una pila di altri libri, quaderni e fogli spaiati che naturalmente cominciò immediatamente a slittare distribuendosi trasversalmente sulla scrivania che era già strapiena.
«Charlie?»
«Sì… un attimo…»
Uno sguardo all’ora gli rivelò che aveva ancora trenta secondi precisi prima di essere in ritardo. Siccome la pila era comunque immobile sulla scrivania, la forza d’attrito l’avrebbe mantenuta tale per i seguenti novanta minuti finché Charlie non fosse ritornato. Allora prese il suo laptop e i suoi documenti con una mano ma questi ovviamente caddero subito a terra con sinuosi movimenti e si distribuirono dappertutto nella stanza.
«Accidenti!» imprecò Charlie e cominciò a raccoglierli spazientito.
«Ma cosa stai facendo?» chiese Don con un po’ di impazienza nella voce che non sparì quando non ricevette una risposta. «Allora vieni?»
«Ma ve l’ho già spiegato una volta!» si ribellò Charlie con impazienza.
«Ma non è logico. Forse hai fatto un errore».
Per un attimo, Charlie fermò la sua rapida raccolta.
«Tu mi dici che io ho fatto un errore?!»
«Beh è possibile, no?»
Charlie avrebbe preferito rispondere che no, non sarebbe stato possibile in nessun caso. Ma sapeva che uomini commettevano errori e che lui era un uomo. Deduzione logica: era possibile. «Va bene» gemette scocciato «Dovrei riuscire a essere da voi fra circa due ore, se mi sbrigo».
Don credette di aver sentito male. «Due ore?! Perché non adesso?»
«Perché adesso ho una lezione. Col tempo potresti almeno cercare di conoscere il mio orario».
«Non puoi lasciar perdere la tua lezione?»
«Ma ti manca qualche rotella? Io ti ho, forse, mai chiesto di lasciar perdere un caso?»
«Sono due cose completamente diverse!»
«Ah, sì?»
«Si. Perché qui ci sono vite in gioco!»
Don si fermò per lasciare che le sue parole avessero effetto, ma Charlie semplicemente levò gli occhi al cielo. Don veniva sempre con lo stesso argomento, se lo diceva lui o se Charlie se lo diceva a sé stesso.
«…ma se preferisci dare più importanza alle tue lezioni…» continuò Don, ma non concluse la sua frase che ne aggiunse un’altra abbastanza cinica: «Sai, potresti farlo tu, parlare con la vedova o il vedovo o i semi-orfani di una vittima»
«Devo andare adesso» rispose Charlie, in parte perché non gli venne in mente una replica appropriata, in parte perché era la verità «Ciao».
«Va bene, ma…»
Charlie non sentì il resto. Aveva già chiuso il suo cellulare e lo aveva poggiato sulla sua scrivania. Agguantò il suo portatile e i suoi documenti e uscì dall’ufficio.

La porta sbatté dietro di lui, forse con un po' troppa forza. Naturalmente, era tardi. Ma la sensazione che si agitava nel suo stomaco aveva probabilmente avuto la sua parte nell’energia con cui aveva quasi scheggiato la porta dell’ufficio. Peccato che non si fosse rotta. Avrebbe potuto mandare il conto a suo fratello.
A cosa diavolo stava pensando Don? Come se Charlie non avesse niente di meglio da fare che essere sempre pronto ogni qualvolta l’FBI avrebbe bisogno delle sue consulenze!

Poco dopo, si trovava dietro il tavolo del professore nell’aula. Per fortuna, ce l’aveva fatta a arrivare con un ritardo di soli quattro minuti e mezzo. Era accettabile. E la prossima volta sarebbe stato puntuale. E avrebbe preparato la lezione con straordinaria accuratezza. Non c’era niente che non si potesse leo.orfare.
La coscienza sporca aveva forzato un sorriso sul suo volto. Almeno i suoi studenti non avrebbero dovuto sopportare un professore burbero per i prossimi ottantacinque minuti e mezzo. Con la smorfia che poco a poco diventava un sorriso vero e proprio, un pensiero era entrato nel cervello di Charlie. Sembrava aver appena deciso di cambiare la sua introduzione all’odierna lezione.
«Che cos’è questo?» volle sapere dagli studenti quando sparpagliò i suoi documenti davanti a loro sul tavolo. Si poteva facilmente intuire che erano stati sul pavimento del suo ufficio.
«Un caos, direi io» disse una studentessa della seconda fila sottovoce, sogghignando.
Anche Charlie sogghignò: funzionava.
«Esatto. E com’è nato questo caos?»
Guardò direttamente la studentessa, Elizabeth O’Rien, che adesso, a causa dell’interesse del suo professore per la sua risposta sconsiderata, sembrava piuttosto confusa.
«Dunque… penso che…» Esitava e, ad un tratto, a giudicare dalla sua espressione, cominciò a capire.
«Ah!» gemé «Teoria del caos!»
Il ghigno di Charlie divenne più grande quando anche il resto del la classe cominciò a gemere.
«La signorina O’Rien ha ragione, anche se il concetto è poco scientifico. Oggi parleremo un po’ dell’aspetto matematico dei sistemi complessi. Dunque, per cominciare controlliamo le nozioni basilari. Cosa intendiamo per “comportamento caotico”?»
Mentre Charlie prendeva il gesso, già si levò qualche mano.
«Sì?»
«Si parla di comportamento caotico se il comportamento dinamico di un solido presenta differenze sostanziali con le sue condizioni iniziali cambiate in un momento specifico nella limitazione dell’osservazione»
«Corretto» disse Charlie, con un sorriso, allo studente della terza fila e scrisse i punti più importanti alla lavagna.
«Vuol dire» ripeté ancora una volta per tutti «che questo non tratta del caos colloquiale, ma del comportamento temporaneo di oggetti. Qui, infatti, cambiamenti molto piccoli delle condizioni iniziali possono creare differenze considerevoli nella dinamica. Ma prima di parlare del calcolo, vorrei chiedervi in quali campi viene usata la teoria del caos»
Mentre chiamava gli studenti singolarmente e scarabocchiava le loro risposte alla lavagna, sentì il suo malumore scomparire. I suoi studenti lavoravano ed erano molto concentrati.

Va bene, pensò Charlie, forse questo è anche merito del fatto che hanno scoperto che ci sono solo poche settimane prima degli esami finali. Ma credo proprio che ce la faranno.
A parte una o due eccezioni, i suoi studenti avevano lavorato proprio bene durante il semestre scorso, e se gli altri si mettevano con impegno, anche loro avrebbero passato l’esame. E poi, un giorno o l’altro, sarebbero stati indipendenti e avrebbero cambiato il mondo con le loro cognizioni. Ah sì, Charlie amava il suo lavoro.
In piena lezione, però, la porta dell’auditorio venne spalancata con forza e una voce suonò verso di lui.

«Buongiorno, Professor Eppes!»
Charlie si voltò. Poi, i colpi esplosero.


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Capitolo 2
*** Primo capitolo, seconda parte ***


Caos 1.2

La seconda parte... e questa volta avete veramente un'opportunità di capirla! Perché adesso ho qualcuna che corregge la storia: Alchimista (che deve davvero essere un genio)! Mille, mille grazie! E anche grazie per le recensioni e a quelli che continuamo a leggere!

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Don guardò la cornetta. Il suo sguardo era fisso, sia per l’incredulità, sia per la rabbia. Charlie aveva riattaccato. Aveva davvero riattaccato, mentre Don stava parlando! Don non riusciva a credere che lui e Charlie avessero davvero avuto la stessa educazione; un’educazione nella quale la dimestichezza cortese con i propri prossimi aveva rivestito un ruolo considerevole.
Va bene, anche lui era un po’ brusco qualche volta, ma sapeva sempre quali erano i limiti. E anche Charlie avrebbe dovuto abituarsi! E inoltre, la furia di Don era giustificata! Charlie non aveva alcun diritto di scaricarlo in quel modo! Era importante, avevano bisogno di lui!
Don fece una smorfia. Capì che, secondo le strategie dei rapporti fra persone, non era intelligente litigare con qualcuno di cui si voleva l’aiuto. Non gli sarebbe mai successo in una stanza d’interrogatorio, ma qualche volta suo fratello aveva la caratteristica nerboruta di spiazzarlo completamente.
Nonostante tutto, Don era sicuro di una cosa: Charlie non poteva scaricarlo così. Dopo tutto l’FBI lo pagava per i casi sui cui lavorava per loro. D’accordo, non era impiegato consistentemente, ma in ogni caso… e poi Charlie non poteva trattare così suo fratello maggiore!
Don premette con forza il tasto della ripetizione automatica e aspettò finche il segnale della linea libera finì e suo fratello rispose. Ma Charlie non rispose.
Riagganciò violentemente la cornetta sulla base. Ci sarebbero delle conseguenze per questa sua mancanza d’educazione; Charlie poteva giurarci. Quando gli telefonava per una cosa così importante, Charlie non poteva semplicemente fare il bambino ostinato.

Una frase che suo padre gli aveva detto troppo spesso e che qualche volta gli rimbombava nella testa, anche se Alan non era con lui, gli venne in mente: Charlie non è uno dei tuoi agenti e tu lo sai…
Certo che Don lo sapeva! Charlie era suo fratello: questo era il problema! Semplicemente non lo considerava tanto importante da seguire le sue “istruzioni”! Don non aveva nessun’autorità, nessun impatto su di lui! Charlie pensava di poter concedersi tutto! Ma non poteva.
«E Charlie, viene?».
Don si voltò. Dietro di lui c’era Megan che lo guardava piena d’attesa. Don riuscì scarsamente a trasformare il suo rabbuffare furioso in uno sbuffo.
«Cosa c’è?» chiese Megan, mentre una ruga le attraversava la fronte. Normalmente, sarebbe potuta sembrare ansiosa, ma il recente stress nell’ufficio aveva avuto qualche influsso anche su lei e c’era senza un dubbio una nota d’impazienza nella sua voce.
«Fra due ore. Viene fra due ore perché ha una lezione importantissima» Don ripeté le parole di suo fratello quasi con la stessa causticità.
«Va bene. Allora qual è il problema?».
«Il problema?! Qual è problema?! Gli ho detto di venire e lui se n’è fregato!».
«Come ”se n’è fregato”? Viene, o no?».
«Sì, ma non adesso!».
«Beh, ma è normale; voglio dire, è il suo lavoro tenere quelle lezioni».
Velocemente Don tornò in se. Non voleva dire nulla che mostrasse troppo i suoi sentimenti, soprattutto ad una psicoanalista, ma alla fine lo disse lo stesso. «Però sarebbe venuto immediatamente per la NSA».
«Sì, ma la NSA non è il FBI. E poi, la NSA avrebbe chiesto l’aiuto di Charlie solo in un caso veramente importante».
«E il nostro cadavere sparito non è importante?»
«Certo che lo è. Ma devi anche ammettere che ti arroghi l’aiuto di Charlie più spesso di tutti gli altri uffici d’investigazione».
«Questo non c’entra nulla! La causa di tutto è che io sono il fratello di Charlie. Lui semplicemente pensa che possa concedersi tutto con me, nonostante io sia il capo!»
Megan rise lievemente. Don la fissò. Cosa poteva esserci di così divertente?
«Cosa c’è?» volle sapere confuso.
«Dai, Don, non puoi credere seriamente che Charlie pensi di potersi concedere tutto! Al contrario, quando lavora per te, tenta di farlo in modo perfetto».
«Ah sì?» borbottò Don. Rifletté brevemente sulla verità delle parole di Megan, ma non aveva alcuna voglia di lasciar smontare la sua rabbia tanto facilmente.
«Continuiamo a controllare le targhe, ora?» lo incalzò Megan e non sembrava affatto essere una domanda.
«Se Charlie venisse qui…».
«Ma lasciamo perdere, Don! Siamo tutti di cattivo umore; non c’è bisogno che ci saltiamo anche addosso l’uno all’altro».
Accidenti, aveva ancora ragione. Possibile che tutto il mondo stava congiurando contro di lui? Il loro capo gli aveva dato un caso faticoso e difficile: un cadavere scompa
rso. Significava che anche questa volta erano arrivati troppo tardi per fare la differenza. Don si era già chiesto più volte se il loro superiore l’avesse fatto per punirli. Il loro caso precedente era stato un completo disastro: un bambino sequestrato, due indiziati contro i quali – anche con l’aiuto di Charlie – non avevano potuto provare nulla, i genitori che erano andati dalla polizia troppo tardi e alla fine un cadavere che era stato portato via in una bara piccola piccola.
In cuor suo Don sapeva che in realtà la morte del bambino sequestrato non era colpa loro, ma cosa cambiava? Non erano stati capaci di salvarlo; questa era l’unica cosa importante. E adesso dovevano cercare cadaveri perché un tipo fosse catturato e una donna potesse seppellire suo marito. C’era un senso in tutto questo? E per completare il tutto, la settimana scorsa Terry gli aveva mandato un invito per il suo matrimonio. In qualche modo era finito nelle mani di Alan e quella mattina durante la colazione – Don lo aveva sempre saputo che era stata un’idea folle quella di passare la notte da Charlie – il padre lo aveva stressato con il solito discorso sul fatto che desiderava finalmente dei nipotini.
E come se tutto questo non fosse ancora abbastanza, fuori stava piovendo. Un’altra forza che aveva congiurato contro lui. E adesso ci si metteva anche Charlie a scocciarlo. La situazione non sarebbe potuta essere peggiore.
Ma Don si sbagliava.

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Capitolo 3
*** secondo capitolo, prima parte ***


Caos 3

Mille grazie per le vostre recensioni! Siete troppo gentili!
Eccola la prossima parte. Spero che vi piaccia!

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Mentre l’aria ancora esplodeva con scoppi assordanti, una spada bollente si conficcò nella spalla sinistra di Charlie. Vedeva tante stelle che danzavano davanti ai suoi occhi. Barcollò facendo qualche passo indietro finché non urtò contro la lavagna. Quando la sua schiena vi urtò contro, la nebbia cominciò a dissolversi e lui capì che non era più lo scoppio dei proiettili a rimbombare nelle sue orecchie, ma le urla di panico e il gridare dei suoi studenti.
Punti neri riempirono il suo campo visivo. Il caldo gli salì alla testa, nella quale all’improvviso sembrava abitare uno sciame di api. Ad un tratto, le sue gambe sembravano così molli che Charlie non credeva potessero più sorreggere il suo peso e quello dello sciame d’api. Aveva appena formulato quel pensiero che constatò di essere seduto sul pavimento, appoggiando alla parete.
Cosa sta succedendo? si chiese. Nella sua testa, c’era una confusione enorme. Un caos, pensò Charlie e si meravigliò del fatto che non rise per il gioco di parole. In un secondo momento, però, si rese conto che non c’era nessun motivo per ridere. Qualcosa andava maledettamente male: il caos non era solo nella sua testa, ma anche nel mondo reale. Aveva appena tenuto la sua lezione, no? Come poteva essere cambiato tutto così velocemente?
Finalmente, la sua vista si schiarì abbastanza per poter distinguere la figura vestita di nero sulla soglia della porta; la figura che stava tenendo una mitragliatrice puntata su di lui.

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«Eppes! Un nuovo caso per lei».
Don alzò la sua testa e vide il suo superiore, Walt Merrick. Non era sicuro di aver capito bene. «Scusi?»
«Un nuovo caso, Eppes. Per il suo team».
«Ma, Signore» provò a contraddirlo Don scambiando un breve sguardo con il team che ascoltava la discussione con interesse. «Abbiamo già un caso: il cadavere sparito» In realtà, però, avrebbe voluto chiedergli se al A.D. mancasse qualche rotella.
«Lo so, Eppes. Ma gli altre squadre sono impegniate e il tempo vola». Don pensò che Merrick avesse voluto dirgli che Don stesse finalmente zitto e ascoltasse.
L’agente, infatti, ingoiò un commento e il suo umore scese di qualche altro centimetro. Grandioso. Il direttore non soltanto lo aveva ammonito, ma pensava anche che il loro caso non fosse affatto importante. Davvero grandioso.
«Di che cosa si tratta?» si informò tentando di non suonare troppo burbero.
«Un folle omicida» lo informò il direttore. «Questo pazzo ha nelle sue mani circa 20 persone; fino ad ora ha sparato sei o sette colpi, tutti a breve distanza l’uno dall’altro e probabilmente tutti con la stessa arma. Uno SWAT-team è già stato informato della situazione. Si sta evacuando l’edificio in questo momento, eccetto gli ostaggi, naturalmente».
Un folle omicida, ma che bello. Voleva dire che avrebbe dovuto, nel migliore dei casi, evitare che un folle causasse un bagno di sangue. Questa giornata andava veramente di male in peggio.
«E dove?» volle sapere tentando di non sembrare troppo nervoso ed infastidito.
«Nella “California Institute of Science”».


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«Nessuno si muova! Mani in alto! Tutti!»
Charlie tentò di obbedire, ma non ci riuscì. Il suo braccio destro fece prontamente ciò che gli era stato domandato, ma, per quanto importante fosse, non poteva muovere quello sinistro. In realtà se non ci fosse stato il dolore, non avrebbe neanche saputo se il suo braccio fosse ancora attaccato al resto del corpo.
L’uomo armato gli si accostò, la faccia deformata da un ghigno terribile. La maschera del diavolo.
«Lascia le mani in basso, Eppes. Sono un uomo generoso». Abbassò di poco l’arma, comunque puntata verso Charlie.
«Tanto tu non puoi farmi ancora più male».
Il ghigno prepotente sparì e fece posto a uno sguardo minaccioso che annunciava un malanno.
«I tempi in cui regnava il tuo potere sono finiti».
Charlie si chiese se quell’uomo avesse preso quella frase da qualche videogioco, poi il suo pensiero fu distratto da altre riflessioni. I tempi della tua potenza sono finiti? Cosa voleva dire? E in ogni caso, chi era quel tipo? Cosa voleva?
«Cosa significa tutto questo?» osò chiedere, tentando di racchiudere in quell’unica domanda tutte quelle formulate con poca chiarezza nella sua mente. In effetti non sapeva se avrebbe avuto ancora l’opportunità per chiedere qualcosa.
Il matto parve leggere i suoi pensieri. «Non ti ricordi di me, vero, Eppes? Mi hai rimosso? Ma non temere: te lo dirò chi sono io. Saprai tutto a tempo debito. Lo sai, è a causa tua se non ho superato l’esame, Eppes».

Ora era tutto era chiaro. Col cavolo che è chiaro disse una voce nella testa di Charlie. Va bene, questo però dà la risposta ad almeno una domanda la corresse poi una seconda.
«Phelps. Matthew Phelps» disse Charlie con calma.
Si era ricordato infine chi era quell’uomo. La nebbia si era diradata completamente anche se i contorni del suo campo visivo continuavano ad avere un’aura insolita. Possibile che stesse davvero accadendo tutto quello? Vide le facce pallide dei suoi studenti che tenevano le mani tremanti sopra le loro teste, la nuda paura nei loro occhi; e in qualcuna delle mani alzate c’erano ancora una o due penne biro. E vide almeno cinque fori d’entrata nelle mura. Era tutto così irreale…
Poi sia la sua spalla dolorante sia la voce minacciante di Phelps lo catapultarono di nuovo nella realtà.

«Oh, allora ricordi. Credimi: è davvero bello che questo sia reciproco! Perché anch’io mi sono spesso ricordato di te».
Non continuò e dopo qualche momento Charlie si sentì sicuro per tornare alla carica. «Sì?»
Tutto questo era uno show. Phelps voleva solo comparire, Charlie lo sentiva. Aveva progettato tutto. Voleva vedere soffrire il suo professore di una volta. Charlie era solo una marionetta nel copione scritto da Phelps e lui farebbe attenzione che fosse rispettato fino alla fine. Stava giocando con lui. E Charlie aveva un preciso presentimento: questo era un gioco di vita e di morte.
«Sì» rispose Phelps perversamente soddisfatto «Ed ogni volta mi sono chiesto come sarebbe stato meglio farti soffrire prima di ucciderti».
Charlie deglutì; non poté reprimere quel gesto. Però, la saliva non arrivò al suo stomaco: la sua bocca era secca.
«Paura?» lo schernì Phelps, sogghignando diabolicamente.
Charlie sentiva i brividi che gli correvano giù per la schiena.
«Bene: la prima parte è conclusa».
«La prima parte di che cosa?» chiese Charlie il più freddamente possibile. Non era veramente nel suo interesse che la sua voce suonasse tanto distaccata.
«Della tua tortura – o pensi che io ti voglia fare fuori così? No. Tu devi soffrire, come ho sofferto io».
Fece una piccola pausa nella quale si voltò, poi continuò con tanta più convinzione e violenza, ché Charlie trasalì nonostante tutto il suo autocontrollo. «Mi hai umiliato, Eppes, davanti a tutta quella gente! Tutti hanno potuto vedere che non ce l’ho fatta, per causa tua! E adesso io umilierò te

Quindi è tutto finito, pensò Charlie in modo cupamente umorismo e sarcastico mentre Phelps lentamente si avvicinava a lui.
«Guairai per la mia grazia» sibilò. «Pregherai per la tua vita. Ti umilierò davanti ai tuoi studenti, come tu mi hai umiliato davanti ai miei compagni!»
Charlie avrebbe voluto contraddirlo, ma la paura lo prese. Aveva un terrore folle di irritare Phelps in qualche modo, di farlo arrabbiare tanto da perdere il controllo e sparargli. E aveva paura che Phelps prima o poi avrebbe sparato lo stesso.

Datti una regolata, si costrinse disperatamente Devi mantenere i nervi saldi. Non devi provocarlo. Devi…
Il suo ragionamento si fermò bruscamente. Non sapeva cosa doveva fare. Il panico minacciava di travolgerlo, ma lo respinse e tentò di agire con logica.

C’è sempre una possibilità, tentò di persuadersi. Deve esserci qualcosa che si può fare. Cosa farebbe Don?
Don avrebbe tentato di travolgere Phelps? Probabilmente no, avrebbe potuto mettere in pericolo gli altri in quel modo.

Ad un tratto, la soluzione balenò davanti a lui: Don avrebbe fatto continuare a parlare Phelps finché non sarebbe giunto un aiuto. Sì, era esattamente quello che avrebbe fatto Don al suo posto.
Se anche Don avrebbe avuto un nodo alla gola?

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Capitolo 4
*** secondo capitolo, seconda parte ***


Caos 4

Mille grazie per le vostre recensioni! Mi dispiace che io ci avessi messo un po' [va bene, un sacco] di tempo, ma l'italiano è veramente più difficile che immaginate... :) E di nuovo devo ringraziare Alchemista, perché lei è semplicemente grandiosa.

Tento (e spero) di poter attualizzare la storia in periodi più piccoli adesso. Allora, vi prego: non finite a leggere la storia a causa della durata!

 

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 Don aveva un nodo alla gola.
«Dove?» gracchiò.
«California Institute of Science» ripeté Merrick con impazienza; era ovviamente snervato. «E adesso sbrigatevi ad andare, Eppes!» E senza dargli un altro sguardo, sparì.
Gli sguardi di David e Colby si spostarono velocemente avanti ed indietro tra Don e Megan in attesa di una reazione da parte di uno dei due. Colby notò che la respirazione di Don si era accelerata. Poi, si accorse che anche lui e David avevano assunto lo stesso comportamento. Guardò Megan: era bianca come un lenzuolo e le sue mani tremavano.
«Cosa aspettiamo ancora?» urlò Don e la sua voce aspra si accavallò.
Si era alzato di scatto dalla sedia e stava già correndo verso la porta dell’ascensore, David e Colby dietro di lui; infine anche Megan si era liberata velocemente dalla rigidità che le aveva avvolto il corpo e si affrettò a seguire i tre uomini.
«Don!» gridò al suo capo mentre anche David e Colby entravano nell’ascensore il cui pannello di controllo stava subendo colpi poco aggraziati da parte di Don. Ce la fece giusto in tempo ad entrare nella cabina prima che le porte si chiudessero dietro di lei.
«Don!» ripeté con insistenza, gli occhi sbarrati. «Non puoi avere seriamente intenzione di prendere il commando di questo caso! Siamo troppo coinvolti, tutti noi!»
Don la fissò con uno sguardo pieno di incredulità.
«Pensi veramente che me ne freghi? Se Charlie, Larry ed Amita stanno bene, allora non saremo più coinvolti che negli altri casi seguiti fin’ora; se… se non stanno bene… non possiamo piantarli in asso così!»
«Ma non possiamo concederci sbagli!»
«Lo so e certamente non è quello che ho in mente, Megan!»
«Ma conosciamo…»
«SAI CHE NON ME NE IMPORTA PROPRIO NULLA? Hai sentito Merrick, no?! Siamo la sola squadra disponibile! E se nessuno se occupa, molto presto quel pazzo perderà completamente la testa!»
Megan lo guardò per qualche istante con un’espressione impenetrabile. Poi, annuì.

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«Lasci andare gli studenti».
Charlie fu un po’ sorpreso da se stesso. Anche Phelps sembrava esserlo perché aveva alzato le sopracciglia ridendo brevemente.
«E perché dovrei farlo, Eppes?»
«Non le hanno fatto niente! Lei vuole solo me, lasci andare gli altri!».
Di nuovo un ghigno beffardo.
«Voglio solo te, Eppes? E come fai ad esserne tanto sicuro?»
Poi si voltò verso gli studenti, brandì l’arma e gridò come un pazzo. 
«Come fate ad essere tanto sicuri che non vi farò del male, eh? Persone come voi mi hanno umiliato! Vi ucciderò! Vi ucciderò tutti!»
Charlie concentrò il suo pensiero su Don e la sua cadenza divenne calma anche se la sua voce tremava ancora un po’. «Non lo farà».
Phelps si voltò immediatamente, così come la sua mitragliatrice. «Ah sì? E cosa te lo fa pensare?»
Charlie tentò di ignorare la bocca dell’arma e di guardare fermamente l’uomo negli occhi.
«Non è un assassino, Phelps. Avrebbe potuto uccidermi da molto tempo, ma non l’ha ancora fatto.»
«Pensi che io sia un vigliacco o cosa?!»
Caspita! Cosa stava dicendo? Ogni frase sembrava fare diventare quell’uomo sempre di più aggressivo!
«No» rispose Charlie scegliendo ogni parola con attenzione «Ma penso che lei sia abbastanza furbo da non uccidere nessuno. Fino ad ora non ha causato troppi danni. Se non farà nient’altro, sono sicuro che se la caverà con poco».
Charlie pensò che funzionasse parlare con quell’uomo. Phelps tacque e sembrò veramente riflettere sulle parole del professore. Ma poi ritornò quel ghigno beffardo ed esasperante.
«Datti pace, Eppes. Voi rimanete qui, tutti».

Il ghignò divenne diabolico e quasi pazzo.
«Altrimenti non avremmo più spettatori».

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La vettura di Don corse per Los Angeles con i lampeggianti accesi. Se ci avessero riflettuto per qualche istante, David, Colby e Megan gli avrebbero sicuramente impedito di guidare, ma erano troppo tesi per potersi permettere dispute a riguardo. Megan frugava con un certo nervosismo nella sua borsa, dalla quale estrasse il cellulare.
«Al cellulare di Charlie non risponde nessuno» li informò qualche attimo dopo, l’apparecchio ancora attaccato all’orecchio.
Don sentì il panico riempire la sua testa. Se potesse, Charlie risponderebbe sicuramente al suo cellulare, no? Forse la follia omicida era già in pieno svolgimento quando aveva richiamato Charlie dopo il loro litigio… E oltretutto lo stava richiamando solo per poter continuare a litigare... per potergli continuare ad urlare contro dopo il suo comportamento sgarbato... Ora tutto ciò che era successo quella mattina lo riteneva una cosa talmente stupida!
«Cerca di chiamare Larry» propose Colby dal sedile posteriore.
«Non ha un cellulare» rispose la donna brevemente.
«Amita?» tentò David.
«Non ho il suo numero».
«Vabbè…» David si schiarì la gola e poi continuò un po’a disagio: «Saremo lì in un attimo. E poi, potremo sicuramente chiedere com’è la situazione direttamente a loro».
La risposta di Megan fu appena percepibile «Speriamo di sì».

Pochi ma penosi minuti dopo le gomme del SUV di Don stridettero quando si fermarono davanti al CalSci. Davanti a loro si presentava un immagine caotica: in tutto il campus universitario c’erano persone che correvano in disordine e che sembravano cercare amici e compagni.
Dal momento in cui erano arrivati al campus, gli occhi di Megan avevano scandagliato tutta la piazza, senza successo. Però, erano appena scesi dalla macchina quando con un grido: «Là!» disse e accennò a due figure che faticosamente si avvicinarono a loro.
Larry e Megan si abbracciarono, ma si separarono subito.
«Dov’è Charlie?» volle sapere la donna, e il suo sguardo ondeggiò in fretta da Amita e Larry a Don che lo stava ancora cercando tra la confusione del campus.
«Non lo sappiamo. Non siamo riusciti a trovarlo da nessuna parte». Amita sembrava essere sul punto di perdere il controllo.
Per qualche attimo, ci fu un silenzio pieno di tensione.
«Adesso venite» disse ad un tratto una voce bassa ma determinata, che venne della bocca di Don, ma che aveva un tono completamente differente dal solito.
Quella calma forzata, che poteva anche semplicemente essere causata dallo shock, lo aveva lasciato definitivamente.
«Non abbiamo un minuto da perdere»
Don non aveva la minima idea di quanto avesse ragione. 

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Capitolo 5
*** terzo capitolo ***


Caos 5

Mille grazie a tutti quelli che leggono ancora la storia, specialmente a quelli che anzi lasciano un commento!

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 «Non ha alcuna speranza, Phelps» disse Charlie e nello stesso momento sentì l’orrore attanagliarlo chiedendosi come il maniaco avrebbe reagito. Ma Don avrebbe sicuramente detto la stessa cosa.
«La polizia sarà qui a minuti e se lei non sarà diventato ragionevole fino ad allora, non ce la farà ad uscire fuori di qui vivo».
Quel tipo era malato così come la sua snervante risata. «Credi davvero che me ne freghi? Non ho più niente da perdere: ho già perso tutto a causa tua!»
Charlie si sentiva come se avesse ricevuto un forte pugno in faccia. Non ci aveva riflesso finora. Lui era responsabile per ciò che stava succedendo lì dentro? Sarebbe stata colpa sua se uno dei suoi studenti fosse morto? E ancora sarebbe stata colpa sua se lo stesso Phelps se fosse morto?
«Semplicemente non ha superato l’esame perché non ha studiato a sufficienza» lo contraddisse in un coraggioso tentativo di allontanare da lui i sensi di colpa.
«Certo, Eppes. È facile addossare la colpa agli altri invece che a se stesso, vero?»
Lo stesso vale per te volle rispondere Charlie, ma questa volta non disse nulla.
«Avrebbe potuto superare l’esame» continuò con una paura tremenda: ma finché Phelps stava parlando, il pericolo che sparasse attorno a lui era più basso. «Avrebbe semplicemente dovuto impegnarsi di più».
«Impegnarmi di più, eh?» sibilò Phelps. «Non hai idea, Eppes, di quanto mi sia impegnato! Ho sgobbato fino ad avere la schiena storta! Ho studiato giorno e notte! E avevo buoni voti! Credi che io abbia ricevuto un elogio dai miei genitori anche solo una volta, anche solo un solo ’ben fatto’? Mai! Finché stavo bene non se ne sono fregati di me! Solo quando non ce l’ho più fatta hanno guardato questi voti deludenti! E sai cosa hanno fatto quando hanno saputo che mi hai fatto ripetere l’esame? Niente! Non hanno fatto più niente, capisci? Giustamente non ero più figlio loro! Si sono allontanati da me!»
Dopo queste parole, anche Phelps si allontanò da Charlie e cominciò ad andare avanti e indietro davanti alla cattedra del professore in elissi angolari.
Charlie aggrottò la fronte. Elissi angolari? Questa forma aveva sicuramente un nome, vero? Oppure no? Non lo sapeva più. Si sentiva come se avesse la febbre, troppo tremulo e caldo per riflettere su qualsiasi cosa.
Charlie era diventato sempre di più piccolo contro il muro e adesso sentì che quella non era una buona posizione. La sua spalla ardeva come il fuoco dell’inferno. Provò a guardare la ferita e si accorse con terrore che la sua maglietta era imbevuta di sangue. Dunque era per questo che si sentiva così tremulo e debole. Poi gli venne in mente un’altra cosa: gli uomini avevano bisogno di sangue; se non ne avevano a sufficienza nel corpo morivano. E nonostante tutto fosse talmente irreale e lontano, Charlie riuscì a comprendere una cosa: se l’aiuto non fosse venuto presto, si sarebbe dissanguato.


Un botto. Ecco: la fine. Phelps aveva sparato. Charlie trasalì, ma lasciò gli occhi chiusi e tentò di sentire da dove veniva il dolore. Ma non c’era dolore, salvo quello alla spalla. Forse era stato un colpo alla testa, rifletté. Quelli sono considerati indolori. Era l’unica possibilità. Voleva dire che era morto. Ma se fosse così, poteva ancora pensare? Evidentemente sì. Ma poteva anche sentire? Così sembrava, perché Charlie era assolutamente sicuro che i passi furiosi di Phelps non si erano spenti.
Un botto. Di nuovo. In effetti, quante volte poteva ancora sparargli alla testa? Doveva veramente avere un aspetto disgustoso. I suoi studenti sarebbero probabil-
Dio! I suoi studenti!
Prima che avesse davvero la consapevolezza di ciò che stava facendo, Charlie sgranò gli occhi, perlustrando le file davanti a lui. No, sembravano tutti vivi, Phelps non aveva sparato a uno di loro, grazie a Dio!
Un attimo… se Charlie poteva vederli, allora il maniaco probabilmente non aveva sparato neanche a lui! Ma allora dove?
Il suo sguardo fissò Phelps e in un attimo qualcosa come sollievo lo attraverso, quando Phelps batté la sua arma sul tavolo provocando un sordo botto. Allora non aveva sparato nessun colpo.
Ma in un attimo tutto il sollievo si dissolse così veloce come era venuto. Phelps stava diventando aggressivo. Sembrava che non sapesse cosa fare. Perché non sparava semplicemente? Oppure aveva cambiato idea? Forse adesso voleva semplicemente lasciar morire dissanguato Charlie e non fare nulla agli studenti tranne regalargli un ricordo che avrebbero portato con loro per tutta la vita?
Non è un assassino, non propriamente congetturò la mente di Charlie. Se lo si lascia in pace, se non diventa furioso, se l’aiuto giunge in tempo, forse abbiamo ancora una speranza.
Ma Phelps era furioso. E anche se il caos nel cervello di Charlie non diventò più chiaro con la nebbia del dolore, era ovvio che non si doveva lasciar diventare aggressivo un maniaco che aveva un’arma.
«Non è il primo» disse Charlie e quando Phelps si girò velocemente verso di lui si accorse che doveva assolutamente precisare. «Che non ha superato un esame, intendo dire. Ci sono anche persone che ora occupano posizioni primarie e che godono di una buona reputazione che una volta hanno dovuto ripetere un semestre».
Nella sua attuale situazione una piccola dilatazione della verità di sicuro non era troppo vizioso.
Phelps sembrava abbastanza sconvolto per uno che aveva appena assalito una università per causare un bagno di sangue.
«Non lo capisci, Eppes! Semplicemente non puoi capirlo! Pensi che questo sia solo una questione di ‘superato’ o ‘non superato’, vero? Tu non hai idea, non ne hai la minima idea! La tua decisione di bocciarmi ha rovinato tutta la mia vita! Capisci?! Solamente perché tu hai deciso che io non avevo superato, la mia vita è andata a puttane!»
Charlie lo fissò, incapace di avere un pensiero chiaro e solamente continuò ad ascoltare la lamentevole storia della vita di Phelps.
«I miei genitori non mi hanno più mantenuto! Ho dovuto andare avanti da solo, di stenti! E poi? Ah sì: mi hanno sbattuto in prigione solo perché ho voluto tirare avanti. E quando sono stato in prigione, ad un tratto, anche la mia ragazza non voleva avere più niente a che fare con me! Sai come ci si sente quando semplicemente tutto viene improvvisamente infranto, lo sai? No! Tu non ne hai idea! La mia vita è andata distrutta ed è colpa tua! E per questo la pagherai!».
Charlie non sapeva più che cosa dire. Non sapeva neanche che cosa lo avesse colpito di più, se le parole di Phelps o la pallottola nella sua spalla. Ma in entrambi i casi, non ci fu bisogno di dire niente perché l’attenzione di tutti fu improvvisamente distratta.
«Qui parla l’FBI! Lei è circondato. Lasci l’edificio con mani in alto!»
Il battito del cuore di Charlie era improvvisamente accelerato. Aveva riconosciuto subito la voce malgrado la distorsione causata dal megafono. Don! Don era qui! Adesso tutto sarebbe andato bene, non c’era alcun dubbio. Il suo fratellone era venuto per intervenire in suo aiuto. Don, il grande eroe.
Le speranze di Charlie esplosero come una bolla di sapone quando sentì Phelps brontolare: «Farò una cazzata, allora!».
Don ripeté la pretesa e Charlie ascoltò con attenzione ogni parola. Non voleva perdere una sola sillaba, poiché, ad ognuna di esse, fluiva nuova fiducia nell’aula. Don era qui, la salvezza era qui, erano così vicino…
Con il manico della postola, Phelps frantumò una finestra e urlò fuori, acquattato sotto la finestra, tanto che anche le tante persone due piano sotto di loro, nel campus, potevano facilmente sentirlo.
«Potete scordarvelo! Non verro fuori! E neanche gli ostaggi!»
Per un secondo, ci fu un silenzio teso.
«Abbiamo appostato tiratori scelti. Appena sparerà un primo colpo, saremo pronti ad assalire l’edificio. Non uscirà fuori di lì».
«Anche un solo colpo può uccidere qualcuno! Un altro, dovrei dire, forse!» urlò Phelps e lanciò uno sguardo pieno di odio a Charlie che rabbrividì.
Questa volta, il silenzio durò più a lungo. La tensione di Charlie crebbe esponenzialmente. Dovevano dire qualcosa fra poco…! Se non avessero detto nulla, quel tipo sarebbe andato completamente in tilt…
Don! Dove sei?
Finalmente, dal megafono una voce risalì a loro.
«Non possiamo aiutarla se non sappiamo che cosa vuole. Mi chiamo Megan Reeves. Come si chiama lei?»
Charlie non poté nascondere la delusione. Megan era qui. Questo era un bene, di sicuro era un bene. Lei era psicologa, era pratica di queste cose. Charlie poteva essere felice che lei fosse lì.
Ma dove era Don?
«Cos’è questo? A che gioco state giocando?» l’urlare di Phelps tenne l’attenzione di nuovo su lui. «Facciamo il gioco dello sbirro buono e di quello cattivo?!»
«Ci dica il suo nome. Poi potremmo parlare di tutto ciò che vuole».
Per qualche attimo ci fu di nuovo quello stesso silenzio teso.
«Matt» rispose poi Phelps a bruciapelo «Matt Phelps».
«Okay, Matt. Vuole parlare con qualcuno? Forse con i suoi genitori? Amici?»
«Quelli possono starsene dove sono!» gridò Phelps e la sua voce si accavallò.
«D’accordo, Matt. Non deve vederli se non vuole. Ha tutto sotto controllo.»
«Come no!»
«Stia calmo, Matt».
«NON MI DICA COSA DEVO FARE!»
E prima che Charlie riuscisse a capire cosa stava succedendo, Phelps lo aveva già trascinato verso lui e tirato ai piedi suoi. Charlie pensò che la sua spalla stesse per esplodere; tanto forte era il dolore. Realizzava appena che Phelps lo stava tenendo davanti a lui come uno scudo, il braccio sinistro sopra la spalla ferita, attorno alla sua gola.
Solo dopo che ebbero attraversato la sala dalla lavagna alle finestra, Charlie realizzò che cosa intendeva fare il suo avversario. Pensò di nuovo a Don e tentò di fare un viso impassibile. Non ci riuscì. Paura nuda trasparì da esso. Sentì il metallo freddo dell’arma alla sua tempia e pregò.
Charlie lasciò scivolare lo sguardo sul campus sotto di lui attraverso il mare di punti neri davanti ai suoi occhi e il suo stomaco fece un salto indietro: Don era qui.
Mentre Charlie teneva lo sguardo su di lui, distinse dalla grande distanza che suo fratello era bianco come un lenzuolo. Aveva granato gli occhi e aveva la bocca aperta a metà mentre lo fissava come per dirgli parole rassicuranti.
Tieni duro, fratellino. Sarò da te in un attimo. Verremo a tirarti fuori. Tutto andrà bene.
Nessuna parola veniva scambiata, ma il messaggio arrivò ugualmente.
«Allora, potete vedere? Non potete farmi niente! Niente!»
Era folle. Non c’era un dubbio.
«Non ha senso tutto questo!» urlò Megan con voce aspra. Questa volta aveva rinunciato al megafono senza sapere se consapevolmente o inconsapevolmente. «Abbassi la sua arma! Appena lei sparerà si sarà giocato anche la sua vita!»
«E cosa farai se ti dico che non m’importa della mia vita?!»
«Gliene importa, invece. A tutti importa della propria vita, anche se lei tenta di convincermi del contrario».
Phelps tacque. Charlie sentiva il suo respiro sulla sua nuca. L’ultima volta che aveva sentito un respiro così vicino era stato quello di Amita. Poteva vederla. Teneva le mani davanti alla faccia, fissando i due uomini con occhi granati.
Ti amo tentò di dirle con il suo sguardo. Lo sai? Ti amo!
Non sapeva dove doveva guardare. Ogni sguardo poteva essere l’ultimo. Come se ce ne fosse ancora bisogno, la mitraglietta attirò la sua attenzione più di prima: tremolò. Come anche il braccio di Phelps.
«E perché dovrei fregarmene?» gridò quello e in un attimo la pesante arma era sparita della sua tempia ed ora veniva schiacciata contro suo fianco. «La mia vita non vale un cazzo! Perché dovrei farmi problemi se finalmente finisce?»
«Perché c’è sempre qualcosa per la quale vale la vita! Lei…»
Megan non poté dire di più. In quel momento un colpo lacerò l’aria, a cui quasi nello stesso attimo ne seguì un altro.

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Capitolo 6
*** quarto (e ultimo) capitolo ***


Caos 6

Grazie, grazie, grazie! A quelli che hanno letto la storia, a quelli che l'hanno recensita e a Alchimista per l'aver corretta!
Spero che quest'ultimo capitolo vi piacerà!

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«No» avrebbe voluto gridare Don, ma dalla sua bocca non uscì più che un bisbiglio fioco. «No, per favore. Charlie…»

Non riusciva più vedere suo fratello. Charlie si era improvvisamente abbassato assieme a Phelps. Prima di potersi rendere davvero conto di cosa stava facendo, Don era già corso nell’edificio e scattava su le scale, verso aula. Non si accorse nemmeno che il suo team lo stava seguendo.

Le scale e il corridoi sembravano non finire più, eppure era solo il secondo piano. Don non aveva che un solo pensiero nella mente ora sgombera da altro: Come sta?

Finalmente giunse nel corridoio in questione, lo percorse veloce e aprì violentemente tutte le porte alla sua destra.

Niente, niente, di nuovo niente… Eccolo! Una finestra aperta, studenti sconvolti. Alcuni di loro stavano ancora tenendo un uomo sdraiato per terra. E un po’ distante da lui, c’era una mitragliatrice nera, accanto al braccio del secondo uomo di cui Don, per gli studenti che lo circondavano, non poteva vedere più che proprio questo braccio.

Per un attimo non si mosse, troppo scioccato dell’orrore che probabilmente lo attendeva. Finalmente, però, le gambe parvero muoversi, come da sole, verso l’accozzaglia di persone. Le grida di Phelps gli giungevano come da lontano, ma non gli importava. Continuò a spianarsi la strada con difficoltà finché vide la figura di suo fratello sdraiato davanti a lui. Non era possibile che qualcuno cosi pallido fosse ancora vivente.

Era morto.

L’anima di Don sembrava volersi dividere in due. Una parte voleva andare via, fuori, voleva correre in modo che l’immagine davanti ai suoi occhi potesse infine diventare irreale, voleva correre nell’altro mondo, quello nel quale viveva suo fratello; l’altra parte, invece, si sentiva attratta da Charlie con una forza insormontabile. Quest’ultima ottenne il potere sul corpo.

«Charlie?»

La voce di Don tremava, come tremava la sua mano. Le sue dita bianche avevano paura di toccare Charlie, paura che la pelle di suo fratello potesse essere fredda e in tal modo trasformare il suo cuore in ghiaccio. Tuttavia non riuscì a fermarsi.

I suoi polpastrelli erano appena entrati in contatto con la guancia di Charlie che subito indietreggiarono spaventati. In realtà il contatto era stato così breve da non poter determinare se la pelle di Charlie fosse freddo o caldo, ma la domanda parve allo stesso modo ricevere risposta perché le palpebre di Charlie si erano aperte, almeno a metà. Non era morto. Almeno non lo era se tutto questo stava succedendo veramente.

Don non osò parlare: se questa parte dell’incubo – così terribilmente reale – era realmente solo un’immagine nella sua testa, un’allucinazione, non avrebbe voluto mai svegliarsi. E così fu Charlie a prendere la parola per primo, appena la nebbia attorno a lui si dilatò abbastanza da poter distinguere la figura davanti ai suoi occhi ardenti.

«Don…»

Allora non era un’allucinazione.

«Sono qui, fratellino» lo rassicurò con voce soffocata, e prese la mano di Charlie stringendola saldamente. Non lo avrebbe lasciato andare. Non lo avrebbe lasciato partire in un mondo in cui non poteva seguirlo.

Dovette avvicinarsi ancora di più a Charlie per sentire le successive parole.

«...mi…’spiace» lo sentì respirare. «Non volevo… litigare…»

«Shhh» lo calmò mentre doveva lottare contro le lacrime che volevano uscire fuori dalle code degli occhi.

Non sapeva più cosa dire. Sta’ calmo? Quel consiglio avrebbe dovuto applicarlo lui per primo. L’ambulanza sarà qui in un attimo? Ogni attimo poteva essere l’ultimo per Charlie. Non dire niente? Da un punto di vista medico sarebbe stata la cosa più giusta, ma quella poteva essere l’ultima opportunità per Charlie di parlare, l’ultima opportunità per lui di sentire parlare suo fratello…

«Io resto con te» forzò infine le parole ad uscire dalla sua gola. Sfiorò amorevolmente i capelli mantidi di sudore sulla fronte fredda ed umida di suo fratello e tentò di regolare la sua propria respirazione e di reprimere i gemiti.

Sotto le sue palpebre, Charlie gli lanciò uno sguardo pieno di gratitudine prima che queste chiudessero.

Con il dorso di una mano Don gli accarezzò la guancia pallida. Dove era andato tutto il sangue? Solo dopo averlo pensato si rese conto che in realtà conosceva la risposta, e fissò con lo sguardo le fattezze di suo fratello, segnate dalla pena, per resistere all’impulso di guardare il lago di sangue accanto a lui.

«Oh Charlie…» bisbigliò, soffocato, e strinse forte la mano di suo fratello. No, non lo avrebbe lasciato. Sarebbe rimasto con lui.

Materialmente parlando, Don mantenne quella promessa fino alla sala operatoria.

 

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Don era seduto immobile su una delle dure sedie di plastica nell’area d’aspetto. Il suo sguardo vuoto, fissava le piastrelle fredde, vedendo sempre le stesse immagini: Charlie, sdraiato come morto sul pavimento; Charlie, che litigava con lui; Charlie, che spiegava una formula matematica a lui e al team; Charlie, che semplicemente rideva; Charlie…

Don deglutì e sentì come di nuovo le sue lacrime tentassero di sopraffarlo. Questa volta non fece nulla per impedirlo. Non poteva più farlo. Non ne aveva più la forza. Era allo stremo.

Come era potuto succedere tutto questo? Perché non era riuscito a proteggere suo fratello?

È facile, perché tu sei un fratello cattivo disse una voce maliziosa nella sua mente. Hai litigato con lui. Ben fatto, complimenti! Le ultime parole scambiate con tuo fratello saranno un litigio perché tu hai voluto che lui lasciasse perdere tutto per te.

Il singhiozzo solitario e disperato di Don si espanse tra le mura del corridoio. Le ultime parole… No! Non sarebbero state le ultime! Charlie non doveva morire! Non poteva morire! Era ancora… talmente giovane, aveva ancora così tanti progetti, col suo lavoro, con Amita, non doveva morire! Era il suo fratellino…

Senza rendersene conto, Don aveva preso le mani l’una nell’altra, pregando in silenzio, mentre il suo singhiozzo si estingueva lentamente, senza essere sentito da nessuno.

Ti prego, Dio, non farlo morire, ti prego. Lui… io non potrei sopportarlo. Prima la mamma e poi lui… non lo potrei sopportare! Per favore, ti prego, non portarlo via da me. Sarò più gentile con lui in futuro, lo giuro, ma per favore, non portarlo via da me. Io ho bisogna di lui!

La parte di Don che era ancora troppo scioccata per fare qualcosa ascoltò le parole nella sua testa che venivano dal profondo del suo cuore. Era sorpresa, eppure nello stesso tempo sapeva che era la verità: Don aveva bisogna di Charlie. E non sapeva che cosa avrebbe fatto se fosse successo qualcosa a suo fratello, qualcosa di irreparabile.

«Donnie!»

Don riconobbe immediatamente la voce, nonostante questa non fosse che un flebile sussurro che andava scemando. Mentre si alzò e si voltò verso suo padre, cancellò frettolosamente le lacrime della sua faccia e dagli occhi arrossiti con la manica.

«Papà!» disse a bassa voce così che la sua fragilità potesse passare inosservata. Prima che Don potesse ordinare alle sue gambe di andare da suo padre, quello era già arrivato da lui, e gli Eppes si abbracciarono forte, l’unico appoggio che potessero darsi. Don sentì come il dorso di Alan sussultasse e lui stesso sentiva che stava per andare di nuovo in briciole, ma adesso doveva essere forte. Doveva aiutare suo padre.

Durante l’abbraccio Don aveva lasciato chiusi i suoi occhi, e solo quando li aprì di nuovo si accorse di Megan, Larry e Amita. Lasciò suo padre e i due si separarono.

«Grazie per averlo portato qui» disse Don con quanta più calma possibile.

«Di niente» rispose Megan a voce bassa.

Il suo sguardo volò alla porta della sala operatoria prima che fissasse Don.

«Si sa già qualcosa?»

Don scosse il capo e fece entrare febbrilmente un po’ d’aria sterile nel suo naso.

«Due ferite da arma da fuoco, una nella spalla, l’altra nell’addome. E… e ha perso molto sangue. Non mi hanno detto di più».

Però era stato sufficiente per lui. E in fondo era tutto ugualmente chiaro: il colpo nella spalla, Charlie doveva averlo ricevuto già all’inizio dell’Odissea; il secondo lo aveva colpito quando uno dei tiratori scelti aveva sparato alla spalla di Phelps. Era tutto logico; probabilmente sarebbe stato un rapporto di facile stesura. Eppure Don non riusciva ancora realizzare cosa fosse successo. Non finché il suo fratellino stava lottando contro la morte lì dentro.

Megan gli aveva posto una mano sulla spalla, ma non disse niente. Anche Larry, le mani tenute l’una accanto all’altra in modo da coprire la bocca e il naso, e Amita, gli occhi bagnati dalle lacrime, rimanevano silenziosi.

Non ce la farà pensò Don disperato. Sanno che non ce la farà.

Si voltò dall’altro lato. Non riusciva più a guardarli. Di nuovo la disperazione minacciò di tirarlo giù, ma questa volta Don sapeva che non doveva lasciarlo succedere.

Credo in te, Charlie pensò a fatica, Mi senti? Non ti mollo. So che ce la farai. Non lasciarmi…

E da qualche parte, nel profondo della sua anima, Don sapeva che Charlie lo sentiva.

 

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Era buio. Si guardò in torno. No, non c’era niente, tutto vuoto. E dall’altra parte? Niente. Forse dietro di lui? Possibile. Se solo sapesse dove era il “dietro“.

«Charlie!»

Charlie voltò la testa nella direzione della dolce voce che lo aveva chiamato. C’era una luce. Accecato, socchiuse gli occhi. Dio, questo sì che era abbagliante! Ma, malgrado tutto, bellissima. Come la voce.

«Charlie, vieni! Ti aspettiamo».

Charlie non dovette neanche rifletterci che andò verso la voce, come se stesse camminando su velluto.

Circa a metà strada Charlie sentì uno sguardo trafiggergli la schiena e si voltò.

«C’è qualcuno?»

Non poteva vedere niente, ma sapeva che c’era qualcuno che l’osservava. Che vigilava su lui.

«Don?»

La figura fece un passo avanti e adesso era rischiarata scarsamente da quella luce abbagliante e bianca. Un corpo forte e muscoloso, fattezze nitide, spigolose, ma belle, sottili rughe attorno agli occhi. Don, senza alcun dubbio.

«Vieni, Charlie?» Di nuovo questa voce argentina cristallina.

Charlie guardò a lungo suo fratello prima di voltarsi a mezza verso di lei.

«Subito, Mamma!».

Ma lei non lo lasciava stare. «Qui non c’è più dolore, Charlie».

«Ma mamma! Don è qui!»

«No, Charlie, non è qui. E dall’altra parte, con tutti gli altri».

Charlie era confuso. Poteva vedere Don, no? Poteva anche andare da lui… almeno così credeva. Chiese ai suoi piedi di farlo, ma stranamente non si mossero dal posto dov’era fermi.

«Perché Don non è con noi? Perché noi non siamo con gli altri?»

«Questo è il corso delle cose, Charlie».

«Ma non voglio lasciarli!»

Margaret tacque misteriosamente.

«Cosa devo fare, Mamma?»

«Devi saperlo tu, piccolo mio. Sei tu a dover prendere una decisione».

Di nuovo Charlie guardò suo fratello a lungo. Don semplicemente sorrise, niente di più. È felice di vedermi pensò Charlie ad un tratto. Ma perché? si chiese e si diede subito una risposta. È venuto a prendermi. Devo esser stato via. Ma Don vuole che io torni.

Charlie ricambiò il sorriso di suo fratello e andò verso di lui. La luce bianca si distribuì e schiarì il buio sul loro cammino mentre andavano in silenzio l’uno accanto all’altro.

 

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Con un ultimo sguardo ai suoi figli, Alan sparì oltre la porta, diretto a casa. Aveva veramente meritato una pausa da quello stress.

«Puoi andartene anche tu, se vuoi. Non c’è bisogno che tu rimani qui tutto il tempo, Don. Sicuramente hai da fare cose più importanti».

Don, sorridendo, scosse il capo. «No, detto francamente, non c’è una cosa più importante, Chuckie».

Charlie arrossì. Da qualche parte, dentro di lui, aveva sempre saputo in fondo che Don si preoccupava per lui. Ma il fatto che l’affetto di Don per lui fosse talmente profondo da farlo restare nella sua stanza ogni minuto in cui non doveva essere a lavoro, era stata una nuova, scaldante esperienza. Don era stato con lui anche quando, una settimana fa, si era svegliato per la prima volta dopo l’operazione. E nonostante fosse stato abbastanza frastornato in questo momento, Charlie ricordava ancora perfettamente gli occhi lucidi che brillavano tradendo le lacrime.

«Allora, com’è andata oggi?» si informò Don e Charlie sapeva che suo fratello si riferiva alla terapia di riabilitazione.

«Abbastanza bene, almeno così dice il dottore Clark. Ritiene che fra un mese dovrei essere capace di muovere il mio braccio come prima».

Per fortuna, il danno ai nervi della spalla non si era dimostrato molto grave. E con la terapia, che aveva cominciato quattro giorni dopo l’operazione, le sue prospettive di guarigione erano molto buone.

«Questo è un bene», sorrise Don.

«E…» Charlie esitò, respirò profondamente e poi continuò «E come sta Phelps?»

Ad un tratto, il sorriso di Don svanì rapidamente. «Speriamo che stia tanto male come si può stare in carcere preventivo» brontolò.

Charlie tacque. Non voleva litigare con Don.

«Cosa c’è?» tornò alla carica Don e nei suoi occhi si poteva vedere una fusione strana di preoccupazione e incomprensione.

«E’ solo…» Charlie ammutolì.

«Cosa?» insistette Don. «Dimmelo, Charlie! Non starai seriamente dicendo che ti spiace per quel pezzo di merda?!»

Charlie guardò le sue mani, che si stringevano in modo convulso l’una nell’altra sulla coperta bianca.

«Penso anch’io che sia stato un po’ estremo…» mormorò, ma non ci riuscì ad andare avanti.

«Un po’ estremo? Un po’ estremo?! Charlie, ti ha quasi ucciso!»

«Sì, è vero, ma…»

«Niente ma, Charlie! Per favore fammi il piacere e non tentare di difendere quel mostro! Non c’è niente – senti, niente – che potrebbe giustificare le sue azioni!»

«Ma non e questo il punto!»

Don si arrestò. Charlie aveva ragione. Non si trattava più dell’odio che poteva provare per l’essere che aveva quasi avuto suo fratello minore sulla coscienza; ora si trattava di Charlie. Don sentiva che qualcosa occupava i pensieri di suo fratello e – maledizione! – era suo dovere di essere lì per lui! Non solo perché l’aveva giurato.

«Allora di che cosa si tratta, Charlie?» chiese Don, calmo, sperando di apparire così come voleva essere per suo fratello.

Di nuovo Charlie respirò profondamente. «E solo… Phelps ha perso tutto, solo perché non ha superato l’esame nel mio corso. I suoi genitori non l’hanno più mantenuto, è andato in prigione e poi la sua ragazza l’ha lasciato. E tutto questo solo a causa… solo perché non ha superato il mio esame. Voglio dire… Don, quali sono le conseguenze quando faccio bocciare qualcuno?»

Don lo fissò. Non aveva ancora guardato il tutto da questo punto di vista. Fino ad adesso aveva sempre solo fatto attenzione a Charlie, non al mostro che l’aveva quasi distrutto. Don corresse l’immagine nel suo cervello: il mostro era stato distrutto anche lui stesso da qualcosa…

Ad un tratto scosse il capo. «Non puoi dire così, Charlie. Non puoi darti la colpa perché quel tipo non ce l’ha più fatta ad andare. Non lo hai di certo spinto tu a diventare un criminale. E penso che tu non l’abbia bocciato senza ragioni, no?»

«Certo che no!» rispose Charlie. «Le sue conoscenze erano semplicemente insufficienti. Ma…»

«Vedi» incalzò Don sfruttando l’esitazione del fratello. «Non hai potuto promuoverlo finché non aveva le conoscenze necessarie. Immagina se avesse avuto il suo diploma e fosse andato – non so – nell’edilizia e ci avesse aiutato colla costruzione di… di una scuola, per esempio: ma non avendo le conoscenze necessarie, l’intera struttura sarebbe crollata».

Charlie lo fissò. «Penso che tu veda troppi film» disse in modo secco.

Don trattenne un sorriso. «Ti sbagli, fratellino. E così anche nella vita. Credimi».

E Charlie gli credette. Non sapeva le ragioni, ma aveva una fiducia irremovibile in suo fratello maggiore. E questa fiducia si era dimostrata nel fatto che Don gli avendo bisbigliato cosa aveva dovuto fare. Aveva proibito che tutto succedesse senza ordine, così come ora aveva messo in ordine il caos delle emozioni di Charlie. Non c’era un dubbio, Don era il migliore fratello nel mondo. Ed il migliore eliminatore di caos di tutti i tempi.

 

FIN3

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